Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Monday, October 28, 2024

GRICE ITALO A/Z G GH

 

Grice e Ghersi – filosofia savonese – scuola di Savona – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Celle Ligure). philosopher -- curator of The Swimming-Pool Library at Villa Grice, Liguria, Italia. Ghersi has an interest in Grice’s philosophybut finds Strawson pretty enjoyable, too!Theere’s something about the Oxonian nonsensical philosophical humour that Ghersi appreciates like none other. Ghersi often makes candid fun of some of Grice’s inventions, such as that of the conversational “common-ground status”!Ghersi enjoys the full-time paradoxes of the bald king of France. Ghersi’s favourite humorist is J. K. Jerome, but also enjoys Wodehouse.And finds Dodgson just fascinatingThe Swimming-Pool Library is mainly organised along Ghersis’s personal tastes, as a personal library should!Ghersi is not particularly appreciative of poetry, but will enjoy the ballad set to piano! Ghersi’s favourite genre is drama, since “it is so clear in implicature.” Grice is a frequent contributor to cultural circles and societies and a host like none otherVilla SperanzaSperanza appreciates Ghersi’s talent to infuse enthusiasm in all type of endeavours --. Keywords: love, soul, life, inghilterra. Refs.: Ghersi e GriceGrice e Watson --. Refs. BANC MSS 90/135c. Vide Speranza.Vide SperanzaVide SperanzaVide Speranza. – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Ghezzi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei tordi ubriachi – diritto artificiale – filosofia milanese – scuola di Milano – filosofia lombarda -- filosofia italiana -- Luigi Speranza – (Milano). Filosofo Grice: “I love Ghezzi: he has explored ‘turdus,’ as in ‘sturdy,’ ‘drunk as a thrush’ – but also a count who was condemned by the church; he has explored the history of masonry – in Italy it started in Calabria – from a semiotic point of view, ‘il segno del compassso,’ – and he has explored on Ayax’s ‘nichilismo razioale’ – among many other topics – also an ‘epistemology of willing’ – epissttemologia della volonta --.” Grice: “Typically of Italian philosophers, he has explored Italian  history, ‘ceneri del diritto,’ and a confrontation between people and ‘stato’. Si laurea a Milano sotto Bobbio con “La Filosofia del Diritto.” Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d'Italia.  Marginalità e Società,  ell'Università degli Studi dell'Insubria (sede di Como). Sociologia della Devianza. Studia il positivism giuridico dal punto di vista del concetto di diritto. Affrontato il tema del pluralismo dei valori e degli ordinamenti giuridici, del federalismo, criminalità, devianza, marginalità e pluralismo nell'ambito della Sociologia del Diritto Penale, sulla giustizia e sulla legittimità degli ordinamenti giuridici, con particolare riferimento alla figura del "deviante giuridico", introducendo i concetti che porteranno alle teorie della "divergenza” sociale, marginalità, Si rileva essersi principalmente dedicato al tema del nichilismo giuridico, proponendo una visione nichilista, definite come “l’assenza del valore” -- del tutto neutra circa la potenzialità “regolatrice” e la potenzialita ordinatrice di una norma. L’approfondimento del nihilismo assiologico o valuativo risulta essersi svolto attraverso il confronto con filosofi contemporanei di questo ambito, tra cui Ferrari, Severino, e Giorello. Scetticismo. La Rivoluzione del Diritto come Estetica, in estensione del suo libro Il Diritto come Estetica. Nel volume è stata inclusa, come Appendice, una Raccolta di diversi saggi di filosofi contenenti riflessioni ed approfondimenti interamente riferiti a G.. Altre saggi: “Socialismo e sociologia giuridica: "Centro lombardo studi socialisti, Milano, “Devianza tra fatto e valore nella sociologia del diritto” (Giuffrè, Milano); “Federalismo,  I e II, Patera Palermo Editore,  Diversità e pluralismo. La sociologia del diritto penale nello studio di devianza e criminalità, Raffaello Cortina, Milano, “Il segno del compasso. La massoneria e i suoi persecutori attraverso simboli, idee, fatti e processi, Mimesis, Milano. “Le Ceneri del Diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano. Le lacrime di Hiram. Autobiografia incompleta di un Libero Muratore, Edizioni della Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia, Milano “La Scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto, Mimesis, Milano  Federalismo laico e democratico, Mimesis, Milano; “I tordi ubriachi” Un viaggio iniziatico, Mimesis, Milano,  Sociologia giuridica del lavoro, Mimesis, Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Mimesis, Milano Della vita e della morte. Vulnerant omnes ultima necat, Mimesis, Milano; “Nichilismo razionale e mistico. Indicazioni per il nuovo mondo, Mimesis, Milano); “Stranieri, ospiti, alieni, alienati e pluralismo culturale” (Mimesis, Milano); “Nichilismo come valore senza valori, Mimesis, Milano); “Abusi di stato: Risarcimento del danno al cittadino, Mimesis, Milano); In ricordo di Riccardo Bauer, di G, e Arduino, C.R.E.A., Milano; “Educare alla democrazia e alla pace. Bauer. Scritti scelti, L.I.D.U., edizioni Raccolto,  Alle origini dell'Umanitaria, G. e Canavero Raccolta Edizioni-Umanitaria, L'immagine pubblica della Magistratura italiana, di G. Giuffrè, Milano Curatele. “Etica contro politica”; G., edizione Iesi, Ferrari, Ghezzi,‘’Diritto, cultura e libertà. Atti del convegno in memoria di Renato Treves’’ (Milan), Giuffrè, Milano, Studi preliminari di sociologia del diritto Geiger, G., Nicoletta Bersier Ladavac e Michele Marzulli, traduzioni di Leonie Schröder, Mimesis, Milano); “Criminologia” (Mimesis, Milan). Pubblica amministrazione. Diritto penale. Criminalità organizzata, Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata, CParano, Giuffrè Editore, Carluccio, In ricordo di G., anima della Società Umanitaria, su Critica Sociale. 1 Dei delitti e delle pene. Rivista dell'Agenzia del territorio, L'Agenzia, rif. Archivio Università degli Studi dell’Insubria. Cura “Studi preliminari di sociologia del diritto” (Mimesis, Milano); “Socialismo e sociologia giuridica: introduzione Arduino, Centro lombardo studi socialisti); La scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto, Legge di Hume e tesi giusnaturalistica: un’antitesi teorica nel pensiero di Norberto Bobbio, su dialettica e filosofia.  Etica contro politica, di Elias Diaz, G., edizione Iesi,  L' immigrato extracomunitario non marginale. Una ricerca empirica sul territorio Milanese, in ‘’Marginalità e Società’ Berzano, Gallini, Giovani E “Violenza: Comportamenti Collettivi in Area Metropolitana, Ananke, con richiamo ad art. di G. in “Marginalità e Società, II”.  Le ceneri del diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano, al Ghezzi fa riferimento Minna in Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè, G., Federalismo Laico e Democratico, Mimesis, Milano Arturo Colombo, Franco Della Peruta “et al.”, in Cattaneo: i temi e le sfide, Ed. Casagrande, Milano, Con riferimento al Federalismo del Ghezzi: “mentre ci sarà chicome Ghezzi pur con tagli molto diversi, collegherà la prospettiva degli Stati Uniti d'Europa con l’altra formula cattaneana degli Stati Uniti d’Italia.»  Bruti Liberati in "PostfazionePotere e Giustizia", richiama G. in: Governo dei giudici. La Magistratura tra diritto e politica, E. Bruti Liberati et al., Feltrinelli, Berzano, Gallini, cita di G.  “Alle origini della labelling theory e del concetto di devianza”, da Marginalità e società, Ghezzi e Balboni, Mimesis, Milano, Cirus Rinaldi fa suo il concetto di Devianza di G.. “come sostiene G. essa svolge un ruolo euristico [empirico] non solo nella spiegazione di fenomeni di stigmatizzazione di intere categorie, ma anche penetrando nella marginalizzazione, che agisce all’interno delle categorie” in Devianze e crimine. Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, Rinaldi e Saitta, PM edizioni, Scrive Marzulli, BRÜCKE als sein Ordinamento sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come estetica, in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca, Bolognini, Mimesis, Ferrari, in Ciò che resta. Le ultime parole di G., in Sociologia del Diritto, Fascicolo gennaio, ed. F. Angeli, Severino, nelle Dispute sulla verità e la morte (Rizzoli) prende a riferimento un saggio di G. (Il Diritto come Estetica) e s’intrattiene lungamente sul pensiero dell’autore.  Giorello si intrattiene sul testo di G. (“Il Diritto come Estetica”), lo commenta, ne riporta il pensiero, secondo cui « "la morale non è altro che una forma dell’estetica"» e ricorda la figura "nihilista" dell'autore. Da "Introduzione" di Giorello, Piacere, Diritto e Burocrazia. In ricordo di G., in G.. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica, Furio G. e Balboni, Mimesis, Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, G.. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica (Mazzullo, ‘’Prefazione’’, “Appendice“: saggi di:  Merzagora, Riflessioni di una criminologa prestata alla filosofia del diritto, Dorado, El devenir del derecho: reflexiones acerca de las concepciones jurídicas de G.,  Il futuro del diritto: riflessioni sulle concezioni giuridiche di G.,  Metodo di ricerca sul rischio sociale,  Vitale,  Esistenzialismo e Nihilismo come confini aperti del Giurispositivismo; Damiani di Vergata Franzetti, Il Diritto come Estetica, Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, G.. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica, Simonetta Balboni e Furio S. G., Mimesis, Milano, “Prefazione” di Mazzullo, “Introduzione” di Giorello, In “Appendice” saggi di: Merzagora, Dorado, Vitale, Damiani di Vergata Franzetti. Marzulli, "BRÜCKE als sein” Ordinamento sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come estetica." in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca, Bolognini, Mimesis,  Vincenzo Ferrari, Ciò che resta. Le ultime parole di G., in Sociologia del Diritto, Fascicolo, ed. F. Angeli, Rinaldi e Saitta, Devianze e crimine, Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, a cura di, PM edizioni, Minna, Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè,  Sociologia del diritto Filosofia del diritto Criminologia.  zi Le doverosità statutarie ritualirischianoc, on il passaredel tempo, di perderela loro dimensione rilevanza originaria, per trasformarsi in meri adempi mentrio utinari, prividi quella dimensione creativa, costruttiva, propositiva che ne aveva motivato l a nascita. Dunque, anche per quanto riguarda la nostra relazione morale si rischia di far scivolar e lentamente nell’oblio le istanze storiche, che nei accomandarono I'introduzione, per affronter la comeuna incombenza, neppure moltopiacevolee, comunque retoricamente orientata riempire semplicsi paziscenograficei non ad essere strumento di autoriflession inedividuale di riflessione collettiva per la fratellanza tutta sul passato, nonché potente strumentodi stimolo creativo per affrontare con consapevolezzale realtà future. Pur troppopiù che un rischio tale situazione si e negliuliimi tempi manifesta t a come avvenimento. Conseguentement pea r e necessario, prima di entrare direttamente nella sostanza delle questionsiulle quali riflettere, ricordare brevemente il significatto tradizional e profondo della relazione morale propria della libera moratoria del Grande Oriente d'ltalia. Per comprendere tale significato è necessario conoscere funzioni e competenze di chi e preposto alla sua stesura; ossia del Grande Oratore Rituali, Costituzione Regolament di el Grande Oriente d'ltalia come ognuno di noi, al calice divinoe assoggettar ma il volere del destino. Goethe   assegnano al Grande Oratore competenze in campo iniziatico, culturale e giuridico (ex art. Reg.). In oltre il Grande Oratore, in quanto Oratore e, competente as volgere queste stesse funzion ainche ex art. Reg., funzione i competenze che, per altro, salvo le elencazionei semplificativ reiportateda quest'ultim aorticolo, nella sostanza della materia disciplinatta endonoa coincidere. Pertanto la relazion e morale da discutere in Gran Loggia ex art., letter ad, Cost., in quanto assegnata nella sua stesura al Grande Oratore e previament esaminata (ex art., lettera f, Cost.) in riunione di Giunta del Grande Oriented'ltalia, non può che consistere in un sistematico espletamenta onalitico e propositivdo elle funzionei delle competenze del Grande Oratore. Risalendo, poi, alla tradizione storica all'interno della quale nacque l’Istituto delle relazioni morali, e facile comprender ceome esso fosse, al contempou, nasorta di biiancio criticodelle attivita svoltee, soprattutto, della loro incisivita sia all'interno, sia all'esterno dell'lstituzione, nonché un programma ed un impegno di attività per il futuro. Dunque, da un lato, il Grande Oratoree tenuto nella propria relazione morale a richiamare l'attenzione della Comunione sui temi, che repute maggiormente rilevantpi er la stessa, privilegiando nael meno uno, e, dall'altra parte, ad analizzare la moralità interna, dei suoi componenti, dei fratelli tutti nelloro insieme, per evidenziarne a correttezza caomportamentale, che non può essere intesa come mera correttezza giuridica. Conseguentemente la presente relazione morale verrà idealmente divisa in due parti, l’una riguardante la situazione morale e giuridica della nostra comunione, e de credo, a tutti evidente quanto sia necessario un generale richiamo in questa direzionem, entre l'altra rivolta aite mitrattatei da trattare in ambito iniziatico, FILOSOFICO, culturale, sociale. Per meglio svolgere soprattutto questa seconda parte della relazione morale ho reputato opportuno non far scaturire i contenutti e matic di a u n mero lavoro solitario dell'ufficio del Grande Oratore, confortato al più dalle riflessioni della Giunta, ma mi e parso opportune, oltre che maggiormente proficuoai fini dell'individuazion dei un corretto quadro di attivitae di aspettative in materia, rivolgermi direttamenta ei fratelli della Comunione impegnatsiul territorio nazionale nel campo dell'elaborazione de,lla proposizione dell'organizzaziod nelle iniziative iniziatico, culturali, che sono proprie della nostra tradizione. A tale fine, organizzo un incontro aperto a tutti i Fratelli che avessero desiderio di partecipar vai, Massa Marittima presso la R. L. Vetuloniae colgo questa occasione per ringraziare i Fratelli della R. L. Vetulonia per la loro calorosa accoglienza, nonché tutti i partecipanti all'incontro per i preziosi contribut fiorn i t i alla discussione. L'incontro ha visto la partecipazione numerosa di molti Fratelli come singolic, ome rappresentandti associazion ciol legate alla nostra lstituzione e come operatori culturali. I lavori sono stati pienamente soddisfacent pier tuttii partecipantei d,in particolare per me, in quanto mi hanno fornito numerose ed utili indicazionpi er la presente relazione morale. Nel ringraziara encora, dunque, tutti i Fratelli, che hanno contribuita olla buona riuscita dell'iniziativa, posso sin da ora comunicare che intendo continuare su questa strada anche in future ed auspico una partecipazion sempre piue stesaa questo modello di incontro. L'immagine sterna della Libera Muratoria L'immagine profana della Libera Muratoria per lunghi anni, soprattutto in Italia, e stata offuscata dai pregiudizi, dalle calunniee, talvolta, anche dalla congiura del silenzio perpetrate contro di noi dai nostri nemici storici, ossia dai seguaci di integralis meidi totalitarism piolitici, religiose, i FILOSOFICHE dii ogni colore. Tutta via, pur troppo, però, troppo spesso per insipienz ai gnoranza o d’invidia la calunnia e dil disprezzo sono nati anche dal nostro stesso seno e si sono diffuse nel mondo profane grazie ad un masochistico cupio dissolvoi adun diffuso atteggiament poassivo ed autocommiserativo, peggio ancora, ad una profanità penetrate tra le nostre colonne ad opera di fratelli, che erano e sono rimasti p i e tragrezza. Fortunatamente questi fenomeni, sebbene ancora presenti, soprattutto ad opera di fratelli inveterat di a lunghi anno negli antichi vizii, come giustamente ha piu volte ricordato il nostroVenerabilissimo Gran Maestro, tendon a non avere più presa sull'opinione pubblica profana grazie soprattutto alla decennale politica di chiarezza, di trasparenze a di impegno civile intra pres daall'attual Gran Maestranza. Se cosi si puo dire, la battaglia per I'affermazione della nostra legittima presenza nella società democratica italianae per la costruzione di una nostra imagine pubblica positive è stata vinta. Oggi i mass-media distinguono quasi sempre con rigor etra Grande Oriente d'Italiae massoneri e irregolaroi deviate, riportano fedelmente, anche se ancora con non sufficiente frequenza, le nostre opinioni e le nostre iniziative ci riconoscono uno spazio nell'informazione, che, sebbene da estendere, ha tuttavia gia il carattere della correttezza. Anche le istituzion piubbliche hanno mutato atteggiamentnoei nostril confronti, riconoscendo cin taluni ambiti, che storicamente ci appartengono, come interlocutori qualificati (partecipaziona ecommissioni, comitati pubblici, etc.); i messagg di elle massime Autorità dello Stato alle nostre manifestazion si ono ormai diventa te una felice consuetudine, sempre piu frequentemente politici ed amministrator piubblici partecipano alle nostre iniziative culturali e le Comunioni massoniche estere guardano alla nostra realtà con rispetto ed ammirazione. In sintesi, la società civile ci ha restituito il ruolo che   storicamenti en ltalia e sempre stato nostro. Poiché, però, nessuna Conquista nella storia umana e definitiva e quandoci si ferma a contemplare compiaciuti risultatir aggiuntisi rischiadi perdere quanto si è faticosamente conquistato, non solo è necessario perseverare nell'impegno sino ad ora profuse nella costruzione della nostra imagine pubblica, ma e altre sì indispensabili entensifica ruelteriormente in modo operare attraverso un radicamento sempre piu profondo sempr epiù rigoroso tale impegno e, soprattutto, della nostra imagine nell'azione sociale effettiva, nella nostra reale presenza storica, nelle azioniche quotidiana menctei ascuno di noi deve compiere per essere degno della maestranza cui appartiene. Nelle attuali societa postmodern e l'immagine è molto, talvolta quasi tutto, ma non è tutto. Oltre all'immagin serve anche la sostanza da cui tale imagine dovrebbe derivare. In particolare, proprio nella via iniziatica liberormuratori all’immagine non dovrebbe essere il vuoto simulacro di irrealistiche aspiraziono i diabiliingannim, a la Fedele icona della realtà, di cio che vogliamo esseree siamo come Liberi Muratori e come appartenenatil Grande Oriente d'ltalia. Pertantole azioni di markefrng sono senza dubbio necessarie in una societa come la nostra, per corsa da apparenze sempre più invasive m, a eproprio la nostra natura iniziatica e tradizionala e imporcdi i essere cio che desideriama opparire P. erraggiunger qeuesto obiettivoe indispensabil pero gettared, a bravi architetti, una fattiva presenza nella società in cui viviamo; una presenza che sia significativa, ttraverso le nostre opere.dei valori che da sempre rappresentiamo. La arepresenza avrà la prevalente componente individuale, ciascun Libero Muratore e chiamatoa fare come singolo la propria parte di lavoro, a dare con il proprio comportamento il buon esempio, ma dovrà essere accompagnat ea sor retta anche dalla presenza dell'lstituzione liberomuratoria nel suo insieme per risultare maggiormente incisivae persistente nel tempo: il mondo modernoe sempre più istituzionalizzato ed anche noi dobbiamo adeguarci a questa tendenza sociologica d, el resto, la tradizione altro non è che una istituzion liazzazion deeisingoil comportamenti. La situazione interna della nostra Comunione si presentaa, d una analisai pprofonditas, ostanzialmente positive e ricca di prospettive per il futuro, anchese le fastidiose turbolenze profane di taluni fratelli, più animat di a spirito di riva l s ache di collaborazion pe o, tre b b ef a r pensare il contrario. Fortunatamen ti erisultati concret ci onsegui tpiarlano più e meglio di qual sia spiette golezzo o d i qualsi assi composto dissenso. La Comunion es i present ai n costante quantitativa, crescita sia sia qualitativea segna I'affermarsdii un deciso ringiovanimendto eisuoiaderenti Quest'ultimdo atonon deve essere trascurato non soloe non tanto perch eil futuroe dei giovani ma soprattutto perche sono le vecchie generazioni che manifestanmo aggiori difficoltà ad abbandonaruen modello di Libera Muratoria non consononé alla nostra tradizione iniziatica ne alla realtà storica attualment esistente. Nel generale panorama, non solo nazionale, di diffusa disaffezion veersoI'impegno associazionistico (Rotary Club, Lions, partiti politici, chiese, etc.) ed, in particolare, verso quello liberomuratorio conforta constatare come il Grande Oriente d'ltalia si ponga in contro tendenzae riescaa catalizzare I'interesse l'adesione di notevolei qualificate forze giovanili. O. vivamente tali adesionsi ollecitanuon rinnovatoi mpegno per garantire al nostro interno un ambiente semprepiù favorevole ad una crescita iniziatica comune. Le adesioni scatur i sconod a aspettative e l e aspettative piu diffuse sono proprio quelle che hanno caratterizzato la nostra storia: una elevate qualità iniziatico-esoterica qrande unita ad una capacita di presenza sociale. Simbolicament pearlandop, urtroppole note iniziatiche del Flauto Magico di Mozart sono troppo frequentement pero fanate dall'irromperneella Comunione di comportamen atinimati dalla tipica profanità deitre Compagndi 'Artecheuccisero Hiram. La Libera Muratorianon puo essere né la camera di compensazione delle frustrazion pi rofanee neppure un campo di futili contese di natura condominiale l;a Libera Muratoria è una scuola di perfezionament ion dividua l e finalizzato a l bene dell'Umanita d; i questa nostra caratteristica non possiamo mai smarr i r nel a memoria a pena d i negare la nostra stessa natura. Per questo motive e necessario stigmatizzare negativamente quei comportamentci he, nascendo da uno smisurato narcisismo personale p, ongono il proprio io in posizione assolutae tentano di imporre il proprio modo di vedere come I'unico corretto.Tali comportamentni on solo contrastano con il nostro basilare principio di tolleranza, manche con quella visione relativam, olteplice, checi e propriada sempre. Non meno deprecabil si ono quei profani comportamenti che mercanteggiancoarriere, grembiulie riconoscimenti, prescindend do a capacità, convinzioni i d, e e e progettoi perativi. Deve risultar eb e n chiaro a tutti che le funzion iniziatich ed organizzative, chesi ricoprono in Loggia e nell'lstituzionien, genere, sono servizi prestati alla comunitàe non orpelli, gerarchieo privilege di a esibire, se non ancheda ostentare. esibizionei d ostentazionsi i configurano come veri e propriabusi delie funzioni ricoperte. Se vissute correttamente tali funzioni debbono essere intese comeonerie, per tanto, non dovrebbero da readito ad alcun litigio in sedeelettoraleo di nomina alle medesimen; onvi dovrebbei,n fattie, ssere Nessun interesse personale a ricoprire qualsiasi una funzione l;'unicointeresse lecito e quellodi servire la comunità. stratificatea cumulativadella verità, Ulteriorniegativitcài giungono, poi, dallaormainval sabitudindeiesternarien sedeprofanai conflitti interni alla nostra Comunione. Questo comportamento, certamente favorito dai moderni mezzi di comunicazion dei massa (lnternet, e-mails, ms, etc.), induce prendere posizione, il proprio pensier so enz a inte r porr pe rima una giusta pausa di riflessiones o: no veramente convinto di quello ch-escrivo? Risponda elvero quanto affermo? E'opportuno affermarloF? Accioilbene della nostra Comunità affermandolo? Etc. L'azione dello scrivere costaormai così pocafatica ed è così immediatcahe precede il pensiero stessos: i agiscesenzauna sufficien t reiflessione. I danni d'immagin peernoi tutti, pot,a causa dell'impulsi virtà razional deeipochis, i diffondono profani, trai che leggono iunquele nostresternazioni, spesso anche senza riuscirea capirle, ma sempre comprendend cohe siamoco involt in scontri completamenp terofania, nche peggiori dlquellpi roprdi ella normale profanità. Particolarmenr tieprovevolaeppare, poi, I'uso ormai diffuso di giuridicizzarie contenziosi . giuridica, interni, abbandonand lao noslra tradizionme orale i, niziatice a ritual p, iùche e di in asprirei tonidegli scontrbi e noltrequanto dovrebbesserelecito tr aFratelli nell'lniziazion Sé. Emprepiù spessoI, nottret, ali conflitti non si fermano all'interno della nostra giustizia massonica, ma fuoriescono, per'approoare direttamenatei Tribunadliella Repubblica ltaliana Della illegittimiatà nche giuridica di tali comportamenst ii diràinseguitop, erorabasti sottolineari le degrade morale de-lltaradizionme muratoria, l comportamen dtei scritti sono decisament reiprovevoli come esempio Luminoso I.nfattic, on estrema algradodi Apprendist Laibero Muratorre icordal recipiendario: ll. secondo dovere è di praticarela virtù, di soccorrere i vostri Fratelli d, i prevenirele loro necessità, d i a lleviar e le loro disgrazie e d i assiste r l cion i vostri consigli e col vostro affetto. e ueste virtù, che nel mondo profane sono considerate qualità rare, sonotra ioi soltanto il compimento di un dovere gradito. ll terzo dovere è quello di conformarvai lte leggi dell'Ordinedei Liberi Muratorie ai Regolamentdii questa Loggia, La nostra Comunione non dovrebbe rappresentarueno spaccato della nostrasocietà, ma raccogere solo ilmeglio c,he inessagiàvive, pe riniziare un percorso disempre crescent peerfezionamento. ll Libero Muratore non può rappresentare il cittadino medio,ma deve aspirare ad essere l'élite della società. Fortunatamenltae maggioranz daella nostra comunioneè composta da fratelli meravigliosi, che si distinguono per profondità iniziatica e generosità civile. Poche piete gîezzenon possono rovinare quantoi più hanno levigato. La giornata di Massa Marittimhaa evidenziat Io'esigenzdai rifletterien torno ad unanumerosaseriedi temi, chepaionocrucial pierla nostra Comunionien quésto particolare momento storico. Certamentie temi individua eticheo raverrannoes postni onsononuo viallanostra Tradizione, ppure sembranonon ancora completamenpteadro neggiati da tutti. In convergenz caonlei stanze che da piirparti della Comunion leibero muratorisailevanol, apresente Gran Loggia è dedicate all'Etica della libertà ed all'etica della responsabilità. Non può sfuggire soprattutti onunambito come ilnostroc, henon dovrebbe riprodurrie vizi della società profanam, a proporsi chiaîezzi al rituale di iniziazione I'ispirazion weeberiana, che anima questo tema. Weber fu, forse, il più illustre sociologio edesco della prima metà del secolo passato e fu certamente postindustriale un acuto osservatore critic della società e burocratica c'hein quegli annisi stave formando all'ombra della minaccia dellegrandi dittatur europee, allora nascentlil. Messaggido ell'illustrse ociologeo videnziava, primo potere c'he tendevanao spersonalizzare le decision piolitichien dividuali e lerelatrvseceltem, asubitodopo richiamav Ia'attenziona enche sulla solitudinde ell'esserue mano di fronte alcrescent peoliieismdoei valori del mondo moderno politeismo, che tuttorain esorabilmente organizzazion siociali. Tuttaviaa fronte di un politeismo dilagante nell'estremo soggettivismo, Weber concentrl a apropr i a analis si u l comportam enrtao zional e e sul momento etico, per matéiializzar e dei valoriun comportamento orientato ad un relativismo operativo, ispirato a à una organizzazione tutta umana e democraticda ellè società Weber affronta il tema fondante delle società moder Àec: ome possano funziona rele società industriali di massanel rispetto delleindividualit pàersonaluimane? E', dunque, in questo quadroche I'etica della libertà, rivolta alla tutela del singolo essere umano, deve coordinarsei conciliars cion l'etica della responsabilità, fìnalizzata gli interessi collettive id istituzional Ni. ulladi più attuale, sopratttutto, alla luce dei present pi roblemdi i sviluppo economico sostenibile di benessereo, t tutela dellelibertà individuaeli di sicurezza d, i partecipazione democraticea di esigenze di governo p,er citare solo pochi esempi. Al di là,. comunque d, eg L sipecificciontenut ciulturali eberianiiil sempiice richiamao questo Autores prime un elemento fondante della Tradizion leibero muratoria: a a parlare da trasmettere cheessi rivetano. in luogo, i mèccanismi burocratic diel incalzae rischiadi sprofon darnel nichilismlo e dalnulla   I'impegno civile e sociale sostenuto da un'etica radicata nella nostra cultura iniziatica, ossia individuale, personale, propriadi ciascun Libero Muratore. La nostra Tradizione iniziatica ci assiste ed accompagna nelle impegnative prove, che I'attuale realta storicaci presenta e, noi, peressere all'altezza dita le Tradizione, dobbiamo essere capacidi re interpretarla a l presente, non d i ripeterla al passato. La Tradizione e tale perche si pon e fuor i dalla storia in un a perenn e attualitan, onin un richiamo cristallizzato ad un singolo attimo del tempo passato. La centralita etica del nostro levigarela pietra grezza di noi stessisi impianta sulle due colonne DI UNA PROFONDA CONOSCENZA FILOSOFICA e di una altrettanto profonda consapevolezza morale. lgrandi insegnamenti che ci giungo nodai simboli, dai riti, dalla sapienzae dai lavori dei nostri Fratelli passatae dalla nostra lstituzione HANNO NATURA EMINENTEMENTE FILOSOFICA e morale. Dunque, ciascunodi noi devecostruirsciome un attento conoscitoredei nostri insegnamentim, a anche come un ferreo e rigoro soportatoredi comportamentisi pirati alla nostrapiu rigida moralità.Troppo spessosi sentono talun i Fratelli vantarsidi conoscenz esoteriche, poi, il loro comportamenteo paragonabilae quello dei peggior pi rofani.Troppo spesosi assiste alleia mente ledi taluni fratellpi erl'assenzad insegnamenti poi, massonci, e loro persistenta essenza non solo a dibattitei convegnim, aanchee soprattutto agli stessi lavori di Loggia. Troppo spesso sia scoltano taluni fratellli amentarsdii quelloche non ottengono dalla Libera Muratoriae non domanda rsciosaessi danno alla LiberaMuratoriaT. Uttiquesti comportamenti  rivelano una assenza di vera e profond amorale libero muratori a Dell'assenz da i conoscenza non e ne p pure il caso di parlare. Fortunatamen ta efronte di queste degenerazio nl ai gran parte dei Fratellsi i distingu epe r i mpegn oe serietà nel percorrere la via iniziatict a radizional deella Libera Muratoria. Per favorire la crescita della nostra lstituzione necessario in, una societa dimassa, giuocare suigrandi numerie, quindi, selezionare dai grandi numerii migliori uomini, per inserirlai l nostro interno. Se si raffrontano quantitativamenite Massoni dell'ottocento italiano a quelli attuali ed entrambi alla rispettiva dimensione numerica dellasocietà, nella quale viviamoe vivevanoc, i si accorgeche oggi noi siamo molto sotto dimensiona Nt i on credo che si poss a pensa r ec h egl i italian di i oggi siano peggior di i quelli d i ieri, forse , come sembra no testimoni artealune nostre realtainterne al Grande Oriente è, vero il contrario E.dallorae nostra carenza non dare la possibilitai migliori di entrare nella nostril stituzione. questa Su comunicazion è ecentral e e molto s i e fatto in tale direzione si a attraverso incontr pi ubblici, sia grazie ad un a ricca pubblicistica, sia, in fine , attraverso la presenza sui mass media. Non si deve r a l lenta r s l’impegni on queste direzioni, ma tale impegno potrebbe trovare fattori di moltiplicazionaet traverso un sistematico coordinament noazionale degli interventiI. Noltre il moltiplicarscio ordinato di una rete associazionistica sul territorio nazionale potrebbe divenireun utile strumentoa, l contempod, i diffusione dei nostril principei di informazion ientorno alle nostre iniziative, ma anchedi selezione di coloro che intendono avvicinars ai noi. A questa selezion esterna deibussantdi eve anche corrisponder uena selezione interna dei Fratelli. Non casualmentegli insegnament libero muratorvi engonoim partitsi u tre gradi (Apprendista, Compagno d'Arte, Maestro), per tanto non puo essere il mero trascorrere del tempo a determinarei passaggdi i grado. Solo la conoscenza del grado nel quale si lavora puo dare diritto ad aument di i salario, come bene esprime la nostra Tradizione e, la conoscenza s caturisce dalla somma del lavoro individuale con quello di Loggia. Pertantola selezione non puoche avvenirea seguito di una costantepresenza in Loggia e di un sistematico lavoro personale di ricerca. Le Logge dovrebbero lavorarein tuttii gradi, non solo in quello di Apprendista ed, in particolare, i lavori in terzo grado dovrebbero essere valorizzati, affinchesi possa constata reche il Grande Orientee composto da Maestri, che lavorano nel loro gradoe non in grado di Apprendista. Il grado di Maestro e il vertice della nostril stituzione, pertanto, deve informarela maggioranza dei lavori rituali di Loggia per evitare che le ritualita di altri gradi prendano il sopravvento, snaturando nlea forza iniziatica il: avorida Apprendistra estano per Apprendi satinchese fattida Maestri. ln questi ultimi anni il Grande Oriente d' ltalia ha promosso una crescent organizzazion deella Comunione al fine di potenziar nela presenza sociale e la capacita internadi creicita qualitativae quantitative In. fatti, sempre più numerose i culturalmente rilevanti sono statii convegnil, etavolerotondee gli i n cont r si i a pubblic si i a privati; l a nostra presenza sul territorio e stataraî forzata da consistent i impegni per fornire a i fratell sie di dignito sem; a necessita ancora sia una maggiore partecipazioni enterna a i lavor i della Comuniones, i a una piu adeguata organizzazione storiche. Rispetto al tema della partecipazione ai lavoridi Loggia non mi sembrasi debba insistere molto per costituzionale, che meglio rappresentlei attuali esigenze evidenziarnela dove rositaolt realla necessità. Tuttavia pare opportune ribadire come la radiceprofonda della Libera Muratori ari sie dane i tre gradi dell'Ordine e non negl i ulterior gir a di dei Riti , i quali, al massimo, possono essere considerati delle articolazionsi pecifiche. Dunque, nessuna camera rituale puo sostituire sopperi realla carenza di lavori nei primi tre gradi. Questa riflessione dovrebbe convincere tutti i Maestri Venerabi la i promuovere un consistente incremento di lavori in camera di Maestro, al fine di espandere pienamentele potenzialita iniziatich dei detta camera. Riguardo, poi , alla nostra organizzazione costituziona l ei nterna, pare necessario constatare com egli episodi cei d occasionali interven tdi i riforma normative, sovrappos tai d un tessuto già di disposizioni spes Ào si constata la strada la   contraddittorio carente, abbia noormairesa evidente la necessità di una organica e completari scrittura della nostra costituzionee dei nostr Riegolamenti. Infattir, isulta subito chiaroa chiunque studi la nostril stituzionceome alla struttura iniziatic (aLogge, Gran Loggiae, tc.) della nostra Comunion sei sovrapponga per dalla nostra appartenenza precisa ad una realtà storicau, nasovra struttuar associazionistica di inevitabile sapore profano P. oichenone possibil peorsfiuori dalle esigenz seloriche dalla società c, ui si appartiena e pieno titolo, la struttura iniziatica deveper necessità coordinarsci on l'oîganizzazion perofanal associazioni, società commerciaolib, blighfiscalei. di pubblica sicurezzaq, uoteas sociativelo, cazionimi moòiliari, etc.) dalmo dello confederale originarivo erso un modello federale piùo meno centralizzaìo. neirecentpi rowedimendti adegua menatolle normative fiscali mposte allealsociazioni civiles, i a d ella Liber a Muratoria , sia del rapporto che intercorre pertanto traquestedue realtà storiche. Dobbiamo stupircci he anche il nostro apparato normativo, quello conseguentemennteo, nscambinoi gradi percarriere, grembiuli i peronorifìcenzee le norme per strumenti di prevaricazion Lea. Libera Muratori saialimenta di idealie di spirito di servizio fraterno. In ultimo, ma non ultimo. A chiusura di questa relazionme orale mi sembra opportuno ricordardeuespecifich tematiche, sono dovute affrontare in questo primo anno della nuova Gran Maestranza. prima intorno alla troppo eslesa contenziosi gtàrudiziaria ed al degrado comportamentale, derivato e, mersi in occasion ed el rinnovodelle cariche di é iunta e continua tpi ervicace mente anche nel Corso del correnteanno. La seconda investe irapporttira Ordine Corpi Ritualei dha portato alla stesura di nuovi Protocoldli' lntesa. Procediamco on ordine. ll primo tema affronta I'ormadi iffuso mal costum dei ricorrere alla giustizia ordinaria per presuntedisarmonie in materia libero muratoria, prima anche di esperire il foro domesticeo di cercare concordia fraterna, come dovrebbe essere nostro dovere fare. Inolt;e, tali scontri giudiziarisi connote naoncheper la violenza, la ripetitivite à la caparbiareiterazion dei atti, citazionei, sposti, richiest de i accertament in via preventivaed in via risarcitoria, querele, richieste di prowedimentio urgenzae quant'altro consenta I'articolato ordinament goiudiziario si somma anche un corrispondente di massa (giornalil,eúere,siti internet, esigenze socialei giuridichdeipendenti etc.) ai e giuridic armonicae, ntrola quales volgereinostri architettonici fine di costituire una unità istituzionale lavori Del resto tale problema ha natura Tradizional peo, ichenon nasceoggrm, aciaccompagna storicdi el compagno naggeio della Massoneri OaDerativa. La Tradizione costituzionale della Muratoria Universale, Infattil, e Logge sovrane siunisconoc, onservandlao propria sovranità, per formare una Gran Loggia, ma il sistema è lentamentsecivolato, lnoltre, ha natura evidentemente federale. comeperaltroè awenuio anche nelle costituziosntiatal (iSvizzera, U.S.A., In sintesis, i è materiale alla Costituzion feormale origtnaria C.iòha sovrappost uana, cosìdetta dai giuristi C, osîituzione prodottoincertezzeinterpretativea,d esempiointorno all'autonomidaelle Logge, comebenesi e evidenziato dallo Stato ltaliano. Ma anchea presclnder dealle antinomie, dalle lacune e dalle oscuritàdeinostritestinormativil,tempo, come è notoai giuristiè, nemico delle leggi e: ssocorre mentre le leggi restano ferme, cristallizzate nella loro immobilità. In questi ultimi anniabbiamo assistitaollerapide trasfor, Àazioanni, coraínfieri, sia de a società non adeguarsai lle nuove esigenze. Owlamente l'adeguamento deve essere fatto in modo organtcoe sistematicto e, nendo anche conto delle dimension ci rescendtiella nostral stituzione delle regolamentazioni, che si sono date le altre Massonerie straniere e, delle normative degl’ordinamengtiii ridici statali e sovranazionali. Una ultima riflessjone mei porta a ricordarae tutti i Fratelli che, comunquela, Libera Muratori naon può divenire una organizzazion perofana. Essa è e deve restare una lstituzione Tradizionale Iniziatica per il perfezionamento dell'essere umano. CiÒ, erò, presuppone non iniziatico, simbolico e rituale, debba anche che i Fratelli avivano in questo spirito e, italiano Peraltro all'iperattivism gioudiziari Jprofano fenomeno di comunicazione e-mails, ms, etc.), perlo più anonimo, tendentea screditare la nostra lstituziona éd ín, particolaie, alcunsi uoi esponendtii verticeN. Onpare necessariso offermarsui lla profaniteà, spesso a, ncheilli ceità giuridic dai tali comportamenstie, mbra,inveceo, pportuno sotlolineare come essirendano di dominio pubúico le nostre conte sei n terne, violando non certo il segreto massonico, poiché non viè null ad i segre i oi n simili miserie umane, ma umiliando il buon gusto, il diritto dei fratelli ad una immagine pubblica interno disteso ed alla riservatezza delle proprie problematiche f,ositiva, di fàmiglia. La litigiosità ed ancor più I'accanimenntoel la litigiosità una sono pessimbi igliettdi a visita e forniscono immagine Oriente d'ltalia. finedi evidenziar qeuali debbano essere i comportamenti correùiinia le materia nella nostra comunione ln. Nostra lstituzione. Tutti possono percepire idanniche questsi considerati Poiché il grande oratore tra i propri compiti istituzionali quello haanche di interpretare e di custodirle leggiho reputatomio precisidovere compiere un lavoro di esegesi giuridica sulle nostre fonti normative a, l chesi La riguardala riflessione chè ne è connesso e deteiioratdaella comportamenairirecanaol Grande daitempi ad un clima   breve, risulta evidente che la nostra Tradizione non consente un facile ricorso alle giustizie or6inarie in materia liberomuratorie, comunque, non tollera una eccessiv animosita nel difenderà l" proprie presunte ragioni. Se non e possible parlare dell'esistenzna el nostro ordinamento giuridico di una vera e propria clausola corx promissorai assimilabil ae quelle tipiche dell'associazioni sm proófanoe, tuttavia evidente come il ricorso alla gustizia ordinaria venga costantementv eisto e vissuto come un comportament poatologicoe talvolta anche comeuna vera e propria colpa massonica. La situazione si aggrava per I'atto iequalora il giudizt o massonico o anche solo quello profano di aalui torto; poiche in tàle caso si evidenzia senza equivocei d incertezze un comportamento non fraterno nei confrcnti del convenuto. Al fine dichiarirei l più possible tali tematiche ho provveduto ad una analisi delle nostre fonti di diritto, analisi che gia evidenzia quanto sopraesposto, ma che raccomanda più puntualmi odifiche normative nei nostril regola menta il fine di rendere esplicita, anche sul piano associazionistico, nostro ordinamento giuridico di una clausola compromissoria. ll parere sulle fonti del diritto libero muratorio del Grande Oriente d'ltalia e sul vincolo dei Fratellai limitarsni ei contenziosailla giustizia domestica viene riportato nell'allegato. ll secondo rilevante tema affrontato in questo anno massonico riguarda i Protocoldl i'lntesatra il Grande Orient ed’Italiae di Corpi Ritual ai desso aderenti Pur troppo anche i comportamenti che hanno costretto ad affrontare tale tematica non sono certo commendevole i rivelano il mai sopito tentativo  delle arganizzazioni ritual di i costituirsciome una Massoneria nella Massoneria, come un livello superiore di controllò dell'Ordine Libero Muratorio dei primi ed unici tre gradi, contravvenendo in tale modo alle regole massoniche internazional mentre i conosciute. Pertanto i nuovi Protocoll id'lntesasi sono rigorotamente ispirati all'applicazion delle normative internazionali in materia ed hanno inteso pericolosa, correggerela anche se tra Ordinee Corpi Rituali nuovi Protocolli di'lntesa si fondanosu quattro forse in consapevoltee, ndenza egemonica dei Corpi Ritualsi ull'Ordine. Al finedi ristabilire l’equilibrio principbi enprecisi: L'Ordineo, ssia il Grande Oriente d'ltalia, svolge una indiscutibile d originaria' funzioni eniziaticamente fondantee giuridicamente legittimante regolarizzantre rispetto ai Corpi Rituali. I Corpi Rituali hanno tutti pari dignita di fronte al Grande Oriente d'ltalia e, pertantoi, Protocolli, specifiche peculiarit daovutead oggettive differenze storiches, onouguali per tutti i Corpi Rituali. Ordinee Corpi Ritual gi odono della più assoluta e reciproc autonomia E. ', quindi, fatto obbligo ai Corpi Ritualdi i astenersdi a qualsia stiipodi interferenza ed ingerenza direttaod indiretta nella vita dell'Ordine ed in modo particolare nei momenti istituzionadlii sceltae di rinnovodegliorganiinternidi governo dell'Ordine stesso.A tale fine è parso necessarioritenere incompatibili dell'Ordine de I Corpi Rituali. le normative interne dei Corpi Rituali devono essere conformi alle normative massoniche internazionalmenrtie conosciute particolare, ed, in a quelle proprie del Grande Oriente d'ltalia, nonche, ovviamentea, nche alle disposizioni di legge della Repubblica ltaliana. La bozza dei Protocoll di 'lntesatra Grande Oriente d'ltalia e Corpi Rituali viene riportata per esteso nell'alleganto. A conclusion dei questa relazione morale sia lecito ricordare con profondo dolore e fraterno rimpianto il Fratello Bent Parodi di Belsito gia Grande Oratore Aggiunto che nelle imminenze del Solstizio d'inverno e passato all'Oriente Eterno. La sua immensa cultura si univaad una profonda dedizione agli ideali libero muratori, ma soprattutto coloroche hanno avuto il privilegio di conoscerlo da vicino hanno potuto apprezzare quanta nobilta generosita ed amore fraterno albergasserno el suo animo. Nel rimpianto di un fratello ed amico scomparso voglio dedicare al suo ricordo queste mie brevi riflessioni di un tempo mai perduto: RINTOCHI Se le campane suonano segnando il mio fato; se il giorno e la notte circolarmente si avvicendano; Con il triplice fraterno saluto. se il mare arrotola cadenza triicciolbi ianchi; se i monti forzano la volta del cielo, lo rido e piango e bevo e nego il domani. L'orizzonte guida alla madre, ma tu sei un rigido segmento. IL GRANDE ORATORE. Prima di formulare alcune precisazioni intorno alle principali critiche rivolte, soprattutto in sede di postfazione, al mio scritto, voglio ribadire che sono infinitamente grato a Severino, a Carrino ed a Renner per l’attenzione, che generosamente hanno voluto dedicare al mio lavoro. Le obiezioni, infatti, che mi sono state rivolte hanno arricchito la ricerca con contributi seri e proficui per la conoscenza umana; conoscenza che non può che scaturire da serrate critiche, severe obiezioni, profondi dissensi, diversità metodologiche ed euristiche, divergenti punti di vista e ripensamenti vari. Ma senza indugiare oltre è tempo di commen- tare queste critiche. Ogni affermazione presuppone anche la propria negazione: luce e tene- bre, dritto e curvo, finito e infinito, piace non piace, etc.. La dialettica degli opposti appare una fenomenologia, per così dire ontologica, ossia propria della struttura mentale dell’essere umano. Ciò non significa che il dualismo sia dotato di un fondamento maggiore o minore del monismo, ma sem- plicemente, che né l’uno, né l’altro sono dotati di alcun fondamento non dogmatico, non assiomatico. Conseguentemente fidare in un paganesimo monista di dei, semidei, eroi ed uomini divinizzati, come propone Carrino, o in un dualismo giudaico-cristiano, che separa il divino dall’umano, è scelta meramente arbitraria e priva di un solido sostegno logico od em- pirico, nonché, meno che mai, metafisico o religioso. Probabilmente nel pensiero o, meglio, nella rivelazione cristiana la sintesi teologica, il ponte  tra fisico e metafisico avviene attraverso la figura del Cristo, che viene considerato vero uomo, ma, al contempo, espressione della trinità divina. Afferma, infatti,  CACCIARI (si veda), commentando EMO (si veda): Lo sforzo teologico di Emo consiste, dunque, nell’intuire nella Croce stessa (non oltre la Croce o dopo la Croce) la Resurrezione. Si tratta, tuttavia di una Resurrezione/ rivelazione di natura puramente spirituale e, conseguentemente soggettiva, poiché tale rivelazione di pas- sione e di morte nulla ha mutato nella realtà empirica del mondo, se non il modo di pensare e di credere dei fedeli e solo dei fedeli: si continua a nascere, soffrire, morire, fare violenza e guerra, elargire misericordia ed amore esattamente come nell’era precristiana. Del resto neppure la diviniz- zazione dell’’essere umano (pagana o meno), con buona pace dell’amico Carrino, nulla ha mutato nel panorama delle sciagure e delle piacevolezze empiriche, se non la superbia dell’approccio, basti pensare alla tragedia greca. Inoltre anch’essa si presenta come una conoscenza di fede (leggasi scelta arbitraria) Le affermazioni del presente saggio, per essere correttamente comprese, devono essere considerate solo come ipotesi scettiche di riflessione, tut- te possibili, ma nessuna fondabile su solide basi conoscitive, e non come asserzioni sostenibili alla luce di baluardi inconfutabili; ciò sarebbe in evidente contraddizione con il presupposto fondante tutte le ipotesi che hanno natura nihilista/nichilista. Ė ovvio che alla luce di tali presupposti teorici qualsiasi critica si voglia muovere al saggio non può che avere na- tura esterna; infatti una critica interna affonderebbe inesorabilmente nelle sabbie mobili di posizioni incerte, si velerebbe nella nebbia di affermazioni tutte possibili e nessuna certa. L’empiria vorrebbe imporre come certezze le affermazioni della perce- zione umana, ma tali percezioni derivano dalla struttura organica dell’es- sere umano, propria del mondo, che noi crediamo di conoscere e, comunque, nel quale viviamo; ma di tale mondo nulla si conosce, salvo il nostro percepito ed il nostro percepito è presupposto di se stesso, pertanto non testabile a sua volta empiricamente. Il reale, ammesso che esista un qual- che referente empirico da attribuire a tale termine, potrebbe essere anche molto diverso e maggiormente composito, come dimostrano altre forme di percezione animale ed ulteriori possibili modalità ipotetiche percettive, da Cacciari, Prefazione ad Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici. G. - P.S. Trappola senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute come viene immaginato dall’essere umano. In altre parole, il saggio, problematizzando il fondamento euristico del metodo empirico, problematizza proprio anche l’a priori kantiano e dubita delle sue categorie. Ciò tende a porre la ricerca empirica sul medesimo piano di quella metafisica in quanto entrambe fondate su un a priori indimostrabile. Infatti, giustamente Severino parla di una struttura originaria, che implica per necessità l’eternità, ed è proprio e soltanto a questa struttura, che si può chiedere il fondamento dell’esistenza del soggetto e dell’empiria. In termini religiosi il problema non muta: il divino intende permeare l’umano in modo empiricamente comprensibile, trasformandolo? Pare che ciò sino ad ora non sia mai avvenuto. In termini filosofici si ripete il medesimo quesito: il metafisico riesce ad entrare nel fisico, trasformandolo dialetticamente? Anche in questo caso la risposta sembra sino ad ora essere negativa. Dunque il dualismo non può tramontare, almeno come ipotesi. Ovviamente a questi dubbi mostra il fianco anche l’indiscutibile visione morale di Kant: non fondabile teoreticamente a priori e per necessità re- lativa nella sua comportamentalità pratica umana; infatti l’illustre filosofo cerca di fondarla, pur fugacemente ed in modo quasi silente, nell’antropo- logia umana del mi piace, nell’estetica, che appare essere la dimensione più originaria (strutturale? ontologica?) dell’essere umano. Ma un macigno ancora più grande e pesante ostruisce la strada dell’etica, della morale (kantiana e non kantiana) e del diritto: il tema del libero arbitrio. L’eventuale assenza di libero arbitrio nell’essere umano cancella d’un solo colpo ogni dover essere ed ogni prospettiva teleologica. Certo non si può asserire l’as- senza del libero arbitrio, ma purtroppo non è neppure possibile affermare la sua presenza. Nel dubbio, e scommettendo, fideisticamente, sulla possibile esistenza del libero arbitrio, ciascuno può scegliere la propria convinzione e, quindi, la propria strada da percorrere, ma dovrebbe anche avere ben chiaro che la sua scelta non ha alcun fondamento euristico, ma solo esteti- co, ossia soggettivo e, pertanto, è esclusivamente riferibile e vincolante per il solo soggetto, che ha compiuto tale scelta. Il tema diviene centrale nel mondo del diritto, se si attribuisce a quest’ultimo, come nella prospettiva di Carrino, una dimensione teleologica; ma il τέλος è un fine, ossia un valore, una scelta ed è proprio dell’assenza di fondamento etico o di qual- siasi altro tipo dei valori, delle scelte, che si sta discutendo in questa sede. Di fronte al tema teleologico del diritto pendono almeno due interrogativi, una di natura prevalentemente politica e l’altra di natura eminentemente teoretica: Cui prodest; a chi giova, a vantaggio di chi va la scelta compiuta? E, con affermazione ancora più radicale: per quale motivo si dovrebbe reputare superiore, più auspicabile in assoluto il Cosmos, l’ordine rispetto al Caos, il disordine, quando, come dimostra il pur discusso, in sede di scienza fisica, principio di entropia, è quest’ultimo quello verso cui si muove il nostro universo? Sono mere preferenze soggettive, estetiche, appunto. Il diritto è ideologia e l’ideologia è arbitrio personale o collettivo. Riguardo, in fine, all’interpretazione data da Renner delle affermazioni di Emo, penso che vi sia stato un fraintendimento, cosa, per altro, non stu- pefacente data la generale oscurità e frammentarietà dell’opera di questo Autore. Emo si muove nello spirito del Deus absconditus di Nicolò Cu- sano e, soprattutto, nel solco dell’attualismo gentiliano, pertanto compie una sorta di rovesciamento lessicale nel significato delle parole: ciò che afferma come negativo viene ad esprimere una positività, ciò che è invi- sibile assume il ruolo di realtà visibile, al contrario, il visibile si annienta, ciò che è nulla è il vero essere e ciò che appare essere è nulla, etc.. Per- tanto tra fede e scienza prevale euristicamente la fede, in quanto, negando l’apparente realtà dell’essere può accedere alla realtà reale del nulla, che si presenta come il vero essere, perché privo di presenza in quanto assoluto. A conferma di questa pur complessa interpretazione testimoniano alcune affermazioni d’EMO (si veda): L’incoscienza dei vegetali, delle specie viventi, è la loro unità panica col tutto, che è appunto il paradiso terrestre, il giardino dell’Eden. Il dramma della coscienza, che è il dramma della Presenza, è la cacciata dal paradiso dell’unità panica, è il dramma della separazione, della negazione; ma appunto perché la separazione è negazione, noi, mediante la negazione, possiamo ritornare all’unità. La fede è fede nella potenza, nella sacralità della negazione. La nostra colpa è la trasgressione e la sepa- razione; separazione cioè negazione. Ed ancora: “Il Dio nascosto, il Dio negativo, è già implicito nel cristianesimo, religione antichissima che ha origine insieme all’uomo; religione del Dio sacrificato che, per la logica stessa della sua situazione, diviene religione del Dio che si sacrifica, cioè si nega. Il Dio la cui attualità ed atto e realtà è il negarsi. Ed a sua immagine e somiglianza sono gli uomini e il mondo.”3. Per quanto poi riguarda l’interpretazione che Renner attribuisce al mio concetto di estetica (mi piace/non mi piace) debbo dire che riflette esatta- mente quanto desideravo esporre. Infatti, con estetica non intendo né un fugace capriccio, né una ludica superficialità e neppure una occasionale propensione, bensì un profondo appagamento, un convinto compiacimento dell’animo, un radicato benessere spirituale, una persistente pace con se stessi. In sintesi, è un concetto che si avvicina molto al kalos kai agathòs Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici. Emo P.S. Trappola senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute 141 καλòς καì αγαθός degli antichi greci, nel quale ciò che era bello aveva buone probabilità di essere anche buono. A mero titolo esemplificativo penso possa essere utile all’interpretazio- ne fornire da parte mia uno scenario concettuale per meglio comprendere i dubbi, che permeano le affermazioni empiriche, ma anche quelle metafi- siche, che agitano questo lavoro. Naturalmente tale scenario è ispirato ad alcune convinzioni proprie di chi scrive, che, ovviamente, si presentano ar- bitrarie, soggettive, relative, come quelle avanzate da qualsiasi altra perso- na. Procedendo con ordine, pare doveroso iniziare il discorso da ciò che si crede di percepire vivendo: un continuo movimento, oscuro nel significato, ma soprattutto, senza fondamenti di certezza non solo sulla sua origine e direzione, ma addirittura anche sulla sua stessa esistenza. Il treno della vita non consente discese ai passeggeri: non possiede porte d’uscita e le finestre sono sigillate; non compie fermate; non avvertì del- la partenza, ma neppure prevede stazioni d’arrivo. I passeggeri ignorano come sia loro capitato di salirvi; non conoscono il luogo nel quale si trovano e non sanno neppure nulla di se stessi: come funzionino, siano solo il percepito o si sdoppino in soggetto ed oggetto; siano Tutto, un terminale del Tutto o parte tra parti. Sentono, ma non hanno accesso alle fonti del sentire. La fonte si localizza, oscillando tra spazi successivi, ed immagina le successioni, il tempo. Eppure non vi è ancora forma, ma puro sentire senza immagine: chi sente? Chi o cosa fornisce l’immagine, quando si presenta? Tuttavia una qualche forma di immagine deve pur esistere come riferimento sia del soggetto, sia dell’oggetto, affinché anch’essi possano assumere una propria immagine. La forza, l’energia oscilla senza sosta tra se stessa ed una qualche forma, modulando la propria vibrazione, ma la forma è instabile e si liquefa continuamente nella forza, come ghiaccio nell’acqua. Se la forza osserva vede la forma, che non esiste in se stessa, se non è osservata. Il mondo sembra un osservatorio permanete, che osserva se stesso in un circolo tautologico, che esiste nell’osservarsi e l’osservarsi è il solo esistere. Forza e forma, due volti del medesimo fenomeno. La forma si dissolve nelle metamorfosi e la forza persiste, ma non esiste come massa senza alienarsi nella forma. Tra i due enti si instaura un vizioso legame mutualistico indissolubile, nel quale il soggetto crea l’oggetto, ma l’oggetto modifica a sua volta il soggetto. L’incontro dei due enti produce il fenomeno della consapevolezza, che è solo consapevolezza di se stessi, ossia del soggetto/oggetto. Un se stesso, oscillante tra tutto e parte, tra onda e particella, tra forza e forma, tra energia e massa, che non ha identità fissa. Un soggetto indeterminato come l’oggetto privo di osservatore, che è sog- getto di se stesso. Soggetto ed oggetto sono due indeterminazioni, che si determinano reciprocamente, dando vita al percepire da parte sia dell’uno che dell’altro. Il senso è la selezione dei fenomeni, che costruisce oggetti e soggetti. Il tavolo si occulta sotto la tovaglia, ma la tovaglia è materiale coprente men- tre significa pasto per l’essere umano, ma l’essere umano è entità bipede senza piume, se avesse le piume sarebbe un capo indiano o un uccello, ma un capo indiano o un uccello esistono, il primo sia in India sia in America il secondo nel cielo, ma India, America e cielo sono solo terra ed aria e terra ed aria sono composti di elementi chimici, ma gli elementi chimici sono energia e massa, ma energia e massa sono vibrazioni. Le forme si dissolvono. La trappola è l’apparire di un ente, che fugge oltre le quinte (forse ver- gognandosi della propria oscenità – fuori dalla scena) di un essere, il quale esiste nell’oscillare del nulla, al di là dell’essere e del nulla (è nel determinato essente che il nulla è essere). L’indeterminato si determina, sentendo se stesso, ma torna indeterminato appena cessa di sentire; ecco perché non ha senso, perché è e resta indeterminato, salvo che per se stesso per un breve lampo di sensazione, non di senso.L’arco del cielo è sorretto da due colonne. Dal lato destro, la metafisica fornisce abissale profondità a stelle, galassie e mondi; dal lato sinistro, l’empiria avvicina l’abisso, presupponendone il fondo anche senza poterlo raggiungere. L’empiria ci accompagna quotidianamente, nella vita di tutti i giorni, fornendoci informazioni intorno all’ambiente, nel quale viviamo, ed a noi stessi, alla nostra nascita, vita e morte. Informazioni che, quasi sem- pre, non soddisfano per la loro oscurità ed incompletezza. L’essere umano possiede un corpo, di cui manca il libretto d’istruzioni per l’uso. I problemi del dolore e del senso dell’esistenza non trovano risposta certa e, forse, non possono neppure trovarla in quanto argomenti sottratti alla ricerca em- pirica. Non è possibile verificare/falsificare il valore di un biologico, che si decompone progressivamente e diviene nutrimento di altro biologico. Il proprio e l’altrui si fronteggiano fieramente come anelli di una catena, che li tiene separati, ma strettamente legati; come componenti, appunto, di una catena, di cui non si conosce né l’origine, né il fine e neppure il senso del suo esistere. Di fronte al mistero l’empiria si arrende e si asserraglia nelle sue deboli certezze pratiche, tecniche e strumentali, ma l’essere umano non demorde e cerca risposte con o senza verificabilità/falsificabilità empirica. Si apre a questo punto il mundus imaginalis1, ma anche l’Universo dell’i- deazione, della creatività, della fantasia umana, la cui immaterialità è un suo elemento costitutivo, proprio per sfuggire ai dubbi dell’empiria, non 1 L’espressione è usata da Corbin per indicare una realtà intermedia tra fisica e metafisica, tra materia e spirito, una sorta di sintesi tra i due termini, che non relega il trascendente nell’ambito dell’inesistenza. Il diritto come estetica un inconveniente. Purtroppo anche questa via si trova ostruita per l’essere umano, in quanto diretta o verso una conoscenza superiore ed incompati- bile con quella umana o verso una conoscenza individuale, soggettiva e, quindi, incerta, relativa e prospettica. In sintesi, sia l’empiria, sia la metafi- sica svelano l’unica conoscenza umana possibile, quella propria di Socrate e narrata da Platone nell’Apologia: so di non sapere. Può la psicologia umana accettare un verdetto tanto duro sul senso della propria vita? Evidentemente no ed, infatti, le elaborazioni metafisiche si sono moltiplicate, articolate e complicate nel tempo, mentre gli studi em- pirici hanno continuato il loro corso senza aspirazione di completezza e di assolutezza. Il fondamento di qualsiasi discorso continua a sfuggire e le affermazioni fisiche e metafisiche restano come appese nel vuoto e da nulla sorrette. Forse è proprio questa loro collocazione priva di alto e di basso, che ne impedisce la definitiva caduta o, forse addirittura, che rende priva di senso la domanda stessa sul fondamento. Un dato empirico tuttavia è certo: la psicologia umana tende verso la certezza anche a costo di rinunziare al mondo dei cinque sensi. Dunque, il metafisico è, in qualche misura, connaturato con l’essere umano come il fisico; è una componente, per così dire, strutturale dell’antropologia. Nel mondo dell’etica, cui il diritto sino ad ora è appartenuto, queste medesime problematiche hanno dato corpo all’ideologia ed all’utopia, alla norma morale ed a quella giuridica, al diritto naturale ed al diritto positivo, alla giustizia ed alla legalità, alla validità ed all’efficacia del diritto, al do- ver essere ed al mi piace/non mi piace. Tutte queste alternative esprimono la tensione tra il vissuto reale e le aspirazioni, i desideri del soggetto. In particolare, l’ultima alternativa ricordata apre la strada, che conduce dal diritto come obbligo al diritto come estetica. Lo smascheramento del dover essere avviene con la constatazione empirica, che le scelte umane sono  Infatti, operando con una logica (quella apofatica) che nega ogni proposizione assertiva (ed esaustiva) in merito alla verità di qualsiasi ente – ma invece proponendovi l’inclusione di ogni possibilità – si giunge a questo risultato che auspicava Nicolò Cusano con il suo De docta ignorantia. Si giunge a un non-sapere che include ogni sapere e viceversa: allo stesso modo in cui l’Essere-Uno – che non è un essere specifico – include in sé tutti gli esseri a cui conferisce l’esistenza. Ma questo sapere non è, gerarchicamente, estraneo e al di sopra dell’uomo – che ne verrebbe in qualche modo dominato e esautorato – ma assolutamente intrinseco all’uomo stesso che ne è, pienamente, partecipe, pur essendone abissalmente lontano. Così come il molteplice è l’espressione ontologica dell’Uno di cui è la manifestazione teofanica. Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Corbin, in Corbin, Il paradosso del monoteismo, Mimesis, Milano-Udine Premessa guidate dal piacere e non dal dovere, anche se talvolta i due termini coinci- dono. Dover essere e piacere divengono i due poli reali del disagio esisten- ziale umano e, contemporaneamente, anche il tentativo di risolverlo. Solo di un tentativo purtroppo si tratta. Il diritto come estetica non esclude, e non può escludere, la dimensione metafisica, ma rafforza la descrittività empirica del comportamento umano, consiglia maggiore consapevolezza psicologica dei limiti conoscitivi uma- ni ed apre nuove prospettive di regolamentazione sociale. Ogni demistificazione è un atto di liberazione della conoscenza, ma non è possibile illudersi di poter superare gli ostacoli ultimi, che oscurano una visione sia assoluta, sia relativa del mondo, cui apparteniamo. La dea Aνάγκη, la dea Τύχη, le Parche, il Fato, il Destino, la Divina Provvidenza intanto sorridono, interrogandosi intorno al determini- smo ed all’indeterminismo. Ringraziamenti Al termine di questo mio lavoro voglio rivolgere un particolare ringra- ziamento ad Emanuele Severino per la sua grande cortesia e disponibilità ad ascoltare le mie riflessioni; ad Agostino Carrino per il fraterno impegno con il quale ha setacciato i concetti del mio scritto, evidenziando proble- matiche a me sfuggite, ed a Don Paolo Renner, che, tra i moltissimi suoi impegni di misericordia, ha voluto aggiungere, con antica amicizia, anche quello verso il mio scritto. Capo di Ponte, La frase, come risulta dalla lettera, riguarda esclusivamente l’Albero della scienza, della conoscenza del bene e del male, non anche l’Albero della vita, che pure era presente nel Giardino dell’Eden2. Di quest’ultimo, dunque, Adamo ed Eva erano legittimati a mangiarne i frutti. Per ora la no- tazione può apparire irrilevante, ma in seguito risulterà determinante, poi- ché evidenzia che nel Paradiso terreste i nostri progenitori erano immortali ed, infatti, compartecipavano della conoscenza divina. La prima evidenza che colpisce il giurista nella narrazione biblica della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, dall’Eden è il concetto di colpa, la quale, per necessità logica, presuppone ed è indissolubilmente legata ai concetti di conoscenza e di responsabilità. Se l’albero, del quale mangiano il frutto, è l’albero della conoscenza del bene e del male, ossia della consapevolezza morale del proprio comportamento, non si compren- de come sia possibile emettere da parte di una divinità come da parte di un essere umano un verdetto, una sentenza di condanna per azioni commesse 1 Genesi Ora il Signore Dio sin da principio aveva piantato un paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da lui formato. Produsse il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi; inoltre, l’albero della vita nel mezzo del paradiso, e l’albero della scienza del bene e del male. Genesi da esseri inconsapevoli, per così dire, innocenti dal punto di vista sia del- la volontà, sia della conoscenza, in quanto, appunto, ignari dell’esistenza stessa del contenuto dei concetti di bene e di male: disobbedire poteva essere sia bene, sia male. Se la ragione, da cui la teoria giusnaturalistica ritiene di dedurre le norme giuste, è la ragione divina nell’uomo e non la ragione empirica, questa dottrina non può essere definita come razionalistica. Se è la ragione conoscitiva a statuire norme, su cui si fonda il valore del bene e quindi il disvalore del male, allora la distinzione fra bene e male è una funzione della conoscenza che statuisce norme, cioè della ragion pratica. In questa versione, il concetto risale fino al mito dell’albero della conoscenza: è infatti la conoscenza del bene e del male data a chi gusta i frutti di quell’albero. L’essenza di Dio è nel fatto di sapere ciò che è bene e ciò che è male; sapendolo, egli vuole anche che si faccia il bene e di ometta il male. Il suo sapere coincide con il suo volere e la sua ragione è una ragion pratica: è questa la ragione divina di cui l’uomo si appropria col peccato originale. Ma è proprio questa la ragione di cui si appropria, mangiando la mela, l’essere umano o, piuttosto, esistono due diverse ragioni, quella divina, universale, e quella umana, particolare, ed è della conquista di quest’ultima, che il mito dell’Albero della conoscenza del bene e del male parla? Probabilmente l’interpretazione della simbologia biblica deve spingersi oltre, più in profondità, del concetto di acquisizione della responsabilità (conoscenza del bene e del male) attraverso la colpa: un colpa che non pre- suppone apparentemente l’esistenza di alcuna responsabilità e scaturisce da una disobbedienza ad un comando. Forse, è proprio la nostra cultura, ormai atavicamente assuefatta ad una eteronomia incentrata su divieti e sanzioni, a condurci sulla strada di una interpretazione colpevolizzante del mito della mela. Forse, il peccato originale altro non è che il nostro stesso esistere come esseri umani e non divini e la metafora della mela, intesa come nutrimento, atto tipico e specifico dell’essere vivente, sembra richia- mare simbolicamente questa interpretazione. Probabilmente il senso esoterico del brano biblico nasconde significati, che non sono meramente giuridici, ma sconfinano nella riflessione filosofi- ca e nella materia teologica. Ogni condanna prevede una responsabilità, che scaturisce direttamente dalla consapevolezza e dalla conoscenza sia dell’azione che si compie, sia della norma, che la vieta: so ciò che faccio e conosco ciò che si può fare e Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Torino ciò che non si può fare; ciò che si può fare è bene, ciò che non si può fare è male. Ma bene e male possiedono almeno due diverse dimensioni: quella assoluta del bene e del male universale e quella relativa del bene e del male propria di colui che agisce, del suo modo di sentire, di vedere, di giudicare gli eventi ed i comportamenti. Dio disse di non mangiare: sembra un comando eteronomo e, quindi, in quanto tale, pare contrapporre un divieto divino ad un giudizio e comportamento umano. Questa interpretazione, per altro condivisa anche da Ross, viene rafforzata dalla presunta sanzione comminata: se ne mangerai morirai. Ma si tratta effettivamente di una norma giuridica o morale dotata di sanzione oppure si tratta di un mero avvertimento, della descrizione di una sorta di legge naturale, come quelle che derivano da teorie scientifiche e che prevedono, ad esempio, il moto degli astri? In altre parole si tratta di un comando o di una descrizione? Per rispondere alla domanda è necessario risalire alla situazione di Adamo ed Eva rispetto a Dio nell’Eden. Non era una situazione di separazione, ma di unione; non vi era individualità, ma comunione; conseguentemente, l’unica conoscen- za esistente era quella divina, che permeava, proveniente da Dio, anche Adamo ed Eva. Conoscere e volere, dunque, erano la stessa cosa non solo per Dio, ma anche per Adamo ed Eva ed in una tale situazione un comando eteronomo è del tutto privo di senso; in primo luogo, perché non può essere eteronomo, in quanto vi è comunione, ed, in secondo luogo, perché un comando comporta volontà diverse, mentre, in questo caso, come vi era una sola conoscenza così vi era anche una sola volontà. Desiderando il frutto dell’albero, torniamo alla realtà del sospetto, cioè allo svincolare la conoscenza dall’amore e ad impiegarla ai fini dell’autoaffermazione dell’individualità. Una conoscenza contemplativa è una conoscenza del buono, del bello e del vero. La conoscenza contemplativa è una conoscenza della pace, perché è la conoscenza del riconoscimento dell’altro, dunque non può essere a fin di male. La conoscenza contemplativa che Dio propone all’uomo, sua immagine, è una conoscenza sapienziale, che ha in sé una dimensione assiologia, cioè di valutazione del bene e del male. Ma l’uomo ha questa co- noscenza già in quanto amico di Dio, sua immagine, e può sempre contem- Il peccato nacque quando l’uomo violò il divieto, assolutamente arbitrario e irragionevole, di Dio di mangiare il frutto di un certo albero che gli avrebbe dato una conoscenza che era di Dio stesso. Peccato significa dunque disobbedienza, pura e semplice volontà propria, autodecisione e per questo peccato Adamo ed Eva e la loro discendenza venivano puniti in eterno nel modo più crudele. Tutti dovevano subire l’ira di Dio ed essere affetti dal peccato originale”. A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè, Milano plarla nell’albero della conoscenza del bene e del male. Il bene e il male sono conosciuti dall’uomo insieme a Dio, suo Creatore, e in lui. Anzi, l’unica giusta conoscenza del bene e del male è quella che l’uomo contempla in Dio. È con gli occhi di Dio che l’uomo vede il bene ed il male. Ma guardare con gli occhi di un altro e gioire di questa intimità è proprio delle persone che si amano. Nell’a- more è la tendenza a conoscere attraverso l’amore dell’altro e con il suo amore. Proprio nel fatto che l’uomo può guardare l’albero della conoscenza del bene e del male, perché proprio lì in qualche maniera si incrociano gli sguar- di tra Dio e l’uomo, c’è la possibilità dell’idolatria, quindi di una tentazione. Guardare può diventare desiderare, e desiderare prendere. Il rapporto tra Dio e l’essere umano in quella dimensione di equilibrio creazionistico, tutto racchiuso nello spazio/tempo divino dell’Eden, era di completa compartecipazione, e non proprio di identità (a sua immagine e somiglianza. L’identità dell’immagine non appartiene ad un semplice fenomeno visivo, ma si estende anche alla dimensione cognitiva, sebbene non in modo completo (somiglianza). Il derivato non partecipa a pieno titolo di tutti i caratteri del derivante, ma certo ne incarna una rilevante porzione. Conseguentemente Adamo ed Eva non erano privi di conoscenza e, quindi, anche di responsabilità, ma partecipavano della medesima cono- scenza divina, della conoscenza propria dell’Uno e del Tutto. L’uomo abbandonerà Dio e la proposta della tentazione acquisterà sempre più un aspetto di verità. Poiché l’uomo non è più nella contemplazione dell’albero della conoscenza, ma è ormai scivolato nella logica della posses- sione, gli rimane solo il male, ossia la necessità di possedere. Sganciandosi dall’amore, da quella intimità con Dio nella quale ha potuto conoscere che cosa è bene e che cosa è male per lui, finisce essenzialmente posseduto dalla necessità di possedere per salvarsi6. La conoscenza divina, della quale erano compartecipi nell’Eden Adamo ed Eva, era universale, assoluta, non prospettica, ma posseduta a tutto tondo nella dimensione della totalità degli eventi di un Essere, che racchiude in sé ogni evento. Il comando, dunque, di non mangiare la mela, la proibi- zione non si presenta come un atto di volontà eteronoma rispetto ad Adamo Rupnik, Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua, Lipa, Roma Rupnik , Il Dio degli Dei, lo Spirito assoluto, permane in eterno, al di là della conoscenza che può averne la religione in questo mondo. La storia non è il luogo del divenire della coscienza divina suprema”. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, ed Eva, ma come una informazione, un avvertimento, una descrizione di ciò che avviene quando dall’unità si passa alla molteplicità, quando l’assoluto cede il passo al relativo. Né vi è sanzione nel monito di Dio; ciò che appare come condanna altro non è se non descrizione di ciò che accade nel relativo, di ciò che produce, di ciò che è il relativo, ossia l’umano. La mela è un frutto commestibile, che allieta e nutre il palato umano, quindi potrebbe simboleggiare quella conoscenza tutta umana e relativa, richiamata anche dalla leggendaria mela di Newton, in contrapposizione ad una conoscenza divina ed assoluta. Adamo ed Eva, mangiando la mela, decidono di abbandonare l’unione con il divino, per vivere una propria vita separata, individuale ed autonoma, dotata, quindi, di una propria conoscenza soggettiva e prospettica, non più oggettiva e completa. Nel racconto del peccato originale, la tentazione spinge l’uomo a spostare l’attenzione da Dio all’albero – cioè dalla persona all’oggetto – e a fissarsi sull’oggetto. Prima l’uomo parlava con Dio e a Dio, poi comincia a contrat- tare con la tentazione, per finire col ritrovarsi a desiderare l’oggetto – l’albero – come se fosse la sua salvezza. L’interlocutore ontologico dell’uomo non è più un principio agapico assoluto, ma una realtà oggettuale. L’uomo diventa ciò che contempla. Come è il suo interlocutore fondamentale, così è l’uomo. Poiché l’uomo è una realtà dialogica, non può fare a meno del dialogo, ma tutto dipende da chi è l’interlocutore di questo dialogo. Se è un oggetto, l’uomo diventerà sempre più un oggetto. Percepirà se stesso come un oggetto e si relazionerà agli altri come ad oggetti. Anzi, li considererà come suoi oggetti. Ogni peccato commesso dopo il peccato originale sarà un passo ulteriore in questa reificazione spersonalizzante dell’uomo8. La ribellione al comando divino (meglio, l’avere ignorato la descrizio- ne divina) non consiste nell’infrangere un divieto, ma nel desiderare una propria personalità individuale, separata dal Tutto, soggettiva, ma questa soggettività si trasforma in oggetto del Tutto; abbandonata la soggettività del Tutto ciò che resta, come parte, è una soggettività relativa, ossia una reificazione rispetto al Tutto: il peccato originale, infatti, si presenta come separazione, rottura del Tutto nelle sue molteplici parti, come oggetti della soggettività universale. Una prima rottura nel creato (diversa la rottura dell’Uno prodotta dalla creazione, poiché essa fu anche rottura, salto qualitativo, di sostanze: somiglianza con Dio, non identità) era già avvenuta con la comparsa di Eva: Rupnik, Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua. Mandò dunque il Signore Dio ad Adamo un sonno profondo; ed essendosi egli addormentato, gli tolse una delle coste, e ne riempì il luogo con della carne. E con la costa che aveva tolta ad Adamo, formò il Signore Dio una donna, e gliela presentò. E disse Adamo: “Ecco, questo è un osso delle mie ossa, e carne della mia carne; questa sarà chiamata virago, perché è stata tratta dall’uomo. Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e si stringerà alla sua moglie, e saranno due in un corpo solo”9. Tale rottura, tuttavia, non si manifesta come irrimediabile, poiché frutto di una medesima sostanza, la costola di Adamo appunto, che riconduce ad unità ciò che appare altro, diverso, separato (saranno due in un corpo solo; rebis di alchemica ispirazione). Ed, infatti, è proprio questo diverso, separato in apparenza, ma pur sempre composto della medesima sostanza, a patrocinare ed ad attivare la rottura: è il due che rompe l’unità e la rompe per attrattiva verso l’individualità, una individualità nuova, il due, appun- to. Il serpente sembra rappresentare questa attrazione verso il particolare, verso la separazione -- diavolo da διάβαλος, colui che divide. La massa della materia (il serpente) si separa nelle sue parti, forme e qualità dall’energia omogenea e priva di forme (la Divinità) o, se si preferisce, i corpi si separano dallo spirito universale. Pare di vivere nel mito l’equazione d’Einstein della conversione, dell’oscillazione, della compresenza (tra?) di energia e massa in un sistema fisico, che ha superato la visione propria di un materialismo legato solo al visibile, all’oggettivato: E=mc2. Corbin ben sintetizza il tema dell’individualizzazione, dell’oggettivizzazione nel paradosso (ossimoro?) dell’unità molteplice: È la visione della molteplicità nell’unità. È la visione dell’unità nella molteplicità. Le due interpretazioni si completano l’un l’altra necessariamente: l’ontologia integrale presuppone nel perfetto Saggio la visione simultanea dell’unità nella pluralità e della pluralità nell’unità. È attraverso questa simul- taneità che si effettua la differenziazione seconda, quella stessa in forza della Genesi quale il pluralismo metafisico si trova fondato a partire dall’Uno – senza di esso non vi sarebbero i molti, ma caos e indifferenziazione. I nostri simbolici progenitori, Adamo ed Eva, nell’abbandonare la cono- scenza divina, assumono, come loro conoscenza specifica, quella umana e, dunque, divengono prigionieri di tale conoscenza limitata, che comporta anche la comparsa di fatiche, dolori e morte. La separazione è un divenire altro dal Tutto, conseguentemente, all’immutabilità dell’Essere subentra il divenire con le sue opposizioni, polarizzazioni: essere e non essere, fatica e riposo, dolore e piacere, morte e vita, etc.. Il divenire non può esistere senza l’alternarsi di manifestazioni diverse, ossia, soprattutto, non può esistere senza la morte, intesa come termine di una manifestazione ed inizio di una nuova manifestazione. La morte, dunque, come nell’ammonimento di Dio, è indissolubilmente legata alla conoscenza umana, simbolicamente rappresentata dal cibarsi della mela. A questo punto risulta ormai eviden- te che Adamo ed Eva non potranno più cibarsi dei frutti dell’altro albero presente nell’Eden, dell’Albero della vita, dei quali sino a quel momento potevano godere. I frutti dell’Albero della vita donano la vita eterna, ma la conoscenza ed il divenire umani impediscono l’eternità, ciò che è eterno non conosce solo la parte, ma conosce direttamente il Tutto, e non diviene, ma permane sempre immutato uguale a se stesso. La parte, in quanto limitata non può sfuggire alla morte. Particolarmente penetrante si presenta la puntualizzazione di Nietzsche: L’albero della conoscenza. – Verosimiglianza, ma non verità: parvenza di libertà – è per questi due frutti che l’albero della conoscenza non può venir scambiato per l’albero della vita. Alle considerazioni mitologico-religiose sino a questo punto svolte pos- sono ora essere aggiunte altre ed ulteriori considerazioni di natura più strettamente filosofica. Se il divenire condanna, prima, la parte a distinguersi da un’altra parte e, successivamente, la stessa parte ad essere se stessa e, poi, a trasformarsi in altro, allora il divenire appare come un alternarsi di essere e di non essere. Il tema è antico e vide già contrapposti il pensiero di Eraclito, con il suo πάντα ρει a quello di Parmenide di VELIA (si veda), sostenitore di un Essere che non può non essere. Effettivamente anche nella realtà empiricamente rilevabile il non Corbin, Il paradosso del monoteismo Nietzsche, Umano, troppo umano II, in Opere Newton, Roma essere è di problematica individuazione. Rilevabile, invece, con estrema facilità è l’essere e l’essere altro come espressione del divenire. Ma a livel- lo logico, secondo il principio di identità, l’essere è solo se stesso e l’essere altro non è continuità dell’essere iniziale, ma un diverso essere a sua volta uguale solo a se stesso. La logica parmenidea, ampiamente sviluppata ai nostri giorni da SEVERINO (si veda), nega nella sostanza il divenire e costruisce una logica di identità degli eterni, che si separa e distingue dalla logica dialettica del divenire. La logica degli eterni si addice ad un mondo metafisico, proprio del divino; mentre la logica dialettica, empiricamente verificabile/falsificabile, pare tipica degli esseri umani. Commentando Corbin, Bonvecchio in proposito ricorda: oltre che teologica – la modalità catafatica [affermativa n.d.r.] di rapportarsi al divino ha costruito una vera e propria logica (di ascendenza aristotelico-scientifica). Anzi, si può affermare che si è affermata come la base stessa della logica occidentale in quanto sostiene (apoditticamente oltre che dogmati- camente) – nella costruzione del discorso – la possibilità di affermare in manie- ra indiscutibile le caratteristiche di un ente. Caratteristiche che ne esprimono la verità che si ritiene assoluta, se si ottemperano determinate condizioni logico- razionali (principio di non contraddizione, principio del terzo escluso, etc.). Tuttavia, questa verità non consente mai un rapporto partecipativo con l’Essere. Infatti, esclude dal discorso la dimensione dell’Essere che è l’unica che fa di un ente un ente esistente. Ciò che conta tuttavia, ai fini delle presenti riflessioni non è tanto l’affermarsi nella storia umana dell’una o dell’altra logica, quanto piuttosto la constatazione che anche a livello filosofico emerge la possibilità di un dualismo logico non dissimile da quello evidenziato nell’episodio biblico del Giardino dell’Eden. Sul piano filosofico il legame tra l’Albero della conoscenza del bene e del male e quello della vita appare ancora più indissolubile che nel testo bi- blico. Infatti, è la stessa logica conoscitiva umana del divenire, che trascina con sé, come compagna inseparabile, la morte. Ciò che diviene possiede un inizio ed una fine, prima non esiste, poi esiste, quindi torna nel nulla. Non è questa la logica conoscitiva del divino, nella quale ciò che è, lo è per sempre, dall’eternità e nell’eternità. Scrive DONÀ (si veda):  Cfr. SEVERINO (si veda) Immortalità e destino, Rizzoli, Milano. Ed anche del medesimo Autore: L’identità del destino, Rizzoli, Milano Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Corbin, in Corbin, Il paradosso del monoteismo, nel testo biblico l’Albero della Vita o delle vite, al plurale, come dice in verità l’Antico Testamento – a indicare, molto probabilmente, l’infinito distin- guersi del principio – allude ad una verità che solo l’Albero della Conoscenza avrebbe potuto spingerci a ridire. Facendoci innanzitutto tradire quel senso di infinita apertura verso un futuro sempre ancora possibile che caratterizza appunto l’Albero della Vita. Ossia, la speranza in una rigenerazione in grado di negare la definitività connessa ad ogni supposto improbabile compimento; in primis quello costituito dalla morte. Ecco perché l’Albero della Conoscenza avrebbe reso mortale il soggetto che avesse voluto cibarsi dei suoi frutti. Perché il logos umano, troppo umano, da quest’ultimo (dall’Albero della Conoscenza) rappresentato, è costitutivamente portato a credere nell’intrascendibilità delle distinzioni e dunque a fare dello stesso distinguersi in quanto tale il principio incontrovertibile dell’esistere. Per questo, proprio dicendo tale intrascendibilità, il logos avrebbe dovuto comunque riconoscere il limite costitutivamente caratterizzante il suo stesso orizzonte, concependo anche quest’ultimo come essenzialmente limitato – ossia, distinto. Finendo così per negare finanche la sua stessa intrascendibilità. Ed instituendo l’impossibile per eccellenza: ossia un nulla posto di là dalla positività di tutto quel che è – un nulla concepito, esso medesimo, dunque come positivo. E perciò valevole come perfetta metafora del male assoluto. Dunque, non solo la riflessione religiosa, si potrebbe dire teologica, rileva la presenza, almeno potenziale, nell’essere umano di ben due diverse logiche, ma anche l’analisi filosofica giunge alla medesima conclusione. Alla logica dell’Essere Assoluto si giustappone la logica del divenire, dell’essere altro. La prima si presenta meramente razionale, priva di possi- bilità empiriche di verifica/falsificazione, tutta dispiegata intorno a principi considerati indiscutibilmente veri ed evidenti senza ulteriori necessità di- mostrative; principi che nella terminologia kantiana possono essere definiti a priori. La seconda, invece, completamente costruita a posteriori, grazie alla percezione empirica del divenire, alla rilevazione, si potrebbe dire, sempre in terminologia kantiana, categoriale degli eventi. Quest’ultima logica si limita a descrivere una realtà fenomenologica umana e, come tale, relativa, quindi, senza pretese di accesso conoscitivo ad ipotetiche realtà assolute e metafisiche. L’indissolubile legame, sostenuto dalla logica dell’Assoluto, tra l’Albero della Conoscenza e la realtà di separazione sembra ribadito dalla Bibbia anche nell’episodio simbolico della costruzione e del crollo della Torre di Babele. L’unione tra terra e cielo, già simboleggiata dall’albero, qualsiasi albero (Yggdrasil, l’albero di Natale, etc.), viene ricercata, in questo caso, 14 DONÀ (si veda), Parmenide di VELIA (si veda). Dell’essere e del nulla, Albo Versorio, Milano attraverso un’opera di architettura, che sfida altezza e forza di gravità, ma nel crollo di questo asse umano-divino si dissolve l’universalità della pa- rola, intesa anche nella sua accezione più estesa di logos, la sua capacità creatrice e comunicatrice universale. La terra era tutta d’una sola lingua e d’una sola parlata. Ma il Signore discese per vedere la città e la torre che i figli di Adamo stavano edificando, e dice. Ecco, è un popolo solo, ed ha una lingua sola per tutti; hanno cominciato a far questo lavoro, né desisteranno dal loro pensiero sinché non l’abbiano condotto a termine. Andiamo dunque, discendiamo, e confondiamo ivi le loro lingue, così che nessuno più comprenda la parola del prossimo suo. Il Tutto diviso in parti si differenzia e perde di unitarietà. Ciascuno divie- ne consapevole di sé, ma solo di se stesso; gli altri mutano in esseri ignoti, estranei. La metafora della confusione delle lingue, ancora una volta, non suona come condanna divina, ma come descrizione delle conseguenze de- rivate dalla separazione delle parti dal Tutto16. L’essere umano, in quanto parte del Tutto, non ha né colpe, né meriti, ma solo caratteri suoi propri, che si separano e divergono da quelli divini: Genesi. Diventare un solo popolo, sotto una istituzione – la lingua sola – è qui, chiaramente, l’espressione della hýbris degli uomini, del loro istinto auto- idolatrico: così chiaramente che non viene nemmeno detto, ma sottinteso. Ma la questione più interessante, sulla quale ha richiamato l’attenzione Stefano Levi della Torre nel suo splendido e illuminante Zone di turbolenza, è se la misura presa da Dio – la dispersione su tutta la terra e la confusione delle lingue – sia la punizione per un grande male (come nel caso di Caino reso ramingo e fuggiasco) o la garanzia di un grande bene. L’interpretazione di Levi, in breve, è che la distruzione della città dell’onnipotenza, la moltiplicazione delle lingue, rese incomprensibili l’una all’altra, e la dispersione dei popoli in lungo e in largo sulla terra, tutto ciò è una moltiplicazione delle culture e delle istituzioni, un antidoto all’idolatria del pensiero e del potere unico, una garanzia di pluralità delle visioni del mondo e del modo di vivere nel mondo. Secondo questa profonda interpretazione, la civitas maxima non è altro che idolatria. Zagrebelschy, La virtù del dubbio, Editori Laterza, Roma-Bari è relativo e non assoluto; è finito e non infinito; possiede una conoscenza limitata e non universale. In conseguenza di queste considerazioni risulta chiaro che gli avvenimenti drammatici, che videro come scenario il Para- diso terreste, non possono essere incasellati nella concatenazione di eventi, che accomuna il diritto e la morale: alla colpa consegue la responsabilità del soggetto agente, al quale, proprio in quanto responsabile, viene appli- cata la pena. Questi concetti vengono chiaramente espressi a livello sia morale che giuridico da Ross: L’idea che esista una responsabilità morale, è identica all’idea della respon- sabilità giuridica, è l’espressione di una prescrizione normativa per cui la colpa viene collegata con le conseguenze della colpa, cioè con la pena che qui si chiama riprovazione. Ed ancora in modo più esplicito: Quando si fa valere una responsabilità, ciò avviene sempre con la motiva- zione che qualcosa fu commessa che, secondo un determinato ordinamento normativo, non sarebbe dovuta accadere, qualcosa di riprovevole o proibito che, di conseguenza, dà motivo a quella reazione che consiste nel far valere la responsabilità. Nel caso dell’Eden, come si è detto, non pare che ci si trovi in questa situazione, non solo perché viene meno l’uso tecnico della terminologia giuridica (colpa, responsabilità), ma anche, e soprattutto, perché manca la norma vincolante, il divieto. Infatti, l’interdetto pronunziato da Dio, proprio per il suo carattere che unisce conoscenza e volontà, non può essere considerato un comando, ossia una norma, ma più semplicemente una informazione, un avvertimento, al massimo, un consiglio. Si tratta cioè di una frase ipotetica (se mangi la mela divieni mortale) tesa a descrivere gli avvenimenti conseguenti all’azione segnalata come pericolosa. Del resto, come avrebbe potuto Dio formulare un comando a dei soggetti che, prima dello strappo, della rottura, partecipavano della sua stessa conoscenza e volontà? Dunque, se non vi fu comando, norma, non vi fu neppure colpa, in quanto mancò la violazione, la disobbedienza. Vi fu, invece, responsabilità per l’azione compiuta, ma la natura umana di Adamo ed Eva avrebbe potuto consentire loro di compiere una scelta diversa? La risposta deve essere rinviata, in quanto strettamente dipen- [Ross, Colpa, responsabilità e pena] dente dalle convinzioni intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio. Ovviamente, se non vi fu colpa non è neppure possibile reputare la triste condizione umana come una pena inflitta dal Creatore alle proprie creature. Piuttosto si tratta di considerare la stessa natura umana come caratterizzata, nei propri intrinseci limiti, in quanto parte di un Tutto mol- teplice e differenziato, appunto, anche in qualità diverse. Per fornire un paragone pur imperfetto: rispetto alla media statistica degli esseri umani il fenomeno dell’albinismo è minoritario ed, in quanto tale, appare come uno svantaggio genetico, ma può veramente essere considerato semplicemente uno svantaggio esistenziale o potrebbe anche essere visto come una articolazione qualitativa del genere umano, dotata a propria volta di taluni vantaggi soggettivi, sui quali tendiamo a non soffermarci per pigrizia culturale? L’interpretazione di comando (norma), di colpa e di, conseguente, punizione (pena) divina pare prodotta da una cultura umana troppo governata da una autoflagellazione di natura, prima, etica e, poi, giuridica; del resto, questa interpretazione prevalente punitiva della cac- ciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre ed anche della distruzione della Torre di Babele e relativa confusione delle lingue non può stupire in un mondo sempre più giuridicizzato, quale è il mondo attuale. Che la parte ed il tutto siano distinguibili sia teoreticamente, sia empiricamente è nozione inconfutabile anche, ad esempio, a livello geometrico; così come è inconfutabile che la parte, almeno quella umana, possieda una consapevolezza, più o meno veritiera, del proprio esistere (cogito ergo sum) e non certo solo per l’autorità di Descartes; altra e ben diversa questione è comprendere se esista e che caratteri manifesti la consapevolezza di se stesso propria del Tutto. Certo la parte partecipa del Tutto e, quindi, pare arduo pensare che ad una limitata consapevolezza della parte non corrisponda una illimitata consapevolezza del Tutto, pur tuttavia nulla può essere escluso senza l’evidenza di prove comprensibili alla mente umana ed, inoltre, resta comunque impregiudicato il tema della qualità, delle caratteristiche di questa eventuale consapevolezza. Lo Spirito, Dio, l’Energia sicuramente non possiedono un carattere di autocoscienza, di consapevolezza uguale a quello proprio dell’essere umano, ma neppure la massa (materia individualizzata) possiede livelli omogenei di autocoscienza, di consapevolezza, almeno per quanto si conosce attualmente, nelle sue molteplici articolazioni, nelle sue diverse parti. I minerali, i vegetali, gli animali e l’animale umano percepiscono se stessi ed il mondo a loro presupposto esterno in modi molto diversi ed in modi altrettanto diversi reagiscono, interagiscono con l’ambiente circostante. Il Tutto, come somma di tutte le singole parti o come entità ulteriore, può, e secondo quali modalità, percepire se stesso? Una possibile risposta passa attraverso il concetto di Spirito o di Energia che, permeando ogni cosa, ogni fenomeno, pur in quantità e, forse, anche in qualità diversa, consente questa generale, universale consapevolezza eterna di sé; una sorta di anima individuale, ma universale (sembra un ossimoro, ma è solo prospettiva diversa), di anima mundi. Bene e male rappresentano una dualità, che acquista significato solo in un mondo scisso, a sua volta, in un bipolarismo oscillante tra un polo, espressione di assoluto, ed un secondo polo, espressione di relativo, il quale subisce il giudizio del primo: buono o cattivo, appunto, rispettivamente nelle sue singole e molteplici manifestazioni comportamentali. Quest’ultimo bipolarismo non riguarda solo la distinzione tra dover essere ed essere, ma si articola ulteriormente in quel dualismo del dover essere perennemente in tensione tra valori assoluti e valori relativi: i primi frutto della dimen- sione assoluta del Tutto ed i secondi propri della dimensione relativa delle parti del Tutto. La dimensione relativa della bipolarità etica consente solo l’espressione di formule valoriali a contenuto soggettivo, cioè proprie del soggetto, della parte che le esprime; del resto anche la dimensione assoluta non riesce a fornire un contenuto etico certo, ma si limita a proporre for- mule o dogmatiche oppure vuote di contenuto, prive di precise indicazioni comportamentali, come, ad esempio, il noto broccardo del diritto romano intorno alla giustizia: unicuique suum tribuere. Il problema irrisolto riguarda il significato, cosa si intenda per suum, oltre, ovviamente alla discutibi- lità del principio generale, che potrebbe anche consistere nell’attribuire a ciascuno l’altrui e non il proprio o, addirittura non riconoscere l’esistenza di un proprio. Il problema può essere superato solo distinguendo la cono- scenza umana, cui si riferiscono queste aporie, dalla conoscenza divina, che, in quanto assoluta, non può incorrere in esse. Certo tale conoscenza non può competere all’essere umano se non per fede o per rivelazione, ma qui il tema si complica, poiché nella storia della cultura umana spesso l’e- sistenza stessa dell’Assoluto, del metafisico, in quanto non empiricamente percepibile e, quindi, problematico per la conoscenza umana, è stata messa in discussione. Pertanto questo argomento si è sviluppato secondo due di- versi percorsi culturali, l’uno monista e l’altro dualista; il primo sostenitore di una realtà unitaria, nella quale fisica e metafisica si sintetizzano o si escludono a vicenda, ed il secondo portatore di una visione separata dei due piani del reale, anche se in qualche modo comunicanti tra loro; ma di ciò si tratterà tra poco. Oltre alla possibilità alternativa dell’esistenza di una logica divina e di una umana si presenta anche l’ipotesi di una vera e propria assenza di logica, come risultato dell’inconoscibilità dell’Assoluto; un Assoluto che è solo silenzio, oscuramento della conoscenza umana, come suggerisce Cusano con l’ipotesi del Dio nascosto (absconditus): Né ha nome, né non ha nome, né ha nome e non nome. Ma quanto può dirsi disgiuntamente e copulativamente, per accordo o disaccordo, non gli conviene, per incommensurabilità di sua infinità, perché è principio uno, anteriore ad ogni concetto su esso formulabile. Abbandonato il Paradiso terrestre da parte di Adamo ed Eva, non solo subentra la logica umana, il divenire e la morte al posto dell’unione con il divino, l’eternità statica e la vita eterna, ma la rottura porta con se stessa anche l’estraneazione dall’Assoluto, che assume una dimensione impenetrabile, misteriosa. L’Assoluto creatore si pone prima di ogni creato e di ogni creatura e, quindi, anche prima di qualsiasi logica e razionalità. L’Increato non appartiene al mondo empirico, ma neppure al metafisico pensato od al metafisico alienato nella creazione. Esso appartiene solo a se stesso ed all’insondabile abisso, che separa l’Assoluto dal relativo, il Tutto dalle sue parti. Cusano, Il Dio nascosto, Mimesis, Milano-Udine. Carcharias Taurus è il nome scientifico del meglio conosciuto squalo toro, il quale possiede una caratteristica, che può farlo assurgere ad icona, ad emblema della natura biologica. Lo squalo toro, infatti, è noto per praticare il cannibalismo intrauterino; ossia l’embrione dominante si nutre delle uova e degli altri embrioni presenti nell’utero materno. Tale pratica non può stupire nel mondo biologico, giacché il biologico si nutre solo di altro biologico (salvo la fotosintesi clorofilliana). La vita è, dunque, indissolubilmente legata alla morte in un perenne solve et coagula, nel quale vige la locuzione latina mors tua vita mea. La fine di un essere vivente costituisce la possibilità di sopravvivenza per un altro essere vivente. Talvolta, poi, il ciclo vitale si esaurisce direttamente con la procreazione, evidenziando in tale modo l’irrilevanza della vita del singolo individuo e la sua funzionalità esclusivamente orientata alla continuazione della specie. Lo scenario di morte, nel quale viene ambientata la vita biologica, si completa anche con la lotta per la vita, che pervade, permea ogni entità vivente. La lotta si dispiega all’esterno dei corpi per l’approvvigionamento di cibo, che si concretizza in una forma di dominio del più forte sul più debole, ma anche al loro interno, poiché miliardi di microorganismi (batteri, virus, funghi e parassiti vari) combattono continuamente, senza sosta contro le difese immunitarie dei corpi, che li contengono, per la propria sopravvivenza. Talvolta, pur nelle loro ridottissime dimensioni, riescono ad avere il sopravvento, dimostrandosi più forti del loro ospite, ma, più frequentemente, soccombono, eppure non si estinguono, se non raramente, grazie alla loro facilità riproduttiva e sovrabbondanza numerica. Cannibalismo e lotta si presentano, dunque, come la struttura (si po- trebbe usare anche il termine ontologia se non fosse troppo compromesso con visioni metafisiche) profonda della natura del biologico. Non si creda, poi, di sfuggire a questa struttura con facili moralismi legati a forme, più o meno radicali, di alimentazione vegetariana o vegana, poiché anche il mondo vegetale, come quello animale è vivente e, come non si comprende la discriminazione etica tra animali sacrificabili e non sacrificabili, così non si comprende la sacrificabilità a fini eduli della vita vegetale, ma non di quella animale. Potrebbe esservi una spiegazione solo in una ipotetica gerarchia delle esistenze biologiche, che ponga l’essere umano al vertice e il vegetale alla base, ma allora non si giustifica perché tale gerarchia debba saltare un gradino, quello animale, appunto, nella scala delle sacrificabilità gerarchiche. Lo stato permanente di guerra, che caratterizza il mondo biologico, è aggravato dalla precarietà programmata della sua esistenza, la quale si deteriora e consuma progressivamente lungo tutto il corso dello sviluppo della vita. L’adagio latino, che indica l’inesorabile trascorrere delle ore, vulnerant omnes, ultima necat, ben descrive l’itinerario tra la nascita e la morte, funestato non solo dalla ricerca cannibalesca del cibo e dalle insidie date da malattie ed infortuni vari, ma, soprattutto, dal decorso del tempo e dal disgregarsi dei corpi, che accompagnano l’essere biologico verso la sua estinzione, la sua fine. Per sintetizzare l’orizzonte esistenziale del biologico basti ricordare la locuzione latina attribuita ad Agostino d’Ippona, ma molto più probabilmente di Chiaravalle, con la quale si descrive la nascita dell’essere umano: inter faeces et urinam nascimur. La nascita, dalla cellula all’essere umano, è una cruenta rottura dell’individualità, una separazione di materiale organico, una fuo- riuscita di un ente da un altro ente, il numero uno che produce un altro uno, dando il via con il numero due alla catena dei molti. Quanto, poi, alla morte basta visitare ospedali, case di riposo per anziani e cimiteri per chiarirsi le idee intorno al dolore, al decadimento psico-fisico ed... all’approvvigiona- mento alimentare di microorganismi, vermi ed insetti vari, messi in fuga solo dal fuoco liberatore della cremazione. Il tragico disvelamento della triste condizione del biologico, in genera- le, ed umana, in particolare, è presente in quasi tutte le religioni, le quali, infatti, tendono a costruire speranze in un mondo non più biologico ed a porre al centro dei vari culti il concetto di sacrificio: sacrificio, in epoche arcaiche, non solo animale e vegetale, ma anche umano, a favore del divino. Il Cristianesimo, con ulteriore lucidità intorno alla condizione umana, poi, ha addirittura capovolto i termini del mistero sacrificale, rovesciando ed integrando il sacrificio umano nei confronto della divinità con il sacrificio divino in favore dell’essere umano. Nell’Eucarestia rivive svelata l’ontologia del biologico umano e la sua speranza di redenzione, liberazione attraverso il sacrificio del Cristo. Il fedele cristiano, infatti, beve il sangue Ma se Cristo ha ripristinato il sacrificio umano e il cibarsi della vittima, questo è accaduto a lui e non a un fratello, perché Cristo ha instaurato la suprema legge e mangia il corpo del Redentore; si nutre del divino per sfuggire all’orrore del biologico, per aspirare ad una vita priva di dolore ed eterna in Dio. Il Cristo dovrebbe risanare la frattura tra divino ed umano, ricostruire il ponte crollato, riportare la riconciliazione e l’unione tra le parti ed il Tutto. La struttura del nostro mondo è stata descritta con estremo realismo da Spinoza: Per diritto e istituto naturale, non intendo altro che le regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo che ciascuno è naturalmente determinato a esistere e a operare in un certo modo. Così, per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e i grandi mangiano i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i pesci sono padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. È infatti certo che la natura, assolutamente considerata, ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, e cioè che il diritto della natura si estende fin là dove si estende la sua potenza, essendo la potenza della natura la potenza di Dio, il quale ha pieno diritto ad ogni cosa: ma, poiché la potenza universale dell’intera natura non è se non la potenza complessiva di tutti gli individui, ne segue che ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la sua determinata potenza. E, poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa si sforzi di persistere per quanto può nel proprio stato, e ciò non in ragione di altra cosa, ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha a pieno diritto, e cioè, come ho detto, ad esistere e a operare così come è naturalmente determinato. E qui noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli uomini e tutti gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi e i sani. Tutto ciò, infatti, che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua natura, questo fa di pieno diritto, dell’amore, per cui nessuno dei fratelli ne ha riportato danno, ma tutti hanno potuto gioire di questa restituzione. Succedevano le stesse cose dei tempi antichi, ma sotto la legge dell’amore. Per cui, se non hai un profondo rispetto di ciò che è stato compiuto, distruggerai la legge dell’amore. Che cosa quindi accadrà di te? Sarai costretto a ripristinare ciò che c’era prima, ossia atti di violenza, assassini, azioni illecite e disprezzo per il fratello”. C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino Il sangue, la carne, il vino, il pane, l’acqua, il cielo sono simboli magici sino dai tempi più antichi: “Se avviene che io sia sopraffatto, quando bevi acqua o mangi pane, l’acqua assumerà il colore del sangue davanti a te, e il pane prenderà davanti a te il colore della carne, e il cielo prenderà davanti a te il colore del sangue. Horo figlio dell’Etiope stabilì dunque questi segni tra sé e la madre; poi si recò in Egitto, essendo pieno di magie. E. Bresciani, Testi religiosi dell’antico Egitto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano Il testo è ambientato ai tempi del faraone Ramesse, dinastia, Cfr. anche. Frazer, La crocifissione del Cristo, Quodlibet, Macerata Peverada, Il sacrificio del Dio Bambino. Edipo e l’essenza del tragico, Mimesis, Milano in quanto agisce nel modo a cui è determinata dalla natura, né può comportarsi altrimenti3. Non sempre la potenza coincide con la grandezza, come dimostrano i microorganismi, tuttavia il senso di Spinoza è chiaro: ciascuno è per natura se stesso e si comporta secondo la propria natura; la gazzella è gazzella ed il leone è leone (preda e predatore), ma anche l’essere umano è tale ed il pazzo od il criminale altro non sono che una particolare espressione di essere umano. La struttura della natura assegna a ciascuno caratteri ben precisi, tutti equivalenti nell’articolazione molteplice della natura, ma ta- luni dotati di una potenza maggiore di altri ed i più potenti prevalgono sui meno nel breve periodo della conquista del nutrimento, per, poi, comunque soccombere anch’essi sotto i colpi dell’invecchiamento, dell’indebolimento, delle malattie e della morte. Ovviamente dietro questa visione si agita un fiero determinismo, di cui ci occuperemo in seguito, per ora interessa notare che la natura non si presenta benigna ai nostri occhi, ma la sua strut- tura ci appare profondamente malevola, matrigna. Questa però è la mera visione propria della prospettiva umana, alla quale manca, come si è detto in precedenza, la prospettiva globale, quella divina, e, soprattutto, è viziata da un ragionare antropocentrico di fronte al Tutto, all’universale. Sarebbe facile ironia sbeffeggiare, dal punto di vista etico, il diritto naturale alla luce dell’empiria del nostro mondo biologico, ma, forse, è proprio la vi- sione etica, che dovrà essere messa in discussione nel rapporto tra visione monista e dualista del reale. In questo senso appaiono particolarmente il- luminanti le parole di Leopardi nel Dialogo della natura e di un islandese: Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di ma- niera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimen- ti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera di patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è di- strutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi pia- ce o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che lo compongono? Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino Leopardi, Operette morali, Rizzoli, Milano La visione del mondo di Spinoza e le domande di Leopardi hanno il grande pregio di rappresentare un limpido, inequivocabile e coerente esem- pio di monismo immanentista del reale (Deus sive Natura). Nel pensiero monista non si tratta, per lo più, di eliminare uno dei due termini dell’alternativa, ma di ridurli entrambe ad unità, di sintetizzarli entro un unico termine. Tale unico termine può relegare il mondo empirico all’ambito della pura illusione (Velo di Maya, espressione con la quale Schopenhauer si richiama alla religione induista), all’ambito di un sogno che potrebbe appartenere anche solo al soggetto che lo percepisce; il mondo esterno potrebbe esistere solo nell’esperienza di chi lo vive (sogget- tivismo filosofico: esse est percipi). Spinoza esprime l’indiscutibile merito di unificare il mondo senza sacrificare la sua dimensione empirica, ma am- pliandolo ad un Tutto, che tutto comprende, seppure nell’incertezza di non riuscirne a descrivere ogni specificità, ogni particolarità, ogni individualità. Infatti, poiché la virtù e la potenza di Dio, e le leggi e regole della natura sono i decreti stessi di Dio, si deve senz’altro credere che la potenza della na- tura è infinita e che le sue leggi sono tanto ampie da estendersi a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto divino5. L’intelletto umano, ma soprattutto il suo sentimento, di fronte ad uno scenario tanto deludente e tragico della vita si è posto la domanda del senso, del significato di tanto dolore. Poiché nel mondo del percepibile attraverso i sensi non fu, e non lo è tuttora, possibile trovare risposte sod- disfacenti, la ricerca si è avviata verso l’immateriale, verso un reale immaginato solo nella mente, ma non soggetto a verifica/falsificazione empirica. L’operazione si è fondata su un modello dualista di negazione del sensibile e di contemporanea affermazione del suo esatto contrario: soffro la morte ed allora affermo l’esistenza della vita eterna, a mero titolo d’esempio. Una approfondita descrizione ed analisi di tale operazione, applicata alla religione ed, in particolare, al Cristianesimo, la si può trovare nell’opera di Feuerbach Ragione e fede si sono contese questo mondo astratto dell’immagina- rio, che ha duplicato l’universo, spiegando il senso del percepibile senso- rialmente attraverso il non percepibile sensorialmente. Spinoza, Trattato teologico-politico Feuerbach, L’essenza della religione, Einaudi, Torino 1972; del medesimo Autore, L’essenza del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano Cfr. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari. Sul piano razionale sono stati elaborati assiomi, principi primi imme- diatamente evidenti, ma non dimostrabili, concetti a priori, ossia ancora non dimostrabili, ed operazioni logiche, teorie e teoremi, ossia descrizioni di una qualche realtà esistente, validi solo se vengono accolti i presup- posti non empirici, dai quali prendono le mosse. Del resto, è ormai noto dai teoremi di incompletezza di Gödel, che è possibile definire formule logiche, che negano la propria dimostrabilità, cioè siano autoreferenziate. Si tratta di teoremi di logica, che hanno prodotto notevoli conseguenza in ambito matematico e geometrico, ma che possono essere estesi a qualsiasi sistema formale. Particolarmente significativo ai fini delle riflessioni qui svolte sembra essere il secondo teorema di Gödel, quello relativo alla indimostrabilità di un sistema coerente attraverso la sua stessa coerenza, ossia la coerenza si presenta come una sorta di petitio pricipii (le premesse già contengono ciò che si deve dimostrare) e/o di tautologia (affermazione vera per definizione) indimostrabile, appunto. Sull’argomento sono interessanti anche le parole di Russell: I grandi scandali della filosofia della scienza sono sempre stati, dopo Hume, la causalità e l’induzione. Ad ambedue tutti ci crediamo, ma Hume mostrò che la nostra credenza è una fede cieca che non poggia su alcuna prova razionale. Se noi sottolineiamo il fatto che la nostra credenza nella causalità e nell’induzione è irrazionale, dobbiamo inferire che non sappiamo se la scienza sia vera, e che da un momento all’altro essa potrebbe anche cessare di darci quel controllo sul nostro ambiente per amor del quale essa ci piace. La ragione, dunque, duplica il mondo secondo il modello proprio di René Descartes tra res extensa e res cogitans: la prima riferibile ai cor- pi fisici e la seconda al pensiero dell’essere umano. La distinzione pare speculare a quella tra materia e spirito, ma ne diverge perché, mentre la distinzione cartesiana potrebbe sussistere anche all’interno di un sistema immanentista monistico, tutto incentrato sull’essere umano come modello di unificazione, nel quale i due termini tendano rispettivamente ad identificarsi con l’alternativa concreto/astratto, la separazione tra materia e spirito, invece, è per necessità dualista, in quanto le due realtà si escludono vicen- devolmente come espressione di mondi diversi: fisico e metafisico. Heidegger va oltre nella critica e sottolinea come Descartes dualizzi il mondo, presupponendo, ma non dimostrando, il trascendente Russell, Saggi scettici, Longanesi Milano. Cartesio non si fa offrire il modo d’essere dell’ente intramondano da questo ente, bensì, in base a un’idea di essere non disoccultata nella sua origine e non dimostrata nel suo diritto (essere = esser-stabilmente-sottomano), prescrive per così dire al mondo il suo essere autentico. Non è dunque primariamente il ricorso a una scienza, guarda caso particolarmente apprezzata, come la matematica, a determinare l’ontologia del mondo, bensì l’orientazione fondamentalmente ontologica verso l’essere inteso come esser-stabilmente-sottomano, alla quale la conoscenza matematica soddisfa in modo eccezionale. Cartesio opera così filosoficamente in modo esplicito la commutazione degli esiti dell’ontologia tradizionale sulla fisica matematica moderna e sui suoi fondamenti trascendentali. Del resto anche Heisenberg rileva la problematici- tà euristica della divisione cartesiana soprattutto alla luce del principio di indeterminazione. In realtà non erano in gioco soltanto degli esperimenti fisici, ma autentiche posizioni filosofiche. Qui la vecchia concezione, radicata fin da Cartesio, della divisione tra un mondo oggettivo, svolgentesi nello spazio e nel tempo, e un’anima da esso separata, in cui esso si rispecchia, entrava in conflitto con le nuove vedute, alla cui luce non era più possibile compiere quella divisione nel rudimentale modo precedente. Oltre la ragione, meglio, prescindendo dalla ragione, però, si è presentata all’essere umano, come via d’uscita dalla sua malasorte e dalle incertez- ze del quotidiano vivere anche un altro strumento mentale: la fede, spesso interpretata più come un dono divino che come una conquista personale. Nell’ambito della fede il campo sembra apparentemente occupato in modo completo dalle religioni, ma non è possibile tacere che anche talune con- vinzioni filosofiche (paradosso di Zenone, negazione del divenire di Ema- nuele Severino) od anche scientifiche (teoria delle stringhe, delle brane, Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, Sellerio Editore, Palermo La fede essenzialmente una negazione implicita o violenta di una realtà o della realtà. La realtà è per tutti una prigione: ma, fortunatamente, una prigione male custodita. Ora, la fede insegna a negare queste muraglie, insegna il modo di fuggirle, ecc. La scienza è invece una affermazione di questa realtà; il modo che essa ci insegna di liberarci della realtà è appunto quello di affermare la realtà. La fede invece vuole insegnarci a fuggire la realtà, insegnando a negarla. La scienza appare come superiore alla fede, appunto perché essa è una liberazione dalla negazione”. EMO (si veda), Il Dio negativo. Scritti teorici  Marsilio, Venezia degli universi paralleli e multidimensionali) sono sorrette più da dogmi, da assiomi logici, da teorie indimostrabili e da convinzioni personali che da prove empiriche. Esempio tipico di dualismo è rappresentato dal sistema filosofico di Pla- tone . Il mondo empirico si presenta come l’ombra di una realtà metafisica ideale, nella quale la perfezione dei modelli informa di sé le copie degradate della realtà in cui vive l’essere umano. Gli archetipi, le idee delle qualità e degli Enti emanano perfezione, immutabilità ed eternità e sono questi a presentarsi come la vera ontologia del mondo, che nelle forme terrene manifesta tutta la propria imperfezione e provvisorie- tà. Il mondo fisico, come brutta copia del mondo iperuranico, metafisico, spirituale, privo di spazio e di tempo, posto oltre la volta celeste e sede delle idee, produce una duplicazione consolatoria, sottraendo il concetto di verità alla percezione dei sensi ed attribuendolo all’elaborazione razionale. Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il co- raggio di dire la verità soprattutto quando il discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contem- plabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigi- ne della vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e contemplando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell’essere che veramente è. Il mito della caverna e delle sue ombre, proiettate sulla roccia, descrive una conoscenza limitata, tutta ed esclusivamente umana, che può presen- tarsi completa solo nel momento in cui riesce ad uscire all’aperto e conquistare la luce delle idee pure: una conoscenza, dunque, non empirica è quella sostenuta da Platone, poiché quest’ultima altro non sarebbe che una falsa conoscenza. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce , pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, . Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d‘un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa Platone, Fedro, in Tutto Platone, Laterza, Bari] pensa di vedere costruito un murricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. Immagina di vedere uomini che portano lungo il murricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, . Strana immagine è la tua, disse, e strani sono questi prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuo- co sulla parete della caverna che sta loro di fronte?13. Come si è già fatto cenno, il pensiero religioso presuppone già di per se stesso un dualismo del reale: la realtà divina crea la realtà umana ed esse vivono separate nella costante tensione di quest’ultima verso la prima: il ritorno alla casa del Padre. Esempio particolarmente significativo in questo senso è il pensiero gnostico. Sono molteplici le correnti gnostiche, alcune risalgono al mondo antico ed altre fioriscono nell’alveo del cristianesimo, ma comunque tutte hanno in comune alcuni caratteri identificativi. In primo luogo, il mondo umano rappresenta un degrado rispetto a quello divino. In secondo luogo, lo spirito, la scintilla divina che alberga in ciascun essere umano è racchiusa, come in una prigione, dal corpo fisico, ossia nella ma- teria. In terzo luogo, è aspirazione comune di tutte le scintille racchiuse nei corpi umani di risalire al cielo per ricongiungersi con la perfezione eterna del divino. La dottrina di Simon Mago, descritta con spirito critico cristiano da Ireneo sembra particolarmente utile per rilevare gli elementi gnostici più caratterizzanti di questo pensiero: Se infatti alcuni caratteri presentano chiara impronta gnostica (ostilità degli angeli arconti verso Dio e verso l’uomo, imprigionamento dell’elemento divino nel corpo umano), altri sembrano estranei a questa esperienza: diviniz- zazione di Simone, cioè del capostipite della setta, e di Elena, e la loro pretesa immortalità; mancanza di una specifica colpa che spieghi l’imprigionamento dell’elemento divino nel corpo; redenzione del credente solo grazie alla cono- scenza della natura divina di Simone, mentre nell’esperienza gnostica è fon- damentale il riconoscimento dell’elemento divino che ogni gnostico reca in sé; assenza del Demiurgo, creatore del mondo, e della componente giudaica in genere: il personaggio femminile non è Sophia ma ha nomi greci, Ennoia ed Elena. Anche tenuto conto che la notizia di Ireneo presenta una dottrina che appare influenzata da tratti tipicamente cristiani e perciò non è di facile apprezzamento, si ha l’impressione che con Simone siamo sulla via che porta allo gnosticismo vero e proprio, senza esserci ancora giunti Platone, Repubblica, in Tutto Platone Simonetti, Testi Gnostici in lingua greca e latina, Arnoldo Mondadori Editore, Milano Ovviamente anche il Cristianesimo dualizza il mondo nell’attesa di una sua riunificazione alla fine dei tempi. Il non senso del mondo empirico cer- ca, dunque, spiegazione in un dualismo astratto, ma non per questo meno probabile del monismo empirico o soggettivistico. Comunque se i dualismi concreto/astratto e fisico/metafisico rappresentano probabilmente l’origine del concetto stesso di dualismo del reale, molti altri dualismi percorrono sia le visioni dualiste che moniste del mondo. Si pensi alle coppie luce/tenebre, finito/infinito, eternità/tempo, perfetto/ imperfetto, che per il loro stesso carattere simbolico aprono le porte alla via metafisica, poiché in esse è già insito, sottointeso un mondo migliore che si contrappone ad uno peggiore, ma anche la coppia vita/morte prepara a problematiche di rottura o di continuità dell’essere umano, ossia ancora a problematiche filosofiche e religiose. Del resto, è la stessa razionalità nu- merica, che indica il nascere del dualismo con la presenza del numero due dopo il numero uno; tale presenza consente l’emergere di tutti gli altri numeri ed, in effetti, rotta l’unicità dell’Essere, il dualismo muta rapidamente in pluralismo e nel mondo empirico prende il via il divenire e lo scorrere del tempo; lo si è già visto in precedenza nella vicenda gnoseologica del Giardino dell’Eden. Tra i molti dualismi esistenti, alcuni appena ricordati, ne emerge uno particolarmente significativo, poiché favorisce la dualizzazione del reale, sebbene venga generalmente considerato di natura metodologica e non on- tologica, quello tra giudizi di fatto e giudizi di valore15. Si tratta della nota Grande Divisione di Hume, nella quale si distingue ciò che può essere predicato di falsità o di verità attraverso la verifica empirica, sono i soli giudizi di fatto, e ciò che può essere predicato di buono o di cat- tivo, di giusto o di ingiusto, di bello o di brutto, in quanto non sottoponibile a verifica empirica, sono i giudizi di valore. Il dualismo immediatamente evidente tra oggettività empirica e soggettività umana, nasconde un altro dualismo ben più rilevante per la visione dualistica del reale, quello tra valori relativi e valori assoluti; infatti questi ultimi non possono che pre- supporre per avere senso nella loro indiscutibile veridicità una dimensione a sua volta assoluta, alla quale essi appartengono. Tale dimensione può essere anche meramente razionale, ma più frequentemente ha natura tra- scendente e religiosa. Kant, infatti, accanto ad una ragion pura e pratica pone anche una dimensione noumenica. Ghezzi, La distinción entre hechos y valores en el pensamiento de Norberto Bobbio, Universidad Externado de Colombia, Bogotá.  Nell’antinomia della ragion pura speculativa si trova un contrasto simile [impossibilità del sommo bene secondo regole pratiche e, quindi fantasiosità ed inutilità della legge morale, n.d.r.] fra necessità naturale, e libertà nella cau- salità degli eventi del mondo. Esso fu tolto col dimostrare che non c’è un vero contrasto se gli eventi, ed anche il mondo in cui essi avvengono, si considerano (come appunto si deve fare) soltanto quali fenomeni; perché un solo e medesimo essere, agente come fenomeno (anche davanti al proprio senso interno), ha una causalità nel mondo sensibile, che è sempre conforme al meccanismo naturale; ma rispetto allo stesso evento, in quanto la persona agente si consideri nello stesso tempo come noumeno (come intelligenza pura, nella sua esistenza non determinabile secondo il tempo), può contenere un motivo determinante di quella causalità secondo leggi naturali, libero esso stesso da ogni legge na- turale16. I valori assoluti conducono direttamente nel mondo divino dell’igno- to, del noumenico, appunto, mentre quelli relativi si situano nel giudizio morale dell’individuo umano, che tuttavia, può essere a sua volta conside- rato come una entità noumenica. Questi ultimi, dunque, rivelano immedia- tamente la propria natura soggettiva, ossia legata al pensiero del singolo essere umano, che solo una ottimistica visione illuminista può reputare espressione di una razionalità universale e, quindi, omogenea. Il sogget- tivismo valoriale apre la strada al nichilismo, ma di ciò si dirà più oltre, per ora bisogna meglio comprendere la distinzione posta alla base della separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Per quanto riguarda i giudizi di fatto il problema si presenta di sempli- ce soluzione, giacché possono definirsi tali solo quei giudizi sostenuti da percezione empirica. Ovviamente esistono delle difficoltà anche sulla stra- da dell’empiria, poiché sempre di giudizi trattasi, ossia di percezioni sog- gettive filtrate attraverso la struttura categoriale propria della conoscenza umana, che possiede almeno due caratteri limitanti la presunta oggettività esterna al soggetto: quello biologico, anatomico, e quello culturale. Potreb- be sussistere anche un terzo limite, quello psicologico, se si attribuisce una propria autonomia individuale o collettiva alla mente come entità separata dal cervello. Si pensi alla distinzione tra conscio, inconscio ed inconscio 16 I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari la realtà oggettiva della legge morale non può esser dimostrata mediante nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragion teoretica, speculativa o sostenuta empiricamente; e quindi, se anche si volesse rinunziare alla conoscenza apodittica, quella realtà non potrebbe venire confermata mediante l’esperienza e così dimostrata a posteriori; e tuttavia essa è stabile per se stessa. Kant] collettivo18. Una ulteriore difficoltà è data dai limiti assoluti, non categoria- li, della percezione umana: le unità di misura di Planck ed, in particolare, il tempo (tp), la lunghezza (lp) e la massa (mp) di Planck costituiscono l’attuale, e, forse, definitivo limite di rilevazione empirica, al di sotto del quale è impossibile o, ancora forse, anche privo di significato procedere. Riguardo ai giudizi di valore si presenta qualche ulteriore difficoltà. Tra- lasciando i valori assoluti, in quanto appartenenti ad un mondo separato da quello umano, ad un mondo umano assolutizzato o all’individuo sempre assolutizzato, pare opportuno soffermarsi sulla natura dei giudizi di valore relativi, soggettivi. Questi ultimi generalmente vengono identificati come un dover essere, ma cosa significa dover essere a livello del singolo sogget- to? Parrebbe un impegno inderogabile, morale, non motivato da particolari interessi personali. Eppure la scelta di un qualche sistema etico e dei suoi l’incosciente razionalmente comprensibile consiste per così dire di materiali artificialmente incoscienti, è solo uno strato superficiale, e sotto di questo vi è ancora un incosciente assoluto, che non ha nulla a che fare colla nostra personale esperienza, che dunque sarebbe un’attività psichica autonoma, opposta all’anima cosciente e perfino agli strati superiori dell’incosciente, non tocca – e forse non toccabile – dall’esperienza personale, una specie di attività psichica superindividuale, un incosciente collettivo, come io l’ho chiamato, in contrapposto con un incosciente superficiale, relativo o personale”. Cfr. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino la gravità quantistica è proprio la scoperta che non esistono punti infinitamente piccoli. Esiste un limite inferiore alla divisibilità dello spazio. L’Universo non può essere più piccolo della scala di Planck, perché non esiste nulla che sia più piccolo della scala di Planck. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare della cosa, Cortina, Milano, Analogamente a come, secondo la teoria della relatività, non si può parlare in modo sensato di velocità il cui valore superi quello della velocità della luce, così non si può nemmeno parlare sensatamente di una indicazione di posizione la cui imprecisione sia inferiore al valore di 0,5. 1013 cm. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 103. Ed ancora: “Se partiamo dall’idea che le leggi della natura contengono realmente una terza costante universale nella dimensione della lunghezza, e dell’ordine di 1013 cm, allora dovremmo aspettarci di poter applicare i nostri concetti usuali soltanto a regioni dello spazio e del tempo che siano grandi rispetto alla costante universale. E dovremmo attenderci fenomeni di un carattere qualitativamente diverso quando nei nostri esperimenti ci avviciniamo a regioni nello spazio e nel tempo più piccole dei raggi nucleari. Il fenomeno dell’inversione temporale, di cui si è discusso e che, fin qui, è risultato soltanto da considerazioni teoriche come una possibilità matematica, potrebbe perciò appartenere a queste minimissime regioni. Heisenberg, Fisica e filosofia, il Saggiatore, Milano] valori scaturisce da preferenze personali, legate all’ambiente in cui il sog- getto è stato educato e/o vive (consuetudinarietà del comportamento, etc.) e dalle proprie individuali attitudini (propensioni caratteriali, gusti, etc.), non certo da timore di ricevere punizioni o dal desiderio di ottenere utilità di qualche tipo per se stesso o per qualcun altro, poiché, in tale caso, non si sarebbe in presenza di un dover essere morale. Dunque, in concreto il dover essere consiste in una scelta comportamentale, che appaga il soggetto agente almeno da un punto di vista morale. Potrebbe, infatti, in esso sussistere un conflitto tra un appagamento contrario al dover essere morale e l’appagamento dell’ottemperanza al medesimo. Ovviamente il conflitto interiore si risolverà in favore dell’appagamento più forte, della tensione emotiva più potente. Ma se di appagamento si tratta, il concetto di dover essere non presenta alcuna propria autonomia di significato, poiché si iden- tifica semplicemente con il concetto più immediatamente verificabile in via empirica di mi piace. Del resto, è lo stesso Kant a fornire indicazioni in questa direzione: Invero, ogni inclinazione e ogni impulso sensibile sono fondati sul senti- mento, e l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che avviene alle inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a priori che la legge morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può esser chiamato dolore; e qui ora abbiamo il primo, e forse anche l’ultimo caso nel quale, con i concetti a priori, possiamo determinare la relazione di una conoscenza (qui è conoscenza di una ragion pura pratica) col sentimento del piacere o del di- spiacere20. Il dover essere altro, dunque, non è che un mi piace, nobilitato dall’es- sere riferito ad una forza od ad una entità esterna al soggetto. Si riferisce la propria scelta ad un obbligo inderogabile esterno, radicato nella trascen- denza della ragione, del metafisico o del divino. Si sdoppia il mondo per dare oggettività anche alle scelte soggettive ed, in tale modo, tranquilliz- zare se stessi della bontà della propria opzione e presentare agli altri tale opzione non come un arbitrio, un capriccio personale, ma come una ogget- tiva necessità etica, come un comando eteronomo irresistibile, in quanto doveroso, a pena di riprovazione, disonore, colpa, peccato, rimorso, etc.. Esempio tipico di questo processo è il concetto di obiezione di coscienza, proprio di taluni ordinamenti giuridici, che con tale motivazione esentano alcune persone dal tenere, in una data situazione, il comportamento Kant, Critica della ragion pratica, cprescritto per legge, ma contrario ai convincimenti etici delle medesime. Ciò spiega anche il tentativo di taluni autori, che comunemente dai divisionisti viene definito con l’espressione fallacia naturalistica, di superare la Grande Divisione di Hume, unificando i due termini, fatti e valori, in un’unica entità di natura oggettiva. In questo modo tutti i valori divengono assoluti, gli uni perché trascendenti e gli altri perché immanenti ed empiricamente verificabili; l’essere soppianta il dover essere, ma quest’ultimo, sotto le sembianze dell’essere, mantiene la propria funzione di guida delle azioni umane e di giudizio morale. Un tale passaggio diviene impossibile se si prende atto che il concetto di devo coincide, semplicemente si identifica, con quello di mi piace. Del resto, è Hume steso ad indicare questa come la vera e profonda natura del dover essere: Ora, niente accomuna il bello naturale e morale (entrambi causa di orgoglio), se non questo potere di produrre piacere. Il piacere, quindi, è all’origine del dover essere, ma, se questa è l’origine, pare opportuno riportare un po’ di ordine nel vocabolario e chiama- re i concetti col proprio nome senza tentativi di mistificazione. L’etica, la morale, ma anche il diritto altro non sono che articolazioni specialistiche dell’estetica; talune diversità le distinguono, ma, in ultima analisi, sono semplicemente espressioni estetiche del soggetto agente. Inoltre questa de- mistificazione non solo opera favorevolmente sul piano pratico, in quanto, svelando la natura estetica, ossia soggettiva e relativa delle scelte umane, ne mina anche l’arroganza integralista ed intollerante, ma consente anche una migliore utilizzazione metodologica della Grande Divisione. Infatti, sostituire ai dualismi buono/cattivo, giusto/ingiusto il dualismo bello/brutto significa conservare l’elemento soggettivo del giudizio, anzi rafforzar- lo, ed inoltre radicarlo anche in una realtà umana individuale o sociale empiricamente analizzabile. Si apre in questo modo la strada allo studio delle strutture motivazionali dei soggetti, alle psicologie individuali, all’educazione, alla cultura ed alle tradizioni. Tolti i valori dall’empireo della razionalità astratta, della religione, della metafisica e ricollocati, come en- tità estetiche, all’interno del soggetto agente e della società cui appartiene, divengono fondamentali gli studi psicologici, antropologici e sociologici per spiegare le scelte comportamentali. Il dualismo della Grande Divisione permane, ma non necessità più di giustificazioni non empiriche (almeno in Cfr. CARCATERRA (si veda), Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall’essere, Giuffrè, Milano Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano uno dei suoi due termini) e non produce più neppure quello sdoppiamento del mondo, che faceva sospettare una sua natura ontologica, e non mera- mente metodologica, proprio per l’ambiguità oggettiva/soggettiva del dover essere, dei giudizi di valore. La Grande Divisione, nella versione essere – mi piace/non mi piace l’essere, giudizi di fatto e giudizi di estetica, riesce a separare, a distinguere con chiarezza il primo temine come oggettivo ed il secondo come soggettivo; ossia, il primo, come empiricamente sussistente all’esterno del soggetto giudicante ed, il secondo, empiricamente sussistente all’interno del medesimo soggetto; ovviamente la prova empi- rica dell’esistenza e della qualità di quest’ultimo giudizio consisterà, sarà data proprio dalla espressione, dalla manifestazione di piacere o di dolore esternata del soggetto. Alla luce di quanto detto sino a questo punto pare chiaro che non esi- stano dimostrazioni affidabili per propendere decisamente a favore della tesi di una realtà monista o di una realtà dualista; d’altronde non è logico pretendere una dimostrazione empirica dell’esistenza di un mondo che, per definizione, non è empirico, né l’affermazione che il mondo empirico sia l’unica realtà esistente, in quanto verificabile empiricamente, può essere considerata qualche cosa di diverso da una tautologia. Forse, l’ontologia del mondo è e non è monista; è e non è dualista, ma oscillano e coesistono contemporaneamente entrambe le realtà, come sembra suggerire la fisica subatomica con la coppia particella/onda ed ancor più con l’equazione, già ricordata, di Einstein E=mc2, nella quale energia e massa sembrano essere due aspetti della medesima realtà, come potrebbero essere anche spirito e materia. Anche in questo contesto appare significativo il fatto che, secondo la mec- canica quantistica, la conservazione dell’energia da un lato, che esprime la sua esistenza atemporale, e il manifestarsi dell’energia nello spazio e nel tempo dall’altro sono due aspetti opposti (complementari) della realtà. In verità, essi sono sempre compresenti, ma in concreto ora l’uno ora l’altro esplicano la loro azione in modo predominante. La riflessione di Pauli, sopra riportata, apre la strada ad una visione non più oggettivizzata in modo statico del reale, ma, bensì, oscillante in modo instabile, con frequenze diverse, sia in se stessa, sia tra soggetto ed oggetto. Se il mondo non fosse un fatto, ma una mera Pauli, Psiche e natura, Adelphi, Milano Laddove il vecchio tipo di spiegazione della natura, partendo dal presupposto di un osservatore indipendente, assumeva un decorso totalmente determinato dei possibilità oscillante continuamente a pendolo tra dualismi indissolubili tra loro, quali soggetto/oggetto, determinato/indeterminato, assoluto/relativo, visibile/invisibile, finito/infinito, etc., allora neppure una logica dialettica potrebbe rendere ragione degli eventi, poiché mancherebbe comunque il momento di sintesi. Si aprirebbe, invece, una finestra su una visione del mondo instabile, in pendolare mutazione perenne. Una sorta di metamorfosi continua, come nell’opera poetica d’OVIDIO (si veda). Vi sono creature, o grandissimo eroe, il cui aspetto fu trasformato una sola volta e per sempre rimase in questa trasformazione; ve ne sono altre, a cui è data facoltà di mutarsi in più aspetti, come a te, o Proteo, abitatore del mare che circonda la terra. Ti videro, infatti, ora quale giovane, ora quale leone; adesso eri irruente cinghiale, adesso un serpente, al cui contatto si provava paura; alcune volte le corna ti fecero toro, spesso riuscivi ad apparire pietra e spesso anche albero; talvolta, assumendo l’aspetto di acque fluenti, eri fiume; talvolta, l’opposto delle acque, fuoco. Ovviamente ad una tale visione si accompagnerebbero inevitabilmente le domande intorno alla illimitata variazione delle metamorfosi o alla loro natura evolutiva o non evolutiva oppure, ancora, alla loro ripetitività cicli- ca secondo il principio dell’eterno ritorno di nietzschiana memoria. Forse, il futuro ci riserva la necessità di una profonda revisione dei nostri processi logici, ad iniziare dal principio stesso di identità. Per ora basti prendere atto almeno di quanto la conoscenza scientifica ha ormai empiri- camente appurato: Con l’aiuto di queste particelle α Rutherford riuscì a trasmutare nuclei di elementi leggeri; poté, per esempio, trasformare un nucleo di azoto in un nucleo di ossigeno aggiungendo la particella α al nucleo d’azoto ed espellendone nello stesso tempo un protone. Fu questo il primo esempio di processi su scala nucleare che ricordassero quelli dei processi chimici ma con- dussero alla trasmutazione artificiale degli elementi. Il successivo sostanziale fenomeni naturali, la fisica odierna è giunta a un nuovo tipo di spiegazione della natura: è il caso cieco, privo di finalità, la probabilità primaria che non può essere ricondotta a leggi deterministiche. Secondo questa concezione la probabilità primaria appare legata in modo essenziale al fatto che l’osservatore influenza i fenomeni attraverso la scelta del dispositivo sperimentale, dal momento che la misurazione comporta per legge di natura interazioni incontrollabili con l’oggetto da misurare. Questa concezione sottolinea quindi con forza l’elemento della libertà nei processi naturali. Pauli, OVIDIO (si veda), Le metamorfosi, Bompiani, Milano Monismo e dualismo del mondo progresso fu, come è ben noto, l’accelerazione artificiale dei protoni per mezzo di congegni ad alta tensione ad energie sufficienti a produrre la trasmutazione nucleare. Erano necessari a questo scopo voltaggi di circa un milione di volt, e Cockcroft e Walton riuscirono nel loro esperimento decisivo a trasmutare nuclei dell’elemento litio in quelli dell’elemento elio. Il sogno antico degli alchimisti diviene sempre più reale, contempora- neamente, le forme si presentano oscillanti non solo a livello di particella e di onda, appaiono sempre meno stabili e l’energia sembra giuocare contro il principio d’identità.Il tema del libero arbitrio e del suo corrispondente opposto, il servo ar- bitrio, tormenta da sempre, con un dubbio sino ad ora irrisolto, i pensieri dell’essere umano e percorre tutta la storia della filosofia1. Senza presunzione di poter risolvere tale dubbio, conviene tuttavia, per affrontare l’argomento con sufficiente chiarezza, tentare qualche definizione e qualche precisazione intorno ai concetti in discussione. In via preliminare, dunque, pare opportuno prendere le mosse dal noto confronto storico tra Erasmo e Lutero, rispettivamente sostenitori, il primo, dell’esistenza del libero arbitrio ed, il secondo, della sua negazione. Erasmo formula una precisa definizione di libero arbitrio: noi qui definiremo il libero arbitrio come un potere della volontà umana in virtù del quale l’uomo può sia applicarsi a tutto ciò che lo conduce all’eterna salvezza, sia, al contrario, allontanarsene. La contestazione di Lutero non si fa attendere ed è completamente in- centrata sulla salvezza operata esclusivamente dalla Grazia di Dio e non conquistata attraverso le opere umane: Innanzitutto Dio è onnipotente non solo per il suo potere ma anche per la sua azione, altrimenti sarebbe un Dio ridicolo. In secondo luogo sa tutto e prevede tutto, perciò non può né errare né fallire. Se il nostro cuore e la nostra intelligenza approvano pienamente questi due punti, siamo obbligati ad ammettere, per una conseguenza ineluttabile, che non siamo stati creati per nostra volontà, ma per necessità; e perciò non facciamo ciò che ci piace in virtù del nostro Cfr. Caro, Mori, Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci, Roma,E. da Rotterdam, Saggio o discussione sul libero arbitrio, in Michelis Pintacuda, Libero arbitrio. Servo arbitrio, libero arbitrio, ma ciò che Dio ha previsto da ogni eternità e che fa accadere secondo il suo proponimento e il suo potere infallibili ed immutabili3. Sia Erasmo che Lutero incentrano la questione intorno alla salvezza spi- rituale ed alla Grazia di Dio, ossia si muovono in ambito religioso, teolo- gico, tuttavia, mutando i nomi e sostituendo al nome Dio quello di Natura, di scienza, di necessità causale, di assenza del divenire o di inesistenza del tempo, i termini del problema non variano e continuano a contrapporsi, anche se mascherate in Erasmo da formule religiose di stile, proprie dell’epoca, per evitare conseguenze repressive, le due medesime posizioni: il monismo umano ed il dualismo divino. Mentre per Erasmo l’essere umano può conoscere e decidere il proprio agire, per Lutero, invece, la conoscenza non implica anche la volontà, la scelta. Una definizione estesa di libero arbitrio potrebbe essere la seguente: es- sere soggetto autoreferenziato, cioè giustificato nella propria esistenza da se stesso; autonomo, ossia legislatore in proprio delle proprie regole di vita, e detentore di una possibilità di volere e di agire incondizionata da fattori esterni al soggetto medesimo. L’autoreferenzialità risponde all’esigenza di fornire un’origine ed un senso in proprio della vita del soggetto. L’autonomia esprime il rifiuto di regole non condivise, provenienti da altri soggetti (eteronomia). La libertà di volere e di agire intende descrive l’inesistenza di condizionamenti sia psichici, mentali, sia fisici. La definizione deve per necessità presentarsi radicale ed estrema, poiché nell’alternativa libero o sevo arbitrio sembra impossibile prendere in considerazione posizioni in- termedie, per così dire, moderate, in quanto o la libertà c’è o non c’è, una libertà limitata corrisponde ad una non libertà, sicuramente almeno rispetto ai limiti posti, ma anche in generale, poiché lede un principio, la libertà, che, per la salvaguardia della dignità umana, non può che essere assoluto, come è assoluto il soggetto individuale, unico ed irripetibile. Del resto, l’assolutezza empirica del soggetto individuale è chiaramente palesata dal fatto che è solo su di esso che si fonda ogni conoscenza del mondo ed è da esso che si manifesta qualsiasi forma di azione, ogni agire. Naturalmente per soggetto individuale non si intende esclusivamente l’essere umano, ma qualsiasi entità esistente, capace in qualche modo di conoscere ed agire (minerali, piante, animali, entità non visibili,...?). La definizione sopra illustrata parrebbe far propendere, alla luce della percezione empirica del nostro esistere, per l’inesistenza del libero arbi- [Lutero, Commento di Martin Lutero al saggio di Erasmo, in Michelis Pintacuda,   trio. Infatti, l’essere umano è condizionato dal suo stesso vivere entro una forma, una realtà corporea da lui non scelta, ad esempio non possiede ali per volare, può non apprezzare il proprio aspetto fisico, rendersi conto di non possedere talune abilità intellettive (difficoltà di apprendimento, scar- sa fantasia, etc.) o funzionali (carenza di arti, difficoltà respiratorie, allergie, etc.), etc., e l’elenco, è bene ricordarlo, si presenta come meramente esemplificativo. Ma un colpo ancora maggiore alla libertà umana è dato dall’impossibilità di scelta di quando, dove, da chi e se nascere, con il conseguente condizionamento dato dall’ereditarietà del patrimonio gene- tico e dalla casualità della condizione sociale dei genitori, inoltre neppure il momento della propria morte è frutto di libera scelta (salvo il suicidio, forse). Naturalmente tutto ciò alla sola luce della conoscenza umana, che non può escludere qualsiasi cosa si possa immaginare nella duplicazione metafisica del mondo, anche la libera scelta di nascere, si pensi alla dottrina della reincarnazione e della metempsicosi, operanti nel pitagorismo, nel mito platonico di Er, in talune sette gnostiche, nell’Induismo, nel Buddismo, etc. Comunque, empiricamente parlando, le uniche certezze che si presentano riguardano la nostra forma, il nostro inizio e la nostra fine5. Sia Secondo costoro, che appartengono alla setta cui la ragione è più amica aristotelici, le anime beate, liberate da ogni contaminazione materiale possiedono il cielo. Ma quelle che, sotto l’effetto di un segreto desiderio, da quella dimora vertiginosa e da quella luce perpetua hanno gettato uno sguardo in basso verso i corpi e verso ciò che chiamano quaggiù la vita si sono a poco a poco trascinate verso le regioni inferiori, per il solo peso di questo pensiero terreno. Quando abbandona lo stato di perfetta immaterialità, questa vestizione del corpo fangoso non è tuttavia, per l’anima, improvvisa, ma graduale, ed essa si impoverisce impercettibilmente e con lento degrado dalla sua purezza uniforme e assoluta, mentre s’ingrossa con certi accrescimenti di sostanza siderale. Infatti, in ciascuna delle sfere situate al di sotto del cielo, l’anima si riveste di un involucro etereo, di modo che attraverso tali involucri si adatta, progressivamente, ad unirsi a questo nostro rivestimento di sostanza terrena e pertanto, per un numero di morti pari a quello delle sfere che attraversa, l’anima perviene a quello stato che quaggiù in terra è chiamato vita”. Macrobio, Commento al SOGNO DI SCIPIONE (si veda), Bompiani,, Milano I mortali sono gli uomini. Essi si chiamano i mortali perché possono morire. Morire significa essere capaci di morte in quanto morte. Soltanto l’uomo muore. L’animale cessa di vivere (verendet). Esso non ha la morte in quanto morte né davanti a sé né dietro di sé. La morte è lo scrigno del nulla, vale a dire di ciò che sotto tutti gli aspetti non è mai qualcosa di meramente essente, ma che, nondimeno, è essenzialmente in quanto l’essere stesso. In quanto scrigno del nulla, la morte è il riparo nascosto (Gebirg) dell’essere. Chiamiamo ora i mortali i mortali, non perché la loro vita terrena cessi, bensì perché sono capaci di morte, essendo essenzialmente nel riparo nascosto dell’essere. Essi sono il rapporto lecito il paragone, siamo come una entità di forma predeterminata, che, nel percorso della sua caduta dall’ultimo piano di un grattacielo al marciapie- de sottostante, pensa di essere libera di poter fare ciò che vuole. Ma esiste veramente questa libertà lungo il tragitto della caduta (vita)? Per poter rispondere a questa domanda converrà ora approfondire anche il concetto di servo arbitrio. Il determinismo comportamentale o della volontà può presentarsi sotto diverse sembianze. Quando si afferma di poter fare una certa cosa, di poter compiere una data azione si possono intendere referenti empirici diversi, come bene illustra Ross, individuando tre condizioni necessarie per la sus- sistenza dell’agire: L’agire attuale richiede quindi il verificarsi di tre gruppi di condizioni: quel- le costituzionali, quelle occasionali, e quelle motivazionali. Possiamo anche dire che esso presuppone che l’agente abbia sia la capacità, sia l’occasione, sia la volontà o il motivo per compiere l’atto6. Ad esempio, per poter nuotare è necessario saper nuotare (capacità), disporre di uno specchio d’acqua (occasione) e, finalmente anche, volere, decidere di nuotare (volontà, motivo). A rigore solo quest’ultimo requisito riguarda direttamente il tema del libero arbitrio; il tema deterministico, in- vece, coinvolge tutti e tre i gruppi di condizioni. Infatti, il determinismo non riguarda solo la volontà, ma anche le condizioni soggettive capacità ed oggettive occasioni dell’individuo. Comunque, per semplificare un tema sin troppo arduo, conviene tralasciare queste ulteriori condizioni e soffermarsi solo sulla volontà. La volontà può presentare almeno tre forme di ipotesi di condizionamento: la scelta non è riconducibile al soggetto agente volontà divina; la scelta è condizionata da fattori immateriali (cultura, educazione, morale, inconscio individuale o collettivo, psicologia, etc.); la scelta dipende dalla struttura biologica, biochimica dell’essere umano (si pensi all’uomo macchina di Mettrie ed agli studi medici intorno alla causalità chimica nella struttura organica umana). È possibile ipotizzare anche altri fattori di condizion- amento, ma, data la loro particolarità concettuale, sarà più opportuno trat- tarli in seguito; ora è bene tornare al fattore di condizionamento metafisico. L’esistenza di una volontà divina prevalente su quella umana presup- pone l’accettazione di una visione dualista del mondo (fisica e metafisica), essenzialmente essente con l’essere in quanto essere”. M. Heidegger, La cosa, in PINOTTI, La questione della brocca, Mimesis, Milano Ross, Colpa, responsabilità e pena.  senza la quale l’esistenza del divino non è pensabile. Se Dio tutto ha creato, quindi, tutto conosce e tutto vuole, allora la volontà umana in altro non può consistere che nella volontà stessa di Dio. Tale posizione fu compiu- tamente espressa dall’occasionalismo di Geulincx e di Malebranche. L’occasionalismo, negando un qual- siasi collegamento tra la res estensa e la res cogitans cartesiane, sosteneva che le azioni umane altro non erano che occasioni della manifestazione della volontà divina, l’unica ad essere libera. In questa visione le azioni umane e la dimensione psichica si presentano come due orologi perfetta- mente sincronizzati dalla volontà divina, ma indipendenti l’uno dall’altro. A rigore, data l’evidente derivazione platonica di questo pensiero, il mondo umano potrebbe essere anche inesistente oppure, seguendo la convinzione nella onnipotenza creatrice di Dio, apparso solo in questo preciso istante in cui, tu lettore, stai leggendo questo testo, con tutti i tuoi ricordi e le tue sensazioni. L’unica certezza dell’esistenza di questo mondo deriva dalla certezza della fede in Dio7. Ovviamente il determinismo appena descritto è strettamente legato ad un pensiero religioso. Prendendo ora in considerazione il pensiero immanentista, si presenta un determinismo tutto incentrato sulla concatenazione degli eventi attra- verso il nesso di causa/effetto. La prima considerazione da manifestare ri- guarda la natura di tale nesso e la sua stessa esistenza. Già Auguste Comte ne metteva in evidenza la natura metafisica e lo sostituiva con delle leggi generali di comportamento degli eventi: Se, più tardi cambia [l’essere umano, n.d.r.] le sue concezioni in proposito, è unicamente perché, allontanato, attraverso l’esperienza e la riflessione, dalle illusioni primitive, rinunzia assolutamente a penetrare il mistero del modo di prodursi dei fenomeni, di cui la sua natura gli impedisce per sempre ogni cono- scenza, per ridursi ad osservare le leggi effettive. Ed invero, se anche oggi, con tutte le nozioni positive acquisite, volessimo, per il più semplice fenomeno, 7 In termini moderni questo problema è stato affrontato sotto l’aspetto dell’autoreferenzialità causale: “I fenomeni più elementari dal punto di vista biologico, incluse le esperienze percettive, le intenzioni di fare qualcosa e i ricordi, presentano nelle loro condizioni di soddisfazione una struttura logica particolare.. Le condizioni di soddisfazione del ricordo non si limitano, se le esamino nei dettagli, all’occorrere effettivo dell’evento, ma richiedono che il ricordo stesso, delle cui condizioni di soddisfazione è parte l’occorenza dell’evento, sia stato causato da tale occorenza. Possiamo esprimere la peculiarità di tale struttura dicendo che sia i ricordi sia le intenzioni sia le esperienze percettive sono causalmente autoreferenziali. Ciò significa che il contenuto dello stato stesso si riferisce allo stato ponendo un requisito causale. Searle, La mente, Cortina, Milano] tentare di concepire per quale potere il fatto che chiamiamo causa generi quello che chiamiamo effetto, saremmo inevitabilmente portati a realizzare immagini analoghe a quelle che sono servite di base alle prime teorie umane8. Il nesso causale non viene negato dalle leggi generali, ma semplicemente contenuto entro il limite del suo significato di costanza, di ripetitività negli accoppiamenti temporali dei fenomeni, senza indagare e pregiudicare il motivo, si potrebbe dire la causa, di questo legame; ossia possiede natura meramente descrittiva e non anche esplicativa: rileva il fenomeno, ma non ne spiega il senso. In altre parole, il principio causale si presenta come il risultato del principio induttivo, sul quale si fonda tutta la ricerca empirica, ma che, non essendo a sua volta verificabile/falsificabile in via empirica, deve essere accolto a priori. Un ulteriore affinamento del principio caus- ativo passa attraverso la dimensione probabilistica delle rilevazioni em- piriche9. Conseguentemente le leggi generali causali si sono trasformate negli studi scientifici in probabilità statistiche di accoppiamento dei feno- meni, trasformando il nesso causa/effetto in un mero nesso probabilistico a frequenza variabile. La potenza di questo strumento metodologico (leggi generali causali) ha creato in un primo tempo negli studiosi una baldanzosa presunzione di poter conoscere in anticipo tutti gli eventi futuri e tale pre- sunzione ha indotto a pensare che un generale determinismo governasse gli eventi10. Tuttavia ben presto il principio probabilistico, in generale, ed, ancor più, in particolare, quello fisico-quantistico di indeterminatezza di Heisenberg hanno, almeno in parte, ridimensionato questa presunzione e riaperto il dibattito intorno al libero arbitrio. Comte, Opuscoli di filosofia sociale, Sansoni, Firenze Dobbiamo dire che generalmente i dati rendono il risultato probabile. La causalità regge, diremo, in ogni esempio che abbiamo potuto provare: perciò regge probabilmente anche in esempi non confermati. Ci sono gravi difficoltà nel concetto della probabilità, ma per ora possiamo trascurarle. Almeno finché è senza eccezione disponiamo così di un principio logico. Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi Milano. Vi sono relazioni così invariabili tra eventi diversi avvenuti nello stesso tempo o in tempi diversi che, dato lo stato di tutto l’universo in un tempo finito, per quanto breve, ogni evento precedente o seguente può essere determinato teoricamente in funzione degli eventi dati durante quel tempo”. B. Russell. Al posto della precisione della posizione subentra dunque in questa interpretazione l’immagine di una nuvola di materia, il cui diametro sta nell’ordine di grandezza di 1013 cm e la cui densità decresce dal centro verso l’esterno suppergiù al modo di una curva di Gauss. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, Il nesso causa/effetto degli eventi è stato per lungo tempo centrale nell’alternativa determinismo/ indeterminismo, sino al punto da relegare il tema della libertà del volere ed il relativo indeterminismo nell’ambito delle questioni metafisiche e degli errori di logica. In proposito Nietzsche si esprime in modo estremamente chiaro: La credenza originaria di ogni essere organico è forse addirittura questa, che tutto il resto del mondo sia uno e immobile. Da quel grado originario del pensiero logico è lontanissimo il pensiero della causalità: anzi, ancora oggi, noi pensiamo in fondo che tutti i sentimenti e le azioni siano atti della libera volontà: se un individuo senziente si osserva, considera ogni sensazione, ogni mutamento come qualcosa di isolato, ossia non condizionato, privo di senso, che affiora in noi senza legami col prima e col dopo.  Dunque, la fede nella libertà del volere è un errore originario di ogni essere organico, che esiste sin da quando esistono in esso gli stimoli del pensiero logico; e allo stesso modo è un errore originario e ugualmente antico di ogni essere organico la fede in sostanze non condizionate e in cose uguali. Ma, in quanto ogni metafisica si è occupata prevalentemente di sostanza e di libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali dell’uomo – come se fos- sero però verità fondamentali. Estremamente interessanti in merito si presentano i più recenti studi biochimici e neurologici. In particolare, poiché i neuroni per scambiarsi scariche elettriche attraverso le connessioni sinaptiche necessitano di ener- gia, che è loro fornita dal glucosio e dall’ossigeno trasportato dal sangue, è possibile misurare l’attività cerebrale attraverso l’incremento distrettuale di tale flusso. Ciò si ottiene grazie a metodologie di esplorazione funziona- le del cervello quali la tomografia a emissione di protoni per il consumo di glucosio (positron emission tomography) e la risonanza magnetica funzionale, per il flusso ematico (functional magnetic resonance imaging). Un esperimento specifico, condotto da Libet e finalizzato a misurare il, così detto, potenziale di prontezza (ossia il cambiamento elettrico cerebrale del soggetto, ormai da tempo dimostrato, in presenza di movimenti volontari) sembra giuocare a favore di un determi- nismo inconscio. Infatti, il distretto cerebrale corrispondente al movimento volontario in esame si attiva 550 msec prima dell’atto presupposto volon- tario. Dunque, sembrerebbe che un impulso inconsapevole anticipi l’azione, ma la volontà di agire diviene consapevole 100-150 msec prima della effettiva manifestazione nel mondo esterno dell’azione stessa. Nietzsche, Umano, troppo umanom in Opere. Si può ritenere che le azioni volontarie comincino con iniziative inconsce, che vengono borbottate dal cervello. La volontà cosciente quindi selezione- rebbe quali di queste iniziative possono proseguire per diventare un’azione, o quali devono essere vietate e fatte abortire in modo che non compaia nessun atto motorio. Ciò comporta che l’esperimento consente anche di ipotizzare, in que- sti istanti consapevoli, una attività di veto del soggetto nei confronti del processo messo in atto per giungere all’azione ed il vietare è pur sempre espressione di libero arbitrio, come il fare. Tuttavia è possibile obiettare, non solo e non tanto, che il concetto di causa non coincide con quello di correlazione, ma, soprattutto, che il concetto di conscio non si identifica con quello di arbitrio. Infatti, è possibile essere consapevoli che la casa, nella quale ci si trova, stia per crollare, ma ciò non comporta né che si pos- sa agire sul crollo, né che si possa compiere liberamente la scelta di restare o di fuggire. Il punto da dimostrare, in relazione al libero arbitrio, riguar- da la scelta, ossia l’origine dell’eventuale veto, non la consapevolezza o meno dell’azione. Del resto, tale dimostrazione scientifica pare logicamen- te impossibile, poiché la verifica/falsificazione empirica può rilevare solo i nessi, gli accoppiamenti causali, ma tali nessi possono essere considerati pressoché infiniti, quindi non sottoponibili tutti ad una sistematica sperimentazione. Soprattutto non possono essere presi in considerazione, per ovvia impossibilità, i nessi ignoti e non immaginati come possibili dallo scienziato. Conseguentemente si può solo empiricamente affermare che l’eventuale veto all’azione nei precedenti 100/150 msec all’azione stessa può essere libero, ma può anche essere determinato da un nesso causale ignoto (l’assenza di nesso causale è solo assenza di nesso noto o ipotizza- to come possibile); ciò prescindendo da tutti i molteplici condizionamenti noti Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano “Nessuna libertà assoluta dunque, bensì uno spazio di manovra limitato dalla nostra eredità biologica, dal luogo e dal tempo in cui ci siamo trovati a nascere, dalle esperienze familiari, dalla banda criminale a cui abbiamo voluto aggregarci, o dall’associazione differenziale a cui siamo stati esposti, insomma: uno spazio di manovra limitato dalla nostra storia, nostra in quanto in gran parte costruita da noi”. I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, p. 101. Cfr. anche E. Soresi, Il cervello anarchico, UTET, Torino L’Autore affida lo studio delle relazioni intercorrenti tra mente e corpo ad una nuova scienza, la psico-neuro- endocrino-immunologia (PNEI). Intorno a detta scienza vedere anche P. Lissoni, Teologia della scienza, Editore Natur, Milano.  Vi è poi un ulteriore impedimento logico alla dimostrazione empirica dell’esistenza del libero arbitrio: quest’ultimo è caratterizzato da assenza di nessi causativi estranei alla volontà stessa del soggetto agente, ma ciò significa che la volontà dovrebbe essere indagata prima della sua manifesta- zione empirica e ciò non è possibile per definizione. L’assenza di fenomeni empirici non può essere studiata con metodologia empirica; il nulla fisico non può essere né falsificato, né verificato, ma solo rinviato o non rinviato a realtà trascendenti, immateriali, metafisiche. Cercare la causa di una volontà significa già presupporre il determinismo, poiché la volontà è libera solo se priva di cause, salvo la volontà stessa del soggetto agente (autore- ferenzialità ed autonomia), ma nulla è privo di cause nel mondo fisico ed una volontà del tipo indicato non può appartenere al mondo fisico; anche la scelta soggettiva, presupposta libera, è ancorata all’essere soggettivo, alla sua psiche ed al suo corpo, ossia ai condizionamenti culturali e materiali sia ambientali, sia personali. L’indagine sul libero arbitrio è, dunque, una indagine sul nulla o sul metafisico; non è possibile ipotizzare l’esistenza di un libero arbitrio senza duplicare il reale in entità trascendenti la fisicità, siano esse divine o meramente mentali astratte, non risiedenti comunque nel corpo dell’individuo agente. La consolatoria conclusione di Libet in argo- mento pare indirettamente confermare le considerazioni appena formulate: La mia conclusione sul libero arbitrio – libero davvero, in senso non deterministico – è che la sua esistenza è un’opinione scientifica altrettanto buona, se non migliore, della sua negazione in base alla teoria deterministica delle leggi naturali. Data la natura speculativa di entrambe le teorie, quella deterministica e quella non deterministica, perché non adottare il punto di vista che abbiamo il libero arbitrio, almeno finché non compaia – ammesso che compaia – qualche evidenza che realmente lo contraddica? Questo ci permette, almeno, di proce- dere in un modo che accetta e accoglie i nostri più profondi convincimenti e il comune sentire, che ci dicono che il libero arbitrio lo possediamo. Resta il problema che solo il determinismo può essere assoggettato ad indagine empirica e non anche l‘indeterminismo! Conseguentemente, con- scia o inconscia che sia l’origine di un’azione, il tema da affrontare resta la presenza o l’assenza di libertà nella dimensione sia conscia, sia incon- scia e questo tema rinvia, per il libero arbitrio, ad un livello immateriale privo di quell’origine deterministica propria del mondo fisico: il mondo si duplica necessariamente per rispondere alla domanda, ma la necessità, in questo caso, ha natura logica, non certo empirica. Il punto focale di questa Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza, cit., p. 160. discussione non sembra, dunque, essere il nesso di causa ed effetto od an- che le leggi costanti e generali di comportamento e neppure le probabilità statistiche di accoppiamento dei fenomeni, ma, piuttosto, il fattore condizionante l’esistenza stessa del concetto di scelta, ossia il fattore tempo: se scegliere significa generare azioni successive in alternativa tra loro, le azioni di questo tipo si possono produrre solo in un sistema in movimento, ossia condizionato dal tempo. I sistemi acronici sono privi di movimento e, quindi, anche di scelte, ma di ciò si parlerà più oltre. Al determinismo neuro-biologico, appena considerato, può aggiungersi una ulteriore forma di determinismo, nel quale determinante non appare il nesso causa/effetto, ma la totalità dell’essere con i propri caratteri e le proprie qualità, già e per sempre dispiegate nelle sue parti specifiche ed individuali. Questo determinismo si presenta espresso con rigore da Spi- noza, come in parte si è già visto, nella sua sintetica espressione Deus sive Natura. La totalità della Natura, governata dalle proprie naturali leggi, determinazioni, assurge al ruolo di divinità impersonale. Il problema non riguarda più tanto la catene causativa degli eventi, ma i caratteri peculiari, con linguaggio moderno si potrebbe dire genetici, delle sue parti, i quali, per necessità, non possono che estrinsecarsi nell’attività di queste sue parti, nelle azioni, se si tratta di animali e di animali umani. Ognuno esiste per sommo diritto di natura, e conseguentemente per sommo diritto di natura ognuno fa quelle cose che seguono dalla necessità della sua natura; e perciò, per sommo diritto di natura, ognuno giudica cosa sia bene e cosa sia male, e provvede alla sua utilità secondo il suo giudizio, e si vendica, e si sforza di conservare ciò che ama e di distruggere ciò che ha in odio16. Esponente di questa tendenza deterministica di pensiero pare essere an- che Nietzsche, come risulta con evidenza dal seguente brano: Che gli agnelli non amino i grandi uccelli predatori non sorprende nessuno: ma non autorizza certo a rimproverare i grandi predatori per il fatto di cacciare gli agnelli. E se gli agnelli dicono tra loro: “Questi predatori sono malvagi; e chi è rapace il meno possibile, anzi chi è addirittura l’opposto, un agnello cioè, non dovrebbe essere buono?”, non possiamo certo biasimare questo criterio di edificazione ideale, anche se i predatori stessi considereranno la cosa con un [Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, Editori Riuniti, Roma “Infatti, alla natura di una cosa non appartiene nulla se non ciò che segue dalla necessità della natura della causa efficiente, e tutto ciò che segue dalla necessità della natura della causa efficiente accade necessariamente. certo scherno e si diranno probabilmente: Noi non li odiamo affatto, questi buoni agnelli, anzi li amiamo, niente è più squisito di un tenero agnello. Pretendere dalla forza che essa non si manifesti come forza, che essa non sia volontà di sopraffazione, volontà di oppressione, di potere, che essa non sia sete di nemici e di resistenze e di trionfi, è tanto assurdo come il pretendere dalla debolezza che essa si manifesti come forza. I rapaci e gli agnelli di Nietzsche si sovrappongono idealmente ai pesci grandi ed a quelli piccoli di Spinoza, nell’evidente tentativo di evitare, attraverso il determinismo della forza, della potenza insita in ciascuna entità vivente, il giudizio morale. Il vivente si trasforma in un indifferenziato Tutto, nel quale minerali, vegetali, animali ed umani rivestono ciascuno il proprio ruolo predeterminato ed esplicano le diverse potenzialità volitive ed operative, che sono state loro assegnate dalla loro stessa natura, senza poter sfuggire ai limiti imposti da quest’ultima. La forza necessitante è consustanziale all’individualità: la pietra non possiede organi riproduttivi e, quindi, non può riprodursi, ma si moltiplica per frantumazione; la pianta non ha gambe per camminare e, dunque, vive sempre nel medesimo luogo; la maggioranza degli animali non possono opporre il dito pollice alle altre dita della medesima mano, conseguentemente non possiedono manualità ed hanno sviluppato inevitabilmente attività artigianali limitatissime; l’es- sere umano vive respirando ossigeno e muore se respira anidride carboni- ca. A causa di questa particolarità può abitare esclusivamente su pianeti simili, per caratteri atmosferici, alla Terra. Questo determinismo sembra paragonabile all’opera di un tiranno, che imprigiona i propri sudditi entro carceri diversi in qualità per ciascuna categoria di essi, ma anche per ciascun individuo di ciascuna categoria (ad esempio esseri umani nati senza braccia o diabetici). L’unica differenza consiste nella fonte del vincolo: mentre nel caso della Natura il determinismo si presenta autonomo, cioè proprio della natura stessa, nel caso del tiranno esso è eteronomo, ossia proveniente dall’esterno del soggetto agente. Per descrivere la diversità dei due modelli attraverso la tripartizione sopra ricordata del significato di poter fare qualcosa, proposta da Ross, si deve dire che il modello determinista spinoziano non lascia spazio né all’occasione, né alla capacità, né alla volontà, mentre il modello del tiranno inibisce solo l’occasione. Oltre a questa ipotesi determinista è possibile formulare almeno altre due ipotesi. La prima strettamente legata alla visione di un mondo governa- to da rigide leggi causali in sviluppo cronologico progressivo, in sintesi, un [Nietzsche, Genealogia della morale, Newton Compton, Roma mondo programmato in via di sviluppo; la seconda, invece, frutto della visione di un mondo acronico, privo di tempo. Non pare il caso di soffermarsi ulteriormente sulla prima ipotesi, già trattata in precedenza, se non per dire che tale ipotesi può essere presa in considerazione sia dal punto di vista della totalità di un essere (realtà, mondo) in sviluppo determinato e pro- gressivo, ed è di questo che qui si discute, sia dal punto di vista dei singoli gruppi, delle singole catene di nessi causali, come l’ipotesi è stata discussa in precedenza e come è usata in ambito strettamente scientifico. Il mondo in sviluppo causale conserva la variabile tempo, mentre l’ulteriore ipotesi determinista, che si tratterà ora, non prevede l’esistenza di tale variabile. Il tempo non esiste. L’affermazione sembra forte, controintuitiva, ma anche falsificata dall’evidenza empirica del divenire, eppure da Parmenide a Severino, molti filosofi hanno percorso questa strada. La qualità non me- ramente logica delle affermazioni di Heidegger, consiglia di orientarsi, per esemplificare il tema, verso questo filosofo: Il tempo ha sempre funzionato come criterio ontologico o, meglio, ontico nella distinzione ingenua delle diverse regioni dell’ente. Si delimita qualcosa che è temporalmente (i processi della natura e gli accadimenti della storia) rispetto a ciò che è non temporalmente (le relazioni spaziali e numeriche). Si è soliti distinguere un senso a-temporale delle proposizioni rispetto al decorso temporale delle enunciazioni. Infine si trova un abisso tra l’ente temporale e l’eterno sovratemporale e ci si ingegna nel gettare fra essi un ponte. Temporale equivale qui in entrambi i casi ad essente nel tempo, una determinazione che, tra l’altro, è abbastanza oscura Il panorama del tempo heideggeriano si presenta come una estensione spaziale, nella quale si manifestano gli essenti, si illuminano, per poi scomparire nuovamente dietro il sipario del tempo. L’ente che reca il titolo di esser-ci è rischiarato. È solo in base al radicamento dell’esser-ci nella temporalità che diventa intelligibile la possibilità esistenziale di quel fenomeno, che all’inizio dell’analitica dell’esserci abbiamo contraddistinto come costituzione fondamentale: l’essere-nel-tempo. Il tempo sfuma e con esso si affievoliscono anche le sue articolazioni in passato, presente e futuro. In fondo è solo la memoria che consente una simile distinzione. Dunque, la principale prova dell’esistenza del tempo ha natura psicologica: ricordo, quindi, ho vissuto il passato, ma, a parte Heidegger, Essere e tempo, Heidegger.  De libero o de servo arbitrio? l’ipotesi di Malebranche di un mondo creato da Dio attimo dopo attimo, l’organizzazione cronologica degli eventi potrebbe essere determinata dal- la forma categoriale, di kantiana memoria, della nostra conoscenza: conosciamo attraverso la categoria del tempo, che in questo caso risiederebbe in noi e non fuori di noi; avrebbe una esistenza solamente gnoseologica, non anche ontologica. Russell avanza proprio questo sospetto: La differenza che sentiamo tra cause ed effetti è una semplice con- fusione, dovuta al fatto che ricordiamo gli eventi passati ma non ci capita di ricordare i futuri. L’indeterminatezza apparente del futuro su cui fanno assegnamento alcuni sostenitori del libero arbitrio, è soltanto il risultato della nostra ignoranza rela- tiva ad esso. Il libero arbitrio in ogni significato importante deve essere compatibile con la conoscenza più completa. La nostra conoscenza del passato non è basata interamente sulle deduzioni causali, ma deriva in parte dalla memoria. È un puro caso se noi non abbiamo memoria del futuro. Si deve ricordare che la previsione supposta non creerebbe il futuro più di quanto la memoria non crei il passato. Risulta evidente che Russell costruisce il proprio ragionamento sulla indifferente reversibilità dei fenomeni di causa e di effetto, proprietà che è tipica delle operazioni di fisica teorica; inoltre, nell’accogliere questa ope- razione riduce necessariamente la funzione tempo ad un indifferenziato presente. Probabilmente la posizione privilegiata di un filosofo, che è stato al contempo anche un insigne matematico, ha consentito a questo Autore di vivere pienamente le suggestioni di fisica teorica, che i tempi agitavano. Se il mondo è privo di divenire e di movimento, che rappresenta una delle possibili forme del divenire, è anche privo di tempo, poiché non è pensabile divenire e movimento senza tempo. Riappaiono i fantasmi dela scuola eleatica e della formulazione del principio di identità assoluta, ontologica: l’essere è e non può non essere. Se l’identità non può essere nientificata nell’essere altro, ossia non essere più se stessi allora il divenire è pura illusione psicologica. Queste riflessioni di natura filosofica, nel secolo passato hanno trovato sostegni e conforto anche in campo scientifico: L’equazione di Wheeler-De Witt, secondo l’interpretazione più diretta, ci dice che l’universo nella sua interezza è simile a una enorme molecola in uno stato stazionario e che le diverse configurazioni possibili di questa molecola mostruosa sono gli istanti di tempo. La cosmologia quantistica diventa l’estre- [Russell, La conoscenza del mondo esterno] ma estensione della teoria della struttura atomica e, simultaneamente, comprende il tempo. Domandiamoci di nuovo quali conclusioni possiamo trarne in relazione al tempo. Le implicazioni sono quanto mai profonde. Il tempo non esiste. Esiste soltanto la mobilia del mondo che noi chiamiamo istanti di tempo. L’equazione sopra richiamata, detta anche di Einstein – Schrödinger, cerca di conciliare la meccanica quantistica, che necessita di un tempo definito, con la relatività generale, che lo nega, per descrivere la gravitazione quantistica. Wheeler e Witt nel tentare questa difficile operazione, non ancora completa- mente risolta, evidenziarono, forse anche in parte inconsapevolmente, che la funzione tempo si presentava come problematica e lo stesso concetto di tempo poteva essere messo in discussione. Del resto, già la teoria einstei- niana della relatività, proponendo la relatività, rispetto all’osservatore, del tempo, non poteva che presupporre non solo l’assenza di un tempo assoluto, ma anche l’irrilevanza conoscitiva di un prima e di un dopo (rispetto a cosa?), di cui l’indifferenza di Russell per il passato ed il futuro ne sono una coerente espressione. Ma se passato e futuro si propongono come indifferentemente intercambiabili, la realtà nel suo insieme, il Tutto, non può che possedere un’unica dimensione temporale: il presente. Dunque, è nel solo presente che si può discutere del libero arbitrio in questa ipotesi determinista. Il solo presente trasforma il tempo in una sorta di spazio (spazio/ tempo, appunto), nel quale gli eventi non trascorrono, ma sono collocati, dispiegati, come tanti libri in una libreria. Ciascuno può narrare la propria storia, ma sempre quella, il cui finale è ben noto sin dall’inizio e, comun- que, immodificabile. In questa ipotesi i fenomeni possono essere solo descritti, non anche voluti, ed il libero arbitrio non viene meno né per catene causali predeterminate di eventi biologici, biochimici, neurologici etc., né per la natura necessitante dei caratteri e delle potenze dei singoli enti, ma semplicemente perché non esiste il tempo ed il divenire, quindi non ha sen- so parlare di scelte libere o condizionate, che siano. Il mondo si presenta come una pellicola cinematografica, il cui movimento illusorio è dato dallo scorrere della successione dei singoli fotogrammi, in se immobili, statici, o, se si preferisce un paragone più naturalistico, come una prateria unifor- me, della quale è possibile descrivere sassi, piante, animali ed umani, che vi alloggiano, ma completamente priva di ogni arbitrio umano o divino Barbour, La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura, Einaudi, Torino. Cfr. anche Yourgrau, Un modo senza tempo. L’eredità dimenticata di Gödel e Einstein, il Saggiatore, Milano. De libero o de servo arbitrio? (salvo che divina non venga considerata la prateria stessa). Questa totale assenza di arbitrio e ben descritta da Ross: Ognuno deve agire esattamente a quel modo che è determinato ad agire. Il nocciolo del problema può chiarirsi con la storiella del ladro, il quale si difendeva dicendo che, essendo egli determinato ad agire così come aveva agito, e non avendo egli alcuna possibilità di sfuggire alla necessità ineluttabile della legge della causalità, sarebbe stato assurdo e ingiusto punirlo. E il giudice gli rispondeva: sì, Lei ha ragione. Il Suo comportamento era determinato e Lei non ha potuto sfuggire alla necessità che governa tutto l’universo. Lo stesso vale però per la società e per me in quanto suo rappresentante. La società è determi- nata a difendersi da aggressioni come la Sua e perciò io Le infliggo una pena. Il contesto della storiella si colloca all’interno di un condizionamento governato dalla catena causale, ma si adatta ancora meglio ad un mondo privo di tempo, nel quale non ha neppure senso parlare di scelte e tutti si manifestano per quelli che sono, collocati in quel luogo da sempre e per sempre, in una eternità non data da un tempo infinito, ma da una completa acronicità. Riguardo al libero o servo arbitrio ogni proposta di soluzione del proble- ma non può che essere considerata una semplice ipotesi di lavoro, poiché le eventuali soluzioni non si prestano ad una verifica empirica; pertanto l’affermazione o la negazione del libero arbitrio deve essere considerata una mera proposizione a priori. La verifica/falsificazione empirica del determinismo o dell’indeterminismo risulta metodologicamente impossibile a causa, oltre a quanto prece- dentemente già sostenuto, anche per l’irripetibilità dell’atto presunto volitivo. Infatti, se nel tempo to si presenta l’alternativa tra il compiere l’azione A o l’azione B e si compie l’azione A, nel tempo t1 si potrà forse anche compiere l’azione B, ma ciò non dimostra che la si poteva compiere anche nel tempo to. Per poter raggiungere questa dimostrazione si dovrebbe poter ripetere la scelta dell’azione, questa volta B, nel tempo to, poiché la ripetiti- vità dell’esperimento in questo caso non riguarda una serie di eventi simili (solo simili: ogni evento varia rispetto ad un altro almeno per il tempo nel quale si realizza, oltre che per la sua configurazione interattiva), ma la scel- ta stessa dell’evento da mettere in essere. Poiché è la scelta, non l’oggetto della scelta, da sottoporre a verifica/falsificazione empirica, dovrà essere possibile ripetere l’atto dello scegliere, non ciò che si è scelto o non scelto, ma ciò risulta impossibile per l’unidirezionalità presunta del tempo: dal Ross, Colpa, responsabilità e pena, presente pare possibile accedere solo al futuro ed impossibile tornare nel passato, almeno per una concezione assoluta del tempo. Il tempo in movimento unidirezionale, dunque, impedisce di trasformare il libero arbitrio da concetto a priori in concetto a posteriori, condannandolo in tale modo alla dimensione metafisica. Oltre all’impossibilità empirica di raggiungere certezze in questo campo, si presenta anche un ulteriore impedimento, questa volta di natura logica: se il determinismo descrive, corrisponde effettivamente alla realtà, alla struttura del nostro mondo, allora essere monista o dualista ed, addirittura, essere determinista o indeterminista sarebbe una condizione imposta deterministicamente. Pertanto prima di affrontare il tema del com- portamento e delle convinzioni individuali si dovrebbe descrivere e spiegare il modello di sistema, nel quale comportamenti e convinzioni sono collocati. Se il sistema è deterministico saranno condizionate, non libere, anche le azioni e le convinzioni, che in esso si agitano, ma, viceversa, se il sistema è indeterministico le azioni e le convinzioni ad esso afferenti po- trebbero essere anch’esse libere oppure vincolate da un determinismo causativo interno al sistema stesso (è il caso del principio di indeterminazione, che opera solo a livello subatomico). Tuttavia, per sapere se un sistema è o non è deterministico si devono analizzare empiricamente le azioni e le con- vinzioni che lo compongono. Risulta evidente il corto circuito che si crea: per conoscere del sistema si deve conoscere delle azioni e delle convinzio- ni che lo compongono, ma per conoscere delle azioni e delle convinzioni che lo compongono si deve conoscere il sistema. Si è in presenza di una evidente petitio principi, che impedisce ulteriori conoscenze. Questo esperimento mentale risulta valido solo nella realtà a dimensione umana, ove il tempo è assoluto (tempo assoluto newtoniano), a livello di fisica teorica, invece, perde di validità o perché il tempo diviene relativo e consente viaggi almeno nel futuro (teoria della relatività einsteiniana), o perché addirittura il tempo è proprio considerato inesistente (teoria quantistica a loop). A livello fondamentale, il tempo non c’è. L’impressione del tempo che scorre è solo un’approssimazione che ha valore solo per le nostre scale macroscopiche: deriva dal fatto che osserviamo il mondo solo in modo grossolano. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Cortina, Milano. Il tempo non è che un effetto del nostro trascurare i microstati fisici delle cose. Il tempo è l’informazione che non abbiamo. Il tempo è la nostra ignoranza. DIRITTO ARTIFICIALE L’ambito culturale del diritto presenta un ulteriore dualismo rispetto a quelli precedentemente affrontati: il dualismo diritto naturale, diritto po- sitivo, meglio, artificiale. Tale dualismo non si discosta dal modello di duplicazione del mondo, ispirato ad una visione speculare, ma perfetta, della realtà empirica: al concreto corrisponde l’astratto; al particolare il generale; al visibile l’invisibile; al finito l’infinito; al relativo l’assoluto; al fisico il metafisico; all’umano il divino. Questa specularità opera anche nel campo del diritto e genera, a fronte del diritto positivo, imposto dalla forza degli esseri umani dominanti, un diritto assolutamente giusto, detto naturale. Ovviamente, il processo potrebbe essere interpretato anche in senso contrario: il diritto naturale, per specularità, ispira la produzione del diritto positivo, che, tuttavia, si presenta relativo ed imperfetto, ossia non necessa- riamente giusto, ma solo valido ed efficace, rispetto al modello imitato. La differenza tra i due diritti è tutta giuocata intorno ai concetti contrapposti di assoluto/relativo e di giusto/ingiusto. Si tratta, dunque, di evidenziare l’origine, la fonte di questi concetti, rispettivamente nei due tipi di diritto. Il diritto naturale propone come propria fonte la dimensione assoluta dell’Essere, sia esso Dio, la Ragione o la Natura. Non cambiano molto i caratteri di queste tre denominazioni, che, sostanzialmente, esprimono il medesimo referente; ciò che muta è solo il necessario dualismo del reale, implicito nel concetto di Dio, a fronte della duplice compatibilità dei concetti di Ragione e di Natura sia con la realtà dualista che con quella monista. Infatti, la Ragione può appartenere solo al mondo fisico, può dua- lizzarsi nella res cogitans e può anche risiedere nel mondo metafisico; la medesima riflessione può essere svolta intono alla Natura, che può essere vista come una realtà completamente immanente o come il corrispondente degradato di una realtà trascendente. Non conviene addentrasi nella discussione intorno ad una Natura me- tafisica, giacché non si avrebbe alcun strumento di riscontro delle affer- mazioni, se non il proprio o l’altrui personale convincimento. Conviene quindi appoggiarsi ad un concetto di Natura immanente e procedere con lo strumento della constatazione empirica. In questo limitato ambito si incontrano due diversi significati dell’espressione diritto naturale. Da un lato, si intende descrivere la costanza di comportamento degli eventi na- turali: la legge di gravità, le condizioni che fanno franare una montagna, scoppiare un temporale, sollevare le maree, morire un essere vivente, etc.. In questo significato l’espressione è semplicemente descrittiva di ciò che avviene. Dall’altro lato, invece, la stessa espressione acquista una valenza prescrittiva di comportamenti, che possono essere seguiti o violati a livello umano (se si accoglie l’ipotesi dell’esistenza del libero arbitrio), ossia sono relativi, ma che a livello dell’Assoluto si impongono come inderogabili, necessitanti, poiché a tale livello conoscenza e volontà coincidono. Detta inderogabilità si traduce nel mondo umano in valorialità assoluta sul piano morale e, tuttavia, non necessitante su quello fisico come le leggi naturali, descrittive di fenomeni. Ancora una volta la scriminante passa attraverso il libero arbitrio: se esiste, la legge naturale non è necessitante, se non esiste, lo è ed, in quest’ultimo caso, scompare la differenza tra i due significati dell’espressione, che resta solo descrittiva. A livello empirico è facilmente constatabile che i comportamenti umani non sono omogenei, uniformi, ma divergono, anche profondamente, gli uni dagli altri (ciò che è bene per gli uni è male per gli altri e viceversa) e tale constatazione è stata portata da taluni autori come prova evidente dell’inesistenza del diritto naturale in quanto prescrizione giuridica assoluta. Come una sgualdrina, la legge naturale è a disposizione di tutti. Non esiste ideologia che non si possa difendere con un appello alla legge naturale. E a ben vedere come potrebbe essere altrimenti, dal momento che il fondamento ulti- mo di ogni diritto naturale risiede in una immediata percezione privata, in una contemplazione evidente, in una intuizione? Non può la mia intuizione essere buona quanto la vostra? L’evidenza, assunta a criterio di verità, spiega il ca- rattere assolutamente arbitrario delle affermazioni metafisiche. Essa le innalza sottraendole alla forza del controllo intersoggettivo, aprendo completamente la porta alla libera fantasia e al dogmatismo1. La prova empirica permane in tutta la sua validità, ma mostra il proprio limite, ossia resta solo empirica, e come tale, non può escludere che il diritto naturale non sia monolitico, ma, bensì, pluralista od, addirittura, ni- chilista. In queste due ultime ipotesi la contraddittorietà dei diritti naturali non dimostrerebbe la loro inesistenza, ma semplicemente il loro carattere variabile in dipendenza da fattori a noi ignoti: tempo, luogo, individui inte- [Ross, Diritto e giustizia, Einaudi, Torino] ressati (perché mai il diritto naturale dovrebbe essere egualitario ed uguale per tutti?), etc.. L’empiria, tuttavia ci riconduce ad osservare la realtà naturale, nella quale vive l’essere umano. Come si è già detto, il panorama è desolante e fortemente immorale agli occhi della nostra attuale cultura umana: il più forte vince sul debole, il cannibalismo governa tutto il biologico, il com- portamento etico risulta indifferente alla buona o cattiva sorte umana, al premio o alla pena e la morte trionfa su tutto e su tutti. Sembra che nella natura e nella vita non vi sia alcun senso. Infatti già Giobbe, il personaggio biblico, si interroga: Perché mai fu data all’infelice la luce, e la vita agli amareggiati d’animo? I quali anelano la morte – che pur non viene – come si cerca un tesoro nascosto; i quali si rallegrano oltre ogni dire, allorché hanno trovato un sepolcro? Perché fu data la luce all’uomo, la cui via è nascosta, avendolo Dio circondato di tenebre?2. Il senso lo si è dovuto trovare ancora una volta nello sdoppiamento del mondo, nella dimensione metafisica, religiosa. Comunque, stando alle rile- vazioni empiriche, non pare che vi sia molto da mutuare dal diritto naturale per la vita umana. Anzi, è proprio l’orrore della natura che ha indotto l’es- sere umano a cercare differenti modelli di comportamento, modelli artifi- ciali, non naturali. Il diritto positivo rientra nel novero di questi modelli. L’artificialità si è sostituita, per motivi forse deterministici, etici o forse anche utilitaristici, alla naturalità. Il dibattito intorno alla natura benigna o maligna di questo mondo appassionò in passato molti autori tra i qua- li è possibile ricordare Leibniz, quale sostenitore dell’affermazione che questo è il migliore dei mondi possibili in quanto creato da Dio, e Arouet, detto Voltaire, che contesta tale posizione da un punto di vista filosofico. L’affermazione di Leibniz si presenta evidentemente metafisica e teologica, ossia a priori, mentre la critica di Voltaire si muove in ambito filosofico ed empirico, ossia a posteriori, tanto che quest’ultimo Autore la affida anche ad un rac- conto satirico, Candide, ou l’Optimisme. Giobbe. Signori – dice Cocambo – voi dunque pensate di mangiare un gesuita oggi; molto bene, nulla è più gustoso del trattare così i propri nemici. In effetti il diritto naturale ci insegna a uccidere il nostro prossimo, ed è così che si agisce in tutto il mondo. Se non esercitiamo il diritto di mangiarlo, è perché abbiamo altro per fare un buon pranzo; ma voi non avete le nostre stesse risorse; certo è meglio mangiare i propri nemici anziché abbandonare il frutto della propria vittoria a corvi e cornacchie. Ma signori, voi non vorreste mangiare i vostri amici. Si ripresenta il solito dualismo ontologico, umano/divino, e valoriale, bene/male, di cui il dualismo diritto naturale/positivo ne è una diretta derivazione. In ambito immanentista monistico il dualismo riesce ad essere risolto attraverso l’artificialità dell’agire umano, attraverso l’homo artifex che crea sempre e solo, pur sotto sembianze diverse, un diritto artificiale. Una delle principali caratteristiche dell’essere umano è quella di creare artefatti materiali ed immateriali, oggetti ed idee, ossia di essere un artefi- ce; è questa una sua particolarità congenita, che lo distingue da altre entità naturali, in particolare animali. Dunque, quando si tratta di esseri umani la naturalità coincide con l’artificialità. È naturale per l’essere umano essere artificiale. La mano impugnò prima il pugno, poi la spada e la pistola per difendere il proprio corpo. La mente ideò il diritto per rendere più certi i rapporti interpersonali. In questo modo nacque il diritto positivo, che è artificiale per definizione, ma anche il diritto naturale, se espressione della creazione umana di un modello ideale, è ugualmente artificiale e frutto di istanze etiche tutte umane. La coscienza è un livello di sistema, una proprietà biologica pressoché allo stesso modo in cui la digestione, o la crescita, o la secrezione della bile sono livelli di sistema, proprietà biologiche. In quanto tale la coscienza è una ca- ratteristica del cervello e perciò è parte del mondo fisico. La tradizione contro cui mi batto dice che, essendo gli stati mentali intrinsecamente mentali, non possono per ciò stesso essere fisici. Io sostengo invece che, in quanto intrinse- camente mentali, essi sono un certo tipo di stato biologico, e dunque a fortiori sono fisici. La posizione di Searle è evidentemente materialista rispetto alla mens cogitans, pertanto rispecchia un modello monista e immanentista del reale. Conseguentemente, in un tale modello tutto il diritto è solo arti- ficiale, ossia umano e, quindi, relativo alla cultura dei luoghi e dei tempi Voltaire, Candido o l’ottimismo, Publidue, Bolzano Novarese Searle, La mente, in cui sorge. In tale visione il diritto naturale è frutto della mente umana esattamente come il diritto positivo e, pertanto, entrambe possono essere definiti diritti artificiali. Paradossalmente potrebbero essere anche definiti come naturali, poiché l’artificialità è una componente naturale, congenita dell’essere umano. È bene precisare che il carattere umano di artifex non coincide con l’espressione latina homo faber fortunae suae, poiché quest’ultima presuppone un libero arbitrio che la prima ignora: non è precisabile sotto quale spinta l’essere umano crei manufatti ed idee. Ciò detto, si tratta di evidenziare in cosa si diversificano questi due tipi di diritto naturale e positivo, che manifestano la medesima origine, quella umana. Il diritto naturale esprime la speranza, sempre viva nell’essere umano, di accedere ad un mondo perfetto ed immutabile di giustizia; aspirazione che, per altro, come si è visto, ha prodotto la duplicazione del mondo reale. In questo caso l’accento non viene posto né sul carattere della perfezione, né su quello dell’immutabilità, bensì sulla giustizia. Cosa è giusto? La ri- sposta risiede nell’origine stessa del diritto naturale artificiale. Il giudizio del singolo essere umano determina il contenuto concettuale del sostantivo giustizia. Esso, dunque, si manifesta come soggettivo e trascina con sé la relatività propria dei giudizi soggettivi. Non si tratta di un valore assolto, ma semplicemente dell’espressione di un’opinione, di una preferenza; ciò spiega ampiamente il suo, già ricordato, carattere variabile. Per approfon- dire ulteriormente il discorso, quindi, si dovrà abbandonare il giudizio in se stesso, il suo contenuto, per rivolgere l’attenzione verso il soggetto che lo ha espresso, verso i suoi interessi, i suoi gusti, la sua cultura. Infatti, è nel soggetto ed esclusivamente nel soggetto, che è possibile comprendere non solo la variabilità dei contenuti del giudizio di giustizia, ma anche la qualità di questi contenuti. Storicamente gli esseri umani hanno prodotto da sempre utopie sociali tranquillizzanti, che potessero fungere da faro verso il quale rivolgere, di- rigere la vita in comunità. Dalla Repubblica di Platone al De Civitate Dei d’Agostino d’Ippona, all’Utopia di More, alla città del sole di CAMPANELLA (si veda), alla Nuova Atlantide di Bacon, alle Avventure di Telemaco di François de Salignac de La Mothe-Fénelon, al Comunismo di Karl Marx, al movimento New Age dell’Era dell’Acquario, e l’elenco è Cfr. Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura. Saggio su Lamarck, Feltrinelli, Milano Vedere anche M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli Editore, Milano. solo esemplificativo, l’interesse per una società giusta si è sviluppato attraverso i secoli, chiedendo conforto ora all’assoluto metafisico ed ora al relativo immanente. In quest’ultimo caso l’accento è stato generalmente posto sui valori della libertà e dell’eguaglianza, sia in alternativa, sia in equilibrio instabile tra loro6. Il desiderio di far prevalere il valore della libertà o quello dell’eguaglianza, come il cercare un equilibrio tra i due, è espressione di precise situazioni sociali e personali indagabili empiricamente. Basti pensare ai diversi interessi di potere ed economici, nonché agli altrettanto di- versi gusti ideologici, culturali e religiosi, presenti nelle menti dei singoli individui e nelle relative organizzazioni sociali. Ovviamente i singoli orga- nizzati in gruppo dominante, più forte, tenderanno a far prevalere le proprie visioni nell’ambito sociale e, per raggiungere più agevolmente tale scopo, possono avvalersi non solo del diritto positivo, ma anche, in funzione di sostegno, di quello naturale. Di contro, i singoli appartenenti al gruppo dominato, recessivo, più debole, tenteranno di opporsi alle visioni valoriali dominanti e, per fornire maggiore forza alle proprie idee, faranno appello ad un ipotetico diritto naturale, giusto per definizione. Il diritto naturale, dunque, può svolgere alternativamente una funzione sociale di rafforzamento metafisico del diritto positivo vigente o di contral- tare, sempre metafisico, al diritto positivo dominante. La contrapposizione tra gruppi sociali dominati e recessivi si manifesta, quindi, già nella dua- lizzazione tra diritto naturale e diritto positivo, ma si esprime in modo più evidente intorno ai concetti di ideologia e di utopia, così come vengono espressi da Mannheim: [le utopie trascendono la situazione sociale, in quanto orientano la con- dotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto. Ma esse non sono ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasfor- mare l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni. Ad un osservatore che abbia di esse un concetto relativamente estrinseco, questa distinzione teoretica e del tutto formale tra ideologie e utopie sembra offrire poche difficoltà. Determinare in concreto quale, in un certo caso, sia l’ideologia e quale l’utopia è invece estremamente difficile. Noi ci troviamo qui di fronte all’applicazione di un concetto che implica dei valori e dei modelli. Per riuscire a questo, uno deve di necessità partecipare ai sentimenti e alle finalità dei partiti in lotta per il potere su di una realtà storica7. In sintesi, le ideologie esprimono prevalentemente l’opinione consoli- data dei gruppi dominanti, mentre le utopie quella dei dominati; in questa Cfr. ROSSELLI (si veda), Socialismo liberale, Einaudi, Torino Mannheim, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna dualizzazione si manifesta all’incirca il medesimo rapporto che intercorre tra diritto positivo e diritto naturale ed anche in questo caso, sia l’ideologia che l’utopia sono realtà meramente umane, relative, pur aspirando ad una dimensione assoluta. Ovviamente la distinzione è solo indicativa, poiché non è sempre agevole individuare chi veramente domini e chi sia vera- mente dominato ed in che misura. In ogni caso, il diritto naturale, al pari dell’utopia, si presenta come una speranza, come una istanza politica od etica; se si accoglie il dualismo fisica/metafisica, umano/divino, come la voce, l’ombra empirica del metafisico, del divino. In questo modo il diritto, in quanto organizzazione della forza fisica degli esseri umani nella storia, si trasforma in forza anche morale attraverso un dover essere eteronomo, la cui fonte è superiore a quella umana. Ma proprio quando viene meno, si prosciuga, con lo svilupparsi del soggettivismo individualista, questa fonte eteronoma ed il diritto aspira a divenire autonomo (democrazia o nichili- smo, poco rileva), si indebolisce anche la sua forza morale ed il dover essere perde di senso in favore del mi piace, come si dirà in seguito. A questa perdita di senso corrisponde un progressivo evaporare del diritto naturale ed una corrispondente identificazione del diritto positivo tout court con la forza. Il diritto positivo, ma anche quello naturale, finalmente gettano la maschera e si svelano come espressione della potenza dei gruppi sociali dominanti, che possono agire, nel perseguimento dei propri fini, attraverso la violenza, il convincimento od il condizionamento culturale. Sotto questo profilo le differenze tra dittatura, monarchia, oligarchia e democrazia risul- tano marginali, poiché anche quest’ultima, operando attraverso il principio maggioritario, si distingue solo quantitativamente e non qualitativamente dall’uso della sopraffazione sul singolo individuo dissenziente. Un ulteriore tentativo mistificatorio trova espressione attraverso la separazione del concetto di ordinamento giuridico da quello di Stato, come se un diritto potesse esistere come fonte originaria di doveri, di obblighi, senza il supporto coercitivo di uno Stato, e come se le regole imposte dallo stato potessero vivere di vita propria senza lo stato che le ha generate. Si è ancora in presenza di una duplicazione, che assegna al diritto una propria natura trascendente rispetto all’immanenza dello Stato. Immanenza e trascendenza continuano ad essere i protagonisti di questo dilemma tra autonomia ed eteronomia, tra relativo ed assoluto, tra umano e divino. Ma il dilemma è destinato a restare tale, poiché la scelta non può avvalersi di prove né empiriche, né logico-razionali. Le prove empiriche sono impercorribili, incompatibili con le realtà non empiriche e quelle logico-razionali non possono descrivere un mondo governato da una logica e da una ragione diverse da quelle umane. La scelta resta, dunque, arbitraria, affidata ad assiomi, a fede, la cui origine risale sempre e solo al soggetto, alla sua personale convinzione, illuminazione ed, in quanto tale, ad esso relativa. Più in generale, tutto il mondo empirico si manifesta sempre e solo come relativo al soggetto che lo percepisce. Lo stato di natura, come si è detto, consiste in una perenne lotta per l’esistenza e la sopravvivenza, che genera una generale incertezza nei soggetti consapevoli intono alla propria sorte. Da ciò scaturisce l’esigenza e, contemporaneamente, il desiderio di costruire una propria sicurezza di rapporti, sicurezza in gradazione crescente dal mero impegno morale al diritto. L’artificialità non si limita, dunque, all’ideazione del diritto, ma lo organizza anche in istituzione, cioè in una entità astratta permanente, che persiste nel tempo con il mutare dei soggetti umani che la compongo- no. Esempi tipici di tale organizzazione sono l’ordinamento giuridico e lo Stato, che nelle società contemporanee tendono praticamente a coincidere, anche se, come si è visto sopra, originano da un tentativo mistificatorio di duplicazione. In altre parole, il diritto, inteso come tecnica di trattamento dei conflitti intersoggettivi umani, si organizza in un sistema burocratico istituzionalizzato. Il diritto, quindi, diviene tecnica e si produce e si applica attraverso procedure burocratiche, a loro volta determinate dal diritto stesso. Il diritto genera se stesso attraverso procedure ed artifici linguistici, quali i concetti di doverosità e di obbligo. In realtà, può dirsi diritto solo quel comportamento concretamente messo in essere nella convinzione del soggetto di adempie- re ad un dovere giuridico. Le procedure legislative sono solo canali per convogliare o mediare il consenso dei soggetti intorno alle proposizioni normative e queste ultime sono indicazioni, segnali per l’azione o la non azione, ma la norma resta il fatto concretamente materializzato dell’azione compiuta e non perseguita da sanzione. Si potrebbe dire che il diritto altro non è che l’opinione giuridica del soggetto intorno ai comportamenti da tenere. Il comportamento conseguente a tale opinione potrà anche essere sanzionato, ma ciò non potrà cancellare la natura giuridica di tale opinione e del conseguente comportamento. Ciò spiega anche come il diritto natu- rale possa considerarsi diritto al pari di quello positivo, non solo in quanto entrambe artificiali, ma anche perché entrambe soggettivi, esistenti solo nella convinzione di obbligatorietà del soggetto agente. Tornando ora al diritto come tecnica burocratica pare opportuno precisare che la burocrazia si forma come strumento di garanzia della certezza e della velocizzazione delle procedure, ossia come strumento il cui fine è il raggiungimento dei fini propri dell’organizzazione, cui viene applicata. Nel nostro caso il fine dovrebbe consistere nella realizzazione della giustizia, ma si è già detto che, purtroppo, il concetto di giustizia resta di contenuto vago e, comunque, relativo al pensiero dei singoli soggetti agenti. In queste condizioni la burocrazia ha buon giuoco a fare quello che Severino denunzia essere la tendenza di qualsiasi tecnica: il trasformarsi da mezzo in fine. Tanto il capitalismo, quanto il diritto sono forme di volontà destinate a di- ventare, da scopi, mezzi della tecnica. La tecnica è destinata a prevalere stori- camente, e questo prevalere è appunto il rovesciamento in cui la tecnica – da mezzo della volontà giuridica, o capitalistica, o democratica, o di ogni altra forma di volontà – diventa lo scopo di tali forme; si che, anche per quanto ri- guarda la volontà capitalistica e la volontà giuridica, non sarà più il capitalismo a servirsi della tecnica (e della volontà giuridica) per incrementare il profitto, e non sarà più (posto che lo sia stata) la volontà giuridica a servirsi della tecnica (e del capitalismo) per realizzare un certo ordinamento giuridico, ma sarà la tecnica a servirsi della volontà del profitto e della volontà giuridica per incre- mentare all’infinito la propria potenza8. La tecnica incrementa se stessa perseguendo obiettivi sempre più estesi ed ambiziosi, sino al punto di dimenticare gli obiettivi stessi e di espandersi per una propria logica di espansione. La burocrazia segue questo medesi- mo modello espansionista e diviene la referente di se stessa. IRTI (si veda), pur sollevando vari dubbi intorno alla posizione di Severino, in particola- re riguardo alla capacità di tenuta dei giuristi e della scienza giuridica, in quanto detentori della decisione e della scelta (ritorna il libero arbitrio con il diritto), riconosce il pericolo del pantecnicismo: Insomma, se l’Apparato tecnico-scientifico è incremento indefinito della capacità di raggiungere scopi, chi decide, nel silenzio della politica e del diritto, i concreti e determinati scopi, a cui quella capacità può dare soddisfazione? Non rischia forse, quell’Apparato, di risuscitare gli antichi dei, i quali, risolvendo in se stessi il tutto, non hanno bisogno degli effimeri scopi dell’uomo? Così il cammino, aperto dal giusnaturalismo, si chiuderebbe nel giustecnicismo9. La risposta alla prima domanda potrebbe essere: nessuno. Le decisioni potrebbero estinguersi nel dominio di procedure, che, una volta decise, permangono per sempre immutate, perpetuando se stesse. La seconda doman- da si limita a proporre un inconveniente della tecnocrazia, la sua tendenza Severino, Atto secondo, in Irti, SEVERINO (si veda), Dialogo su diritto e tecnica, Edizioni Laterza, Roma-Bari Irti, Atto primo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, al metafisico, ma la risposta giunge dal noto broccardo latino: adducere inconveniens non est solvere argumentum. Lo sviluppo dei sistemi informatici, poi, moltiplica queste tendenze espansioniste autoreferenziate a scapito dei fini, cui erano stati preposti. Valga l’esempio dei sevizi bancari, che, svolti da persone fisiche, forni- scono informazioni e prestazioni variabili; parzialmente sostituiti dai ban- comat, ampliano il servizio sotto il profilo degli orari di apertura, ma lo complicano con operazioni a computer autogestite dalla clientela e da codici segreti; completamente sostituiti da sistemi informatici, obbligano la clientela entro rigidi schemi e variabili predeterminate, vincolanti per la prestazione del servizio, con limitato, se non inesistente, accesso ad un dialogo, ad una trattativa personale intorno alle condizioni di erogazione dei sevizi medesimi. La tecnica ha cancellato il servizio in nome del suo stesso sviluppo tecnologico. Ciò che vale per la tecnica, vale anche per il diritto, in quanto tecnica: si estende senza sosta, occupando aree sociali sempre più ampie; la giuridicizzazione del mondo moltiplica le controversie civili ed i reati; si creano aspettative di certezza sempre nuove, ma sempre anche frustrate dall’inevitabile varietà del mondo, che non conosce limiti. Inutil- mente l’artificialità del diritto si affanna a prevedere futuri comportamenti possibili da governare, i comportamenti continuano a moltiplicarsi alla stessa velocità delle regole e l’unico risultato resta l’inflazione normativa, ossia l’estendersi della tecnica giuridica. Da un lato, la tecnica giuridica tende a soppiantare nella regolamentazione sociale tutte le altre tecniche. Dall’altro lato, accoppiata ai modelli informatici, si disumanizza e fornisce vita ad un nuovo diritto naturale, non più divino, ma pur sempre metafisico. L’essere umano, per natura, pone domande, nei sistemi informatici deve solo fornire risposte; le domande le pone il computer. I termini dei problemi li determina il computer e le soluzioni pure. Non si è ancora completato questo processo di disumanizzazione, ma con i ritmi di sviluppo attuali della tecnologia i tempi della sua realizzazione probabilmente non saranno lunghi. La tecnica, dunque, si assolutizza, prima, come alibi egualitarista di de- responsabilizzazione decisionale umana, poi, come vera e propria delega di decisione autonoma, in fine forse, come effettiva capacità decisionale autonoma. La regolamentazione, che indirettamente viene generata dalle decisioni informatiche, diviene diritto, un diritto completamente artificiale, che spodesta sia il diritto positivo che quello naturale. Ma questo nuovo diritto, che si appresta a nascere, ha i caratteri del suo genitore informatico: immateriale, trascendente l’essere umano, onnipotente, onnipresente ed assoluto.Il metafisico sembra potersi materializzare su questa Terra attraverso l’informatica ed il diritto naturale riconquistare la propria autonomia tra- scendente attraverso una nuova dualizzazione: umano/informatico. Questa nuova legge naturale è meramente descrittiva, come quella divina, poiché anche in essa conoscenza e volontà coincidono: ci si deve attenere alla maschera dei comandi e delle domande o non si ottiene risposta e servizio; in metafora, devi nuotare se non vuoi affogare. Il dover essere del diritto naturale, per così dire, di derivazione etica cede il passo al dover essere dei fenomeni naturali, delle frane, delle inondazioni, della fisica e della chi- mica. Questo diritto naturale informatico non manifesta doverosità etiche o giuridiche, ma necessità empiriche. L’alienazione dell’umano avviene nella tecnica, ed in particolare in quella informatica, attraverso una etero- nomia imposta per necessità e non più per scelta. Il libero arbitrio viene negato nei fatti e nella loro ineluttabilità. Forse, nella ciclicità delle alterne vicende del futuro potrà rinascere un nuovo umanesimo, che dovrà portare con sé anche l’emergere di un nuo- vo diritto positivo o, forse, la rinascita competerà ad una nuova fede tra- scendente ed al relativo diritto naturale oppure, sempre forse, lo strumento giuridico potrà non essere più considerato idoneo a gestire le conflittualità umane, le incertezze prodotte dalla natura ed i suoi orrori. Probabilmente il mutare della prospettiva potrà dipendere da un nuovo salto culturale, da un nuovo paradigma, per usare una espressione di Kuhn Del resto anche Foucault, nelle sue ricerche archeologiche intorno al sapere, alla conoscenza umana ha individuato taluni di questi salti cul- turali. Essa [la natura] si rivela omicida in quello stesso movimento che la destina alla morte. Uccide perché vive. La natura non sa più essere buona. Che la vita non potesse più essere separata dall’omicidio, la natura dal male, e i desideri dalla contro-natura, era quanto Sade annuncia, del quale egli esauriva il linguaggio, e nell’età moderna, la quale volle lungamente condannarlo al mutismo. Si perdoni l’insolenza (verso chi?): I 120 giorni sono il rovescio vellutato, meraviglioso, delle Lezioni d’anatomia comparata. Co- munque sul calendario della nostra archeologia hanno la stessa età Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, Einaudi, Torino Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane. Anche il concetto stesso di natura subisce le mutazioni culturali proprie del soggettivismo e del relativismo umano: la natura ora appare madre ed ora matrigna, ora si manifesta come benefica ed ora come malefica (indifferente nell’ipotesi leopardiana), ora generatrice ed ora omicida, probabil- mente perché possiede contemporaneamente tutti questi aspetti. Il giudizio dipende dal punto di vista dal quale la si osserva, ossia non è possibile per l’essere umano raggiungere una conoscenza complessiva, completa, universale, si potrebbe dire olistica. La stagione, la temperie culturale delle varie società umane consente, poi, il prevalere di una visione, di un convincimento, di una interpretazione rispetto ad altre, diverse ma altrettanto possibili, secondo un modello di trasformazione, di sviluppo non ancora ben identificato, secondo un modello di salto culturale molto simile ai salti quantici propri della fisica teorica. Le strade che conducono ad una posizione nichilista o nihilista (si vedrà in seguito la differenza tra questi concetti) sono almeno due. L’una proviene dal riconoscimento del pieno ed insindacabile soggettivismo delle scelte umane e conduce al pluralismo, al relativismo dei valori. L’altra origina nella convinzione del divenire della storia e della vita umana e porta a quel trionfo logico del nulla, del non essere, che attualmente sembra approdare ai lidi della tecnocrazia. Entrambe le strade, tuttavia, si aggirano nel mede- simo panorama ambientale: la fine dell’Assoluto, dell’ episteme (επιστήμη – ciò che si impone), del trascendente, dell’immutabile, dell’Essere che non può non essere1. Questo panorama è stato descritto con estrema lucidità da Nietzsche e sintetizzato nell’espressione: Dio è morto. Cerco Dio! Cerco Dio!. Dov’è andato Dio? gridò Ve lo dico io. L’abbiamo ucciso noi, – voi ed io! Noi tutti siamo i suoi assassini. Ma come ab- biamo fatto? Che cosa abbiamo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? Non vaghiamo attraverso un nulla infinito? Non avver- tiamo l’alito dello spazio vuoto? Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo ancora l’odore della putrefazione divina – anche gli dei si putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo divenire dei noi stessi, per essere degni di lei? Non ci si ferma più soltanto al sentimento della mancanza di valore e di senso del divenire, né a quello dell’irrealtà del divenire. Il nichilismo diventa ora esplicita incredulità per qualcosa come un mondo eretto al di sopra del sensibile e del divenire (del fisico), cioè metafisico. Questa incredulità per la metafisica si vieta ogni sorta di via traversa per giungere a un mondo dietro il mondo o a un sopramondo”. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano Nietzsche, La gaia scienza, in Opere, Newton, Milano. Già in passato, narra Plutarco, all’epoca dell’imperatore romano TIBERIO (si veda) corre la leggenda che un certo Thamus, capitano di una nave sulla rotta dall’Egitto verso Roma, si fosse sentito chiamare da una voce tonante, che alla sua risposta gli ingiunse di riferire a Tiberio che il Grande Pan era morto. Fine di un’epoca? Simbologia astrale della precessione della presunta stella fissa Sirio? Avvento del Cristianesimo al posto delle antiche divinità? Altro? Poco importa la risposta; ciò che conta è il concetto di fine di un mondo e delle sue certezze al subentrare di un altro. La morte cancella il passato ed apre le porte al futuro: nuovi dogmi, nuovi concetti, nuovi metodi di ricerca, nuove cre- denze, nuovi valori, nuove leggi. Si rinnovano le basi della conoscenza umana e delle sue modalità esistenziali, individuali e collettive. Dio è morto simboleggia la fine del mondo trascendente, dell’assoluto, del divino e dell’eteronomia e prepara l’avvento di un nuovo mondo immanente, relativo, umano, autonomo. Il punto centrale da affrontare riguardo alla fine del vecchio mondo ed alla nascita del nuovo, ossia all’origine ed alla forma del nichilismo, è rappresentato dal soggettivismo, che Heidegger analizza nel suo sviluppo da Protagora a Descartes, sino a Nietzsche. Il soggettivismo genera un nuovo assoluto, quello umano, sul quale fondare il senso e le scelte, ma tale assoluto si presenta privo di certezze, di verità, poiché relativo; si è costretti dentro un ossimoro tra metafisica del soggetto e fisica del soggetto oggettivato, identificate entrambe nell’essere umano. L’alternativa è stringente: o si accoglie una nuova metafisica o si rinunzia al senso ed alla verità tradizionale e consolidata, per percorrere la via nichilista, sulla quale trovare un nuovo senso privo di verità e di valori. Heidegger esprime con evidenza questa difficoltà: La metafisica moderna, in balia della quale sta o sembra inevitabilmente stare anche il nostro pensiero, in quanto metafisica della soggettività fa passare per ovvia l’opinione che l’essenza della verità e l’interpretazione dell’essere si determinino per l’opera dell’uomo in quanto è il soggetto vero e proprio. A pensare in modo più essenziale, tuttavia, si vede che la soggettività si de- termina partendo dall’essenza della verità come certezza e dall’essere come rappresentazione. E prosegue in modo ancora più esplicito: Ora, che l’uomo erri, dunque che non sia immediatamente e costantemente in pieno possesso del vero, significa certamente una limitazione alla sua essenza; di conseguenza, anche il soggetto – come tale l’uomo funge nel rappresentare – è limitato, finito, condizionato da altro. L’uomo non è in possesso della conoscenza assoluta, non è, pensando in termini cristiani, il divino. Se il soggettivismo si trasforma in un nuovo assolutismo della verità, presupponendo a priori come veritiera ogni affermazione soggettiva, si è solo costruita una nuova metafisica immanentista, ossia priva di duplicazione trascendente. Ma una tale metafisica appare ancora più infondata di quella trascendente. Infatti, l’immanentismo fisico possiede il carattere della fattualità, ossia di poter essere sottoposto a verifica/falsificazione empirica. La verifica empirica del soggettivismo narra solo posizioni e scelte relative ai soggetti che le esprimono, pertanto un suo eventuale assolutismo verrebbe falsificato proprio in via empirica. Ci si deve rassegnare; la via soggettivista non può che avere come compagno di viaggio il dubbio e come meta l’incertezza. Si tratta di capire se la psicologia umana è in grado di sostenere un tale peso esistenziale e se è possibile organizzare una società priva di verità e di valori assoluti. Se questa è la dimensione umana sarebbe strano rispondere negativamente ai due precedenti quesiti. Tuttavia non appare strano che il genere umano abbia tentato di evitare un tale salto nel dubbio e nell’incertezza attraverso la duplicazione metafisica del mondo. Ma questa duplicazione può trovare una qualche giustificazione ed, ancor più, un fondamento, se non logico almeno antropologico. Ciò, invece, che è chiaro è che con l’avvento del soggettivismo, inevitabilmente, viene meno anche l’Assoluto. Infatti, l’Assoluto, creando il relativo, stacca una parte dal tutto, genera un’altra unità, che, sommata alla prima, l’uno, risulta due, la pluralità. In tale modo, automaticamente, anche l’Assoluto diviene parte di quel Tutto composto da creatore e creato. Il Tutto si estende, si diversifica e l’Assoluto si relativizza; ossia muore. La scienza moderna esprime alle proprie origini un principio metodologico, che passa sotto la denominazione di novacula Occami [RIMINI (si veda)] dal nome di Ockham. Questo principio ha trovato varie formulazioni tra le quali la seguente pare la più adatta al tema qui trattato: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. In sintesi, si tratta di scegliere tra due alternative, a parità di fattori, quella più semplice, più immediata. La domanda, dunque, da porre potrebbe essere: è necessario duplicare il mondo per spiegarlo? In una visione immanentista sembrerebbe inutile la duplicazione, giacché i nessi causali e le leggi costanti, universali, nonché probabilistiche, paiono poter rispondere ad ogni quesito, salvo quello dell’origine del mondo stesso, dell’Essere; ma un tale M. Heidegger, Il nichilismo europeo, interrogativo dalla duplicazione viene solo rinviato al metafisico e, quindi, privato di risposta per non senso della domanda o, più semplicemente, per misteriosità impenetrabile del metafisico. Le risposte causali e le regolarità comportamentali, però, si limitano a descrivere i fenomeni, e non giustificano né la loro esistenza, né la loro finalità, ossia non riescono a fornire senso, significato alla realtà immanente. Non è questo un difetto dell’empiria, ma la sua naturale caratteristica, che consiste nella mera descrittività dei fenomeni osservati, i quali sono rilevati come privi di finalità nella loro immediata dimensione dell’attimo presente. Dunque, in una visione immanentista del mondo, a maggior ragione se priva di libero arbitrio, ma anche se dotata del medesimo (l’empiria si limita a descrivere le scelte non a motivarle valorialmente), manca completamente il senso della vita, il motivo dell’esistere: ciò che esiste, esiste perché esiste. Ovviamente una simile carenza di senso non può soddisfare la presunzione umana e, tanto meno, placare i timori dell’ignoto. L’essere umano aspira all’assoluto, all’infinito per se stesso e teme la morte in quanto nulla. Per esorcizzare aspirazioni frustrate e timori è necessario trovare un senso all’esistere e, possibilmente, anche una sopravvivenza post mortem di questo esistere. Conseguentemente la duplicazione del mondo diviene necessaria per giustificare, per attribuire una qualche finalità alla vita e per calmare le angosce esistenziali; è antropologicamente e psicologicamente necessaria, non certo teoreticamente, come si è già visto. Al contrario, teoreticamente dovrebbe valere il principio della NOVACULA OCCAMI e, quindi, reputare inutile, o almeno, poco probabile, la duplicazione, in quanto operazione meramente mentale al pari di qualsiasi altro sogno, credenza, ideologia o fantasia. Presa confidenza con il panorama, conviene ora porre attenzione alla strada da percorrere. Weber indica la prima (pluralismo e relativismo dei valori). Si tratta di constatare l’emergere nel mondo occidentale moderno di un politeismo di valori, che pone fine all’unità ideologica, che fu propria della res publica christiana. La Entzauberung der Welt sfocia nel politeismo dei valori, con cui Weber certifica la destinale pluralizzazione degli ordinamenti della vita, ossia la perdita di universalità della ragione occidentale. Quella di Weber è la assunzione radicale della sentenza di Nietzsche Dio è morto, ossia la consapevolezza di vivere in un mondo senza dei e senza profeti tipica di un’epoca che ha mangiato all’albero della conoscenza. I valori supremi di ordine religioso che avevano avviato il processo di razionalizzazione si svalutano irrimediabilmente nell’epoca del compiuto disincanto, ossia del nichilismo compiuto. Fusillo, Nichilismo e sovranità, in Esposito, Galli, Vitiello, Nichilismo e politica, Laterza Bari Nichilismo e nihilismo, respingendo come cosa estranea e ostile ogni santità e ogni bene, ogni legalità etica o estetica, ogni significatività della cultura o valutazione della personalità, pretenderebbe [questa concezione n.d.r.] tuttavia, ed anzi proprio perciò, la sua propria dignità immanente nel senso estremo della parola. Quale che possa essere la nostra presa di posizione nei confronti di tale pretesa, in ogni caso essa non può venire dimostrata o confutata con i mezzi di nessuna scienza. Ogni considerazione empirica di questi argomenti condurrebbe, come ha osservato Mill, al riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisica ad essi corrispondente. Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra dio e il demonio. Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la comodità umana, non consiste in nient’altro che nel dover cono- scere quell’antitesi e nel dover quindi considerare che ogni importante azione singola, ed anzi la vita come un tutto – se essa non deve procedere da sé come un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente rappresenta una concatenazione di ultime decisioni, mediante cui l’anima (come per l’ACCADEMIA) sceglie il suo proprio destino  e cioè il senso del suo agire e del suo essere. Il mondo sociologico weberiano è animato da una pluralità di soggetti individuali e collettivi, che perseguono propri interessi e proprie valutazioni, non richiamandosi necessariamente a legittimazioni trascendenti, Anzi cercando nell’azione razionale, ossia umana, rispetto al mezzo od al fine il senso, il significato dell’agire. Questo senso diviene in tale modo meramente immanente e, quindi, patrimonio esclusivo del soggetto agente. Il soggettivismo si impone come scelta politica e giuridica, ma anche come procedura burocratica. In Weber si possono già leggere le prime avvisaglie di quello che la burocrazia potrà generare come tecnica fine a se stessa; è possibile intravedere il fantasma della tecnocrazia disumanizzante. Ma ai fini del nichilismo ciò che maggiormente interessa è il richiamo alla molteplicità degli interessi, delle prospettive e delle ideologie sociali, poiché da tale molteplicità scaturisce anche il relativismo soggettivo delle stesse. Molti valori non significano certo nessun valore, ma comunque incrinanoWeber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino La burocrazia è di carattere razionale: la regola, lo scopo, il mezzo, l’impersonalità oggettiva dominano la sua condotta. Il suo sorgere e la sua espansione hanno perciò avuto ovunque un senso rivoluzionario – che rimane ancora da esaminare – come di solito avviene per la penetrazione del razionalismo in tutti i campi. Essa annientò le forme strutturali di potere che non avevano un carattere razionale in questo senso specifico.  Weber, Economia e società, Comunità Milano il monolitismo sociale e ne cancellano la legittimazione trascendente. Le società umane si presentano molteplici come molteplici sono gli esseri umani. Severino intraprende, invece, per giungere al nichilismo la strada del divenire che nientifica l’essere. L’essere è immutabile quindi non divie- ne, ciò per Severino non significa, come per Spinoza, che il movimento è illusione, ma che il nulla non esiste; ciò comporta l’assenza di tempo nel pensiero spinoziano di contro ad un emergere ed eclissarsi dell’Essere nel tempo, senza mai divenire nulla, in quello severiniano. Questa posizione di Severino incide anche sul suo concetto di libertà e di nichilismo. Il libero arbitrio dell’essere umano immutabile si fonda sulle infinite vite che po- trebbero apparire e che non sono apparse; ossia si fonda non sull’alternarsi del divenire tra essere e nulla, ma sulla possibilità di manifestasi dell’essere. La libertà è in questo modo pura contingenza dell’apparire: La possibilità non è nell’essere, ma nell’apparire dell’essere. Se vivo eternamente tutte le vite che avrei potuto vivere  se ho già da sempre deciso tutto ciò che avrei potuto decidere  nell’apparire entra peraltro solamente que- sta vita che vivo. Ma entra soltanto questa perché tutte le altre restano nascose, o perché non esiste alcun’altra vita? O anche: esistono altre mie vite, oltre questa che appare? E se esistono, sarebbero potute apparire invece di questa che appare? In tale possibilità risiede il fondamento della libertà dell’uomo; che dunque può essere libero, solo se è pensato come l’eterno vivere tutte le vite che potrebbe vivere. La natura non empirica dell’Essere di Severino appare evidente, ma essa scaturisce non da una duplicazione del mondo, ma dalla negazione, operata con gli strumenti della logica, del divenire, del passare dall’essere al non essere nel tempo. La nozione di nichilismo esprime la medesima esigenza di non dare realtà al nulla. Un Essere tutto pieno ed eterno in se stesso non diviene, quindi può trovare disvalori solo nell’altro, ossia nel nulla di sé. Siamo prossimi all’autoreferenzialità chiusa delle monadi di Leibniz, ma in Severino l’accento non viene tanto posto sull’autoreferenzialità di una molteplicità di Esseri, tutti equivalenti, di pari dignità e, quindi, ingiudi- cabili nella loro autonomia, ma piuttosto sul divenire, che, consentendo il nulla, relativizza appunto nel nulla qualsiasi affermazione, qualsiasi scelta. 7 E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano Cfr., per una certa analogia di pensiero, Bruce, I conigli di Schrödinger. Fisica quantistica e universi paralleli, Cortina, Milano Nichilismo e nihilismo  Il nulla consente la negazione dell’assoluto e rende tutto relativo, contingente, occasionale, in breve, nichilista. Nichilismo significa affermare che le cose sono niente, ossia che il non- niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha identificato le cose al niente: affermando che escono e tornano ad essere niente. Il mondo è la dimensione in cui il non-niente è niente, e ove Dio e l’Uomo hanno la capacità di operare l’identificazione del non-niente e del niente. Forza-cultura, religione-ateismo, cristianesimo-anticristianesimo, metafisica-antimetafisica, materialismo-spiritualimo, moralismo-immoralismo, assolutismo-democrazia, capitalismo-comunismo, servo-padrone, umanesimo- tecnicismo formano i grandi contrasti che si svolgono all’interno della comune alienazione nichilista dell’Occidente. SEVERINO (si veda) è portatore di un monismo immanentista non empirico, nel quale libero arbitrio e nichilismo si identificano col problema del divenire e, quindi, giuocano la loro presenza o assenza intorno all’impossibilità di esistere del non essere e all’impossibilità di non esistere dell’essere; possi- bilità ed impossibilità tutte logiche ed, appunto, non empiriche. Oltre il bivio nichilista tra la strada di un pluralismo valoriale soggettivo e la negazione del divenire si presenta un ulteriore bivio, quello tra l’eguale fondamento e dignità di qualsiasi scelta, di qualsiasi valore e l’inesistenza stessa dei valori. L’equivalenza di tutti i valori conserverà il nome di nichilismo, mentre la vera e propria completa assenza concettuale di entità Severino. In merito ai passi citati in testo, con una comunicazione personale, Severino precisa quanto segue. G. considera quanto si dice nel mio saggio Essenza del nichilismo intorno al libero arbitrio. Ma in Destino della necessità mostro che questa posizione è un residuo di nichilismo e va superata. Quando uso la parola essere (quasi sempre o sempre con l’iniziale minuscola) intendo gli essenti, qualsiasi essente, empirico o no. Mostrando che l’essere sè degli essenti (in quanto esso è ciò la cui negazione è autonegazione, ossia in quanto è la struttura originaria del destino della verità) implica l’eternità di ogni essente, si mostra anche l’essere della dimensione non empirica degli essenti. Ma il decisivo è che l’eternità non è un presupposto, ma è implicata con necessità dalla struttura originaria; ed è questa necessità che si tratta di discutere. Questa necessità esclude di essere relativizzata e messa accanto alle varie posizioni filosofico-culturali. Il suo saggio afferma l’esistenza del soggetto e del suo sentire. Ma la struttura originaria chiede in base a che cosa si afferma tale esistenza (e l’esistenza del ricco panorama culturale espresso dal suo saggio, e dunque l’esistenza del mondo) richieste analoghe, si intende, vanno rivolte a tutta la cultura filosofica e scientifica. Ulteriori precisazioni in argomento sono presenti anche nella Presentazione di Severino a questo saggio. definibili come valori verrà chiamata nihilismo. La distinzione potrà apparire più chiara se applicata al nichilismo giuridico. Nella visione dualista del mondo al diritto positivo, come si è visto, si contrappone una giustizia, la cui fonte si afferma superiore. L’Assoluto, come analizza senza timore Irti, tuttavia, si è ritirato nelle sue varie forme (Dio, la Natura, la Ragione) dalla conoscenza umana, conseguentemente, la volontà dell’essere umano è stata abbandonata ad una completa solitudine. Solitudine nelle scelte, soggettività delle medesime e relativismo dei valori perseguiti. Irti constata questo fenomeno nel diritto e, quindi, ne mette in discussione la capacità legittimante di comportamenti, che, privi di copertura giuridica, si identificano con la violenza e con la volontà di potenza del più forte. Gli Dei si sono ritirati, e non offrono più al potere il fondamento di legittimità. Il potere rimane affidato a se stesso, alla capacità di sostenersi e di realizzarsi. Il successo della volontà è, appunto, un succedere, un semplice e nudo accadere, che trae fondamento dalla propria fatticità. Il diritto abbandona la dimensione di conoscenza, per divenire volontà, volontà di potenza e quest’ultima risulta indistinguibile dalla forza, dalla violenza La volontà di potenza non conosce altro imperativo che la pro- pria affermazione ed espansione. Il dover essere morale e giuridico cede il passo al confronto/scontro, alla lotta tra le diverse potenze, per determinare quale sia la maggiore il nichilista della volontà di potenza non può auspicare alcun esito, avendo congedato la categoria del dover essere. Può solo aspettare l’esito dello scontro storico delle volontà, e non potrà condannare alcunché12. Una volta abbandonata la categoria del dover essere, il campo, da un punto di vista pratico, fattuale resta a completa disposizione della forza, ma dal punto di vista concettuale si deve affrontare il tema di come il dover 9 N. Irti, Nichilismo giuridico, Editori Laterza, Roma-Bari Il falso contrasto tra diritto e forza deriva da una concezione metafisica del diritto, dal diritto inteso come un potere sovrannaturale, come un potere vincolante che crea ed impone dei doveri. Questo potere vincolante superiore viene opposto alla forza, cioè al potere concreto. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano Sul rango decide il quantum di potenza che sei; il resto è viltà”. F. Nietzsche, La volontà di potenza, in Opere Newton, Milano Possenti, Nichilismo Giuridico. L’ultima parola?, Rubettino, Savoria Mannelli Nichilismo e nihilismo 89 essere viene meno e con cosa viene sostituito. La risposta a quest’ultimo quesito verrà affrontata nel prossimo capitolo, per ora basti concentrarsi sul primo. Il dover essere può semplicemente perdere il proprio carattere assoluto o scomparire completamente, come concetto inesistente o falso. Si è già visto come il soggettivismo renda relativi i contenuti comportamentali del dover essere e, quindi, ne vanifichi la forza vincolante, imperativa. Il dover essere resta in vita, ma persiste come valore individuale, non generalizzabile, non imponibile a terzi. Però è dato anche il caso che il dover essere si dissolva come entità concettuale. E può dissolversi come entità solo teorica od anche come entità pratica; come affermazione priva di senso o come affermazione falsa. Il dover essere comunque scompare, ma secondo modalità differenti. Un esempio articolato ed eloquente di queste tematiche è dato dalla diatriba sviluppatasi tra la Scuola di Uppsala, che annovera tra i propri mas- simi esponenti Hägerström ed Olivecrona, e Geiger. La prima osservazione che Geiger muove alla scuola di Uppsala riguarda il carattere solo teorico del nihilismo proposto. In questo caso si tratta di nihilismo e non di nichilismo, poiché il presupposto risiede nell’inesistenza dei valori, non nella loro generale equivalenza, indifferenza. Chi è criticamente illuminato è necessariamente un nihilista teorico dei valori. Egli ha compreso che le idee di valore non sono altro che orientamenti emotivi indebitamente oggettivati. Egli sa che i valori non appartengono alla realtà temporale-spaziale, che i giudizi di valore non possono pertanto essere altro che oggettivazioni errate di valutazioni primarie soggettive, traduzioni di situazioni emotive in enunciazioni conoscitive teoriche. Gaiger propugna un nihilismo anche pratico, che cioè abbandoni l’uso dei giudizi di valore anche nelle discussioni politiche intorno alle decisioni da prendere; non si tratta, in breve, per questo Autore, solo di teorizzare la fine dei valori, ma anche di operare senza l’uso giustificativo dei medesi- mi. In questo modo si potrà dare vita a quello che da Geiger viene definito illuminismo critico e che, a sua volta, può generare una democrazia sobria, ossia fondata esclusivamente su discussioni e scelte intorno ai fatti e sulla base dei meri fatti. Geiger, Saggi sulla società industriale, U.T.E.T., Torino Vedere anche G., Un precursore del nichilismo giuridico: Geiger e l’antimetafisica sociale, in Sociologia del Diritto, la persona criticamente illuminata deve sapere su quali questioni non si può sapere niente, quali siano i problemi sui quali non può esprimersi con la pretesa di validità oggettiva, essa deve conoscere in breve i limiti naturali posti al processo conoscitivo. Essa ha da mantenersi scettica dinanzi alle asserzioni altrui e rigettare tutte le asserzioni presentate con intenti pragmatici. È pragmatica ogni asserzione che pretenda di motivare teoricamente una finalità dell’agire (di dimostrarne l’esattezza), o suggerisca tacitamente tali finalità. La seconda osservazione riguarda la predicabilità o meno di verità/falsi- tà dei giudizi di valore. Mentre Hägerström, ma soprattutto i suoi discepoli e primo fra tutti Olivecrona, sostengono l’inesistenza di una teoria che fornisca significato alla domanda sulla veridicità/falsità dei valori e, pertanto, la domanda risulta priva di senso, neppure formulabile; Geiger, invece, afferma l’esistenza di senso della domanda, in quanto la teoria esiste, ma è falsa e, quindi, anche la risposta risulta falsa. Chi asserisce la veridicità di un valore non formula una proposizione priva di senso, ma intende soste- nere l’esistenza concreta di ciò che afferma, cioè della fattualità dei valori; pertanto, per Geiger, non si tratta di una proposizione priva di senso, ma di una proposizione falsa, poiché ciò che afferma non esiste, è fantasia, è desiderio soggettivo. Chi giudica non può esprimersi sulle qualità di valore dei fenomeni, quando è dimostrato che i fenomeni non posseggono alcuna qualità di valore. Valore e non-valore non sono inerenti all’oggetto stesso, ma gli sono attribuiti dal soggetto dell’esperienza. Il giudizio di valore non è che una esplosione emotiva rivestita della forma linguistica di una enunciazione oggettiva. È evidente che mentre Hägerström si muove su un piano meramente logico, nel quale dovrebbero operare solo teorie verificabili e la veridicità dei giudizi di valore non è verificabile, ossia su un piano sul quale le teorie non falsificabili o falsificate sono già state scartate; Geiger, invece, opera nel mondo empirico dove il primo passo da compiere è proprio la verifica/ falsificazione delle ipotesi e delle relative teorie Empiricamente la domanda intorno alla veridicità dei giudizi di valore è stata posta e continua Geiger, Saggi sulla società industriale, Geiger, Ora una ideologia è per definizione qualcosa di unilaterale perché è determinato dalla prospettiva particolare di colui che pensa. Secondo questo si dovrebbe dire che tutte le ideologie sono false. L’ideologia è determinata dalla prospettiva corrispondente alla posizione sociale di colui che la pensa quindi è pensiero unilaterale. Essa non soddisfa i requisiti dell’oggettività posti dalle scienze naturali e quindi è teoricamente falsa. Geiger, Nichilismo e nihilismo ad essere posta, pertanto si tratta di falsificare la teoria che la regge ed è proprio questa la conclusione a cui giunge Geiger. La differenza appare minima, ma non irrilevante e tutta impostata sul piano del discorso svolto e sui tempi cui si riferisce l’affermazione (prima o dopo la verifica empirica). Del resto, il tema fu affrontato in senso generale anche da Heisenberg, riguardo alla costruzione di teorie attraverso l’accoppiamento di simboli a fenomeni: Il procedimento della scienza naturale è raffigurato come l’applicazione di simboli a fenomeni. I simboli possono, come in matematica, essere combinati secondo certe regole, in tal modo le affermazioni sui fenomeni possono essere rappresentate da combinazioni di simboli. Perciò una combinazione di simboli in disaccordo con le regole non è falsa ma priva di significato. L’ovvia difficoltà di questo ragionamento è la mancanza di un criterio ge- nerale che indichi quando una proposizione debba essere considerata priva di significato. Una chiara decisione è possibile soltanto quando la proposizione appartiene ad un sistema chiuso di concetti e di assiomi, il che nello sviluppo delle scienze naturali costituisce piuttosto l’eccezione che la regola. L’equivoco, dipendente sia dalla difficoltà di definizione dei concetti, in quanto legati alle teorie di cui sono figli, sia dall’impossibilità di verifica empirica degli assiomi su cui si fondano le teorie (concetti ed assiomi non chiusi), non può stupire. Infatti, come afferma Foucault, le parole simboli e le cose fenomeni non coincidono dal crollo della Torre di Babele in poi: Nella sua forma originaria quando fu dato agli uomini da Dio stesso, il linguaggio è un segno delle cose assolutamente certo e trasparente poiché assomiglia ad esse. I nomi erano deposti su ciò che indicavano, come la forza è scritta nel corpo del leone, la regalità nello sguardo dell’aquila, come l’influsso dei pianeti è stampato sulla fronte degli uomini: mediante la forma della similitudine. Tale trasparenza fu distrutta a Babele per castigo degli uomini. Le lin- gue furono separate le une dalle altre e rese incompatibili solo nella misura in cui venne anzitutto cancellata la somiglianza alle cose, la quale aveva costituito l’originaria ragione d’essere del linguaggio. Tutte le lingue che conosciamo non vengono da noi parlate che sullo sfondo di tale similitudine smarrita e nello spazio da essa lasciato vuoto18. Riemerge il solito dualismo tra divino ed umano, tra conoscenza asso- luta e conoscenza relativa, tra certezza e dubbio. Tuttavia, ritornando ora Heisenberg, Fisica e filosofia, Foucault, Le parole e le cose alla polemica tra la Scuola di Uppsala e Geiger, probabilmente essa ne sottointende un’altra ben più rilevante e di natura politica; non è possibile, infatti, dimenticare le simpatie della Scuola di Uppsala ed, in particolare, di Olivecrona per il nazismo di fronte alla posizione social-democratica di Geiger, sostenitore della Repubblica di Weimar. In conclusione, il nichilismo come il nihilismo scaturiscono dalla fine della credenza in verità assolute, siano esse trascendenti od immanenti, ossia dalla fine della duplicazione del mondo. Questa fine può giungere attraverso una relativizzazione dei giudizi di valore od una loro completa soppressione, ma, in ogni caso, l’antica via eteronoma rispetto all’essere umano non può più essere percorsa. Si tratta, quindi di costruire una nuova strada autonoma, che tenga conto della fluidità, della varietà, dell’incertezza, ma anche dell’arbitrarietà dei giudizi di valore. Si tratta di capire se sono effettivamente necessari o, almeno, utili per la convivenza sociale e se non possono essere sostituiti da altre e diverse entità in grado di guidare l’agire umano, ammesso che esista la possibilità di guidarlo attraverso la volontà umana. Tralasciando ora i dubbi intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio, chi scrive è convinto della possibilità di compiere questa ricostruzione comportamentale anche senza i giudizi di valore in ambito sia morale, sia giuridico, ma questo è argomento del prossimo capitolo.  Cfr. Olivecrona, I problemi del tempo visti da uno svedese. Inghilterra o Germania?, in Lo stato, L’estetica è una disciplina che studia, dal punto di vista trascendente, il bello in sé, mentre, dal punto di vista immanente le sensazioni umane che si manifestano nell’alternativa bello/brutto. Il bello in sé, il Sublime conduce subito verso il metafisico, la perfezione delle idee, una realtà per- fetta non appartenente alla realtà umana. Il semplice bello e brutto sono, invece, giudizi tutti umani intorno a ciò che piace o non piace. Già nel LIZIO, nella Poetica (ποίησις, il cui significato è fare, creare) evidenziava come il parametro attraverso il quale giudicare un’opera d’arte fosse la produzione o meno nel soggetto di una percezione gradevole, di piacere. Sembra poi in generale che la poesia l’abbia prodotta due cause, e tutte e due naturali. Infatti è proprio della natura umana, sin dall’infanzia, l’istinto dell’imitazione e che tutti godano innanzi ai suoi prodotti, e l’uomo differisce specialmente dagli altri animali come quel genere che più sa imitare, e questo è il mezzo con cui si procaccia le prime cognizioni. E che ciò sia vero è mostrato dai fatti, perché mentre certi oggetti, così come sono in natura, ci riescono sgradevoli, le loro riproduzioni invece, quanto più sono esatte, ci danno diletto, come le forme degli animali più ripugnanti e dei cadaveri1. Aristotele definisce l’arte come capacità di suscitare piacere attraver- so l’imitazione, ossia attraverso il primo strumento umano di conoscenza. Dunque, riporta al soggetto che conosce la decisione intorno al bello ed al brutto. In particolare, sottolinea che una imitazione perfetta dell’orrore naturale può risultare piacevole e questa sensazione pare essere il fonda- mento del diritto positivo come estetica. Il diritto positivo è decisamente disumanizzante in quanto generale ed astratto, mentre l’essere umano è particolare e concreto, pertanto non può essere giudicato con canoni stati- stici, medi, ma deve essere indagato in tutte le sue particolarità individuali, personali, ammesso che ciò sia possibile, se si intende comprenderne vera- [Aristotele, La poetica, La Nuova Italia Editrice, Firenze] mente il comportamento. Tutto vero; ma la natura, con il suo diritto naturale, è ancora peggiore, poiché sembra colpire a caso, in modo arbitrario, senza una qualsiasi giustificazione; giustificazione che, seppur arbitraria, spesso anche ipocrita e sempre soggetta ad errore, il diritto positivo tenta di fornire. Dunque, Aristotele ha ragione a sostenere che il bello può scaturire anche dall’imitazione del brutto naturale; in questo senso si indirizza anche un autore più recente quale Quincey: Ci asciughiamo le lacrime, e abbiamo forse la soddisfazione di scoprire che un’azione disgustosa e indifendibile sotto il profilo morale si rivela, se valutata secondo i criteri del gusto, un atto meritevole. Non deve stupire il divario tra dover essere ed estetica, perché il primo è frutto di una duplicazione metafisica o razionale del tutto estranea (salvo che per il concetto di Sublime) al secondo. Pertanto, abbandonata ogni duplicazione del Mondo, il vero divario esistente, che tuttavia accomuna dover essere ed estetica, riguarda la diversità che intercorre tra il sentito individuale, personale ed il sentito indotto a qualche titolo (minaccia, edu- cazione, tradizione, etc.) dall’ambiente circostante il soggetto. Ma si tratta di un divario più apparente che sostanziale, poiché sussiste solo a livello individuale, infatti, a livello collettivo, viene colmato dal gusto prevalente dei gruppi sociali, che riescono ad assicurarsi il dominio sugli altri gruppi. la situazione nell’estetica non è dissimile da quella nell’etica. In entrambe le sfere di valori i criteri di valutazione del gruppo influenzano le nostre decisioni, in entrambe sono stati interiorizzati nella voce della coscienza o in quello che gli psicoanalisti chiamano il superio. C’è una creatura ansiosa na- scosta in noi che domanda posso fare questo?, oppure può piacermi questo? Questa creatura è il nostro sdoppiamento, che non ci consente aperta- mente di porci come unici giudici delle nostre azioni. È lo sdoppiamento dell’eteronomia. Si cerca sicurezza in un parametro comportamentale esterno ed, in quanto tale, presupposto oggettivo. L’autonomia non con- cede giustificazioni esterne all’agire; si agisce palesemente per seguire il proprio gusto, sia che esso sia originario, sia che sia stato indotto dall’ambiente o dal determinismo. Tuttavia lo sdoppiamento appare più evidente Quincey, L’assassinio come una delle belle arti, TEA, Milano Gombrich, Ideali ed idoli. I valori nella storia e nell’arte, Einaudi, Torino nella visione del bello metafisico, del Sublime, espresso da Platone attra- verso l’esempio di un letto inteso come mobile d’arredo, di un letto come quadro e dell’idea di letto: Questi nostri letti si presentano sotto tre specie. Uno è quello che è nella natura: potremmo dirlo, creato, creato dal dio. Uno poi è quello costruito dal falegname. Sì, disse. E uno quello foggiato dal pittore. Non è vero? Va bene. Ora, pittore, costruttore di letti, dio sono tre e sovrintendono a tre specie di letti. Si, tre. Ebbene, il dio, sia che non l’abbia voluto sia che qualche necessità l’abbia costretto a non creare nella natura più di un solo e unico letto, si è limitato comunque a fare, in un unico esemplare, quel letto in sé, ossia ciò che è letto. Ma due o più letti di tal genere il dio non li ha prodotti, e non c’è pericolo che li produca mai4. L’idea del letto in sé o del bello in sé non si differenziano, sono entrambe metafisiche, assolute e perfette, quindi rappresentano il corretto parametro verso il quale rivolgere l’attenzione per sapere cosa è letto e, ciò che in questa sede più interessa, cosa è bello. In questa prospettiva la dualizzazione del mondo si è compiuta completamente e l’eteronomia diviene un elemento strutturale del sistema interpretativo del mondo, in generale, e di quello umano, in particolare. L’ulteriore duplicazione, quella tra dover essere ed estetica, si è probabilmente prodotta sia per contenere l’arbitrarietà evidente del senso estetico, sia per quell’illusoria pausa che intercorre tra la constatazione che una cosa piace e l’azione che ne segue. In questa pausa potrebbe celarsi il libero arbitrio, che potrebbe far rinascere la distinzione secondo il principio: ho agito in un modo che non mi piace perché era mio dovere farlo! Purtroppo non abbiamo conoscenze idonee né per escludere che in quel momento nel soggetto il dovere coincidesse con il piacere, ma neppure che questa pausa concettuale tra sensazione ed azione esista e sia governata nella libertà. Tralasciando ora i problemi metafisici legati al Sublime, in quanto frutto della solita duplicazione del mondo già più volte discussa, pare interessante approfondire il termine estetica, il cui significato deriva dal sostantivo greco αίσθησις, che indica un sentire, una sensazione e dal verbo, sempre greco, αισθάνομαι, che significa percepire attraverso la mediazione dei sensi, ossia ricevere stimoli che producono sensazioni. L’essere umano percepisce in continuazione sensazioni provenienti dal mondo esterno attraverso i suoi cinque sensi fisici, ed è questa la base sulla quale si fonda il metodo empirico di ricerca; ma percepisce anche sensa- 4 Platone, La Repubblica, in Tutto Platone, Editori Laterza, Bari zioni interiori, sentimenti provenienti da precedenti esperienze, da ricordi, da pregiudizi, da preconcetti, da convinzioni personali, da tutto ciò, in sin- tesi, che può essere considerato il suo vissuto mentale. Queste due fonti di sensazioni non sono e non possono essere rigorosamente separate, poiché insistono sull’unitarietà del soggetto che percepisce. La percezione fisica viene selezionata, filtrata e completata dalle propensioni della mente, sino al punto di rendere indistinguibile la percezione fisica in quanto tale dal percepito e vissuto mentale. La questione, poi, si complica ulteriormente, poiché la percezione occupa anche il campo del sogno e del ricordo, con i loro stati dubbi, incerti di realtà empirica. Le percezioni esterne presuppongono l’esistenza di un ambito circostante il soggetto, dal quale partono gli stimoli che colpiscono i sensi. Non si può, tuttavia, essere certi, che questo ambito esterno esista veramente fuori dal soggetto, poiché ciò che si percepisce altro non è che una immagine, una sensazione mentale. Del resto, non è neppure possibile asserire con certezza l’inesistenza del mondo esterno, sempre per il problema che a giudicare è una entità soggettiva non oggettiva. L’oggettività nella percezione umana è impossibile, per la stessa natura umana di soggetto. Si è già osservato che alla mente non si presentano che percezioni. Ora, siccome le percezioni si distinguono in due generi, impressioni e idee, questa distinzione solleva una questione, con cui avvieremo la nostra indagine sulla morale: è dovuto alle idee oppure alle impressioni il fatto che noi distinguiamo la virtù dal vizio, e dichiariamo un’azione biasimevole oppure pregevole? Questo escluderà tutti i discorsi e le dichiarazioni arbitrarie, riconducendoci a qualcosa di preciso e di esatto in merito al presente argomento. La percezione, dunque, è legata ai sensi, l’acqua fredda produce una sensazione di freddo, mentre l’impressione esprime la predisposizione, il giudizio del soggetto verso il percepito: il freddo mi produce sollievo dall’afa estiva o mi disturba perché abbassa la temperatura dell’ambiente. Conseguentemente l’Autore non esita nella sua risposta, come del resto era prevedibile data la Grande Divisione di cui è artefice ed alla quale ha fornito anche il nome: [è impossibile che la distinzione tra bene e male morale possa essere compiuta dalla ragione; poiché quella distinzione ha sulle nostre azioni un’influenza di cui la sola ragione non è capace. La ragione e il giudizio possono, infatti, essere la causa mediata di un’azione, destando o guidando una passione: Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano ma non bisogna pretendere che un giudizio di questo genere, sia vero o sia falso, possa accompagnarsi alla virtù o al vizio. Hume non si limita a negare la predicabilità di vero/falso all’ambito morale, ma affronta anche la natura di questo ambito, di queste impressioni, ed appare con evidenza che la sua analisi conduce direttamente al principio del piacere come scriminante tra bene e male. La prossima domanda è: di quale natura sono queste impressioni, e in che modo agiscono su di noi? È qui impossibile non esitare, ma dobbiamo dichiarare che l’impressione che sorge dalla virtù deve essere gradevole, e quella che deriva dal vizio sgradevole. In qualsiasi momento l’esperienza deve convin- cerci di questo. Una rappresentazione teatrale o un romanzo bastano a darci esempi di questo piacere, che la virtù ci procura; e del dolore, che nasce dal vizio. Risulta chiaro che sia l’alternativa buono/cattivo, sia quella bello/brutto dipendono dalle impressioni umane, ossia sono legate alla percezione di piacere o di dolore. Nell’essere umano la percezione è unitaria, non esistono due diverse forme di percezione, come può dimostrare l’empiria, forse possono esistere due diverse forme di impressioni, se elaborate nella mente e quindi non sottoponibili, almeno per ora, a verifica/falsificazione empirica. Dunque, se non si desidera procedere ad una ulteriore duplicazione, priva in questo caso di motivazione, che avrebbe un sapore formale incentrato sul mero linguaggio (dover essere o mi piace) e non su fatti, tra percezioni e conseguenti impressioni morali ed estetiche, si deve concludere che vi è un’unica percezione ed i due ipotetici tipi di impressioni coincidono tra loro e sono un solo ed unico tipo di impressione; ossia la morale altro non è che una forma dell’estetica in quanto fondata, come l’estetica, sul piacere. In questo caso la prova empirica è possibile poiché si tratta di impressioni prodotte da percezioni, sensazioni empiriche, salvo sempre, ovviamente, la duplicazione strutturale del mondo in fisico e metafisico. Se le percezioni esterne, produttrici di impressioni esterne, provengono dalla presupposta esistenza di un mondo esterno al soggetto percipiente, da dove provengono le sensazioni interne, ammesso che abbiano natura diversa da quelle esterne? La risposta potrebbe risiedere nella capacità della mente di apprendere, ricordare e rielaborare il percepito ed il sentito, in qualunque modo venga percepito e sentito: fisico o metafisico. Certamente la tradizione, l’educazione, le convinzioni religiose e scientifiche dovrebbero giuocare un ruolo centrale nella determinazione delle sensazioni interiori e nel giudizio su quelle esteriori. Commozione, attaccamento, repulsione, amore, odio, etc. possono essere conseguenze di precedenti esperienze: il fuoco mi ha scottato e provo una repulsione nell’avvicinarlo. Ma anche preconcetti, superstizioni, credenze si presentano come sensazio- ni interiori e possono avere un’origine culturale: provo paura alla vista di un gatto nero, perché sono convinto che porti sfortuna; provo gioia per aver trovato un quadrifoglio, perché penso che porti fortuna. Searle affronta il tema immediatamente nel suo significato empirico; le impressioni umane determinano il comportamento, in presenza del libero arbitrio, attraverso le sensazioni di piacere o di dispiacere. Dunque, le sensazioni di piacere o di dispiacere si collocano all’origine dell’intenzionalità, che per sua stessa natura è sempre e solo cosciente; pertanto la domanda da porre diviene la seguente: come funzionano nei particolari gli stati intenzionali? L’autore, pur reputando che resti un mistero il funzionamento dell’intenzionalità, tuttavia fornisce alcune interessanti riflessioni ed indicazioni in merito ogni stato cosciente presenta un certo grado di piacere o dispiacere. Per meglio dire, occupa una certa posizione sulla scala che include le nozioni ordinarie di piacere e dispiacere. Così, per ogni esperienza cosciente che qualcuno abbia, è sensato chiedergli. È stato piacevole? È stato bello? Sei stato bene, male, ti sei annoiato, ti sei divertito? È stato disgustoso, delizioso o deprimente? La dimensione piacere/dispiacere si estende pervasivamente a tutti gli stati di coscienza. Si deve notare che la dimensione piacere/dispiacere ha natura empirica, ossia può essere sottoposta ad un processo di verifica/falsificazione, pertanto passare da un giudizio di valore ad un giudizio estetico comporta anche la reintroduzione della metodologia empirista. Ovviamente non riguardo all’oggettività del giudizio, ma all’impressione prodotta dalla sen- sazione percepita. Infatti, un giudizio morale, se non si identifica con un giudizio estetico, se non è un giudizio estetico, non può scaturire da una sensazione produttrice di impressioni di piacere/dispiacere, non solo per Kant, ma per sua stessa definizione, in quanto il dover essere, per essere morale, deve essere anche privo di interesse personale. In modo diverso si presenta la doverosità giuridica, che può anche essere sostenuta da un interesse personale, e, proprio per questo motivo, sembra appartenere più Searle, La mente, al mondo dell’estetica che a quello della morale. Ma è bene continuare con Searle, che precisa il concetto di percezione: Dovremmo concepire la percezione non come qualcosa che crea la coscienza, ma come qualcosa che modifica un campo di coscienza preesistente. Siamo vicini concettualmente alla res cogitans di Descartes, ma lontani dalla sua astrattezza; infatti in Searle tutto ruota intorno ad una sensazio- ne rapportata ad una percezione non necessariamente autoreferenziata al soggetto percipiente; in breve, soggetto ed oggetto vengono posti in cor- relazione, non rigidamente separati. Pare un timido tentativo di riduzione del dualismo soggetto/oggetto. Ma ciò che più conta riguarda direttamente lo stato mentale cosciente, che altro non è che l’espressione delle proprie condizioni di piacere/dispiacere. L’esser vera sta alla credenza come l’esser appagato sta al desiderio o l’esser realizzata sta all’intenzione. Propongo di descrivere tale fenomeno nel modo seguente: ogni stato intenzionale con direzione di adattamento non nulla pos- siede condizioni di soddisfazione. Possiamo considerare gli stati mentali come rappresentazioni delle proprie condizioni di soddisfazione. Searle è esplicito; la separazione fatti/valori comporta, per i fatti, la possibilità di rispondere a verificabilità empirica, mentre, per i valori morali o estetici, negata questa possibilità, produce la mera soddisfazione o insod- disfazione personale del soggetto agente. La Grande Divisione persiste, ma ridimensionata entro un vocabolario, che meglio la descrive. La sepa- razione tra giudizi di fatto e giudizi di valore non esaurisce la serie delle possibili divisioni. Infatti, subito subentra anche la sottodivisione giudizi di valore e giudizi di estetica, come si è già visto. Tuttavia, mentre la pri- ma divisione regge alla prova empirica come scriminante fra i due tipi di giudizio (solo i giudizi di fatto sono empiricamente verificabili/falsificabili), la seconda suddivisione (giudizi etici/giudizi estetici) non trova altra giustificazione che il tentativo di recuperare, attraverso il giudizio etico, Searle Searle, Come è possibile che io abbia sete d’acqua?, vale a dire che abbia un desiderio il cui contenuto è bere acqua. la risposta si fornisce mostrando la connessione essenziale tra intenzionalità e condizioni di soddisfazione. Ciò che fa del mio desiderio il desiderio di bere acqua è che sarà soddisfatto se e solo se berrò acqua. Non si tratta di un’osservazione psicologica che predice cosa mi farà sentire bene, ma della definizione del contenuto intenzionale pertinente. valore, un metafisico assoluto, trascendente od anche solo razionale. Del resto, risulta chiaro che, rispetto alla sua origine, il giudizio di valore non è altro che un giudizio estetico, poiché scaturisce da condizioni di soddisfa- zione o, se si preferisce, da sensazioni percepite e produttrici di impressioni (piacere/dispiacere). Le sensazioni, dunque, producono dei giudizi estetici impressioni, riassumibili sinteticamente nell’alternativa mi piace/non mi piace. Si tratta ora di vedere se questi giudizi estetici, oltre all’origine, possiedono anche i medesimi caratteri dei giudizi di valore. Sia i giudizi estetici che i giudizi di valore esprimono una dimensione meramente mentale, ma mentre i primi dovrebbero essere finalizzati a manifestare un piacere personale, i secondi, invece, dovrebbero svolgere la funzione di governo del comportamento. Ma il giudizio di valore che cosa è? Vi è una sola alternativa possibile: o è un valore assoluto, in qualche modo trascendente, che è giunto all’essere umano dal di fuori per illuminazione, per rivelazione, per quant’altro di immaginabile; oppure è un valore relativo, nato nella mente del soggetto agente e caratterizzato dalla sue preferenze. Si tralasci ancora il primo caso, che resta indimostrabile empiricamente e che, comunque, deriva sempre dalla duplicazione del mondo, e si affronti il secondo caso. Esso non si distingue dal giudizio estetico: è soggettivo nel medesimo modo; porta giustificazioni solo apparentemente diverse alla propria adozione; infatti, al di là di giustificazioni autonome od eteronome, funzionali, utilitaristiche, pietistiche, anagrafiche, culturali, etc., la scelta finale altro non è che una preferenza personale, un equilibrio tra le convinzioni e le scelte possibili, che soddisfi il soggetto, lasciandolo emotivamente tranquillo. Il giudizio di valore è un giudizio estetico formulato in modo diverso, poiché pone l’accento sul comportamento da tenere e non sul piacere nel tenerlo, ma la forma non riesce a mascherare il piacere di fondo, che si colloca all’origine delle scelte etiche; dunque, poco conta la forma funzionale, ciò che importa è, invece, la matrice, la natura comune, unitaria, che li caratterizza. Inoltre la loro sovrapponibilità perfetta è anche confermata dal modo in cui se ne può venire a conoscenza: per sapere quali siano i giudizi estetici e di valore di un soggetto non è possibile fare altro che porre la domanda al soggetto medesimo od osservarne il comportamento, presupponendo sperando che il pensiero sia coerente con l’azione. Tuttavia i giudizi estetici presentano un vantaggio empirico su quelli di valore: il giu- dizio estetico produce un immediato senso di piacere nel soggetto, piacere che è empiricamente verificabile; al contrario, il giudizio di valore aspirerebbe ad essere disinteressato e, quindi, il piacere non dovrebbe essere percepibile nell’imperativo del dovere. Ciò ovviamente nasconde il piacere originario della scelta etica, ma, soprattutto, lascia intendere l’estraneità alla verifica/falsificazione empirica del giudizio di valore, in quanto assoluto, a priori, arbitrario. Anche il giudizio estetico è e resta arbitrario, ma esso riconosce la propria origine empirica nel piacere e, quindi, può essere studiato anche senza duplicare il mondo. Demistificare il giudizio di valore significa svelarne l’egoismo e la volontà di potenza, che nasconde. Il pathos dell’aristocrazia e della distanza il duraturo e dominante sen- timento totale e basilare di una specie superiore e dominante nei confronti di una specie inferiore, di un sotto, questa è l’origine dell’opposizione tra buono e cattivo. Il diritto signorile di imporre nomi, risale così indietro nel tempo, che si sarebbe autorizzati a ritenere l’origine della lingua stessa come espressione di potenza di chi era al potere: essi dicono questo è questo e questo e con un suono impongono il loro sigillo a cose e avvenimenti e, così facendo, se ne impossessano)11. Il giudizio di valore ha una lunga storia dietro le spalle di violenza, di persecuzioni, di soprusi, di processi, di torture, di eresie, di condanne capitali proprio per questa sua tendenza a porsi fuori dall’immediato giudizio umano individuale, per questa sua costante aspirazione all’assoluto, anche quando si manifesta palesemente come relativo, come appunto avviene nell’ambito del diritto. Infatti, quando il giudizio di valore prende vera- mente atto della propria relatività, si apre il capitolo del nichilismo e del nichilismo giuridico. Il giudizio estetico, invece, non sembra manifestare questa tendenza: esso è relativo e tale resta, almeno nella attuale cultura occidentale, eppure i due giudizi sono un medesimo giudizio, che, più cor- rettamente dovrebbe essere definito solo giudizio estetico. Per continuare ora la marcia verso il diritto estetico si devono svolgere alcune considerazioni intorno al diritto. Non si tratta certo di aspirare ad una compiuta definizione di diritto, che ha affaticato vanamente genera- zioni di giuristi, quanto piuttosto di estrarne alcuni caratteri, che possono evidenziarne la natura. Kelsen individua chiaramente due aspetti diversi, ma fondamentali, del diritto: la validità e l’efficacia. Nietzsche, Genealogia della morale, Newton Compton, Roma quello che vale per i giudizi di valore sensoriali e estetici vale anche per quelli morali, di cui fanno parte quelli politici e sociali. Geiger, Saggi sulla società industriale. La possibile indipendenza della validità della singola norma giuridica dalla sua efficacia indica nuovamente la necessità di distinguere con chiarezza fra i due concetti13. La validità attiene alla vincolatività giuridica della norma, l’efficacia, invece, alla sua capacità di manifestarsi nella realtà operativa umana. La validità appartiene al mondo delle convinzioni, mentre l’efficacia a quel- lo dell’empiria. Efficace è una norma che viene applicata da coloro cui è diretta, rivolta; valida è una norma che viene considerata appartenente all’ordinamento giuridico vigente, ossia in essere in un certo luogo e tempo (si tratta sempre di convinzioni personali). In entrambe i caratteri la realtà, tuttavia, non può essere tralasciata: è evidente per l’efficacia, ma è altret- tanto evidente anche per la validità dell’ordinamento giuridico, che o si impone o non si impone come efficace. Come è impossibile nella determinazione della validità di astrarre dalla re- altà, così è anche impossibile di identificare la validità con la realtà. Nel senso della teoria qui sviluppata il diritto è un determinato ordinamento (od organizzazione) della forza. Il diritto, dunque, si presenta sia come valore (validità), sia come forza (efficacia), ma anche la validità a livello di ordinamento giuridico, ossia di cambio di regime politico o sociale, si riduce ad efficacia, in breve, a forza. Certo, la validità cerca di pilotare l’attenzione verso il giudizio di valore, verso il dover essere, verso la vincolatività, verso la doverosità, ma il depistaggio non è sufficiente a far scomparire la forza, la violenza (sanzione), come principale carattere identificativo del diritto. È al vincitore che appartiene il vinto, con la sua donna e i suoi figli, i suoi beni e il suo sangue. La violenza è il primo fondamento del diritto, e non c’è diritto che nel suo fondamento, non sia tracotanza, usurpazione, prepotenza. La forza del diritto è, dunque, mera forza bruta, mera violenza, alla quale è difficile resistere, senza subire gravi danni materiali. Il mito dell’ob- bligo giuridico, della doverosità, prima, morale e, poi, anche giuridica, non descrive fedelmente il fenomeno diritto, ma lo cela dietro un immateriale velo di spontanea subordinazione, di impegno interiore, che poco o nulla esprime del reale. Nel dover essere la fantasia imperversa libera da qualsia Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto Kelsen Nietzsche, Verità e Menzogna, Newton Compton Editori, Roma si vincolo empirico verso poli opposti di intensità, che vanno da una razio- nalità morale dubbiosa, moderata e tollerante ad un integralismo fanatico ed intollerante, e di qualità, di contenuto variegato e molteplice. Sia i giuristi che i filosofi sono perfettamente consapevoli del fatto che la forza vincolante del diritto non è un elemento del mondo spazio-temporale che li circonda, del mondo empirico. L’ovvia conclusione a cui dovrebbe portare tale constatazione è che la forza vincolante esiste soltanto nell’immaginazione degli uomini. Ma la convinzione della sua esistenza reale è talmente radicata che una simile idea non è stata quasi mai formulata. Al contrario la nozione di forza vincolante intesa nel senso tradizionale ha continuato, e continua tuttora, a costituire una della assunzioni fondamentali di tutte le teorie giuridiche correnti16. Il diritto è l’organizzazione della forza operata dal gruppo sociale dominante, sia esso politico, economico, etnico, religioso od anche solo maggioritario; neppure la democrazia, infatti, è estranea a questo contenuto del diritto. Pertanto, la burocrazia, come organizzatrice di questa forza, svolge un ruolo dominante nel diritto, anzi, il diritto come procedura, come applicazione procedurale e processuale è burocrazia, tecnica burocratica con tutti i problemi disumanizzanti, che sono già stati evidenziati nel rovesciamento della tecnica da mezzo a fine. Anche il diritto rischia e talvolta subisce tale rovesciamento. Basti pensare al detto latino: Fiat ius et pereat mundus. Il diritto, secondo questo broccardo, deve trionfare in quanto tale, costi quello che costi; si presenta come un imperativo cate- gorico di kantiana memoria, che ha perso la sua funzione di trattamento dei conflitti sociali e si è trasformato in un valore assoluto, metafisico, da mezzo è diventato fine. Non si tratta, dunque, di descrivere il diritto quale si vorrebbe che fosse, ma di attenersi rigorosamente al diritto quale esso effettivamente è nella realtà umana. In questa direzione il diritto si manifesta come l’espressione di una preferenza individuale, che, sommata ad altre preferenze individuali omogenee, riesce a raggiungere un punto critico di forza, a produrre una forza dominante, sulla base della quale si impone nel contesto sociale e si organizza secondo il modello burocratico. Questa scelta personale, spesso detta ideologica, altro non è che una preferenza estetica del soggetto, che risponde alla domanda: mi piace o non mi piace? L’organizzazione, che ne deriva, dunque, in nulla si discosta dagli stili e dai canoni estetici, che hanno accompagnato l’essere umano lungo Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano Cfr. Ferrari, Funzioni del diritto, Editori Laterza, Roma-Bari la storia nelle sue avventure culinarie, musicali, letterarie, architettoniche, pittoriche, scultoree, etc.. Non casualmente, infatti, non solo il nichilismo giuridico ha fatto la sua comparsa all’orizzonte delle nostre società con- temporanee, ma anche i modelli, le regole, i canoni, gli ordini estetici, con la modernità, sono precipitosamente tramontati. Il nichilismo si converte, a parte subjecti, in solipsismo giuridico. Il diritto è scelto da me; accettando l’inizio, anche accetto le procedure, con cui si svolge l’intero ordine di norme. Scegliendo l’inizio di un regime democratico accetto il criterio della maior pars, e procurerò di scendere nel conflitto e di inserirmi in una od altra delle forze in campo. Il solipsismo è l’essenza stessa del nichilismo; la piena consapevolezza dell’autonomia individuale umana; il riconoscimento dell’irriducibilità del soggettivismo ad oggettività; la constatazione che l’individuo è il referente ultimo ed indiscutibile di qualsiasi scelta. L’individuo osserva se stesso e, senza la duplicazione del mondo, resta solo con se stesso, con le proprie speranze, con le proprie opinioni, con il proprio senso estetico, ma anche con le proprie angosce e con un profondo senso di impotenza, che certo non riesce ad essere compensata dalla volontà di potenza insita nel nichilismo. Non deve stupire che il nichilismo ed ancor più il nihilismo dei valori terrorizzi i gruppi sociali dominanti. Sono, infatti, essi che governano più facilmente, velando la forza ed il potere con lo strumento del dover essere etico, morale e giuridico, che riescono a meglio celare i propri interessi e le proprie preferenze estetiche sotto una parvenza di universalità, di bene comune, di giustizia oggettiva. la teoria del nihilismo dei valori è altrettanto pericolosa quanto alcuni secoli orsono lo è stata la nuova immagine astronomica del mondo, e cento anni fa la teoria genetica e a suo tempo ogni rivoluzionamento delle rappre- sentazioni abituali. A lungo andare tale pericolosa verità non potrà rimanere celata; gradualmente si imporrà, e sarà pericolosa soltanto nella misura in cui durante un periodo di transizione provocherà disorientamenti passeggeri. Con il graduale adattamento degli atteggiamenti pratici di vita alla nuova visione teorica il pericolo verrà superato. Per ciò che concerne in particolare l’incombente pericolo del nihilismo dei valori, di una disgregazione morale, io non riesco a vederlo. Nessun nihilismo dei valori potrà far sì che il nostro standard Irti, Nichilismo giuridico, Cfr. V. Frosini, L’ipotesi robinsoniana e l’individuo come ordinamento giuridico, in Sociologia del Diritto morale sia più disgregato di quanto già non lo sia a causa dello scisma delle rappresentazioni morali. La Grande Divisione di Hume si trasforma, come si è visto preceden- temente, facendo cadere il termine giudizi di valore e sostituendolo con il termine giudizi di estetica. Ciò produce un certo vantaggio nel campo della tolleranza, poiché è a tutti noto e da quasi tutti accettato che i gusti sono personali e non discutibili (de gustibus non est disputandum), per- tanto non ha senso affaticarsi a convincere gli altri della maggiore bontà dei propri gusti, della bontà dell’arrosto piuttosto che dello stufato o del bollito, della bellezza dello stile architettonico romanico piuttosto di quel- lo gotico o barocco. Il soggettivismo appare in tutta la sua sfrontatezza e taglia la strada a qualsiasi tentativo di oggettivizzazione. Ma ciò vale tanto per il prossimo, quanto per il soggetto medesimo e questo fatto (si tratta di un fatto l’origine personale dei giudizi) mina alla radice ogni presuntuosa pretesa di verità assoluta. Solo l’ottusità cerebrale potrà consentire convinzioni personali certe ed intolleranti delle, altrettanto possibili quanto le nostre, scelte e ragioni estetiche altrui. Il nichilismo ha in parte contribuito a costruire questa strada ed in altra parte ne è la conseguenza. Il nihilismo, poi, ne è lo sviluppo logico più radicale, ma anche più concreto e coerente. L’inesistenza fattuale, oggettiva dei valori non poteva più trovare pudica copertura nell’ipotetica equivalenza di qualsiasi valore. Il soggettivismo non produce tante oggettività diverse, non produce alcuna oggettività. Il soggettivismo, se rende il soggetto consapevole dei propri limiti, dovrebbe guidarlo anche verso una revisione critica delle proprie convinzioni, prima che verso la censura delle convinzioni altrui. Il nihilismo non è né caos, né arbitrio capriccioso, ma semplice consapevolezza dei propri limiti conoscitivi e questi limiti, nella loro varietà, forniscono il panorama del multicolore teatro umano. La pazzia è una forma particolare dello spirito e aderisce a tutte le dottrine e le filosofie, ma ancor più alla vita di ogni giorno, poiché la vita stessa è colma di follia ed è sostanzialmente irragionevole. L’uomo aspira alla ragione solo per potersi creare delle regole per lui stesso. La vita in sé non ha regole. Questo è il suo segreto, questa è la sua legge sconosciuta. Quello che tu chiami cono- scenza è un tentativo di imporre alla vita qualcosa che risulti comprensibile Geiger, Saggi sulla società industriale Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino. Il diritto come estetica La partita intorno al nihilismo la si può giuocare solo se si considera fuorviante la duplicazione metafisica del mondo; è, infatti, solo nell’ipotesi metafisica che i valori non sono giudizi, ma fatti di una oggettività assoluta, tanto assoluta da essere trascendente. Il dualismo cartesiano, razionale (res cogitans/res extensa), potrebbe anche sussistere, giacché nulla impedisce in via teorica che le scelte estetiche siano frutto di autonoma elaborazione mentale. Intorno al tema del determinismo o dell’indeterminismo, poi, la caduta della categoria del dover essere e della sua sostituzione con il giudizio estetico, non muta la prospettiva, che resta come scelta necessaria nel primo caso e libera nel secondo. Evidentemente si avranno due diversi giudizi estetici: l’uno condizionato dal sistema e l’altro espressione della scelta, della preferenza del soggetto singolo. Resta sempre aperto il problema se il soggetto può essere completamente libero da condizionamenti di qualsiasi tipo, a cominciare da quelli culturali, ma questi condizionamenti potrebbero anche essere intesi proprio come i limiti personali, individuali della conoscenza. Deve risultare ben chiaro che né le ipotesi trascen- denti, né quelle immanenti e neppure il determinismo e l’indeterminismo possono essere sostenuti da verifica/falsificazione empirica; al massimo è possibile affermare che ciò che si verifica empiricamente è empiricamente verificabile: una tautologia, come è evidente. Il nichilismo, tuttavia, viene visto da Nietzsche, e non solo da lui, come un mostro incombente, come una sciagura del nostro mondo occidentale, ma una tale visione negativa appare eccessiva a chi scrive: Pensiamo questo pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza finire nel nulla: l’eterno ritorno. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (il non senso) eterno. È bene ripeterlo; il nichilista ed il nihilista dovrebbero mettere in discussione le proprie scelte, non le altrui, che rispondono ad un soggettivismo esterno ed estraneo al nostro e, quindi, si presentano insindacabili, in quan- to autonome. L’educazione in questo ambito è destinata a trasformarsi in autoeducazione, in autocontrollo, in autolimitazione, non certo in arbitrio verso il prossimo, sul quale non si potrebbe vantare alcun titolo, come il prossimo non può vantare alcun titolo verso il soggetto agente. Risulta evidente che etica, morale, diritto, sinteticamente, dover essere, in questa cornice risultano privi di senso, ma ciò non significa, che la vita Nietzsche, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano. Il diritto come estetica 107 umana sia priva di senso. Significa soltanto che il senso non è dato, non può essere dato, da valori né morali, né giuridici, ma solo dal soggetto stesso, ammesso che abbia senso interrogarsi intorno al senso di un essere, di un esistere che si presenta come dato ineluttabile, ineludibile, come un dato primo, come una singolarità, si potrebbe dire con espressione propria della fisica teorica. Un diritto estetico è solo espressione di una maggiore consapevolezza intorno alla realtà, non certo di un imbarbarimento dei costumi. Se, infatti, il diritto estetico è mero frutto di una descrizione, come pare che sia, e non di una scelta valoriale, allora già esiste nei fatti, come sostiene chi scrive, e nulla muta nell’averlo smascherato, se non una maggiore chiarezza sulla natura e i limiti del diritto. Il diritto estetico è un diritto positivo, che non si nasconde dietro né la trascendenza universalistica dello stato, né la doverosità metafisica della norma, ma prende atto della propria origine arbitraria umana. Del resto è interessante riflettere intorno al fatto che già in epoca romana si discuteva sull’identificazione di ius come ars. L’idea di associare alle artes la conoscenza del ius appare infatti, sia pure di fuggita e in modo concettualmente marginale, in due testi di TACITO (si veda) e di GELLIO (si veda), entrambi, curiosamente, riferiti a LABEONE (si veda). La connessione fra ius e ars è stata infatti, tempo prima, una bandiera degli studi giuridici di CICERONE (si veda). Quando Celso scriveva non poteva pensare che a lui. Naturalmente, all’epoca, il termine ars non corrisponde all’attuale significato di opera artistica, tuttavia, nella interpretazione di CICERONE (si veda) esso descrive l’elaborazione di un metodo, di una teoria tecnico-logica universale, di una dottrina razionale. Tale dot- trina, frutto dell’interpretazione giuridica, spostava sulla ragione umana il contenuto normativo e, quindi, consapevolmente o inconsapevolmente il diritto, pur sembrando trasformarsi in una forma di conoscenza e non di volontà, in realtà diveniva una elaborazione dei giuristi, una scelta relativa, arbitraria, soggettiva, come tutte le scelte umane. Nota infatti senza esitazioni Alpa: Un po’ di sano realismo consente di dissacrare i dogmi dell’interpretazione, o, meglio, di strappare il velo dell’omertà su dogmi interpretativi. Questi dog-Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino.Il diritto come estetica mi tacitando le coscienze, restituiscono tranquillità al giudice, danno conforto al dottore. Tutti questi schemi o espedienti possono essere considerati per l’appunto schemi o espedienti da parte di altri interpreti, e quindi la linea del lecito e dell’arbitrio tende a spostarsi o a non riconoscersi. Nella più parte di casi essa coinciderà con la linea che la maggioranza degli interpreti dirà essere collocata nella posizione corretta. Il soggettivismo, di cui l’interpretazione è un aspetto, esprime nel diritto estetico tutta la propria potenzialità delegittimante di stati, ordinamenti giuridici e norme giuridiche non condivise, ma semplicemente subite. Poiché l’origine dell’autorità, la fondazione o il fondamento, la posizione della legge possono per definizione appoggiarsi alla fine solo su loro stessi, sono anch’essi una violenza senza fondamento. Il che non vuol dire che siano ingiusti in sé, nel senso di illegali o illegittimi. Non sono né legali né illegali nel loro momento fondatore. Eccedono l’opposizione del fondato e del non fondato, come di ogni fondazionalismo o di ogni antifondazionalismo. Anche se il successo di performativi fondatori di un diritto (ad esempio, ed è più di un esempio, di uno Stato come garante di diritto) suppongono delle condizioni e delle convenzioni preliminari (ad esempio, nello spazio nazionale o internazionale), lo stesso limite mistico risorgerà all’origine supposta delle suddette condizioni, regole o convenzioni e della loro interpretazione dominante. il diritto è essenzialmente decostruibile perché il suo ultimo fondamento per definizione non è fondato. Ancora una volta per discutere del fondamento si deve uscire sia dal soggettivismo, sia, conseguentemente, anche dall’empiria, per entrare in una qualche forma di duplicazione mistica del mondo. L’alternativa, sempre possibile resta il nichilismo/nihilismo, ma anche del nichilismo/nihi- lismo si può avere una versione metafisica ed una non metafisica legate alla sorte dell’Essere e dell’Ente: inesistente, il primo, (metafisica come affermazione infondata); in dissoluzione, il secondo, (come espressione empiricamente verificabile/falsificabile). Se l’Essere è inesistente la me- tafisica diviene priva di fondamento, mentre l’Ente, dissolvendosi nel non essere, appartiene al mondo dell’empiria. Tuttavia la dimensione metafisi- ca può anche sopravvivere, monoteisticamente, con un Essere molteplice, Alpa, Interpretare il diritto: dal realismo alle regole deontologiche, in Derrida, Vattimo (cur.), Diritto, Giustizia e Interpretazione, Laterza, Roma-Bari Derrida, Diritto alla giustizia, in Derrida, Vattimo (cur.). Il diritto come estetica ad esempio, nel Cristianesimo, con una Divinità una e trina e, nella Gnosi, con il progressivo alienarsi, decadere del divino nella materia, (in alterna- tiva politeista: con una molteplicità di Esseri equivalenti) oppure con un Ente cristallizzato, che si manifesta immutabile. Ma anche la negazione, il nulla, se dotato di esistenza, di presenza e non di assenza, vincola alla metafisica. Si sarà già capito che il nichilismo rimane impigliato nella metafisica fino a che, anche solo implicitamente, si pensa come la scoperta che là dove crede- vamo ci fosse essere, c’è, in realtà, il nulla. Così, dove credevamo ci fossero principi della legge c’è solo l’arbitrio del legislatore o dell’interprete, la de- cisione infondata, e per questo essenzialmente violenta, che deve essere resa accettabile dalla finzione delle affabulazioni, o da una accettazione motivata misticamente (nella versione kierkegaardiana del nichilismo). Una definizio- ne non metafisica del nichilismo si può invece formulare richiamandosi all’e- spressione con cui Heidegger caratterizza la storia del nichilismo nietzschiano: nichilismo è la vicenda nella quale dell’essere come tale non ne è più nulla. Nichilismo, se non deve e non può intendersi come la scoperta che al posto dell’essere c’è il nulla, non può che pensarsi come la storia senza fine – senza conclusione in uno stato in cui al posto dell’essere c’è il nulla in cui l’essere, asintoticamente, si consuma, si dissolve, si indebolisce. Il Nulla è entità metafisica al pari dell’Essere, tuttavia, paradossalmente, tale negazione dell’Essere, del Principio può trasformarsi, capovolgendosi, in affermazione a livello di teologia negativa. Scrive, infatti, Emo: Il principio. Dobbiamo cominciare con un principio. Ma, nessun principio è definibile od oggettivabile. Dobbiamo dunque cominciare con la rinuncia ad un principio, il che equivale ad una negazione del principio. Ed è appunto questa negazione che è il principio. Il cogito. Come passare da questa negazione alla presenza. Dobbiamo contemplare l’origine della negazione. L’assolutezza della presenza consiste in questo: che essa non è presenza in quanto presenza di qualcosa, ma è presenza per sé, in quanto cioè nega ogni cosa. Nega ogni cosa che non sia la presenza stessa. Il suo essere pura presenza è un essere presenza di... che è un essere presenza di nulla, quindi è un negarsi, appunto perché è un ridurre a presenza Vattimo, Fare giustizia del diritto, in J. Derrida, Vattimo (cur.), Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici, Il diritto come estetica La negazione diviene, metafisicamente, affermazione proprio per la sua alienazione da qualsiasi affermazione. Ma questa affermazione negativa della metafisica si distingue dall’affermazione positiva dell’empiria, poiché mentre quest’ultima è oggettivata, individualizzata, è parte di un tutto, la prima, invece, è puro soggetto, privo di specificazioni e qualità empiri- che, proprio perché le trascende come puro Essere. In questa logica negativa conoscenza e volontà, pur coincidendo, si connotano come non conoscenza e non volontà. Ovviamente, l’ipotesi si capovolge nella metafisica positiva, nella quale conoscenza e volontà si presentano come assolute, e scompare nell’empiria, ove la negazione è metamorfosi, ove il nulla è essere altro. Tuttavia anche nella metafisica negativa il nulla sembra scivolare nell’altro, tanto altro da essere al di là della fisica e della metafisica, ossia del pensiero umano, ma questo altro è a sua volta nulla, almeno per la dimensione conoscitiva umana, che non riesce a comprendere un altro non umano e fatica ad immaginare una nullità, una assenza assoluta. Tornando ora in modo più stretto al tema del diritto, è possibile riassu- mere quanto detto nel seguente modo: se conoscere e volere coincidono a livello metafisico, nella realtà fisica possono sia coincidere (Spinoza), sia non coincidere (volontà di potenza) e lasciare spazio a scelte soggettive. Il diritto, inteso come estetica, consente di non rinunziare al diritto, pur relativizzandolo, e di affidare al singolo soggetto l’adesione o meno al diritto dominante, che in questo modo non rappresenta più una obbligatorietà, ma l’alternativa tra una vita omologata, ma sicura (forse), ed una vita originale, deviante, ma pericolosa. La norma estetica può essere obbedita o disattesa. Il disattenderla, senza possedere una potenza, una forza sufficiente a piegarla alla propria volontà, significa soccombere alla forza dominante. Disattendere il diritto diviene una scelta come tante altre, della quale si possono subire le conseguenze, generalmente sgradevoli. Il determinismo o la volontà di potenza governano comunque il sistema umano, ma almeno non sopravvive l’inganno di un mitologico dover essere, frutto dell’ulteriore sdoppiamento nel soggetto che agisce e nel soggetto che guida l’azione. Nichilismo/nihilismo, in sintesi, sono la demistificazione del mondo ed il diritto estetico è ciò che resta del diritto dopo questa demistificazione, che, tuttavia, è solo empirica e, quindi, non può fornire certezze assolute. Ma l’incertezza, il dubbio sembrano proprio essere il sigillo della condizione umana. Infatti, la duplicazione del mondo, dei piani della conoscenza e della volontà si presenta come una possibile via di fuga dall’incertezza, dalla solitudine angosciante dell’individuo; ma, al contempo, è anche la misura fisiologica del biologico, della stirpe animale ed umana. La duplicazione, dunque, si manifesta sia come una contromisura psicologica ed artificiale Il diritto come estetica 111 alla condizione umana di assenza di senso esistenziale, sia come naturale moltiplicarsi e perpetuarsi della vita. La singola cellula aliena parte di se stessa, scindendosi in due cellule. Dalla madre fuoriesce per espulsione viscerale la prole. Le scissioni, il sacrificio di parte del proprio corpo per generare il corpo dell’altro è un processo traumatico di riproduzione, che tendenzialmente volge verso l’infinito, salvo eventi esterni ed imprevi- sti, che ne interrompono lo sviluppo. Dall’uno scaturisce per rottura un secondo uno, il due, ed, una volta iniziata la pluralità, automaticamente, sopraggiungono gli altri numeri (3, 4, 5, 6, ..., infinito). Anche l’infinito, come idea, è richiamato da questo processo moltiplicativo, ma, come in matematica, è una duplicazione (finito/infinito) espressione di un processo al limite, che mai si compie, che, per sua stessa natura, non può compiersi, giungere al termine, altrimenti cadrebbe la duplicazione stessa e resterebbe solo il finito. La vita propone la tentazione dell’infinito, ma, subito, infligge la disil- lusione. Ogni duplicazione si presenta come speranza e si accomiata come sconforto. Resta solo un soggetto, della cui identità tutto o quasi si ignora (dell’oggetto, poi, non vi è neppure certezza della sua stessa esistenza), con il proprio sentire incomunicabile se non attraverso l’atto comportamentale. Un sentire percorso da limiti organici, stimoli, motivazioni, giustificazioni, condizionamenti, influssi misteriosi, comandi metafisici, etc., ma pur sem- pre riducibile ad una semplice alternativa: mi piace/non mi piace. Nella solitudine dell’essere è questa l’unica certezza; una certezza dal contenuto vario e variabile, come vari e variabili sembrano essere i singoli soggetti; una certezza che può essere definita estetica. Morris Lorenzo Ghezzi. Morris L. Ghezzi. Gezzi. Keywords: i tordi ubriachi, i tordi, tordo, “drunk as a thrush/newt” turdus ubriacus – sturdy – I tordi -- nihilism about values, Mackie, Inventing right and wrong, Hare, emotivism, Grice, The conception of value, valitum – valore – axiology, stato federale, federazione, fascismo, il fascismo e la autobiografia d’Italia – Gobetti – statocentrale – diritto – diritto naturale e diritto artificiale – assiologia, codice valoriale, fierezza, onore, massoni, bruno, Alighieri, conte Cagliostro, bobbio, nihilism, nichilismo, pena e castigo, Beccaria, delitto, delinquent, delinquenza, devianza, diritto come estetica. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghezzi: l’implicatura del tordo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Ghisleri: la ragione conversazioanale e l’implicatura conversazionale dell’atlante filosofico – federalismo contro-rivoluzione – lo stato – filosofia ravenese – scuola di Ravenna – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cascina Sant’Alberto). Filosofo ravenese. Filosofo emiliano. Filosofo Italiano. Casina Sant’Alberto, Ravenna, Emilia Romagna. Grice: “Whereas to many, Ghisleri’s best work is that on Ancient Rome and counter-revolution, I treasure the details: ‘the pen is like a sword’ – ‘the pen and the sword.’ “The pen is my sword.’ Note that the first is a mere simile – as used by Ghisleri, but his executor turns it into a metaphor just by eliding the ‘like’ (“come”). Grice: “I like Ghisleri – a typical Italian philosopher; wrote on geography, on ‘la penna d’oca,” and a fabulous history of Roman philosophy!” --  “He was into politics, too!” L'Italia non è studiata, non è conosciuta dagli italiani. Dobbiamo rifare la nostra educazione politica e civile sulla base di una nuova e più razionale conoscenza del nostro paese. Dobbiamo studiare l'Italia regione per regione nella natura del suolo, nella sua topografia, ne' suoi prodotti nelle sue industrie, ne' suoi dialetti, nelle sue tradizioni, nelle sue varie necessità politiche e sociali.” Fonda La Società dei Liberi Pensatori (L’'Associazione Nazionale del Libero Pensiero Bruno) di chiare simpatie democratiche e repubblicane. Iniziato in Massoneria, l'anno seguente entrò nella Loggia "Pontida" di Bergamo e fu affiliato alla Loggia Cattaneo di Milano.  G. diede alle stampe una nuova rivista mensile, Cuore e critica, rivolta all'educazione civile e agli studi sociali ed espressione di un'avanguardia intellettuale impegnata nella costruzione di una coscienza repubblicana e progressista. Sorta a Savona, la redazione della rivista si trasferì a Bergamo, in coincidenza con il trasferimento del G. al Sarpi di quella città. Si dedica con assiduità agli studi di geografia e di cartografia, che aveva cominciato a coltivare quando insegnava a Matera. Allora si era sentito mortificato nel constatare che nelle scuole italiane venivano adottati atlanti stranieri, assai carenti nel trattare la geografia storica dell'Italia. Dopo aver pubblicato il “Piccolo manuale di geografia storica” (Bergamo) volle perciò cimentarsi in un'impresa che non era mai stata tentata: la realizzazione di un testo-atlante che desse il dovuto rilievo all'evoluzione storico-geografica dell'Italia. Al progetto fu interessato lo stabilimento "Fratelli Cattaneo di Bergamo" che, grazie al successo delle iniziative editoriali promosse da G., si trasformò in Istituto italiano d'arti grafiche e s'impose nel settore della cartografia. G. concepì il suo atlante in modo da offrire per una stessa regione molteplici carte e cartine con le denominazioni e le divisioni topografiche proprie di ogni epoca. L'apparizione dell'atlante fu salutata dalle lodi di esperti e studiosi, ma suscitò anche riserve di parte del mondo accademico, che rimproverava al G. superficialità e la commistione tra la geografia fisica e la storia dei popoli, delle civiltà, delle esplorazioni, dei commerci. Commistione del resto ricercata dal G. che, in polemica con il tradizionale approccio alla geografia e senza sentirsi condizionato dai limiti angusti dei programmi scolastici di allora, perseguiva metodi nuovi nello studio e nell'insegnamento della materia. Tenne la cattedra di filosofia nel Liceo di Lugano. Giornalista, fu direttore di «La geografia per tutti» e «Le comunicazioni di un collega».Di idee mazziniane, recepite soprattutto nella versione che ne proponeva Saffi, in campo politico fu vicino ai movimenti rivoluzionari e collabora con Gaudenzi alla fondazione del Partito Repubblicano Italiano. Tuttavia Ghisleri non fu un ideologo sistematico: una sistematizzazione del suo pensiero è soprattutto opera di Conti.  Diresse la rivista Preludio di stampo filosofico positivista e progressista. Diresse L'Italia del popolo.  Al Congresso del Partito Repubblicano, tenuto a Forlì, intervenne con una relazione su La questione meridionale e la sua logica soluzione. Demofonti, La riforma nell'Italia del primo Novecento: gruppi e riviste di ispirazione evangelica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Vittorio Gnocchini, L’Italia dei Liberi Muratori, Milano-Roma, Mimesis-Erasmo. Altre saggi: “La Scapigliatura democratica: carteggi” (Masini, Milano), L'archivio di G. fu ritrovato da Masini ed è depositato presso la Domus Mazziniana di Pisa. Democrazia come civiltà. Il carteggio G.-Conti, Antonluigi Aiazzi, Libreria Politica Moderna, Firenze, Tripolitania e Cirenaica dai più remoti tempi sino al presente, Emporium, novembre, Tripolitania e Cirenaica, dal Mediterraneo al Sahara, monografia storico-geografica, Società Editoriale Italiana, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Le meraviglie del globo esplorato e le zone non ancora conosciute Letture geografiche Società Editoriale Italiana, Milano, Bagdad e la Mesopotamia nel passato e nell'avvenire, Emporium, giugno, Lombroso nella vita intima, Emporium, L'ultima colonia africana della Germania, Emporium, Atlante scolastico di Geografia moderna astronomica-fisica-antropologica,Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo (a cura dei professori Magg. G. Roggero, G. Ricchieri, G.) Saffi. La vita, gli studi, l'apostolato, Libreria politica moderna, Roma, La questione meridionale nella soluzione del problema italiano, Libreria politica moderna, Roma, “Testo-atlante di geografia storica generale e d'Italia in particolare, espressamente compilato per le scuole italiane conforme ai loro programmi- I Mondo Antico; II Storia Romana; Fratelli Cattaneo e poi Istituto di Arti Grafiche, Bergamo. Medio Evo, Evo Moderno e contemporaneo Atlante d'Africa, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Antipode, a Radical Journal of Geography, Berardi, Verso un nuovo Risorgimento. Il Carteggio tra G. e Belloni, Acireale-Roma, Bonanno, Dizionario biografico degli italiani,  L'Italia risorgimentale di G., Milano, Angeli, Benini, Vita e tempi di G., con appendice bibliografica, Manduria, Lacaita, Tomasi, Scuola e liberta in G.: con una scelta di lettere inedite dell'archivio G., Pisa, Nistri-Lischi, G.: mente e carattere: L'Italia e la rivoluzione italiana, Milano, Sandron Editore, Treccani. G., su siusa. archivi. beni culturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Opere di G., su Liber Liber. Opere su open MLOL, Horizons. ANTROPOGEOGRAFIA. Antiobb oe. Sti b vicbndb storiodb DBLL'ITAbiA 6RTTKNTRI0NALB. Avanzi di armi e di strumenti di pietra primitivi, preistorioi (punte di  soioe» epeoie di asole oon.) e poi di bronzo e di  ferro» nonobè avanzi di palafitte, di abitazioni  umane, dei pasti, di oggetti diversi ritrovuti In  più luoghi nel sottosuolo, dimostrano ohe l'Italia  settentrionale fu abitata nelle età più remote,  anohe prima^ del xieriodo storioo, quand'ossa era io gran parte oooupata da foreste e da paludi. Ma  di oodesci primissimi aoitanti ben pooo» quasi nulla   Allorché si oominotano ad avere documenti sto-  rfoi sulle popolazioni dell* Malia settentrionale  questa si trova abitata in qualche tratto delle  Alpi centrati dai Reti, di stirpe etrusoa» ohe la¬  sciarono il loro nome alle Api Retiohe; ma per  massima parte del resto, sopratutto nel bassopiano  Padano (dove sono attualmente il Piemonto, la  LombardÌa»l'Bmilial» dal OtltioÒollif da ouÌ venne  appunto il nome antico éìOallia ei$alpina. Nella  attuale Liguria, invece» erano i Liguri, ohe si ore-  dono afnni alla stirpo Iberica» e nella parte orientale 1 Kensff» di stirpe Illirloa, il ouÌ nome sioon-  Borva appunto anohe attualmente.   l Romani più tardi si sovrapiiosoro agli abitanti  e li assimilarono; non oosl però ohe non si distinguano anoora» soprattutto nei dialetti» le tracce  delle antiche genti nel vari oompartimenti. Pinal-  roente nel medio evo avvennero lo Invasioni bar¬  bariche. Ma i Oérmanici invaoori, rolatlvamento  I>oohl di numero» invece di far soomparire ia popolazione vinta, si ooufusoro oon essa» adottandone la piviltà e la lingua o lasoiando di sO appena { ricordi in certi nomi (ad es. Lombardia dai Longobardi). d. U. Carlo Magno» re del Fronohl, vinti  i Longobardi, fu dal PonteHoe di Roma incoronato  Imperatore Augusto, considerato cioè quale erede  dell'autorità e dei diritti dell'impero Romano  d’Oecidontei il quale, almeno di nome, durò fino  al jprinoipio del 13ii0, vale a diro por diooi seooli.  H}' in baso a tali diritti ohe Carlo .Magno e i suoi  Huooessori pretesero al dominio dell'Italia e spooiulmente deiritalia sottoritrioiialo e della centrale» mentre l'Italia meridionale oontfnuò per  oiroa due seooli a conslderarsi inolusaneir impero  d'Oriente greoo-bisantino. Passata Uopo raen  di un sooolo, la oorona imperiale dai diretti di- Noendenti dì Carlo Magno ai ro Germanioi anche  l'Italia settentrionale e oentralo fooe parte del  oosiddetio Sacro Romano Impero della nazione  Germanica e fu divisa in feudi, assegnati ai vassalli dei sovrani tedoaohi. Questi però si trovarono  in lotte continue tanto oói Pontefloi di Roma,  quanto oolle popolazioni» soprattutto delle città;  le quali, cresciute in potenza e rionhezza oon le  industrie e ool oommorol. vollero ornanoiparsi e  governarsi sotto forma di liberi Comuni. Alcuni  di ouosti, oome Milano e le città marittime di Ve-  nesia e di Genova acquistarono, colla libertà» una  importanza e potenza, una gloria e prosperità  sempre maggiore. Disgraziatamonto. però» le  lotte fra oittà o oitt.à o quello intorno tra lo olassl  scoiali, prepararono la trasformazione dei oomuni  in signorie» e mantonnero l'Italia divisa e militarmente debole proprio nel moatroaldi là delle  Alpi, in luogo del frazionamento dei feudi e del  oomuni, si costituivano doi forti regni unitari e  nazionali» ohe volgevano gU occhi cupidi all’UaHa»  giunta allora al colmo della floridezza eoonomioa  e oivile.   Cosi fu ohe dalla fine del 1400 Tltalia fu Invasa  Uni Franoesi. d.'igli Spagnoli dai Todesohl. Bonza  ohe gli Stati Italiani opponessero valida resistenza  D'allora In poi soltanto*11 Piemonte sotto la Gasa  di Savoja e la repubblica di Venezia poterono  oonsorvaro la loro indipendenza» mentre 11 diioato  di Milano fu occupato dagli stranieri e anohe gli  nitri stati minori (Ducato di Parma, di Modena,  Murobesato di Mantova eoo.) orano ad essi indiret-  laiuonte soggetti.   Dulia metà del 1500 fin al prlnoipio del 1700 dominò 008 ) nell'Italia settentrionalu la Spagna» a  oiG suooedette l'Austria, mentre una parte d*d-  l'RmiUa (la cosiddetta Romagna oon Bologna, Ravenna» Ferrara) apparteneva alto stat^/dolla  Chiosa.  1« rivoluziono Francese e quindi l'epoca Napoloonioa portarono anohe  nell'Italia settentrionale grandi mutamenti. Pur  troppo però il Congresso di Vienna del 1815 assegnò la tradita reptibblloa di Venezia oon la Lombardia airAustria, mentre la Casa di Savoia ag- U Liguria al Piemonte ed alia Sardegna,  le derivava il titolo del itegno. tla l’e-  rimento per la liberaiione nazionale trovò  nel Piemonte e nell’Italia settentrionale  mtri e focolari maggiori e s’iniziarono le  ria unità e l’indipendenza, l’ultima delle .  tra coronata dalle gloriose vittorie del  li Vittorio Veneto. (Ved. Atl. tav.).  22. Sdpbbfioib b popolazionb. Sopra  una superfloio ohe si può oaloolare, entro  ai oonfiiii fisioi, di circa 132 000 kmq., ha  ora una popolazione che ei calcola di circa  18 700000 di ab.   pi codesta superfloie i oonBni del Regno inelu'  devano finora soltanto lOiUOO km oiroa, mentre  ora ne inoludono IZ7 000 ; e includevano otre» 16  milioni 0 >/z di ab., mentre ora la popolazione,  per i nuovi acquisti (oiroa 1 milione e i/il o per il  oaturale aumento annuo, si oaloola di oiroa 18 milioni. Tale popolazione tende continuamente  a crescere, nonostante la forte emigrazione  di alcuni compartimenti, soprattutto del  Veneto, del Piemonte e della Lombardia. La densità dunque dell’Italia Bettentrionale entro ai nuovi oonBni del Regno risulta in media 141 ab. per kmc^., mentre  entro ai vecchi confini sarebbe di IBO. L’Italia settentrionale ha perciò una densità  superiore alla media di tutta Italia, che  nei 1921 risultò di I2fj ab. per kmq. ed è  fra le regioni d’Europa più popolose.   La densità tuttavia è inuguale, perohò in certe  province supera 200 e In quella di àlllano arriva  fino a 002 ab, per kmq. mentre in altre e speoial-  mente nelle regioni montuose può soendero a  mono di 60 por kmq. Oltre a oio 6 da osservare  ohe, aehbeue la popolazione per le indusirie tenda  ad aumentare nello città, anche la popolazione  eparea deU'ltalia settentrionale 6 assai numerosa  e vive in case sparse e in pioooli villaggi, ohe  dànno alle sue campagne un aspetto molto dille-  rento da quello dell’Italia meridionale e della  Bioilia. Delle città deli’ Italia settentrionale considerate nella cerchia del comune, una supera  ormai i 700 000 ab-, Milano  una e^cra  già '/; milione, Torino  una supera 300000  ab., Genova due superano 200 000,  Trieste e Bologna  una vi s’avvicina,  Venezia  due superano 100000, Padova e  Ferrara, mentre altre due vi si avvicinano,  Brescia e Verona. La popolazione di quasi  tutte le città dell’Italia settentrionale  tende a crescere.   83 Gruppi ni liroua  kazioràlitX btraviera   Abbiamo già detto ohe nelle valli Alpine Piemontesi (speoialmonte in Val d’Aosta e nelle valli  dpi Valdesi) si parla tuttora franoeee da oiroa SS  mila individui: i quali sono però di eentimenti  nazionali perfettamente italiani. Ugualmente  legati alla nazionalità italiana sono quelli ohe parlano tetteeoo nelle valli intorno al m. Rosa (Qros-  soney. Alagna, Maougiiaga) oiroa 4mila; nell'altopiano dui Sette Comuni in provinola di Yioenza,  oiroa 3 mila; e nella Gamia, circa 8 miU. mentre  inve-ie li popolazione tedeso.a dell’Alto Adig^  oompatta nelle valli superiori, oaloolata circa ZOO  mila Individtii.ò stata finora delle piò ostili contro  l'Italia. Finalmente nel Friuli orientale si trovavano finora entro i confini del regno oiroa -tO mila    Sloeeni ispnoialmente intorno a Cividale) anoh'essi  nazionalmente fedeli all’Italia: ma oltre ad essi  si trovano Inoluai entro 1 nuovi confini del regno  d’Italia, noi baoino dell’Isonzo, nella otttà e nel retroterra di Trieste, nellTstriao nello Statodi Fiume  oiroa i/i milione di Ulaoi (Sloreni e Croofi) finora  molto ostili agli Italiani.   24. OoOUFàZlONI OBOLI ABITANTI  PBO-  DOTTi - IsTRCzioME. (V’cd. Atl. tav.).L’agricollura occupa il maggior numero di  abitanti ed ò in più luoghi agricoltura in¬  tensiva, con vigneti (specialmente in Pi^  monte) ed orti e veri giardini per la colti¬  vazione dei fiori (in Liguria), con campi  ohe dànno un prodotto por ettaro pan a  quello dei paesi più progrediti dollaTerra, con risaie (speoialmonte in provinoia  di Novara), con prati irrigui (maroite) specialmente nella bassa Lombardia,  ohe permettono il girando allevamento del  bestiame e l’industria pel cas«i;?cto (nel Lo-  digiano, come pure nel Parmigiano);  finalmente con cana;i«/t, soprattutto nell’Emilia,  con la coltura della barbabietola da  zucchero (nell’Emilia, nel basso Veneto e  altrove). Gli olivi dànno copioso prodotto  nella Liguria e i gelsi diffusi in tutto il  bassopiano permettono uno sviluppo della  bachicoltura, che rendo l'Italia unode^aesi  di maggior produzione dellaseta nella'Terra. La Venezia Tridentina darà all’Italia grande  quantità di tranarneoou i nosoni, oue si trovano uu-  nbe in altri luoghi, ma non eooossivamonte al>-  londanti nulla zona alpina. La pesca t> fonte  abbastanza importante di guadagni lungo le coste  dell’Adriatico e nelle lagune (ealli di Gomaoohio  eco.); ò pooo frutti fra invece nel mar Ligure.   Ma l’occupazione che subito dopo all’agriooltura ha raggiunto nell’ Italia settentrionale uno 8vilup(K) grandissimo ò Tindusfria nelle sue svariatissime manifestazioni. Sotto questo riguardo l'Italia settentrionale  supera senza confronto il resto d’Italia e può  gareggiare con le regioni più industriali dol-  Pestero, nonostante la mancanza di materie prime (metalli, carbone, cotone eoc.)o)io  è uno degli ostacoli maggiori alla prosperità  eoonomioa del nostro paese. Alla mancanza  di carbone mal si provvede con le ligniti o  con il poco petrolio dell’Emilia e molto più  efficacemente, invece, ma sempre in modo  inadeguato ai bisogni, con le energie elettriche ottenute dai corsi d’acqua. Iva le industrie piti importanti e sviluppate sono  quelle metallurgiche o mecoaniohe per fusione e  lavorazione di metalli e fabbrioazione di maooliine,  di automobili, di navi, specialmente a Milano, a  Torino, a Genova e dintorni (8. Pier d’Arena. Savona eoo.), a Venezia, a Trieste ed anche in altre  località, come nel Bergamasco e nel Bresciano. Non meno importanti sono le induatrie teeaili:  soprattutto della eeta, a àlilano. a Como e altrove,  in modo da gareggiare con I piu progrediti paesi  della Terra sotto questo riguardo ; del ootone, pure  nel Milanese e nelle province di Torino, di Novara,  di Como, di Bergamo, di Genova. Por la lana hanno  acquistato fama soprattutto i dintorni di Biella  (prov. di Novara) o di Schio (prov. di VIoenza).   Delle induetrie alimentari ha preso grande svi-    gliingova  dalla qua  foioo mo'  appatj»^  { •uoi 06  ^crre pe  quali fu 5  Piave e d luppo negli ultimi anni quella iJello xùcchero di  barbabietola specialmente nell’Elmilia, nel Veneto  o in Liguria. A (lenora sono anche numerose le  fabbrlohe di pa*r«. R nell'Sìmilia sono (famose le t alum trix di Modena e di liologna. Terzo grande ramo d’oootipazione degli  abitanti nell’ Italia settentrionale sono il  commercio e la navigazione; il primo agevolato dalla posizione goograflna, e dalla  rete ormai assai svilupjjata ui strade, e specialmente di ferrovie, ohe s’intrecoiano in  tutti i sensi e traversano, come abbiamo  veduto, le Alpi e gli Appennini. Ad esse s’aggiungeranno Io vie d’acqua interne, specialmente quella Padana. La navigazione ò occupazione delle pili  antiche per gli abitanti dei litorali della  Liguria o del Veneto, dove sorsero nel medio  evo le più potenti città marinare di quei  tempi. Uenclib superati ormai sulla Terra e  nello stesso Mediterraneo da altri d’altre  regionij i porti di Genova, Venezia e Trieste  gareggiano con i maggiori od è a crederò  furmamente che avranno uno sviluppo  commerciale sempre più intenso. Por tutte questo ragioni l’Italia settentrionale supera le altre parti d’Italia in  ricchezza e in generale anche nelle varie  formo di vita civile. Wistruzione vi è notevolmente sviluppata, d’ogni ramo o grado:  gli analfabeti, sebbene pur troppo non  manchino, sono in generalo in numero minore ohe altrove, soprattutto nel Piemonte  tu su 100 ab. d’oltre 6 anni), nella Lombardia (13 su 100) e nella Liguria (17 su    25. Rboio.vi stobiohb b divisioni aumini-  STRATivB.  Come già abbiamo detto, l’I-  tiilia settentrionale si divide in 8 compartimenti 0 regioni storiche : Piemonte. Liguria ool Nizzardo, Lombardia, Canton Ticino,  che costituisce la parto maggiore della Svizzera italiana, Venezia propria, Venezia Tri-  dentina, Venezia Giulia con lo Stato di Fiume,  ed Emilia, con la piccola repubblica indipendente di S. Marino. Di questi compartimenti o regioni storiche (delle quali il Canton Ticino o il Nizzardo, oltre a S. Marino, non fanno parte  del Regno d’Italia) diamo qui sotto la superfìcie e la popolazione, secondo il censimento. Si noti, però, ohe tale  superfìcie e popolazione corrisponde alla  somma di quelle delle provinole (che sono  le maggiori oiroosorizioni amministrative  del Regno) ; ma i uonfìni di queste non  sempre corrispondono ni oonfìni fìsici, etnici 0 storici dei compartimenti. In fìne al volume diamo in una tabella  i dati statistici particolari per le varie provinole.   Si noti poi ohe la popolazione che indichiamo fra parentesi per le varie città nella descrizione dei vari compartimenti corrisponde a quella della cerchia del comune,  non del centro principale abitato, che h  la città vera. Tra l’una o l’altra di tali  cifre vi sono assai spesso differenze grandissime, ohe rileveremo a mano a mano  quando l’occasione se ne presenterà.    Dati statistici relativi alle ragioni  dell’Italia settentrionale. Entro 1 nuovi confini politioi e amministrativi. Superficie Popol. In km>   assol.  relat.  l’iemonto Liguria Iximbardia Vanesia propria Venezia 'Tridentina Venezia Giulia Emilia RepubhItQt di 8. Marino Nizzardo ool Principato di Monaco Svizzera italiana   Dati piò speolfioati, soprattutto per lo'province.   Si trovano in aopendioo at fasotoolo. lo  IL PIEMONTE.   r   Confini e nosloni generali. — Il Piemonte (In S  latino ftdemontium, oioO paese pie’ di monti) si T  può dire all'insrosso limitato a H, a WeaN dalla {  crosta dell’Appennino Ligure e dello Alpioocideu- 1  tuli 0 t'entrali fino alle sorgenti dolla Tooe e al 4  lago Maggioro. Verso R. il Ticino lo divide soloiJ in parte amministrativamente dalla I.ombordia, <|  perohò a questa appartrngono la Lomellioa o il I  cosi detto Oltrepò Pavese, formante il curioso ou- 4  neo di Bobbio. '4   Pisioaraento ooraprondo: la sona alpina; la pla-iL  nura piemontese da Ounoo ai Ticino, Il paeso ool- J  linose del Monferrato e la pianura di Marengo. Y   Divisione in province.  II Piemonte, di oul /  sopra abbiamo indioato la suporfloie e la popole-'V  alone a>soluta o relativa, ò diviso in t province:  ili Torino (!• per superlicfe e per popolaaione) ohe 'I  abbraooia l'angolo NW del compartimento, cioè   gran parte delie Alpi Ponnlne, tutte le Graie italiane e parie dolio Cozie, un tratto piano luogo il  Poe le colline sulla destra del fiume; di Cuneo  (Z» per Slip.. 4* per popolaz.) ohe oooupa l’angolo'  SW ;  di A.le%8andria (4* por sup. o 2» por pope- ’  laz.) por niussima parto formata dal Monferrato;! di Novara (»• por sup. e por popola:.) a NE, ,  par.e alpina e parte piana. Occupazioiij degli abitanti e prodotti. I vi-, gneti ^ecialmentc del Monferrato e lo]  risaie aoì Vercellese, dànno i prodotti più  caratteristici del Piemonte. Il quale ha grande sviluppo anche industriale a Torino e dintorni (industrie metallurgiche e meccaniche), nel Diellese per la tessitura di lana, in parecchi luoghi per filatura e les-J  silura di cotone, in Valsesia per cartiere   Città principali.  Torino 6'20) capitale de l  Piemonte, è per alcuni anni già capitale del regno d’Italia, o entro]  deU'tilt.i valle del Po e delle relazioni cora-J  meroiali terrestri dell’Italia con l’Buropa oc-1  cidentale à, dopo Milano, la più iniuatriale]  città d’Italia. Si distingua da tutte le^altrej grandi oitt& italiane per la re^olarith delle  vie o le sue costruzioni tuoderno. Torino Tu oiilU 'Ini risor|;irapnio itahiiiio r pa¬  tri» t' 'lliiKtrl uomini, comi- U ih'ranso, Kali'O, liio-  (mrtl. IVAmifiio e, superiore a tutti. Camlilo (;.i-  yn,,r HiiI rioinn nnlle 41 Kurerir» /> la hasllina ohe  oontiene le tomtie dei re e prinoipi di Casa Barola  flno a Carlo Alberto.   Impila provincia di Torino sono da ricordare an-  oorii: /rrea allo sbocco dolla valle d’Aosta, città  d'orisine romana di notevole importanza storica e Aosta I Mianch'essa d'origine romana e capo-  luogo doila bellissima valle, a oui^dà il nome. Cuneo, allo sboooo delle etrmle dei  passi di Tenda e dell' Argenterà. Sostenne  oon esito felice otto assedi dei Francesi.   Nella sua provincia è Saluteo, giàrapoluogo  di un Uarohesato, patria di Silvio Pellioo. Novara, molto commerciante. Sotto le  sue mura avvennero importanti battaglie. Grande centro di proiluzione di riso. Nella sua provincia: ttirl/a, soprannominata  la àlanohostor d'Italia, per le sue numerose e Ho-  renii industrie.  VtretUi, antiohisaitna città  sulla ferrovia Torino-àlilano, in territorio fertilissimo: centro del mercato del riso. Alessandria, fondata dalla Lega Lombarda contro Federico Barbarossa alla confluenza della Bormida eoi Tànaro, nella  pianti rar di Marengo : ebbe in passato no¬  tevole importanza strategica. Nella Rum provincia: Asfi (àO), città antichissima,  repubblica dei medio evo; centro vinifero del Piemonte. patria di Vittorio Autori.  Aeaui, famosa per le sue aocue termali, da cui ha li nome. Uanal* Monferrato), sulla destra dei Po, già  oapiiale del ducato di Monferrato. Importante centro vinloolo. LA LIGURIA. Confini e nozioni generali La Liguria fl-  slonmente oooupa il versante dell’Appennino e  delle Alpi Idguri rivolto al mare, arrivando a W entro I oonfini politioi o amministrativi fino alla valle  della ifoja e ad K verso la Tosoana (Ino alla foce  della .Magra. Etnograficamente però ed anche am-  inliiistraciraraente la Liguriapassa in qualohepunto  al di là della cresta spartiacque. Oonlina perciò  con la Pranoia, oon il Piemonio, por breve tratto  oon la lx>mbardia, in causa del cuneo di Bobbio,  oon l'Emilia e oon la Tosoana. Divisione In province. Ni divide in duo prorinoe: di Genova a E (la maggioro per sup. e  par popol.) e Porto Maurizio a W.  Occupazioni degli abitanti e prodotti. Suolo  ristretUL moatuoso e naturalmente poco  fertile. Gl’abitanti però seppero trarne il maggior profitto, coltivandolo a giardini ed  orti, che dànno, per il clima, fiori e legumi  primatiooi, ohe si spediscono in altre regioni d'Italia od all’estero. Altri prodotti  abbondanti sono: olio, castagne, vino e ariimi. Le industrie prinoipali sono quelle el ferro e dei cantieri navali a Genova, a  S. Pier (l’Arena, a Savona ed alla Spezia;  poi quelle ohiraiebe (zucoherifloi), del cotone, eco.. Ma la riochozza di Genova b  il commercio marittimo, che supera quello  di tutto il resto d’Italia. Città principali. Genova (300), sorta nel punto della costa ligure pili opportuno per  le oornunicazionì ool bassopiano Padano, è  il primo porto e insieme una delle pili belle  citth d' Italia. Edificata ad anfiteatro su per il monte, ohe salo subito dal mare, manca di spazio por allargursi; e le costruzioni  anche per l'ingrandimento del porto furono  assai difficili e costose. Un tempo ora pure  piazp forte; ora non pili. I molti e sontuosi palazzi le meritarono il nome di Superba. Decaduta dalla sua prima potenza  e dal suo splendore, riacquistò tutta la sua importanza nel secolo  passato con l’unità d’Italia, oon l’apertura  del canale di Suez e con i trafori del S. Gottardo e del Sempione. Ora Genova è rivale  di Marsiglia e si sviluppa sempre più, anche  por le industrie Vi nasceno Colombo e Mazzini. Nell.a sua (Tovincla: 8. J-Her d’Arma (SOI, ò  quasi un sobborgo di Genova, oon rInoinaM fonderie ed oltloiiio sidertirgioho. — àfaronaiTò), sooon-  deporto della Riviera, molto ingrandito; si può considerarooome ti porto del Piemonte — Npezia ( 90),  pruno porto militaru d'Italia, si trova In fondo ad  un golfo ampio o ben riparato, cinto da ripide montagne, o«ronato da forti,e chiuso danna diga a Ror  d'acqua ^sta diventando anche centro industriale. Molte altre cittadine minori, amenissime, Af-  bmga, Sestri Levante, Rapallo eoo., sono stazioni  olimatloho di fama internazionale.j  Porto Maurizio è il (piooolo c^oluogo  della provincia a cui dà il nome.E’ diviso  da Oneglia{S) quasi somplioemonte dal torrente Impero, alla cui foce; fe il piooolo, porto  comune.Nella provinola ben piti imiràrtante oo'me' città  ò S»N RaunlSO), rinomata stazione olimatioa, oome  la Tlolna Bordighera (li), — yentimigiia ò a pojiii'  km. dal oonflna franoese; grande mordalo di (lori.  Arcangelo Ghisleri. Ghisleri. Keywords: atlante filosofico, tavola I, tavola II, tavola III, -storia romana, eta romana – classe V ginnasiale -- storia romana e filosofia, memoria di Cattaneo, rivoluzione con Rensi – Mazzini, mazziniano – lo stato italiano – stato federale – federazione -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghisleri: storia romana e filosofia”– The Swimming-Pool Library.

 

No comments:

Post a Comment