Grice
e Gedalio: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A pupil of Porfirio, who dedicates his commentary on Aristotle’s
Categories to him.
Grice e Gelli: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della difficultà di mettere in regole la nostra lingua – filosofia
fiorentina – scuola di Firenze – filosofia toscana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo
toscano. Filosofo Italiano. Firenze,
Toscana. Grice: “I like Gelli; he is a difficult philosopher, in a typical
Italian fashion, mixing semiotics, philosophy, philology, and literature! His reflections on Adam’s
tongue (lingua adamitica) is genial – and he proposes a distinction, which I
often ignored, as Austin did, between ‘sweet language’ (lingua dolce, qua
expression, or materia) and ‘content’ (forma) – The issue was central for
Italians: Tuscan Italian was THE lingua because it was the sweetest – at least
to Florence-born Gelli’s ears!” “Ricordati
un poco di Palmieri, che era tuo vicino, che fece sempre lo speziale, e non di
manco s'acquistò tante lettere ch'e' fu mandato da' Fiorentini per imbasciadore
al Re di Napoli; la quale degnità gli fu data solamente per vedere una cosa sì
rara, che in un uomo di sì bassa condizione, cadessono così nobili concetti di
dare opera agli studi, senza lasciare il suo esercizio; e mi ricorda avere
inteso che quel re ebbe a dire: pensa quel che sono a Firenze i medici, se gli
speziali vi son così fatti.”. Figlio di Carlo, un agiato mercante di vini
originario di Peretola e trasferitosi a Firenze col fratello, nacque in San
Paolo. Esercita per tutta la vita il
mestiere di calzolaio e studia filosofia da amateur – cf. Grice, “Gioccatore di
cricket amateur e filosofo profesionale” -- Discepolo di Francini, Verini, 3 Ficino
e poeta di ispirazione savonaroliana, e vicino alla filosofia piagnona,
participa, anche se in disparte, alle riunioni dell'Accademia, agli Orti
Oricellari. Fedele a Cosimo I, ricopre cariche pubbliche di scarso rilievo,
dapprima in qualità di magistrato delle arti, poi come membro del collegio dei
dodici Buonomini, organo consuntivo del governo mediceo. Membro degli Umidi. Ne
approva la trasformazione in Accademia Fiorentina l'anno successivo e ne fu
console. Ivi tenne la sua prima lezione, commentando un passo sulla lingua di
Adamo, tratto dal Paradiso di Dante. Tenne saltuariamente lezioni su Dante e
Petrarca. Le sue opere più famose sono I capricci del bottaio, ragionamenti fra
un bottaio e la propria anima (inserito nel primo indice dei libri proibiti) e
La Circe, un dialogo fra Ulisse e i propri compagni trasformati in animali. Tra
le tesi sostenute nelle sue opere vi sono quelle della discendenza diretta da
Noè dei fondatori di Firenze, dovuta probabilmente all'influenza sul G. degli “Antiquitatum
variarum volumina XVII”; un falso confezionato d’Annio da Viterbo, e quella
della superiorità della lingua fiorentina sulle altre. --- nominato da Cosimo I lettore ordinario
della Commedia presso l'Accademia e recita nove letture dantesche, pubblicate
con cadenza annuale, che hanno grande influenza sugli interpreti d’ALIGHIERI
durante tutto il Cinquecento fiorentino. Altre saggi: “L'apparato et feste
nelle nozze dello Illustrissimo Signor Duca di Firenze et della Duchessa sua
Consorte”; “Egloga per il felicissimo giorno 9 di gennaio nel quale lo
Eccellentissimo Signor Cosimo fu fatto Duca di Firenze”; “La sporta”
“Dell'origine di Firenze”; “I capricci del bottaio”; “La Circe”; “Ragionamento
sopra la difficultà di mettere in regole la nostra lingua”; “Lo errore”;
“Polifila”; “Lezioni pubblicate”; “Sopra un luogo di Dante, nel Purgatorio
della creazione dell'anima rationale”; “La prima lettione di G. fatta da lui
l'anno, sopra un luogo di ALIGHIERI nel Paradiso”; “Spra un sonetto di M Petrarca”;
“Spra que'due Sonetti del Petrarcha che Lodano il ritratto Della Sua M. Laura”;
“Sopra ‘Donna mi viene spesso nella mente’ di Petrarca”; “Tutte le lettioni fatte
nell'Accademia Fiorentina,” Letture sopra la Commedia d'ALIGHIERI, Delmo
Maestri, Opere di G.i, POMBA, Mutini, I dialoghi morali di G. in "Storia della
letteratura italiana V", Motta, Maestri; Mutini. G., Dialoghi, Scrittori
d'Italia, Bari, Laterza, F. Reina, Delle opere di G., Società tipografica de'
classici italiani; Gamb; G. , La Circe, Venezia, Alvisopoli; G., “La Circe e i
Capricci del Bottaio (Milano, Silvestri); G. Opere di G., Firenze, Monnier, Negroni,
“Lezioni petrarchesche” (Bologna, Romagnoli); Negroni, Letture edite e inedite
di sopra la Commedia di ALIGHIERI, Firenze, Bocca, Fabre, La Circe di G.,
Torino, Salesiana; Barbi, “Trattatello dell'origine di Firenze” di G. (nozze Gigliotti-Michelagnoli), Firenze,
Carnesecchi, Ugolini, Le opere di G., Pisa, Mariotti, Bonardi, G. e le sue
opere, Città di Castello, Lapi; Ugolini,
G., Scritti scelti, Milano, Vallardi, Fresco, G., I Capricci del Bottaio,
Udine, Tip. Del Bianco; Bontempelli, G., La Circe e i Capricci del Bottaio,
Istituto editoriale italiano, Sanesi,Opere G. (Torino, POMBA, Tissoni, G.,
Dialoghi, Bari, Laterza, Alesina, G., Opere, Napoli, Rossi, Bonora, “RETORICA E
INVENZIONE” (Milano, Rizzoli); Montù,
“Gelliana”. Dizionario biografico degl’italiani. che essere scaciato e fuggito da ogni Àno, come s
ifarebbe una fiera. A. tuparli come un filosofo Giusto; che l'inuidia è quela,
la quale piu che altra cosa guasta il confortio humano; e tanto peggior i efeti
produce quanto e la è in huomini piu ingeniosi piu valenti, ma egli e di gia
alto ilsole, io nochetu tilieui, pieno.
0 wadi à le tue faccende, con un'altra volta ragioneremo di questo
pius ellamipare? sie. Orgliè troppo
innanzi giorno à levarsi, questi fratiminori hanno questo costume, di sonar
sempre il mattutino in su la mez sara meglioleuarji, machefaroiopoi, egli è
tanto di quià leuatadisole, che mi rincrefcera, ma io potreiuedere, fe l'anima mia
uolesse parlar meco. Anchora che io comincio a dubitare, che fe joseguito, ela
non mi facciimpazzare, e non èdafarsebeffe, perche secondo me, tutiquei che
impazzano, impazzan' nel'anima, nel corpo, et cosi farà forse questa mia
àmeseiole credo cosi ognicosa. Eccoelam' ha cominciato à dire, che si puo
esseresauioe dotto senza sapere lingua grea carolarinas che è nnacosaches' io
la dicessi fra questi doti moderni, io sareiu celato proprio comeun. gufo, io
permenonho mai sentito dire, che esi pos faeferefanio in volgare, ma
pazzofibeneset non OVELLA lasquiladisanta Croce co E una dimostratione grandissima
d'un disagio non picolo, esarà dunque bener addormentarsi un poco bene che il
tempo che si dorme, è come perduto, anzi è pocomeno, che sel'huomo fufe morto,
Operò S 0 an za notte chel'hucmo é apunto in Julbuondeldors mire; benche àloro
che neuanno à leto come i pol tidae'poca noia, niente di manco nell'uniuersale
far. I fi n'homaine duto huomo alcuno che nefiaftato fatto stimagrande, se non
sa qual cosa in grammatica; ficheiononleuò cosi credere, maio potreiforseno
l'hauereinte sabene, e' fara dunque meglio uedere seelauolese ragionare al
quanto meco, e potrò dimandarnela, Anima mia, ò anima mia cara, uo gli ãnoi
fauelar ancshotamane un poco insieme A. Di gratia Giusto, che io non ho piacere
alcuno maggior di questo perche mentre che io miftòraç coltainme medesimaà
parlare teco, io nounengo astare occupatainque I concetti nili, & bası, che
tu hai la maggior parte del tempo; ne manco t’ho a ministrare spiriti et forze,
finare quei tuoi zoccoli, et que i tuoi bariglioncin. iG. Io non mi marauiglio
punto di cotesto, che io lauoro anchora io malsolen tieri; anzinonfo cosa che
misiapiugraue, ale i non che melo fafarela maledettfaorzy, io non darei mai
colpo. A. Er chevoreftitu? startisempre, Guruerotiosamente? G. No, mai o
consumerei al tempo in qualcosa, che mi diletafsejd oue i lavorare mied'affanno
et di fatica. A. O pensa quelo che egli è àmè, essendo molto piu contro ala
natura mia, che a la tua. G. Io non sò cotesto, coveggo che Idio da pocihe
l'huomo hebbe pecato, uoledodar glipartede la penitentia, cosi come egli haue
uada. toala donnail partorir con dolore; gli diffestuman geraiil pane del
sudore delupleotuoj dando gliilla let
poco a poco nel opinione mia. O tuti marauigliaui, quando iotidicena ľaltro
giorno, che egli eraprufa tica, à un huom foare un paio di zoccoli, che Ai
Ahahuediuedi, che tuuienià vorare per la piu graue, & piu faticosa
cosachpeo To tessedargli studiare mezo ARISTOTELE, eccolaragione; tu l'hardetta
da uuere. A. Egl ièiluero, ma il fato la sta contentarsidi quelo che è
necessario solamente non cercare il superfluo, che è quello, che reca cada
mille pensieri di futilià l'huomo, & lo tiene sempre occupato in terra,
negli lascia maialzare la facia ra, acontentarsi del poco; perche
chifacosigurue con pochi pensieri ,et è lieto il piu del tempo uatoinme,
quãtomisiastatoutile il contentarmi di o quelocheioho, accomodandola uoglia a
la fortuna, be et se io hauesi uoluto uiuer, òueftir meglio, e' miera a forza,
òfar qual cosa dishonesta, ò andarastarecon me altri. A. Mal per i gran
maestri, Giufto, feglihuo 2.1 il gode al
1 da teàtes per che lo studiare e naturale, Qvé pro Pas prio del'huomo,
gloinuiaala perfetione sua, & bra 'il lauorare gliè'una penitentia. G. E
bisognapur ancohauer alcielo; dondeusc iprimieramente l'animasua, eo -
doueeladesideradiritornar'; & fappi Giusto che il maggior bene, & la
piu util cosa che si possa faro agl'huomini in questa uita, è'auezarglia
buon'ho pernondir o sempre, G. Io lo credo certamente perche io ho pro
minifussindicotestauo gli atuti, che bisognarebbe pochi che gli restano, ul
mendo inferuitis per ogni picolo prezzo, la qualeco Sa non solsegia farequel
sapientissimo filosofo di Diogene, che
che esiseruissinda loro, perche e' non sono se non le moglie immoderate,
ò della degnità, ò del poter ben mangiare, & bere suntuosamente uestire;
che fanno, cheunb uomo , che ragionevolmentepuoui uereunsessanti anni
(dequalinedieci, ò dodecipri mi, non conosce quelche èfifacia; & delrestone
dorme la metà) uendeque essendogli detto da Alessandro Magno, che eichiede
sequello cheuolena, Orche tue togli sarebbedator ispose cheancorche fussi cosi
ponero e'non gli mincaua cosa alcuna, machesegle leuaffed'innanzi, percheglitoleusilsole,l
aqual cosanonerainpotest:suadidargli. G. Certa mente che il dependere da se
stesso e'una cosa bellissima, etuorrebbesieseramicode signori, minor giaseruo,
honorando gli oubbidendogli però sempre, comequeglicherēgonointerrailuo godi
Dio, et quando un puruuole innalzarsi, debbecercardi farlocon le virtù,&
non conferuire, pensando non di mcno, chien ogni stato, glihabbiaà mancar jem
pre qualcosa.A. Non tidoleradun quedeltuo; & sappi certamente che non è
stato alcunoin questo mondo, douenon sia qualche incômodo, &aqual che
cosache dispiaccia altrui. ne sipuoritrouareal cuno, checometuhaidetto,
nonglimanchiqual, chetutiglistati daglı huominiera noàunmodo; Et
diceuaàciaschedunoman caso la mente una cosa, e quelle primiera mente desidera.
Verbigratia, un pou crostro piato desidera sola mente di eser sano, dapotere
guadagnarsi la uita, pernonhauereàireaccatando; chréfano& non hanulla,
hauer di che poter uiuere; per non hauerà lauore; ch ihadicheuiųere
commodamente, has uer tanto che ei possatenere una caualcatura c u u nragazzo,
& chi haquestohauer qualchedigni tà, à maggioranzasopraglialtri; e
dipoessere Principe, & chi e Principe finalmente, potereper
petuarsiinquello Stato, & nonhauereàmorire. A. Non'tidolereadunquetu,
dihauereà lavorare un pocosedognunomancaqualcosa. G. L ha sereà lauorare un
poco sarebbe un piacere, mafem prezcome ho à fare io, che ho poco è nulla; e
cosa. G. Con questa ragioneuoleuagiaprouare unoamicomio 'undi Spetto. A. Ecco
che tu fai pur ancortu, comegli altri, m a dimmi un poco che uorrestitu ? che
ti manch'egle? A. Cinquanta ducati d’ıntrata. & staremmipoiaffaiacconciamente.
A. E quando tu haueßi cotestoanchor poiti manchereb bequalchealtracosa,e
desiderereftıla, cometu faihorquestaperche cometuhaidetodatsetesso,
inqualsiuogli astato, si ha sempre qualcosainanzi agliocchi,
chseidesiderapensandocomel'huomo tha,
dhauersi a contentare; niente di manco poi quando tu l'hai tu non ti contenti,
ma comincia. Desiderarne un'altra; fiche prudentemente dise un trattou nuostro
Cittadino, a uno che entraua in un disordine grandissimo per comperareun
podere', che glie raaconfino. Tu doneresti pensare, che tu hai hauer canfini, e
che comperato questo, tu n'ha rai a confino un'altro, del quale tí uerra la
medefima uoglia. G. Io credo certamente, cheinogni statosiadepensieri; mapiue
maggioriinuno che in un'altro. A. E' non è gia il tuo undiquegli chen'habbiao
demaggiori fidianzi fu dato al'huomo per penitētia de suoi peç Cat. t . si di
quegli ce hanno le uoglie disordinate, & chenon sicontentanodiquclchesi conuiene
a lo stato loro, come hauena Adam, quando gli duuenne questo, ma achi si accomodail
camminar patientemente in quella vita che egli è stato chiamato; non auuiengia coli,
G. Come non, hauen doioaniveresolamente dellauorare, checom’iodir 2 ,
qualpuoeserepuidolce cosa, cheuiueredella faticadellesuemaniwediche Dauit
Profeta ch'era pur Re, come tu sai, chiamò questifimili beati, & fappi finalmente
questo, che quante piu cose fihajatante piufiha hauer cura; Brè molto piu graue
& faticoso il pensiero digo Hernare le cose superflue, che la dolcezza del
polle derle; e quanti pius er piò piulaworatorisi ha tan tipin , che ognibuo
mon'haunramo; benfai, che èl'ha maggiore uno che un'altro; Ma ecciquesta
differentia dai faui ,a i matti; che ifaui lo portan coperto, & i pazziin
mano di forte che lo uede ogn’uno. G. Ehtuuuoi tábaid.A. Stafermo,
iotelouoprouareinte stesso, quante uolte fetu andato aspaso per casa, ponendo i
piedi nel mezo demattoni ,& cercando, conognidiligentiadinon
toccareiconuenti? G. Omilleuolte, & fommiposto à contarei corenti del
palco,& àfareseialtrecose da bambini.A. o dimmiunpoco, setuhauesi fatto
cotestecosefuo rii fanciulli non tisareb boncorsi dietro, comefan noàipazzi? G.
Permiafe, chetudiiluero; car non uòpiu negare di non hauere ilmio capriccio
anch'io; anzi tengo hora per uerißimo quel prouenbio, che io ho piu volte
sentito dire, che ti prunimicisi ha, come bendiceuaquel FILOSOFO, Mi lasciamo andare
questir agionamenti, e' mi pare che noi n'habbiamo parlato àbastanza, Tornia
moun poco àquegli dihier mattina, chenoilasciam 2 mom perfetti;
perälchetudubitauidianzi, chese tumicredesi, ionontifaceßi tenere pazzo; come
seancortu non'hanesilatua parte, comeglialtri. G. Oto quest'altrafeela ti
piace; cheuorraitu dire, cheognounosia pazzo? A. Pazzono; Ma che ogn'uno ne sentasi. G . O questo è
quafi quelmedesimo. A. Sappi Giusto .0 sela pazzia F A. lotiuo direancorapiula, che tu trouueraipo
chihuomınıal modochehabbino lasciato fama, che setu consideri bene lauitaloro,
non habbinoqual che uolta portatoilramoloro scoperto, maperche ceglieriuscito loro
ben fato, ne sono statilodat, ima io non uò che noi fauelliamo piu di questo,
torniamo al ragionamento nostro, dimmi un poco donde har tusaputo, che non sai
grammatica a non hai studiato, che ilauorare fusse dato da Iddio. G. Si quanto
à le parole; maapenetrar poi bene i sensi bilogna altro. A. Eibafta, che tu non
harestidificulà nel intendere le parolė; ma solamente nella inteligentia de’sensi;
la qual cosa se l'hanno ancor quegli, che le leggono ingre coo in latino che tu
non ti credesi che dereunalinguayé' s’intendino ancu tuti gli Autori, tutte le scientie
che sono in quela, perche àfare questo, bisogna l'aiuto de preccettori de fuffe un dolore in ogni casa si sentirebbe
stridere.'! ,a nostro primi padri per penitentia & paritione dela disúbidientia
loro? G. O non losaitu, che laitante uol teletomco quelit Bibia che io ho. A. O
come la intendi tu? G. Perche non uuoitu che io la inten da? non sartuche el la
e in volgare? A s i sò. G. O per che me ne domandi? A. Per farti confeffa re quelche
tu hai detto, eccodunquecheselescien tic, & la feritura facra fußıno in
uolgare, tu le intenderesti per inten. 2 you
4 2 GL’INTERPRETI, anche
pors'intendono con fatica grande, simile auuerebbe medesimamente, s'ele fußıno in
uolgare; ma a me basta per hora, che tu conosca, che non sono le lingue, che fanno
gli hyomini doti, ma le scientie; & che le lingue s'imparano, per acquistar
le sciencie, che sono in quelle. G. E t PERO NON SI PUO EGLI ESSERE DOTTO SENZA
INTENDERE LA LINGUA LATINA, dove e le fon tutte, che uuoituim parare nella
noftra A. Mera 1 cede ROMANI che ne le traduffono, se LA LINGUA LATINA ne è
ricca; e colpa de TOSCANI, che non han no maifatto conto de la loro, feelane è
pouera: G. il fato stà, felacolpaviendz la lingua, che non sia tanto copiosa di
uocaboli, ch'elenon nifi poßino scriuere. A. Oe fe ne fa di nuouo; e mettonfi in
uso, di mano in mano secondo i bisogni. G. o èeg li lecito fare de le parole
nuoueina una lingua? A siin quelle che non fono morte; G dacoloro solamente
dichielefono propri.e G. Et qual ichiami tu morte? A. Quelle che non si parlano
naturalmente in luogo alcuno; comesonohoggi, la greca, e LA LATINA, e in questa
à co loro cheniseriuonpoer non esere elalaloronatit à propria, non è lecito
fare parole di nuovo. G. O percheno nè egli ancor lecito à quei forestieri, che
la fanno? A. Perche non essendoe la lor naturale; non le fanno in modo chel'hab
in gratia, se la natura producesse tutte
le sue cose perfette, non bisognerebbe l'arte, & fel’arte potese farle
perfette da sestessa non bisognarebbe la natura, ma che bisogna piu, non, e gl’ebrei
dagli Egitti, non hai tumar sentito che e'no si puo dire cosi alcuna che non
sia stata detta prima ma I ROMANI, chi erano altr’uomini, e d'altro giudicio,
che non sono oggi i Toscan, amando piu leca
Ponmente alcune che n'hanno fattecerti moderni nella nostra, come
medesimi tàgioucuolezza, mar, cigione & fimili.G. Tu giudichi adunque che
non sarebbe errore farne nella nostrae? A. Non de chi l aparla naturalmente,
anzisarebbecosalo-, deuole. Dimmi un poco, credituche la lingua greca, ò LA
LATINA, fusin cosi perfete e copiose di uoceboli da principio, come ele furno
poi nel colmo loro, e quando fiorirnoinlorotant ipregiati scrittori? G. Non
credere. io. A. Sianecerto, perche e non siritrouacosa alcuna 2 fra queste che
sonoeserci tateda noi; chesiastate nel principio, ò prodotta perfetta di la
natura, ò ritrouata dall'arte; perche sequestosi potesefare,
l'unadilorofarebbeinus no; che fecionoancor dele parole nuoue CICERONE BOEZIO
see uolsero METTERE NELLA LINGUA ROMANA LE COSE DI FILOSOFIA e di logica? G. Che le cauorono da altre nationi?
A. Bensaichesi. G. Etdachi?A. Dai Greci, Eri Greci lhebbeno dagl’ebrei OPINTO feloro
proprie (come è giusto ragioneuole) che Paltrui, studiavan solamente le lingue
esterne, per Canarne, seuiera nulla di buono, arrichir nelai loro. G. In verità
che in questo mi pare che efuf fino molto da lodare. A. Ricercaunpocobene tutte
le cose antiche conuedraichesitrouapochis fimi ROMANICHE. G. In questo merito
noeglino al quanto d'effere scusati non essendo come tu di quella la lingua
loro. A. Anzi meritono d'essereri presi doppiamente, non ti ricorda egli haver mai
sentito dire che CATONE (si veda) MAGGIORE leggendo certe cose scrite da Albino
Romano in lingua greca, trovando nel principio che s’iscusa del non haverle
scrite con quella eleganza che dove, dicendo che e cittadin ROMANO ornato in
Italia, e molto alieno dalla lingua greca; non, o lo fare. G. Veramente che
queste sono ragions tanto vere che i o per me non saprei contradirti. i A. Vedi
quanto I ROMANI cercano di nobilita rela lingualoro, che e' non istımauanomancolar
recare in quela qualche bela opera, che sotopore, scriuesjein
greco,comfeannoque fli Toscani in latino, chenonè la lingua loro. perche
faccino quanto eifannoei non fiue de mai nei loro scritti quel candore, ne
quelostileche e'nei latini proprii 2. solamente non lo scusò; ma sene vise,
dicendo her Albino, tu hai uoluto piu rostoha were à chiedere perdono d'uno errore
fato, che no > 3 coloroiqua li haueua sottopošo con la forzaqual che Cità, è
qualche prouincia àl'imperio ROMANO. G. Oani miea pensieri ueramente santi, e
PAROLE DEGNE D’UN CITTADINO ROMANO, perchel'ufitio uerode Cnta dinièsemprein
qualunche modo si puogiouareà la patria ala quale noi non siamo manco obligati,
che, a padrıQ àle madri nostre. A. Et perquesto è hoogiin pregio tanto la
lingua loro, che ritrouan dosiin quella buona parte dele scientie, chiuuole,
acquistarle, bisogna prima che imparı; quella doue, se i nostri Toscani
traduceßino medesimamente quel le nella nostra, chi desiderad'imparare, non
harebbe a consumare quattro ò sei de primi suoi migliori annii n imparare una
lingua per poter poi col mezzo di quella passare a le scientie, oltra di quest olefi
imparcrebbono piu facilmente con maggior fis curta, perche tu hai à sapere questo
che e nons'impara mai una lingua esterna, in modo cheelasi plega bene, come la sua propria, &
fimlmente al'imperio lovo qual che Cità,
ò qualche Regns, che questo si ailnero, leggasi il proemio che fa BOEZIO nella
sua tradurrione de PREDICAMENTI d’Aristotele douee dice che essendo huomo
consulare, et non atto à la guerra, cercherebbe di instruire i fuor Cittadini
con la dottria; che non speraudmeri fare manco, neejere meno utile à quegli,
insegnando lorol'ari de la greca sapientia, che 2 e 2 non si parlamaitanto
sicuramente, ne contantai facilità, a setunon mi credi, pontrente a questi. che
tu conosci, che danno opera à LA LINGUA LATINA, chequandoe’uogliono parlare in
quella è par proprio che egli habbino àaccattare le parole, con tanta
dificultà, e tanto adagio fauel'ano. G. Tudi; il nero, ma questo de ROMANI e
certamente unmo) do belissimo, à tradure nella lingua loro, di molte cose bele;
accio che che desidera intenderle fusse forzato à impararla, cosi ela uenise àfpargersi
per tuto il mondo.A. E non fecion solamente questo; ma in mentre che é tennono l'imperio
del mondo, ei la faceuano ancora imparare à la maggior parte de loro sudditi
quasi per forza. G. Et come faceuano? A. Haueuano fatto per legge, che qual se uolesse
imbasciadere non potesse essere udito IN ROMA se ei NON PARLA ROMANO, oltre à questo
che tute le cause che per la qual cosatuti Nobili di quals iuogliare grone,
& tutti gli Auuocati, & tutti Procura forierano forzati ad impararla.
G. Oio non mi marauiglio piu che ROMA diuentasse si grande, fe. Teneuan di questi
modi ne l'altre cose. A. Diquelo non uolo ragionarti, perche le cose belle che
causano di tuto il mondo, ne fanno chiara testimoniázs: 11 EMA 3 sia gitauanoin qual a fiuo glia paese,
soto il oro Gouernatori, & turtii i procesisi douessino scriuere in LINGUA
ROMANA; F irü .nessuno chescrinese in
Egittio, ne. Greco chescriuefle in Hebreo, ne LATINO chs ecriue ffe in greco,f&
e purecen’e's nostatisonopochissimi, G.Odondehannocauato adunch ei Toscani
questa usanza di scriuere in grammatica, perdire a modotun A. Dal oinor di nato
amor proprio, non de la patria, ò della lin gualoro, imperòche cofi facendo,
fisonocredutief Jerestatitenutipiu ualenti
à chi un quele confidera. G. O costume' uerämente lodeuole, ò Cittadini ueramente
amatori della patria loro. A. O questo costume Giusto non fu so la mente de
Romani; ma di tutte le altre genti: cer capure quanto tu uoi, che tu non trouerai
quasi mai Hebreo me quel Medico che io baueuagia? Il quale per pa rore dotto,
mi ordina certe ricctte con certi nomi tanto difusati, che mi faceuon
marauigliare, infra le altreiomi ricordo una mattina che mi ordina no so che riceta
perque la postemation feai chero hebbi, doue infral'altrecosene n’entrauauna,
chee' chiamaua Rob, un'altra Tartaro, e un'altra Al tea, per le quali mi
credettii oche bisognasse mandare perese inqueste Isolenuoue ga porlunaera.
Sapa; l'altra Grommadebotte, conl'altra Mal ud.A. Otulhaipropriodetto Giusto,
concofil mondo, fetuconsideri bene, non è altro, tutto, che unaciurma, mafer
Toscani attende fino a tradur. N. G. Che fannoe',co relefcientie nella loro
lingua, 10 non fo dubbio alcuno, cheinbreuissimotempo, elauerrebbein maggior reputatione
che ela non è, perche efiuedeche zao bontà gli auuiene solamente per la bellez.
2 me elapiacemolto, G ehoggi molto atesa desiderata, e questo fua naturale,
laqua lcosa non conoscendo i forestieri, ben sepesso col uolerla troppo ri pulire
la guastano, onde auuien proprioàlei, comeà una donna bela, che credendosi far
piu bella conil lisciarsi, piufiguasta.G. Ocomepuoauueni-. requesto? A.
Dirottelo, mentre che e cerca no per farla piu ornata di fare le clausule
simili a quella de LA LATINA e vengono àguastarequelasua facilità & ordine naturale,
nel quale consiste la bellezza di quella, oltre a questo piglieranno al
cuneparolenfatequalcheuolta da Boccaccio, o da Petrarca, benche divado, le
quali quanto mancole trouano usate daeßi, tanto paionolor piubele; co efarebbon
gouari, altrefi, fouente, adagiare,fouer chio, & fimili, perchee' non hanno
per natura ne IL VERO SIGNIFICATO, ne il uero fuono nell'orecchio, le pongon
quasi in ogni luogo a bene spesofuor dipropofito, & cofile uengonoàtore la sua
bellezza naturale. G. 1odubitochefee non gli sanno immitare in altro, e’non sipossadirelorocome
dise Pippodifer Bruncllescoà Francesco dela Luna, che uolendo siscufared'unoarchitrame,
ch'e olihaueuafattosoprala loggia degl'innocenti,
che laruvigneinsino in terra, col dire chel 'haueua Cauato del tempio de san
Grouanni, gli rispose, tu, l'haiimitato appunto nel brutto. Maselalinguae
diquella perfettionechetudiz donde uiene, chemot tidiquestiliteratibiasiman
tanto coloro, chetra ducono qual cosa inquela? A : Etconcheragio mi? G. Dicon
che la lingua non è atta, ne degna che si traduca in lei cose simil, &
chesitoglielo void riputatione, & auxilisconsi molto. A. Tut tele lingupeer
le ragioni che io ti dißi dianzi, sano atte ad ESPRIMERE I CONCETTI, G i
bisogni dico lo socheleparlano;& quandopureelefußınoal trimenti, quei chel'usanolefanno,sichenonmial.
legare piuquestascusa, cheelanonuale. G. O qual cagione adunchepuoesere, cheglimuonaa
direche le cose che liscono, fi traducono
inuolgarefiauui & per don diriputatione? A. Quellache iotidissi
l'altrogiorno, cheeracagioneditantial trimali, malainuidia maladetta, e il
desiderio ch'egli hannodeesertenutidapiu degli altri. : G. Certamente
iocredochetudicailnero, perche iomiricordo cheri trouando miaquestigiornidoue
eranocertilitterati, & dicendouno che SEGNI (si veda) fa uolgare la
RHETORICA ad Aristotele, uno dilorodise che egli haueuafato un gran male; &
domanda codela ragione rispose, perche:
eno ista bene, ch'ogni uolo are habbiaasa per equel lo, che un'altro
fihara guadagnatoin molti anni con gran fatica; supelibri grec. LATINI A. O
parole disconuenienti. Io non no dir folamente a un Christiano, ma a chi un che
é huomo, sapendo che quanto noi siamo obligati ad amar ciascuno cagio uarcl'unà
l'altro, et moltopiua l'animacheal con poalaqualenonsipuofarmaggiorbenechefaci
kitargliilmododelo intendere. G. Maftafalda e mi ricorda che dicono un'altracosa.A.
Etches G. Dicono che le cose che si traducono d'una lingua in un'altra, non hanno
mai quella forza ne quella bellezza, che ele hanno nella loro. A. Eleron hanno anche
quella nella loro, che l'hanno nel’altre, perche ogni lingua ha le sueargurie, &
le fue. capresterie, la Toscana forse piu che l'altre, et chinenuol sedere,
leggadoue ALIGHERI (si veda) , orl PETRARCA han detto qual cosa che l'abia
anchora deto qual che Poeta LATINO, et uedràche passaron lor di molte volteinnāzi,
et cherarissimif onquelliche Jonrimasti. adietro. G. Si, ma nele tradutionifa
debbe attēdere piu AL SENSO che alle parole. A.1056 che si traduce per cagione delle
scienze, et non per ue. Derla forza è la bellezza delle lingue, et se’non gr | fur fecofii ROMANI, che teneuonlalor linguaperlapru
bella del modo, non harebbono tradottole cosedi Ma gone Cartaginese, &
dimolti altri nela loro, nei non lo fa per
altro, se non pen che le cose fu eessendo conservare dalle lettere, che non
uengon meno le voci, fienointese da tutto il mondo G. Tu giudiche adunche che il
condurre le scientie nella nostra lingua fia benee? Ai Anzi affermo che non si posa
far cosa piautilenep in lo deuole, perche la maggior parte degli errori nascono
dall’ignorantia, e douerebbo noi Principiat tenderci, conciòsiachesieno come padri
de popolis E tal padre non s'appartiene solamente Grec fimilmente
chfeurontantsouperbi, & tan 92 tofi vanagloria na della loro, che chiama non
tutti altre barbare, quelle degl’Egittij; o de Caldei. Niente dimancoesi debbe cercare
nel tradurre oltreal'eferfideledi dir lecose piu ornatamente che sepuo, eo però
è necesario a uno che traduce saper bene l'una lingua l'altra, G di poi poffe
derbene quelecose, ò quele scientie chsei traduco 30, per poterle dire bene
Gornata mente secondo imodi di quella lingua, perche à uoler dire le cose in una
lingua con i modi del'altre, non hagratis alcuna, da se questofioferuaffe, il tradure
non faa rebbeforse tantobiasimato- G. E dicono oltre di questo che si fa contro
al'intentione dell’authore. A. O come puoessere questochesifacontro àl'in
tentione dell’authore. A. O come puo essereque Stose chi unque scriue governare
i figliuoli, ma insegnar loro coregerli, seno
2 STŮ VINbyCo. 93 noglion farquesto ditutelecosee'douerebbonals manco farlo
diquele chesono necessarië 2 e .G.Et qualisonqueste? A. Leleggi, cosilediuineco
mele humane. G. Et che utilitàare cherebbeque sto agli humani?A.
Comecheutilita! Quanto fa rebbono eglinpiuamatori & piu defenfori dele cose
appartenentia la Religione Christiana? se le comincia sino à leggere da puti,
et dimaninma nofi esercita sino in quele, comefannogli Hebrci; la qual cosa non
si puo fare, non leh auendob entrở
dotteinuolgare,& beneacconcie: G Non marauiglia fegl’ebrei fanno tuti si ben'parlare
del le cosedelaleggeloro, òuadinsiàuergognarei Christiani, che insegnon leggere
dilorofigliuoli ò insule letere di mercantia, òınsu certe leggende dano poter
impararuisu cosa nessuna; doueedoue rebbono la prima cosa insegnar loro quello,
cheap partienea l'esere Christiano, sapendo che quele cose che simpara non e primi
anni, sono quele, che si ritengono sēprepiuche l'altre nella memoria. A. Et oltr
ea questo, con quanta piu reverentia, attentione si sarebbe àgli ufici diuini see' s’intendefe quel che dicono. G.
Certamente che questo è uero. A. Dimmi conche diuotione, ò concheani molo lodano
gli huomini Iddio, non intendendo quel che sidicono, tu fai pur il favellare delle
putte, ca de papagali non si chiama fauellare; mammita grati adisam Girolamoche traduse loro ogni cosa
in quella line gua; come ueroam. Store della patria funt. G. Cene tamente Animi
mia, che questa ina opinionemi piace molto. A. Ellati può piacere che ela é'anchora
di Paulo Apostolo, che scrive à Corintiche
doue uonoancoresidire alcuni loroofitijinhes breo,com.diroloidiora Amen,
sopralabenedition uostra, se egli non intende quel che si dice che frutto necauera
e’mu? G. o dachevenne adunque, che quando questecosefuronocanate laprima uolta di
hebreo, elenon furono moffeinvolgare? A. Perche all'hora per la mescolanza dele
molte genti Barbare, che erano in quei tempi perlaItas tia, non ciera altra lingua
che la latina, la quale fuf seintesa, quafi per tutto, Guedi che e non sitrous scritura
alcuna diquei tempi fe non in questa me
tione di suono solamente perche e’non intendono quel cheesi dicono
(conciosiache fane la reproa pria mente sia esprimere parole, che significhi noi
conceti, quello, che intende colui che fanela) adunque il nostro leggere, ò cantare
salmi, non intendendo quelche noi ci diciamo, è simile aungrac chiare d iputte,
è cinguettare di papagalli nesoia ritrovare alcuna altra religione che la nostra,
che tenga questi modi, imperò chegli Hebrei laudan de noi ddiain hebreo, i
Greci, in greco; I LATINI; IN LATINO, con gli sciauo niinistiauone, volgare, cosi le sacre come le ciuili.A. Dala
maritia de Preti, defrati, che non bastandolos roquella portione delle decime che
haueua ordina, toloroIddioper legge, àuoleruiuer tanto furtuo: Jamente come e'fanno,
cele tengono afcolecce deendo no àpoco poco, comesidiceàminuto, in quel modo,
peròche e'uogliono, spauentandogli huomini conmillefalfiminacci, i quali nonsuonan
cosinela legge come egli interpretano, di masniera che egli hanno canato dimarioà
pouerises colari piu chela meta di quel
desima, chseonolecosesacre,maquestobastu, circa àleleggi diuine.Veniamohoraale
humane fe ele, fono quelle che hanno à regolare gli huomini, & secondo
l'arbitrio delle quali si debbeuiuere, perche hanno elenoaesere in una lingua, che
si intenda per pochi? I Romani che le feciono, & n'ebbonotā te da Greci,
non lefecionperò in altra lingua che la loro; & cofisimilmente Ligurgo, Solone,
& gli altri, che dette noleleggia tutta la Grecia, non le fecion però in altra
lingua, che in quela che usana noi popoli loro . G. O s’ele fono cosi necessarie
cometudi, donde uienė cheelenonsitraducono in che egli haueuano. G. Eh questo è
un male che mi parechesidia non solamente ài sacerdoti, ma a ognuno, anzi non
ceh nom che pensi ad altro fe non in che modo & potefjecauaree dánari dele scarfele
d'altri, e sto mettergli nela sua, egliebëuero, chei Preti e
Fra ti, egoi Notaichelo fannocon le parole sonpiuuse lenti deglialtri. A.
Ehimeeno sarebbe uenuto lorfatrocosiagevolmente, seglihuomini hanesi no hauuto piu
cognitione delescrituresacre, chee’nonhanno. Etlac agionechenonfi traduco no
l'humane, è fimilmente lampietà di molti dotto rij@ auocati,
checiuoglionuenderelecosecommu ni, e perpoterlo farmeglio, hannotrouato questo
belghiribizzo, che i contratti non si poßinfare in uoloare, mi solamente in quela
loro bela grammatica, che laintendon poco eglino, comancogl ialtri;
somemurauigliocertamente, che gli huomini hat binmai sopportato tanto una cosasimile,
sotola quale si puofaremille inganni. G. Et che e'non senefaforse,
esarebbemoltopiuutile, cheefifaces fino nella nostra lingua, perchel'huomo intende
rebbequelche e facese, & cosii testimoni quello che egli hanno àtestificare
e vorrebbono uederlo scriuere al'hora, nò che pigliaßi noi nomi solamente, et
poilodestēdesinoin sul protocoloàloro piacimë to, mettendo à ogni parola una cetera,
che secondo me non è altro ch'ununcino, dove non intendendo quelche fi faccino,
basta loro solamente diresi, ego non pensano ale conditioni che spessouisi
comprendono; donde nascono poi millepiatt. A , Et per questo mi credo io che lo
facino; onde ti uo dirque G47 totu uuoi. Ma de Preti, ede Fratinon udio gia che
tu dica male; perche secondo che io ho inteso purdaloro, e non s'appartiene ài secolari,
il riprender gli fto che noi non ci poßiamom ancodolerede Sacere dotic, or degl’avvocati,
che si farebbono i sudditi di quei Principi, che uole sinucdere loro l'acquç
Gil Sole. G. Di questi ti lascerò io dire. A. Ecco una di quelle opinioni che ficre
deil mondo essere uera, per non hauer l'intendimento delle letere sacre. Dimmi un
poco, non siamo noi tuti figliuoli di Dio, e conseguentemente frategli di Christo?
G. Sifiamo. A. Etifrategls non sono equaliin quanto frategi? G. Sisono. A
Adunque ancora noi come Christiani fi gliuoli di Dio, fiamoequali, e àl' un fratelos'ap
partiene riprendere l'altro. G. Corestoèuero; ma egli hanno quella degnità del sacerdoria,
che glif a piu degni di noi. A. O qual puo essere maggior dignità chel'esere figliuoli
di Dio; uuoitu che il mi norlumecu opra il maggiore? egli è maggior degni
tàl'effer Christiano, chel'efer Sacerdote,ò Prin. cipe, i quali sono
ofituidatida Dio, & fannogli huomini ministri di Dio,tusaipurecheeglièpiues
ferfeigliuolo d'unprincipe, che essere suo minifiro. G. Adunque io sono da piu
che il Papa. A. Que stonò; cheegliè primieraměte Christiano cometes in questo
noisiateequali; mapoiperesesreta
toeleto particularměte da Iddio, per suo miniftróz egli viene a esere in
un certo modo dapiudite, per la qual cosa tu debbihonorarlo, come tuo maggiorez
ma non per questo però tiè prohibito d ipotereriprē dere gli errori che e'fa, c
&ommettecomehuomo, e come Christiano purch'efifacia, conquellari
uerentiachein segnalacarita Glo amore del prof fimo, etchequestosiailuero,
tunehailo esempio in Paulo Apostolo, il quale dice che riprese Pietro, che era
fuo maggiore, perche egli era riprensibile subito ò egli miraculosamebte cadeua
morto, ò egli n' eraportato da Drauoli farebbe da far loro come quel soldato,
che hauendo tolto àun Fratel a metà di certo panno, che egli haueua accattato per
ueftirsi, et minaccian dolo il Frate diri chi ed erglilo il di del Giuditio, gli
tolequelresto; dicendo;poicheiohotanto tempoà pagarlo, io uoglio ancor quest'altro.
G. In uerita che questa tua opinione non midispiace, ma io non uo giadırlaz
perche oltre àl'autorità egli hanno ancora la forza, & fanno di poi conl'arme,
ueggiēdo che non uaglionpiuloroles communiche; come nella primitiua chiesa; che
quädoei male dina nouno, di se non haueßino altrearmi te che che le loro mala
ditioni, e. G. Ehime, che non possono ancor fare degli altri miracoli ch'ei faceuano.
A. Benlodises. AQUINO quando essendogli detto da Papa Innocentio, che ha . A.
Certamen e OK gustato parte quando e' fu rapito elterze Cıelo) dicelle che no desidera
altro, che 2 Heuaunmonte di danari innanzi, & contauagli; Tuuedi Thomaso,
la Chiesa no puo piu dire come el la diceua anticamente; Argentum & aurum non
eft mihi, Egli rispose; Ne anche furge etambula. GO tu fai tante cose anima mia,
che tu mi faiueramë temarauigliare, et seimoltopiudotta, etpiuualen te; che io
non credena; ma dimmiun poco; come hai tufato à saperle sẽzame; che mi hai pur detto,
che noi siamo una cosa medesima, et che mentre che tu sei unitame co non puo
operarefe non inme? A. O Giusto, quesatarebbe cosatroppolungt; io uoglio che
noi indugiamoaunal trauolta, cheegl è gia di, tempo che tunadiale facende tue
G. ohime. Tu di il vero, egli edichiaro affatto, oh come paffa uia il tempo che
l'huomo non seneauuedde quando se fa, ò si ragiona di qual cosa che piacia
altrui. V andoio consider tal uota meco med RAGIONAMENTO IH FRA cosmo BÀRTOLI E
G. SOPRA LE DIFFICOLTÀ DI NEHERE IN REGOLE UL NOSTRA UNCSVA. AL MOLTO REVERENDO
MESSER PIERFRANCESCO 6IAHBULLARI amico SUO canssuno G,. Da poiche voi volete
pure, messer Pier Francesco mio onoratissimo, che io vi racconti il
ragionamento stato tra messer Cosimo Bartoli e m quello stesso giorno che voi
novamente fusto rieletto nel numero di quegli uomini che debbono riordinare e
ridurre a regola la nostra lingua fiorentina; ed, a gli amici non si può né
debbo negare cosa alcuna che giusta sia, mi sono risoluto in tutto porlo in
iscritto, ma semplice e puramente come
e' nacque allora in fra noi, e a guisa pure di dialogo, a cagione che e la cosa
sia meglio intesa, e si fugga il lungo fastìdio di quella tanto noiosa replica:
disse egli, e risposi io. E perchè voi
sapete come noi altri la occasione in su che egli è nato, senza replìcarvela
ora altrimenti, dico solamente che usciti de la Accademia accompagnando messer
Cosimo a casa sua, sopraggiuntovi da la
sera, e desiderando fuggire quella crudezza de Farla che comunemente apporta
la notte, passammo in casa, e appressò ne lo scrittojo. Dove ragionando di
varie cose, e eadendo, non so in che modo, in su quello che si erd il di fatto
ne l'Accademia, voltatosi messer Cosimo a me, riguardatomi alquanto, cominciò
sorridendo a dirmi cosi: BariolL Io ho bene assai chiaramente conosciuto oggi, G.
mio caro, esser sommamente vero quanto dice
Bartoli, contemporaneo di G., e uomo di molta dottrina e di molta fama a' suoi tempi. È ambasciatore per Cosimo I
alla Repubblica di Venena. 1a c^ere die
lascia son degne di escer tenute, pia
che non si fa, in pregio. diyinìssimo nostro ALIGHIERI in
persona d’Adamo nel Paradiso: Che nullo effetto mai razionabile, Per lo piacere uman,
cbe rinovella Seguendo
il cielo, è sempre durabile.
Gonciossiach'io ho veduto
dispiacerti oggi si
fattamente ciò che fanno
passato tanto ti
piacque, che con ogni tao studio e
ingegno hai pur fatto quasi che forza di non esser di nuovo eletto in
quel piccol numero e scelto, che debbo ordinare e formare LE REGOLE DI QUESTA
LINGUA NOSTRA; non per vietare o tórre ad alcuno la libertà e la facoltà di
parlare e di scrivere a senno suo, ma
solo perchè, essendoci alcuni Accademici
assai differenti ne la pronunzia
e ne la
seri tiara, chi
vorrà pure apprendere
la vera e
natia lingua fiorentina, abbia almanco dove ricorrere a vedere il modo e
la forma de V una e del’altra cosa comunemente iisata in Firenze. Il che
nascendo pur da sincerità di mente e da desio di giovare altrui, non può essere
giustamente se non lodato. E perchè le cose degne di loda si debbon sempre far
volentieri, non so io veder la cagione
che ti abbia fatto cosi fuggire una
impresa tanto onorata. Ricordandomi averti sentito più volte dire, che tu porti
si grande amore a questo nostro parlare, il quale, quando egli è favellato puro
e senza mescuglio di forestiero ne la nostra pronunzia propria, ti pare si bello, che tu non puoi in maniera alcuna credere o
imaginarti che e' fusse più beilo udire o GIULIO (si veda) CESARE o
CICERONE o qoal altro romano si sia, che
alcuni di veri e nobili cittadini di Firenze, i quali per la loro grandezza
abbino avuto il più del tempo a trattare di cose gravi, e a mescolarsi poco col VOLGO, CHE HA LINGUA MOLTO PIU
BASSAe parole tìIì e plebee: dove, per l’opposito, costoro
hanno parole scelte e facili, che oltre a la naturale dolcezza, di questa
lingua, apportano un certo che di grandezza e di nobiltà; e massimamente quando
essi parlatori hanno atteso a le lettere, esercitandosi ne gli studj, come ne'
tempi de la tua
fanciallezza. Qnesto periodo soTercfaiamente lungo
è guasto andie
per questo gerundio;
invece del quale
dicendosi ricordami, tornerebbe
meglio. sono Bucellai,
Biacceto, Canacci, Corsi, Martelli, Vettori
e altri litterati che allora
si raganavanoaTorto de'Rncellai,
doye to, quando ponevi tal
volta penetrare io
maniera alcana, stavi
con quella reverenza
e attenzione a
udirli parlare tra
loro, che si
ricerca proprio a gl’oracoli,
E di più
mi ricorda ancora
averti sentito dire
che andavi si
volentieri, quando ci
venivano ambasciadori, a
udirli fare l’orazioni, essendo in
qoe' tempi usanza che parlassino la prima volta
pubblicamente. Di che sopra modo ti dilettavi, si per la differenzia che
tu senlivi tra le lingue loro e la nostra,
e si per
udire la maniera
de le risposte
che si facevano
o per iGonfaloniere
che fu un
tempo Sederini, o pel segretario della Signoria,
che è messer
Marcello VIRGILIO (si veda), uomo non
meno elegante e
facondo nella nostra
lingua che nella
latina, e non
manco bel parlatore
che si fosse
Soderini. Sovviemmi oltre
a questo, che
vivendo Acciajoli e
Guicciardini, andavi spesso
a starti con
loro, dii;endo che, oltra i dotti
ragionamenti, essendo e l’uno e l’altro litteratissimi, ti
pigliavi si gran
piacere de lo
udirgli favellare, parendoti che
e' si fusse
cosi ben conservata
in loro la
grandezza e LA BELLEZZA DI QUESTA LINGUA. De la
qual cosa lodi
ancor oggi Nardi
per le lettere
che e' ti
scrive ; e messer Vinta,
agente ora de lo illustrissi-
mo ed eccellentissimo Duca
nostro appresso la
eccellenzia del signor
don Gonzaga, parendoti
(secondo che tu
affermi) che egli,
ancora che Volterrano,
scriva in quella
pura e sincera
lingua fiorentina che tu hai sempre tanto pregiata. Queste
cose, G. mìo caro, per parermi tutte, contrariea quanto
oggi ti ho
visto fare, mi
inducono a maravigliarmi si grandemente
di questa tua
mutazione, che, se
non eh' io considero che
tu sei uomo,
cioè variabile e
mutabile come è
la natura di
tutti, io non
saprei quello che
avessi a dirmi
di te, se
non (parlandoti piacevolmente
e liberamente, come
noi sogliam fare
insieme) che tu
medesimo non sai
ancora quello che tu ti voglia. G. Messer
Cosimo mio carissimo,
voi mi siete
venuto a dosso
improvisamente col principio
d' una orazione tanto
consideraia e cosi
bene affortificata da tante
praoTe, ehe io non 80 qoasi
donde avenni a pigliare il
Inogo o la
via da poter
rispondere. Tattavotta, concedendoTÌ
quello che è
da concedere, cioè che
io sono umuo,
la natora de'
quali non è
fidamente yariabile e
matahile, come yoi
diceste, ma e
tanto sottoposta e
atta ad errare,
come voi forse
voleste dire e
per modestia non lo diceste,
che, si come
canta la santa
Chiesa, ogni nomo è
mendace e pieno
di errori; e negandovi, per l’opposito, ciò
che è da
negare, cioè che
tale malamente sia nato
in me dal
non sapere io medesimo quello che io mi voglio, vi rispondo,
per isgannarvi, che
se mai approvai
per vero quel
detto che Umvìo
dMe mnUar proposito
lo approvo ora e
tengo verissimo; poiché,
eletto io ancora
lo anno passato (come voi dite)
a dare regola
a questa lingua,
cominciai a considerare la
cosa miAio più
diligentemente che io
non aveva fotte
sino a qnell'
era. Bartoli. Egli
è il vero
che questo detto
è molto spesso
in bocca a
quegl’uomini che pare che
abbino qualche qualità più
degl’altri. Niente di manco, se
e' si considera bene il significato
di questo nome sapiente, non
pare a me
che e' si
debbia cosi approvare
questo motte come
tu di. Perchè,
non volendo dire
altro lo esser
savio, che le
avere una vera
scienzia e certissima
cognizione de le
cose, a chi è
savio, perchè egli
ha di già
conosciate il vero essere di quelle, non
accade mutar proposito. Perchè il mutarsi
conviene solamente a colui che
senza aver conosciuto o
vero, rùsolutosi troppo
tosto, vede poi finalmente,
o per sé
e per l’altrui ammaestramento, di avere errato;
e non volendo
mantenersi nel preso
errore, è costretto a
mutar proposito. G. Voi dite
il vero. Ma il conoscere
perfettamente la verità
de le cose non
è si agevole,
come voi forse
vi imaginate: anzi, per il contrario, è tanto difficfle, che
alcuni filosofi usaron dire
che di ciò
che dicevan gl’uomini
non è vera cosa
alcuna; ma che
quello che e'
chiamano vero, era
quel che pareva
loro. Della quale opinione
non è però
da curarsi molto;
si perchè e’si
leverebbon via tutte
le scienzie; e
si ancora per
averla e dottamente
e argutamente riprovata
e annullata il LIZIO
col dire che
non essendo vera cosa
alcuna, venne ancora
similmente a non
esser vero qael
che dicevano eglino. Sì
che, se bene si
paò chiamare solamente savio chi
conosce le cose
secondo il vero
esser loro, e'
non è però
inconveniente che a
questi tali ancora
bisogni a le
volte mutare proposito, se non per il non aver conosciuto la
verità, per la
occasione almanco de' tempi: i quali continovamente vanno si
variando tutte le cose, che assai manifestamente si vede esser tal volta bene
il fare uno effetto
in un tempo,
che in un altro non è ben
farlo. Benché questa
non è propriamente
la causa per la quale io ho mutato proposito; ma
solamente lo aver
considerata la cosa
molto più che
io non. ave
va prima, e
lo averla discorsa
fra me medesimo
molto più diligentemente che
in sino allora. Bariolù E
con quali ragioni? Perché io
so molto bene
che il discorrere
non è altro
che una esamina
che fa sopra
le cose quella
nostra parte superiore,
da ia quale
noi acquistiamo il nome d’animali ragionevoli,
considerando non meno
ciò che fa
per una parte,
che tutto quel
eh' appartiene a l’altra.
G. Le ragioni e
le diflicultà che
non solo mi
hanno fatto levar
via l’animo daquesta
impresa, ma ancora
giudicarla quasi
impossìbile, sono e
molte e molto
potenti; e quanto
più vi pensava
intorno, più mi
se ne offerivano
sempre a la mente
de l’altre nuove. Di
maniera che io
posso dire, che e'
sia avvenuto propriamente
a me in
questa cosa, come
avviene a chi vede da
lontano una torre
o altra cosa
simile; che quanto
egli la riguarda più di discosto,
tanto gli pare minore
e più bassa; e
di poi, appressandosele, quanto
più la guarda
da presso, tanto
gli apparisce continovamente maggiore
e più alta.
Cosi ancora io,
mentre che io
stava lontano al
mettere in atto
questa formazione delle
regole, me la
imaginava piccola cosa; ma
quando poi tentammo
porla ad effetto, quanto più
la considerai, tanto
più mi parve
difficile. Imperocché, dovendo
principalmente esser questa opera
d'una accademia fiorentina, mi
si appresenta subito
all'animo, che e’bisogna che
ella è con
tanta arte e
con tal dottrina,
che gl'uomini non
avessino a dispreizarla. e ridendosi
di noi e
di quella, dire
con ORAZIO (si veda) in
nostra vergogna: Parturient
tnontes; nascetur ridieuhu
mtu. Sovveniyami dipoi,
che questo nome d’accademia era
per generare negl’animi
delle persone un’espettazione tanto
grande, che e'è
al tutto impossibile
il corrisponderle: laonde, ove
egli è consueto non
solamente scusare gli
errori che qualche
volta si riconoscono
ne le composizioni
de’privati, ma difendergli
arditamente, affermando che
chiunque opera merita
di esser lodato,
in questa nostra
impresa comune avverrebbe tutto l’opposito. Perchè
i forestieri, che ci
vogliono esser maestri,
per far vero
il detto del
vulgo che t
più dotti manco
sanno, si porrebbono
con ogni industria
a cercar di
attaccar lo uncino;
e gli errori,
ancora che minimi,
chiamerebbono sempre gravissimi.
E il farla
in ogni sua
parte con tanta
considerazione, che alcune
cose non potessino
esser chiamate da
molti errori, credo
che sia al
tutto impossibile. Bartoli, O questo
perchè? G. Pela diversità de'
nomi e de
le pronunzie che
si traevano per
le città di
Toscana; ciascuna de
le quali pregiando più
le sue cose
che quelle d'altri,
stimerebbe e terrebbe errore quello
che in Firenze sarebbe regola. Ma
per meglio esplicarvi
ancora questo capo,
mi bisogna cominciarmi da un
altro principio. Ditemi chi
fa l' una l' altra; o le regole le lingue, o le lingue
1q regole? Bartoli. £ chi non sa che le lingue fanno le regole, essendo quelle innanzi che
queste; e non
essendo fondate queste
m altro, né
avendo altra pruova
che le confermi,
se non r
autorità di esse
lingue? G. E da questo,
essendo egli come
egli è vero,
nasce che e’non si può far regola
alcuna che sia veramente regola non solo a LA LINGUA TOSCANA, ma ancora alla FIORENTINA: e uditene la
ragione. Tutte le lingue del mondo sono, come voi vi sapete, o variabili
o invariabili. Le invariabili sono quelle che non si mutano mai,
per tempo o cagione alcuna, ma da quel di che
elle hanno principio, insino a che elle sono al mondo, sì favellano sempre
in qoel medesimo modo: come è quella che gl’ebrei stessi chiamano sacra, cioè quella della
Bibbia, la quale dal suo nascimento sino
al di d’oggi si è conservata sempre la
medesima appunto. E se
bene Esdra, loro sacerdote, dopo
la servitù babilonica vi
aggiunse punti ed accenti per farla più agevole a leggere, non muta egli per questo né
lo idioma né la pronunzia; laonde la medessima lingua favellano
ogfl^i tutti gl’brei,
in qualunche parte
del mondo e' si
truovino, che favellano i loro scrittori, e particularmente
Mosè, il quale è il più antico che elli hanno. La qual cosa è
veramente maravigliosa: perché,
non i
mutando quasi le lingue per altro
che per mescolarsi que'cbe le parlano con genti d'altro idioma, quale è quella
che dove essere più alterata e
più variata che
la ebrea? Gonciossiachè
i Giudei, dopo la cacciata loro di Jerusalem, sono già
MGGGG anni, senza
regno, senza patria e
senza luogo dove
fermarsi, sieno andati
continovamente errando sino
agli estremi fini
della terra, e
mescolandosi, a guisa
di peregrini, con
tutte le generazioni che il sol
vede sotto il
suo cielo. E
nientedimanco quella lor
lingua é per
tutto quella medesima.
Bartolù Ger lamento che
ella è cosa
fuori di natura,
e che non
può attribuirsi se non a
Dio. Il
quale, avendo dato
la legge in quella, e
fattovi scrivere tutte
le cose sacre
e divine, ha
voluto, per indubitata
testimonianza de la santissima fede nostra,
che ella duri
incorrotta sempre. G.,
Di queste dunque
si fatte lingue
non occorre che
noi parliamo, essendo
manifestissimo a ciascheduno,
che elle possono
agevolmente ridursi a
regole, o pigliandole da gli
scrittori o prendendole
pure da l’uso,
perchè è tutt'
uno. Ma le lingue che io chiamai
variabili non si favellano sempre in
un modo; anzi vanno variando e mutandosi di tempo in
tempo, quando in peggii e quando in
meglio, secondo gl’accidenti che accaggiono in quelle provincie a
chi elle sono e private e proprie, é secondo che e'vi vengono ad abitare genti
d'un' altra lingua:
come avvenne, verbigrazia, in
ITALIA, nella venuta dei gotti e vandali, a LA LINGUA LATINA. E queste
tali, od
elle sono morte, cioè
mancate, e non si ha gionambnto intorno alla lingoa;
parlano più in
laogo alcuno, ma
si truovono solamente
su pe' libri de
gli scrittori; od
elle sono vive,
e si parlano
ancora e usano in
qualche paese, come
è, verbigrazia, a
Firenze LA LINGUA NOSTRA. Di queste
ultime due maniere
tengo io per cosa
certa che LE MORTE SI POSSONO AGEVOLMENTE METTERE IN
REGOLA, MA DELLE VIVE, CHE E’NON È SOLAMENTE DIFFICILE IL FARVI REGOLA ALCUNA PERFETTA
E VERA, MA CHE E’È QUASI AL TUTTO
IMPOSSIBILE. Bartoli. E per che
cagione? Gellù Dirowelo.
Né voi né
altro mai di
sano intelletto mi
negherà che, avendo
a farsi regole
d' una lingua, e'
non si deU)a
pigliarle da lei,
quando ella fu
favellata meglio che
in alcuno altro
tempo; essendo cosa
pur ragionevole, quando
si hanno a
pigliare per regola
le operazioni d'una
cosa, pigliarlequando ella
opera meglio; il
che le avviene
quando ella è
nel suo perfetto
essere. E chi
sarebbe mai quello,
se non forse
qualche stolto, che
avendo a pigliare
per esemplo le
operazioni d' un uomo,
pigliasse quelle che
e' fa ne
la puerizia, quando
i sensi suoi
interiori, per essere
di troppa umidità
ripieni quelli organi
ne' quali e'
fanno lo ufizio
loro, non potendo
porgere a lo
intelletto la facultà
che a perfettamente operare gli
è necessaria, non
ha esso uomo
libero l’uso de la ragione,
e vive più
tosto secondo la
natura, che secondo la
mente sua? o
veramente le azioni
che egli fa in quella
parte de la
vecchiezza, ne la
quale i sangui,
per il mancamento
del caldo e
de V umido
naturali, raffred- dati e
diseccati più del
dovere, non somministrano
a' medesimi sensi gli
spiriti atti ed accomodati
a le loro
operazioni? Ninno
certamente, mi penso
; ma sì
bene quelle che
egli fa ne
la sua età
migliore: la quale
indubitatamente sarà nel
mezzo e nel
colmo de la sua vita;
come poeticamente lo
mostra il divinissimo
nostro Dante, dicendo
essersi accorto, che
la vita nostra
era una oscurissima
selva di ignoranzia :
Nel mezzo del
cammin di nostra
vita ec. Bartoli.
Bella certo e
dottissima considerazione. Ma
sta saldo, G.; e prima
che tu proceda
più oltre, dimmi: come si puo egli
trovar già mai, parlando, come e' pare
che la faccia, propriamente
ed esattamente, questo
colmo de la
vita e questo
essere più perfetto,
nelle cose generabili
e corruttìbili? Le quali si
come misurate dal
tempo, essendo sempre
in moto continolo,
non vengono a
stare già mai
in uno stato medesimo, se non in
uno instante si indivisibile, che e’non è possibil segnarlo in maniera alcuna:
per il
che viene a
essere più che impossibile,
che e' vi
si troovi dentro
fermezza. G. Confesso io
ancora che questo
è vero , se
voi intendete per la
fermezza il mancare^d'
ogni moto. Ma questo non è
quello che io voglio inferire. Anzi dico, che in tutte
le cose le
quali dopo il
principio loro salgono
al sommo e supremo grado de
la loro perfezione,
conviene di necessità
concedere, avanti che
elle comincino a
scenderne, un certo spazio
di tempo ; nel
quale elle non
salghino e non
ìscendino, ma stiano,
in quanto ad
essa perfezione, quasi
che ferme, e
in uno stato
medesimo: essendo di
necessità che in
fra due moti
contrari si truovi
sempre un po' di quiete; perchè
altrimenti, o non
finirebbe mai l'uno,
o non comincerebbe
mai l'altro moto.
E questo lo
potete voi chiaramente
cono- scere in un
sasso tratto a
lo in su;
il quale, poi che
con la sua gravitade
ha superato la
forza di quella
aria che, fessa
violentemente dal braccio
di chi lo trasse, correndo con
grandissima celerità a richiudersi
perchè quel luogo
non restì vóto,
continovamente lo pigne in su,
se egli non
si fermasse alquanto,
non tornerebbe mai a lo
in giù. Gonciossiachè, non
si fermando, egli
anderebbe sempre a
lo in su;
e andare in
su e tornare
in giù in
un tempo medesimo
(rispetto a la
natura de' contrari,
che non patisce
che eglino stiano
insieme in un
medesimo tempo, in
un subietto medesimo)
non è possibile.
Adunque egli è
necessario in tutte
le cose che
dopo il principio
loro hanno accrescimento
e dicresci- mento
di perfezione , che e' si
ritraevi tra V
uno e l' altro nn certo spazio
di tempo, nel
quale elle restino
di acqui- starne più, e non comincino ancora a
pèrderne: il qual
tempo è chiamato
da' filosofi lo stato,
ed è cosa
osservata molto da'
medici ne le
infermità umane. Ma
se voi volete
vedere ancor meglio
questo che io
dico, leggete quella parte
del Convivio del
nostro ALIGHIERI, dove e'
tratta de la
etÀ del’acino, e
resteretene capacissimo. Bartolù
Orsù, sta bene:
ma che vnoi
ta dire per
questo? GeUi, Yo'dire,
tornando al nostro
proposito, che non
si potendo sapere
ne le lingue
vive quando sia
questo loro stato
e questo colmo
de la loro
perfezione, egli non
si può ancora
conseguentemente farne regole
perfette e intere.
Perchè, se bene
e' si può
sapere mediante gli
scrittori di quelle
quando meglio che
mai elle si
siano favellate per il
passato , nessuno è
però che si
possa promettere per
il futu- ro, che
insino a che
elle non mancano,
elle non si
possino favellar meglio,
e cosi che e'
non possino surgere' ancora
alcuni scrittori che le scrivine
molto meglio. Come
potete voi mai
sapere quale sia
il mezzo o
lo stato d' una
cosa, de la
quale, se bene
voi avete il principio noto, voi non potete però non
solamente sapere quando ha ad
essere il fine
suo determinatamente, ma
né anco imaginarvelo
per conìetture; come forse la
vita e dell’uomo e di molte altre cose, le quali quando sono arrivate alla lor
vecchiezza, agevolmente si può
farne la coniettura
quando ha a essere
la morte loro; non
essendo però di
quelle, a chi
è concesso da
la natura il
rinovellarsi, come, verbigrazìa, rerbe
e le pianle
la primavera. MA LE LINGUE NON
SONO DI QUESTE. Resta dunque, non
si potendo saper
lo stato de
le lingue che
vivono, che e'
non se ne
possa ancora formar
regola alcuna ferma
e vera: il
che non avviene
de le già
morte, come ne
avete lo esemplo
chiaro ne la
latina. Ne la
quale considerando i
gramatici cbe ne
hanno scritto quale
fusse stato il
processo suo, e
giudicando, come è il
vero, il colmo
di quella essere
stato NE L’ETA DI GIULIO (si
veda) CESARE, CICERONE (si veda) E VIRGILIO (si veda); perchè
ne’tempi di ENNIO (si veda) e di
PLAUTO (si veda) si vede che
ella è nello augumento,
e in quegli
poi di SVETONIO (si veda) e di
TACITO (si veda), nel discrescimento, FONDARONO TUTTE LE REGOLE
LORO SOPRA IL PARLARE DI GIULIO (si veda) CESARE, CICERONE (si veda) E VIRGILIO
(si veda), affermando che ciò
che si dice
per lo avvenire
nella maniera de’ sopra
detti, sempre sarebbe
DETTO BENE E LATINAMENTE, e massime
secondo GIULIO (si veda) CESARE e
CICERONE (si veda); per esser
lecito e conceduto
a’poeti lo usare
spesso molte cose
ne’versi loro, che
non si comportano
nella prosa. Ma questo non si può
fare ne la lingua fiorentina, e molto manco ne la toscana, che vivono ancora, e
non hanno scrittori
da fondarvi lo intento sno,
non si sapendo
se elle sono
ancor pervenute al colmo
de Varco. Bartoli, E
se questo non
si può fare
per via de
gli scritti, chi
vieta che e' non si
faccia almanco per
via de lo
uso? G.. E di quale
uso? Oh questa
è l' altra difficultà,
e non punto
minore de la
precedente. Bartoli. E
perchè? GeUi. Perchè
ne' tempi nostri
non avviene di
questa lìngua QUELLO CHE NE’TEMPI DE’ROMANI AVENNE DELLA
LATINA; che essendo propria
d'una nazione che
domina allora ad
una grandissima parte
di questo mondo,
era tanto stimata
e onorata da
ciascuno de' soggetti
loro, e in
Italia massimamente, che e'
non si
trovava nohile alcuno
e da farne
stima, per qual si voglia città, il quale non si ingegna di parlar LA
LINGUA ROMANA. SI perchè chi non sa è d’essi chiamato BARBARO, cioè persona inculta e di rozzi e aspri costumi; e
si ancora per ì bisogni ch’occorrevano giornalmente ne le
faccende é private
e publiche; avendo
comandato I ROMANI in tutte le
loro provincie, che e'
non si potesse
agitare causa alcuna
criminale o civile,
né far procèsso
od ìnstrumento alcuno,
se non IN LINGUA LATINA [cf.
Gramsci – italiano: ambito privato; latino: ambito pubblico – contro Francia]. Ad imitazione
de’quali, per quanto
io n'ho inteso
dire da Benci, che da venticinque anni in qua ha usato molto
la Francia, e come voi
vi sapete, oltra
le pratiche mercantili
ha qualche cognizione ancora
de le speculative,
ordina il padre
di questo re,
che e' si fa
cosi in franzese
per tutto il
dominio suo: il
che osservatosi fino
ad ora, ha
tanto migliorata e
fatta più bella e
ricca quella lingua,
che è una maraviglia a chi lo
considera. e il
re che vive,
Arrigo II, imitando
le vestìgio del padre,
oltra il fare
osservare quello ordine,
fa ancora e
carezze e cortesie
grandissime a chi
traduce in essa, o
fa opera di
arricchirla e farla
perfetta. Bartoli. Bella impresa
e degna veramente d'un principe,
amare e onorare
la sua lingua [Grice – cf. The Prince of Wales]:
atteso massimamente che nessuna può
sormontare e venire in
riputazione senza il favor del
principe suo. Non sarebbe
dunque stato diflScile
a ehi ha
voluto METTERE IN REGOLA LA LINGUA LATINA in
que' tempi ehe
ella è VIVA, poi
che gli basta
osservare solamente Io
uso e il
modo che teneno i
cittadini romani: p^chè
non era in que’tempi ehi
ardisse pre^rre la
sua lingua a
qoeUa, e non
confessare che la vera pronunzia
e IL VERO O NATURALE MODO DI FAVELLARE è quello
de' ROMANI, altrimenti detto FAVELLARE
LATINO. Ma non può
questo avvenire a
noi de lla nostra,
essendo in Toscana TANTI PRINCIPATI E TANTI SIGNORI; li stati
de’quali, se non
in tutto, hanno
pure in parte
ciascuno, come io dico
in quella mia
traduzione a lo illustrissimo
e reverendissimo Cardinale
di Ferrara, qualche favella e pronunzia propria, varia e
diversa da tutte l’altre, e PARENDO A CIASCUNO CHE LA SUA È MEGLIO. Perchè noi
non ci abbiamo imperio alcuno cosi
grande, che e’muova
come I ROMANI le città
sottoposteli a cercare spontaneamente di favellare ed onorare quella lingua che
favella chi le comanda. Gonciossiachè,
quando ben la Toscana
tutta è comandata da
un signor solo,
l’imperio suo, per avere
ì confini si
presso, non è
mai di tanta
grandezza, che e' è
oiiorato e temuto quanto è
allora quel de’romani.
Imperocché i suggetti a
loro, essendo privi d' ogni speranza
di scir mai di tale
servitù, non aveado
principe aieuno all’intorno dove
ricorrere quando e’pensassero
di ribellarsi, sono
necessitati, SE NON PER AMORE,
ALMENO PER TIMORE, a far ciò che piace a’ROMANI. Bar
Ioli. Io cedo, e
confesso, quanto a
la grandezza e FORZA
ROMANA, che egli è
vero tutto quel
che tu di. Niente dìmanco,
e’si vede pur
manifestamente ne’tempi nostri,
che molte persone
di quakhe spirito,
i»8i fuor d' Italia
come in Italia,
s’ingegnano con molto situdiodi apprendere
e di FAVELLARE QUESTA NOSTRA
LINGUA non per
altro che per
amore. G. Egli è
vero che QUELLO CHE NELL’ÈTA DE’ROMANI FA LA FORZA LO
FA OGGI LA BONTÀ E LA BELLEZZA DI QUESTA LINGUA.Ma perchè
coloro che la
desiderano e cercano
per loro stessi
come cosa buona, la
appetiscono edamano in
quella [Intende la tradniione
dell'opera di Porzio
del modo di
orare cristianamente. Qui parla di cose dette nella
lettera dedicatoria. maniera che
si desidera ed ama il
bene, ella è
ancora di poi seguitata
e adoperala come
esso bene, cioè
da ì meno,
e non da
i più. Ma
datò che e’fosse
il vero che ognuno cerca di
FAVELLARE IN LINGUA TOSCANA, e
desidera che e' se
ne facessi regole,
donde si arebbe
poi a cavarle, non ci essendo ciltade
alcuna che signoreggi
tutta Toscana? Perchè i lucchesi, i
pisani, i sanesi,
gl’aretini, e qualunque
altra città di
questa provìncia, dice
sempre che LA VERA LINGUA [cf. Geach, True Scotman] e pronunzia
losca è VERAMENTE LA SUA; e
il cavare una parte di esse regole d’una città e l’altra d’un' altra, scegliendo, come dicono alcuni, il
meglio, per fare un composito di tutte quante, è
cosa molto difiScile,
e poi forse anche
non approvata e non
osservata, non ci
essendo chi la comandi.
Bartoli. Oh, io non penso però
che il luogo donde cavare le
regime ha molta difBcultà; non essendo se
non rarissimi que’che volendo
imparar la lìngua
piglino altri autori
che ALIGHERI (si veda), PETRARCA (si veda) e BOCCACCIO (si veda); i quali essendo pure tutti e tre di Firenze,
mostrano assai manifestamente
donde sì
debba imparar la
lingua. Non ostante che
alcuni, poco amici per
avventura del n
che poi the
g^i uomini hanno
ricomincialo a considerarla, come fecero
qnegli de r Orto,
e ad osare
i modi de tre
nostri Inmi ella é
tanto migliorata a
poco a poco,
che io la tengo oggi
nsolto piA bella
universalmente, che eOa
non era ne'
tempi loro; e
che se eglino
scrissero cosi bene
allora (^il che
fn molto più
da impotare a lo
ingegno loro che
a 4a bontà
de la Ikigoa),
scriverebbero molto meglio
oggi : non
essendo necessitati da la povertà
Òe la lingua,
che oggi^ è
ricchissima^ ad osare
quelle parole che
più non piacciono,
eqoe' modi ohe
son fuggiti da'
nostri orecchi; di
modo c^e nel
volto ancora del
Petrarca non si
scorgerebbero q«e' pochi
avvegnaché pic^ eolissimi
nei, che i ben purgati giudizj vi riconoscono. G.. Io
credo che voi giudichiate bene, e che la cosa stia come voi dite. Maio voglio andare un passo più là, e
dire, che essendo ancor VIVA LA LINGUA NOSTRA, e in maggiore speranza d’avere a vivere, che ella è fom
ancor mai, egli non si può affermare che la nstnra (la quale iton si stracca e non invecchia mal, anzi, se bene
ella varia talora alquanto, è por sempre quella medesima) non possa e non ha ancora a produrre de gì'ingegni simili
a loro; i quali, trovando LA NOSTRA LINGUA in
molto maggior perfezione che non la trovano i sopradetti,
serivino non solamente bene cernie qoelli, ma forse ancora assai meglio di loro. Bartolù £ questo similmeiite mi par
di credere, essendosi veduto ne’tempi
nostri che in quaiuncàe faciità, e particolarmente nella architettura, pittura e scoltura,
ha la nostra città
generati aiconi che non solo
haano paseggiaU i
famosi antichi, ma forse
ancora avanzatili in ^oalohe
cosa. G. Non si poò
donqoe dire dM
ella sia ne lo
stato Mio> veggendosi come di giorno
in gèomo olla va «i soo augomento; e
potendosi agevdmente far
conieltara da te cose
che soprareiigoDO, ehe
ella abbia ancora
a farsi più ricca
e saolto più beUa.
MartoU. E q«ali
Mm questo cose Gello?
GeUù Molte e
molte sono, messer
Cosimo; e dae
sopra tatto l'altre.
L'nna de le quali è la
moltitadine grande di ei^oro che
oggi si danno, in Firenze a LA LINGUA LATINA; i quali imparando quelle con regola, avellano
di poi ancora reg<^tamente la nostra, e con leggiadria; e da questi imparando gl’altri, mossi da quello ingenito desiderio ohe ha
ciascuno di non volere, in quello che
egli può, essere in maniera alcuna soprayanzato da i suoi pari, faranno
di mane in mano la lingua più bella
più onorata, si col
parlare e si col tradurre,
arrecandoci le scienzie e l’arti che
elli imparano nell’altre
lingue. L'a&tra è il
cominciare i principi e gl’uomini grandi
e qualificati a scrivere
in questa lingle importantissime
cose de’governi degli stati, i maneggi
delle guerre e gl’altri negozj
gravi delle faccende, che da non molto in dietro si scrive tutti in LINGUA
LATINA. Perché, non vi date a intendere ehe una lingua diventi mai ricca e
beila per i
ragionamenti de’plebei e delle donniciuole,
che FAVELLAN sempre
(rispetto a lo
avere concetti vilis6imi)di
cose basse: chò e' sono
solamente gl’uomini grandi
e virtuosi, quelli ehe
inalzano e fanno
grandi le lingue;
imperocché, avendo sempre
concetti nobili e alti, e trattando e
maneggiando coae di gran momento, e ragionando bene
spesso e discorrendo sopra quelle
in prò e in
contro, persuadendo o
dissuadendo, accusando o lodando,
e talvolta ancora
ammonendo e insegnando, fanno le lingue loro copiose, onorate,
ricche e leggiadre. Per queste due
cose adunque, ancora ch’altre cagioni
non ci sono, si
può giustamente sperare
^M LA NOSTRA LINGUA ha a essere ancora un giorno tanto pregiata
appresso molti che nasceranno, quanto è oggi
appresso di noi la latina. E conseguentemente concludo, che
non essendo ella
ancor pervenuta allo
stato suo, non se ne puo far regola, che in tempo non
molto lungo non abbia a scoprirsi defettuosa, e non più tale quale oggi forse
ci apparirebbe. Si come avviene, per esemplo, ne la pittura; dove i ritratti de
giovanetti, se bene gli soniigliono
interamente quando e' son fatti y
non vi corre
però gran tempo che,
cambiandosi lo aspetto del ritratto nel farsi egli nomo, tanto
varia la effigie, che non lo somiglia
più, né apparisce più
qnel medesimo. BartolL Orsù,
pongbiamo per le
tante cose allegate da te, cbe
a r Accademia
non si convenga il fare queste
regole: vuoi tu però
affermare al tutto,
che una persona
privata e particolare, lasciando favellare ad
arbitrio loro qualonche
città e luogo
de la Toscana, senia difettargli o ripotargli da meno per questo, non possa al manco
dai tre primi
nostri scrittori e dall’uso di
Firenze formare le regole, che a'tempi d' oggi insegnino favellare
rettamente a’Fiorentini stessi, e
a chi pur
volesse imitar? G. Oh
questo no, messer
Cosimo; perchè io mi credo
pure, che un solo, in suo nome proprio
e non d’accademia, con tutte quelle avvertenzie che
voi avete dette, sicuramente le possa fare. Bartoli, E con
qoal ordine? o
in che maniera? G., Dirovvelo: ma
perchè voi mi
intendiate più facilmente, avvertite che questa lingua, come
quasi tutte l'altre cose di questo mondo, ha
due parti principali; la materia, cioè, e la forma: la materia sono le
parole de le quali ella è fatta; e la forma è qod modo e quell' ordine col
quale son conteste e tessute insieme
l’una parola con l’altra, che
si chiama ordinariamente LA COSTRUZIONE. Di queste due
parti la materiale, o delle parole,
non tengo io
per molto difficile a metterla in
regola; ancora che ella ha
forse bisogno di
lungo tempo, rispetto
a l’aversi a
fare un vocabolista
di tutte le
voci che s’usano,
come ha già
cominciato il nostro
Norchiaio, prima che
morte gli troncasse il volo. Ma
della costruzione, o volete dire della FORMA, nella quale consiste
tutta la bellezza e la leggiadria della lingua, e appresso di noi è per
avventura molto più dolce che ne' nostri vicini, non so io come
ella possa mostrarsi
meglio che dagl’esempi de'
tre scrittori. Bartolù Oh G., e'
mi ricorda, a
questo proposto de la
dolcezza de la
testura del parlar
nostro, che messer
Piccolaomini, persona dottissima
e tanto rara qaanto lo sai,
ritrovandosi in casa
mia, e leggendo
aicani scritti dì questi
nostri, rivoltatosi a me,
dice: come può
e' mai essere,
messer Cosimo mio,
che non essendo le patrie nostre più lontane l’ttna da l’altra che
trenta miglia, noi altri non abbiamo le clausole cosi
dolci e gli
andari tanto piani e si ordinati, quanto gli veggiamo e
sentiamo in voi Fiorentini? G. £ voi vedete
bene che tutti
costoro che fino
ad oggi hanno
fatto le regole del
parlar toscano,
distendendosi ne le
declinazioni solamente, si hanno
passato la costruzione
senza parlarne se non pochissimo, come cosa troppo difficile e
ad essi forse mal riuscibile. Laonde, circa il formare queste regole, non maffaticherei molto ne là prima parte; ma
dichiarate LE PARTI DELL’ORAZIONE, e dimostrate le declinabili e l’indeclinabili, e gl’esempli de’verbi,
massimamente con quella diversità
che è tra l'uso moderno e quello che e' dicono de' nostri antichi, me n’andrei
tutto a la
costruzione. Ne la quale, consistendovi tutta la
importanzia di questa
lingua, vorrei io
certamente usare una diligenzia
più là che estrema, togliendo da’tre
sopra detti tutto
quel che è ben
detto. Il che, al
giudizio mio, solamente
sarebbe quello che l’uso
di oggi si
mantene; essendo l’orecchio nostro
inclinato naturalmente a
lasciar sempre le
cose aspre, dure e difficili, e seguitare le dolci e le facili. Per la
qual cosa, giudicando io che oggi si favelli meglio in Firenze che in
nessun de’tempi passati,
attribuisco molto a l’uso,
non di mercato e del vulgo vile, ma de’nobili e qualificati de la nostra città.
Bartoli. Questo è appunto l' ordine stesso e il modo che il nostro GiambuUari
tenne in quelle sue regole, che egli, già son tre anni, dona allo illustrissimo
signor Don Francesco de’MEDICI primogenito di Sua Eccellenza. G. Voi dite il
vero, che il GiambuUari che mi è quello amico che voi sapete, me le conferi
molte volte, e massimamente r anno passato, quando siamo in questo maneggio: e
perchè e'mi parve sempre che egli trova la vera via, e con una diligenzia
maravigiiosa fatto ciò
che è possibile farsi in questa materìa, però metto io a campo di nuovo
lo stesso modo die egli tenne. Ma perchè non le comunica egli ora mai con la stampa a taUe le genti che le desiderano?
BartoìL Sta di buona TogUa, G., che io ne Tho tanto contaminato che egli
finalmente mi da non
solo esse reg(^9
ma e libera e pimia licenzia che io
ne &ccia la vof^ia
mia. E cosi fra non molti giorni comincerò a fturle stampare, che di tanto son convenuto col Torreatmo.
GM. Sollecitate dunque,
messer Cosimo mi, perché farete gran benefizio a chi desidera
imparar dal buono. Maperchè noi siamo
oramai vicini a l'ora de la
nostra cena, rimanetevi con Dio,
che a casa
sono aspettato. Bartolù Dì
grazia, cena con esso meco. G. Non questa sera, messer Cosimo, che dovendo
trovarmi in un altro luogo, non posso mancar de la mia promessa. Restate con la
buona notte. BmtkdL Poi che cosi ti piace, va' ool oom di Dio. Tanto fu, messer
Pierfranoesoo mio onorando,
il ragionamento che avete
chiesto; e messer Cosimo nostro ve ne può render testimonianza: Catene adunque
come di cosa vostra, che io ve ne fo un presente, e vivete felice ricordandovi
che G. è vostro. Di Firenze. Come ora si
direbbe importunato, o seccato.
Velia Crusca non
è con questo significato. Io non credo, magnifico signor Consolo,
prudentissimi Consi glieri, e voi altri virtuosissimi Accademici e maggiori
miei ono randi, ? che con voi, i quali sapete i nostri ordini, e come più per
imparare esercitandomi,che per insegnare ad altri,io sia salito oggi in questo
luogo,sia di bisogno che io ne faccia seusaalcuna. Ma perchè forse qualcun di quest'altri
uditori potrebbe ingiustamente incolparmidi presunzione, essendoioil primo che
dopo due si dottissimi e famosissimi uomini, mes ser Francesco Verini filosofo
eccellentissimo, e Dazi tanto nella greca e latina lingua celebrato, sia salito
sopra que sta onorata cattedra, non vi sarà grave comportare che in escusazione
e scarico mio io dica loro alquante parole. Nobilissimi uditori, iquali tirati
dalla fama dei valenti uomini che insino a questo giorno hanno letto in questa
nostra Acca demia siate venuti qui,se ilritrovarci in cambio di quegli oggi m
e, il quale sa re i molto più atto a tacere che a parlare, v i a r recherà
maraviglia,non dovete perciò incolparmi di presunzione. Imperò che avendo
ordinato questi miei maggiori Accademici, che per esercizio nostro, per
esaltazione di questa nostra lin gua nativa, e per imparare a esprimere in
quella i nostri concetti, ciascuno di noi legga una volta quello che più gli
piace, ha voluto la sorte che io sia il primo a dar principio a così lode
devole, ese io non me ne inganno, utilissimo esercizio. Nè debbe. Le parole e
maggiori miei onorandi mancano nella 2^ T.
La 1a T., ingiustamente potrebbe. La fa T., auditori. certamente esser
preso questo se non per buono e felicissimo augurio di questa nostra
Accademia.Perciò che se le cose che fa la natura sono più ferme e più stabili
che quelle della fortuna, per procedere quella con ordine e questa senza, ed
essendo l'ordine della natura andare sempre dallo imperfetto al perfetto (si
come noi manifestamente veggiamo verbigrazia? nella creazionedell'uomo, dove
ella fa primieramente un pezzo di carne, il quale è solamente animato d'anima
vegetativa come le piante, dai medici chiamato embrione, e secondariamente
infondendovi l'anima sensitiva lo fa animale, e finalmente gli dà l'anima
razionale, la quale è l'ultima perfezione sua), dove senza dubbio questa nostra
impresa aver anch'ella felice successo, da che io, che sono il più
insufficiente di sì bel numero, sono il primo a darle principio. Se dunque voi
non, udirete oggi da me cosa degna de’passi spesi da voi a venire in questo
luogo, non mancherete però di venire a udire quest’altriche dopo me leggeranno;
da i quali, per esser queglio e per natura e per professione di gran lunga più
sufficienti che non sono io, caverete tal frutto, che di que. stie di quelli vi
ristorerà largamente. La lezione nostra è
un luogo d’ALIGHIERI ne Paradiso; il quale, per trattare alcune cose del
parlare, mi è parso molto al proposito nostro, essendo questa nostra Accademia
stata principalmente ordinata per utilità di questa lingua, o per dir meglio,
usando le parole stesse del nostro BOCCACCIO (si veda) nella quarta giornata, di
questo nostro fiorentino, volgare. Presterretemi adunque grata udienza come
avete cominciato, se non per altro, almeno per dare animo a coloro che dopo me
leggeranno; da i quali senza comparazione caverete maggiore diletto Se maggior
frutto. Ma vegnamo alla nostra lezione.
La 1a T.,di quella. ? verbigrazia è della 2a T. 3 La 1a T., solamente è.
4 Nella 2a T. manca sensitiva. s La 1a T., l'ultima sua perfezione. quegli è
della 2a T. 7 La 1a T., che io non sono. 8 La 11 T., caverete e diletto
maggiore ecc. conosciuti, dico, i vizii e purgatosi da essi, ascese
per contemplazione sopra i cieli alla gloria de’beati. Intra i quali trovato il
primo nostro padre Adamo, come desideroso di sapere, lo dimanda di alcune cose;
fra le quali è questa, che io oggi ho preso per materia del nostro
ragionamento, cioè qual è l’idioma o vero il LINGUAGGIO nel quale, quando ei è
fatto da Dio, egli primieramente parla. Alla quale dimanda risponde Adamo in
questa maniera. La lingua ch'io parlo è tutta spenta Innanzi che all'opra
inconsumabile Libero, sano e dritto è tuo arbitrio, Fosse la gente di
Nembrot intenta. Che nullo effetto ? mai razionabile Per lo piacer uman, che
rinnovella, Seguendo il cielo, è sempre e durabile. Avendo il divino nostro
poeta ALIGHIERI (si veda), poeticamente parlando, nel suo discendere all’nferno
conosciuto tutti i vizii e i peccati, che cosi per malizia e per matta
bestialità come per umana incontinenza e fragilità si possono commettere, ed
essendosene nel passare del Purgatorio in cotal modo purgato, ch'egli è tornato
in quello stato dell’innocenza nel quale è creata da Iddio l'umana natura; là
dove la parte nostra inferiore, irrazionale e mortale, alla superiore,
razionale e immortale, sta obbediente, nè punto arde la sensitiva e carnale,
dalla originale giustizia regolata, levarsi e combattere contro allo spirito;
tal che dal suo precettore gli è detto: fallo fora non fare a suo senno; | La
1a T.,che tornato era. 2Cr.Libero, dritto, sano. La 1aT.,purgato. La 1a T.,
Adam . Cr. oora. 8Cr. la gente di Nembrotte attenta. Cr, affetto. 8Cr. semprefu. Opera
di natura è ch'uom favella; Poi fare a voi, secondo che viabbella. Pria ch'io
scendessi all'infernale ambascia, donde s vien la letizia che mi fascia. Elle si
chiamò poi, e ciò conviene; Però che l'uso umano è come fronda In ramo,che sen
va, ed altra viene. Da queste parole d’Adamo caviamo noi oggi tre principali
conclusioni. La prima è, come la sua lingua si spende e mancòa tutta, innanzi
che Nembrot cominciasse a edificar la torre; cosa molto contraria alla volgare
oppenione. La seconda, la ragione perchè si mutino i parlari. La terza, la
risposta a una obie zione che se gli potrebbe fare, dove egli adduce alcuni
esempli in confermazione di quanto egli ha detto, come largamente si vedrà nel
nostro ragionamento. Cominciamo ora adunque a esaminare la prima, con l'aiuto
di Colui dal quale depende ogni nostra sufficienzia. Avendo l'onnipotente Iddio,
nellaproduzione delmondo, creato tutte le cose insieme con l'uomo, non perchè
elle fossero in lor medesime solamente, ma perchèelle fossero ancor principio del
l'altre, ciascheduna di quelle della sua specie, non tanto nel generarle,
quanto nell'instruirle e governarle, bisognò ch'egli le creasse nel loro
perfetto essere. Dalla quale ragione mossi diceno alcuni dottori ebrei che il
mondo è creato di SETTEMBRE; perciò che allora pare che tutti gli alberi, insieme
con l'erbe, abbiano condotto a perfezione i frutti loro. È adunque (lasciando
stare l'altre cose) creato l'uomo da Dio nel suo stato più perfetto, e in
quanto al corpo e in quanto all'anima. In quanto al corpo, sano, bene
complessionato, e di età di trenta o tren +Cr. Operan aturale è ch'uom favella.
2Cr. El. öCr.Onde. M a , cosi o cosi, natura lascia Un : s'appellavin
terra il sommo bene, Cr. El. 5 Cr. Chè l'uso de'mortali. ancor è della 2a T. 1
6 tacinque anni, secondo la maggior parte dei dottori, acciò che ei è
atto alla generazione.E in quanto all'anima, ripieno di tutte quelle scienze,
alla cognizione delle quali si può na turalmente pervenire, acciò chè ei
potesse insegnare a quegli che nascessero di lui tutte quelle cose che sono
necessarie alla vita e al bene esser nostro. Con questa cognizione pone Adamo i
nomi convenienti a tutte le cose, secondo la loro natura; e FORMA UN’DIOMA, o
vogliam dire uno parlare, con il quale ei puo MANIFESTARE ai descendenti i suoi
CONCETTI. Ma qual è questa lingua, non si sa già manifestamente per alcuno filosofo.
Gl’ebrei, come si legge ne’loro dottori sopra lo XI del Genesi, ove il testo
dice che alla edificazione della torre di Nembrot si parla in terra d'UNA SOLA
LINGUA, dicono questa ESSERE STATA LA LORO, ed essersi così dal principio del
mondo miracolosamente conservata intera e incorrotta, la qual cosa a
nessun'altra è avvenuta giammai, per avere parlato Iddio sempre mai a Moisè e
agl’altri suo i profeti in quella; e questo è ancora confermato da loro con
l'autorità dei loro Cabalisti, la quale può molto appresso di loro. Il che
nasce dalla opinione ch'egli hanno, che quando Iddio dette la legge – GRICE: 10
COMM. -- a Moisè sopra il monte Sinai, egli gli da ancora l’interpretazione di quella,
e gli manifesta molti altri profondi misterii, contenuti e nascosi sotto la
lettera di quella, si come scrive Esdra nel suo primo libro. Ma dicano ch'egli gli
comanda sch'ei non scrive altro che la legge, e l'altre cose dice a bocca a
quelli che reggeno il popolo. Per laqual cosa, disceso dal monte, solamente le
rivela a losuè; e Iosuè di poi a i settantadue più vecchi del popolo; e quelli
d ipoi per ordine successivo le revelano ai loro discendenti. E questa dicano essere
la scienza Cabala, che non vuol dire altro che ricevuta a bocca per
successione. QUESTA OPPENIONE EBREA HA MOLTE DIFFICULTÀ. Primiera 1
giammai è della 2a T. · La 18 T., e questo ancora confermano. 3 La ja T., esso.
* Cioè, dicono; cosi, appresso, scrivano per scrivono, e simili. 5La14T.,egli comando.
mente, si come scrivano i loro Talmudisti, e non pare ch'ei sia vero che
questa lingua ch'egli usano, e nella quale è scritta? la Legge, sia la lor
prima e antica lingua. Imperò che Esdra, loro sommo sacerdote, nella
restaurazione del tempio dopo la servitù Babilonica, temendo che se gli
avveniva loro un'altra avversità simile, la Legge totalmente non si perdesse,
ragunò tutti i savi loro; e fa scrivere quella, e ciò ch'ei sapevano
appartenente a quella, in settantadue volumi. Ne'quali si legge che, per essere
stati tanto tempo in quella servitù, mutarono molto il modo dello scrivere e
dell'antica favella loro, e trovarono nuovi caratteri e nuovi punti, i quali
sono quelli ch'egli usano oggi; e questo ancora pare, chesenta GIROLAMO nel
prologo sopra i Libri dei Re. La ragione, per la quale ei dicano che Iddio PARLA
IN QUELLA, non è d'alcuno valore; imperò che quasi tutti i loro scrittori, o la
maggior parte, sopra i Profeti dicano Iddio NON AVER PARLATO MAI a quelli
VOCALMENTE, ma quando egli ha VOLUTO MANIFESTARE QUALCOSA o a Moisé a agl’altri,
avere loro formato nella mente uno concetto, per il quale egli hanno inteso
pienamente la volontà sua.L'autorità Cabalistica, dalla servitù Babilonica in
qua, non ha avuta molta fede; imperò che allora molti di loro, e per la
servitù, e per la loro natura ch'è molto superstiziosa, come scrive Apuleio nel
primo libro de’Floridi, scrissero di molte cose (dicendo di averle avute da i loro
Cabalisti), che sono manifestamente contro alla lor legge e CONTRO ALLA RAGIONE
NATURALE; come si legge nelloro Talmut Babilonico, il quale non è altro che uno
raccolto di sentenzie dei loro sapienti di quel tempo. Aggiugnesi ultimamente a
questo, che secondo essi medesimi la loro lingua, con loro insieme, ha così
nome da Eber figliuolo di SEM, figliuolo di Noè, al quale nella divisione della
terra tocca la Giudea ; il c h e ·La 1aT., per error tipografico, ha
Tamuldisti; diquilo sconcio della2a, che ha Tamulisti. 2 La 18 T., hanno
scritto. i La 1a T., la Babilonica servitù. mai è della 2a T. La 1a T., la sua
volontà. delle. 6 La 1a
T., I Caldei, o vero Assirii, dall'altra
parte dicono similmente che la lor lingua è la prima che si parla mai ; e
certamente ella è tanto simile alla ebrea, come dice Girolamo nel prologo di
sopra allegato, ch'ei si potrebbe fare coniettura ch'elle sono già state o una
medesima. E in confermazione di questo adducano queste ragioni, con l'autorità di
Beroso Caldeo, e di Mnaseae Damasceno, e d'Ieronimo Egizio.Primieramente
e'dicano che NON SI TRUOVANO SCRITTURE INNANZI AL DILUVIO, se non nella lingua
loro; e queste esser certe cose di astronomia, insieme con la predizione del
diluvio scritta da Enoc, figliuolo di Iared, bene cinquecento anni innanzi a
quello, in certi pezzi di terra cotta, acciò che le acque non l'offendessero. E
similmente dicano essere nel Monte Gordeo’in Armenia, in certi sassi, dove dopo
quello si ferma l'arca, scritte in quel luogo da Noè in memoria di tanto caso
alcune cose; e il luogo ancor nella loro lingua chiamarsi Mirmi Noa, che tanto
vale uscita di Noè. Aggiungano a questo, che Abramo, il quale è primo a dare
principio al popolo ebreo, è da Dio primamente cavato di Caldea. PLINIO (si
veda) pare che è ancor egli di questa oppenione, scrivendo che le lettere
assirie 3 Male le stampe Masea ; e la 12 T., con errore più grave, facendo di
due scrittori uno solo,Masea Damasceno .Anche nel Giambullari, Origine della
lingua fiorentina (Fir.), trovasi quasi l'errore stesso, cioè Mnassea
Damasceno. Mnasea, geografo, e Niccola di Damasco o Damasceno, storico dei
tempi d’OTTAVIANO (si veda), sono citati, insieme con Beroso Caldeo e con
Girolamo Egiziano, da Flavio nel primo libro delle sue Antichità Giudaiche, là
dove ei parla del Diluvio. ècirca trecento anni dopo il diluvio. Si che ei
pare più ragionevole, ch'ella ha principio allora quando ella ha il nome, ch'ella
si è parlata prima tanto tempo. E così, come voi vedete, questa loro oppenione
è molto dubbiosa. 1 il che fu non si legge nelle 1a T. La 1a T., Ieronimo. 3 La
1a T., che ella fusse già stata. 4 Caldeo manca nella 2a T. 6 cotta manca nella
2a T. ? Flavio, loc. cit., lo chiama Monte de' Cordiei. 8 alcune cose manca
nella 1a T. sono eterne: la quale non di manco non è senza molte
difficultà. Imperò che molti istoriografi degni di fede, e particularmente GIUSTINO
nel secondo della sua Istoria, tengono che la prima terra che è abitata sia la
Scizia, e conseguentemente la lor lingua parimente sia stata o la prima. Il
nostro ALIGHIERI (si veda), parendogli che ciascuna di queste oppenioni è
dubbiosa e incerta, sicome per il testo si vede, è d'un altro parere diverso; e
a ciò lo induce la esperienzia, maestra delle cose. Imperò che vedendo egli per
le scritture le lingue di tempo in tempo variarsi, in modo tale che come egli
scrive nel suo Convito) se quei che morirono cinquecento anni sono,
risuscitatit or nassero alle loro cittadi, ei crederebbo noche quell fossero da
strane genti occupate, per la lingua da loro discordante. E non potendo però
per questo persuadersi che dal principio del mondo alla edificazione della torre
di Nembrot, dove corsero circa due mila anni, sempre si conserva un medesimo
modo di parlare, induce Adamo a rispondere che quella lingua, la quale ei primieramente
parla, sispense e manca tutta, innanzi che le genti di Nembrot cominciassero a
edificare la torre. Per la quale risposta si può chiaramente vedere che il
libro Della volgare eloquenza, tanto da alcuni lombardi lodato, e tradotto (per
dire come loro) in lingua italiana, non è d’ALIGHIERI (si veda), ma da qualcuno
altro stato cosi composto, e col nome di esso ALIGHIERI mandato fuora. Con ciò
sia cosa che quivi sidicas che la prima lingua, che parla Adamo, è quella che
usano oggi gl’ebrei, e che ella dura insino alla edificazione della torre di
Nembrot; dove qui dice ALIGHIERI il contrario. Oltr'a di 5 La 1a T., 022
que sto, quivi si biasima il parlare fiorentino, il quale ALIGHIERI nel suo
Convito loda massimamente. Le quali contradizioni non credo io mai che ALIGHIERI
non ha vedute, o vedutole, accon 1 La 1a T. ha soltanto stata . ? Le stampe
hanno dalloro ; ma parrebbe qui meglio convenire dalla loro. i della torre,
manca nella 2a T. *La 1aT., dumilia. dice . sentite e scritte.E questo
basti per intelligenza della nostra prima conclusione. Or vegniamo alla
seconda: Che nullo effetto 1 mai razionabile, Per lo piacere uman, che
rinnovella Seguendo il cielo, è sempre ? durabile. Rende la ragione Adamo
perchè si mutino e variino i parlari; e comincia da questa dizione che, dicendo
che nullo effetto razionabile, cio è nessuna cosa fatta dall'uomo, il quale si
chiama animal razionale, per lo piacere umano, cioè per il desiderio e per lo appetito
umano. Questo vocabolo “piacere” ha nella nostra lingua DUOI SIGNIFICATI
[IMPLICATURA – Gice]. Primieramente e'si piglia per ogni sorte di diletto; e
appresso, perchè a tutte quelle cose che noi desideriamo, ottenute che noi le
abbiamo, ne seguita la dilettazione e il piacere, ei si piglia ancora per il
desiderio e per lo appetito che noi abbiamo di una cosa ;sicome noi veggiamo
usarlo da BOCCACCIO (si veda) in molti luoghi, e particularmente nella novella
di Rustico e di Alibec, dove ei dice: che per disporla a' suoi piaceri, cio è
alle sue voglie: ed IN QUESTO SIGNIFICATO L’USA QUI ALIGHIERI, dicendo: per lo piacere
umano, cioè per il desiderio umano, che si rinnova e si muta, seguendo il moto
del cielo, è sempre durabile. E qui con grandissima arte egli aggiunse sempre;
imperò che ei si truovano molti effetti dell'uomo, si come sono le scritture, le
statue e la fama, che trae l'uom del sepolcro e'n vita il serba, come dice il nostro
PETRARCA (si veda), le quali durano tanto tempo, che gl’uomini, per non vedere
il fine loro, l'hanno chiamate eterne; ma non però sono durabili sempre. La
qual cosa mirabilmente espresse ALIGHIERI (si veda) medesimo in un altro luogo,
dicendo: Tutte le vostre cose hanno la morte 3 Come che voi;* ma celasi in
alcuna Che vive 5 molto, e le vite son corte. 1 Cr. affetto.
2Cr.semprefu. ö Cr. Le vostre cose tutte hanno lor morte. i Cr. Siccome voi. 5
Cr. Che dura. E cosi ha renduto la ragione perchè i parlari si mutino.
Ma per maggiore intelligenza di questa sua ragione, è di necessità vedere per
quello che l'uomo si chiami razionabile, e in che modo le sue voglie, seguendo
i moti del cielo, si mutino. Devete dunque sapere che il Creatore (GRICE –
GENITOR) di questo universo, per farlo più bello ch'ei poteva, fa in quello di
ogni sorte creature; e quelle dispose tra loro con tanto ordine, cominciandosi
dalla prima materia che riceve lo essere di tutte le cose, e salendo di grado
in grado in sino all'ultima forma, ch'è Iddio, il quale 1 dà l'essere a tutte, che
i filosofi l'assimigliarono a i numeri ;i quali sono tra loro disposti con
tanto ordine, ch'ei non si può tra loro inframettere unità alcuna senza
variargli. Intra queste cose, alcune o furono da lui fatte perfette, e
alcune imperfette. Perfette si chiamono: quelle che sono da lui create
incorruttibili,e in certo modo eterne, ed ebbero tutte le perfezioni che si
convengono alla loro natura insieme con lo essere, sì come sono, infra i corpi,
i cieli, e infra gl'intelletti, quello dell'angelo. Imperfette poi si chiamono
quell'altre, che furono da lui create corruttibili e mortali, e che non ebbero
da principio tutta la loro perfezione, ma sel'hanno acquistata con il moto e
con il tempo ,e oltr'a questo sono sottoposte a tutte le alterazioni che
arrecano seco i moti celesti; si come sono, tra i corpi, le piante e gl’animali,
e tra gl'intelletti, quello dell'uomo, per essere col suo corpo mirabilmente
unito. E questo fa il sommo Fattore, perchè a questo universo non manca alcuna
sorte di creature, acciò che le perfette con la loro bellezza e perfezione di
natura ci tirassino alla contemplazione di esso Iddio sommo, e le imperfette,
poste a lato a quelle, ci ren dessino la loro bellezza più maravigliosa e più
desiderabile. La qual cosa veggiamo noi che usano ancora 6 nei loro canti i
musici, mescolandovi delle consonanze imperfette, perchè quelle rendino poi le
perfette più dolci e più grate a gl’orecchi de gli iLa 1aT.,che. 2 2a T.,
alcune ne furono. 3 La 1a T., chiamo io. * La 1a T., Imperfette chiamo io ecc.
5 La 1a T., che ancor fanno.
ascoltanti. Ma perchè questo sommo benefattore e padre volle che ogni
cosa potesse acquistare la perfezione sua, dette a cia scuna un valore e una
virtù per la quale ad essa si conducessi, e una voglia e un desiderio
ardentissimo che a quella le tirassi; si come agl’elementi uno valore che gli
spigne a quei luoghi dove ei sono sempre perfetti, come alla terra lo andare al
centro, e al fuoco al concavo della luna, là dove egli è veramente fuoco;
(imperò che, come noi abbiamo dal LIZIO nel primo delle Meteore, questo che noi
veggiamo non è fuoco, ma è una soprabbondanza di calore, sicome è il ghiaccio
nell'acqua una soprabbondanza di freddo); e alle piante uno principio
intrinseco, per il quale elle si nutrissero ed aumentassero e potessero
generare dell'altre simili a loro? e agli animali uno principio di moto
intrinseco, per il quale ei potessero fuggire quelle cose che fossero nocive e
disconvenienti alla natura loro, e seguir quelle che fosser loro salutifere e
convenienti, insieme con un desiderio innato che gli spingesse a cercarle.
Questo principio nelle piante e negli animali è stato chiamato dai filosofi NATVRA,
che altro non vuol dire, che quella potenza onde ha origine e principio quel
moto, per il quale egli acquistano le loro perfezioni. E desiderando similmente
ancor che l'intelletto dell'uomo acquistasse la sua perfezione, gli da una
potenza o vero facultà, con la quale ei potesse similmente acquistarla, chiamata
dai filosofi DISCORSO o vero RAGIONE. Imperò che l'intelletto dell'uomo non ha
da natura altra cognizione che quella dei primi principii, insieme con il desiderio
dello intendere, ch'è la sua perfezione: i quali, sìcome noi abbiamo dal LIZIO nel
quarto della sua Prima filosofia, sono le conclusioni che sono parimente chiare
e note a tutti gl'intelletti, subito ch'egli hanno inteso itermini loro, come
sarebbe questa: egli è impossibile che in un medesimo tempo una cosa medesima
sia e non sia; perchè ciascuno intelletto, subito ch'eisa che cosa è essere,e
che 1La 1aT., uno intrinseco principio. ? La 1a T., dell'altre a loro simili. 3
La 1a T., valore. 4 La 2a T., della sua Filosofia. cosa è non essere,sa
che questa conclusione è vera per proprio lume intellettuale, e non l'impara
per esperienza o per esercizio alcuno. Onde bendisse il nostro ALIGHIERI (si
veda) nel suo Purgatorio. Da questa cognizione intellettuale dei primi
principii, come da cosa nota, partendosi l'intelletto dell'uomo, con una
potenzia ch'egli ha va discorrendo e raziocinando (se così dir si puote) all'intelligenzia
delle cose ch'ei non intende, ed empiesi di’ntelligibili, dove prima è come una
tavola rasa; eco sì viene ad acquistare la sua perfezione. Questa potenzia
nella nostra lingua si chiama ragione; e da lei è l'uomo poi chiamato razionale,
così come quell'altre cose, che io prima vi dissi, per acquistare la loro
perfezione con la natura, son chiamate naturali. Questo nome razionale ? non si
può dare all'angelo, ancora ch'egli abbia lo intelletto, per essere quello
d'una natura pura intellettuale; la quale è creata da Dio con tutte le sue
perfezioni, cioè piena di tutte le specie intelligibili (onde non se l'ha acquistare
con alcuna sua operazione, come l'uomo); e che oltra di questo è 8 di tanta
virtù, che quando Iddio gli appresenta qualche nuovo intelligibile, ei lo
intende subito per semplice lume dell'intelletto, nel modo che intendiamo noii primi
principii, e SENZA ALCUN DISCORSO, e tutto perfetta mente in uno instante e in uno
tempo indivisibile; e no nprima una parte e poi l'altra, si come fa
l'intelletto nostro ne l’intender suo, o per non essere di tanta perfezione; ma
farebbe in quel modo che fa uno lume, quando egli è portato in una stanza buia,
che la illumina tutta in uno istante, e non prima una parte e di poi un'altra. E
per questo dicano alcuni teologi che gl’angeli che peccarono non si sono mai
potuti pentire; imperòche ne l'intender suo, non è nella 1a T. Però là
onde nasca 1 l'intelletto Delle prime notizie, uomo non sape. 1Gr. vegnd . ? La
1a T. manca di questa parola. 3La1aT.ha: perchè egli è. ·La18T., e non sel'haavute
acquistare. 5La1aT. hasolo: Oltra a di questo egli è ecc.
intendendo quegli ciò ch'egl'intendano per semplice apprensione d'intelletto,
lo intendano immutabilmente, e senza mai potere variare e mutare il loro
intendimento; sicome ancora noi non possiamo mutarci di quelle cose che noi INTENDIAMO
PER SEMPLICE LUME D’INTELLETTO, come sono i primi principii; il che non avviene
di poi di quelle che noi INTENDIAMO PER DISCORSO DI RAGIONE. E però si chiama l'angelo
creatura intellettuale, el'uomo creatura RAZIONALE E DISCORSIVA. E perchè, in
quanto al corpo, l'uomo è composto di questa materia elementare della quale
sono composte tutte le altre cose sotto la luna, la quale materia è obligata e sottoposta
alle alterazioni che inducano i moti celesti in lei, egli è da quegli insieme
con l'altre cose diversamente disposto. Onde cosi come la terra altra
disposizione riceve dai cieli il verno, quando ella ha a corrompere i semi e
generare le cose, e altra la primavera, quando ella si ha a vestire di erbe e
di fiori, così la complessione nostra altrimenti è disposta in uno tempo, e
altrimenti in un altro; onde l'anima nostra razionale, in quanto ella è fondata
in su questa nostra complessione corporale, altre voglie ha in un tempo, e
altre in un altro. Imperò ch'ella è tanto mirabilmente unita con quello, che
l'operazioni che ancor totalmente dependono da lei mentre ch'ella è in esso
corpo, si attribuiscano al tutto; onde dice il Filosofo del LIZIO nel primo
Dell'anima, che chi dice: l'anima mia odia, o l'anima mia ama, sarebbe come
dire: l'anima mia fila, o l'anima mia tesse. E seciò non fusse, cio è che l'anima
segue la disposizione del corpo, egli ne a ha, sicome apertamente pruova Galeno
in una opera ch'ei fa di questa materia, che l'operazioni degl’uomini sarebbero
tutte a un modo medesimo; 3di che manifestamente si vede il contrario. Imperò
che le anime nostre nella loro sustanzia, e, come dicono questi teologi, in
puris naturalibus, sono tutte in un medesimo modo e d'una medesima virtù; ma
pigliano poi diversi costumi, secondo la complessione de'corpi ne'quali elle
sono incluse, 1La1aT., per una semplice. 4 La 1a T., con manifesto
errore, mutabilmente. 3 La1aT., a un modo. e hanno diverse voglie,
secondo che quegli si variano per i moti celesti. E questo basti per la seconda
parte del nostro ragionamento. Or vegniamo alla terza e ultima. Risponde
dottissimamente in questa ultima parte Adamo a una tacita obiezione, che se gli
è potuto fare; la quale Ma, cosi o cosi, natura lascia Poi fare a voi secondo
che v'abbella. Per le quali parole voi avete a considerare che l'uomo è
composto di due nature, o vogliam dire di due parti; con l'una delle quali, la quale
è l'anima incorporea, immortale, razionale e libera, egli è simile alle Intelligenzie
celesti; e con l'altra, la quale è il corpo mortale e irrazionale, è simile agl’ANIMALI
BRUTI (cf. Grice: animale +> bruto). E ciò è dalla natura fatto con mirabile
artificio; imperò che avendo ella fatto in questo universo delle creature
irrazionali, corporee e mortali, e delle razionali, incorporee ed immortali, e
non volendo che si andasse da l'uno estremo all'altro senza mezzo, l’è necessario
fare l'uomo, che con una parte communica con 1 Opera di natura 3 è ch'uom
favella; può, non leggesi nella 2a T. ? naturale, manca nella 2^ T. 3 Cr. Opera
naturale. è questa. Potrebbe dire alcuno: A me non pare che questa tua ragione,
Adamo, conchiuda e sia bastante; imperò che tudi'che il tuo parlare manca per
essere effetto dell'uomo, e gl’effetti dell'uomo col tempo mancano tutti, per
esser esso uomo, ch'è la loro causa, caduco e mortale; e nessuno effetto può
essere di maggior perfezione che la sua causa. Questo è ben vero, che gl’effetti
che procedano semplicemente dall'uomo non sono sempre durabili; ma il parlare
non è di questi. Imperò che non è suo effetto totalmente, ma è sua propietà
naturale; le quali così fatte propietà non si separano mai dalla specie loro, sìcome
la calidità dal fuoco, e la frigidità dall'acqua. Dunque come di tu ch'ei
mancasse per esser suo effetto? Alle quali parole così risponde Adamo:
queste, e con un'altra con quelle. E però il parlar suo, insieme con l'altre
sue operazioni, si può similmente considerare in due modi. Primieramente si può
considerare come sua proprietà naturale; e questo è il parlare istesso in
genere, non si ristrignendo più a uno modo che a uno altro; e in questo modo egli
non manca mai all'uomo, ma sempre che sono uomini (zoon logikon), sempre
parlanno (logikon), e di questo non parla qui Adamo. Secondariamente si può
considerare come cosa dependente dalla parte libera e razionale dell'uomo; e
questo è il modo del parlare (e non il parlare), come sarebbegreco, latino, o TOSCANO
– Alighieri parla; Alighieri parla toscano --; e in questo modo è egli effetto
dell'uomo, e variasi e mutasi secondo che pare a gl’uomini. E però disse il filosofo
del LIZIO che i nomi sono stati posti alle cose, secondo ch'è piaciuto (SIGNIFICATIVM
AD PLACITVM) a gl’uomini. E questo è quello che dice qui Adamo, che manca e mutossi.
Onde dice nel testo: Opera di natura è ch'uom FAVELLA (FABVLA), cioè: egli è
cosa naturale all'uomo il parlare; ma così o così, ma più in questo modo che in
quello, natura lascia poi fare a voi, secondo che vi abbella, cioè secondo che
vi piace; chè cosi significa questo verbo. Il quale è verbo provenzale, che a
quei tempi è in uso; e dal medesimo Poeta ancora è usato,? nella medesima
significazione, nel Purgatorio in persona di Arnaldo di Provenza, che è nei
tempi suoi compositore molto famoso, sì come noi veggiamo per le parole di
PETRARCA (si veda) ne'suoi Trionfi. E
così è soluta questa obiezione. Ma per maggiore dichiarazione di questo testo,
voglio che noi veggiamo per quello che il parlare sia stato dato dalla natura
solamente all'uomo, e non ad alcun'altracreatura, ese egli è necessario o no; imperò
che la natura, così com'ella non manca mai nelle cose necessarie, non abbonda
ancora mais nelle soverchie. ' La 1a T., non si ristrignendo più a questo modo
che a quello. 1La 1aT. hasolo: ancora usato. Avendo la naturà fatto
l'uomo, in quanto al corpo, il più imperfetto e debole di alcun altro animale
(il che forse le fu 3 ancora mai, non è nella 1a T. forza, per
volerlo fare più prudente che alcun altro, donde gli bisogna farlo di più
temperata complessione), ne avviene che ogni minima cosa l'offende; il che non
fa così agl’altr’animali. Oltr'a di questo, avendogli dato lo intelletto in
certo modo imperfetto e il minimo tra le intelligenze, come noi abbiamo dal
Filosofo del LIZIO nel libro Dell'anima, e desiderando ch'ei potesse conseguire
la perfezione e dell'uno e dell'altro, le è necessario CONCEDERGLI IL PARLARE,
con il quale ei potesse chiedere i bisogni del corpo, e apparare le cose
necessarie alla perfezione dell'anima. Voi vedete, in quanto al corpo, ch'ei nasce
ignudo, e hassia vestire della pelle degli altri animali, a procacciarsi il
cibo, e a fabricare le case, dov'ei possa difendersi da quegli incommodi che
arrecano seco le varie stagioni de'tempi. Vedete ancora di poi, in quanto
all'anima, che gli bisogna apparare molte cose, se non necessarie allo essere, almanco
al bene essere della sua vita, senza le quali ella sarebbe misera e infelice. Il
chenon avviene a gl’altr’animali; perciò che ei sono vestiti dalla natura, e
per tutto truovano i cibi convenienti alla lor vita; e senza alcuno maestro, ma
solamente da naturale instinto guidati, si sanno fare le case, e ciò che fa
loro di mestieri a conservarsi. Vedete la rondine, che quando viene il tempo di
fare i suoi figliuoli, sa per natura fare il nido; e di poi, veggendogli nati
ciechi, va a cercare la celidonia per guarirgli. E le formiche similmente sono
da lei spinte, quando i frumenti sono sparsi su per l'aie, a pigliarne e
riporgli nelle lor buche. CHE BISOGNO ADUNQUE HANNO GL’ANIMALE DI “PARLARE”? Chè,
seei sono d'una specie medesima, hanno bisogno di sì poche cose, e tutti a un
modo, e son spinti dalla natura a cercarle: e se ei sono di varie specie, non
convengono insieme. MA ALL’UOMO È EGLI CERTAMENTE NECESSARIO; imperò che egli
ha bisogno di tante cose, e quanto al corpo e quanto all'anima, che nessuno se
le può procacciare per sè solo; e però è stato bisogno che si accozzino insieme
molti, e che l'uno sovvenga al bisogno dell'altro. Il che non 4 La 1a T., Il
che a gl’altr'animali non avviene. 2 La 1a T., è dalla natura spinta a cercare.
3 La 1a T., hanno di sì poche cose bisogno. si saria potuto FARE SENZA
QUESTO MEZZO DEL “PARLARE”, con il quale l'uno possa manifestare all'altro i
suoi bisogni [GRICE – “to influence and being influenced,” to “cooperate”]; e
per questo la natura l'ha dato solamente all'uomo, come quella che non manca
mai nelle cose necessarie. E però è qui chiamato dal Poeta IL PARLARE
OPERAZIONE NATURALE dell'uomo, cioè necessaria alla NATURA sua. E se alcuno mi
opponesse, dicendo che ci sono an cora de gl’animali che parlano [GRICE –
Prince Maurice’s Parrot], si come gli storn e gli, le gazze, i papagalli, e non
solamente l'uomo, si risponde che il loro NON È PARLARE, ma è una imitazione di
voce; imperòche ei NON INTENDONO ciò che ei dicano, e dicano sempre quelle
parole che egli hanno nell'udire imparate, o a proposito o no ch'elle si sieno.
E se alcun altro dicesse: Come di tu che il parlare è solamente dell'uomo? Non
abbiamo noi nelle sacre lettere, in molti luoghi, ch'e'parlano ancora gli angeli?
Dico che il parlare non s'appartiene all'angelo, come angelo. Imperò che gl’angeli
sono spiriti, e sono loro manifesti i concetti l'uno dell'altro. Ma se eglino
alcuna volta parlano, ei lo fanno per manifestarsi A NOI e per bisogno nostro,
e hanno preso corpi, dal ripercotimento dei quali hanno formate le voci o vero
suoni, e con la lor virtù le hanno poi terminate e fatte significative; si come
ei fecero nell'asina di Balaam, la quale coi suoi strumenti naturali fa la
voce, e l'angelo la termina e fa significativa. Avete dunque veduto come il parlare
è solamente dell'uomo, e com'ei sia sua operazione e proprietà naturale. Della
qual conclusione io probabilmente cavo una particular lode della nostra lingua;
e questa si è, ch'ella è più propria all'uomo, che alcun'altra che si parli.E
che questo è ilvero, lo pruovo così. Tanto quanto una operazione è all'uomo più
propria e secondo la sua natura, tanto gli è anco più facile e men faticosa. Il
parlare nostro gli è men faticoso e più facile che alcun altro; a dunque gli è più
proprio, e più secondo la natura sua. E che La 1a T. ha: imperò che ei non intendono
ciòche ei dicano, che è il proprio del parlare. E che ei sia il vero, avvertite
che e' dicono sempre quelle parole ecc. i La fa T.,che mai non manca. ?
La 1a T., gli storni. Questo siailvero, ponetemente che nessuna lingua
è più facile a imparare, che la nostra. Pigliate uno che non sappia altra
lingua che la sua, e menatelo in Turchia, nella Magna, fra spagnuoli, francesi
o schiavoni, o tra quale altra gente sivoglia; e poi lo menate tra noi. Voi
vedrete (e questo ne dimostra l’esperienzia) ch'ei non imparerà di qual si
voglia lingua tanto in uno anno, quanto ei farà della nostra in uno mese. Il
che non avviene per altro, che per la facilità d'essa, e per la proprietà
ch'ella ha con la natura umana. Un'altra cagione si puo forse ancor dire che è
quella, per la quale questa nostra lingua s'impara così facilmente.E questa si è,
per avere TUTTE LE SUE PAROLE CHE FINISCONO IN LETTERE VOCALI; le quali per
essere, come scrive Macrobio, quasi che NATURALI ALL’UOMO, si mandon più
facilmente alla memoria che l'altre, e ancora più lungamente si ritengono.Donde
nasce forse ancora quella maravigliosa bellezza ch'ella ha, scrivendo Quintiliano,
che quante più lettere vocali ha una parola, tanto è più dolce e più grato il
suo suono. Seguita Adamo il parlar suo; e per confermazione delle cose ch'egli
ha dette adduce per esemplo, che innanzi ch'ei morisse, gli uomini mutarono il nome
a Dio; e dove prima lo chiamano Uno, gli posero nome El. Nelle quali parole ei
fa quella bella argomentazione che i logici chiamano a maiori; la quale io
credo che noi potremo ? chiamare dalla parte più importante. Fa dunque Adamo
questa argomentazione, per volere provare che la sua lingua manca, dicendo: Se
Iddio, il quale è sola mente stabile e immutabile in tutto questo universo, a
mio tempo muta nome, che credete voi che facessero l'altre cose, le quali sono
in sempiterno moto e continuamente si variano? Di poi dice che noi non ci
debbiamo maravigliare diquesto; con ciò sia cosa che l'uso umano continuamente
si muti e si varii in ciascuna operazione nostra. E assomigliandolo alle
frondi, fa una comparazione tanto dotta e tanto bella, che io 1La1aT.,ei fa
una argomentazione. 2 Così le stampe; ma forse la lezione vera ha da essere
potremmo. 3La 1aT.ha solo: conciòsiache l'uso umano continovamente si muta. Pria
? ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè: prima ch'io morissi e
discendessi nel Purgatorio, o vero nel Limbo, dove andano tutte l'anime di
coloro che crede vano l'avvenimento di Cristo. Ambascia è quell’infermità che i
Greci e i Latini chiamano asma, e ancora da noi toscanamente si chiama asima; la
quale è una difficultà di alitare, che, secondo Aezio nell'ottavo, nasce
dall'avere ristretti i meati del polmone (cioè quei luoghi dove passa lo
spirito a rinfrescamento del cuore), e ripieni di materie grosse eviscose; o
veramente nasce da debolezza di virtù naturale. Galeno nel quarto libro
De'luoghi infetti dice ch'ella può ancor procedere da infiammazione di cuore; e
dà lo esemplo di coloro che hanno la febbre, e di coloro che si sono affaticati
nel correre, i quali, per avere acceso il calore nel cuore ed eccitatolo, 'patiscono
questa difficultà di respirare. E perchè ancora coloro che sono rinchiusi in
luoghi che non abbino esito, o son ripieni di vapori grossi, patiscano questa
difficultà, si dice per similitudine che gl’hanno l'ambascia. Ora perchè il Limbo,
come voi avete d’ALIGHIERI (si veda) medesimo, è un luogo appiccato coll’Inferno
nel ventre della Terra; e ne'luoghi che sono sotterra, per esser ripieni di
vapori, che il sole continuamente tira da quella, si respira con difficultà,
dice qui Adamo: Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè, al Limbo tra
gl’altri santi padri. Questo luogo ancora nelle sacre lettere è chiamato il
seno di Abramo; e la cagione è, perchè Abramo è il primo, che lasciati gl'idoli
venissi al cultos perme non sapre iche altra lode dar mele, se non dire ch'ella'
è d’ALIGHIERI (si veda). Perciò che io non ho mai visto ancora autore alcuno
che in questo l'avanzi. Dice adunque il testo: 1 La 18 T., che dire ella ecc. ?
Malela2aT., Prima.3 La 1a T., di materia grossa e viscosa. La 1a T.,
escitatolo. 5 La 1a T., venne al vero culto. di Dio; onde gl’è
promesso che del seme suo uscirebbe la redenzione del mondo. E però coloro che
muorono, andando in questo luogo, si dice che gl’andano a riposarsi nel seno d’Abramo,
cioè nella promissione che è data da Dio ad Abramo. Dice adunque Adamo: pria
ch'io scendessi a questo luogo,il sommo bene, cioè Iddio, donde vien la letizia
che mi fascia, cioè, da cui viene la mia beatitudine (imperò che, come noi
abbiamo in San Giovanni al XVII capitolo, altro non è vita eterna che vedere Iddio),
è chiamato dagl’uomini uno. Il quale nome gl’è posto da quegli per similitudine,
e per alcune proprieta di che ha l'unità con Dio, sìcome è, essere semplice, indivisibile,
non essere numero, ma principio di tutti, e mantenere tutte le cose in essere; perchè,
come voi avete da BOEZIO, tanto è una cosa, quanto ella è una; le quali tutte cose
sono in Dio. Imperò che egli è semplice e indivisibile; non è alcuna di queste
cose che noi veggiamo, ma principio di tutte, e mantienle in essere
continuamente; e molte altre proprietà simili al l'unità, come si legge nella dottrina
pitagorica di CROTONE. E però gli posero gl’uomini questo nome uno; perchè non potendo
porgli nomi che significassero la sua sustanzia (perchè nessuno conosce il padre
, se non il Figliuolo, come noi abbiamo in San Matteo allo XI), gli poneno di
quegli che significano? qualche sua proprietà. Di poi, lasciando questo nome
Uno, lo chiamarono El, cio è Dio; il quale nome gli è ancora posto per una
proprietà sua. Imperò che considerando gl’uomini la maravigliosa potenza dell’opere
sue, lo assimigliarono a l'ardere del fuoco, non si ritrovando infra
l'operazioni delle cose naturali potenzia alcuna che superi quella delfuoco. Onde
dice il testo: Elle si chiamd poi. Avvertite che tutti i testi che io ho vistidicano:
Eli sichiamo poi; il che non può stare; imperò che Eli vuol dire Iddio mio; 1
La 28 T., ha ; ma la lezione è mal sicura, poiché il passo nella stampa è
guasto, e potrebbe non essere stato emendato interamente nelle correzioni a
detta edizione. In quella del Doni, le parole a l'unità mancano. La fa T.,
significavano. donde la sentenza non quadrerebbe a dire: ei si chiama poi
Iddio mio. Anzi si chiama El, che vuol dire Iddio. E per fare il verso intero
disse Elle, e non El, come ei deve; e usò qui lo Elle in quel modo ch'egli usa
nel purgatorio lo m , dicendo: Ben avria quivi conosciuto l'emme. Questo nome
El è ancora posto a Dio per una sua proprietà; perchè tanto è a dire El, quanto
potente e conservatore. E per questa cagione una gran parte degli angeli, per
essere stati da Dio ordinati e deputati a governare e mantenere questo uni
verso, hanno incluso nel nome loro questo nome di Iddio EL; nè senza quello si
possono nella ebraica lingua proferire, si come è GABRI-EL, che vuol dire
grazia o vero virtù di Dio, RAFFA-EL, medicina di Dio ,e così va discorrendo de
gli altri. La qual cosa non è senza gran misterio, come potrà ben vedere chi
vorrà diligentemente esaminarla nel santissimo Reuclino e nell'universalissimo Agrippa.
Di poi seguita il testo: eciò conviene, e questa è cosa conveniente. Però che
l'uso umano dottissimamente e con grande artificio assomiglia il Poeta i
costumi dei mortali alle fronde. Imperò che, come voi sapete, le fronde si
generano e cascano da gl’alberi per la disposizione che fa il sole con l'altre
stelle, appressandosi o discostandosi da quegli; e così le nostre voglie, sì
come noi abbiamo a sufficenzia di sopra dichiarato, si mutano e si variano
secondo la disposizione che il cielo induce nei nostri corpi. E questobasti per
dichiarazione di questo testo. Se altra volta ne fia data occasione,noi
c'ingegneremo di sodisfarvi maggiormente per la grata audienza che voi ne avete
prestata; della quale sommamente vi ringraziamo. 1 La 1a T., e universalissimo. Grice: “The issues
Gelli addresses are interesting, but hardly Oxonian.” Grice: “Gelli is
considering ‘our tongue’ (nostrra lingua) and conversing on how difficult it is
to set it to rules – not impossible, though. Cf. my procedures. Gelli is
confused about ethnicity. The Roman ethnicity is different from the Latin
ethnicity, -- or rather the Latin ethnicity involved more than the Roman
ethnicity – yet he uses freely and undistinnctly ‘lingua romana’ and ‘lingua
latina’ – or ‘latino’ meaning sermone – otherwise, he refers to ‘i romani’ –
never to ‘I latini’ – the thing is – with who is he contrasting them? With the
fioreusciti fiorentini like himself, the flourished Florentines – lingua
fiorentina – but he seems to prefer lingua toscana – he accepts that lingua
napoletana is quite a different thing, since he himself cared to translate from
‘lingua napoletana’ to ‘lingua toscana’ – more interestingly, he is into
Toschani (thus spelled) --. And here comes the myth which some have called
evangelist. Etruria as the cradle of Tuscany, and Hebrew and Adam’s tongue as
the ‘lingua primigenia’. Gelli is clear about the nature of language – made for
‘uno possa manifestare all’altro i suoi bisogni. Like Plato, he revels in the
dialogic form, of a cooper with his own soul – what about Boezio and Cicerone,
he asks. They are different. Cicero tried to ENRICH (make piu ricca) the lingua
he thought was the ‘piu bella del mondo’ – Boezio the same. But the Toschani
are not Romani – and so the cooper can do as he wishes!” Giovan Battista Gelli. Gelli. Keywords: sulla difficultà di mettere in regole la
nostra lingua, lingua, linguaggio, Grice on English, idiolect, dialect,
Language, ---. Noe – origine della lingua, la lingua di Adamo – la lingua
fiorentina -- Accademia agli Orti Oricellar, la lingua dei romani, le regole
nella PROSA di Cesare e Cicerone, le regole nel tempio di Ennio, Glauco,
Svetonio, e Tacito, Virgilio, Alighierii. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Gelli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gellio: la ragione conversazionale e il portico romano
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Arriano dedicated the discourses of
Epitteto to Gellio, who presumably takes at least an interest in the Porch. Lucio Gellio. Gellio.
Grice e Gemmis: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale del console – filosofia terlizzese – filosofia
barese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Terlizzi). Filosofo italiano. Terlizzi, Bari, Puglia. Grice: “I
love Gemmis.” Grice: “Gemmis is a good example of how an Italian philosopher
differs from a philosophy don at Oxford – ‘don’ is derogatory; whereas de’
Gemmis is a barone! – And he writes about ‘reason,’ ‘ragione’ – with Abate
Genovesi --; unlike a ‘don’ at Oxford who would over-do reason to keep a post
at his college!” – Grice: “In them days, Italian illuminists took reason very
seriously, and possibly ‘light,’ too!” Ferrante
de Gemmis (Terlizzi), filosofo. Figlio del Barone di Castel Foce Tommaso de G. Si
trasfere in Napoli affidato al pro-zio, dove studia dai più prestigiosi
precettori. Allievo di GENOVESI (si veda), di cui divenne amico e con cui
mantenne una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere
familiari del celebre illuminista. Si laurea a Napoli, si introduce negl’ambienti
più esclusivi della corte partenopea istituendolo erede universale. Morto il
pro-zio, e nominato a Cava de' Tirreni. A Terlizzi si dedica ai suoi studi di
filosofia e da vita ad una fervida attività culturale rivelandosi l'esponente
primario dell'illuminismo. Istituì una gruppo di gioco, vero e proprio cenacolo
culturale con scopo di ricerca filosofica e di attuazione pratica di conoscenze
in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione reale perché
sospetto centro di idee liberali, il gruppo di gioco dovette chiudere, ma gli
incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento
di GENOVESI. Governatore de promosse il riscatto della città dal diritto di
molitura che ha la duchessa di Giovinazzo. Fonda il Conservatorio delle
Orfanelle a la scuola con reale approvazione. E inoltre incaricato da
Ferdinando I di Borbone al riordinamento dell'amministrazione della Città, che
fu divisa in tre ceti in base ai ranghi. Srive saggi filosofici e una “Tavola
di Storia della Filosofia” (Napoli, Soc. Letteraria). Gaetano Valente
Feudalesimo e feudatari Terlizzi nel Settecento, Molfetta, Mezzina, Cabreo de G.,
Biblioteca Provinciale G., Bari Ruggiero Di Castiglione, La Massoneria nelle
Due Sicilie e i fratelli meridionali, Gangemi,
Roma. FERRANTE DE G. Figlio di Tommaso de G. Si trasfere nella capitale
affidato al pro-zio, dove studia grammatica, eloquenza latina, logica, e
matematica dai più prestigiosi precettori. È anche allievo di GENOVESI (si
veda), di cui divenne amico e con cui mantenne una cospicua corrispondenza
epistolare raccolta nelle Lettere familiari del celebre illuminista. Laureatosi
a Napoli si introduce negl’ambienti più esclusivi della corte partenopea,
essendo istituto erede universale. Nominato dal Re a Cava de' Tirreni. ATerlizzi
si dedica ai suoi studi di filosofia e da vita ad una fervida attività
culturale rivelandosi esponente primario dell'illuminismo della regione.
Istituì una gruppo di giocco a Terlizzi, vero e proprio cenacolo culturale con
scopo di ricerca filosofico e di attuazione pratica di conoscenze in campo
agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione reale perché sospetto centro
di idee liberali, il gruppo dove chiudere ma gli incontri culturali
proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento di GENOVESI.
Ha un grave incidente per la caduta da un calesse, per cui subì una difficile
operazione e a stento salva la vita. Governatore di Terlizzi e promosse il
riscatto della città dal diritto dell'ius moliendi, diritto di molitura, che
aveva la duchessa di Giovinazzo. Fonda il Conservatorio delle Orfanelle e apre
una scuola con reale approvazione. È inoltre incaricato da Francesco I di
Borbone al riordinamento dell'amministrazione della Città, divenuta regia. Scrive
numerose saggi filosofici, e una "Tavola della storia della filosofia” pubblicato
a Napoli nella stamperia della Soc. Letteraria. Ne scrive la biografia
Bisceglia pubblicata nel "Dizionario degli uomini illustri del
Regno". Muore a Terlizzi, largamente stimato, ed e sepolto nella cappella
nobiliare de G. di Terlizzi. Ferrante de Gemmis. Gemmis. Keywords: il console,
tavola cronologica della storia universal, vita e opinione, prejudici e
predilezioni- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gemmis” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Gennadio:
la ragione cnversazionale e il divino -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Marsiglia). He argues that the divine is
the only incorporeal being, but that souls and angels are material. Gennadio.
Grice e Genovese: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale della tribù – scuola di Napoli – filosofia
napoletana – filosofia campanese --filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo
italiano. Grice: “I like Genovese; for one, he has explored the philosophy of
‘vincoli,’ which is all that my theory of communication is about!” Grice:
“Genovese has explored the etymology of ‘tribe,’ as originating with Romolo!”
Gricce: “Genovese has punned on Kant’s silly ‘pure reason,’ surely what Kant meant
was a pure critique of reason – since ‘pure’ is hardly synonymous with
‘theoretical,’ which the treatise is all about! When Kant goes on to write Part
II, he qualifies ‘reason,’ as ‘practical,’ HARDLY impure!” – Studia a Pisa e
Parigi sotto Foucault al Collège de France. Interessato alla teoria dei sistemi, entra in
contatto con Luhmann. La teoria sociologica costituirà da allora una parte
importante della sua riflessione. Membro della Fondazione per la critica
sociale, fa parte della redazione della rivista La società degli individui e
lascia la redazione di Il Ponte per contrasti sulla direzione della
rivista. Formatosi in una prospettiva hegelo-marxista vicina alla Scuola
di Francoforte, se ne allontana progressivamente (come si può osservare già in
“Dell’ideologia inconsapevole. attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno”
(Napoli, Liguori), assumendo sempre più nettamente una postura
scettico-relativista con un’attenzione alle scienze sociali e, in esse, alla
funzione, appunto relativistica, svolta dall’antropologia culturale. Indicativo
di questo passaggio è l’articolo su “Hume e la filosofia antropologica” in “Tra
scetticismo e nichilismo” (Pisa, Ets), in cui nel contempo si nota l’interesse
per la teoria dei sistemi. La forma
compiuta dell’evoluzione della sua filosofia si trova in “La tribù
occidentale”, “Per una nuova teoria critica” (Torino, Boringhieri), e:Un
illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario” (Torino,
Rosenberg e Sellier), in cui, nella presa di distanze dalla soluzione di
Habermas (v. Speranza, “Grice e Habermas”), si profila una logica
dell’ibridazione e del paradosso come fuoriuscita dalla dialettica di marca
hegeliana. Questa linea è approfondita,
in senso più strettamente politico con il rilancio di un’idea di socialismo,
nel successivo “Convivenza difficile” (Milano, Feltrinelli), “L’Occidente tra declino
e utopia” (Milano, Feltrinelli), e soprattutto, facendo i conti finali con la
teoria dei sistemi, nel “Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione,
potere” (Napoli, Cronopio), a tutt’oggi
la sua opera teoricamente più significativa. Si è dedicato in modo particolare
ai temi politici e civili con “Che cos’è il berlusconismo” (Roma, Manifesto); “Il
destino dell’intellettuale” (Roma, Manifesto), “Totalitarismi e populismi”
(Roma, Manifesto) -- tutti pubblicati dalla casa editrice Manifesto di Roma, e
intervenendo regolarmente in rete nel sito “Le parole e le cose” e in quello
della rivista Il Ponte. I suoi interessi estetico-letterari si esprimono
dapprima con “Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva”
– keywords: scena intersoggetiva – (Napoli, Liguori), in cui, nel rivisitare il
mitico personaggio teatrale, e poi anche filmico, creato da Wedekind, affronta
il tema della cosiddetta lotta dei sessi, ripreso con un romanzo breve in forma
epistolare (“L’anti-eros”, Firenze, Ponte alle Grazie) in cui sono presenti sia
una chiara vena satirica sia il tentativo di fare filosofia in altro modo, in
una vaga ispirazione kierkegaardiana. Seguono i libri di viaggio, o
apparentemente tali nella miscela di finzione narrativa e saggismo, Falso
diario e Tango italiano (Torino, Bollati Boringhieri); “L’Occidente (“Roma,
Manifestolibri), e ancora quello che probabilmente è il suo libro più sofferto,
insieme documento di una crisi e stravolta autobiografia visionaria, “Ci sono
le fate a Stoccolma. Dal diario dell'esilio mentale” (Reggio Emilia, Diabasis).
Altre saggi: “Modi di attribuzione” (Napoli,
Liguori); “Figure del paradosso” (Napoli, Liguori); “Critica della ragione
impure” (Milano, Bruno Mondadori); “Gli attrezzi del filosofo” (Roma, Manifesto).
“L'idea, o forse dovrei dire il gesto, mi sembra felice: invece di scrivere un
saggio su x (ideologico, politico, storico) scrivere di sé come turista a
disagio che vorrebbe scrivere un libro su x», G. Bollati a G., le Giulio
Bollati. Lo studioso, l'editore, Torino, Bollati Boringhieri, A. Tricomi, La
Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet. G. è quasi costretto non semplicemente
ad alternare, ma addirittura a sovrapporre, ad arricchire l'uno con le
peculiarità degli altri, e infine a rendere, più che reversibili,
indistinguibili, registri argomentativi e stilistici tra loro assai diversi. Ci
sono le fate a Stoccolma diventa perciò il libro di un filosofo, senza che mai si possano individuare
luoghi del testo in cui una delle anime che lo ispirano prenda nettamente il
sopravvento. Le due leggende troiana e romulea. Il primo popolo, ossia i Ramni,
i Tizii e i Luceri. La plebe. Dopo la rivoluzione portata nella storia
tradizionale romana da Perizonio, con le sue Animadversiones historicæ, e dal
Beaufort con la sua famosa Dissertation sur l'incertitude des cinq premiers
siècles de l'histoire romaine, saggi che si succedettero alla distanza di mezzo
secolo, la critica, che rimane negletta nell'evo antico e nel medio, perchè
riguardata o inutile o incapace di produrre frutti fecondi, comparve un
elemento necessario nello studio di quella storia tradizionale. E di quei due
critici va detto ciò che in una pubblicazione recentissima. La prima edizione
delle Animadversiones venne in luce ad Amsterdam, e quella della Dissertation
beaufortiana ad Utrecht. Storia di Roma narrate da BONGHI (si veda), Manifesto
di BRIOSCHI (si veda), GIORGINI (si veda), e MINGHETTI (si veda). Questi tre signori
recano il seguente giudizio sulla Storia Romana di NIEBUHR: Amalgama felice di
erudizione e di critica, l'opera di Niebhur (sic) è fatta col sentimento che vi
domina, non tanto per dare una nuova direzione allo studio delle antichità,
quanto per ispirarne l'amore. Questo giudizio dimostra che gl’autori del manifesto
non sono storici. Ma appunto perchè non sono tali, avrebbero potuto astenersi
dal profferire sul fondatore della critica storica moderna un giudizio che di là
dell’alpi fa un'impressione tutt'altro che lusinghiera per noi. Al giudizio degli
scrittori del manifesto, contrapponiamo quello di Savigny e di Schwegler, la cui
competenza insiffatto argomento non èscono sciata da alcuno. Savigny, ne'suoi “Vermischte-Schriften”,
così parla della storia romana di Niebuhr. L'opera di Niebuhr ha impresso alla trattazione
della storia dell'antichità un carattere affatto nuovo (Niebuhrs Werk hat der
Behandlung der Geschichte des Alterthums einen ganz neuen Charakter verliehen. Essa
ha inalzato l’ideale della storiografia e fissato l'indirizzo di ogni ricerca
nel campo. Rivista di Storia Italiana. Origini Romane. I critici: loro scuole:
Niebuhr, Schwegler, Mommsen, BONGHI (si veda). I. ragione, a parer nostro, di Niebuhr; che,
cioè, questi si propone più d'inspirare l'amore allo studio delle antichità romane,
che di dare a quello studio un indirizzo nuovo. L'opera di Niebuhr mira soprattutto
a questo secondo scopo. Quanto all'altro, del destare l'interesse per lo studio
delle antichità, esso rampolla naturalmente dal primo. Mentre la critica di PERIZONIO
e di Beaufort, pel suo carattere negativo, non puo prefiggersi che quest'ultimo
scopo. Sebbene però il concorso della critica è, dopo la comparsa del saggio di
Perizonio, generalmente ammesso, esso non è usato da tutti secondo l'ufficio
suo. E se i più se ne giovarono per rettificare od anche per abbattere del
tutto la tradizione romana, non mancarono anche coloro che se ne servissero in
senso opposto, che è a dire, in difesa di essa tradizione. Fra questi ultimi
vanno segnalati Kobbe (“Römische Geschichte”), Gerlach e Bachhofen (“Geschichte
der Römer), Newmann (“Royal Rome,” ecc.) e Duruy (“Histoire des Romains”). Gl’altri
scrittori, e sono il maggior numero, si divideno in due scuole. All'una vanno
ascritti i seguaci di NIEBUHR, all'altra i suoi correttori. Oggi il campo è
tenuto dai secondi, in mezzo ai quali spiccano le due splendide figure di
Schwegler e di Mommsen. Costoro sono pure campioni di due metodi diversi nel
l'applicazione della critica alla storia tradizionale romana. Il metodo di
Schwegler è severamente ANALITICO. Egli espone prima la tradizione in tutti i
suoi minuti particolari e con le sue varianti. Poi, nel paragrafo successivo,
assoggetta la tradizione ad un rigoroso esame critico, diretto a scovrirne la
genesi, e il carattere degl’elementi che concorsero a crearla. In questa
diagnosi spicca, colla potenza di acume dello scrittore, la sua meravigliosa erudizione.
Dopo di avere ben fermato il concetto della “leggenda” e del “mito”, e fissate
del secondo le categorie diverse (mito etiologico, mito etimologico, ecc.),
egli procede a classificare geneticamente i singoli elementi della tradizione
romana, e ci dice quali debbano ascriversi delle antichità romane -- Schwegler (Röm.
Gesch.) aggiunge, La storia romana di Niebuhr, opera sotto ogni rispetto
classica, non solo da una nuova direzione allo studio dell'antichità fatto
sinora, ma è ancora il punto di partenza e il fondamento a tutte le ricerche
future, alle quali egli segna l'indirizzo e da il più fecondo impulso
(Seinerömische Geschichte, ein grossartiges,
in jeder Beziehung classisches Werk, ist nicht nur der Brennpankt und Abschluss
der bisherigen, sondern auch der Ausganzspunkt und die Grundlage aller spätern
Forschungen, zu denen es den Anstoss und die fruchtbarste Anregung gegeben
hat). alla “leggenda”, quali all'una o all'altra forma del “mito”, e quali
deveno aversi in conto di storici. Non oseremmo asserire che in questa minuta
classificazione Schwegler coglie sempre nel segno. Ma dobbiamo pur dichiarare
che in essa nulla apparisce mai di coscientemente arbitrario; di maniera che si
potrà dissentire da una data sua opinione, perchè faccian difetto gl’argomenti
con cui comprovarla, non già perchè gl’argomenti siano stati usati a
sproposito. Il saggio di Schwegler, comparsa or fanno 30 anni, rimane, a parer
nostro, fino ad oggi insuperata. Il metodo di Mommsen è tutto l'opposto di quello
di Schwegler. Qua il racconto tradizionale è preso in esame capo per capo. Là
di esso non è fatto nemmen parola. In luogo della tradizione, abbiamo un
racconto ricostruito dalla critica, senza però che estrinsecamente apparisca
traccia di siffatto lavoro. Non vi è dubbio che questo metodo presenti maggiori
attrattive dell'altro, perocchè escluda ogni processo dimostrativo. Ma appunto
perciò porta anche maggiore responsabilità a chi lo segue; e offre più largo
campo alle censure. LA STORIA ROMANA di Mommsen ne incontro difatti di vive ed
acerbe, sebbene il valore generale della sua opera è da tutti riconosciuto. La
polemica suscitata da essa torna poi a grande profitto della critica storica, perchè
essa da occasione a Mommsen di lumeggiare alcuni luoghi oscuri della storia
romana, mercè una serie di monografie storico-critiche, che egli raccolge col
titolo di ““Römische Forschungen.” Il metodo di Schwegler trova un am
plificatore fra noi, in BONGHI (si veda), e la sua STORIA DI ROMA comparire in
luce. Il chiarissimo autore premette ad esso una lettera in risposta al
manifesto dei triumviri che aveano promosso la pubblicazione della sua opera. In
questa lettera egli dice, che gli pare strano e VERGOGNOSO che una storia tutta
nostra non ha mai ritrovato in Italia chi dopo gl’antichi hanno intrapreso di
narrarla. Veramente, gli storici nazionali di Roma antica non mancano, come non
mancarono i critici, e da VALLA (si veda) a VANUCCI (si veda) trovasi una
schiera numerosa di dotti che a quello studio applicarono l'ingegno e la
dottrina. In questa schiera spiccano i nomi d’ORIOLI, d’UCCELLI, di ROSSI, di
CANAL, di CANINA, le cui saggi dimostrano, che noi non ci siamo contentati,
come afferma Bonghi, di tradurre prima
Rollin, poi Niebuhr e Mommsen. E se la letteratura nostra mancas pure di
codeste saggi, non bastano le pagine inspirate che sulla storia romana
dettarono MACHIAVELLI e iVICO, per ismentire il basso concetto che Bonghi reca
della storiografia italiana? LA STORIA DI ROMA di Bognhi non contiene
sufficiente materia, perchè si puo dire fin d'ora in quale misura
l'aspettazione dell'opera sia stata soddisfatta. Perché l'autore, amplificando il
metodo di Schwegler, premette alla critica storica la critica letteraria della
tradizione. All'esame di ciò che vi può essere di storico nella tradizione e
della genesi sua, egli manda innanzi la ricerca della sua forma primigenia. Per
ora non abbiamo che la sua dichiarazione di avere scoverto in una selva
selvaggia ed aspra e forte di dissensi, di congetture, di questioni d'ogni
fatta qualche sentiero non ancora battuto; lo che acuisce il desiderio di avere
sott'occhi il saggio che avrebbe dovuto comparire insieme col primo , con la
quale ha comune il subbietto, e della quale è l'anima. L'autore stesso
riconosce che lo scompagnare le due parti, come si è fatto, rende meno facile
ai lettori di comprendere il suo disegno. E così appunto è avvenuto. Ed io devo
confessare che questa difficoltà è nata anche in me, sebbene il lungo esercizio
mi abbia reso in certo modo famigliare questo studio. Dopo il lavoro
diligentissimo di Schwegler, a me è parsa meno necessaria quest'opera di gran
pazienza e fatica, come l’autore stesso chiama e con ragione, l'esame minutissimo
cui sottopose la tradizione. E perchè a ciò solo non si rimane l'opera sua nel saggio
pubblicato, ma qua elà egli è indotto dallo sviluppo della sua analisi, ad
entrare nel merito storico della tradizione, la separazione della seconda parte
dalla prima è ancor più deplorata. Senza di essa noi avremmo, per esempio, chiarito
subito la teorica, con la quale l'autore chiude il suo discorso sulla leggenda di
ROMOLO, e che messa fuoriamo di assioma storico, a noi è parsa mancante della
necessaria chiarezza, per poterci risolvere ad accettarla. Eccola con le parole
stesse dell'autore. Del rimanente, è necessario, dic'egli, tenere ben distinte queste
tre dimande. Prima, se una leggenda contenga elementi storici. Seconda, quale sebbene
pero l'Italia fa il dover suo in questo importante studio, ciò non iscema
l'interesse che desta nei dotti la comparsa di un'opera, dettata d’una mente
che della sua grande potenza da saggi copiosissimi nelle discipline più
svariate. la storia è stata. Terza, come la leggenda è nata. Noi abbiamo
obbligo di rispondere di no alla prima dimanda, se ci si prova che debba essere
negativa, pur quando non abbiam modo - e moltissime volte anche a tempi molto
più vicini ai nostri, che non sono quelli della fondazione di ROMA, non ne abbiamo
il modo — di rispondere nè in tutto nè in parte alla seconda ed alla terza.
Come si vede, questo giudizio riesce al quanto oscuro, particolarmente perché
gli manca una dichiarazione di termini, senza la quale non se ne può misurare
il valore. Che cosa intende BONGHI per “leggenda”? Ciò che noi chiamiamo “leggenda”,
i tedeschi chiamano “sage.” Ma la differenza sta tutta nella forma, mentre un
solo ne è il concetto. Ora il concetto della “leggenda” è questo. Cioè, il ricordo
d’un evento notevole trasmesso oralmente, soprattutto per mezzo di canti
popolari, dall'una all'altra generazione, e colorito dalla fantasia per modo da
imprimere ad esso un carattere prodigioso. Il nucleo della “leggenda” è adunque
storico. Il “MITO,” invece, è tutt'altra cosa. In luogo del FATTO STORICO che
costituisce l'essenza della leggenda, nel “mito” abbiamo come elemento
essenziale e come motivo genetico una data idea, resa concreta e sensibile per
mezzo di un intreccio di fatti immaginarii. ORA, NELLA TRADIZIONE ROMANA,
LEGGENDA E MITO TROVANSI MESCOLATI INSIEME, e il lavoro della critica consiste
in cio appunto, di sceverare l'una dall'altro, e liberare entrambi dagl’involucri
che hanno impresso a ciascuno il carattere proprio. Questo lavoro, che non è
meno improbo, e per la storia è assai più utile di quello fatto da BONGHI nel
primo saggio, e già tentato da molti. Ed è in esso che apparirà nel vero valor
suo l'opera dell'illustre storico. Ed ecco la ragione che BONGHI dà di questa
fermata. Succede, dice BONGHI, non addirittura il primo fatto certo della
storia interna di ROMA, ma quello de'suoi fatti certi più antichi da cui tutta
la sua storia anteriore è spiegata, e tutta la sua storia posteriore, è, se mi
si permette la parola, preformata. L’elezione dei tribuni nei comizii tribute. Per
ciò che riguarda la certezza del fatto accennato, notiamo che esso, tanto
rispetto alla sua cronologia, quanto rispetto al suo stesso contenuto, è
tutt'altro che sicuro. Fatti certi dei primi secoli di Roma non ponno chiamarsi
che quelli i quali sono attestati da documenti autentici. Ed essi sono: la
fondazione del tempio federale di Diana sull'AVENTINO, avvenuta sotto il regno
di Servio Tullio: il trattato federale stipulato da Tarquinio il Juniore
coi Sabini: il primo trattato di navigazione e commercio conchiuso da Roma con
Cartagine subito dopo il bando di quel re. E il patto federale conchiuso da
Roma colle città latine sotto il secondo consolato di Spurio Cassio. Questi
sono i fatti, che si ponno chiamar certi, perchè qualcuno degli storici
maggiori dichiara di AVERE VISTO il documento originale in cui sono consacrati.
Tale qualifica non può essere data alla lex publilia, il cui contenuto forma
ancor oggi obbietto di disputazioni fra i critici. BONGHI (si veda) ci dice fin
d'ora com'egli spiega il tenore di quella legge, ed io sono curioso di sentire
con quali nuovi argomenti egli suffraga una opinione, che oggi è abbandonata
dai più; e cioè, che prima della lex publilia i tribuni della plebe sono eletti
in altra sede fuorchè nei comizii tributi.Nei nostri Saggi critici noi
esprimemmo il nostro avviso sul tenore della lex publilia, e rimandiamo il
lettore a quel nostro saggio, non essendo il caso di ripeter qui ciò che scrivemmo
altrove. Un'ultima osservazione. BONGHI dice, che il fatto è quello dei fatti
certi più antichi di Roma, che spiega tutta la sua storia anteriore. Aspetto di
avere la dimostrazione di questo asserto prima di giudicarlo. Per ora, la mia
opinione, è che al disopra di quel fatto (badisi che qui si parla di fatti
interni) ci stia l'altro della creazione del tribunato della plebe, da cui
tanto la lex publilia, quanto le successive leges tribuniciæ e manarono come
prodotti necessarii di un fattore comune. Il primo problema che si affaccia
alla critica nello studio delle romane origini, è come avvenne l'innesto della
leggenda troiana nella leggenda romulea, perchè è fuor d'ogni dubbio che l'una
e l'altra traessero origine da fonti diverse. E mentre la romulea è creazione
paesana, nata sui luoghi stessi che sono la scena del suo racconto, LA TROIANA
È INDUBBIAMENTE IMPORTAZIONE STRANIERA. Però non tutti gl’elementi di questa
seconda leggenda sono nati di fuori. Dal momento che l'eroe troiano pone piede
nel Lazio, la leggenda lo mette in relazione con le popolazioni indigene, facendogli
imprendere una serie di guerre coi latini, sabini ed etruschi. Ora, se tolgasi
il protagonista che è un personaggio favoloso, il racconto di quelle guerre
racchiude indubbiamente elementi storici, che la sciati inavvertiti da CATONE e
da Dionisio, sono segnalati e lumeggiati dall'autore dell’Eneide. Infatti, mentre
presso i due primi, le lotte combattute d’Enea si presentano come guerre
dinastiche, nelle quali i popoli appariscono come stromento delle ambizioni di questo
o di quel principe. Presso VIRGILIO quelle lotte assumono fin da principio la
proporzione di una guerra di stirpi italiche, in cui sono adombrati gli
sconvolgimenti politico-sociali onde il Lazio è teatro nella età pre-romana.
Quel TURNO (si veda) he negli altri racconti figura come capo dei rutuli, nell’Eneide”
comparisce come duce di una intera confederazione di città italiche e di popoli
di diversa stirpe. Alla sua chiamata accorrono i guerrieri di Laurento, Ardea, Antenne,
Crustumerio, Tiburi, Atina, Preneste, Gabii, Anagnia, e con essi gl’aurunci, i volsci,
i sabini, i falisci. Per tener fronte a tanta oste, Enea, seguendo il consiglio
d’Evandro, rivolgesi ai tirreni, i quali sonosi di recente liberati dal tiranno
Mezenzio, divenuto ora alleato di Turno. E colloro ausilio, conquista Laurento.
Ora, levando da questo racconto la parte leggendaria che è la intromessa d’Enea,
chiaro apparisce il contenuto storico di esso. Ivi troviamo adombrati, da un
lato, i progressi della conquista etrusca nella valle inferiore del Tevere, e
dall'altro, gli sforzi operati dai popoli del Lazio per redimere il paese dalla
servitù straniera. Alla quale impresa i latini trovano ausiliarii non pure
nelle città fini time del Lazio, ma ancora in un popolo di stirpe sabellica che
la primavera sacra ha già portato sulla frontiera latina, e a cui la parte
avuta nella liberazione del Lazio frutta una stanza nel Settimonzio. Così per
mezzo di VIRGILIO noi siamo posti in grado di spiegare la presenza dei sabini
sul quirinale e sul capitolino, completando la tradizione romana, il cui
contenuto storico, purificato da gl’innesti leggendarii, consiste nel
presentarci i due popoli, latino e sabino, viventi già l'uno presso l'altro sul
settimonzio, e riusciti a pacificarsi e ad unirsi insieme dopo di essere stati
lungamente in guerra fra loro. Ancora nei tempi storici, noi troviamo gl’etruschi
imperanti nella Campania; prima di arrivare nella valle del Volturno, essi hanno
dovuto trarre in loro potere la valle inferiore del Tevere, che è a dire , il LAZIO.
Senza l'Eneide non sapremmo come questo paese ricuperata avesse la sua libertà.
L'Eneide ci apprende che ricuperolla per mezzo di una insurrezione popolare
capitanata da un eroe. Quest'eroe è TURNO. Enea gli strappa dal capo il lauro dei
prodi. MA L’ENEA ITALICO È UN MITO; TURNO INVECE È PERSONA RIMASTA VIVA NELLA
TRADIZIONE di un popolo. Ed è singolare, che dal gran cantore d’Enea la critica
storica sia stata messa sulla via di riconoscere in TURNO un EROE ITALICO,
e di rendergli la sua corona. Dopo questa digressione, che non c'è parsa fuori di
luogo, veniamo ora a risolvere il problema della confusione avvenuta di due
leggende, tanto diverse l'una dall'altra, sia perla fonte da cui emanano, sia
pel loro contenuto. La tradizione romana nella sua forma più antica, non --
Ennius dicit Iliam fuisse filiam ÆNEÆA quod si est Aeneas arus est Romuli
Servio, ad Æn.] sa nulla nè dell'una nè dell'altra leggenda. Prima che la boria
destata dalla potenza di Roma, introducesse il troiano Enea nelle romane origini,
a che nascesse il bisogno di spiegare riflessivamente l'origine nomi, di
instituti e di consuetudini di antiche che si trovano esistenti da tempo
immemorabile, senza che è stato riferito ab antiquo come sono nate, la
fondazione di Roma èsi spiegata in quel modo semplice, in cui l'antichità si
figura la origine di tutte le città greco-italiche, vale a dire, per mezzo di
un fondatore eponimo. Una città che nomasi ROMA, dove adunque, secondo il
concetto dell'antichità, avere per fondatore un ROMO, progenie divina al pari
di tutti i fondatori eponimi. Ed a noi è serbata questa tradizione semplice
della origine di Roma, la quale biamente la più antica. Ne dobbiamo è indub la
conoscenza al grammatico FESTO, che la tolsg dallo storico Antigono. Antigonus,
italicæ historiæ scriptor, ait, RHOMUM quemdam nomine, Jove conceptum urbem
condidisse in Palatio, Romæ eique dedisse nomen. Così Festo all'articolo Romam.
La tradizione romulea, nella quale l'eponimo “ROMO” diventa “ROMO-LO” e gli è
dato Remo per fratello, e l'uno e l'altro sono aggregati alla dinastia dei
Silvii che regna ad Alba Lunga e ripete la sua origine d’Enea. Questa
tradizione è dunque ignota all'antichità. Lo stesso ENNIO non la conosce che in
uno stato ancora embrionale, giacchè ENNIO dà alla MADRE di Romolo, ILIA, Enea
per padre. Pero, il concetto inspiratore della leggenda è già nato col poeta
rudiese, come è nato l'intrecciamento delle due leggende Ora come avvenne
questa sovrapposizione della leggenda troiana alla romulea? La ragione
psicologica del fatto è data già da VICO in quella boria delle nazioni, le
quali appena son pervenute leggenda ad un alto grado di potenza, non sdegnano
loro origini oscure, e aspirano a fastose e insigni. VICO accenna anche la
capitale cagione che induce i romani, quando andano in cerca di origini
fastose, a fissare la mente sulla leggenda di Enea. Ei la attribuisce alla fama
strepitosa che ha per lo mondo la guerra di Troia, a cagione del poema d’Omero
e della introduzione dell'Occidente nel ciclo troiano, dovuta alla via che si fa
per correre al reduce Ulisse. Però se la boria nazionale è la causa
inspiratrice della fusione delle due leggende, a questa non mancarono altr’impulsi.
Quando il senato romano, verso la fine della prima guerra punica, intervenne
nella contesa fra gl’etoli e gl’acarnani, e giustifica la sua intromessa in
favore dei secondi, osservando che gl’acarnani sono il solo popolo greco, il
quale non partecipa alla guerra contro I TROIANI PROGENITORE DEI ROMANIi, è
l'orgoglio nazionale che ispira quella dichiarazione. Similmente, quando il senato
accetta l'amicizia offerta dal re Seleuco, ponendovi per condizione che
liberasse i troiani da ogni tributo; e quando Flaminino, nel presentare i donativi
dei Romani ai Dioscuri e ad Apollo, chiama i suoi concittadini col nome di ENEADI,
è sempre l'orgoglio nazionale che inspira la fusione delle due leggende. Ma
allorquando la politica militare di Roma produce in seno altri fattori
vanno considerati. E, soprattutto, la parte che nella propagazione della
leggenda d’Enea in Italia hanno le numerose colonie greche dell'Italia
meridionale, e più specialmente Cuma, che oltre ad essere la più antica e la
più vicina al LAZIO, è di provenienza diretta dall'Asia Minore, e precisamente
dalla Misia, luogo finitimo alla Troade. E come le colonie greco-italiche
divenneno al trettanti centri propagatori del culto di Afrodite Alveias, dea
dei naviganti, con cui la leggenda d’Enea è intimamente collegata, cosi
l'oracolo della Sibilla cumana divenne il centro propagatore dei fausti
vaticinii, onde la religione della dardanica Afrodite conforta nel suo esilio
la famiglia degl’Eneadi. Già nell’Iliade è fatta allusione a quei vaticinii,
dicendosi che la famiglia d’Enea è serbata ad un nuovo e splendido avvenire,
mentre quella di Priamo è stata destinata alla perdizione. Ora, in questa
promessa di un glorioso avvenire serbato alla progenie d’Enea giace il motivo
riflesso dell'amalgama delle due leggende troiana e romulea. Roma costitui se
stessa obbietto dei vaticinii sibillini, e dichiara avvenute in se stessa le
promesse fatte ai discendenti d’Enea. Già ENNIO presenta in questo modo il
fatto, dicendo che Troia è risorta in Roma, e non anda guari che la repubblica
innalza a domma nazionale l'origine troiana della potente metropoli. alla
Repubblica i suoi effetti liberticidi, e la maestà quiritaria che è in bocca a
tutte le nazioni straniere, ed è oggetto di terrore e di riverenza universale,
scomparve dal popolo per riassumersi in un uomo, l'orgoglio nazionale passa in
seconda linea per cedere il primo posto all'interesse dinastico creato d’un
usurpatore. Il grande anello di congiunzione fra la leggenda d’Enea e la
dinastia dei Cesari è quel famoso IVLO, che comparisce nella genealogia degl’eneadi,
or quale figlio, or quale nipote d’Enea. E cosi nell'uno, come nell'altro
grado, semba èvi stato introdotto dai Giulii stessi, dopo che è sorto il giorno
di loro grande fortuna. Infatti, gli scrittori più antichi della leggenda non
conoscono quel nome, sebbene più nomi attribuiscano al presunto figlio d’Enea, chiamandolo
ora Eurileone, ora Ascanio, ora Ilo. Forse quest'ultimo nome, che ricorda
quello della patria ILIO, suggere l'idea della finzione genetica, ed ILO diventa
facilmente IVLO progenitore degl’IVLII. Ciò spiega il fatto del comparir di
quel nome per la prima volta nei filosofi cesarei. Co mun quesia dell'origine
sua, venne un giorno che il popolo romano apprende per bocca di Caio GIULIO
CESARE, ch'esso ha nel suo seno una progenie di celesti, e che dalla morte di
Romolo in poi essa cammina fuori del diritto divino, nel cui sentiero è ora
chiamato a ritornare. Il giorno in cui GIULIO (si veda) Cesare, essendo
questore, recita dalla tribuna del foro il panegirico di Giulia, è decisivo per
le sorti di Roma e del mondo. E là che egli annunzia al popolo stupito, che la sua
famiglia è d’un tempo progenie di dèi edire. AMITÆ MEÆ IVLIÆ MATERNVM GENVS AB
REGIBVS ORTVM PATERNVM CVM DIIS IMMORTALIBVS CONINCTVM EST NAM AB ANCO MARCIO
SUNT MARCII REGES QVO NOMINE FVIT MATER A VENERE IULII CVIVS GENTIS FAMILIA EST
NOSTRA EST ERGO IN GENERE ET SANCTITAS REGVM QVI PLVRIMVM INTER HOMINES POLLENT
ET CÆRIMONIAS DEORVM QVORVM IPSI IN POTESTATE SVNT REGES. Quando GIULIO CESARE recita
questa orazione non fa ancora il suo ingresso nella politica militante,
comecchè ha già coperto parecchie magistrature. Ma l'uomo che osato fare
pubblicamente l'apologia della regia potestà e proclamare la origine divina
della sua famiglia, ha già intuito il futuro e divisato di rivolgerne a suo
profitto il realizzamento. Nel seguente anno, infatti, lo vediamo stretto in
lega con Pompeo, e SVETONIO, Cæs ., avviato a compiere il cammino trionfale che
da Farsaglia lo conduce a Munda, e mette nelle sue mani l'impero del mondo.
Riassumendo per tanto le cose in sinquidette, notamo che se la leggenda romulea
è anteriore alla troiana, all'una e all'altra so vrasta per antichità la
leggenda semplice, riferita da Antigono, che Roma ha per fondatore un eroe
eponimo progenie di celesti, e cioè, che è nata nello stesso modo in cui
l'antichità si figura l'origine di tutte le città greco-italiche: che la
leggenda romulea, sebbene nata sul suolo romano, mostrasi nelle sue parti
essenziali come il prodotto di una invenzione riflessa, avente in mira di
spiegare sistematicamente le origini di nomi, d'instituti e di consuetudini
antiche che si trovano esistenti da tempo immemorabile, senza che è stato
riferito come avessero avuto nascimento: che la leggenda troiana, divulgata in
Occidente per mezzo delle colonie italiche e degli oracoli sibillini, è
introdotta nella leggenda romulea, quando la boria destata nei Romani dalla
loro potenza li obbligo ad andare in cerca di origini fastose da sostituire
alla origine volgare trasmessa loro dai maggiori. E come la discendenza d’Enea è
stata creata per soddisfare l'orgoglio di un popolo conquistatore, cosi essa e
scaltramente usufruita da GIULIO CESARE per legittimare la sua opera
liberticida. Un altro problema non meno interessante della fusione delle due
leggende troiana e romulea, per mezzo della quale si spiega l'origine della
città di Roma, è quello che concerne la formazione del suo primo popolo. La
tradizione romana spiega questa formazione in un modo semplicissimo. Romolo,
dopo che ha per la morte di Tito Tazio raccolta nelle sue mani la sovranità sui
socii sabini del Settimonzio, parti il popolo in TRE TRIBÙ, e pose a ciascuna
il nome del duce che ha la capitanata. Ai suoi pose pertanto il nome di ramnenses;
ai seguaci di Tazio il nome di Titienses, e a quelli di Lucumone, che halo aiutato
nella guerra contro i Sabini, il nome di Lucerenses. Quanto alla nazionalità,
la tradizione ne attribuisce una propria a ciascuna tribù. I Ramnenses di
Romolo sono per lei Latini; i Titienses di Tazio sono Sabini, e i Lucerenses di
Lucumone sono Etruschi. Però, se la tradizione è concorde rispetto alla origine
dei due primi nomi, non lo è rispetto a quella del terzo. Il Lucumone di CICERONE
(si veda) diventa presso Plutarco illucus asyli, e presso Paolo Diacono il
titolo dignitario e il nome topico si trasformano in una persona, in Lucero re
di Ardea. Queste varianti attestano per se stesse la mal ferma base su cui
riposa codesta tradizione. LIVIO (si veda) se la sbriga, dicendo il nome dei luceri
“DI INCERTA ORIGINE.” Ma se lo storico maggiore di Roma qualifica d'in certezza
l'origine dei luceri, LA FILOLOGIA DICHIARA IMPOSSIBILE LA DERIVAZIONE DEI
RAMNI DA ROMOLO, avendo questi due nomi radicali affatto diverse. Pure la
origine dei nomi è cosa di poco interesse, quando ad essi non si annette la
origine della nazionalità. Il Lucumone o il re Lucero da cui si è derivato il
nome della terza tribù romana, si è prodotto come testimonio dell’origine
etrusca di questa tribù, e da ciò si trasse la conclusione, che la nazione
romana usce fuori da tre elementi etnici, il latino, il sabino e l'etrusco, ed
è quindi una nazione mista. Diciamo subito che questa opinione è oggi abbandonata,
e che la critica moderna, dopo di avere impugnato la provenienza etrusca dei Luceri,
non arrestando sia questo resultamento negativo, ha pur risoluto positivamente
la questione, dimostrando che i Luceri devono essere tenuti in conto di una schiatta
latina; onde la nazione romana è stata composta di due elementi etnici
omogenei, il latino e il sabino, ramificazioni entrambi del gran ceppo italico,
che [Prima della pubblicazione della Storia Romana di SCHWEGLER, l'origine
etrusca dei luceri era ammessa dalla maggior parte degli storici. Tra i fautori
di essa vanno ricordati: Feodor Eago, Untergang der Naturstaaton,WACHSMUTH, Aeltere
Geschichte des römischen Staats, GÖTTLING, Geschichte der römischen Staatsverfassung,
USCHOLD, Geschichte des trojanischen Krieges. KORTÜm, Römische Geschichte, BECKER,
Handbuch der römischen alterthümer, WALTER, Geschichte des römischen Rechts,
SCHÖMANN, De Tullo Hostilio, PUCCELLI, Altreviste sugl’antichi popoli italiani,
Cortona, VANNUCCI, Storia dell'Italia antica, Fir., L'origine latina, anzi albana,
dei Luceri è ammessa da Niebun, Römische Geschichte, da SCHWEOLER, Römische
Geschichte, da NIEMEYER, De equitibus romanis, BREDA, Centurie-Verfassung des Servius
Tullius da KLAUSEN, Aeneas und die Penaten dal Römische Alterthümer, Mommsen si
limita ad osservare, non esseircvhinailcchutns ostacolo ad ammettere la origine
latina dei luceri (Ueber die Herkunft der Lucerer lässtzu erklären), sagen, als
das nichts in Wege steht die gleich den Ramnern für eine latinischeque Glelmaeidnidaendare
in cerca Röm. Gesch. Ihne invece è scettico, e dice che è fatica sprecata
dall'ag del vero su una questione nella quale le fonti ci lasciano al buio, e
che non si gu2a0d.agna nulla giugnere un'opinione nuova a quella degl’antichi,
Röm. Gesch., Leipzig, dal LANGE, parer nostro, che Ihne non ha bene studiato la
quistione, altrimenti troverebbe che si guadagna qualche cosa da questa
aggiunta. Il primo guadagno che si fa è quello di avere chiarito il significato
del nome di questa terza tribù. LVCERE vuol dire risplendere. Luceri
equivarrebbe adunque ad illustres. E questo appellativo ben si addice alla
nobiltà d’Alba, la quale, dopo la distruzione della loro patria, è trasferita
nel Settimonzio ed ha per sua stanza il celio. Cid dimostra, a immigro in
Italia dopo iljapigicoe prima dei raseni. Noi diremo gl’argomenti coi quali si
impugna la origine etrusca dei Luceri. Indi ci faremo a dire quelli coi quali
si dimostra la loro origine latina, e la loro provenienza d’Alba Longa. Prima
di tutto, vuolsi avere presente, che la origine etrusca dei luceri non è che
una mera presunzione, mancante di una tradizione positiva, e desunta da dati
estrinseci ed accidentali, che passati sotto il crogiuolo della critica, non
danno alcun frutto. L'uno di questi dati è somministrato da certa analogia che
si riscontra fra il nome della terza tribù e quello di LUCUMONE, che è titolo
gentilizio e dignitario presso gl’etruschi. E come il nome del colle celio si è
voluto spiegare derivandolo da un duce etrusco per nome CELE Vibenna, il quale,
secondo alcuni (VARRONE (si veda)), altempo di Romolo, secondo altri (TACITO
(Ssi veda)), al tempo di Tarquinio Prisco, èsi stabilito con una grossa schiera
dei suoi connazionali nel Settimonzio. Cosi il nome luceri che portano gl’abitanti
del celio si spiego per mezzo del titolo di Lucumone che porta il Vibenna.
L'altro dato è ancor più arbitrario, in quanto che è desunto dall’ubicazione geografica
di Roma, quasi che il fatto deltrovarsi Roma in mezzo a tre schiatte diverse,
generar dovesse necessariamente l'effetto, che essa compone la sua cittadinanza
con ciascuna delle tre schiatte, per modo che esse vi sono rappresentate tutte
proporzionalmente. A questo concetto subbiettivo si contrappone vittoriosamente
per ciò che riguarda il contingente etrusco, il famoso motto del trans Tiberim
vendere, e del senso latissimo che esso acquisto e mantenne per lungo volgere
di secoli, anche dopo che gli’etruschi sono caduti sotto la dipendenza di Roma,
ed il Tevere cessa di essere un confine politico. In verità, che se gl’etruschi
hanno dato a Roma un contingente proporzionale della sua cittadinanza, quel
motto divenne uno strano enimma. Perchè esso non si riferisce tanto alla
divisione politica dei due stati, romano ed etrusco, quanto alla DIFFERENZA DI
NAZIONALITÀ, avvertita e VIVAMENTE SENTITA NELLA LINGUA, nell’istituzioni
politiche e civili, e nei costumi dei romani. Ma se i dati estrinseci su cui è eretta
l'ipotesi della origine etrusca dei luceri non giustificano siffatta
conghiettura, le prove intrinseche dimostrano addirittura la sua falsità. Queste
prove si de sumono DALLA LINGUA e dalla religione dei Romani. È ovvio, che se
gl’etruschi danno un proprio contributo alla formazione del popolo romano, in
tal caso LA LINGUA LATINA dove somministrare la chiave per decifrare l’inscrizioni
etrusche, ed essa stessado vrebbe contenere tale copia di voci etrusche da
assumere il carattere di una lingua mista, ossia, di una lingua formata di due
diversi organismi. Ma NÈ IL LATINO AIUTA A SPIEGARE L’ETRUSCO, nè nella
costituzione organica della lingua del Lazio apparisce alcun vestigio di
miscele eterogenee; chè, anzi, LA CARATTERISTICA PECULIARE DELLA LINGUA LATINA
È LA STRAORDINARIA UNIFORMITÀ DELLA SUA FORMAZIONE. Lo che attesta la
uniformità della sua formazione. Alla stessa conclusione conduce l'esame delle
istituzioni religiose di Roma. Se i luceri sono stati una tribù etrusca, la religione
romana contene traccie di divinità e di culti etruschi, come ne presenta di
divinità sabine. Imperocchè il pareggiamento successivo della terza tribù alle
due prime dove avere per effetto la mutua comunicazione dei rispettivi culti,
come ciò è avvenuto prima fra i ramni e i Tizii, ossia fra latini e Sabini. ORA,
LA RELIGIONE ROMANA NON PRESENTA UNA SOLA DIVINITÀ E UN SOLO CULTO CHE VESTA UN
CARATTERE ETRUSCO. Anche lo stato d'inferiorità, in che, rispetto alla tribù
dei ramni e dei tizii, trovasi la tribù dei luceri, portato al grado da tenere
costoro fino al tempo di Tarquinio Prisco esclusi dal senato, contraddice alla
ipotesi che i luceri entrassero fin dal l'origine di Roma a formar parte del
primo popolo, e compissero di questo la compagine etnica recando nel suo seno
l'elemento etrusco. Questo stato d'inferiorità si spiega invece in modo
semplice e naturale, quando ammettasi che la tribù dei Luceri fosse costituita
dai nobili d'Alba tramutati a Roma, e che quindi entrasse più tardi a formar
parte del primo popolo. Alla posteriore aggregazione dei luceri alle due primitive
tribù, e allo stato d'inferiorità dei primi rispetto alle seconde accenna il
verso di Properzio. Hinc taties ramnesque viri, luceresque coloni. Non mancano
poi le prove dirette, dimostranti che i luceri, oltre ad esseretrati
posteriormente nel consorzio dei romani e dei tizii, sono pure di origine
albana. LIVIO (si veda), parlando degli stanziamenti condotti dal re Anco
Marcio sul colle Aventino, osserva che egli assegn ai vinti latini per sede
quel colle, perché gli altri quattro -- il PALATINO, il CAPITOLINO, il QUIRINALE
e il CELIO (il Viminale e l'Esquilino sono aggiunti alla città solo dal tempo
di Servio Tullio) sono già popolati. E cioè, il colle palatino dai romani
primitivi, ossia dai ramni. E il capitolino e il quirinale dai sabini, e il celio
dagl’albani. Ora, se questi ultimi hanno per loro stanza il celio, non
saprebbesi davvero dove collocare i luceri, quando non siammettesse che i luceri
e gli’albani sono la stessa cosa. La critica adunque negando la origine etrusca
dei luceri, ha messo in sodo il fatto che la nazione romana venne composta di
due elementi etnici, anzichè di tre, il latino, cioè, e il sabino.Questa
composizione spiega il carattere che distingue la nazione romana dalle altre
nazioni italiche. Questo carattere è il prodotto della fusione di due stirpi
che pareno fatte apposta per completarsi a vicenda. Dall'e lemento sabino il
popolo romano riceve la frugalità, lo spirito religioso, la severità dei
costumi, il principio della patriapotestas lasciata senza freno dalle leggi.
Sono la base di granito e il duro cemento che i sabini apportano all'edifizio
romano. Se nel sabino prevale lo spirito di conservazione, nel latino predomina
lo spirito di sviluppo. Ma come il primo non è inflessibile, così il secondo
non è radicale. E dal contrasto fra la mobilità latina e la stabilità sabina
deriva quel lento, ma pur continuo e sicuro sviluppo della costituzione romana,
che forma di essa la più grande creazione politica della civiltà antica. Ma le
tribù dei ramni, dei tizii e dei luceri non formano tutto il popolo romano.
Accanto a loro comparisce, come parte costitutiva di esso popolo, la plebe, la
quale, dopo di essere rimasta a lungo in uno stato di semi-dipendenza dal primo
popolo, ossia dal PATRIZIATO, fini col prevalere su di esso, ed obbligarlo a
seguire la sua via. Ora, come sorge questo ceto sociale? Ecco il problema che ci proponiamo di risolvere in
questo nostro lavoro. I romani non sono ignari di questo prezioso patrimonio
che hanno ricevuto dai sabini. Ce lo attesta CATONE (si veda) per bocca di SERVIO.
Sabinorum mores populum romanum secutum CANOTE dici SERVIO ad En. Vedi Devaux, Études politiquessur
les principaux événements del'histoire romaine, Paris. La quistione
dell'origine della plebe e studiata particolarmente da STRESSER,Versuch über
die römischen Plebejer der ältesten Zeit, Elberfeld, PELLEGRINO (si veda),
Ueber den ursprünglichen Religionsunterschiedder Patricier und Plebejer, Leipzig,
lune, Forschungen auf dem Gebieteder römischen Verfassungsgeschichte, Frankfurta.
KRUSZYNSKI, Die römische Plebs in ihrer politischen Entwickelung vom Ursprunge bis
zur völligen Gleichstellunng mit den Patriciern, Lemberg, SCHWEGLER, Römische
Geschichte. TOPHOFF, De plebe romana, Essen. WALLINDER, De statu plebejorum
Romanorum ante primam inmontem sacrum secessionem quaestiones, Upsaliae. Lange,
Verbindung der plebs mit dem patricischen Staate nei Römische Alterthümer,
Berlin. Gli storici antichi sono affatto
all'oscuro intorno il fatto della origine del ceto plebeo di Roma. La sola cosa
che essi sapessero è che la plebe èsi trovata sempre in uno stato d'antagonismo
verso il patriziato. Da ciò la definizione negativa che essi dano della plebe,
chiamandola il ceto in cui gentes civium patriciæ non insunt. Per qual via poi l'antagonismo
è nato, o in altri termini, come la plebe ha origine, ciò essi riguardano come
una quistione oziosa, imperocchè a loro paresse assurda l'idea che è mai
esistito uno stato romano senza plebe; onde per loro è un assioma, che
patriziato e plebe sono nati e cresciuti insieme collo stato romano. Contro
questa presunzione sta però il fatto, non considerato, della condizione
giuridica diversa in che trovavansi due ceti sociali all'infuori del
patriziato, la quale attesta che essi non sono nati insieme nè allo stesso
modo. Accanto alla plebe, trovasi, cioè, nei primi tempi dello stato romano, LA
CLIENTELA, caratterizzata e distinta dalla plebe dalla forma speciale della sua
dipendenza. Mentre la dipendenza della plebe ha un carattere impersonale e
comprende il ceto nella sua generalità, quella della clientela impegna
giuridicamente l'individuo come persona e non come consorte, ed appunto perciò
esso nomavasi “cliente” -- da cluere, klúeiv, dipendere -- in quanto che è
ascritto alla gente di un patrono, e da questo dipende. Che se nel giure
politico plebei e clienti trovansi originariamente costituiti nella stessa
condizione negative. Nel giure privato, la condizione loro è assai diversa. Il
cliente nè possede del proprio, nè puo stare in giudizio; mentre il plebeo
possede su questo campo piena personalità giuridica (civitas sine suffragio). Di
guisa che, quando per la costituzione di Servio Tullio, il censo divenne il
fattore del diritto di suffragio, questo diritto i plebei conseguirono, mentre
i clienti ne rimasero orbi come per il passato. Ora, questa differenza
esistente fra i due ceti inferiori non si pud altrimente spiegare fuorché
ritenendo, che l'origine loro è, rispetto al tempo e al modo, diversa. La
clientela deve certamente avere preceduto la plebe, e l'inferiorità della prima
rispetto alla seconda dimostra che la forza, che crea la sottomissione dei due
ceti, esercita sui vinti ridotti in clientela un impero più assoluto che su
quelli ridotti in istato di plebeità. Perchè il cliente conseguire potesse il
IVS SUFFRAGII fa mestieri che il dominium, che egli tene come peculium, gl’è
assegnato come libera proprietà EX IVRE QVIRITIVM. Il quale atto equivale in certo modo ad una manumissio
censu. Ora, se l'istituzione della clientela è più antica che quella della
plebe, è forza cercarne l'origine nella prima conquista che frutto ai Ramni ed ai
Tizii il dominio del Settimonzio. Gl’abitanti primitivi di quella regione
devono avere formato il nucleo della clientela romana, che le ulteriori
conquiste vennero via via ingrossando. Ma tra la prima e le ulteriori
conquiste, corse, rispetto agli effetti sociali, forte differenza. Se la prima
non produce che dei clienti e degli schiavi, le successive produceno
particolarmente dei plebei. Già l'interesse politico consiglia i conquistatori
a temperare verso i nuovi vinti il rigore dell'antico IVS GENTIVM; e noi non
abbiamo memoria della piena applicazione di quel diritto che verso la città di
Collazia. E se alle famiglie imperanti è pur piaciuto di partire i novelli
sudditi fra le genti romane, traducendole sotto la loro clientela, la monarchia
dovea opporsi a questo uso della conquista che ha con pregiudizio della regia
potestà accresciuto in modo esorbitante la potenza dell'aristocrazia. E chi sono
poi questi vinti? SONO LATINI. Apparteneno, cioè, a quella STIRPE che ha coi ramni
formato il nucleo della cittadinanza romana. Sono dunque connazionali dei romani.
Che se costoro hanno pei vinti Albani tale riguardo, d’ammetterli nel loro
consorzio religioso e politico, perchè vorrassi ammettere che verso gl’altri
popoli latini, sottomessi pure colle armi, applicano in tutto il suo rigore il
diritto della guerra? E ove pure si ammettesse che questo rigore è usato, come
ci renderemmo ragione del sorgere di questa plebe e della importanza sociale
che venne improvvisamente acquistando, così da presentarsi come un potente
appoggio della monarchia, e da ricevere da questa servigi e beneficî che
schiuderanno all'avvenir suo il più vasto orizzonte? Non dimentichiamo che
questi plebei son LATINI. La tradizione stessa ci dice quando e per opera di
chi i popoli del LAZIO caddero sotto ladizione diRoma. La distruzione d’Alba Longa,
e il tramutamento dei nobili albani nel Settimonzio, portano per effetto lo
scoppio d’ostilità fra le città latine, erettesi a vindici della loro antica
metropoli, e Roma che pretende, come conquistatrice d’Alba Longa, di essere
riconosciuta anche come erede della sua [Livio ci ha trasmessa la formula
deditionis di Collazio, che egli attinge verisimilmente dai Commentarii
Pontificum. Rex interrogavit. DEDISTIS NE VOS POPVLVMQVE CON LATINVM VRBEM
AGROS AQVAM TERMINOS DELVBRA VTENSILIA DIVINA HVMANAQVE OMNIA IN MEAM POPVLIQVE
ROMANI DICIONEM? Dedimus. LIVIO (si
veda) La domanda del re è rivolta ai deputati di Collazia. Rivista di Storia
Italiana] egemonia sulla confederazione latina. La grossa guerra scoppia sotto ANCO
MARCIO (si veda). Non è dubbio che questi, prima di scendere in campo,
approfittasse delle gelosie esistenti fra l'una e l'altra città latina, e che
sono effetto di ogni confederazione a base ristretta, per rompere il fascio con
promesse e lusinghe date a tempo e a luogo. Senza ciò, non potremmo avere
ragione della sua facile e completa vittoria. Ora che cosa faA ANCO MARCIO (si
veda) di questi nuovi vinti? Gli storici antichi ce lo apprendono in modo
chiaro. ANCO MARCIO (si veda), dice CICERONE, quum Latinos bello devicisset,
adscivit eos in ci vitatem. E LIVIO, completando il racconto di CICERONE, osserva
che Anco segue rispetto ai vinti Latini il costume regum priorum, onde anche
allora parecchie migliaia di Latini sono introdotti nella cittadinanza romana.
Tum quoque multis millibus Latinorum in civitatem acceptis. Non cicuriamo del
racconto tradizionale, che fa materialmente introdurre da Anco in Roma questi vinti,
e assegnare ad essi per sede IL COLLE AVENTINO e LA VALLE MURCIA. In questo
racconto, la prolessi storica è manifesta: che sappiamo in modo in
contestabile, che l'Aventino è disabitato. Ma lasciando da parte questo
particolare, ciò che va considerato nel racconto tradizionale è il fatto della
cittadinanza concessa d’Anco Marcio ai vinti latini. E perchè, nè questa è la
prima guerra combattuta vittoriosamente da Roma contro i latini, e nemmeno è la
prima volta che della vittoria è fatto quest'uso; ne emerge, e LIVIO (si veda) avvalora
l'induzione nostra, che se la conquista d’Anco da il maggior contingente al ceto
plebeo, essa non ne inizio la formazione, come suppone Niebuhr, seguito in cio
da Schwegler, da Lange e d’altri. BONGHI (si veda), per ora si limita a dire,
che non crede che la plebe dove la sua origine ad Anco ,e promette, che procura
altrove di esporre donde sia nata l'opinione di una condotta rispetto a'vinti nei
re di Roma, cosi diversa da quella che per molto tempo appare propria della
città nel seguito della sua storia. E perchè insin d'ora egli dichiara esposta
a molti e gravi dubbii cosi larga concessione di cittadinanza, il desiderio di
sapere quale opinione l'insigne storico porti sul gravissimo tema della ori [Lo fa abitare la “les Icilia de Aventino
publicando”. Il tenore di questa legge ci è dato da Dionisio, il quale attesta
di aver letto il testo originale di essa inciso in una colonna di bronzo che sorgeva
nel tempio di Diana sull'Aventino. Drox., DeRep., Liv.] gine della plebe romana
rimane più fortemente sentito. Comunque sia perd dell'opinione di BONGHI (si
veda) su ciò, noi rimaniamo saldi nella nostra, la quale, oltre ad avere il suffragio
delle fonti, ha pure in suo favore la condizione sociale da cui la romana plebe
fu costituita. Il plebeo romano è agricoltore. Egli non è nè commerciante nè
industriale.Queste arti, che nell'antichità sono assai meno considerate
dell'agricoltura, sono professate in Roma peculiarmente dai clientie dai
liberti. Codesta condizione sociale della plebe romana è attestata dalla tradizione
in più modi. Ora, essa ci dice che SERVIO (si veda) Tullio, per poter avere
l'appoggio della plebe alla sua esaltazione al trono, chiama in città i rurali,
e per bocca di CATONE ci dice che gl’agricoltori formano il nerbo della
fanteria romana. Ma un testimonio che serve per tutti, è l'antica istituzione
che l’adunanze plebee, ossia i comizii tributi, non si possono tenere che ne igiorni
di mercato (nundines), e che ogni proposta di legge dove pubblicarsi III giorni
di mercato (tri-nundines) prima di essere messa a partito. Anche la condotta
tenuta dalla plebe nella sua lotta col patriziato conferma questa condizione
sua. Gli storici qualificano siffatta condotta colle parole modestia,
verecundia e patientia. Sono doti codeste che appariscono più proprie di coloro
che attendono alla coltura dei campi, che di coloro che praticano l'industria e
il commercio. E se le contese sociali di Roma non degenerano in [EX AGRICOLIS
VIRI FORTISSIMI ET MILITES STRENUISSIMI GIGNVNTVR -- CATONE, De re rustica,
Praef., MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia. Rutilius scribit Romanos instituisse
nundinas, ut VIII quidem diebus in agris rustici opus facerent, nono autem die
intermisso rure ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent, et ut scita
atque consulta frequentiore populo referrentur, quæ tri-nundino die proposito a
singulis atque universis facile poscebantur. Ci sia permesso di riportare su
l'influenza educativa dell'agricoltura un brano di una conferenza che tenemmo
all'esposizione di Milano, col titolo L'industria nei suoi rapporti colla
civilta. Gli economisti, dicevamo, sogliono distinguere due specie di lavoro. Quello
che agisce sulle cose, e quello che agisce sugl’uomini. Questa distinzione non
è esatta. Se tolgasi il lavoro puramente intellettuale, ogni altro agisce ad un
tempo su gl’uomini e sulle cose. Questa duplice azione viene esercitata
sopratutto dall'agricoltura e dall'industria. Dal raffronto fra queste due arti
ritrarremo la ragione psicologica del nesso intimo che esiste fra l'industria e
la libertà. L'agricoltore riguarda la TERRA come fonte unica della ricchezza. Essa
è per lui una provvidenza e un mistero ad un tempo. Perciò noi lo vediamo
affezionato al suo suolo, ivi fissato in istabile sede, ed unito in pacifico
consorzio co'suoi conterranei. Da questo legame contratto dall'uomo colla terra
che lo nutre nacque il primo concetto di PATRIA, come dai consorzii generatid all'agricoltura
hanno origino i primi stati. Ma la terra non è per l'agricoltore solo una
provvidenza, essa è per lui anche un mistero. E questo lato misterioso è una
sorgente feconda di superstizioni, che egli puo facilmente anche nei negozi civili,
o nelle maggiori contingenze della vita pubblica. Quei soldati di Nicia e
Demostene, che una notte ricusarono di levare il campo da Siracusa e rifugiarsia
[Livio, CICERONE, de Rep. Riassumendo pertanto le cose dette intorno la
formazione della plebe romana, diremo, che sebbene la genesi di quel ceto non puo
essere chiarita in tutti i suoi particolari, tuttavia hannosi dati positivi, i quali
rilevano di che elementi è formato, e la ragione politica che induce i
vincitori a trattare i vinti con una generosità di cui non si ha esempio nella
storia dell'antichità. Questi dati ci dimostrano ancora che l’istituzione della
clientela precedet quella della plebe, e ci spiegano il diverso trattamento
avuto dai primi vinti rispetto ai secondi. Catania, perchè quella notte
comparve in cielo un ecclisse lunare, sono agricoltori dell'Attica. E l'essere
essi rimasti in quel luogo porta per effetto lo sterminio della flotta e
dell'esercito ateniese, e la rovina d’Atene. Del resto, non è da meravigliarsi
che l'agricoltore sia superstizioso. Quel grano che egli consegna alla terra
per riceverlo moltiplicato, non gli dice come sia avvenuto il fatto della
moltiplicazione sua mentre questo evento che ogni anno si rinnova gli stordisce
l'intelletto, altri fenomeni del mondo fisico, di natura deleteria, gli riempiono
l'animo disgomento e di terrore. L'uragano che gli devasta il campo; la
grandine che gli distrugge le messi, gl’appariscono mandatarii di forze arcane
che gli fanno la dallo stesso principio che aveva dato nascimento alle
gerarchie ipercosini che hanno origine le gerarchie sociali, trasformate ben
presto in tirannidi. Il despota non è un uomo come un altro. Egli è il
mandatario di un ente superiore che gli affida l'incarico d'imperare in suo
nome. E l'agricoltore subisce rassegnato il suo imperio, e comprende nel suo
culto mandatario e mandante, dai quali altro non impetra che la sua pace. Quanto
diverso è il magistero civile che si consegue dall'industria! Anche
l'industriale ritrae dalla natura fisica la materia del suo lavoro. Ma questa materia
in luogo di essere per lui un mistero, è invece una rivelazione. Essa gli
rivela che egli coll'opera della sua intelligenza non solo può trasformare i
pro dotti della natura e adattarli a'suoi bisogni, ma può anche sorprendere i segreti
di essa e svelarli. Si, l'intelligenza gl'insegna ch'egli può perfino
combattere contro la natura, ora congiungendo mari da lei divisi, ora
atterrando baluardi da lei inalzati fra l'una e l'altra regione, ora
sopprimendo colla vaporiera e coll'elettrico le distanze. Se l'agricoltore può
chiamarsi servo della natura, l'industriale può dirsi suo ribelle. Ed è mai
possibile che quest'uomo, al quale l'impero della natura è troppo grave, possa
rassegnarsi a sopportare l'impero di un suo simile? guerre civili, come
avvenne in tutti gli altri stati dell'antichità conjattura della loro libertà,
cio e particolarmente dovuto al carattere longanime e paziente della plebe romana,
la quale, convinta del suo diritto, lascia che il tempo ne fa maturare la
coscienza anche nei suoi avversarii, e transigette sopra uno scacco patito oggi
per essere più sicura della vittoria domani. guerra , e contro le quali egli
non sa difendersi. Da ciò il suo ricorso ad una tutela che lo educherà alla
sommessione per prepararlo alla servitù. In questi misteri del mondo fisico è
riposta quindi la genesi tanto delle religioni, quanto delle teocrazie. Le due
specie divine, l'una delle quali risiede in cielo in mezzo alla luce, l'altra
negli abissi del tartaro, sono emanazioni antropomorfe delle forze benefiche e
malefiche della na tura. Create le specie, e facile creare una SIMBOLICA, per mezzo
della quale spiegare i diversi fenomeni e momenti della natura fisica. In
questa simbolica vediamo attribuita una importanza affatto speciale al fenomeno
della fecondazione terrestre. I latini simboleggiarono quel fenomeno in una
festa nuziale divina chesirinnovava ognianno nel mese di dicembre, quando la natura
si raccoglie in sè, e serba in istato latente le sue forze per ispiegarle
rigogliose tra poco. Così ebbero origine in Roma i saturnali, la più popolare
delle feste romane, durante la quale era concesso anche agli schiavi di
ricordarsi di essere uomini. La chiesa cristiana sostituì ai Saturnali la
nascita del Cristo, e non poteva collocare in migliore luogo la comparsa
dell'uomo che veniva ad insegnare, essere tutti gli uomini eguali davanti a
Dio. La clientela sorse colla conquista del Settimonzio, ossia, colla for
mazione del primo stato. E clienti diventano i prischi abitatori di quella
contrada. La plebe surse invece col primo sviluppo che con seguì lo stato
romano fuori del Settimonzio, nelle altre contrade del Lazio. Una eccezione fu
fatta cogli Albani, e fu eccezione di privilegio dovuta al primato che Alba
Longa possedeva verso le città della lega latina. Sia la riverenza che tributar
si volle all'antica metropoli; si al'interesse político, che consiglia la larghezza
verso i vinti Albani, per poter più facilmente ridurre le città latine ad
accomodarsi alla nuova padronanza. E l'una e l'altra ragione portano per
effetto, che gl’Albani venissero dai vincitori accolti nel loro consorzio
religioso e politico,e costituiti in una nuova tribù. Questa larghezza non
poteva essere usata verso le altre città la tine, e ciò per più ragioni. Prima
di tutto, va considerato il carattere d'inferiorità che, rispetto alla loro
importanza, si manifesta fra esse città e Roma. Se eccettuisi Alba Longa, che
ha una posizione privilegiata rispetto alle città latine confederate, queste
son tutte sul piede di una piena eguaglianza vicendevole. E però, nessuna di
esse puo invocare dal vincitore un trattamento eccezio nale accampando
privilegi anteriori che non erano stati posseduti. Però, se l’eguaglianza delle
città vinte fra loro non dava luogo a sperare che il iVS GENTIVM non sarebbe
stato applicato verso di esse in tutto il suo rigore, vi sono altre ragioni che
creano questa speranza, la quale ha poi nel fatto sua piena conferma. L'una di
queste ragioni era riposta nella connazionalità esistente tra vinti e
vincitori, Roma, dove la sua origine all'atto geniale di un fondatore, o alla
deliberazione di un'assemblea, non puo dimenticare che dal Lazio sono partiti i
suoi primi fondatori, i Ramni; e che dal Lazio, essa avea tolto i suoi costumi
e le sue primitive istituzioni. Dopo il tramutamento in Roma dei vinti Albani,
la latinità di Roma rafforza il suo contingente, onde avvenne che i rapporti
morali fra lei ed il Lazio si fanno più forti e più sentiti. I quali rapporti
non possono rimanere senza influenza il giorno in cui la vittoria trasse le
città latine sotto la dipendenza di Roma. Anche l'interesse monarchico concorse
a mitigare la sorte dei vinti. Importa ai re di rivolgere a loro profitto
questa novella forza che ora introducevasi nello stato, per potere col mezzo di
essa mettere un freno alle tendenze invaditrici del patriziato. Cosi, pel
concorso di due circostanze, che apparentemente contraddiceansi, i vinti
Latini ebbero pur essi da Roma un trattamento eccezionale. Non sono ascritti
nel consorzio gentilizio come i nobili albani, ma non venneno nemmeno degradati
allo stato di clientela. Diventano invece PLEBE, che vuol dire massa
disorganizzata (da PLEO, PLENVS). Ma non e lontano il giorno, che essa
conseguirà pure un organismo suo; e allora il nome non rappresentando più la
cosa, non le rimane che come ricordo storico. Ed è il giorno, in cui, per opera
di Servio Tullio, al principio teocratico che cinge in nome del diritto divino
di una cerchia di ferro i privilegi del patriziato, si sostituirà il principio
timocratico, che apre quella cerchia per attribuire il privilegio al censo. È
questa la prima breccia aperta nella cittadella del patriziato. Dopo di essa, la
espugnazione della fortezza diventa quistione di arte strategica, che è a dire,
quistione di tempo. Bologna, giugno. Ma se la plebe nel suo nascere non possede
la personalità giuridica che implica il jus commercii, essa non avrebbe potuto
pervenire per mezzo del diritto di proprietà a quello del suf fragio, e la
riforma di Servio Tullio sarebbe rimasta sterile per lei, come sarebbe mancata
la ragione politica di crearla. Rino Genovese. Genovese. Keywords: tribù, attribution,
self-ascription, ascription, labelling, power, language, illuminism, critical
illuminism, critical theory, critica della ragione impura; tribu occidentale; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Genovese” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Genovesi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della logica pei giovanetti – filosofia campanese – cuola di
Salerno -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Castiglione del Genovese). Filosofo campanese.
Filosofo Italiano. Castiglione del Genovese, Salerno, Campania. Grice: “I like
Genovesi.” Grice: “Genovesi
is a good’un – he reminds me of Oxford – his treatise on logic he called ‘per
gli giovenetti,’ which is, as Piaget would say, as it would.” Grice: “Genovesi
reminds me of Strawson, or rather of myself teaching logic to Strawson back in
that infamous term of 1938!” – Grice: “I like Genovesi; I don’t think Socrates
taught logic to Alcebiades; he couldn’t teach since the ‘dialogue’ is hardly
the way to do it; and then Socrates did not teach logic to Plato; Plato did not
teach logic to Aristotle, since the dialogue is not the way to go – so it is
possibly Aristotle who first ‘taught’ logic to Alexander – this would indicate
that he felt the need to change the form from silly dialogical exchanges to
actual propositions that Alexander could swallow – “Sign” is what stands for
something – a word is the sign of an idea – the idea is the sign for a thing.”
– and so on. “Some things imply others; others IMPLICATE others.” – Grice:
“Genovesi has an interesting bunch of things to say about logic, but then any
writer of a ‘tractatulus’ in logic would: so he explores the
natural/conventional distinction as applied to signs, and then the affirmation
and negation, and pragmatic concerns with obscurity and ambiguity – and
sophismata – and complex ‘causal’ propositions, -- quite a genius – and if a
palaeo-Griceian, if I may myself say so!” Il padre lo indirizza in tenera età verso gli studi.
E affidato agli insegnamenti di Niccolò G., un congiunto, medico tornato da
Napoli, il quale lo istruì in filosofia peripatetica – del LIZIO -- e quella
cartesiana. Nel corso degli studi filosofici, si innamora di Angela Dragone.
Questo amore non trovò l'approvazione del severissimo genitore il quale
condusse immediatamente il figlio a Buccino, dove abitavano alcuni parenti,
presso il convento dei Padri Agostiniani dove segue gli insegnamenti filosofici
d’Abbamonte, appassionandosi al latino di Catone e Varrone. Insegna retorica a Salerno
dove incontra Doti, dal quale riceve lezioni di perfezionamento nel latino.Si
trasfere a Napoli, dove intraprese dapprima la carriera forense, che lascia
presto. Fonda una scuola privata di metafisica e teologia. A Napoli e in
contatto con VICO e ottenne la cattedra di metafisica. Alcune sue posizione
contenute in “Elementa Metaphysicae” furono dai suoi nemici considerate
eretiche, e dovette servirsi dell'intervento dell'arcivescovo di Taranto Galiani,
e di Benedetto XIV per conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce
lascia l'insegnamento della metafisica a Napoli, per passare all'etica,
cattedra tenuta in passato da VICO. L'evoluzione dalla metafisica-
all'etica prosegue con il passaggio all' “economia” quando si compì la
trasformazione 'da metafisico a mercante', come egli stesso ebbe a scrivere
nella sua autobiografia. Insegna'commercio e meccanica, con fondi privati da Intieri,
la prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa, se non
consideriamo cattedre di economia quelle istituite negli anni venti Professorei
n Prussia nell'ambito della tradizione camerale. Il suo lavoro come economista
è stato quello più fecondo, tanto che G. divenne un autore fondamentale. Si
diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta allo spirito e al costume
della Contro-Riforma: gli spunti di polemica antigesuitica e anticlericale, la
ripresa della lotta in difesa dell'autonomia di un sato laico contro ogni
interferenza del cattolicesimo, ai primi elementi di una teoria delle monarchie
illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano letterario, l'avvento
di una poetica e di una critica più aperte e coraggiose. In pratica, fu
l'inizio della vera rivoluzione culturale che si attuò nella seconda metà del
Settecento sotto il segno dell'Illuminismo caratterizzata dalla necessità di
trasformare integralmente i cardini dciviltà in tutte le sue manifestazioni. In
questo ambito, la filosofia politica di G.e decisamente di tipo riformatore, un
anglofilo sotto spoglie francesi. Nella sua filosofia, persegue un compromesso
tra idealismo ed empirismo, cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali
valori religiosi della filosofia cristiana. Riceve l'influenza del nuovo
panorama culturale italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti
il concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo
stato d’oscurità (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les Lumières). Prese
coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale dopo il periodo
d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della necessità di intervenire
per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a nuovi splendori. “Io,
che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici e che cominciava ad
avere in orrore studi si turbolenti, e spesso sanguinosi, feci di più: mi
ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non pensare più a
queste materie. Per tale motivo, abbandona la metafisica e si dedica all’economia
affermando tra le altre cose, che l’economia deve servire ai governi per
alimentare la ricchezza e la potenza del stato. Ritiene che per favorire il
benessere “sociale” sia necessario promuovere la cultura e la civiltà, per
questo motivo è il primo cattedratico ad impartire le sue lezioni in italiano.
Docente di economia politica, occupa una cattedra istituita appositamente per lui
di commercio e meccanica a Napoli da Intieri. Soggiorna più volte nel palazzo
proprio di Intieri a Massaquano per lunghi periodi dove si rifugiava per
trovare "la musa ispiratrice" e lì infatti scrisse alcune sue
opere. Sostiene che anche le donne e i contadini abbiano diritti alla
cultura poiché questa è uno strumento fondamentale per realizzare l'ordine e
l'economia nelle famiglie, e di conseguenza nella società, è inoltre importante
anche l'educazione degli uomini e in particolar modo lo sviluppo delle arti e
delle scienze, contrapponendosi all'idea di Rousseau per il quale il progresso
costituisce la fonte di tutti i mali. Denuncia anche la presenza di un numero
eccessivo di persone che vivono esclusivamente di rendita e affronta tematiche
importanti come problemi di debito pubblico, inflazione e circolazione
monetaria. Il suo pensiero economico è espresso in Lezioni di commercio o
sia di economia civile e considerate una
delle prime opere di filosofia economica. Cerca, così, di indicare la via per alcune
riforme fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà
fondiaria, del protezionismo governativo su commerci e industrie. Tenne
sempre le sue lezioni in italiano grazie alla sua passione per il civile: viene
ricordato per essere stato il primo docente a esprimersi in italiano durante i
suoi corsi e per essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e
di logica in italiano. Così operò, anche e soprattutto, per diffondere lo
studio dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo atteggiamento G. è
ancora una volta in piena continuità con gli umanisti, giudicando anche questo
un mezzo di incivilimento. Altri saggi: Lezioni di commercio (Milano,
Fondazione Mansutti), Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata,
Napoli; Elementorum artis logicae-criticae libri quinque Gli elementi dell'arto
logico-critica, Venezia, Meditazioni filosofiche; Lettere filosofiche; Lettere Accademiche; Memorie Autobiografiche;
Lezioni di commercio o sia d'economia civile; Della diceosina o sia della
Filosofia del giusto e dell'onesto; Delle Scienze Metafisiche; Altre opere da
ricordare sono La logica per i giovanetti, Istituzioni di Metafisica per
Principianti e Lettere familiari, che testimoniano l'intensa corrispondenza
epistolare tra l'abate e il letterato dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei
pochi testimoni dell'illuminismo pugliese. Corpaci, G.; note sul pensiero
politico, Giuffrè, Jones, Reception of Hume in Europe, Continuum, Palatano,
Rosario; G. G.: teoria del commercio, LUISS, G. Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Villari, Il pensiero economico di G.,
Monnier, Chines, Loredana. Su alcuni aspetti linguistici degli scritti di G.,
Pensiero politico, Alessandra, G.: uno dei padri dell'illuminismo meridionale,
su historiaiuris, Bonomelli (a cura di, Quaderni di sicurtà. Documenti di
storia dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede bibliografiche di
Battista, note critiche di Mansutti. Milano: Electa, Bruni, Voce, G., Il
Pensiero Economico Italiano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani.
Bruni e Zamagni, Economia civile, Il Mulino, Bologna,. Fusco, G. e il suo
mercantilismo rinnovato, in Fusco, Visite in soffitta. Saggi di storia del
pensiero economico, Napoli, Editoriale Scientifica, Galasso, Il pensiero
religioso di G., Rivista storica italiana, G. Genovese, Contro le
"Penelopi della filosofia". Note sulle Lettere accademiche di G.,
L'acropoli, G. Genovese, Tra Vico e Rousseau: le autobiografie di G.
L'acropoli, D. Ippolito, G. lettore di BECCARIA, Materiali per una storia della
cultura giuridica, C. Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel
pensiero di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, Perna, Eluggero Pii e
l'edizione delle opere di G. Dialoghi e altri scritti. Intorno alle Lezioni di
Commercio, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e
sociali, A. M. Rao, Etica e commercio: i Dialoghi di G. nell'edizione di Eluggero Pii, Il pensiero
politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, Rother, G., in Rohbeck, Rother: Grundriss der
Geschichte der Philosophie, Die Philosophie des 18. Jahrhunderts, Italien.
Schwabe, Basel, Villari, G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo
sociale, Studi Storici, Zagari, Il metodo, il progetto e il contributo
analitico di G., Studi economici, Gleijeses, Napoli nostra e le sue storie,
Società Editrice Napoletana, Napoli, Signorelli, Treccani, Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Antonio Genovesi, sConferenza Episcopale Italiana. Opere di G. G. (altra versione), su open MLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di G., Bruni, G., Il contributo italiano alla
storia del Pensiero: Economia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ricci, G. in Il contributo italiano alla storia
del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Barbagallo, G.,
Estratto da: Rassegna Storica Salernitana. G. non è uno di quei filosofi,
che fanno compiere un passo innanzi al pensiero filosofico. A
paragone del grande Vico, che si gloria di aver avuto maestro e la cui
Scienza Nuova cita nelle sue opere con profondo rispetto, G. apparisce
come uno di quei mille ammiratori, più o meno sinceri, che VICO ha tra i
suoi contemporanei e tra gli uomini più illuminati delle generazioni successive;
i quali ebbero un certo sentore di alcune teorie di lui, concordanti o
no con dottrine congeneri di altri pensatori e da annoverare tra le
parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i problemi originali posti
e risoluti dal Vico, si può dire, non ebbero senso. Se pertanto nella
storia del pensiero il Vico rappresenta quello che egli rappresenta a’
nostri occhi di storici che han penetrato il significato di quei
problemi, G. dopo di lui è un arresto o una deviazione. Quella vena speculativa
altissima nello scolaro discorso tenuto al Teatro Verdi di Salern, ìn
occasione del monumento inaugurato lo stesso giorno a Castiglione di G.. L’illustre
VICO, uno de’ fu miei maestri, uomo d’immortai fama per la sua Scienza
Nuova (Lez. di Comm., Napoli, Il nostro VICO nella Scienza Nuova,
libro maraviglioso e uno dei pochi che in queste materie [su Omero] facciano
onore all’ Italia (Logica e Metafisica, Milano, Classici italiani, ALBORI DELLA
NUOVA ITALIA è inaridita. Il pensiero ha cambiato strada, abbandonando
gli ardui argomenti con cui s’era cimentato. Ma il paragone col
Vico storicamente non è giusto. I due pensatori in verità appartengono a
due piani storici, da uno dei quali non si passa all’altro
direttamente. Se G. non ebbe occhi per vedere i problemi del Vico,
neanche il Vico, dalla parte sua, ebbe occhi per vedere quelli di G..
Uomini di tempra diversa, con diversi interessi spirituali, si può dire
che il maestro abbia pensato sempre al cielo, e lo scolaro alla
terra. L’uno non si guarda mai attorno se non come uomo privato,
che, quando dai pensieri ordinari si rivolge alla sua scienza e alle cure
più nobili del suo intelletto, vi si assorbe tutto, estraniandosi affatto
dai pensieri, dalle gioie e dai dolori della vita quotidiana. Dove non
sono in verità gli attori del dramma che egli ama studiare e nel
cui studio concentra infatti le energie più potenti della sua
intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra i coetanei come l’uomo astratto, il
filosofo, l’uomo che non è di questo mondo. Quantunque il suo animo,
propriamente, sia a questo mondo legato così strettamente come nessun
altro mai, e di questo mondo, scrutato con sguardo penetrante fino al
profondo, aspiri appassionatamente a intendere il significato, e in
questo mondo appunto agogni con titanico sforzo a conquistarsi
razionalmente, col pensiero, un suo posto. Ma questo mondo egli
vuol vederlo sub specie aeterni, come mondo che è sempre lo stesso,
in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti sempre diversi, ma per
l’interna virtù che lo muove con immutabile legge. L’altro invece è
tutto occhi pel mondo che si agita intorno a lui, nella scuola e fuori
della scuola; nelle città e nelle campagne; nello Stato e nella Chiesa; a
Napoli, per tutta Italia, e di là dall’Alpi. L’istruzione del
popolo e l’educazione dei giovani; l’agricoltura e il commercio; l’economia del
Regno, e i problemi della feudalità e della manomorta; il problema della
moltitudine degli ecclesiastici eccessiva in rapporto alla popolazione; e
poi la questione giurisdizionale e l’ardente lotta anticurialista in
difesa dei diritti dello Stato; e via via tutte le questioni che erano
all’ordine del giorno nella Napoli del tempo, o che uno spirito alacre
ricavava da quelle a cui la pubblica opinione s’interessava. E poiché i
paesi allora alla testa della cultura europea erano insieme
Inghilterra e Francia, e i libri che si pubblicavano in quelle lingue i
più letti, celebrati e discussi, ecco quelle lingue, insieme con le
classiche, a cui Vico si era limitato, studiate e possedute con animo
pronto a seguire il movimento della letteratura straniera in ogni campo di
ricerche filosofiche e sociali. Allargato quindi enormemente l’orizzonte.
Non più quel carattere antiquato e accademico della scienza tradizionale, nel
cui cerchio si muove ancora il Vico, modernissimo per la sostanza de’
suoi problemi, arcaico per la forma (lingua ed erudizione) E la
modernità segna la fine di quel chiuso provincialismo, onde lo scrittore
napoletano si è sentito sempre cittadino di Napoli. G. guarda più in là di
Garigliano e di Tronto. Egli si sente italiano; e come italiano,
partecipe dell’unica società europea della cultura. Italiano e moderno,
si lascia alle spalle il vecchio mondo tradizionale dell’accademia
fratesca e teologizzante e dell’angusta provincia, e respira largo, apre
le finestre della scuola della letteratura e del pensiero, e vive
nel tempo suo e si sforza d’interessare gli uomini, tutti, al
sapere e al lavoro dell’ intelligenza. Siamo, come dicevo, in un
piano diverso da quello della pura filosofia. Qui si può dire che la
filosofia rinunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli per
risorgere in forma più adeguata alle sue esigenze più profonde. Ciò che è
tante volte avvenuto nella storia; e avviene continuamente nella vita. Il
pensiero sale, sale, si purifica, si libera dal rappresentare fantastico
e corpulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana, per
ridiscendere tosto al concreto della realtà che con quell’astrazione ha
cercato di definire e più perfettamente possedere: alla realtà che è corpo e
fantasma, e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso
impeto dell’essere che tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di
ogni esistenza e di ogni luce. Il progresso è pur sempre in certo modo
regresso; e se si volesse andare avanti, avanti sempre, si finirebbe col
precipitare nel vuoto. Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna
toccare la terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come
l’Anteo della favola, da gigante che ha già la forza per rialzarsi: che
ha, in altri termini, un certo grado di coscienza filosofica. Vogliamo
sentire dallo stesso G. qual fosse il suo ideale di cultura ? Basta
leggere un suo Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze,
che pubblicò innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari
per far rifiorire Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi per
giustificare la nuova via per cui egli si metteva, dopo aver anche lui
pubblicato i suoi libri di Logica, di Metafisica e di Teologia in lingua
latina. In questi stessi libri, per altro non è difficile scorgere le
tendenze innovatrici di G. e il carattere dominante del suo pensiero
filosofico, del quale ci proveremo qui appresso a dare un sommario cenno
; ma ancora non è avvenuta la radicale conversione per cui la mente dello
scrittore, dopo che ebbe trovato negli studi economici e sociali una
materia più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma storica, e
ritrovò propriamente se stesso. In questo discorso G. propugna una sorta
di filosofia reale, com’egli dice, e cioè pratica ed applicativa: come
dire una filosofia non propriamente speculativa e filosofica; e prende a
partito tutti i più celebrati filosofi della tradizione e le loro dottrine.
Esalta bensì la ragione come quella che più di tutte le nostre doti
ci rassomiglia a Dio, la sola cosa, per cui l’uomo si solleva sopra tutto
ciò ch’è in terra: la ragione, arte universale governatrice di tutte le
arti e strumenti onde l’uman genere arricchisce la vita e viene ogni dì
perfezionando il sistema dei mezzi diretti ad accrescerne il benessere.
Ma ne addita nelle astratte speculazioni e schernisce i deviamenti già
nell’antichità derivati appunto dall’abuso che l’uomo fa della ragione in
questioni oziose, sottili, astruse e atte nondimeno a suscitare la stima
e l’ammirazione dei semplici e a procacciare una riputazione
fallace. Poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto sogliono più
stimare quel che meno intendono, i dialettici ed i metafisici. I don
Chisciotti della repubblica delle lettere, combattenti con gli
indistruttibili giganti delle chimere, per la gloria vanissima di
sottilissimo ingegno, loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed
usurparono il premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca fatale, che
riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti la Grecia, e ne’ secoli
assai più vicini buona parte dell’Europa. Eppure, la prima e più antica
filosofia era stata una filosofia tutta cose. I più antichi filosofi erano
stati i legislatori, i padri, i sacerdoti delle nazioni, studiosi
di etica, economica, politica; persuasi anch’essi, al pari di tutti
i buoni cittadini, che, « come partecipavano a’ comodi della società,
così dovevano aver parte alle cure e alle fatiche » pel bene pubblico e
domestico. Vennero dopo i tempi di corruzione, in cui prevalse la massima
che l’ozio fosse un nobile e onorato mestiere. E quindi la genia infinita
di coloro che sono «peste del vero sapere e della virtù; i quali si
credettero nati o per garrire inutilmente, o per disputare di cose
inintelligibili, o per mettere empiamente in ridicolo le sante ed utili
cognizioni, le leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà. Vennero
i grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti de’ sogni dei poeti, o
mercanti de’ propri; vennero i metafisici, Penelopi della filosofia,
implicati in disciorre quelle tele, che eransi tessute colle loro mani;
verniero i dialettici, che « tendevano indissolubili lacciuoli alla
ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie gittavan del
negro, sotto cui il vero e il falso prendesse un sol volto. Socrate, il
gran Socrate, di cui è detto che
richiamò la filosofia dal cielo in terra e a cui infatti gl’uomini devono
di sapere che tutto quello che si vuole intendere essi non lo possono
cercare se non nel pensiero, cioè in se medesimi, — da G. non è ricordato
qui se non come colui che insegnò la più ricca e la più bella
possessione dell’uomo essere l’ozio. Dei suoi scolari non gli giova
menzionare altri che Aristippo e Diogene del CINARGO, corruttori del costume.
Di Pitagora a scherno ricorda la monade e il binario; e l’uno di
Parmenide; e l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme dell’ACCADEMIA
e le entelechie del LIZIO; ed altre cosiffatte «bambole di ragione »
degli altri più celebrati filosofi. Che dire poi della filosofia medievale
? Non si può leggerne la storia senza aver pietà della debolezza
dell’ingegno umano. Poveri scolastici! Vestono corazze di carta, che
stimano del più fino metallo; e combattono con i mulini a vento, come con
i giganti distruttori dell’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce fuor del
nostro mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra cosa, fuor
che di ciò che ci appartiene o c’ interessa. In questa caricatura
della storia della filosofia superfluo avvertire lo strazio che G. fa delle più importanti dottrine dei maggiori
pensatori. Voglio solo riferire in proposito un altro periodo, tipico
documento degli stravolgimenti storici di questa invettiva, e
insieme dello spirito che la moveva: La materia prima, che
Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagl’arabi, fu di sì vivi e
vaghi colori arricchita in mano di Abelardo, e di alcuni altri, che
divenne un divino, la quale poi il più empio e il più freddo de’filosofi
del passato secolo, si studiò di adornare con un sistema geometrico.
Allusione a Spinoza, che pure G. aveva studiato con grande interesse. Alle
quali cose quante volte io penso, conchiude il nostro filosofo, forte mi
meraviglio, come gli agricoltori, i pastori e tutti gli altri coltivatori
delle arti per cui l'uman genere si sostiene, abbian potuto tollerare in
pace una razza di uomini, i quali, lungi di dar loro il menomo
rischiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’frutti della loro
industria godevano, pare che si ridessero delle loro fatighe, o che gli
riguardassero come animali di altra specie, fatti dal divino in forma
umana per servire a’loro piaceri. Lode a Bacone, che proclamò la
necessità di ristaurazione dalle fondamenta tutto il sapere, e dimostrò
che si puo essere filosofo con assai gloria, senza essere peso
inutile agli altri uomini. Lo studio della natura, l’esperienza, « gran
maestra delle utili cognizioni, la geometria nutrice di tutte le arti
vennero in grande onore. L’ Europa cambiò faccia. Ogni nazione ha
il suo Ercole, uccisore dei mostri che la infestano. L'Italia ha GALILEI.
Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa a questa nuova scienza, forse
perché con maggior vigore questa potesse irrompervi a rendere più
glorioso il rin- [Cfr. la sua lettera a Sterlich; dove racconta come
potè studiare 1’Etica di Spinoza: Leti, fam., ed. Napoli, novamento che
il Regno, ristaurato dal primo dei Borboni, doveva promuovere. G. ha qui un
concetto che rammenta l’hegeliano spirito del mondo.Egli è veramente
un certo genio, che discorre per le nazioni, e che in dati intervalli le
anima, e le raccende, quello che o primamente mena, o estinte ravviva le
lettere e le belle arti. Ma questo genio, secondo G., vuol essere
sempre accarezzato, sollecitato e alimentato. Può dirsi che la curiosità, la
più utile molla del- l’animo umano, il dischiuda dal suo guscio, la
gloria l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione l’aguzzi e’l
rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’alimenta ». Insomma, il
rinnovamento del pensiero richiedeva a Napoli le più propizie condizioni create
dalla nuova vita impressa allo Stato dal nuovo Regno. Grande
infatti il progresso già avvenuto in Napoli, delle arti, delle scienze,
della ragione che le alimenta. Ma « un certo lezzo dell’antica barbarie »
(prisci vestigia ruris) è rimasto tuttavia attaccato agli scrittori.
La ragione non è pervenuta ancora alla sua maturità: è ancora tutta
nell’ intelletto, e deve passare nel cuore e nelle mani. È bella, non è
operatrice; adorna, non utile. Bisogna che diventi pratica e realtà; come
può solamente quando tutta si è così diffusa nel costume e nelle
arti, che noi l’adoperiamo come sovrana regola, quasi senza
accorgercene: come accade alle bestie, in cui la cognizione è tutta uso, perché
è l’arte del divino lavorante su la materia, ed in Dio non ci sono Enti
di ragione»: cioè le astrattezze che si annidano nel cervello dei
filosofi. I dotti napoletani hanno bensì coltivato lo studio delle
leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei dialettici: questioni
sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla vita. Tutta una forma di
sapere, in cui, insomma, secondo G., c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è
cuore; e c’è cattivo gusto. Manca, diremmo oggi, il senso scientifico; e
gl'ingegni si credono più grandi quando sono ammirati come
incomprensibili, che quando stimati come utili. La pratica dell'
insegnamento (insegnava già egli da sedici anni) aveva dimostrato a G. che
Napoli era un semenzaio di nobili e glandi ingegni ; ma i migliori
ingoiavano avidamente la nuova filosofia prima di digerir la vecchia. Avvezzi
alle sottigliezze vane e alla ciarleria, troppo ancora se ne compiacevano
per fare il debito onore alle scienze sode, feconde, che avevano
già trasformato la cultura inglese, francese, olandese. Sacrifichiamo
dunque una volta la seduttrice e vana gloria dell’astratta speculazione
al giusto desiderio della parte più grande degli uomini, i quali ci
vogliono men contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il
divin dono della ragione perché intendiamo, che il vero sapere non
è di sì gelosa natura che voglia essere di pochi ». Esso deve giungere al
popolo. Il quale ha bisogno di essere illuminato, e non seguito nella sua
naturale ritrosia alle novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento
tenace alla tradizione. Deve essere indotto a profittare delle
osservazioni e delle invenzioni dei dotti. Deve essere ingentilito, rianimato,
spronato ad elevarsi. E si deve quindi operare su di esso non con le
leggi che non cambiano gli uomini, sì con la savia educazione e coltura
di questa sì preziosa derrata dell'uomo, da che egli comincia a
sbucciare dal suo guscio. Curare l'educazione. È uno degli articoli
principali dell’apostolato di G. 1 ; poiché i contemporanei, a suo
giudizio, curavano più i testi di fiori e le piante Sulla educazione e
istruzione popolare vedi Lez. di Comm., e Logica, Senza educazione oltreché non
è possibile, che la popolazione si aumenti ma, pure dove avviene che
cresca, la repubblica si potrà ben dire aumentata di semi-uomini, ma non di
forze (Lez. di Comm., peregrine che avevano per avventura ne’loro
giardini, che non i figli. E raccomandava la massima diligenza nella
scelta dei maestri, poiché molto, a suo giudizio, mancava per questa
parte il Regno di Napoli. Bisogna sentire il ritratto vivo che ce ne ha
lasciato: I maestri di scuola pongono poca cura a studiar l’urbanità e
l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti d’onore: sovente i loro
moti, gesti, tuono di voce e tutto il lor volto, che suol esser lo
specchio dei ragazzi, spira tutt’altra cosa che gentilezza: la loro
lingua è più frequentemente un gergo corrotto de’vari dialetti del nostro
Regno, che la bella e nobile della pulitissima Italia: finalmente, dirò io che
il lor costume sia sempre il più puro e il più santo ? Inoltre, quasi
tutti si studiano di coltivar assai più la memoria de’ loro allievi che
la ragione e il cuore. Un solecismo o barbarismo in lingua latina è
da loro più severamente punito, che molti a’ gentiluomini
sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi solecismi di ragione e di
costume. Si adirano anche spesso, gridano e fanno dei schiamazzi in testa
a’ loro allievi; gli battono senza misericordia, e gli trattano più da
servi, che da figli: tutte cose più atte a fare o stupidi o villani o
zotici e feroci i ragazzi, che ad allevargli nel sapere, nelle
virtù, nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi ben anche
spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito dire a molti di
coloro un proverbio, che fa disonore agli esseri ragionevoli: che i
fanciulli si curan colle mazze. Un filosofo che parla questo linguaggio
umano, familiare, e che pensa come s’è veduto, dei filosofi e dei
loro sistemi, evidentemente non è un filosofo di professione. Sarà un
filosofo che avrà qualche cosa da dire più e meglio dei filosofi di
professione; ma non potrà facilmente an¬ dare d’accordo con questi. Così
poco rispettoso di quelle Si che sono le idee e le maniere per loro
più rispettabili e venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto
fastidio verso le questioni che formano il nutrimento e il vanto dei loro
cervelli, certo potrà, per caso, trovarsi in mezzo ad essi: ma vi starà a
disagio, e se ne trarrà fuori, spontaneamente o per necessità, appena se
ne presenti l’occasione. G., nato nella terra di Castiglione 1 ’
Ognissanti, fu avviato quattordicenne agli studi di filosofia da un suo
stretto congiunto, che gli insegnò per due anni filosofia scolastica e
per un terzo anno filosofìa cartesiana (filosofìa di moda allora nel
Napoletano); quindi, poiché il padre lo volle ecclesiastico, obbligato
ad apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli ordini minori,
promosso suddiacono. Chiamato questo anno a insegnar rettorica nel
seminario di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo conto
con gran fervore ; finché è ordinato prete J'e un’eredità allora
conseguita gli consentirà di recarsi l’anno appresso a Napoli, per
appagare in quella Università e nella consuetudine degli illustri
letterati della metropoli la sua sete ardentissima di sapere. A Napoli
frequentò molti corsi; tra gli altri, quello di VICO (si veda); di cui,
ci racconta un anonimo biografo, aveva già da un anno letta la Scienza
Nuova Il perché corse ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la sua
servitù, ebbe l’onore della sua amicizia
Insoddisfatto della filosofìa che s’insegnava, disegnò programmi
suoi, e aprì una sua scuola privata; finché il Cappellano Maggiore
monsignor Galiani, che era l’uomo che poteva intenderlo, gli affidò
l’incarico d’insegnare nell’ Università Metafìsica. Legge Malebranche, Locke,
studiato Spinoza Note di Cutolo alle Memorie autobiogr. di G., in Ardi.
stor. nap. Cutolo, Noie cit. e Leibniz; e detta agl’alunni, come
volevano i regolamenti del tempo, le sue lezioni in latino. Ne nacquero gl’Elementi
di Metafisica in lingua latina, pel metodo geometrico con cui la
dottrina e esposta (metodo, si sussurra, caro ai protestanti), per le
novità che contene, per le concessioni che fa al razionalismo, per quello
scetticismo moderato che vi domina, procura all’autore ire e persecuzioni
dei censori ecclesiastici, aprendo una serie di contestazioni teologiche,
che alienarono sempre più il suo animo dagli studi che rimanevano in
Italia, e sopratutto nel Mezzogiorno, monopolio quasi esclusivo dei
frati. Ma ecco che Galiani gli viene in aiuto passandolo dall’incarico di metafisica
alla cattedra ordinaria d’Etica:insegnamento più conforme all’ingegno di G.,
e da lui infatti tenuto per un decennio con grande efficacia per
l’eloquenza delle sue lezioni, la modernità della dottrina, la ricchezza e
praticità delle questioni trattate. Pure alla Metafìsica s’aggiungeva in
cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in latino. E queste opere
si ristampavano e si diffondevano in Italia e fuori d’Italia. Nondimeno
l’autore poteva scrivere a un amico. La metafìsica mia fatta pei teologi
e frati, non può piacere ai fìsici e ai matematici, come neppure piace a
me. E con tutto ciò, la logica e la metafìsica s’insegna in molti collegi di
Francia, e in quasi tutte le scuole di Germania. Avevano fortuna;
poiché questi libri rispondevano al bisogno delle scuole, e nel
loro andamento eclettico e largamente informativo ben s’adattavano alla
tendenza media degli studiosi non risolutamente moderni ma neppur ciecamente
chiusi nella tradizione, e disposti quindi a conciliare nova et vetera 1
Leti, jam.. e farsi una filosofia senza compromettersi; ma, come si
vede, non finivano di contentare l’autore stesso. Anche i due saggi De
iure et officiis eran nati dalla scuola e per la scuola (in usum tironum)
; e del pari altri due brevi compendii latini di Logica e di Metafisica. Ma
quando a G. è possibile avere una scuola a modo suo, intorno a materie
nuove, indirizzate a pubblica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli
non scriverà più latino. Che gioia quando fu istituita per lui,
nell’Università, la cattedra di Commercio e Economia, fondata dal suo
vamico, facoltoso e autorevole, il fiorentino Intieri, studioso di
macchine agricole e di questioni economiche: ingegno pratico alla
toscana, avverso a ogni oziosità speculativa! Allora G. si sente davvero
maestro, e veramente filosofo. Grande l’attesa nel pubblico per il nuovo
insegnamento; ma potente altresì l’estro del nuovo insegnante e l’impeto
e il calore della sua eloquenza. Quando tenne la sua prima lezione, fu un
avvenimento nella vita di G. e nella storia non soltanto della
cultura napoletana ma della scienza europea. Poiché questa di G. èla prima
cattedra istituita in Europa di Economia politica: dovuta, s’intende, non
al semplice intuito d’un privato ma al movimento degli studi che la
situazione economica del Regno di Napoli aveva prodotto. In una lettera
dello stesso mese Genovesi scrive a un amico 1: Nel dì 5 corrente feci il
mio discorso preliminare, o sia l'apertura alla nuova cattedra del commercio
con uno straordinario concorso, tuttoché io non avessi fatto invito.
Parlai un’ora, non solo senza niente aver mandato a memoria, ma senza
aver niente scritto di quello che dissi. Con tutto ciò il discorso è
ricevuto con applauso, e subito diffuso per tutta la città. È
stata Leu. falli. bella! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho
potuto lor dire, che dopo averlo letto n’aveva perduto
anche l’originale.Il giorno seguente cominciai a dettare. Grande è la
meraviglia in sentir dettare italiano; sicché, essendomene accorto, nello
incominciare la spiegazione dovetti cominciare dai pregi della lingua
italiana, e urtar di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia. La
scuola è stata sempre piena in guisa che molti non ci hanno trovato
luogo; ma la maggior parte sono uditori di barba, e di vari ceti. Gli
scriventi sono circa cento. Gran moto è nato da queste lezioni nella
città, e tutti i ceti domandavano libri di economia, di commercio, di arti, di
agricoltura ; e questo è buon principio. Da questo corso, che G.
prosegue finché le forze gli bastarono (morì, ma un anno prima per
malattia aveva dovuto lasciare la cattedra), trassero origine le belle Lezioni
di Commercio ossia di Economia civile in due volumi, che rimarranno tra
le opere classiche della nuova scienza: opera riboccante d’ingegno, di
erudizione, di brio e di amore del pubblico interesse, dall’agricoltura
alla pubblica istruzione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del commercio
della Gran Bretagna di John Cary con un Ragionamento del Commercio in
universale e lunghe e importanti annotazioni del Genovesi sul commercio del
Regno, e altri scritti minori. In questi stessi anni il laborioso
scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle sue opere latine.
Sono le sue Meditazioni filosofiche, che arieggiano quelle di Cartesio;
ed ebbero l’ammirazione del Baretti 1; e le Lettere filosofiche; come [Da
leggere l'articolo che gli dedicò nel 20 numero della Frusta Letteraria:
dove Baretti giudica il saggio con questi termini di alto elogio (ed.
Piccioni, Bari, Fra le tante migliaia e migliaia di libri scritti nella nostra
lingua, io non ne conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli di Galilei, le
Lettere accademiche. Imprende a scrivere in italiano un Corso di
filosofia. E volle scriverlo per gl’italiani (com’egli stesso fa sapere a un
amico) che son curiosi di sapere se le scienze potessero così
parlare italiano come una volta parlarono greco e latino. Il motivo che
mi muove, è una massima, che può stare che sia falsa, ma 1’ ho nondimeno
per vera, cioè che ogni nazione che non ha molti libri di scienze e di
arti nella sua lingua è barbara. Perciò in Francia nell’età di Luigi
XIV s’è cominciato a scrivere di filosofia in francese. Perciò ha seguito
l'esempio l’Inghilterra. E altrettanto si cominciava a fare in Germania.
Dove non si scrive nella propria lingua, dice G., si accende magari
mi lume grande e brillantissimo, ma questo resterà nondimeno sepolto in que’ lanternoni da
antiquari d’onde non tralucono che pochi tenebrosi raggi. E nelle stesse
Lezioni di Commercio inculcava come che sia tanto pregno di pensamento e
di vera scienza quanto è questo primo tomo di questo nostro ampio,
sublime ed aggiustatissimo filosofo G.. A Baretti non andava lo stile di
G., seguace della scuola toscaneggiante di CAPUA (si veda). Una cosa però
disapprovo in lui assolutamente, e questo è lo stile suo perché troppo a studio
intralciato e rigirato si, che non poche volte abbuia il pensiero. Com'è
possibile, ho detto tra me stesso mille volte leggendo queste sue tanto
stimabili meditazioni, com’è possibile
che un uomo il quale è una aquila quando si tratta di pensare, si mostri
poi un pollo quando si tratta di esprimere i suoi pensieri? Come mai un G.
ha potuto avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di certi
secchi e tisici uccellacci di Toscana ? Eh, G. mio, adopera gli
abbindolati stili del Boccaccio, del Bembo e del Casa quando ti verrà
ghiribizzo di scrivere qualche accademica diceria, qualche cicalata,
qualche insulsa tiritera al modo fiorentino antico e moderno; ma quando
scrivi le tue sublimi Meditazioni, lascia scorrere velocemente la
penna; e lascia nelle Frammette e negli Asolani e ne’Galatei, e in altri
tali spregevolissimi libercoli i tuoi tanti conciossiacosacché e i perocché....
e tutte quell’altre cacherie e smorfie di lingua, che tanti nostri
muffati gram- maticuzzi vorrebbero tuttavia far credere il non plus ultra
dello scrivere. Cfr. la pref. alla Logica italiana. certissimo assioma politico
che una nazione non sarà mai perfettamente culta nelle scienze, nelle
arti, nelle maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e
i libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà dipendere
da una lingua forestiera; la quale, non essendo intesa che da una
picciolissima parte del popolo, tutto il resto sarà fuori della sfera del
lume delle lettere. Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre
idee e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere in
un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? Finché in un paese le scienze
saranno in un gergo straniero alla maggior parte del popolo, avremo sempre,
dice G., molte scuole inutili, molto tempo perduto, molti cervelli
stupiditi; e mancheremo delle necessarie, né ha possibile di avere delle
buone teste. Con questo ideale di una scienza che penetri il popolo
per svegliarne e metterne in moto tutte le forze morali ed economiche, il
G. voleva scuole e quando furono da Napoli espulsi i Gesuiti e riordinata
la pubblica istruzione ed egli a tal fine invitato a scrivere un
Piano di riforme, non dimentica nelle sue proposte le scuole del
popolo; voleva metodi razionali e semplici perché fossero efficaci gl’
insegnamenti accostati al popolo c ai giovinetti; voleva accademie, che,
abbandonando la vecchia letteratura e le discussioni vane della filosofia
infeconda, si rivolgessero alle ricerche sperimentali e alle arti più
necessarie alla vita; e voleva, come sè visto, libri in italiano,
attraenti e di facile lettura. Ma aveva pure il suo ideale di una
dottrina che, liberando il popolo dalle superstizioni e dai pregiudizi, e
rinvigorendo nelle coscienze i convincimenti morali e la fede religiosa
che ne Per questo Piano, vedi gli appunti che ne pubblico G. M. galanti,
Elogio stor. di A. G., Firenze, è sempre il fondamento, potesse aprire la
strada a quel rinnovamento che egli auspicava: potesse infondere
negli uomini e nelle nazioni la fede nella ragione, di cui egli era
l’apostolo. Tutto il suo sistema riformatore era insomma ispirato a una
filosofia. Della qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati di
Logica e di Metafisica, che, bene accolti dai contemporanei e più volte
ristampati (è almeno da ricordare 1 edizione che della Logica volle curare Romagnosi),
sono entrati a far parte della letteratura filosofica nazionale, si
scorgono i lineamenti anche da chi non ricerchi i ponderosi volumi latini, che
li precedettero e prepararono. G. è un empirista, ma non e un sensista,
e tanto meno un materialista. Combatte le idee innate, ma
cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto, e la ragione, che
l’uomo che medita trova in se stesso come attività sovrana, libera,
signoreggiatrice, col suo giudizio, dell’universo, vede conforme a una
ragione creatrice universale, divina L’uomo per essa è immortale. Per
essa destinato a vincere il dolore, a superare ogni difficoltà, a viver
felice. Questa ragione infatti non è fredda astratta intelligenza. Essa è
energia ( energetico, dice G.) perché è anche passione, cuore i.
Non 1 Come empirista, G., pur non ripudiando ogni metafisica,
insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche speculative alle
questioni essenziali per una concezione sana e morale della vita. Insi¬
stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano. Vedi Gentile, Stona
della filos. ital. da G. a Galluppi, Milano, Treves, ’ dov'è particolarmente
studiata la dottrina della conoscenza di G.. Oltre i luoghi ivi citati, e
le frequenti dichiarazioni che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1
infecondità delle più astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi
Logica, Notevole in special modo la lett. a Saffiotti. Vedi Meditazioni
filosofiche, Milano, Silvestri, Logica, Vedi Logica, distrugge la passione; una
passione infatti si combatte con un’altra passione. E poiché ogni essere
è ragione, e soffre e aspira a godere, essa, non essendo
individuale, ma comune e universale, stringe in un vincolo di amore
gli uomini. Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una concezione
leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche per G. i corpi,
scomposti negli elementi semplici di cui sono formati, si riducono a
sostanze spirituali, attive. E tutte le qualità sensibili dei corpi non
sono altro che fenomeni, nostre sensazioni. Lo spirito è
attività : è quella stessa forza che è in tutte le cose che sono in
natura, e che tende ad espandersi. In noi questa forza si svela nella
ragione, che è prima di tutto coscienza, affermazione di sé. Questa forza
è attiva e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il suo dominio,
a trionfare. Il mondo non è, infine, se non questo svolgimento della ragione,
che nel suo progressivo prevalere è cultura sempre più intensa e sempre
più diffusa; è benessere in cui lo spirito viene ritrovando e
procurandosi le condizioni più favorevoli al suo sviluppo ; è amore degli
altri, insieme coi quali ogni uomo viene adempiendo in comune il destino
della sua natura, la libera vita della ragione. Questa la fede di G..
Questa la sorgente dell’entusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo
dalla cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute,
infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il segreto della
potente azione da lui esercitata sul suo tempo, promovendo nuovi studi,
animando gl’italiani alla lotta contro il vecchio mondo: contro la
feudalità in favore dei lavoratori della terra e della nascente
borghesia; contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il
pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la religione;
contro tutto ciò che nel pensiero e nelle istituzioni impedisse 0 ostacolasse
il libero sviluppo del lavoro, della civiltà, della ragione. G. non è
un rivoluzionario; ma è un educatore di rivoluzionari, che quando
scoppierà in Francia la grande Rivoluzione, o crederanno di obbedire alla
voce del vecchio maestro accogliendone una scintilla anche a Napoli, e
quindi suscitando il glorioso incendio della repubblica partenopea,
celebrazione di una grande fede idealistica ancorché astrattamente
giacobina, santificata dal martirio 0, uomini di grande accorgimento ed
equilibrio, come GALANTI (si veda) e CUOCO (si veda), con più profonda
intelligenza dell’ insegnamento di G., ne trarranno argomento a una più
realistica concezione politica della libertà necessaria al popolo
napoletano: poiché vedranno come il maestro aveva veduto, che
questa libertà non poteva essere vitale, se non era forte della forza di
uno Stato ben ordinato e potente: di uno Stato infine in cui tutta
l’Italia, prima o poi, doveva unirsi tutta in un corpo solo tra l’Alpi e
il mare. Questa idea di un’ Italia unificata da GALANTI (si veda), il
più fido dei discepoli di G., passa a CUOCO (si veda), e da CUOCO (si
veda), come oggi sappiamo, passa a MAZZINI (si veda). Ma era stata
preconizzata a Napoli da G.. La cui commemorazione io non potrei meglio
concludere che rileggendo una sua pagina, a proposito della sicurezza
necessaria al commercio, e impossibile senza una fiotta militare adeguata.
Impossibile perciò allo stesso Regno di Napoli, che era tuttavia il
maggiore e più potente Stato d’Italia: «Vorrei io», scriveva nel detto
anno G., in questo luogo dire un pensiero, che ho sempre meco d’intorno
all’animo avuto, ed hollo tuttavia; ma io temo ch’egli non sia per incontrar
male 1 Sulla scuola di G. e la sua importanza storica, A. Simioni,
Le origini del Risorgimento politico dell' Italia meridionale, vMessina,
Principato, presso coloro, che niuno amore hanno e niun zelo nutriscono per
l’Italia, come madre nostra. Ma il dirò pure in qualunque parte sia per
prendersi da chi non guarda più in là del proprio utile. A voler
considerare l’Italia nostra, e dalla parte del suo sito, e da quella
degl’ ingegni, e per quello che ha ella altre volte fatto e fa eziandio,
tuttoché divisa e come dilacerata, si converrà di leggieri, ch'ella tra
tutte le nazioni di Europa sia fatta a dominare; perocché il suo clima
non può esser più bello, né più acconcio il suo sito rispetto alle terre
e al mare che la circondano, né più perspicaci e accorti e destri e
capaci di scienze e di arti e duranti di gran fatiche, e oltre a ciò più
amanti della vera gloria, i suoi popoli, di quel ch’essi sono. Ond’
è dunque, ch’ella sia non solo rimasta tanto addietro all’altre nazioni
in tutto ciò, che par suo proprio, ma divenuta in certo modo serva di tutte
quelle che il vogliono? Ella non è stata di ciò causa la sola mollezza,
che le conquiste de’ Romani v’apportarono; perocché questa morbidezza, che le
ricchezze e la pace v’avevano introdotta, non durò lungo tempo; ma la
vera cagione del suo avvilimento è stata quell’averla i suoi figli medesimi in
tante e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha perduto il suo
primo nome e l’antico suo vigore. Gran cagione è questa della ruma delle
nazioni. Pur nondimeno, ella potrebbe meno nuocerci, se quei tanti
principati, deposta ormai la non necessaria gelosia, la quale hanno
spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero, sperimentata e al comune
d’Italia e a se medesimi funesta, volessero meglio considerare i propri e i
comuni interessi, e in qualche forma di concordia e di unità ridursi.
Questa sarebbe la sola maniera di veder rifiorire il vigore
degl’Italiani. Potrebbe per questa via aver l’Italia nostra delle
formidabili armate navali, e di tante truppe terrestri. che la facessero
stimare e rispettare non che dalle potenze d’oltremare, che pure spesso
l'infestano, ma dalle più riguardevoli che sono in Europa. Ella non vorrebbe
ambire altro imperio, che quello che la natura le ha circoscritto: ma ella
dovrebbe, e potrebbe difendersi il suo. Potrebbe veder rinascere in tutti
i suoi angoli le arti e le industrie, dilatarsi il suo commercio, e tutte
le sue parti nuovo abito e la pristina bellezza prendere. Se questi
sensi s’ispirassero ai pastori di tutte le sue parti, forse che non
sarebbe questo un voto platonico. E mi pare che i principati d’Italia non
siano sì gli uni degli altri gelosi, che per massime vecchie che son
passate ai posteri più per costume che per sode ragioni. Non son ora i
tempi ch'erano: e quelle cagioni di reciproci timori, che potevano una
volta essere ragionevoli, sono ora non solo vane, ma nocevoli e al tutto
e alle parti, se ben si considerano. Egli è per lo meno certo, ch’ella
non può, come le cose sono al presente, sperare altronde la sua salute,
che dalla concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e
vero interesse suol riunire anche i nemici: non avrà egli forza da
riunire i gelosi ? Rettor del Cielo, io chieggo Che la pietà
che ti condusse in terra. Ti volga al tuo diletto almo
paese. A G. dunque, il più filosofo dei grandi riformatori italiani,
spetta il merito di essere stato il più italiano di tutti. Egli scosse il
petto dei giovani, e vi infuse una fede nella civiltà che è scienza ed è
libertà. Egli indicò agl’Italiani l’Italia, che non c’era, ma co-1 Carv,
Storia del Comm. della Gran Bretagna, Napoli. Pagina celebre dacché il Carducci
l’ebbe inclusa nelle sue Letture del Risorgimento Italiano.minciava a
presentirsi, ed egli l’annunziò, insegnando come le si potesse preparare
la via. E la sua voce si ripercosse di generazione in generazione, finché
l’Italia venne. E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando
la letteratura alla vita, la filosofia all'uomo, ammazzando l’accademia e
l’ozio ancorché dotto ed elegante, educando il popolo a credere nella
cultura, a servire l’ideale, andando incontro per esso anche alla
morte. Fulgido esempio i martiri. Stato laico e veramente sovrano,
religione tutta rivolta alla vita dello spirito, libera da ogni cupidigia
e pretesa mondana; libera la ragione, rispettata come cosa sacra la
scienza, e la scuola che la promuove. E di là dal breve confine della
provincia, per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata,
consa¬ pevole di una sua missione civile. Questa la scuola del G..
Perciò gl’ Italiani devono ricordare il suo nome; perciò devono
annoverare G., lui così modesto, così riservato e chiuso tra la scuola e
i libri, tra i padri della patria. E nella scuola italiana
particolar¬ mente deve esser ricordato come esempio ed ammonimento
contro la pseudoscienza astratta dalla vita sempre rina¬ scente. Poiché i
frati, che punzecchiarono in vita G. e sono perseguitati dalla sua dialettica e
dal suo frizzo, hanno cambiato veste, e non natura. E contro di
essi bisogna ancora combattere, ancora difendersi. Perciò G. è
vivo. G. Nasce a Castiglione (ora Castiglione del Genovesi), piccolo
paese dell'Appennino campano a pochi chilometri da Salerno, primogenito dei
quattro figli di Salvatore e di Adriana Alfenito. La famiglia, un tempo
benestante, era decaduta da civile in basso"stato, e viveva con i modesti
proventi del lavoro del padre calzolaio e di una piccola proprietà. Allo sforzo
di recuperare una condizione economicamente più solida e socialmente più
prestigiosa, nonché alle strategie familiari in uso nella società del tempo e
della zona, si deve la precoce destinazione di G. alla carriera ecclesiastica,
realisticamente accettata dal ragazzo come unica strada percorribile per
accedere agli studi superiori e a una professione intellettuale, per la quale
si sentiva particolarmente tagliato, poi vissuta sempre con autentica adesione
a una religiosità profondamente sentita. Affidato a parenti membri del clero
locale, G. compì i primi studi nel paese natio, praticamente da autodidatta,
completando il corso di lettere latine a tredici anni. Seguirono tre anni
dedicati alla filosofia, dapprima quella scolastica, per la quale maturò un rapido
rifiuto, poi quella cartesiana, sotto la guida di un medico suo parente,
Niccolò G., a sua volta allievo del medico cartesiano napoletano N. Cirillo. Le
due autobiografie redatte dal G. e rimaste incompiute e inedite in vita (la
prima, Autobiografia, in Zambelli, La formazione; la seconda: Vita di G., in
Illuministi italiani) ci trasmettono il ritratto di un adolescente vivace,
intelligente e ricettivo, fortemente motivato allo studio per curiosità
intellettuale e desiderio di primeggiare, ambizioso e abile nella dialettica.
Nello stesso tempo fu iniziato al gusto della letteratura dai consigli di un
altro amico del luogo, S. Parrilli; gliene derivò una passione, che durò tutta
la vita, per i poemi cavallereschi, per Dante e Petrarca, alla quale seguì il
nascere di un altrettanto intenso interesse per la storia. Ma il padre
sorveglia attentamente che il ragazzo non si concede distrazioni. La rigidezza
paterna ha modo di manifestarsi più duramente quando G. si innamora,
ricambiato, di una compaesana. Per impedire che questo amore cambiasse i
programmi di vita di G., il padre gl’impone il trasferimento a Buccino, sempre
non lontano da Salerno, in casa di parenti, mentre la compaesana è costretta al
matrimonio con un pastore. G., pur profondamente addolorato e deluso, trova
conforto nella maggiore apertura e possibilità di contatti che il nuovo
ambiente, sempre provinciale ma più aperto e animato, gl’offre, e nell'amicizia
con l'arciprete Abbamonte, che migliora la sua preparazione classica e stimola
l'interesse per la teologia e il diritto civile e canonico. Prende gli
ordini minori. Nel frattempo, spinto dalla necessità di rendersi indipendente
economicamente, con l'appoggio dell'arcivescovo di Salerno Capua, che ne aveva
apprezzato le doti esaminandolo per il diaconato, ottenne l'insegnamento di
retorica presso il seminario della città, dove rimase due anni. Ordinato
sacerdote, fornito del modesto capitale di 600 ducati ereditato da uno zio
materno, insieme con il fratello Pietro, destinato alla carriera forense, si
trasferì nella capitale del Regno, dove avrebbe trascorso tutto il resto della
vita, allontanandosene solo per brevi periodi di villeggiatura. Abbandonato
rapidamente il progetto di intraprendere anche la professione forense, che gli
parve avere poca conformità con le massime del puro cristianesimo (Vita),
insofferente del formalismo giuridico e dell'ambiente del foro, scelse
definitivamente gli studi filosofici. Frequentò le lezioni Martino e Vico - di
cui già conosce la Scienza nuova -, conosce DORIA (si veda), si legò di
amicizia con BUONAFEDE, che lo descrive, in quei primi anni napoletani, in un
acuto ed efficace profilo (Ritratti poetici, storici e critici di vari uomini
di lettere, Venezia). Lasciò inattuato il progetto di un'opera ispirata a
Platone, La repubblica divina, per rivolgersi avidamente alla cultura
anglo-olandese, ai neoplatonici di Cambridge, a Clerc, a Newton, a Locke
(progettando una traduzione dal francese del Cristianesimo ragionevole), al
giusnaturalismo. Apre una scuola, in cui insegnare i suoi nuovi piani di
filosofia e di teologia, in particolare il piano di un'etica (Vita), frutto
delle riflessioni di quegli anni. Comincia a maturare in quest'esperienza - che
dura tutta la vita - la vocazione pedagogica che caratterizza tutta l'attività
di G. e che si realizza in un metodo d'insegnamento dinamico, in cui
l'ampliarsi dell'orizzonte culturale del docente sollecitava e promuoveva
l'apprendimento in interazione costante con i giovani. Il carattere innovativo
e il successo della scuola gli procurarono l'amicizia e la protezione di
Cusano, di Orlandi e, soprattutto, del cappellano maggiore Galiani, autentico
iniziatore della nuova cultura newtoniana a Napoli, fondatore dell'accademia
delle scienze e promotore della riforma universitaria, da poco
avviata. Attraverso Galiani, G. ottenne il primo incarico universitario,
come professore straordinario di materie metafisiche, e comincia a insegnare.
Era nel frattempo approdato a una visione filosofica fondata su un "eclettismo
programmatico", che tendeva alla serena composizione di un costante
atteggiamento apologetico con la più totale disponibilità verso i portati della
cultura innovatrice, di cui si appropriava con onnivora curiosità. Ne dette la
prima dimostrazione nel manuale degli Elementa metaphysicae (Napoli), prima
tappa dell'ambizioso progetto di un corso completo di filosofia. Proprio per
queste caratteristiche, nonostante la sostanziale ortodossia e l'approvazione
del revisore regio Orlandi, l'opera e duramente attaccata dagli ambienti
ecclesiastici. La protezione di Galiani e la disponibilità ad accettare di
chiarire le proprie posizioni in una Appendix pubblicata salvarono G. dalla denuncia al S. Uffizio. La polemica
però accrebbe la sua notorietà a Napoli e fuori del Regno; divenne abituale
frequentatore del salotto letterario di Sarno, bibliotecario del marchese di
Montealegre (duca di Salas), primo segretario di stato. Le tesi esposte nella
Metafisica attirarono l'attenzione di Conti, con il quale G. avvia uno scambio
di lettere filosofiche sulla natura delle idee, stampate (poi in
Letterefamiliari, Venezia. Passa alla cattedra di etica, con buon successo per
la rinnovata affluenza di studenti. Nello stesso anno pubblicò, in
collaborazione con Orlandi, cui si devono le note scientifiche, gli Elementa
physicæ di Musschenbroek, ai quali premise una Disputatio physico-historica de
rerum corporearum origine et constitutione, agile e precisa sintesi delle idee
scientifiche dall'antichità al presente. La manifesta adesione al newtonismo si
colloca tuttavia ancora all'interno di una visione spiritualizzante e
ortodossa, che connette la visione del cosmo di Newton al vitalismo di Cardano
e di Campanella e con la platonica anima mundi. L'opera ebbe grande fortuna,
come pure il contemporaneo manuale di logica Elementorum artis logico-criticæ (Napoli),
che gli procura gl’elogi di Muratori, con il quale avvia un carteggio, quasi
totalmente perduto, destinato a durare fino alla morte del modenese. Ma altri e
più pericolosi attacchi si andavano preparando nel clima di scontro
determinatosi a Napoli a causa del tentativo, peraltro fallito, di introdurre
il tribunale dell'Inquisizione, messo in atto dall'arcivescovo cardinale
Spinelli. Pubblica la seconda parte della Metafisica, dedicandola a
Benedetto con l'evidente scopo di garantirsi un'autorevole tutela, e nel
contempo portava a compimento la stesura del manuale di teologia cui attendeva
dai primi anni Quaranta: gli Universae theologiae elementa. Quando si rende
vacante la cattedra di tale disciplina, G. ritenne di avere giusto titolo per
concorrervi con buone probabilità di successo. Ma la sua candidatura provoca
violente opposizioni. In base alla denuncia di un altro concorrente, l'abate
Molinari, la curia romana volle esaminare il manoscritto, mentre la corte di
Napoli ne affida la revisione a Barba. Nonostante i suoi timori, anche questa
volta G. riusce a evitare la denuncia per eresia, soprattutto in virtù
dell'appoggio dei gesuiti, ostili all'arcivescovo Spinelli, della sua personale
amicizia con il padre provinciale della Compagnia e del fatto che, sul piano
dottrinale, si define mezzo molinista in materia di grazia. Ma in questa
occasione è assai tiepido l'appoggio di Galiani, che gl’impone la rinuncia non
solo alla cattedra, ma anche all'insegnamento privato della teologia e alla
pubblicazione degli Universæ theologiæ elementa, provocando la decisione di G.
di abbandonare studi sì turbolenti e spesso sanguinosi (Vita). G. continua
a insegnare etica, mentre proseguiva il completamento della metafisica con un
volume dedicato al giusnaturalismo. Reinterpretando Grozio e soprattutto
Pufendorf, G. vede nel giusnaturalismo le basi per rinnovare un'etica
razionalmente e scientificamente fondabile, in grado di definire il quadro di
valori di una società mercantile, i cui problemi si venivano ormai collocando
al centro dei suoi interessi. La persecuzione di cui è stato oggetto, oltre ad
allargare la cerchia delle sue frequentazioni amichevoli a personaggi come
Raimondo di Sangro principe di Sansevero e Felice, gli aveva offerto infatti
l'occasione di entrare a far parte del cenacolo che in quegli anni si era venuto
a creare intorno a INTIERI. Ormai avanzato nell'età, questo abile e fortunato
imprenditore toscano, amico di C. Galiani e cofondatore dell'Accademia delle
scienze, ritiratosi a poco a poco dalle sue multiformi attività, aveva raccolto
intorno a sé vecchi e soprattutto nuovi esponenti dell'intellettualità
napoletana, come RINUCCINI, ORLANDI, GALIANI, con i quali aveva avviato una
fruttuosa consuetudine di discussione, tesa a stimolare non solo la
circolazione delle idee in rapporto con la cultura internazionale, ma anche
l'attività di collaboratori e la loro concreta azione nel contesto politico e sociale
del Regno. Il cenacolo dell'Intieri fu infatti tra i primi a leggere e
commentare l'Esprit des lois di Montesquieu. Dalle opere e dai carteggi di
quegli anni emerge con chiarezza l'auto-rappresentazione di questo gruppo di
intellettuali come forza operante nel nuovo contesto politico: la ritrovata
indipendenza del Regno, che appare loro come conditio sine qua non per l'avvio
di un processo di cambiamento e di modernizzazione. Vero e proprio
manifesto del programma riformatore del gruppo, incentrato sull'ineludibile
nesso teoria-prassi, che ne costituì la novità immediatamente percepita dai
contemporanei, è il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze,
maturato durante la villeggiatura nella villa intieriana di Massa Equana, e
pubblicato all'inizio dell'anno seguente a Napoli insieme con il Ragionamento
sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura di U. Montelatici e
con la Relazione dell'erba orobanche di P.A. Micheli. G. operava così la sua
scelta di campo, presentandosi come l'interprete più convinto di quel programma
e il più attivamente impegnato nella sua realizzazione. Requisito
indispensabile per il progetto di riforma era la diffusione di una nuova
cultura scientifica, economica, tecnologica, posta al centro degli interessi di
una intellettualità nuova. A essa, come campo di indagine, ma anche di azione,
doveva rivolgersi la "studiosa gioventù" del Regno, distolta dagli
studi forensi e da speculazioni astratte, e avviata da un lato a una conoscenza
cosmopolita di idee e linguaggi, dall'altro a sviluppare capacità di
osservazione e di studio dei fenomeni naturali e sociali della realtà in cui
viveva. A questa istanza della cultura intieriana corrispose il progetto
che meglio ne rappresentò la realizzazione istituzionale: la costituzione
presso l'Università di Napoli di una cattedra di meccanica e commercio- cioè la
prima di economia politica in Europa -, che Intieri volle finanziare con un
lascito di 7500 ducati che garantisse una rendita di 300 ducati annui, a
condizione che essa venisse affidata al G., che l'insegnamento fosse svolto in
lingua italiana e che anche in futuro ne fossero esclusi rappresentanti del
clero regolare. La nuova cattedra e inaugurata con grande affluenza di
pubblico. G. presentò il nuovo corso con una prolusione che avrebbe poi
sviluppato nel ragionamento sul commercio in universale, pubblicato in estratto
e poi in apertura della Storia del commercio della Gran Brettagna scritta da
Cary (Napoli). Questo grosso centone in tre volumi conteneva pure la
traduzione dell'Essai sur le commerce d'Angleterre di V. de Gournay e G.-M.
Butel-Dumont (Paris), i quali avevano a loro volta tradotto e aggiornato
l'Essay on the state of England di J. Cary (Bristol), e la
traduzione-rifacimento genovesiana dell'England's treasure of commerce di T.
Mun (London), corredate dalle ampie e ricche annotazioni dello stesso G. e da
altri suoi saggi (Ragionamento filosofico sulle forze e gl’effetti delle gran
ricchezze e Ragionamento sulla fede pubblica) destinati a ricomparire negli
Elementi del commercio e nelle posteriori Lezioni di commercio o sia di
economia civile. Contemporaneamente G. procedeva alla stesura del suo
corso biennale di Elementi del commercio, che anche nel titolo riecheggiavano
gli Eléments du commerce di Véron de Fortbonnais. Ambedue le opere
avevano un palese carattere propedeutico, non solo per i destinatari, ma in
certo modo per lo stesso autore, che nel suo sforzo di informazione e
acquisizione di nuove competenze sembra lavorare in parallelo con i suoi
allievi e lettori. Il discorso genovesiano assolveva a una duplice funzione:
definire contenuti e linguaggi della nuova cultura economica; tracciare le
linee di un programma di politica economica per il governo, nel quadro
dell'assolutismo illuminato, che viene considerato come la garanzia
istituzionale delle riforme. Esso si articola sulla polarizzazione tra il
cosmopolitismo culturale, perseguito con la consueta ampiezza e tempestività di
letture, e il patriottismo, consistente nell'attenzione alle specifiche condizioni
del Regno, su cui misurare l'effettiva validità degli interventi. Sul primo
versante i termini di confronto scelti da G. sono la Spagna e l'Inghilterra.
L'una, studiata attraverso le opere di G. Uztáriz e B. de Ulloa, per le
evidenti analogie con la situazione del Regno; l'altra, proposta come il
modello più avanzato di economia mercantile, nel quale erano ormai operanti le
strutture della moderna circolazione di merci, monete e idee. Su di essa G. si
documentava con ostinata puntualità, trovando la referenza più significativa
nei Political discourses di D. Hume. L'elemento di mediazione culturale,
approdo dei riformatori napoletani alla koinè illuministica degli anni
Sessanta, era costituito dalle opere e dai dibattiti francesi, da Melon a
Fortbonnais, a Plumard de Dangeul. Sull'altro versante, G. articola una serie
di proposte operative per una conoscenza sperimentalmente e statisticamente
fondata delle reali condizioni del Regno (andamento demografico, natura e
produttività dei terreni, configurazione della proprietà attraverso il catasto,
strade e comunicazioni ecc.), cui dovevano collaborare gentiluomini e parroci,
intellettuali e proprietari, creando una rete di società agrarie e scientifiche
diffuse sul territorio e radicate nella società provinciale. La politica
economica di un paese povero di materie prime e del tutto marginale nel
commercio internazionale doveva puntare allo sviluppo qualitativo e
quantitativo della produzione agricola, destinata al mercato reso libero dai
vincoli interni. L'adesione piena del G. alla liberalizzazione del
commercio interno dei grani si manifestò, in concomitanza con la grave carestia
che colpì il Regno, attraverso la pubblicazione dell'Agricoltore sperimentato
di TRINCI (Napoli) e delle Riflessioni sull'economia generale de' grani
(Napoli; traduzione della Police des grains di Herbert, Berlin), da lui prefati
e commentati. La fiducia nella possibilità di realizzare le riforme si
scontrava, tuttavia, con la crescente consapevolezza della natura strutturale
degli ostacoli che vi si opponevano. La concentrazione delle terre nelle mani
di una nobiltà feudale ancora detentrice di poteri giurisdizionali e di un
clero numericamente eccessivo, attaccato ai propri privilegi, impediva la
formazione di una proprietà contadina, che ormai appariva a G. la condizione
necessaria perché si sviluppasse non solo l'iniziativa economica, ma pure
l'auspicata mobilità sociale. Sono quindi i problemi della società civile
quelli cui G. guarda con maggiore attenzione nell'ultimo quinquennio della sua
vita, che rappresenta un'ulteriore scansione della sua attività. Il suo
impegno politico e culturale si caratterizzava per una sempre più accentuata
polivalenza di funzioni, legata alla sua ormai consolidata posizione di maître
à penser. All'insegnamento universitario e privato si aggiunsero infatti le
consulenze per Tanucci e per la giunta degli Abusi, sui problemi più scottanti
del momento: dalla liberalizzazione del commercio dei grani ai trattati di
commercio, dalla monetazione alla redazione dei nuovi piani di studio per le
scuole ex gesuitiche (nel quadro di una vigorosa ripresa della battaglia
giurisdizionalistica per l'abolizione della cattedra delle decretali); per
l'istituzione di nuove cariche in difesa delle prerogative regie, per la lotta
alla manomorta. Si intensificò soprattutto l'attività editoriale, relativa alla
pubblicazione di opere proprie e altrui, che investì tutti gli aspetti della
sua attività di studioso e di insegnante. Ne fa parte un corso completo d’ISTITUZIONI
FILOSOFICHE, in italiano, articolato nella Logica (Napoli), nella Diceosina, osia
della filosofia del giusto e dell'onesto (Napoli), nelle Scienze metafisiche. Contemporaneamente,
G. stende i Dialoghi morali e le note all'Esprit des lois. In questo
contesto si collocano le tre edizioni delle Lezioni di commercio o sia di
economia civile, cui G. lavora direttamente: le due napoletane, e quella
intermedia, promossa a Milano dall'allievo T. Odazi. Alle Lezionifanno da
contrappunto, su un tema specifico carissimo al G., le due edizioni delle
Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o
gl'ignoranti, in cui la ripresa della polemica con Rousseau si amplia a un
riesame critico dello sviluppo delle società umana. I testi che nascono da
questa attività multidisciplinare rappresentano l'espressione più compiuta di
un modusoperandi già sperimentato, fondato su una memoria interna, attraverso
la quale G. riutilizza e riorganizza continuamente i materiali della sua
riflessione, in uno sforzo onnicomprensivo che tende a coagulare in una sintesi
complessa, pur se talvolta ridondante, tutte le tensioni intellettuali e
politiche degli ultimi anni di vita. Le ampie varianti recepiscono anche le
spinte di circostanze esterne: per queste caratteristiche, le Lezioni si
presentano come l'autentica summa del pensiero genovesiano, un vero e proprio
work in progress di letteratura militante. G. colloca le problematiche
dell'economia in un più ampio quadro di considerazioni sulla società, sulle sue
dinamiche, esaminate negli aspetti antropologici e psicologici, secondo una
linea storicizzante alla quale contribuisce con una sua versione della teoria
stadiale, per approdare a un più ampio affresco della situazione del Regno. Il
confronto tra gli Elementi e le tre edizioni delle Lezioni mette in luce
l'evoluzione del suo pensiero sui temi più caratterizzanti, dalla popolazione
al lusso alla tassazione, e l'intensificarsi della polemica antifeudale e
anticuriale. Diventa centrale il problema della comunicazione, elemento
caratterizzante della società e del vivere civile e di conseguenza della
lingua, alla quale dedica anche una riflessione teorica nella Logica, e dei
mezzi, delle sedi, delle modalità attraverso le quali essa può realizzarsi e
costituire l'asse portante della formazione dell'opinione pubblica. La
morte lo colge a Napoli. Negli anni seguenti la sua opera fu oggetto di
aspri attacchi e di appassionate difese, culminate nell'elogio storico
dedicatogli dall'allievo Galanti (Napoli). Larga ma diversificata fu l'eco
della sua opera nelle altre aree d'Italia e di Europa. Nonostante la fortuna
dell'edizione milanese delle Lezioni, sulla quale furono esemplate tutte le
successive ristampe, in realtà l'opera genovesiana non venne apprezzata nella
Lombardia asburgica, proiettata verso la fisiocrazia, perché considerata troppo
farraginosa e legata ai problemi di una società sottosviluppata. In Francia
l'annunciato progetto di PINGERON di tradurre le Lezioni non ebbe seguito. In
Germania, invece, vennero tradotti sia la Storia del commercio (Leipzig), sia
le Lezioni, a cura rispettivamente di Witzmann e di Wichmann. Molto più ampia
fu invece la diffusione dell'opera genovesiana, sia filosofica sia economica,
nella penisola iberica. In Spagna, infatti, apparve una traduzione in
castigliano delle Lezioni, a cura di V. de Villava, mentre nei paesi di lingua
portoghese i suoi corsi di filosofia costituirono la base dell'insegnamento
universitario per tutto l'ottocento. Edizioni: Illuministi italiani, V,
Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli; Autobiografia,
lettere e altri scritti, cur. Savarese, Milano; Della DICEOSINA o sia della
filosofia del giusto e dell'onesto, a cura di F. Arata, Milano; Scritti, cur. Venturi,
Torino; Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, Varese rist.
anast. dell'ed. Milano; Scritti economici, cur. Perna, Napoli; Se sieno più
felici gl'ignoranti che gli scienziati. Lettere accademiche, a cura di G.
Gaspari, Carnago; Lezioni di commercio o sia di economia civile con gli
"Elementi del commercio", a cura di M.L. Perna, Napoli; Dialoghi e
altri scritti. Intorno alle "Lezioni di commercio", a cura di E. Pii,
Napoli. Fonti e Bibl.: Le carte genovesiane conservate si trovano a: Napoli,
Biblioteca nazionale, ms. XIII.B. 39; ms. XIII. B. 92; ms. XIV. B. 53; Arch. di
Stato di Napoli, Casa reale antica. Diversi, f. 868; LII, Affari gesuitici, ff.
Altamura, Archivio Biblioteca Museo civico, Fondo Serena, Carte G.; Arch. di
Stato di Milano, Piani di economia pubblica, Autografi; Arch. segr. Vaticano,
Nunziatura di Napoli, Arch. di Stato di Torino, Materie economiche. Zecche e
monete. Inoltre, copie manoscritte della Theologia sono conservate a Bari,
Biblioteca nazionale, ms. III. 16; Biblioteca provinciale De Gemmis, Fondo De
Gemmis; Fano, Biblioteca civica Federiciana, Fondo Collegio Nolfi, ms. 9;
Macerata, Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms.; Napoli, Biblioteca
oratoriana dei gerolamini, ms. Varie lettere sono conservate a: Firenze, Arch.
stor. dell'Accademia dei Georgofili, Carteggio; Biblioteca nazionale, Autografi
Gonnelli; Forlì, Biblioteca comunale, Autografi Piancastelli; Milano,
Biblioteca Ambrosiana, Mss. Beccaria, B. 231; Modena, Biblioteca Estense,
MC.103. 1; Archivio Muratoriano, filza Autografoteca Campori; Torino,
Biblioteca civica, Collezione Nomis di Cossilla; Vienna, Österreichische
Nationalbibliothek, Mss. Lettere; Racioppi, G., Napoli; Monti, Due grandi
riformatori, G. e Galanti, Firenze; Studi in onore di G., Napoli; Villari, Il
pensiero economico di G., Firenze,Potolicchio, Postille autografe inedite alla
"Logica" di G., in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche
della Società nazionale di scienze, lettere ed arti in Napoli, Corpaci, A. G.
note sul pensiero politico, Milano, Nuccio, Un grande riformatore napoletano.
A. G.: scienza economica e problemi di rinnovamento sociale a Napoli, Roma; M.
Agrimi, G. e l'Illuminismo riformatore del Mezzogiorno, in Belfagor, Badaloni,
Conti, Milano, ad indicem; Luca, Gl’economisti napoletani e la politica di
sviluppo, Napoli, passim; Marcialis, Note sulla Disputatio physico-historica di
G., Annali delle facoltà di lettere, filosofia e magistero dell'Università di
Cagliari, Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1; Luca, Scienza economica
e politica sociale nel pensiero di G., Napoli, Garin, G. storico della scienza, in Id., Dal
Rinascimento all'Illuminismo, Pisa Villari,
G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, in Studi storici;
Mas, Montesquieu, G. e le edizioni italiane dello "Spirito delle
leggi", Firenze Addante, A. G. e la polemica antibayliana nella filosofia
del Settecento. Contributo di ricerche storico-filosofiche, Bari 1972; P.
Zambelli, La formazione filosofica di G., Napoli; Economisti italiani Roma
Arata, G.:una proposta di morale illuminista, Padova rec. di G. Imbriglia, in
Boll. del Centro di studi vichiani; Zambelli, G. and empiricism in Italy, in
Journal of the history of philosophy, Piscitelli, Il pensiero degli economisti
italiani sull'agricoltura, la proprietà terriera e la condizione dei contadini,
in Clio, Demarco, Il dibattito settecentesco sulla popolazione in Italia, in La
popolazione italiana nel Settecento. Relazioni presentate al Convegno su: La
ripresa demografica Bologna Pennisi, Filosofia del linguaggio e filosofia
civile nel pensiero di G., in Le forme e la storia Ferrone, Scienza, natura,
religione, Napoli, Taranto, Il progetto di G. e l'economia civile di V.E.
Sergio: un modello di sviluppo borghese, in Nuovi Quaderni del Meridione; Marcialis,
G. tra Wolff e Locke. Metafisica ed empirismo nell’Ontosophia genovesiana,
Cagliari, Pii, A. G.: dalla politica economica alla politica
"civile", Firenze, Battista, La storiografia su G. oggi, in Quaderni
di storia dell'economia politica, Bazzoli, Il pensiero politico
dell'assolutismo illuminato, Firenze Garin, A. G. metafisico e storico, in
Giorn. critico della filosofia italiana, Bellamy, Da "metafisico" a
"mercatante". A. G. and the development of a new language of commerce
in eighteenth-century Naples, in The languages of political theory in
early-modern Europe, a cura di Pagden, Cambridge, Battista, Sul popolazionismo
degli economisti meridionali prima di Malthus, in Le teorie della popolazione
prima di Malthus, a cura di G. Gioli, Milano; Fatica, Il lavoro come mediazione
tra l'uomo "civile" e la natura: alcuni problemi di
"police" in G. e nei suoi referenti culturali, in Prospettive
Settanta; Marcialis, Natura e sensibilità nell'opera manualistica di G.,
Cagliari Pennisi, Grammatici, metafisici, mercatanti. Riflessioni linguistiche
sul Settecento meridionale, in Teorie e pratiche linguistiche, a cura di L.
Formigari, Bologna La linguistica dei mercatanti, NapoliFerrone, I profeti
dell'Illuminismo, Bari, Galasso, La filosofia in soccorso de' governi, Napoli, Pagden,
La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli, Le
strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della co-operazione, cur. Gambetta,
Torino; Marcialis, Legge di natura e calcolo della ragione nell'ultimo G., in
Materiali per una storia della cultura giuridica, Robertson, The Enlightenment
above national context: political economy in eighteenth-century Scotland and
Naples, in The Historical Journal, Perna, L'universo comunicativo di A. G., in
Atti del Convegno Editoria e cultura a Napoli, Napoli. Antonio Genovesi.
Genovesi. Keywords: logica per gli giovanetti, critica della ragione economica,
scambio conversazionale --. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Genovesi: critica della ragione economica” -- per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice e Gentile: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale d’Enea all’inferno – filosofia taggese – scuola
di Taggia – filosofia imperese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Taggia). Filosofo taggese. Filosofo
imperiese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Taggia, Imperia, Liguria. Grice: “It seems every
philosopher has a catabasis – as Eneas did!” “Falamonica spends a ‘stagione’ in
hell, too!” -- “I do like Falamonica – the way he makes ‘Aristoteil’ rhyme! “E
vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, /
levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” – Grice: Falamonica is
interesting: there is Socrates teaching Alcibiades, and Socrates teaching
Plato, and Plato teaching Aristotle, and Aristotle teaching Alexander!” Venne in contatto coll’astrologia. Compose i Canti,
poema dottrinale in terzine di 42 canti, chiaramente derivato dalla Commedia di
Dante. Grice: “It is a fun philosophical comedy: “E vidi alfin colui, che fra’
mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e
batter l’ali; / dico Aristotil.” Opere: “Canti. Dizionario Biografico degli
Italiani. Di antica famiglia genovese, che negli anni 1460-1480 entrò
nell'"albergo" dei Gentile (e da qui è l'origine del doppio cognome
con il quale è conosciuto: cfr. Grendi), nacque a Genova, nella contrada di S.
Pancrazio, intorno al 1450, da Pancrazio e da Violantina Piccamiglio. Nulla si sa intorno alla sua formazione ed ai
suoi studi. Il primo documento nel quale è nominato è il testamento del padre.
In una data incerta della fine del sec. XV si trasferì in Spagna, dove svolse
attività mercantile. Durante il soggiorno spagnolo fu tra i protagonisti della
rinascita del lullismo, partecipando alle attività della scuola di Jaume Janer
a Valencia. È promotore di iniziative editoriali, fra le quali la pubblicazione
del Liber artis metaphisicalis dello stesso Janer, una sorta di summa enciclopedica
del lullismo, stampata a Valencia; dalla dedicatoria apprendiamo che F. studia
le dottrine di Lullo con Janer. Da un'altra dedicatoria, quella di Proaza, un
altro importante membro della scuola lulliana di Valencia, alla Disputatio
Remondi christiani et Homerii sarraceni, apprendiamo che F. si era dedicato
anche a studi di astronomia e di medicina, e che sollecitò Proaza a pubblicare
testi di Lullo. F. è inoltre in possesso di manoscritti di Lullo, del quale
subì l'influenza anche nei testi letterari di cui fu autore. Diciotto sonetti di argomento religioso,
appartenenti alla tipica tradizione poetica catalana e nei quali è anche
rilevabile l'influenza delle opere poetiche di Lullo, sono pubblicati per la
prima volta nell'edizione di Valencia del Cancionero general. Nell'edizione del
Cancionero (quella da noi consultata) sono suddivisi in cinque sonetti
"sobre ecce homo", un sonetto "in dialogo de Dio", un
sonetto "de trinitate", un sonetto "a la verge Maria par les
guerres dela sglesia", cinque sonetti en llor del glorios nom de Iesus e
cinque sonetti en llahor del nom dela gloriosa verge Maria. Non si sa di preciso quando F. rientrò a
Genova, dove muore. Si dedica alla stesura di un poema, che ci è stato
tramandato ed è stato pubblicato con il generico titolo di Canti. In
quarantadue canti in terzine, di cui il primo ha la funzione di proemio, F.
costruisce un poema dottrinale secondo il modello dantesco del viaggio nei
regni oltremondani. Ma la particolarità del testo di F., cui non manca una
certa abilità nella costruzione del discorso in poesia, è data dall'aver scelto
come guida del viaggio proprio Lullo, il filosofo cui aveva dedicato molti dei
suoi studi durante il soggiorno spagnolo. Nei quarantadue canti troviamo
trattati i temi più caratteristici della filosofia lulliana. I primi canti sono
dedicati alla divisione e descrizione dell'universo ("de' cieli, de'
elementi, de' minerali, de' vegetali, degli animali, dell'uomo, de'
morali"), cui seguono canti sulla divinità e sul messaggio cristiano
("pronostico della cristiana religione, della divina essenza, della
generazione e spirazione eterna, della creazione del mondo, della natura
angelica, della incarnazione, della concezione, della passione, de' sacramenti,
della predestinazione"), sull'uomo e i suoi peccati ("del divino e
mondano amore, dell'usura, del giuoco, dello scandalo e della fama"), e,
in ultimo, i canti del vero e proprio viaggio nei regni dell'oltretomba
("dell'inferno, del purgatorio, del final giudizio, del paradiso").
La storia del testo dei Canti è stata piuttosto tormentata: ricordati negli
Annali della Repubblica di Genova di Giustiniani, già Foglietta nei Clarorum
Ligurum Elogia lamenta l'inaccessibilità del testo, che si credette perduto.
Venne data la notizia del ritrovamento del poema, che venne descritto nella
Storia letteraria della Liguria da Spotorno. Dopo alcuni saggi di
pubblicazione, i Canti vennero finalmente editi, in una veste non
particolarmente curata, cur. Gazzino (Genova). In questa edizione i Canti sono
accompagnati da un canto in terzine Alla Vergine e da tre sonetti In nome di
Lei, che fanno parte di quelli già pubblicati nel Cancionero. Soprani, Li
scrittori della Liguria, Genova (reprint, Bologna), (segnalazione in Spotomo,
Storia letteraria della Liguria, II, Genova; Giorn. stor. della letteratura
ital.); Caramella, B. G. F. (contributo alla storia del lullismo nei primordi
del Cinquecento), in Dante e la Liguria. Studi e ricerche, Milano Levi, Un
poeta italo-catalano del Quattrocento, in Estudis Universitaris catalans,
Battlori, El lulismo, en Italia, in Revista de filosofia, McPheeters, The
Italian poet and lullist B. G. in Valencia, in Symposium; Zambelli, Il De
audito cabalistico e la tradizione lulliana nel Rinascimento, Firenze Grillo, Appendice
alla raccolta degl’elogi di liguri illustri, Genova Pereira, Lavinheta e la
diffusione del lullismo a Parigi, in Interpres, Grendi, Profilo storico degli
alberghi genovesi, in Mélanges de l'Ecole Française de Rome, M.-A., - Temps
modernes,CRIT ICA. SOPRA UN POEMA di Bartolommeo Falamonica. Non sono che pochi
anni dacchè si scopri un poema di Bartolomeo G. Falamonica, uomo ligure, da lui
scritto. Giustiniani e qualche altro G e novese aveano parlato di quell'uomo
con assai lode ; m a deploravano la perdita di quella Opera sua, che andava
smarrita. Spatorno nella sua Storia letteraria della Liguria dà un'analisi di
quel Poema, che merita per, ogn irispetto d'essere conosciuto. Il manoscritto
oggi trovasi presso il marchese Negro, patrizio genovese, amatore e cultore di
ogni ottimo studio. Il poema di G. non ha titolo. La materia dice Giustiniani ė
tutta filosofica, con interpretazione di leggi pontificie e cesaree. Lo stesso
attesta Spatorno. L'A. incomincia dal favellare de' Cieli; e iprimi suoi versi
sono questi: Nel tempo che s'inclina ilfiore e l'erba, TARIETA': WY > Perdar
lecarespogliea l'aspra terra, Partendo dalla età dolce e superba, Lasciando
addietro il sessagesim anno Vedea che l'error m 'avea condotto 39 Aristotil.
Intanto gli apparve dalle parti occidentali una gran Stella in formadiromito,
di nome Raimondo Lullo spiega il suo desiderio di conoscere la verità, e di
lasciare alcun vestigio di sè dopo morte; e Raimondo disse: sta securo. e lo
condusse al Sole, acciò lo guidasse ne'Cieli. Per man mi prese Torna senza onor dalla mia guerra Con tutte
mie speranze sparse al vento, De'miei passati giorni indarno spesi, Ch'ogni
piacere in me resta spento. 2 motor che mi costrinse il senso E mi conduce in
una oscura valle. Ivi il poeta udì prima un suono di guerra; poi una ltro come
di favelle che parlano del Cielo e della Terra. e Nel Il Canto vede Saturno, poi Marte, poi Giove;
e il Sole gli dice: Già presso al fin che tutto il mondo atterra. Allor mi
ritrovai tutto scontento A volgere al mio vero ben le spalle. Ed eccouscir del
Ciel, non sosiofalle Un gran E vidi ch'eran Spirti in quel deserto Qual dicea
in prosa, e qual canta in versi. E conosce tutti esser poeti , e in tanto
numero E vedi alfin colui che fra'mortali Più degno par di tutto quel Collegio,
Levarsi contra tutti e batter l'ali, Questa è la introduzione , e costituisce
il primo Canto del Poema. Nel II Canto si trova in luogo, dal quale si vede
sotto i piedi la Luna e i Pianeti; e sente il movimento delle sfere.Vide il cerchio
delle Stelle fisse e da ciò prende occasione di parlare degl’astronomi, il più
moderno dei quali è Regiomontano, ed afferma non essere possibile l'eternitàdel
mondo. Ma qui conviene omai fermar le piante Ch'ionon potreidituttiinomidirti.
Ne dice però una lunga lista di greci e latini: nd rammenta alcun italiano. Ei
li lasciò tutti per gire a' filosofi, tra i quali dà il primo luogo ad
Aristotele, di cui dice Per quelle strade luminose e terse Ch'io non potea lasciar
la via serena. Il Sole dà al poeta un de'suoi rai, onde possa vedere gli
oggetti terreni. E inquesto Canto, e nel VI parla dell'aria,! della dell? E la
lussuria il buon smeraldo affrena; Vedi l'assenzio, ch'apre e scalda e sciolve:
Che già della bell'arte han fatto vizio. Vacuando i denari, e non gli umori.
Nel Canto IX ragiona della vitasensitiva degli animali e delle proprietà delle
varie specie. E le cicogne d'empietà nemiche ecc. d'onde prende occasione di
parlare della empietà degli uomini, Che gli uomini son fatti fere ed orsi: Qual
strazia, qual uccide, qual graffigna. Cosi servate son le sacre norme. Le cose
accennate formano la prima cantica del poema ; ed incomincia la seconda
parlando dell'uomo. Alzato già del Ciel a tanto lume, acqua e del fuoco. Nel
VII parla de minerali,e delle supposte aque? tempi meravigliose virtù delle
pietre preziose, dicendo terr, Stringe l'acanto e falevenesalde; Tempo è omai
d'entrar nel mio volume: Dove trovai del mondo tanta parte. Finchè io ti mostri
la mia casa propria. Nel Canto IV visita Venere, Mercurio, e la Luna; e fa
molte dimande di fisica, ele risolve colla dottrina peripatetica che allora
corre. Nel canto V parla degli elementi; e vi s'introduce così: Era mia vista
di luce si piena, Son gli ametisti incontro all'ebriopoto , Contra
ilvenenoilgran giacinto è noto. Nel Canto VIII parla della vegetazione, e delle
proprietà vereo immaginarie dellepiante. Torna l'altea la gran durezza in
polve. cec. E contro i Medici. Falcon leale, e ladra la perdiceAdulterate son
le cose sante La gente ritornata si maligna, Come si mostra in le passate carte
, Ch'io vidi in lui siccome linea al punto Quanto Dio crca , e quanto poi
comparte, Ogni mondana ed immortal bellezza. Nel Canto Il parla della
immortalità e libertà dell'anima, e delle idee e degli affetti. Ogni pensier, e
quanto qui s'adopra opra In questa nostra carne per sua forina (l'anima) Il
lume della vita è la scienza. Questa parte filosofica è chiusa con un
pronostico della Religione cristiana. Il Genio del Sole lascia finalmente il
poeta ;e come questi nell'accomiatarsi sentendo una voce terribile, abbraccia
spaventato il suo duce, esso sdegnato Come uomo irato qui fra noi s'incende, si
volge al'Eterno, e lo prega di far sentire l'indigna zionesuaalla Terra piena
di tirannide, disimoniayd'inu gratitudine e di avarizia. Han fatto un altro Dio
tutto mondano; Creato per usanza un'altra legge; E posto in terraallorquando
s'aggiorna O somma vita, dove son
raccolte Ligate qui col tempo , e là disciolte ; Eterno libro , in cui si nota
e scrive E posto già il tuo nome tutto in vano. E commette al poeta di palesare
queste cose a tutto il mondo escriverlealettered'oro; minacciandochese
gliuomini non ritornano buoni, saranno preda dei Maomet tani,che alloraaveano
presa Otranto. Questa seconda Cantica termina coi seguenti versi. Che nulla per
di fuora par si scopra. Nel III Canto espone il difetto delle virtù, e
spezialmente della carità , onde l'anima va dannata. Chiudendo incrudel pianto
sua giornata. 1. Canti IV , V e VI trattano di cose morali. Nobil naturà , in
cui si trova giunto Le vitenostrepriache insesienvive, Per l'alme che lassù si
fanno dive; Fammi sentir sìcome dentro s' Mortal non è colui che mai non erra.
Che per ricchezza l'uom non è giocondo : Un fonte di sospetti è signoria. Seguilipochi,e
non lavolgargente. Da poimi vidituttii sensi presi: Con un gridar che uscia da
que'paesi Oh ! mondo pravo , torna, tornia, torna. Ed ecco allor m'apparve quel divino
Miomastroantiquo (Lullo). I Canti I e II trattano della essenza divina secondo
la dottrina e le sottigliezze degli Scolastici. Nel Canto III il poeta si
sforza di mettere in versi la generazione del Verbo, e la spirazione
eterna,giusta gli astrusi concetti delle scuole. Nel IV ragiona della creazione
del Mondo; nelV della natura angelica con tutte ledivisioni gerarchiche. Nel VI
e VII tratta della incarnazione del Verbo. Poi dellaconcezione, seguendo la nota
sentenza di Scoto Più degno, più eccellente, più gentile , Di non veder la sua
vision divina fermazione,dellaEucaristia, dela Penitenza,edelleIna dulgenze.
Nel Codice autografo , dice Spatorno, è Jasciato in bianco ciò che apparteneva
agli altritre Sacra menti. Favella poscia il poeta della predestinazione e del
l'amore divino e mondano. Quest'ultimo lo ispira contro Usura in pravi
volentier s'annida. E cresce questa piaga al mondo ognora. Quanto son pianegià
le vie di morte ! Ne’susseguenti canti inveisce contro il giuoco; indi ragiona
dello scandalo e della fama. La terza parte del Poema ha per soggetto il Mondo
ir. visibile, e comincia dall'Inferno. E più decente ancora all'Infinito. Della
più mite dottrina poi si mostra seguace rispetto ai fanciulli morti senza
battesimo. Che poco curan già di veder Dio Di quanto in sè contien filosofia.
In due Canti espone la passione del Redentore; nè pia. ceranno a tutti le
disperazioni della Vergine a piè della croce. In due altri Canti ragiona del
Battesimo, della Con I La Cantica terza abbraccia la parte teologica ; e comin
cia così. È già fatto si com'uom selvaggio. Non hanno danno alcun, se non quel
bando Giocando insieme tutti e giubilando, Non hanno più sospiro alcun, nè
stento, E sono al lor parer si gloriosi Siccome fanno al mondo i più viziosi. E
li suppone occupati M Busura. Secondo differenzia di peccati. A guardia
de'superbi stanno i leoni, de'lascivi i porci; de'golosi gl’orsi: Viensi poial
Giudizio universale Così montaro in Ciel disquadre in squadre. Il poema si
chiude col Paradiso partito in sei capitoli. Nel I si parla della felicità de'
Giusti. Nel II sono ricordati tutti i più celebri personaggi dell'antica
alleanza; fra quali è taciuto di Saloinone, che secondo l'opinione del b.
Alessandro Sauli si tene per dannato. Nel III si tratta degli Apostoli, dei
Discepoli e degl'Innocenti, Nel IV parlandosi de' Martiri cosi dice di S .
Lorenzo. Felice tu, mia Genoa, che l'onori, Eccelso cavalier di Cristo atleta.
Giorgio chiamato, e vera insegna e duce Di nostra gran Liguria. Flegias,
Cocito, furie d'Acheronte, Aletto con Megera e Tesifone. Lascio la Stige , e
Lete, e Flegetonte, Ed ogni simulacro de Poeti Seguendo solo l'ortodossa fonte.
Ne fu già l'occhio mio cotanto ardito Il Purgatorio del Falamonica ha forma di
anfiteatro; le grotte che rinchiudono le anime, sono disposte sotto gli
scaglioni, e sopra questi stanno demonii in sembianza di animali. La valle
tenebrosa ed ipfelice D'ogni ben priva, e d'ogni male carca E le corone d'uno e
d'altro impero Correr fra l'onde, e naufragar con elle. E come il balenar
seconda il tuono. Ma l'invito del Giudice eterno agli Eletti, dice Spatorno, sa
troppo di quelle licenze dantesche pena si perdonano all'Autore della
incomparabil Commedia. E Roma, ove fursparsi i suoi dolori. E di S. Giorgio. Che ap Cerbero lascio, Minos e Plutone, Da
riveder qual fosse quello e questo. Cið gli frutterà guerra presso gli
adoratori d'ogni cosa di Dante. Venite a me del nome mio maacipio, Diletti e
benedetti dal mio padre. Che come miei fratelliio vi recipio. Felice ancor la
Spagna, dov'ei nacque, Nel V Canto si
parla ancora de martiri. Nel VI de' dottori, monaci, ronitie confessori, e di
questi l'ul timo è Bernardino di Siena. Di Bernardino parlo, che a l'uscita Di
questa schiera il più moderno parve , Fra tanta moltitudine infinita. E chiama
s.Anna Ava del Figlio, e Socera del Padre Miserere di un cuor che in
tes'adombra! e dichiarando di sottomettere l'Opera sua al giudizio di Santa
Chiesa. G. B. Nostro celeste in Ciel.
Chiude poi ilcapitolo e tutto il poema, volgendosi a Dio, e pregandolo Ch'io la
rimetto a lisuoi santi piedi. Tale è l'analisi che ci ha data del poema del
Falamonica Spatorno. Non poteva questa essere più ampia dovendo costituire
parte di un articolo della sua Opera. Ma egli ha lasciato maggior desiderio del
medesimo, poi chè pare anoi, che altri passi, e forse più felici, dovrebb'esso
contenere, se, come dicegli, questo poema dopo la Commedia di Dante, e prima
dell'Orlando furioso dee tenersi per la migliore composizione poetica che in
quel l'intervallo l'Italia abbia avuta. Noi speriamo che il signor di Negro lo
comunicherà al Pubblico colle stampe. E vidi alfin colui che fra’ mortali più
degno par di tutto quell collegio levarsi contra tutti e batter l’ali. Dico
Aristotil posto in sì gran pregio di lor filosofanti un lume acceso E pur dal
ciel si trova dato in spregio si ch’io restai fra me tutto sospeso con l’alma
or. Falamonica. Bartolomeo Fallamonica Gentile. Gentile. Keywords: Enea
all’inferno, parodies of the Divine Comedy, Raimondo Lullo, Bruno e Lullo, il libro
dell’amante e dell’amato, ars amative. Commedia filosofica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- implicatura dell’atto
conversazionale – filosofia castelvetranese – scuola di Castelvetrano –
filosofia trapanese – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Castelvetrano). Filosofo
castelevetranese. Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Castelvetrano,
Trapani, Sicilia. Grice: “Do not
multiply the senses of ‘state’ (normative, prerogative) beyond necessity.” Grice:
“It’s difficult to assess the philosophy of Gentile; he is a Peirceian, like me
–. He ie into ‘conventional sign’ and ‘natural sign’ – and considers
intersubjectivity as a way to suprass the type of Berkeleyan idealism – his
tradition is Plathegel, mine is Ariskant!” Grice: “The roots of Gentile’s
philosophy are in Hegel’s logic, as are Bradley’s, Bosanquet, and
Collingwood’s! – and Croce’s!” -- idealist philosopher. He taught philosophy at
Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics as the process of an objectified
thought. Gentile’s actualism or actual idealism claims that only the pure act
of thinking or the transcendental subject can undergo a dialectical process.
All reality, such as nature, God, good, and evil, is immanent in the dialectics
of the transcendental subject, which is distinct from the empirical subject. Among his major works are “La teoria generale dello
spirito come atto puro” and “Sistema di logica come teoria del conoscere.” Gentile sees conversation is
a concerted act that overcomes the apparent difficulties of inter-subjectivity
and realizes a unity within two transcendental subjects. Actualism was pretty
influential. With Croce’s historicism, it influenced two Oxonian idealists
discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet and R. G. Collingwood (vide: H. P.
Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The Nature of Metaphysics, London,
Macmillan). Insieme a Croce uno dei maggiori esponenti
del idealismo, nonché un importante protagonista della cultura, fonda L’Istituto
dell'Enciclopedia Italiana e artifice della riforma della pubblica istruzione (Riforma
Gentile). La sua filosofia è detta attualismo. Inoltre fu figura di
spicco del fascismo italiano. In seguito alla sua adesione alla Repubblica
Sociale Italiana, fu assassinato durante la seconda guerra mondiale da alcuni
partigiani comunisti dei GAP. «Era un omone che ispirava grande simpatia;
con la pancia incontenibile, i bei capelli brizzolati sopra un faccione rosso
acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché un filosofo: così mi apparve,
benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi di religione, freschi di
lettura. Bonario, familiare (paternalista), mi fece l'impressione di un
vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità sull'indiscusso ruolo di
patriarca” (Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Figlio di Giovanni e Teresa
Curti. Frequenta il ginnasio/liceo "Ximenes" a Trapani. Vince quindi
il concorso per posti di interno di Pisa, dove si iscrive alla facoltà di
lettere e filosofia. A Pisa ha come maestri, tra gli altri, Ancona, professore
di letteratura, legato al metodo storico e al positivismo e di idee liberali, Crivellucci,
professore di storia, e Jaja, hegeliano seguace di Spaventa, che influirono
molto su Gentile. Dopo la laurea, con massimo dei voti e ottenimento del
diritto di pubblicazione della tesi, ed un corso di perfezionamento a Firenze, ottiene
una cattedra in filosofia presso il convitto nazionale Pagano di Campobasso. Si
sposta a Napoli. Sposa Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso: dal loro
matrimonio nasceranno Federico Gentile, i gemelli Gaetano G. e Giovanni G.
junior, Giuseppe G., e Tonino Gentile. Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica.
Ottiene poi la cattedra a Palermo, dove frequenta il circolo di POJERO (si
veda) e fonda “Nuovi Doveri.” A Pisa e Roma. Insegna a Palermo, Pisa, Roma e Milano.
Durante gli studi a Pisa incontra Croce con cui intratterrà un carteggio
continuo. Uniti dall'idealismo (su cui avevano comunque idee diverse),
contrastarono assieme il positivismo e le degenerazioni dell'università
italiana. Insieme fondano “La Critica” al
rinnovamento della cultura italiana. L'attualismo ha configurazione
sistematica. Divenne membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione. All'inizio
della prima guerra mondiale, tra i dubbi della non belligeranza, si schiera a
favore della guerra come conclusione del Risorgimento. Rivela a sé stesso la
passione politica che gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più
soltanto quella del filosofo che parla “ex cathedra”, ma quella dell'"intellettuale" militante,
che si rivela al pubblico. Partecipa attivamente al dibattito politico e
culturale. E tra i firmatari del manifesto del “Gruppo Nazionale Liberale”, che,
insieme ad altri gruppi nazionalisti e di ex combattenti forma l' “Alleanza” per
le elezioni politiche, il cui programma politico prevede la rivendicazione di
uno stato forte, anche se provvisto di larghe autonomie regionali e comunali,
capace di combattere la metastasi burocratica, il protezionismo, le aperture
democratiche alla Nitti, rivelatosi «inetto a tutelare i supremi interessi
della Nazione, incapace di cogliere e tanto meno interpretare i sentimenti più
schietti e nobili». Fonda il “Giornale critico della filosofia
italiana”. Diviene consigliere comunale
al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene nominato anche assessore
supplente alla X Ripartizione, A. B.A ., ovvero alle “Antichità” e alle “Belle
Arti”, sempre del Municipio di Roma. Diviene socio dell'Accademia dei
Lincei. G. non mostra particolare interesse nel confronto del fascismo.
Fu solo allora che prese posizione in merito, dichiarando di vedere in
Mussolini un difensore di un “liberalismo” risorgimentale nel quale si
riconosce.“Mi son dovuto persuadere che il ‘liberalismo’, com'io l'intendo e
come lo intendeno gli uomini della gloriosa destra che guida l'Italia del
Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge, e perciò nello stato
forte, e nello stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato
in Italia dai ‘liberali’, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per
l'appunto, da Lei.” (Lettera a Mussolini). All'insediamento del regime viene
nominato ministro della Pubblica Istruzione, attuando La Riforma G., fortemente
innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge Casati di più di
sessant'anni prima! Diviene senatore del Regno. Si iscrive al Partito Nazionale
con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale. Dopo la crisi
Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato a presiedere
la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello Statuto Albertino
(poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento giuridico dello
stato). Resta FASCISTA e pubblica il “Manifesto degli intellettuali” in
cui vede la filosofia come un possibile motore della rigenerazione degli
italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo manifesto
sancisce l'allontanamento di G. da Croce, che gli risponde con un tipico “contro-manifesto”.
Promuove la nascita dell'Istituto di Cultura. Per le numerose cariche, esercita
un forte influsso sulla cultura italiana, specialmente nel settore filosofico. È
imembro dell'Istituto Treccani. A G. si devono in gran parte il livello
culturale e l'ampiezza della visione dell'Enciclopedia Italiana. Invita infatti
a collaborare alla nuova impresa 3.266 filosofi di diverso orientamento, poiché
nell'opera si deve coinvolgere tutta la cultura italiana, compresi molti
studiosi notoriamente anti-fascisti, che ebbero spesso da tale lavoro il loro
unico sostentamento. Riesce in tal modo a mantenere una sostanziale autonomia,
nella redazione dell'Enciclopedia Italiana, dalle interferenze del regime. È
coinvolto nell'istituzione del Giuramento di fedeltà al regime che causerà
l'allontanamento di alcuni dall'Università. Inaugura a Genova l'Istituto
mazziniano. Fonda il Centro nazionale di studi manzoniani. Fonda la Domus
Galilaeana a Pisa. Non mancano comunque i dissensi col regime. In
particolare, la sua filosofia subisce un duro colpo alla firma dei Patti
Lateranensi tra il cattolicesimo e lo stato. Sebbene riconosca il cattolicesimo
come una forma della spiritualità, ritiene di non poter accettare uno stato NON
laico. Questo evento segna una svolta nel suo impegno politico militante, è
inoltre contrario all'insegnamento del cattolicesimo nel ginnasio e nel liceo.
Il Sant'Uffizio mette all'”Indice” le sue opere a causa del loro
riconoscimento, nel solco dell'idealismo, del cattolicesimo come una mera
"forma dello spirito” -- totalmente inferiore alla filosofia: ‘theologia
ancilla philosophiae.” “La mia religione, in cui vi sono anche alcune velate
critiche al cattolicesimo e ispirata da Alighieri, Gioberti e Manzoni. Degna di
nota anche la sua difesa di Bruno, il filosofo eretico condannato al rogo
dall'Inquisizione, al quale dedica una apologia, impegnandosi anche presso
Mussolini perché la statua di Bruno in Campo de' Fiori e opera dello scultore
anticlericale Ettore Ferrarinon fosse rimossa, come richiesto da alcuni
cattolici. Comincia una lunga polemica contro Vecchi, che Gentile accusa
di “inquinare la cultura”.“Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e
negatrice.”“Roma accolse sempre e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e
popoli.” “Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe, l'orbe.” “La Roma
antica volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice
intelligenza a ogni persona a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo
alieno da sé che fosse umano.”“Sono i popoli – come i longobardi! -- piccoli e
di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo
schivo e sterile.”In La mia religione dichiara di essere credente nello stato
laico – ‘stato no laico e una contradictio in terminis’ -- Nel Discorso
del Campidoglio esorta all'unità. Si ritira a Troghi, dove filosofa su la “Genesi
e struttura della società” nel nel quale teorizza su la politica
dell’umanesimo. Considera “Genesi e struttura della societa” il coronamento dei
suoi studi speculativi tanto che mostrando il manoscritto, scherzando disse. "I
vostri amici possono uccidermi ora se vogliono.”“Il mia missione nella vita è
compietata.”La caduta di Mussolini non preoccupa particolarmente Gentile che
intese il tutto come un avvicendamento al governo. Inoltre la nomina nel primo
governo Badoglio di alcuni ministri che precedentemente erano stati suoi
collaboratori lo conforta. In particolare la amicizia con Severi spinse Gentile
ad inviargli una lettera di auguri per la nomina e a sottoporgli alcune
questioni rimaste in sospeso con il governo precedente. Severi rispose a
G. lanciandogli un duro e inatteso attacco. Travisandone volontariamente i
contenuti evitando però di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si
fosse proposto come consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la
proposta. G. replica a Severi e rassegna le dimissioni da Pisa. G. respinse in
un primo tempo la proposta di Biggini di entrare al Governo, dopo un incontro
con MUSSOLINI sul lago di Garda si convinse ad aderire alla Repubblica Sociale
Italiana. Divenne presidente della Reale Accademia d'Italia, con l'obiettivo di
riformare L’Accademia dei Lincei che e assorbita dall'Accademia. Venne qui
tempo fa un amico a cercarmi, ed io dissi francamente i motivi politici per cui
desideravo restare in disparte. Ma egli mi assicura che io potevo benissimo
restare in disparate. Ma dovevo fare una visita al mio amico che desidera vedermi
ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla mia persona. Negare
questa visita non e possibile. Feci comodamente il viaggio con Fortunato. Ebbi un
colloquio di quasi due ore, che fu commoventissimo. Dissi tutto il mio
pensiero, feci molte osservazioni, di cui comincio a vedere qualche benefico
aspetto. Credo di aver fatto molto bene all’Italia. Non mi chiese nulla, non mi
fece offerta. Il colloquio fu a quattr'occhi. La nomina fu poi combinata col
ministro amico e portata qui da me da un Direttore generale. Non accettarla
sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita. Sostenne
la chiamata all’armi e la coscrizione militare nell'esercito della RSI,
auspicando il ri-pristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta
di Mussolini. Intanto il figlio, Federico G., capitano d'artiglieria del
Regio Esercito, e internato dai tedeschi in un campo di prigionia a Leopoli in
condizioni particolarmente severe. F. G. e l'unico ufficiale italiano del campo
a non ricevere la posta di ritorno. F. G. aveva aderito alla RSI, ma non aveva
accettato l'arruolamento nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare
in Italia da civile. G. elogia pubblicamente al condottiero della grande
Germania, e lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse. Pochi giorni
dopo, Federico G., venne trasferito in un campo meno duro. Infine, gli e
permesso il ritorno. Per il suo appoggio dichiarato alla leva per la difesa
della RSI, riceve diverse missive contenenti
minacce di morte. In una in particolare era riportato. Tu sei responsabile
dell'assassinio dei cinque. L'accusa e riferita alla fucilazione di cinque renitenti
alla leva rastrellati dai militi della R. S. I. -- fucilazione orchestrata da Carità,
che detesta G., ricambiato. Ha infatti minacciato di denunciare le eccessive
violenze del suo reparto allo stesso MUSSOLINI. G. non e assolutamente
collegato con tale evento. Il governo repubblicano gli offre quindi una scorta
armata che però G. declina. Non sono così importante, ma poi se hanno delle
accuse da muovermi sono sempre disponibile. Considerato in ambito resistenziale
come il filosofo del regime, apologo della repressione e di un regime ostaggio
di un esercito occupante, è ucciso sulla soglia di Villa di Montalto al
Salviatino, da gappisti di ispirazione comunista. Il commando si apposta circa
nei pressi della villa. Appena giunse in auto, il gappista Fanciullacci si
avvicina, tenendo sotto braccio un saggio di filosofia – “Apperance and
Reality,” di Bradley -- per nascondere la rivoltella e farsi così credere un
filosofo. Abbassa il vetro per prestare ascolto. E subito raggiunto dai colpi
della rivoltella. Fuggito il gappista in bicicletta, l'autista si diresse
all'ospedale Careggi per trasferirvi il filosofo moribondo. G., colpito
direttamente al cuore e in pieno petto, in breve spira. E un episodio che divide
lo stesso fronte di resistenza e che è al centro di polemiche non sopite,
venendo infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola
esclusione del Partito Comunista, che ri-vendica l'esecuzione. E sepolto nella
basilica di Santa Croce, il foscoliano tempio dell'itale glorie. Dopo
l'attentato, le autorità della R. S. I., dopo aver sospettato all'inizio lo stesso
Carità promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni su
Fanciulacci.Venne disposto l'arresto di cinque, indicati da come i mandanti
morali. Grazie al diretto intervento della famiglia, gl’arrestati sono rimessi
in libertà. All'interno di Santa Croce si inaugura un convegno di studi
gentiliani. La filosofia di G. e da lui denominata “attualismo” o idealismo
attuale.L'unica vera realtà è un “atto” puro del «pensiero che pensa», cioè
l'auto-coscienza, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente.Solo
quello che si realizza tramite lo spirito rappresenta la realtà in cui il
filosofo si riconosce. Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non
c'è distinzione tra “soggetto” e “oggetto” – dunque l’intersoggetivita e un
pseudo-problema. Avversa pertanto ogni dualismo rivendicando il monismo e l'unità
di natura (corpo, materia) e spirito (anima, forma) (monismo).Al'interno, assieme
al primato, la auto-coscienza è vista come “sintesi” della tesi del soggeto e
l’antitesi dell’oggetto. Questo e un atto in cui il primo, la tesi, il
soggetto, pone se stesso e pone il secondo (auto-concetto).In ciò consiste l'”autoctisi”
–Non hanno quindi senso un orientamento solo spiritualista o solo materialista
(naturalista).Non ha senso la divisione netta tra spirito (l’astratto) e
materia (astrazzione) del platonismo, in quanto la realtà è Una. Qui è evidente
l'influsso dell’aristotelismo (hyle-morphe) e il panteismo rinascimentale e
anche dell’ “immanentismo” (contro il transcendentalismo) più che
dell'hegelismo. Di Hegel, a differenza di Croce, che era fautore di uno
storicismo assoluto (o idealismo storicista), per cui tutta la realtà è “storia”
e non “atto” in senso aristotelico (energeia/dunamis – actus – cf. Grice, “What
is actual”), non apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto l'impianto
idealistico relativo alla auto-coscienza.La auto-coscienza è considerata il fondamento
del reale. Anche vi è un errore in Hegel nella formulazione della “dialettica”.
Ma questo non consiste unicamente, come afferma Croce. Croce infatti sostiene che
"tutto è Spirito". La critica di Croce non è sufficiente.Gentile
sostiene che Hegel confunde la dialettica del “implicare” (‘impiegare”) (che ha
individuato correttamente) con la dialettica dell’ “implicatum” ‘empiegato’. Lascia
forti residui della dialettica dell’impiegato,cioè quella del determinato e
delle scienze. Gentile inoltre non accetta la “dialettica dei distinti” (A
distinto da B) che Croce, in base al adagio che "non ogni negazione è
opposizione") introduce posto accanto alla “dialettica degli opposti"
(A opposto B). Infatti G. ritiene la
‘dialettica dei distinti’ un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica
propria.Questa invece si esplica in un “atto” in cui utilizza la dialettica (A
opposto B, sintesi C) in un atto puro.Questa dialettica si esplica quindi nel
rapporto dell’impiegare e l’impiegato. Recuperando La Dottrina della scienza di
Fichte, G. afferma che lo spirito (anima, forma) è fondante in quanto unità di
autocoscienza, atto; l'atto puro –, è il principio e la forma della realtà
diveniente, non esistente (Gott im Werden – dall’divenire all’essere). La
dialettica dell'atto puro e l’opposizione tra la soggettività (il soggeto)
rappresentata dall'espressione --
intention-based semantics -- (tesi) e l'oggettività (oggeto) – cf.
inter-soggetivo -- rappresentata dal positivism scientism. (antitesi), cui fa
da soluzione nell’atto puro (sintesi). L'atto puro si fonda sull'opposizione
della «logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero pensato” – cfr.
implicans – implicatum. impiegatore – impiegante – impiegato --. La prima è una
dialettica materiale– implicans/impiegante --, la seconda una logica formale –
l’impiegato --. G. dedica la sua attenzione al tema della soggettività
dell'espressione nel vivere del spirito. Se da un lato l'espressione è il
prodotto di un sentimento soggettivo o una intenzione, dall'altro l’espressione
è un atto puro “sintetico” – “composito” -- non analitico – or divisso -- che
coglie tutti i momenti della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni
caratteri del questo che Grice chiama il discorso razionale o la conversazione
come cooperazione razionale. Sviluppando fino in fondo la filosofia di
Spaventa, la filosofia dell’atto puro, per il quale la realtà esiste solo
nell'atto puro che pensa la realta.è stato interpretato come un idealismo
soggettivo (una forma di soggettivismo – o intersoggetivismo), sebbene G. tende
a respingere tale definizione, non essendo quell'atto preceduto né dal “soggetto”
né tantomeno dall'”oggetto” -- bensì coincidente con l'Idea stessa, e a
differenza di Fichte, in cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un
"cattivo infinito" è in realtà immanente (non trascendente) all'esperienza,
proprio perché l’atto puro e creatore d una esperienza (datum). Gentile e un
ideologo del regime.La filosofia politica di G. è fortemente attivista e attualista (cioè
trasponte l'attualismo del atto puro nel campo veramente inter-soggetivo dello
scambio sociale.La politica coniughi «prassi e pensiero» (lo pratico e lo
speculative) che sia insieme «una azione a cui è immanente una ‘dottrina’
condivisa.’”Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà, in G. troviamo il
primato del futuro, l’utopia, l’ideale regolativo. Ma, allo stesso tempo, un
recupero della concezione romantica illuminsita di una Ragione intesa come
Spirito universale che tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione
meramente strumentale mezzo-fine. In questo, l’analogia con Grice e obvia. Per
G., ad esempio, il «modo generale di concepire la vita» proprio della sua
dottrina è di tipo spiritualistico. La dottrina non è la sola qualificazione
politica che dà dello speculative. G. infatti e un ‘liberale’ -- nonostante
sembri respingere quasi in toto il ‘liberalismo ottocentesco’ ne La dottrina del
regime.Difatti la sua concezione politica riprende la concezione di Hege di un
stato etico o morale -- per cui ‘libero’ (free) non è primariamente l'individuo
o persona atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo stato stesso
nel suo processo storico. Un individuo e ‘libero’ se esplica la sua moralità nella
forma istituzionale di suo stato libero -- come chiarisce nella 'Enciclopedia
italiana. L'individuo esprime la sua libertà individuale personale solo
all'interno di un stato libero ("libertà nella legge" – lo giuridico
-- ), con ciò a dire in un contesto istituzionale organizzato (positivismo
kelseniano). Un esempio di questa concezione lo si può trovare nella destra
storica, la quale governa l'Unità d'Italia. Impone un governo autoritario (concezione
ereditata poi dalla sinistra storica di Crispi) che riusce a moderare
l'individualità dei singoli, quella che G. definisce come la spinta alla
disgregazione.Questo modello di governo forte è giusto (lo giuridico) in quanto,
per definizione, un stato libero e un stato etico, definito alla Mazzini come
"stato educatore". Se G. voglia uno stato totalitario vero e proprio
è questione invece incerta.Di certo nella sua fase prettamente del regime, G.
fa riferimento a un ‘stato totale", l'organismo che accoglie tutto in sé. Con
il regime si può avere vero "liberalismo" in quanto riporta al valore
primigenio del Risorgimento. G. dimostra un forte approccio storicistico,
secondo il quale il regime trade la sua legittimazione dalla storia, sarebbe
appunto una vera fase storica, non una mera mistica o dottrina o ideologia. Il
Risorgimento non e olo un'operazione politica, ma un "atto di fede".Il
campione di suddetto atto di fede e Mazzini: anti-illuminista e romantico,
anti-francese, spiritualista e nemico dei principi materialistici. Lo stato
giolittiano rappresenta invece un tradimento dei valori risorgimentali.Per
rompere questo “status quo” degenerativo del processo italiano e necessario una
rivoluzione. Porta un nuovo assetto, ma anche statale, perché va a colmare una
lacuna che vige nel sistema del stato. Insiste molto sulla novità di questa
rivoluzione. è un modo nuovo di concepire una nazione, ha una consapevolezza
mistica di ciò che sta compiendo. Un duce viene perciò dipinto come un vero
eroe idealistico. La missione della rivoluzione è quella di creare l'Uomo
nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a grandi imprese. Questo
nuovo tipo di uomo e anti-tetico al carattere che Giolitti tentò di imprimere a
una nazione e che connota l'Italia come una nazione scettica, mediocre e
furbastra. In quanto ideologo, G. sostiene che la dottrina revoluzionaria si
deve istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso l'istituzione del Gran
Consiglio. La dottrina si deve inoltre far assorbire dall'italianità (e non il
contrario). Il fine è che nella società italiana non vi siano più contra-dizioni,
nessuna differenza tra cultura italiana e cultura della dottrina. Bisogna
arrivare ad una comunità omogenea e compatta anche in ambito lavorativo. Attraverso l'istituzione della cooperative e la corporazione, la quale deve
sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la collaborazione o
cooperazione di classe. Anche qua Gentile riprende le teorie di Mazzini, oltre
che il distributismo. Il corporativismo (di cui le estreme realizzazioni
saranno la democrazia organica e la “socializzazione” dell'economia, progettate
nella R. S. I.) permette di giungere ad uno stato di fatto in cui i problemi economici
si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza provocare fratture
all'interno della società, ed evitando una lotta di classe (classe bassa, casse
media, classe alta) grazie alla “terza via” della dottrina. Gentile sostenne,
opponendosi all'ala estrema e intransigente l'idea una riconciliazione, la più
ampia possibile, di tutti gli italiani.Pur riconoscendosi nella R. S. I.,
invita pubblicamente il popolo sano ad ascoltare la voce della patria,
esortandolo alla pacificazione e ad evitare una “lotta fratricida", di cui
comunque non vedrà la fine. Il gentilismo fu una delle cinque correnti
culturali del regime, assieme alla sinistra "rivoluzionario" di Malaparte,
Maccari, Bottai, e Marinetti; la dottrina clericale; la mistica di Giani,
Arnaldo, e Mussolini; e il neo-ghibellinismo pagano di Evola. Per l'idealista G.,
a differenza di Croce, che ritene il Marxismo solo "passione
politica", causata da uno sdegno morale a causa delle ingiustizie sociali,
il marxismo è una filosofia della storia derivata da Hegel. Gentile afferma
infatti che la concezione materialistica della storia è costruita da Marx
sostituendo la Materia -- la struttura economica -- allo Spirito. Per Hegel lo
Spirito è l'essenza di tutta la realtà, che comprende la materia (all'interno
della Filosofia della natura), come momento del suo sviluppo. Secondo Marx
invece, avendo scambiato il relativo con l'assoluto, si finisce con
l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè, il fatto economico) la
funzione dell'Assoluto che per Hegel si sviluppa dialetticamente ed è
determinato a priori rendendo così determinato a priori l'empirico: la
struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia marxiana sia
pertanto una errata filosofia della storia hegeliana "rovesciata",
però la filosofia di Marx possiede ugualmente un pregio: è una "filosofia
della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach, che G. cura, il "Moro"
infatti critica il materialismo volgare. Questo concepisce metafisicamente
l'oggetto come dato e il soggetto come mero ricettore dell'essenza-oggetto.
Nonostante ciò, secondo G., Marx, attribuisce alla “prassi”, considerata come
attività sensibile umana, la funzione di far derivare a torto il pensiero
medesimo.I filosofo di Treviri infatti considera il pensiero una forma derivata
dell'attività sensitiva e non un atto che ponga l'oggetto. Gentile sostiene
invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto del pensiero,come atto puro
a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a crearlo. G. riflette a lungo
sulla funzione pedagogica e unisce la pedagogia con la filosofia, avviando una
rifondazione in senso idealistico della prima, negandone i nessi con la
psicologia e con l'etica. L'educazione deve essere intesa come un attuarsi, uno
svolgersi dello spirito stesso che realizza così la propria autonomia.
L'insegnamento è spirito in atto, di cui non si possono fissare le fasi o
prescrivere il metodo.Il metodo è il maestro o tutore, il quale non deve
attenersi ad alcuna didattica programmata ma affrontare questo compito sulla
scorta delle proprie risorse interiori. Programmare la didattica sarebbe come
cristallizzare il fuoco creatore e diveniente dello spirito che è alla base
dell'educazione. Al maestro o tutore è richiesta una vasta cultura e
null'altro.Il metodo verrà da sé, perché il metodo risiede nella Cultura stessa
che si forma continuamente da sé nel suo processo infinito di creazione e
ri-creazione.Il dualismo scolaro-maestro (tutore/tutee) deve risolversi in
unità – il dialogo socratico -- attraverso la comune partecipazione alla vita
dello spirito che tramite la cultura muove l'educatore (tutore) verso
l'educando (tutee – G. qui usa una forma romana, ‘educando’ – cfr.
‘implicandum’ -- e lo riassorbe nell'universalità dell'atto spirituale. Il
maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro dell'essere divino, dello
spirito». Il maestro incarna lo spirito stesso, l'allievo (l’educando, il
tutee, lo scolareo) deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro,
proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero
ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi (auto-diddatica),
facendo del tutto propri i grandi contenuti presentati. Questi concetti
ispirano la riforma scolastica attuata da G. in veste di ministro della
Pubblica istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi
desideri. Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma
scolastica sono in particolare la concezione della scuola come membro
fondamentale dello stato (viene infatti istituito un esame di stato che
sancisce la fine di ogni ciclo scolastico, anche se gli studi sono effettuati
in un istituto privato) e il predominio delle discipline del gruppo
umanistico-filologico.Gentile fu ministro della pubblica istruzione e mise in
atto la sua riforma scolastica, e definita da Mussolini "la più riformante
delle riforme", in sostituzione della vecchia legge Casati. Essa era
fortemente meritocratica e censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile
individua l'organizzazione della scuola secondo un ordinamento gerarchico e
centralistico. Una scuola di tipo piramidale, cioè pensata e dedicata ai
migliori e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo
classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo ‘professionale’ per il popolo.
I gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli, o comunque a
quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse di studio
perché gli studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire gli studi
(cf. Grice, a “Midlands scholarship boy bound to Corpus!”). La logica e messa
in secondo piano, poiché e una materia priva di valore universale, che ha la sua importanza
solo a livello professionale. Difatti G., a differenza di Croce che sostene
l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche sulla scienza, pur
criticando gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le materie
letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al dialogo,
con matematici e fisici italiani (come Majorana, collaboratore di Fermi nel
gruppo dei ragazzi di via Panisperna, che divenne anche amico del figlio
Giovanni G. jr., coetaneo di Majorana) e cercò di instaurare un confronto
costruttivo con il scientism. L'obbligo scolastico fu innalzato a 14 anni ed è
istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni. L'allievo che termina la
scuola elementare ha la possibilità di scegliere tra il ginnasio/liceo classico
e la scuola scientifica oppure un istituto tecnico.Solo il ginnasio-liceo
permette l'accesso alla faculta di filosofia nella universita di Bologna.In questo
modo però viene mantenuta una profonda divisione tra classi – l’elite, la
classe alta, la classe media, e la classe basssa (questo vincolo fu rimosso completamente).
Ciò anda incontro alla visione patriarcale del Duce. Anche G. nel complesso
mostra posizioni poco ricettive verso il femminismo (il femminismo è morto,
dirà), sebbene più sfumate, sostenendo che i licei dovessero formare i futuri
capi guerrieri. Nel triennio dell'istruzione classica viene poi introdotta, in
sostituzione, LA FILOSOFIA, adatta alla elite o classe dominanti e alla futura
classe dirigente, ma non al popolo minuto. G. è un filosofo della
secolarizzazione e della risoluzione della trascendenza in prassi in ciò
accomunato a Marx -, determinante addirittura per lo stesso comunismo italiano
attraverso la ripresa che ne fa Gramsci. Da sottolineare che già sulla rivista
L'Ordine Nuovo, Gobetti nota sche G. forma la cultura filosofica italiana. Di
tutt'altro avviso Sasso, secondo il quale a dover essere rivalutata non è
affatto la disastrosa prassi politica di Gentile, la cui «passionale» adesione
alla dottrina «fu filosofica, forse, a parole ma nelle cose no». Ciò che merita
ancora di essere studiato, sostiene Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in
atto», e tra essa «e la dottrina non c'è, né ci può essere, alcun nesso». La filosofia
di G. e la fascistizzazione dell'attualismo e pertanto una deformazione
dell'idealismo. Al di là della sua appartenenza politica, si attribuisce
comunque a G. un notevole spessore filosofico. G. è fascista e paga con la vita
la sua fedeltà alla dottrina. Ma è anche profondo pensatore. Lo riconobbero,
nel primo dopoguerra, persino Gramsci e Togliatti. Per approfondire gli studi
sull'opera di G. e create l'istituto di studi gentiliani e la fondazione G. a
Roma. La filosofia gentiliana è stimata anche da Severino, che ravvisandovi una
condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la
considera uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale. G. e certamente
un romantico, forse l'ultima più vigorosa figura del Romanticismo europeo. Gli
venne dedicato un francobollo delle poste italiane, unico tra le personalità di
primo piano del regime ad avere questa celebrazione da parte della Repubblica
Italiana. L'assassinio di G. è una carognata ingiusta e vigliacca. G. non
è fascista. Che gl’anti-fascisti sono dei acasotto perché uccisero un grande e
inerme filosofo mentre non hanno il coraggio di sminare i ponti di Firenze che
i tedeschi minano. Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone
dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone
dell'ordine della Corona d'Italianastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di
gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italia, Cavaliere
di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania nazista) nastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca
(Germania). “L'atto del pensare come atto puro; La riforma della dialettica hegeliana”
(Firenze, Sansoni); La filosofia della guerra; Teoria generale dello spirito
come atto puro, Firenze, Sansoni); I fondamenti della filosofia del diritto; “Sistema
di logica come teoria del conoscere; Guerra e fede (raccolta di articoli
scritti durante la guerra) Dopo la vittoria (raccolta di articoli scritti
durante la guerra) Discorsi di religione; Il modernismo e i rapporti tra
religione e filosofia; Frammenti di storia della filosofia”; “La filosofia
dell'arte”; “Introduzione alla filosofia”; “Genesi e struttura della società” “L'attualismo
Cicero e con introduzione di Severino, Bompiani, Milano Di carattere storiografico Delle commedie di Grazzini
detto il Lasca”; “Rosmini e Gioberti”; “Marx”; “Dal Genovesi al Galluppi”;
“Telesio; “Studi vichiani” “Le origini della filosofia contemporanea in
Italia”; “Il tramonto della cultura siciliana; Bruno e il pensiero del
Rinascimento; Frammenti di estetica e letteratura; La cultura piemontese; Capponi
e la cultura toscana del secolo XIX; Studi sul Rinascimento; I profeti del
Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti; BSpaventa; Manzoni e Leopardi;
Economia ed etica; G. un filosofo scomodo; L'insegnamento della filosofia nei
licei; Scuola e filosofia; Sommario di pedagogia come scienza filosofica” “I
problemi della scolastica e il pensiero italiano; Il problema scolastico del
dopoguerra; La riforma dell'educazione, Bari, Laterza); Educazione e scuola
laica; La nuova scuola media; La riforma della scuola in Italia; “Manifesto
degli intellettuali”; Che cos'è la cultura? Origini e dottrina”; “La mia
religione”; “Discorso agli Italiani”; “Essenza” la prima parte si trova nella
Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T.: la prima e la seconda si trovano in
l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma; un'altra opera in cui si
trova questo testo è in Origini e dottrina del fascismo, istituto nazionale
fascista di cultura, Roma; altro testo in cui si trova si intitola Lo stato
etico corporativo). La filosofia del fascismo (Origini e dottrina del fascismo;
si trova in Politica e Cultura, oppure lo si può trovare le libro intitolato
L’Identità” un altro libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni
de Il libro italiano del mondo, Roma); Che cosa è il fascismo-discorsi e
polemiche (Firenze, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola; G. Scritti
per il Corriere. Note Vi è chi
attribuisce al neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe posto
l'istruzione scientifica in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico
letteraria (L'Italia della scienza negata, in Il Sole; altri invece respingono
questa interpretazione, ricordando che durante l'egemonia gentiliana nacquero
numerosi enti scientifici (Croce e Gentile amici della scienza, in Corriere
della Sera). Cit. di Pampaloni tratta da
Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Staglieno, Milano, Rizzoli. Manifesto cit.
in Rienzo, Storia d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla
Repubblica, Firenze, Le Lettere, Cfr. Vito de Luca, Un consigliere comunale di
nome Giovanni Gentile. Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, Nuova
Storia contemporanea, Dello stesso autore,cfr. G.. Al di là di destra e
sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro",
Chieti, Solfanelli, Scheda senatore G. Simoncelli Benedetti, L'Enciclopedia
Italiana Treccani e la sua biblioteca, Biblioteche Oggi, Milano, Testo qui Ripubblicato come Bruno e il pensiero del
Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S. saggi cult.
cont. Bruno. LE VICENDE DELLA
STATUA Vecchi, Treccani Paolo
Simoncelli. La scelta di campo, Marco
Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le bufale, l'Opinione, Mieli, G.
critica in pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo vano Simoncelli Simoncelli Perfetti, ASSASSINIO
D’UN FILOSOFO; G., di Turi; G. Il
Contributo italiano alla storia del Pensiero Filosofia”Treccani Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo
Perfetti, Assassinio di un filosofo Perfetti, Assassinio di un filosofo, Canfora,
La sentenza. Marchesi e G., Palermo,
Sellerio, Perfetti, Assassinio di un filosofo.
Vettori, G., Editrice Italiana, Roma, Fiori, dirigere la casa editrice
Sansoni esecondo la testimonianza dell'ex interermania.html Io, italiano
prigioniero in Germania, in La Repubblica, Carioti, Quando G. s'inchina a
Hitler per salvare il figlio, Corriere della Sera, Renzo Baschera, "Chiese
la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi, Historia", Uboldi,
Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata; Arnoldo Mondadori Editore,
Milano. G., sdegnato, minaccia di denunciarlo a Mussolini" Chianesi, Benvenuti non volle mai raccontare
i precisi particolari, dal suo punto di vista. Questa è una cosa che non dirò
mai. Perché potrei fare rovesciare tutte le cose. Perché non è come è stato
detto. Come è andata l’azione dei Gap io non lo voglio dire. Me l’hanno chiesto
in tanti ma non l’ho rivelato mai a nessuno». Vedi un intervento della
Benvenuti anche in Carratù. Paoletti, "IL DELITTO G.: esecutori e
mandanti, Ed. Le Lettere, L'omicidio raccontato da Martini "Paolo"
uno dei due esecutori materiali. Sicuramente (Fanciullacci l'altro esecutore)
gli chiede se è il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa
parte, non attraverso i due finestrini posteriori. Resistenza: Angela, la
ragazza col fiore rosso Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che G. dove morire,
in Corriere della Sera, Per fare in modo che i gappisti incaricati dell'agguato
potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso l'Accademia
d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai partigiani,
poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile imbarazzo. Mattei) Canfora, "Giovanni Gentile nella
RSI" in La Repubblica Sociale Italiana Poggio, Annali della Fondazione
Micheletti, Brescia, Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che G. doveva
morire, sul Corriere della Sera,: "L'omicidio di Gentile, anziano e
inerme, suscitò una forte impressione e fu disapprovato dal CLN toscano, con
l'astensione dei comunisti. Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione,
scrisse un articolo per dissociarsi."
Maria Cristina Carratù, E dopo 70 anni nuovi scenari dietro l'esecuzione
di Giovanni Gentile, La Repubblica, 24 aprile
Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non
riuscì a salvarsi", articolo su "Historia", Ecco le carte che
assolvono l'archeologo Romano. Turi, G. Così
Gaetano G. ricorda il suo intervento presso la prefettura. Quella sera stessa, per
desiderio di mia madre, io mi recai dal capo della Provincia e gli parlai della
voce di rappresaglie diffusasi in città, esprimendogli la ferma e calda
preghiera di mia Madre che quel proposito, se effettivamente esisteva, venisse
abbandonato e anzi gli arrestati rilasciati. Dissi anche, naturalmente, come a
me sembrasse in fondo superfluo dover esprimere tale preghiera proprio in
quella stanza in cui ancora quella mattina la voce di mio Padre si era levata a
deplorare la tragica inutilità di un metodo, dal quale non poteva seguire che
il ripetersi indefinito di una crudele successione di attentati e rappresaglie.
È ovvio poi che, indipendentemente dalla eventuale giustificazione politica o
militare di atti simili, nulla del genere poteva aver luogo in occasione della
morte di mio Padre, alla quale si doveva da parte del Governo e delle autorità
fiorentine questo gesto di rispetto delle sue convinzioni e del suo costante
atteggiamento. Firenze: due consiglieri,
via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su libero quotidiano. Attualismo»,
Enciclopedia Treccani Fusaro, G.
Sull'importanza della riforma della dialettica idealista di matrice
hegeliana in G., si veda quest'intervista a Sasso. L'intervista è compresa
nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienza Filosofiche. Minozzi, Saggio di
una teoria dell'essere come presenza pura, Il Mulino, G. quindi contestava a
Fichte la trascendenza dell'io assoluto rispetto al non-io, e di restare così
in un dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del pensiero, ma solo
da un agire pratico dilatato all'infinito (cattivo infinito), fermo alla
contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale Fichte «s'irretisce in un
idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire da sé» (Discorsi di
religione, Firenze, Sansoni). G., Mussolini, LA DOTTRINA DEL FASCISMO. Abbagnano,
Ricordi di un filosofo, Staglieno, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, Luca,
G. e il liberalismo, Mussolini, Volpe, G., Fascismo, Enciclopedia
Italiana. Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in G.,
Giornale critico della filosofia italiana, Belardelli, Il fascismo e
Mazzini G., Manifesto degl’intellettuali fascisti G., "Ricostruire" in Corriere della
Sera, Cfr. Libertà e liberalismo (Conferenza tenuta a Bologna"), in
Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura H.A. Cavallera, Firenze, Le
Lettere, Il pensiero pedagogico di G. La riforma Gentile, su pbmstoria. Si
veda anche ne Il fascismo al governo della scuola, in Annali, Milano, Istituto
Giangiacomo Feltrinelli, [Boffi:] Qual è
il criterio su cui si è fondata Vostra Eccellenza nella limitazione delle
iscrizioni? G.: Questa limitazione non c'è nella scuola complementare come non
ci sarà nella scuola d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle
scuole di cultura e risponde alla necessità di mantenere alto il livello di
dette scuole chiudendole ai deboli e agli incapaci; dipende anche dalla
riduzione del numero degli scolari nelle singole classi fatta per evidenti
ragioni didattiche, quelle stesse che hanno consigliato l'abolizione delle
classi aggiunte; ma soprattutto dalla necessità di consigliare agli italiani un
diverso indirizzo nella loro attività. Noi abbiamo troppi ed inutili, quando
non son valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di
industriali, di commercianti, di artieri, di minuti professionisti, che portino
nella esplicazione delle loro arti e dei loro mestieri quello spirito fine
della Nazione che finora li ha spinti a disertare le scuole industriali,
commerciali e professionali per seguire la scuola umanistica.» (R.Sandron,
Il fascismo al governo della scuola, iscorsi e interviste, Boffi, Spadafora, G.:
la pedagogia, la scuola: atti del Convegno di pedagogia e altri studi, Armando,
Galavotti, La filosofia italiana e il neo-idealismo di Croce e G.,
Homolaicus. Il mistero di Majorana
Guglielman, Dalla scuola per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo
femminile della riforma G. e i suoi precedenti storici, in Da un secolo
all'altro. Contributi per una "storia dell'insegnamento della storia
(Guspini), Roma, Anicia, Una parte del lavoro è stata in precedenza pubblicata,
con alcune varianti, sulla rivista Scuola e Città con il titolo Il liceo
femminile Manacorda D'Amico, Romagnoli, Donne, la Resistenza taciuta.
L'esclusione delle donne nella società fascista
G., La donna nella coscienza moderna, in La donna e il fanciullo. Due
conferenze, Firenze, Sansoni, De Grazia, Le donne nel regime fascista, Ricuperati, La scuola italiana e il fascismo,
Bologna, Consorzio Provinciale Pubblica Lettura, Grazia, Le donne nel regime G.,
La riforma della scuola in Italia, Milano citata in: Manacorda Le omissioni,
qui tra parentesi tonde, sono nel testo di Manacorda. Noce, Gentile. Per una
interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino, Giovanni Bedeschi, Il ritorno del maestro, sta
in Il Sole 24 ore Domenica, Sasso, Le due Italie di G., Bologna, il Mulino, Beckstein,
G. und die 'Faschistisierung' des Aktualismus. Zur Deformation einer
idealistischen Philosophie, Acta Universitatis Reginaehradecensis, Humanistica,
Filosofia: A Firenze Convegno STUDI GENTILIANI Fondazione Gentile Dipartimento
di Filosofia Roma Liberiamo la filosofia di G. dalla faziosità Severino: Ecco
perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto Quotidiano È G. il profeta del la civiltà tecnica. «I nemici di G.», puntata de Il tempo e la
storia, documentario Rai Severino, dalla
quarta di copertina de L'attualismo, Milano, Giunti, Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Nella
Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, "La partigiana Fallaci fa a pezzi
l'antifascismo", pubblicato da Il Giornale. Monografie principali
Carlini, Studi gentiliani, G., la vita e
il pensiero a cura della Fondazione G. per gli Studi filosofici, Firenze,
Sansoni, Aldo Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, Sergio Romano,
Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, Bompiani, Canfora, La
sentenza. Marchesi e G., Palermo, Sellerio, Noce, G.. Per una interpretazione
transpolitica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, Cavallera,
Immagine e costruzione del reale nel pensiero di G., Roma, Fondazione Spirito, Sasso,
Filosofia e idealismo. G. , Napoli, Bibliopolis, Hervé A. Cavallera,
Riflessione e azione formativa: l'attualismo di G., Roma, Fondazione Spirito, Brianese,
Invito al pensiero di G., Milano, Mursia, Sasso, Le due Italie di G., Bologna,
il Mulino, Sasso, La potenza e l'atto. Due saggi su G., Firenze, La Nuova
Italia, Hervé a. Cavallera, G.. L’essere e il divenire, SEAM, Roma, Paolo
Mieli, Una rilettura liberale di Giovanni Gentile, da "Le storie, la
storia", Milano, Rizzoli, Daniela
Coli, Giovanni Gentile, il Mulino, Sergio Romano, Giovanni Gentile, un filosofo
al potere negli anni del regime, Milano, Rizzoli, Francesco Perfetti,
Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, Firenze, Le
Lettere, Turi, G.. Una biografia, Torino, POMBA, Cavallera, Ethos, Eros e
Tanathos in G., Pensa Multimedia, Lecce, Hervé A. Cavallera, L’IMMAGINE DEL
FASCISMO in G., Pensa MultiMedia, Lecce, Marcello Mustè, La filosofia
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Tringali, L'attualismo è sempre attuale. Saggio su G., Vettori, G., Roma, Editrice
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Gentile, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. G. su accademici della crusca. org, Accademia della Crusca. H
Questa soluzione della trascendenza è cara, s'intende, ai :filosofi che
per la loro indole amano starsene alla fine stra a godere dello spettacolo che
essi contemplano, ma di cui non hanno la responsabilità (né merito, né
demerito). Nella strada la gente ignara soffre, combatte, muore; alla .lìnestra
il filosofo (che come tale deve essere puro pensiero) imperturbato, spiega, si
rende conto e si frega le mani. L’ideale di LUCREZIO, che è alla base della
eterna leggenda del filosofo che si libera delle passioni e rinunzia all'azione
per chiudersi nel pensiero: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e
terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari qucmquam'st iucunda
voluptas sed quibus ipse malis careas quia cernere suave'st: suavc ctiam belli
certamiua magna tueri per campos instrncta tua sine parte perieli: sed nil
dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapienlum tempia serena,
despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantis quaerere
vita.e, certarc ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti
praestante labore ad summas emergere opes rerumqne potiri. O miseras hominum
mentes, o pectora caeca. L'etica come legge. Disciplina. Positivismo ed
empirismo. Legge. Prammatismo. Prassi e teoria. Oggetto del volere. Volontà-
autoctisi. Praticità del conoscere. Unità cli teorico e pratico. L·atto. L'individuo.
Senso realistico e senso idealistico della individualità. Individuo e società.
Comunità immanente ali' individuo come sua legge. La comunità ideale e la
gloria. Vox populi. La concretezza
dell'individuo. La conquista dei valori. li processo d<>IJa
individualità. La particolarità dell'individuo nello spazio e nel tempo. Il carattere.Velleità,
volere, carattere. Il carattere attraverso la condotta empirica. Critica del
concetto della molteplicità degli atti o l'unità del volere. Presente ed
estemporaneo nel carattere. Trascendentalità del carattere.Il coraggio civile.
- i> La socialità origmaria.Società trascendentale o società in interiore
homine. Alte" e socius. Dalla cosa al socio. Il dialogo intemo, o
trascendentale. Il momento dell'alterità. La dialettica pratica. La crisi
dell'Universo. sare più al clovere che ai doveri Il bene e il male. La categoria etica e
l'esperienza. Dialettica dell'Io. li
nulla. -Unicità della categoria logica. La legge dell'uomo: Pett. sa/ Intendere
e amare. Intendere pratico. La categoria etica. Il senso morale e la sua
inattualità. Dovere e doveri. Errore di metodo nell'etica. Necessità cli pen
--Lo Stato. Concetto dello Stato. Nazione e Stato. Diritto. Governo e
governati. Autorità e libertà. Il liberalismo. Etica e politica. Stato etico.
Moralismo, Stato ed econoraia . Economicità dell'uomo e quincù dello Stato.
Umanità dell'operare economico. Operare utilitario o utile? Umano e subumano.
Il corpo e l'anima. Naturalità dell'utile. Le scienze della logica
dell'astratto. Lo schema del naturalismo nella logica dell'astratto. La forma
mate matica dell'economia. - ro. [L'utilitarismo. -L'edonismo. Moralità ed
eudemonia.Natura e Spirito. Economia e politica. Stato e religione. Rapporto
essenziale tra i due termiai. Laicità. Rel-igio 1nstntme111u,n regni. Immanenza
della religione nello Stato. Stato e scienza. Scienza e filosofia; e rapporto
di questa con lo Stato. Necessità cli questo rapporlo. Cultura. Scienze naturali.
L'obbligo di critica della filosofia. Immanenza della filosofia nella politica
dello Stato. Lo Stato e gli Stati. Libertà e infinità dello Stato. P!ui:alità degli Stati, unità dello Stato.
Critica del punto di vista intellettualistico. Concreto punto di vista
pratico. Il riconoscimento degli altri
Stati e il Diritto internazionale, La guerra. La pace e la collaborazione
umana. -fil Impero e ordine nuovo. LaStoria. La Storia come storia dello Stato.
Storia dell'uomo. Statolatria. Autocritica dello Stato. Rivoluzione. L'Unico. Umansimo
del lavoro. Famiglia. Categorie di lavoratori e rappresentanza politica. La Politica.
Definizione della politica. Etica e politica. Im possioilità cli un'etica
apolitica. Il privato e il pubblico. La teoria dei limiti dello stato. Stato autoritario
e democrazia. L'anarchismo e il Jiberalis1:no. Bellum omnium contra omnes.
Guerra e pace.Ordine. Senti mento politico. Genio politico. La politica del
fanciullo. La politica in ogni forma di attività umana. Politica dell'arte.
Politica della scienza. Politica della lede. Chiesa e proselitismo. La dottrina
della tolleranza. -La politica diritto e dovere. La Società trascendentale, la
morte e l' im mortalità. 11 motivo della fede nell’immortalità. Immortalità e religione.
L'equivoco. Illusioni. Fuga tn01-t1s. - 6. La difficoltà del problema e la
soluzione. La morte. L'immanenza dell'azione. NUOVI INDIZI DI HEGELLOSIGKEIT ITALIANA Bollami
dell' Università di Leida in un suo interessante opuscolo, qualche anno fa
mettev a in, mostra una lunga fdza di evidenti spropositi commessi da
filosofi contemporanei di ogni risma nel parlare di Hegel. E dopo avere
rilevato con 1’Herbart, con l’Alexander, con Barth. con Taggart, che Hegel
non concepì mai la follìa 4 Lde- durre dal pensiero auro ciò che non è
puro pensier o (realtà naturale e realtà storica), ma volle solo
sistemare logicamente, — comunque poi si giudichi questa sistemazion e e
la sua possibilità. — la cognizione necessariamente empirica della natura e
della storia, soggiunge. Intanto anche Paulsen in vólliger Hcgellosigkeit
afferma (nel suo Kant) che Hegel deduce a priori la stessa natura
».Di questa Hegellosigkeit, che non saprei davvero come tradurre in
italiano, di questo stato d' hegeliana innocenza, cosi caro tuttavia agli
studiosi di filosofia italiani, fu dato recentemente dal Croce 2 qualche
cenno' significativo dove si mostrò con quanta competenza sia stato
spesso giudicato in Italia 1 Hegel da quelli che volevano passare per 1
Alte I ernunft unii netto I’erstami, Leiden. Critica. Saggi critici. suoi
avversari. Una prova recentissima ne ha avuta però lo scrivente per aver
curata una nuova ristampa degli Lh- menti di filosofia 1 di Fiorentino
secondo la primitiva edizione, dall’autore più tardi parzialmente rifatta
e radicalmente mutata nell’ indirizzo dottrinale. Alcuni (tra i quali uomini
dotti nella storia della filosofia) han rimproverato il nuovo editore di
aver voluto dare un Fiorentino hegeliano, laddove il Fiorentino dagli
studi degli ultimi anni della sua vita era stato costretto ad abbandonare
le dottrine di Hegel per accostarsi al neo-kantismo. E un insegnante di liceo,
a chi proponeva il saggio per testo scolastico, oppone senz'altro ch’egli
non poteva adottare un libro prettamente hegeliano!. Molto probabilmente
l’unico fondamento di quest’asserzione, che io denuncio soltanto per richiamare
ancora una volta l’attenzione sulla comune Hegellosigkeit, è in
ciò, che questo libro è stato ristampato per cura mia, e da me
consigliato ai colleghi dei nostri licei. Ma, tralasciando i motivi che mi
hanno indotto ad additare il manuale di Fiorentino, nella sua forma originaria,
come l’unico, fra quanti ne abbiamo in Italia, degna , ancoraci es
ser m esso nelle mani dei giov ani e tolto a base d’un p j
nmp~ìnsegnamento filosofico (motivi che credo di avere sufficientemente
accennati nella mia prefazione alla detta ristampa), qui voglio solo
annunziare, col debito permesso dei colleglli accusatori, che il libro di
Fiorentino nella prima edizione non è punto hegeliano; e che la
differenza tra la prima e la seconda edizione non è divario tra hegelismo
e kantismo, ma tra kantismo ed empirismo spenceriano. Poiché ne avevo
l’occasione, a me parve opportuno togliere di mano ai giovani, che cominciano a
riflettere su cose filosofiche, un libro,
raccomandato al nome di Fiorentino, per tanti titoli benemerito
della cultura filosofica italiana, nel quale s’insegnava a riflettere su verità
di questo genere. Kant intende per a priori soltanto ciò che non‘è
derivato dalla sperienza, ma che invece è condizione indispensabile,
perchè la sperienza 1 Torino, Paravia, Psicologia e Logica
sia possibile. Egli non investiga, se questo a priori abbia potuto
originarsi da una associazione di esperienze anteriori accumulate, trasmessa
poi per eredità; nè poteva ai suoi tempi, e prima del Darwin, porre il
problema in questi nuovi termini. L ’q trio ri kantiano è una funzione
dell o spinto , non già un dato : e questo ritenghiamo anche noi :
ma ciò non toglie, che pure di questa funzione si possa cercare di
spiegare la genesi», un libro, in cui si dichiara che l’d priori kantiano è una
semplice fermata al concetto dell’ attività preformata a compiere certe
funzioni, senza di cui la sperienza non si farebbe; e che « la
filosofia moderna.... domanda: come si è preformata ? E cerca di
trovar la risposta in due fattori: l’associazionè e l’eredità; la prima che
accumula, la seconda che trasmette. Per loro mezzo, l’a priori
dell’individuo sarebbe ciò ch’è posteriori per la specie. E altrove
: Se il fine etico, che è la vita comune, è stato il risultato di una lunga
lotta per l’esistenza, è pur sempre vero che cotesto primo acquisto
viene oggi trasmesso come eredità, che gl’individui trovano, e non
debbono più riacquistare). Proposizioni che si equivalgono nei due campi
della conoscenza e della pratica, e di cui lo stesso Fiorentino. ci dice la
fonte, dove avverte che nella filosofia di Spencer ogni a priori è
sbandito, e tutto è spiegato con l’adattamento, o con la trasmissione
ereditaria ». E tutta la seconda edizione è ispirata a questo principio della
negazione di ogni assoluto a priori: onde si costruisce nèi primi capitoli
una teoria psicologica della conoscenza che non occorre qui valutare.
Quello che non ha bisogno certamente d’ulteriore schiarimento, è che
tale negazione dell'a priori e tale confusione del problema psicologico
con lo gnoseologico, non può a niun patto accettarsi come integrazione del
kantismo. C’era un Fiorentino, che pur poteva presentarsi agl’italiani, e
che io ho rimesso in luce; un Fiorentino che non s’era lasciato sfuggire
il vero punto di questa questione fondamentale dell'a priori, che è pòi
il problema di vita o di morte per Io spirito, e quindi della scienza e
della moralità Nella prima edizione lo stesso Fiorentino aveva
detto Vuoisi avvertire, che l’o priori non si deve intendere come qualche cosa
di preesistente, di preformato.... ma come una funzione essenziale dello
spirito. Aveva discusso, opponendole l’una all altra, le dottrine di Kant e di
Spencer intorno all’apriorità o aposteriorità della coscienza, e aveva
dimostrato che non se ne può dare nessuna derivazione empirica perchè «
la coscienza è un rapporto tale, di cui nel mondo esterno non si trova il
corrispondente; ed è un rapporto semplice, che non si può dedurre dalla
risultante delle nostre rappresentazioni. L’Io, la coscienza è originaria.
11 fondamento dell'esperienza non può essere attinto mediante
l’esperienza. E questo fondamento è nella coscienza e nelle sue
categorie. Se tutto derivasse davvero da dati sperimentali, nè
l’idea di sostanza, nè quella di causa, quali noi le concepiamo,
sarebbero ammissibili. Questo mi pare puro e schietto kantismo; e se. il
concetto d’una possibile integrazione di Kant per via delle ricerche
psicogenetiche è uno sproposito, che oggi non ha più bisogno d'essere
dimostrato tale, mi pare anche evidente che ricondurre il manuale di Fiorentino
a’ suoi principii fosse dovere imprescindibile d’ ogni nuovo editore,
hegeliano o non hegeliano. Perchè, dato e. non concesso che empiristi si possa
essere per proprio conto, certo per nessuno è più sostenibile una svista
di questo genere per cui, appunto a proposito dell interpretazione
di Kant, una questione gnoseologica si scambia con una questione
psicogenetica. Hegel, dunque, non c’è entrato proprio per nulla, be
ci fosse stata di Fiorentino un’edizione hegeliana anteriore alla kantiana, chi
sa!, avrei preferito il Fiorentino hegeliano al kantiano. Ma gabellare
per hegeliano quello che ho dovuto e potuto scegliere, francamente, mi
pare indizio di Hegellosigkeit ! Pur troppo, anche nella prima
redazione del suo manuale Fiorentino rende omaggio al fantasma della
materia opposta all’attività formale dello spirito; e nell’etica, invece
di correggere il timido formalismo kantiano col formalismo assoluto, crede di
compierlo con l’eudemonismo aristotelico. Non importa: sempre meglio,
infinitamente meglio Kant, anche se non perfezionato, che Spencer! Si
sente, per esser sinceri, negl’Elementi di Fiorentino un’eco lontana dei
Principii di filosofia di Spaventa. Ma non più che un'eco, nel paragrafo
sull’auto-coscienza. Ma, se Hegel s'avesse a rannicchiare in
quell'autoctisi della coscienza accordata con tutto il formalismo astratto
accettato e difeso dal Fiorentino, io ritengo che potrebbero andare a
braccetto con lui tutti i kantiani più scrupolosi del mondo. Genovesi
comincia a pubblicare in Napoli i suoi Elemento, metaphysicae. Vico ha due
profonde intuizioni fondamentali: una intorno alla potenza costruttiva
dello spirito, per cui anticipò il principio di soggettivismo
kantiano; P altra intorno al concetto dell’assoluto come sviluppo nella
natura e nel pensiero, per cui anticipò il principio della nuova
metafisica dimostrata dalla Logica di Hegel. Ne’ 6tioi Elementi di metafisica
Genovesi invece si mostra seguace di un incoerente sincretismo, in cui la
monadologia leibniziana s’accoppia con l’empirismo di Locke. Così la
tradizione del grande pensiero di Vico è spenta sul nascere, e finita
con 1’uomo che nella solitaria meditazione del diritto, anzi di
tutto lo spirito come vive nella storia, aveva attinto una forza
speculativa che lo pose al di sopra e fuori del tempo suo, episodio
solenne nella storia del pensiero italiano. Gl’ interpetri del pensiero di Vico
non furono nè i suoi coetanei, nè i suoi immediati successori nella
filosofia italiana in genere e napoletana in ispecie. La vera
interpetrazione cominciò in Germania con Jacobi, 1 dopo Kant, e fu
compiuta in Italia in quel fervore di pensiero nuovo, che venne suscitato
dall’ hegelismo, da Spaventa. Tra Vico e Spaventa c’è un’ interruzione nello sviluppo
dell’idealismo iniziato dalle opere di Vico; nella quale il pensiero
napoletano si appropria ed elabora per conto suo la moderna filosofia
europea. Questo movimento può essere designato dai nomi dei due
pensatori che aprono e chiudono tale periodo, Da Genovesi a Galluppi. E
così appunto s’intitola la monografia, nella quale ho cercatq
d’illustrare tutti gli studi speculativi più notevoli di cotesto periodo.
Può recar meraviglia, che la ricerca sia così limitata dentro i brevi
confini di spazio accennati dai nomi stessi di Genovesi e di Galluppi, e
corrispondenti ai confini del reame di Napoli, ila chi ponga mente alle
condizioni d Italia per tutto il tempo del dominio borbonico, alle
piofonde differenze civili e politiche e letterarie, in una paiola,
storiche, tra la parte meridionale e il resto della penisola, troverà
ovvia e storicamente esatta la linea da me tracciata intorno ai pensatori
che ho studiati e Vedi lo scritto Voti den gòtlUchen Lìingen unii ihrer
Offenbarung, in Werke, Leipzig. Sul kantismo vicinano cfr. specialmente
Tocco, Descartes jugé par Vico in Reme de métaphysigue et de morale, e gli
scritti da me citati nel Discorso premesso agli Scritti filosofici di B.
Si’avknta Na- poli, Vedi tfli Scritti Studi di letteratura , storia ,
filosofia , pubbi. da B. Crock, voi. I (Napoli, Edizione della Critica). considerati
come formanti una speciale serie storica a sé. Pel carattere
generale della loro filosofia questi pensatori costituiscono una
continuata corrente di empirismo, a cominciare dal Genovesi stesso, in cui
ben presto il principio critico dominante nell’ empirismo lockiano
corrode ogni concetto metafisico, fino ad COLECCHI, filosofo abruzzese
pochissimo noto benché i suoi scritti consacrati all’interpretazione
di Kant, quelli specialmente relativi alla filosofia pratica,
possano ancora esser letti con profitto
il quale, pur combattendo la filosofia dell’esperienza di
Galluppi dal punto ili vista del kantismo, insiste tuttavia su
talune correzioni eh’ ei vorrebbe apportare alla Critica Mia ragion pura
in un senso decisamente empirico-oggettivo. Ma tutti quosti empiristi si
potrebbero dividere in due generazioni: 1 una di ideologi e l’altra di
criiicisti; e tra mezzo a queste un gruppo di seguaci della
filosofia scozzese e di eclettici. Tra gl’ideologi scrittori come DELFICO,
BORRELLI e BOZZELLI meritano certamente di esser posti accanto agl’
ideologi contemporanei francesi, ai Cabanis, ai Destutt de Tracy, coi
quali essi formano quasi una sola famiglia, rispecchiandone spesso il pensiero
pur senza ripeterlo. Anzi Borrelh e Bozzelli stanno, 1’uno per la sua
genealogia del pensiero (com’ei chiama la sua filosofia dello spirito)
e per la sua critica di Kant, e 1’altro pel suo tentativo di morale
intellettualistico-utilitaria, al di sopra dei francesi; di 8 ‘ ba,la a
" a dala di P“*»bUM*lone delle opere di quest! filosofi e al
tempo (leir influenza da essi esercitata; giacché per a nascita due degli
ideologi furono più giovani dei criiicisti. il cui valore nondimeno fu
giustamente rivendicato nella storia della filosofia dall’ ottima
monografia del profes¬ sore F. Picavet su Les idéologues. Una pari
rivendicazione in prò dei confratelli italiani vuol essere in parte il
mio lavoro, mediante una larga notizia e uno schiarimento delle loro
dottrine. Onde ci son rimasti documenti notevolissimi in libri ed
opuscoli estremamente rari, nelle riviste del tempo e in manoscritti
ancora inediti. In mezzo alle due generazioni alcuni pensatori levano la
voce contro le tendenze materialistiche, palesi o nascoste, proprie
del pensiero speculativo di questi ideologi, traendo autorità e argomenti
dalla filosofia del senso comune del Reid o dall’ eclettico spiritualismo
di Cousin e della sua scuola. Non hanno nessuna originalità di dottrine :
ma con le loro esposizioni e coi loro commenti di molti libri francesi,
eco, per quanto fioea, di celebri filosofie europee, valgono a suscitare
o promuovere un moto di studi e di partecipazione al lavoro filosofico
straniero, onde a poco a poco si ringagliardisce la fibra del pensiero napoletano,
e si prepara una scuola di veramente alto e libero filosofare: da cui
uscirà l’estetica di Sanctis e la metafisica e la storia della filosofia
di BSpaventa. In questa parte la mia monografia studia scrittori filosofi
mediocri, testimoni di cotesta preparazione al risveglio filosofico posteriore.
Nella seconda generazione campeggiano due figure principali: Galluppi
e Colecchi: due kantiani, di cui
si può dire che la vita speculativa si consumi tutta nella meditazione
del criticismo. Ed entrambi riescono per due vie opposte al medesimo
risultato, che è di accettarlo sostanzialmente e di farne penetrare
profondamente lo spirito nella filosofia del loro paese. Galluppi
À combatte sempre, o quasi sempre, un Kant immaginario con le
armi del Kant reale ; e Colecchi combatte con le armi stesse un
immaginario Galluppi, o almeno un Galluppi che non è il vero, poiché non
vede di lui che la dichiarata opposizione al kantismo, e non scorge
mai il valore intrinseco delle dottrine da lui professate. Dalla
curiosa situazione di questi due pensatori, che genera altre false
posizioni nella filosofia italiana successiva, nascono, com’è agevole
pensare, due conseguenze: che la scuola dei galluppiani continuerà a
combattere Kant e tutta la filosofia tedesca posteriore, sempre
meglio conosciuta in grazia dell’influsso francese già accennato;
che la scuola di Colecchi e dei tedescheggianti continua per un pezzo a
disconoscere il vero valore del pensiero del Galluppi e di quella
filosofia italiana, che da lui prende le mosse : ossia della rosminiana e
giobertiana. Se da queste ricerche si sottrae la parte che concerne
Genovesi e Galluppi, si può dire che esse scoprano una regione presso che
sconosciuta nel campo della filosofia moderna. E poiché anche del
Genovesi e del Galluppi questo studio analitico della serie in cui
essi rientrano, pono sotto una luce in parte nuova e in parte più chiara
il significato e il valore, può pure affermarsi, che l’insieme di queste
ricerche colmi una lacuna nella storia della filosofia italiana, anzi
della europea. Vico, infatti, e l’interpetrazione di Vico, i due
termini al cui intervallo coleste ricerche si riferiscono, non sono due
capitoli della storia della filosofia italiana, ma due capitoli della
storia della filosofia europea: ed è difetto gravissimo quello che può
notarsi in proposito in tutte le recenti storie straniere della filosofia
moderna. Genovesi, Delfico,
Borrelli, Bozzelli, Galluppi e Colecchi sono nomi ai quali, una volta
conosciuti gli scritti a cui sono legati, devesi pur rovare un posto, e
non degl’ infimi, nel quadro degli u imi tentativi dell’empirismo
naturalistico e materialistico e delle feconde discussioni suscitate dalle
Critiche di Kant in ogni paese civile. Il trionfo dell’Idea in
Italia: Tari e Zio. Spaventa è stato nominato professore di filosofìa a Napoli;
e la sua nomina — scrive a lui stesso Meis, da Napoli è stata accolta in
questa città con una commovente impazienza dal pubblico. Ma
Spaventa chiede ed ottenne di tornare e restare qualche tempo a BOLOGNA,
dove è passato, da Modena, a insegnare Storia della filosofìa, per farvi
almeno il primo corso semestrale e non mancare al suo dovere verso BOLOGNA.
A Napoli, dopo una rapida corsa, non anda se non negli ultimi mesi
dell’anno appresso. È a Torino, perchè eletto deputato d’Atessa (ma la
sua elezione è annullata per eccedenza del numero legale di deputati
professori, quando gli pervenne la
seguente [Già pubblicato nella Critica; ma qui ristampato con molte
aggiunte. Vedi per questi particolari il mio Spaventa, Firenze, Vailecchi]
lettera di Zio, che è un curioso documento delle disposizioni degli animi
verso 1’hegelismo nella gioventù colta di Napoli, da cui lo Spaventa era
atteso: Napoli, Amico carissimo, Mi prendo licenza di
togliervi con questa mia una piccola parte del tempo che cosi
lodevolmente sacrate alla scienza. E per due ragioni. Per procurarmi
il bene di aver vostre novello, e per dirvi poi alcunché sul trionfo
dell’Idea, alla qualo abbiamo data la nostra fede. Sono
pervenute qui in Napoli parecchie copie del nuovo libro di Vera (V
Hégélianisme et la Fhilosophie). T. lavoro scritto con molta spiritosità,
e che non solo porrà a dovere 1’intelletto superficialissimo degli
ecclettici francesi, ma farà pure il suo buon effetto in mezzo al
dilettantismo filosofico de’ nostri dominatici. Si comincia a sentire
come il Pensiero sia P infinita misura e forza, che, battuto ogni
positivismo storico e morale, eleverà ad armonia vivente Essere e
Spirito, Natura ed Umanità. Son persuaso p. es. che Pesame, che tanto
ride dell’Jissere-per-si e della Fila
ridotta a Pensiero da Meis, cesserà di sparlarne così frequeutemeute,
dopo che avrà contemplato il gaio spettacolo che ha dato di sé
Jauet. Come Hegel disse che ai tempi della Rivoluzione francese una
nuova vita, un nuovo sole sorgevano per risplendere in mezzo agl’uomini,
noi possiamo dire che oggi il suo proprio principio filosofico, l’Assoluto
Spirito, è la forza che dove consapevolmente invadere ogni cosa, e
chiarificare le creature tutte quante di un raggio della idealità
infinita. Affrettatevi, amico, a partecipare alla gran vittoria. Felice
voi, che siete sì bene apparecchiato a questa lotta, che chiude nel
proprio grembo 1’ adempimento della libertà assoluta dell’ Uomo, e
quel regno di giustizia e di amore, a cui tutte cose corrono come al
bacio dell’ Universo, giusta il bel dotto di Schiller: Diesen Kur der
ganzen IVelt ! Il punto però che nel libro del Vera avrei desiderato
più estesamente sviluppato, è quello della pluralità dei mondi. I,a
dottrina di Hegel su questa materia non può essere difesa che movendo dal
principio dell’ Unità della Coscienza di si dello Spirito, unità che, nel
presupposto della pluralità de’ mondi, avrebbe fuori di sè i circoli
della vita siderea oltretellurici ; e cesserebbe d’ essere in conseguenza la
pieua ed una Coscienza di sè. A questa è necessario che tutto 1’essere
sia suo sapere. La dottrina poi dello Spirito assoluto, ne andrebbe, in
quel presupposto, interamente falsata. Noi non conosceremmo pili
l’Assoluto, come vuole Hegel, ma l’Assoluto umano. E, non potendo darsi
ripetizioni nello spirito, si dovrebbero porre, post’ i mondi come
innumerabili, intellezioni intinite, infinitamente diverse, dell’istesso Assoluto.
E dove sarebbe l’idealità, 1’unificamento di esse? Se si risponde: nell’Idea
medesima dell’Assoluto , altri potrebbe osservare che quest’ idea appunto
è quella che deve essere concreta nell’Umanità. L’Unità della Rivelazione
universale dello Spirito sarebbe sempre un postulato. Krause immagina una
sintesi superiore do’ pianeti e delle stelle; ma la comunione
dell’Umanità terrestre colla solare è sempre data da lui come un’
intuizione, come un desiderio! Anche Tari, riconosce nella
sua Lettera la necessità della pluralità de’ mondi. Ma in questa ipotesi
vedo sempre che 1’ indeterminato piglia il Inogo del sistematico, e che
il fantastico si sostituisce alla scienza. Diventa oramai necessario di
approfondire maggiormeute 1’ infinito matematico nel- 1’ influito
filosofico, e sottomettere cosi 1’ astronomia al concetto della finalità
assoluta, lo spirito. La lettera però del Tari appunto perchè, com’
ei dice, tiene il germe del suo proprio sistema, avrebbe dovuto
essere più lunga e scritta più chiaramente. Vi prego intanto
mandarmi una copia della vostra prolu¬ sione alla storia della filosofia
italiana, perché n’ ebbi ili dono nell’anno scorso una copia dal vostro
fratello Silvio; ma quando scesi in Basilicata per 1’insurrezione, la
sperdei a Potenza, e non ho potuto procurarmene un’ altra. Se poi
con questa mia preghiera dovessi riuscire indiscreto, allora usatemi la
cortesia dirmi presso chi è vendibile a Torino, perchè sarà mia cura
farla richiedere da librai napoletani. Quando portate a stampa il
vostro libro su Gioberti f Esso dovrà levar grido straordinario, secondo
che mi accennano i comuni amici, e per quanto ancor io presagisco dal
vostro ingegno. Date presto ; e nel frattempo compiacetevi di tenermi di
tanto in tanto consapevole de’ vostri stndii, e segnatemi quelle opere che
possono concorrere all’ aumento vero della scienza. I miei ossequi a
Tari ed all’ egregio De Sanctis. Se posso attestarvi in alcunché la uiia
devozione, comandatemi liberamente. Vostro amico Flokiano
Dei. Zio. AH’ Egregio Spaventa Deputato al Parlamento
Italiano in Torino. II saggio, da cui Zio prende le mosse, è
1 ’ Hé- gélianisme et la Philosophie (Paris, Detken), che Vera, allora
professore di Storia della filosofia nell’Ac¬ cademia di Milano, aveva
pubblicato poco innanzi per ribattere le critiche mosse ali* hegelismo da
Paul Janet e da altri scolari del Cousin. Pessima, discepolo di Galluppi,
dal Galluppi era passato al Gio¬ berti e dal Gioberti al Krause; e
mormorava contro Hegel e gli hegeliani 1 . La lettera di
Tari, a cui Zio accenna, è un articolo, uscito appunto nel fascicolo
della torinese Rivista contemporanea, col titolo: De’ rapporti del
Kantismo collo stato della filosofia in Alemagna, Lettera filosofica. Il
difetto di chiarezza la¬ mentato in questo scritto da Zio, e
divenuto poi sempre maggiore e sempre più caratteristico del- P
ingegno del Tari, che ingegno ebbe e una
certa bizzarra genialità fa dire a Spaventa, in una lettera a suo
fratello Silvio. Ho letto molti mesi fa un articolo di Totonno... Un 1
Vedi il mio Spaventa; Spaventa, La fllos. ital. in relazione con la fllos. europea,
e una lettera dello stesso Pessina nella
Critica articolo filosofico, come puoi immaginarti, sopra un punto
di estetica. Mi pare che abbia studiato finora per imparare a non farsi
capire. I tedeschi non sono facili a comprendersi, e la colpa è un po’
anche loro. Ma i più difficili tedeschi sono facilissimi di fronte a
Totonno; il quale mi pare che abbia preso da costoro più i difetti che i
pregi. Ti dico, in confidenza, che sono rimasto trasecolato; e che, dopo tanti
anni e con tanto ozio, mi aspettavo qualcosa di meglio da lui. Dopo tanti
anni! S’erano conosciuti a Cassino, quando Bertrando insegnava a
Montecassino; e il secondo giorno, seduti fraternamente sulla sponda d’
un letto, Bertrando apriva così la conversazione. Dunque, che ne pensate delle
categorie kantiane? Da lui Spaventa apprende i rudimenti del tedesco; e,
col suo aiuto, acquistato familiarità con la letteratura filosofica
tedesca. Nella quale Tari, chiuso nella solitudine di un villaggio
(Terelle, in provincia di Caserta), s’è sprofondato, accumulando una
meravigliosa erudizione. Questa però non valse in verità a rischiarare il
suo pensiero. Il quale dall’assoluto idealismo di Hegel finì
nell’agnosticismo del suo cosidetto Innominabile ; in cui credette si
'lovesse fondere in una unità superiore lo spinozismo e 1’hegelismo; in
quanto il divenire della logica presuppone un principio, che, essendo fuori del
divenire, è fuori della logica; e non si può chiamare Volontà, nè
Monade, nè Inconscio, nè Noumeno, nè altro; poiché ogni nome importerebbe
conoscenza, quindi un movimento di pensiero, quindi il divenire. È un’
essenza p 'ri SPAVBNTA < leU < scruti e (toc., ed.
Croce, Cotuono, Le lettere di A. Tari in diresa dell’ « Innominabile»,
Iranl, Vecchi, non battezzata e non battezzatile, l’Innominabile. Anch’io,
Bpecie di Lohengrin, difendo il santo Graal. Sapete qual’ è? La dotta
ignoranza, che Hegel chiama l’ignoranza dotta. Non è questo il luogo di
chiarire questo innominabi- liBmo o limitiamo, com’ egli anche lo chiama, di Tari. Giova piuttosto ricordare un
aneddoto di Spaventa. Il quale, richiesto di consiglio da uno scolaro del
Tari per una dissertazione di laurea circa il diritto di punire, gli
scriveva: Ti volevo suggerire di chiedere consiglio al nostro caro
Tari. Chi sa, l’Innominabile! Ma come cavare da lui il diritto di punire?
Mi ricordo di aver detto a Tari, quando fu nominato professore ordinario,
che la sua nomina era in contradizione coll’ esistenza dell’Innominabile,
principio, essenza, natura, causa di ogni cosa e avvenimento. Figurati il
diritto di punire! Tari, che di questa lettera doveva aver notizia dallo
scolaro, rispondeva a questo: Parliamo ora un pò del quesito, con cui mi tenta
1’ amicissimo Spaventa. Eccolo: Come concilieremo il diritto di punire con la
dottrina dell’ Innominabile? Se fossi profeta, o figlio di profeta, di
rimbecco direi : Vade retro, Satana. Noli tentare Tariiim admiratorem
tuum! Ma, non essendo Gesù, nè gesuita, mi contento di rispondere con un
tibi quoque. Ossia: Anche a te, o pensatore liberissimo, fa intoppo
questa pietra di giuridico scandalo? Anche a te metterebbe conto
salvar capra e cavolo ; cioè la capra della Feno¬ menalità di ogni fatto
umano, ed il cavolo della pretesa V. le mie Orig. della / Uos. contemp. in
Italia COTI’GNO, Leu. cit M Giustizia Assoluta? Eppure ricordo che,
disputando con me di questo brocardico, uscisti in questa
categorica sentenza: — La pena non è che una valvola di sicu- rezza
che la società impiega a garentirsi di chi la insidia 1 . E di fatto, il voler
costruire a priori un ma¬ nifesto modus rivendi essenziale, epperò
cangevole etno-crono-topograficamente è marcia follia. La Idea Giustizia
Assoluta anzidetto, s’ha a lasciare nel natio concavo della luna, insieme
al cervello dei tanti Astolfì dell’innatismo. Chi ben pensa, riconosce la
deplorevole povertà di siffatte deduzioni... Diritti e doveri, Pene e
ricompense non giacevano in seno a Giove, a mo’ delle uova dell’aquila
esopiana, ad aspettare che lo scarafaggio umano le facesse rotolare nel
basso mondo; ma si formarono, con un quasi stillicidio psicologico, a poco
a poco scavandosi un bucherello nel naturale egoismo. E tutta la
giustificazione delle pene, da quella del taglione e quella penitenziaria, che
è ancora in Werden si riduce a formare la necessità di salvarsi al
bosco dalle belve accoppandole, ed alla città dai birboni rendendoli
incapaci di nuocere. Ora quali sono i birboni? U1 e 11 busil tis; e qui
interviene P Innominabile a comporre la gran lite, illuminando i
legislatori sul da fare in sullo sdrucciolo del dispotismo, dove si
trovano sempre. Il codice penale, non che un bene in sè, è un
necessario male, presso a poco simigliante alla chirurgica estirpazione
di un arto, il quale, se curabile, anche a dilungo, l’operatore rispetta
religiosamente... Un innomi 'n^ 10 Spaventa avrà l )ure " sa[0 '(«està
frase. Ma la valvola per del delino, ! V ? Cbe neCessaria ' c °“>«
necessaria era l'insidia dello s r n e a,,a | S0Cie,A: d ’"'
,a necf8sUà Andata su"» natura o spirito, ossia sul concetto
concreto del bene. Il genuino pensiero dello spaventa intorno
all'assoluta giustificazione della pena é ne suoi Principi di dica, ed.
Gentile, p. 102 sgg. minabilista può solo affermare, in barba a tutti i
dottrinari criminalisti del mondo, come qualmente il barbaro Kedivè egiziano
funzionerà legalmente, da par suo, fucilando e forse impalando 1’ eroe
Arabi pascià, reo di non aver saputo nascere dove e quando dovea. Ed
in- neggerà al magnanimo Umberto, il quale, facendo grazia all’abietto
Passannante, confondeva molti tirannelli stranieri e mostravasi anche dappiù
del Re Galantuomo suo padre, cioè filantropo e progressista. In Oriente
il palo, in Occidente legislazioni che aboliscono il carnefice (v. ult.
lett. di Hugo): chi ha ragione? Secondo l’illustre prof. Vera ha ragione
il palo!... 1 Insomma, le cose anzidette tumultuariamente, a modo
mio, rispondono su per giù al caro mio tentatore Asmodeo Spaventa. Avviatosi
per la sua striida, Tari, dunque, negava coraggiosamente jT diritto come
diritto. Poeto-1’assoluto di là dal divenire, nel divenire, ch’egli
vedeva indirizzato a un Nirvana iperindividualistico, non poteva trovare
niente d’ assoluto. Per lui il magnifico proemio dello Spaventa ai
Prineipii di etica intorno al rapporto dell’assoluto col relativo, e quindi
al concetto dell’ assoluta relazione (per cui 1’ assoluta giustizia non
solo comporta, ma richiede per la propria realizzazione tutti i modi di
esistema cangevoli etno-cronotopouraficamente), non era stato scritto. E come
in quel concetto è il segreto dell’ hegelismo, era naturale che
egli non riuscisse ad orientarsi e a vedere la nullità del suo
Innominabile in quanto tale, in quanto sostanza, cioè di qua dallo
spirito. Il Tari fu insomma de’ tanti che girarono attorno a 1
A. Vbra pubblica un opuscolo La pena iti morte (risi, nel Sappi
filosofici, Napoli, Morano, dove svolgeva le ragioni del sistema
hegeliano in sostegno della pena di morte. COTUONO, Hegel, ricevendone
magari ispirazione e suggestioni feconde, senza scoprire il principio vero del
suo pensiero. Molti si ritrassero presto sconfortati dall’impresa;
etra questi Zio, che con tanto entusiasmo studia le opere e la
letteratura hegeliana; e ansiosamente aspetta i saggi di Spaventa (la
prolusione letta a Modena sul Carattere e sviluppo della filosofia
italiana e la Filosofia di Gioberti, per fede vaga che indi potesse
venirgli la luce. Zio allora si prepara a un corso di lezioni, sulla
Enciclopedia di Hegel. Al quale infatti proluse alcuni mesi dopo con una
enfatica lettura, la quale, come documento aneli’ essa de’tempi, merita d’essere
ricordata: Prolusione al corso di lezioni sulla Enciclopedia delle
scienze filosofiche di Hegel; letta in privato convegno: scritto pieno di
giovanile entusiasmo e di ardore filosofico. Oltre le opere del Vera, fin
allora pubblicate, l’Autore vi cita ed esalta 1 aurea operetta di Werder
(Logile, als Commentar u. Ergdnzung zu Hegels ÌViss. der Logik, 1 Abili,
Berlino Idèi) restuta incompiuta con grave danno di coloro che s’ iniziano alla
filosofia hegeliana; i Esquisse de logique di Michelet (Paris); e 1
Risi, in Scritti filosofici, ed. Gentile. Pallavicino, a una figliola del quale
lo Spaventa aveva privatamente Impartito qualche lezione, gii scriveva per
questo opuscolo: Amico pregiatissimo, l.a ringrazio della sua
Prolusione un magnifico lavoro il quale rnfiìf. -u- l Sn me . (le ?. l
. ller ‘° di vp| ter presto pubblicata la grande Opera eli Ella sta
meditando. Ammiratore di Gioberti. posso io non ammirare il suo degno
interprete: Spaventa? lo l’ammiro e i amo!
Pallavicino. Napoli, S. Marchese, IMI, di pp. 8-1 In 16». Reca
quest'epigrafe: « Essere, sapersi e volersi come la Personalità eterna
dello Spirito, ecco il line della lilosofla ». di questo le lezioni
Ueber die Persònliehkeit Oottes u. Unsterblichkeit der Seele, oder die
ewige Persònliehkeit des Geistes (Berlin); le quali quando sono
pubblicate, tenevano aspetto di polemica negativa in rapporto a certi donimi
dell’ intelletto; ma 1’avanzato sviluppo della scienza ha tolto loro il
senso irreligioso, che gli avversarti accaniti dell’ hegelianismo
volevano a forza vedervi dentro. E debbono così considerarsi come
la teorica potente della nuova sintesi dall’ umanità: ciò che appare, nota Zio,
dell’opera maggiore di Michelet, Die Epvphanie der ewigen Persònlichkeit
des Geistes. A proposito del problema hegeliano del punto di
partenza fenomenologico e logico della filosofia, l’autore dichiara
di sperare che le difficoltà sarebbero state da lui sciolte più
chiaramente nelle note a una sua traduzione del System der Wissenschaft,
ein philosophisches Eincheiridion (Koenigsberg, 1850) del Rosenkranz :
che avrei di già pubblicata senza la tirannide borbonica, o la guerra
che tutto il mondo ha fatto e fa presso noi al libero pensiero. Un altro
suo lavoro concerneva la filosofia di Krause, la quale, specialmente per
mezzo di Ahrens (il cui Corso di diritto naturale , è molto letto
dagli avvocati di Napoli, ed era stato anche tradotto già due volte in
italiano, da Francesco Trincherà e da Vincenzo De Castro 1 ) poteva dirsi
« in qualche modo popolare nelle nostre province ». « Le sue Lezioni
sul sistema della scienza (Vorlesungen nb. System der Philos.,
1828)», dice il Del Zio, « e 1’ampio sviluppo enciclo- 1 Corso Ul Diruto
naturale o della ftlos. del dir. traci, da Fr. Trincherà, Napoli. e Capolago. Nuova trad. eseguita sulla
quarta ed. dal prof. V. De Castro, 2. voli., Napoli, Stab. Tip. dell'Ancora.
Più tardi la sesta ed. (uscita in ted., Vienna, è trad. in italiano da
Margllieri, Napoli pedico eh’ egli tentò dare a tutto lo scibile rivelano
in classico modo il fermento incommensurabile dal quale era
travagliata 1’intera Allemagna alla vigilia dell’ apparizione d’ Hegel sul
teatro della scienza. Ma in Krause c’è il presentimento della scoperta,
che fu fatta invece da Hegel; e questo giudizio era il risultamento di
una conveniente disamina. A tanto speriamo di adempiere più tardi,
pubblicando un nostro lavoro, che ha per titolo: Studii sul rapporto del
Sistema della scienza di Krause a quello di Hegel . Appunto per quella
certa popolarità che il Krausismo aveva acquistata anche nel
Napoletano, Zio stima opportuno che fosse discussa la sua teorica generale da’
cultori della filosofia. Se non cominciamo a disputare pubblicamente
sulle nostre convinzioni speculative, il trionfo della scienza e il
progresso della nazione non saranno nè liberi nè universali L’opuscolo è dedicato ai napoletani con
parole di questo tono: A voi dedico, o
fratelli, questo piccolo lavoro, il quale non è altro che il
programma dell andamento scientifico, a cui dovrebbe avviarsi, secondo le
mie convinzioni, il nostro paese, per essere in armoniu coll’ indirizzo
generale della scienza in Europa. Se vi parrà vero, Voi, più che me, potrete
condurlo ad atto, perchè 1’ amico vostro, comechè giovane, è già percosso
dai dolori dell’ animo e dalle sofferenze lei corpo che 1’opera
dissolutrice della tirannide seppe in molti generare negli anni scorsi».
Continuava annunziando che, accettato il suo programma, tre fiamme divine
sarebbero venute ad accendere 1’ anima dei napoletani : tre sedendovi d’un
unico sole, il libero Pensiero; le tre fiamme della Filosofia, della
Rivoluzione, dell’Amore. Colla prima darete fine alla superstizione del
Papato, la più maligna fra quelle che ancora corrodono lo spirito moderno.
Colla seconda scrollerete il dritto divino ed ogni altra specie
d’irragionevole imperio. E coll’ ultimo tramuterete le rovine in
creazione eterna di bellezza e di verità ; costituirete I’Italia, e
getterete il fondamento alla fratellanza democratica di tutta
Europa. Svolto brevemente il concetto della Fenomenologia dello
spirilo, per mostrare come lo spirito sia necessariamente condotto dalla sua
interna dialettica al punto di vista del sapere assoluto, il Del Zio
schizza con pochi tratti l ’ideale della scieina, a cui egli
invitava con molto calore: Deliberando di seguirmi fraternamente nel
mondo del sapere, renderete testimonianza dell’ istinto divino che move
lo spirito del nostro tempo, e della vita novella d’Italia resa a sè
stessa ed alla sua naturale grandezza... Il nuovo metodo
dell’insegnamento filosofi co è il metodo della morte e dell’ amore
assoluto, della morte alle cose finite e a se stesso, e dell’ amore per
1’ assoluto, in cui lo spirito deve rinascere. Quindi combatteva le obbiezioni
mosse all’ hegelismo dalla corta vista dell’intelletto 1 o del sentimentalismo
ipocrita della santocchieria. Ai filosofi dell’intelletto, del pensare finito
addebitava la loro incosciente predilezione dello scetticismo e del
nullismo: e dimostra che « non solo il sapere assoluto è possibile, ma
che esso è 1’unicamente possibile; poiché ninna realtà finita, naturale o
spirituale, può dirsi conosciuta fuori del sistema, in cui essa va
concepita. Ai mistici di buona o di mala fede, cercava d’ additare il
carattere intrinsecamente religioso della filosofia hegeliana,
nella quale la verità della religione non è negata, ma trasfigurata e
fatta valere per la ragione, assolutamente. In- 1 Intelletto
(Verstand), nel senso di Hegel. fine, combattendo anche lui il
pregiudizio, allora saldissimo tra i giobertiani di Napoli, del primato
italico- e della filosofia nazionale, sosteneva, a simiglianza di Spaventa,
che la grandezza del nostro spirito non è tanto nel sapersi precursore di
tutto l’incivilimento occidentale, quanto nel prevedere che dev’ esserne
il successore eterno. Si ammira Vico: ma egli travaglia por tutta
la vita per provare che uno spirito solo regge il mondo delle nazioni,
che una è la mente dell’Umanità, e che un piano ideale stringe in armonia
assoluta la totalità de’ fatti politici e le forme svariatissime
del1’intera vita sociale. La storia della filosofia è davvero un’ opera unica,
una sola attività produttrice. Le frutta abbondanti di quei primi pensieri
filosofici, che gl’ italiani destarono nella coscienza umana sono
appunto i grandi sistemi della filosofia moderna... Nutricandoci del supere e
della vita europea, noi vendicheremo lo spirito de’ padri nostri,
celebreremo la festa di commemorazione a quel Risorgimento, che il papato e
l’Impero soffocarono nel sangue di tutta la Penisola: sopra tutto a
Bruno, la cui vita randagia per 1’Europa, ma COMINCIATA IN ITALIA E IN
ITALIA TRAGICAMENTE FINITA, sembra a Zio il simbolo divino del corso storico
della filosofia moderna nel mondo. E col ricordo della vita del Bruno e
un invito a vendicarne la morte facendo tornare in Italia la sua
filosofia arricchita nel suo secolare viaggio, termina questa
prolusione. Cinque giorni dopo legge nell’ Università la prolusione al suo
corso Spaventa, tornando a trattare il tema: Della nazionalità nella
filosofia. Fiorenti Waddingtoìi e Spaventa Affrettando col desiderio la
pubblicazione dell’ impor¬ tante carteggio della marchesa M. Fiorenti
Waddington tuttavia posseduto dalla famiglia di Francesco Fio¬
rentino, gioverà spigolare tra le carte dello Spaventa, alcune lettere e
ricordi di questa egregia donna, che non ci paiono inutili alla storia
della fortuna di Hegel in Italia. Quando la Florenzi entrò in rela¬
zione con lo Spaventa aveva passata la sessantina, essendo nata: da
Schelling è giunta fino a Hegel: dall’ammirazione del Mamiani, per la
conversazione frequente con Fiorentino, che da Bologna andava spesso a
Perugia ospite suo, era potuta passare a quella del critico severo della
prefazione, che il Mamiani aveva premessa alla sua traduzione del Bruno
di Schelling 1 . Prefazione desiderata da lei, che ne caròla
promessa con un certo imperio di belletta che. ancor possiede, come ROVERE
scrive al suo fratello;* prefazione piaciuta già allo stesso Schelling. 3
Ma ben presto la marchesa tedescheggiente e libera pensatrice e il conte
italianissimo e cantore dei santi cattolici, s’ erano accorti di non potersi
intendere. In una lettera Mamiani le rimprove- Vedi Spaventa, Saggi
di critica. Napoli, Gliio. Intorno alla Florenzi v. le mie Origini della,
fllos. contemp. in Italia IMamiani, Leti, dall’ esilio a cura di E.
Viterbo. Roma In una sua lettera a un suo amico, Maraiant scrive: «Quantunque
lo vi discorra della tllosolla tedesca moderna con gran franchezza di
giudicio, lo Schelling non se ne tiene punto mal soddisfatto, e scrivendo
alla traduttrice, che è la march. Florenzi, ha detto di me parole onorevolissime.
Cfr. il Bruno stesso, ed. I.e Monnier, Leti Cfr. la lett. al fratello
rava di ragionare un po’ alla tedesca, e , non avendo alla mano ragioni
ferme ed evidenti, essersi rairolta della nebbia del suo grande maestro,
lo Schelling. L’ anno appresso le scriveva: « ìli congratulo molto con voi
dello studiare indefesso che fate e dello involgervi coraggiosa tra
le tenebre sacre della metafisica di Schelling. È quasi un addio dalla spiaggia
a chi si avventurava per il rischioso viaggio! Sul principio del
18GB, la Fiorenti pubblica i suoi Filosofemi di Cosmologia e di Ontologia
(Perugia, Bartelli) ; e Fiorentino, che dove scriverne una
recensione, nella Rivista Italiana (o Effemeridi della P. di Torino),
la incita a mandarne un esemplare a Spaventa. Quindi la seguente
lettera: Signore, Se un nostro amicissimo, e molto suo
conoscente, non m’ incoraggiasse a mandarle il mio libretto testé stampato, io
non oserei inviarglielo. Esporlo al giudizio d’uno de’ più distinti
lilosofi è al certo temerità più die grande. Ma io mi affido più assai
all’ indulgenza di cui sono capaci i grandi uomini, e temo maggiormente i
piccoli. Ardisco ancora dimandare il suo leale, franco giudizio e la sua
severa censura; ed ancbo la disapprovazione mi sarà più cara assai di
qualsiasi complimento. È dunque sotto l’egida del nostro amico che
il mio libretto vieue a cercarla. Mi abbia per iscusata s’io l’incomodo
por cosa di sì poco valore; ma, le ripeto, io riposo nella
indulgenza sua. Me le offerisco e raccomando. Perugia,
Obb.ma M. Marianna Florenzi WAnDiNcroN. Spaventa in ricambio le
mandò il suo volume Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia,
starn- 1 Lett. pato1’anno innanzi ; a cui la Florenzi fece gran
festa, diffondendolo nel circolo di letterati e filosofi, 1 che si
raccoglievano intorno a lei. € Dono prezioso, scrive all’autore, di cui
mi valgo per miu istruzione e per ammirare uno de’più grandi filosofi (o
il più grande), che ora dia fama alla nostra nazione. Da
altre lettere della colta gentildonna si rileva che tra gli ammiratori
guadagnati da lei allo Spaventa, desiderosi di leggere i suoi scritti, v’ erano
anche delle donne. Tanto poteva 1’esempio della Florenzi! Questa
manda a Spaventa un suo piccolo discorso sojrra l' Eleroyenia che doveva
essere stampato coi Filosofemi. È instancabile. Quando Spaventa le manda la
memoria su Le prime categorie della logica di Hegel, ella poteva
annunziargli un suo nuovo lavoro, che avrebbe toccato anche
quell’argomento (Saggio di psicologia e di logica, Firenze). Mi preme sempre di
leggere le cose sue, e per questo ho indugiato a dirmene grata e
riconoscente. Non ho parole per esprimerle quanto quella lettura mi abbia
soddisfatta. Un ingegno come il suo non poteva a meno di escogitare fino
al fondo l’argomento trattato, ed in vero non c’ è nessuno che abbia
penetrato tanto addentro la dottrina e le intenzioni di llegel, il più
formidabile dei tedeschi filosofi. Ella ha ragione: chi è mai entrato sì
puramente nella scienza del filosofo? Tanto più piacere mi ha
recato il suo scritto in quanto che io aveva già compiti due capitoli del
libro che scrivo ora: Il divenire e V essere e il non essere, pen-
Cfr. la Necrologia che scrisse di lei il Fiorentino, in Scritti vari,
Napoli siero ed essere. Quanta istruzione io posso ricavare da lei!
Dunque, per tutto il piacere e per tutto 1’ utile ricevuto io ne la ringrazio
di cuore ed anima » (Lettera). In una poscritta d’ una delle sue
lettere la Florenzi scriveva allo Spaventa: «Vi prego di fare il
grande sforzo di rispondermi al pili presto » . Spaventa, infatti, è
tardissimo a scrivere, anche se chi aspettava era una dama così gentile.
Il Fiorentino badava a fare le sue scuse. Così, in una lettera a
Spaventa, gli scriveva : Alla marchesa Florenzi ho parecchie volte detto
quale sia la vostra indole, perciò non ho durato fatica a persuaderla
della vostra trascuranzn nello scrivere. Ella ha sotto i torchi due
saggi, uno di logica e 1’ altro di psicologia, ed aspetta di averli
in pronto per rispondervi. Credo che li avrà prima che il mese finisca.
Li ha composti con l’intendimento di dare due lavoretti elementari, e mi
sembrano molto giudiziosi e precisi e chiari, da qualche capitolo almeno
che ho scorso, correggendo gli stamponi che le venivano quando io ero
colà. A proposito di lei, che cosa avete fatto per l’Accademia, di cui mi
parlaste costà? Io non le ho detto nulla, com’ era vostro desiderio ; e
sarebbe cosa ben fatta se si potesse effettuare, perchè veramente è
una donna meravigliosa per 1’ ardore che ha per la scienza. Spaventa
aveva pensato di premiare la nobilissima operosità e il virile animo,
onde la Florenzi proseguiva gli studi filosofici, facendola ascrivere
all’Accademia delle scienze morali e politiche di Napoli. Nomina
che la scrittrice gradì molto, e ne fregiò il frontespizio de’ suoi
libri pubblicati dopo. Primo il Saggio sulla natura (Firenze), che è
dedicato appunto allo Spaventa: non per orgoglio , ma soltanto perla
fiducia che gl’ ingegni, quanto più sono alti , tanto maggiore indulgenza
tisano alle persone di buona volontà. Gliene chiese licenza con una
lettera molto modesta, dove sono espressi gli stessi sentimenti della dedica a
stampa, e da cui s’ apprende che il Saggio era da tre mesi in
tipografia. È a Napoli Waddington, marito della marchesa, ed ebbe dallo
Spaventa liete accoglienze. Egli se n’è tornato, scrive Fiorentino,
contento di aver conosciuto un uomo del vostro ingegno e con quella
franca ed ingenua indole, che è segno infallibile. E come a Napoli si
prepa¬ rava, in occasione d’ una esposizione di cotone, un Congresso
scientifico italiano, la Florenzi contava di venirci anche lei; come
infatti ci venne: «Ebbi la vostra memoria 1 che ho letta con grande attenzione
per racco¬ glierne quell’ utile che sogliono apportare i vostri
scritti. Evelino fu molto contento di conoscervi e lo sarò pur io
fra poco, perchè ai primi di agosto contiamo di essere costì nuli’
ostante gli eventi del monito. « Mi faceste dire di fare un qualche
piccolo discorso per 1’ occasione del Congresso; e 1’ ho tracciato
alquanto, e per distenderlo vorrei la certezza se si fa o no
codesto Congresso. Io presumo che no, stante 1’ imminenza
della guerra ; nulla di meno vi prego a scrivercene una riga ; ed
ancora più mi preme sapere se vi troverete in Napoli a quell’epoca, o alla
campagna, ed in quale campagna, od in quale città ; infine, mi direte dove
dimorerete. La dottrina della conoscema di Bruno, pubbl. negli Atti
dell'Acc. delle Se. mor. e poi. di Napoli; risi. In Saggi di critica pp.
Una lettera ha un certo interesse, per l’accenno che vi si fa al discorso
Della immortalità dell’ anima umana, che la Florenzi pubblica. Io mi
preparo o mi sono già preparata a scrivere un opuscolo sulla immortalità
dell’anima: problema scabroso! ma che voglio sostenere perchè sento 1’
immortalità dentro di me e voglio essere immortale a tutti i costi. Sarà
dolorosa ai feuerbachiani miei amici 1 la mia assoluta
opposizione». Nè anche gli amici hegeliani, non feuerbachiani,
d’Italia fecero plauso all’ assunto della marchesa. E Spaventa allude forse,
con quell’ ironia che gli era propria, al discorso poco persuasivo della
Florenzi, quando, scrivendo a Meis, la chiama: la nostra immortale
Marchesa, immortale almeno come, socia della Beale nostra
Accademia! L’intimo pensiero di Spaventa sull’ immortalità
dell’ anima individuale apparisce dal principio d’una malinconica lettera
da lui scritta a Meis; dove ricorda la sua prima figliuola morta a tre
anni: Napoli, Mio caro Camillo, Spero che la festa di quel sant’
nomo del De Lellis, tuo omonimo concittadino e la tua, ti riconoilieranno
cogli amici. In particolare io conto sulla reminiscenza, anche
involontaria, di que’ maccheroni al pomidoro; di quella Irittata e di
quelle cocozzelle, oramai divenuti celebri no’ nostri annali
domestici. Via de’ Fiori a San Salvario, n... Il numero non lo ricordo 1
II Ff.ii* *riiach, coni' è noto, nel Gcdanhen iiber Tod und Sterb- li chhe
il sostenne la mortalità dell'anima. J v. scritti filoio/lci. ed. Gentile San
Camillo De I.ellis, di Bucchianico, patria di Meis. Recapito dello
Spaventa a Torino. Il numero era 23. Isabella Scano. moglie di Spaventa,
a lui sopravvissula, morta più, e non ho tempo (li consultare la signora
Isabella, che attende alle faccende di casa. Non lo ricordo; ma fa lo
stesso: ricordo il luogo, il prato, la soala, il piano, le stanze e
il mio tavolino da lavoro, e tutte le miuchionerie che scrivevo :
le cose futili e le serie; il mio chiodo Bolare e i misturi hegeliani svelati ;
e te che venivi ogni giorno, angelo consola¬ tore, e le chiacchiere che
facevamo insieme; e la mia povera prima Mimi e lo sue ultime parole: Papà
lavorai Papà lavora! Io non so so (|uella casa sia rimasta ancora in
piedi; oramai non vedo piti Torino da circa vent’ anni : ma ella sussiste
tuttora qui, come forse non ha mai meglio esistito iu realtà, nel mio
cervello, o, come (licevano una volta, nell’ a- nima mia; o non si
dileguerà se non quando questo cervello (Papà lavora, Papà lavora), non
ci sarà piti. E che ne sarà! Che significa nou esserci pi fi i Diverrà
proprio nullaf Eppure è stato ed è. O ci è proprio uu modo di essere che
non è sussisterei E sussistere cos’ài 1/orgoglio e la balordaggine
umana ha trovato lo consolazione: tutto nasce e perisce, è vero, ma gli
atomi restano, e son sempre quelli, non mutali mai. Bella scoperta! me li
fo fritti gli atomi, io. Troppo serio per la festa di San Camillo ;
troppo malinconico, anzi. Ma va e freua la mia fantasia! Spaventa, non occorre
dirlo, non era materialista. Ma nella concezione hegeliana della natura e
dello spi¬ rito non trovava posto per lo spiritualismo astratto,
e quindi neppure per l’immortalità personale. Il primo scolaro (li
Spaventa ( Fiorentino). Battaglie carducciane ancddote. Nella
nota polemica con Acri Fiorentino dice di aver conosciuto tardi Spaventa,
e poco prima i suoi saggi. Letti i suoi saggi, intravidi un altro
mondo, e mi parve rinascere. Allora ero professore a Maddaloni, e stavo a
Napoli. Tra i molti che si preparano a combatterlo c’ero io; ma,
lettolo, mi sentii tirare verso lui, e capii che i suoi avversarii
non valevano neppure i suoi calzari. Quale fu la mia maraviglia, quando
dai più sinceri riseppi, ch’ei non avevano lotto nulla di lui, e che lo
combattevano, perchè volevano combatterlo, senza sapere perchè! Allora
infatti egli si presentò allo Spaventa. Ma, quando, sullo scorcio, ANDA A
BOLOGNA professore di Storia della filosofia, non E aveva visto che due
volte o tre. L’ultima di queste ne ebbe consigli e suggerimenti circa gli
studi per cui la Biblioteca Universitaria di BOLOGNA avrebbe potuto
offrirgli E opportunità. Giacché da Spaventa egli è stimolato a
intraprendere quelle ricerche sui nostri filosofi del Risorgimento, da
cui provennero le sue opere più importanti. E quando si divisero, Spaventa dove
annunziargli il saggio, che allora stampa, Prolusione e introduzione alle
lezioni di filosofia, dove Fiorentino trova uno SCHEMA DELLA STORIA
DELLA FILOSOFIA ITALIANA. Glielo inviò poi infatti con una lettera, della
quale possediamo la risposta: Mio carissimo amico, La vostra
lettera e il vostro libro lungamente aspettati mi sono arrivati
carissimi. Mi son messo subito a leggerlo, e posso dirvi di averne scorsa
quasi la metà; se non che intendo rifarmici sopra, come prima avrò
satisfatto l'impaziente desiderio con questa prima lettura. Voi mi
riuscite sempre profondo e stringato ragionatore; oogliete nel
criticare il nodo del sistema, c ne mostrate lo scioglimento cosi
lucidamente che meglio non si può. lo vi ho sempre tenuto, e vi tengo a
ninno secondo nell’arto difficilissima della critica filosofica, eh’ è
quella appuuto, di cui NOI ITALIANI abbiamo La fllos. contemp. in Italia,
Napoli, specialmente bisogno, serondochè voi avete maestrevolmente
notato. Le considerazioni su la lìlosofia nazionale sono esatte, e
l’indole della filosofìa del Risorgimento, che io ho letta fino a Bruno,
è scolpita cou molta fiuezza, e contorni assai rilevati. Le osservazioni
su l’antichissima sapienza degl’italiani di VICO, e ricavate qunuto al fondo
dalla Scienza nuova, sono inappuntabili; ed a rifiutarlo bisognerebbe
disconoscere la teorica della parola dal Vico medesimo adottata. Io mi
rallegro di tutto cuore con voi, mio carissimo amico, ed auguro all’
Italia molti uomini che vi rassomiglino. Negli scrittori, come negli
uomini, a me piace la lealtà del manifestare le proprie convinzioni,
quali che si fossero; la coscienziosa ricerca nel formarsele, ed il saldo
proposito del sostenerle. Ora invece si scrivacchia e si cinguetta a
sproposito, e più ilei nomi e dell’autorità si fa caso, che non della
verità eterna ed immutabile. Voi siete molto opportuno nelle condizioni
poco prospero del nostro paese, e gran bene potrete fare. Esperto come
siete di gran parte delle nostre città, dovete conoscere meglio di me,
che cotesta o nessuna può spingere e continuare il movimento della
italiana filosofìa. Qui se ne ha pochissima cura: alla mia scuola usano
pochi uditori, alle altre della mia facoltà meno che pochi, o nessuno.
Per buona ventura è venuto qua a continuare i suoi studi filosofici un
bravo giovane delle provincia meridionali, un tal JAJA (si veda), quel medesimo
che mi accompagna, quando presi commiato da voi. Ila buon ingegno, e
buona volontà, eh’è ancora più rara no’ nostri. Altri vanno e vengono più
per curiosità che per vaghezza ili studio: sono le comete di tutte le
cattedre. Tra pochi altri giorni vi manderò la Prolusione che lessi
qui, e che ho fatta inserire sul Progresso che si stampa costà. Me no
aspètto vostro giudizio, che quanto so che sia competente, altrettanto voglio
che sia ingenuo e franco. Voi sapete che io non mi sdegno dell’essere
appuntato e corrotto: amo la verità più del mio amor proprio. A SAGGI
FILOSOFICI qui si sta molto male, e sebbene mi sia stato promesso che
qualcheduno dei più necessari si farebbe venire, pure io ci conto molto poco
per la scarsezza dell’assegnamento di cui gode questa Universitaria Biblioteca.
Avrei bisogno di buoni espositori di Platone e d’Aristotile, perchè
questo anno mi occupo della filosofia greca, e intanto, tranne alcuni
commentatori antichi, non si trova altro. Ho fatto venire «lei mio la
esposizione della Logica aristotelica di Barthólemy; ina a far venire tutto a
proprie spese come si riescef ìi questo per me un gran contrattempo, c,
senza le vostre prevenzioni, quasi inaspettato o iuusputtabile. Chi
diamine poteva credere che la dotta Bologna viveva ancora in
pieno Medio Evo pi Pomponazzi ci è il solo libro dell'Immortalità. I
manoscritti di Boccaferrato versano più su la tisica aristotelica, che su
la metafisica: ed oltre a ciò sono poco agevoli a leggere, e a parer mio
ili poco giovamento. Ho trovato pori» Scoto Erigena, e Patrizzi, che
costà non mi era riuscito avere. Oopo che avrò letti questi, mi metterò a
studiare la storia della filosofia indiana del Colebrooke, che voi mi
diceste buona. * 1 Mi dimenticai l’altra volta di dirvi, che Vittorio
Cousin scriveva alla Florenzi una lettera sn quel mio lavoretto intorno a
Bruno, dove sentenziava degl’italiani a modo suo. È piuttosto una lunga
lettera, di cui io ho copia, che vi manderò, se vi aggrada leggerla.
Parla altresì di VERA (si veda). Ecco quante ve no ho dette, e forse vi avrò
annoiato: ma io sentiva il bisogno di trattenermi con voi, e P ho fatto
alla mia usanza, e senza riserva. Io, oltre all’ammirarvi, vi amo
assai, e stimo che questo all’etto che vi porto renila più scusabili le
molte ciarle che faccio nello scrivervi. Quando avrete tempo scrivetemi,
perchò mi è caro comunicare con qualche spirito privilegiato ed amico in
tanta solitudine in cui vivo. Se potessi in qualche cosa adoperarmi per
voi, mi terrei fortunatissimo di farlo. Addio, adunque, mio
carissimo amico, ed amate Di Bologna. Il tutto
vostro Fiorentino. Colebrooke, celebre indianista, presidente della
Società Asiatica londinese, autore degli Kssai/s on thè Vedas and on thè
phtlosophu of thè llindous nel I voi dei Misccllaneous Essaj/s (London); — e a
parte: Essays on thè relii/ion and phtlos. of thè Hlndous, London Tra la corrispondenza Inedita del
Cousin ci sono lettere di Fiorentino: vedi Gentile, Albori delta nuova
Italia, La prolusione al corso di storia della filosofia è da Fiorentino
pubblicata nel Progresso di Napoli; ma non venne più ristampata. È
infatti ancora un documento della fase giobertiana del pensiero di Fiorentino,
quantunque vi appariscano le prime tracce dei nuovi studi e delle nuove
tendenze dell’ autore. Giova riferirne qualche brano: Il
pensiero, o signori, regola il mondo o lo riempie, perché esso è la
pienezza ed il vigore dell’ essere : è la sua compenetrazione, e la sua
identità. L’ essere senza il pensiero è sparpagliato, disterminato, e però
incompiuto e Unito. Imperocché l’essere compie se medesimo geminandosi,
vale a dire facendosi principio e fine; ed il mezzo, pel quale esso si pone
e conclude, è il pensiero, la relazione, l'identità suprema.
Se non che esso nel mondo inorganico si occulta inconsapevole, eil in
certo modo seppellito, comincia ad agitarsi operoso nel vegetale, si va
sempre pifi disimpacciando dal grave involucro della materia nella forma
dell’animale; e si sveglia libero e padrone di sé filialmente nella
coscienza umana... Il pensiero divino che trasparisce attraverso
tutto il creato, si che ogui cosa, secondo la frase biblica, appaia
piena dello spirito di Dio, non parla poi e non si rivela ampiamente, se non
nella coscienza dell’uomo. Il resto della natura è parola scritta,
rinchiusa, direi quasi cristallizzata: l’uomo solo è parola viva e
palpitante. La dualità di natura e spirito non è insuperabile. Essa
inette capo « nell’ unità cosmica ». E in virtù di questa la natura tende
allo spirito; che comincia bensì aneli’ esso come forza individua
partecipante all’ università del cosmo ; ma esso si generalizza
pensandosi. Do spirito è l’attuazione compiuta dell’unità cosmica, e
ciò che questa è in potenza, ed esso è in atto. Or quando lo spirito si
abbia assimilato la natura e sé stesso per quella serie di sviluppamenti
che va spiegata nella Fenomenologia, egli, a rendere scientifico il suo
processo spontaneo ed incosoio di sé, si rifà sopra il cammino fatto. E può
rifarsi in tre modi. Quando rigira sè in sò, dà luogo a quel ripensamento
che si dice riflessione psicologica; e quando si ripete su la natura,
partorisce la riflessione detta da Gioberti ontologica. Ma sopra eoteste due
guise di riflettere, ve u’ ba una terza, che lo vince di pregio e di
amplitudine, vale a dire la riflessione logica, nella quale lo spirito si
rivolgo su la sua azione medesima, sul proprio pensiero... su la natura
e 10 stesso spirito è Dio, ossia l’unità vera, l’unità che
non è il moltiplico, ma lo fa. Se l’unità cosmica fosso tutto, l’ultimo
grado del pensiero sarebbe la riflessione psicologica e l’ontologica, e
la logica non sarebbe possibile. V’è logica, perché v’ha un assoluto
perfettamente uno; v’è la logica, perchè v’è Dio... Da logica è dunque
l’unità finale della cosmologia e della psicologia, come la protologia n’
era stata 1’ unità primitiva. L’unità assoluta, ’unità cosmica,
1'anima, il concetto; ecco le quattro gradazioni, per le quali passa
il pensiero speculativo, produceudo una scienza eh’è la prima e la
massima, e che comprende la protologia, la cosmologia, la psicologia e la
logica. Venendo alla storia della filosofia, Fiorentino dichiara che il disegno
della storia si deve modellare su quello della scienza : sicché la storia
dev’ essere essa medesima un sistema. « Una storia che non fosse un
sistema ma un’ imbastitura di fatti racimolati qua e là, non sarebbe
meritevole di tanto nome». Quindi la connessione da preferire tra i vari
sistemi è quella logica. So bene io essersi talvolta tenuto conto o della
successione cronologica, o della continuità etnografica; confesso
che queste maniere contengono qualche parte di vero ; che il tempo
maturi ed incalzi le deduzioni della logicn ; che la scienza alcune volte
si sviluppi come un dramma vivente in una nazione: nondimeno il pensiero,
essendo di natura estem¬ poranea ed eslraspaziale, mal si potrebbe
acconciare tra questi angusti cancelli... Egli è da maravigliaro intanto
come fra tanti che hanno trattato la storia della filosofia quasi
uiuno abbia fatto capo dellu genesi logica dei sistemi, salvo
l’Hegel in cui celesta legge si appalesa inflessibile come il fato;
e nelle cni mani la storia si trasforma in una geometria, dove
nulla viene lasciato all’arbitrio del pensatore. Hegel accorcia e
distende i sistemi come il Procuste della favola, affinché tutti
ripetessero costantemente il ritmo prescelto della tricotomia. Richtor inchina
per contrario a sostenere l’au¬ tonomia delle scuole e dei sistemi ;
sminuzza, taglia i nervi, e leva di mezzo ogni addentellato. Nel primo 1’
uniformità ò monotona, nell’altro la varietà rimaue disordinata ed inorganica.
Contemporaro però questi due estremi, badare alla continuità del pensiero
universale, senza disconoscere l'influenza individuale, è proprio mettersi sul
giusto mezzo, ed in postura convenevole, onde si possa portar giudicio
sopra i sistemi. E qnando dico sistemi, io non guardo alla breccia
, ma alla radice: non all’aspetto subbiettivo, o nlla convinzione
del filosofo, ma alla materia, eli’ è stata fondamento della sua
opinione. Voglio vedere non quel ch’egli crede, ma quali cause lo abbiano
sforzato a questa credenza. La storia della filosofia presuppone un sistema,
che sia come il regolo con cui conviene riscontrare e mi¬ surare le
dottrine. E dalla maggiore o minore ampiezza del criterio di una storia,
dipende il valore di questa. Hegel ha immedesimato la storia della
filosofia col suo sistema, affermando non essere tutti gli altri se non momenti
del suo, e (singolare ardimento!! egli non si è peritato di piantare le
colonne di Ercole della filosofia ! L’avvenire giudicherà di lui,
provando coi fatti, se dopo la grande Enciclopedia ancora allo spirito
umano qualche cosa rimarrà da fare. Infine Fiorentino tocca la questione
di una FILOSOFIA ITALIANIA contestata dagli storici stranieri. Mettendo n
rassegna le nazioni filosofiche di Europa, Hegel tripartisce il mondo
della filosofia moderna, maiorasco inalienabile, tra l’Inghilterra la Germania
e la Francia... Il Cousin di poi, n cui non tornava conto una terza
nazione, non avendo una tripartizione a fare, ridusse le partite, e
diede luogo a due nazioni soltanto, alla Germania ed alla Francia. Il
professore di Berlino e quello della Sorbona si trovano peri» d’accordo
nel diseredare l’Italia. E perchè 1 Forse Telesio e Galilei non parlarono
mai del metodo sperimentale? Bruno non mosse dall’unità della sostanza
prima ancora dello stesso Spinoza? Campanella non iniziò la osservazione
psicologica? E Vico non partì dalla conversione del vero col fatto,
statuendo il fondamento più solido cito potesse avere la filosofia? Nulla
di tutto questo, o signori; tre termini bisognarono all’ Hegel, due al
Consin, e per noi non rimase luogo. L’Italia, se diamo retta alle
divisioni di oltremonte non ha fatto mai nulla, non ha pensato mai
a nuli», e sola, spogliata del comune retaggio dell’urnan gonero, ella è
costretta a stare spettatrice stupida od ingloriosa delle maraviglie
altrui. Troppo beata, se il passato della Germania o della Francia potesse
diventare il suo presente; troppo venturosa se, chiamata dalla straniera
magnanimità, le venisse consentito di spigolare nel campo, ove a si
larghi manipoli hanno gli altri mietuto. Mi rincresce, o
signori, di dover prorompere in parole amare verso uomini al cui ingegno
porto di cuore molta rivegenza; me ne rincresce ancora più forte per dover
rinfrescare titoli lunga stagione abusati, quando la gloria dei padri fu
chiamata a coprire la riprovevolissima inerzia de’ figli. No, io
protesto, signori, die noi non vogliamo addormentarci sugli allori dei
nostri padri, che noi non vogliamo farci belli della loro gloria, fragile
schermo alle immeritate rampogne. Fiorentino ricorda la gran sollecitudine
che a Napoli egli vede affaticare gl’ intelletti traendone argomento a
bene sperare e ad asserire che forse la filosofìa era « deputata a
maturare i fati della patria. Fa voti cho quel « desiderio ardentissimo »
si diffondesse da Napoli per tutta Italia ; « lieto di poter proseguire
l’impresa, che a BOLOGNA inaugura il suo illustre predecessore»; cioè
Spaventa. Infine, una patriottica perorazione: Por gli altri, o
signori, la scienza può essere forse un addobbo ed un decoro, por noi italiani
è desiderio di riscossa, è condizione indispensabile di vita. Noi non
sapremmo passarcene senza tralignare dalla nostra antica fierezza,
senza disconoscere la missione nostra nella storia. E poi grandi
cose ancora ne avanzano a fare, nè potremmo meglio allenarci, che
fortificandoci la mento di profondi studi. Nella infanzia dei popoli era
la fede che operava prodigi, e remica possibili le crociate; nella loro
virilità non si possono aspettare altri miracoli, che lineili della scienza.
Un pensiero che non fosse progenitore fecondo di magnanimi fatti, io lo
disdegnerei; ma esso avventurosamente non sarebbe nemmeno da dire
pensiero, si bene fantasma vano, e passeggero capriccio. Io nel filosofo
anzi tutto voglio guardare l’uomo coni’esso è, e voglio trovarcelo
vergine, schietto, maschio e vigoroso. Io batto le mani a Socrate che
combatte u Potidca, sento un cotal orgoglio di coltivare la scienza elio
mantenne serena la fronte di GBruno avanti al rogo: applaudo a Kicbte
che lascia la cattedra di Jena e corre sui campi di Lipsia; e non
so rifinire di ridurmi nella memoria Sl’acteria, Mestre e Curtatouo, ove siete
caduti voi, Santarosa, Poerio e Pilla, valorosi ingegni, valorosissimi
cittadini. Sì, o itali, di profondi veri e di magnanimi fatti noi
abbiamo bisogno, e 1’Italia sarà. Addoppiate gli sforzi. Percorriamo di
conserva e con alacrità 1' arduo arringo della scieuza, e siamo certi di
cooperare in tal guisa potentemente al riscatto della patria nostra. La
scienza lo iniziò, ed essa indubitatamente lo coronerà, snebbiando le
nienti, aprendo il cuore a piò candidi alletti ed utlbrzando le braccia
della novella ed adulta generazione. Un ultimo sforzo ancora, e quanto
prima il Ponte di Rialto risuouerà dell’ eco dell’ inno nazionale cantato
sulle serve lagune dell’Adriatico, e le piume dei nostri bersaglieri si
agiteranno al vento che spira dai sette colli. Dagli studi sulla filosofia
greca pel corso universitario annunziato nella lettera, fatti sotto
l’ispirazione di Spaventa, usce il Saggio storico sulla filosofia greca
(Firenze, Monnier), dove GIOBERTI uno di tre anni innanzi, autore dell’
opuscolo 1l Panteismo e Bruno, si palesava hegeliano e scolaro di
Spaventa, di cui infatti metteva a proposito la memoria su Le prime
categorie della Logica di Hegel. Così Fiorentino si stacca coraggiosamente
dagl’amici di Napoli: onde nella conclusione del Saggio accenna. Devoto
alla verità, non mi terranno del certo impastoiato nè preoccupazioni, nè codarde paure. Non
gli mancarono, infatti, silenzii sdegnosi e tacite rampogne, seguite da
una rottura, che è la prima origine della polemica scoppiata dodici
anni dopo con Acri e Fornari. Nella seguente lettera ne abbiamo il più
antico documento. Mio carissimo amico, Vi so infinitamente grado di llo
coso gentili che mi dito del mio libro, o non vi nascondo che le vostro
parole mi sono valso di sprone efficacissimo a seguitare. Voi sapete
di quanto peso io tenga il vostro parere? o come lo anteponga ad
ogni nitro che potessi avere in Italia, o anche (V oltremente 5 onde me n’ è
venuta allegrezza o buona voglia da non potersi misurare. Per me la
filosofìa è stata sempre un amore, e perciò mi vi sou messo in buona
fede, e senza preoccupazione di partigiano. Non timido amico del vero, io
dirò sempre aperto il mio modo di vedere; ed in ciò debbo confessare che
voi mi siete stato esempio e conforto. Delle altrui dicerie non mi brigo;
conserverò P amicizia a chi me la continua non ostante il dissidio delle
opinioni, coni’ è mio costume; uon mi dorrà di perdere amici, i quali
pretendessero d impormi un treno, e di vincolarmi con pastoie, che
Panimo mio, non che nou comportare, anzi disdegna. Questo anno mi
occuperò «Iella filosofìa tedesca, e epocialmente di Kant, lo cui opere ho già
tutte, oltre ad altre esposizioni, tra le quali quella del Cousin. Sopra tutto
ho in pn.'gio il vostro lavoro su Kant e SERBATI, dove mi pare vedere il
kantismo scolpito con tutP i suoi pregi e le sue lacune. Mi vo
procacciando i nostri filosofi «lei Risorgimento, per occuparmene in un
lavoro che ho in animo di stendere que- st’anuo medesimo. Ditemi voi se
le biblioteche di Torino, dove siete stato, ne hanno qualcuno, e quale;
perchè potrei chiedere al Ministro che fossero di mano in ninno mandati
a questa hibliot«^ca por studiarli... Vi ricordo e rnccomando
da ultimo l’affare della Metafisica G., Storia della filosofia.
Aristotile del Bonghi, avendo egli ora il tempo di dedicarsi alla continuazione
di quella stampa. Add.o, uno ca¬ rissimo amico, e ricordate ed
amate Di Bologna, Il tutto rostro
£—5S-Svt*-Addio. Dal lavoro su Kant e Rosmini di Spaventa
ossia La filosofia di Kant e la sua relazione con LA FILOSOFIA ITALIANA (Torino,
rist. in Scritti filos.) Fiorentino mostra nel Saggio di avere ben
compreso il valore della categoria kantiana. Ma poco vantaggio potè certo
cavare dalla esposizioneCousifr^Li «fe filosofìa di Kano che è stata pure
tradotta in italiano da Irmctiera eredità, probabilmente, dei primi studi
di Napoli, avan alla conoscenza di Spaventa. Della tradurne
della Metafisica di Aristotele, che Bonghi pubblica a Torino, Fiorentino
insieme con Bonatelli, che allora gli è collega a BOLOGNA procura di
rendere possibile, con una sottoscrizione. resto della stampa, anzi la
pubblicazione completa, con hTristampa della prima parte; ed è a
deplorare che non ‘ S riusci», e che Jop» Bonghi ne .1*» »b.n. donato
il pensiero, quantunque la sua interpretazione non sia senza
difetti. TTT^ale che allora pubblicavano a Napoli Sancti e
Settembrini. Il corso è in effetti consacrato a Kant. Della
prolusione è notizia in quest’altra lettera, dove Fiorentino torna a lagnarsi
del silenzio di Fornari, dando a divedere quanto pur ne soffriva il suo
animo affettuoso: Carissimo amico, Io sono venuto qua a passarvi le
feste, ed ieri, appena, arrivato, vi ho trovato la vostra lettera
rinviatami da BOLOGNA. Aspetto con premura la vostra lunga lettera, ora che le
vacanze ve ne lasciano il tempo. Ho letto a BOLOGNA una prolusione su
Kant, di cui questo anno mi occupo precipuamente. È stampata a Firenze
in un giornale scientifico, elio ha per titolo “La civiltà italiana”,
e eh’è diretto da Gubernatis. Quando ne avrò gl’estratti, ve ne mando uno
subito. Se voi voleste scrivere qualche rosetta, o in qualche modo
valervi di questo giornale, so che Gnbernatis no sarebbe lietissimo, fc
un bravo, che io ho conosciuto, e che vi ammira molto. Sapete voi,
che, avendo mandato il mio saggio ad alcuni a Napoli, non ne ho avuto
neanche risposta! Che voglia dire, non so; ma mi par barbara usanza il
voler imprigionare la mente umana. La mia, non si lascia inceppare, e
rinunzio volentieri ad alcuno amicizie, quando queste non possono conciliarsi
con l’amore della verità. Por la soscrizione ili Bonghi vi rinnovo le
premuro, perchè egli sta aspettando che io gli rimandi i manifesti. So
come si vada incontro ad inconvenienti, ma noi non assumiamo nessun
obbligo personale. Addio, mio carissimo amico, ed amate Di Perugia,
Il vostro afet.mo sempre Fiorentino. La Civiltà italiana pubblica il
discorso di Fiorentino: Kant ed il mondo moderno; come pubblica di lui
stesso il saggio su I dia- 1 Cfr. quello che se ne dice nella
Filos. contemp., Ioghi di Rucellai; le lettere Stilla Scienza Nuova
di VICO (si veda) e il discorso
Dell’armonia del concetto d’ALIGHIERI come filologo, come storico, come
statista: saggi tutti ristampati più tardi, salvo il primo, negli
Scritti vari. Del discorso su Kant dimenticato conviene riferire qualche
pagina, la quale dimostra quanto FIORENTINO avesse profittato della
lettura dei saggi di Spaventa. Ecco, per esempio, come pone il problema
kantiano: jjji sperienzu prima di Kant è stata smaltita siccome
il fondamento più stallilo della scienza, o come le colonne d’Ercole, di
là dalle quali non è dato allo spirito umano travalicare senza pericolo
d’imminente naufragio. Kant riflette, clic la sperieuza è tiu fatto, e ebe
perciò non può essere primitivo; essendo un risultamento, del quale si
può e si deve cercare la guisa e la ragione del nascimento. Egli
adunque propone una domanda nuova nella storia della tìlosoiìa. coni’è
possibile la sperienzat E più generalmente ancora: coni’ è possibile il
conoscerei Con la quale domanda 1 orizzonte della scienza si trova onninamente
cangiato, e i vecchi filosofi seriamente imbrogliati. Galluppi, che PRIMO
IN ITALIA giudica convenevolmente il movimento kantiano, si accolse di
questa novità di problema, e con la Bolita sua semplicità di linguaggio
la espose così. Prima di Kant la filosofia è dommutio .1 o scettica. Con Kant comincia
una nuova forma, la critica. E prima, difatti, i filosofi o ammettevano
la sperienza, o no. Kant uè l’nmmise, nè la rifiutò; ma dice: come
si formai II problema così mutato non versava più sull’esistenza del
fatto, ma sul suo nascimento; e cotesto è la mutazione più sostanziale che Kant
reca in mezzo nella scienza filosofica. La scolastica mutua or dalla
tradizione religiosa, or dalla storia, or finalmente dalla FILOLOGIA
(Grice) il contenuto della sua scienza: presuppone l’anima, il mondo,
Dio, i loro attributi, la loro origine, e vi attaglia una forma
scientifica per palliare l’intrinseco difetto. Cartesio se ne sdegna, e
sopprimendo quel vuoto ingombro, fece capo alla coscienza, dove
credette trovare il punto stabile, sul quale puntellando la leva
onnipotente del pensiero si mettesse in grado di smuovere il mondo
antico, e di sfasciarlo. La filosofia sperimentalo sotterra tagli ridusse lo
spirito a tavola rasa, e vi disegna sopra le prime linee della scienza
nascente. Kant sorpassa l’uno e l’altra, e soffiò su tutto il sapere
precedente, perfino su la coscienza di Cartesio, pertìuo sulla sperienza
di Locke; essendoché entrambe contenevano degli elementi variabili, ed
egli, messo sull'avviso dalle rigide deduzioni di limile] non vuole più
far entrare nella scienza nulla elio avesse sembianza di
mutabilità. Esposte rapidamente la unificazione del molteplice, onde
nell’esperienza kantiana s’intuisce il sensibile e onde si giudica per
mezzo delle categorie le intuizioni, FIORENTINO dimostra come la vera
unificazione ancora non sia compiuta, essendosi passati dall’
opposizione della materia e della forma dell’intuizione a quella di
intuizione e categoria. Il legame primitivo, ove si rannoda il multiplo sì
della sensibilità, come della intuizione, è l’unità trascendentale
della coscienza. E badiamo che non ci tragga in inganno il nome medesimo
di coscienza, di cui Kant si vale in due significazioni ben differenti. Questa
coscienza trascendentale ò primitiva ed originaria; producondo gl’opposti,
non può ella essere un opposto. Se no, si andrebbe all’infinito.
L’altra coscienza di soconda muno vien contraseguata con la giunta
d’empirica, ed è una fattura di quella primo, come ogni altro fenomeno. Va
costruita con la forma del tempo, con le categorie di possanza, di causa,
di relazione, e via via. La coscienza empirica, insomma, ò posteriore
assai alla coscienza trascendentale, la quale sola ò unità originaria e
feconda. E non è senza ragione se ho ribadito questa
distinzione, essendo capitalissima nel sistema che stiamo abbozzando,
il vero merito di Kant non è di avere trovato i concetti a priori,
ma di avere posto a capo della sintesi quella eli’ ei chiama energia portentosa,
vale a dire la unità sintetica originaria della coscienza. L’illustre SPAVENTA
lia con molto aocorgimento messo in sodo questo punto, criticando la
esposizione che SERBATI fa di Kant. Non è gii che gli opposti sieno dati,
e che lo spirito, trovandoli, se ne impadronisca e li vada elaborando. Questo
processo ci è prima di Kant, ed egli lo sorpassa, vedendone la
insufficienza. Imperocché quale conoscenza potessi avere, posto che i
termini, ond ella si compone, fossero stati accoppiati per caso e alla
rinlusaf Data da uua parte l’intuizione, dall’altra la categoria, e
poi lo spirito che le sforza ad un’ unione innaturale, o per lo meno
arbitraria. Non si vede che il giudizio sarebbe un’imbastitura come
quella che descrive Orazio, e non già un processo dello spirito, il cui
carattere specialissimo è l’intimità? Se lo spirito adunque unisce gli
opposti, è perchè entrambi scaturiscano da una sorgente comune, e perchè
il riunirli è per lui una scria necessità. Ma Kant non è coerente a
questo concetto della sua energia portentosa. Confusa la coscienza
trascendentale pura con l’empirica, ritenne impossibile la
deduzione logica delle categorie, che ripescò perciò empiricamente
attraverso i giudizi; stralciò il pensiero dall’essere, facendo della sua
attività una forma affatto vuota; e finì nel noumeno inconoscibile.
E la conseguenza è giusta, ogni volta che si ammetti' un pensiero che non
pensa nulla, e, di rincontro, un essere che non può essere pensato. Se
non che lo sbaglio sta appunto in questa concessione. Un pensiero vuoto
non è: un essere non pensato non è. Sono due astratti, ai quali voi
accordate, con soverchia larghezza, forma e persona. Che vuol dir
mai cotesta cosa in sè, che fatalmente sfugge al nostro intelletto?
Cotesto essere oscuro, che brilla per la sua mancanza, e dopo balenato
alla mente, si cela per sempre? Voi diti' di non co¬ noscerlo ed io vi
replico con 1’ Hegel, chi' nulla è più Incile a conoscere di questo punto
oscuro. Esso è l’oggetto del pensiero spogliato di ogni determinazione,
vuotato di ogni contenuto, ridotto alla mingherlina condizione il’
identità pu¬ ramente astratta. Or dunque non raffigurate in lui uuu
creatura vostra?. Nè le altre due Critiche riescono a sanare pienamente le
conseguenze prodotte da questa opposizione risorta tra pensiero ed essere
nella Critica della ragion pura. Nella stessa Civiltà italiana Fiorentino
inserì una recensione del primo di quei tanti libri che poi Ruffaele
Mariano venne compilando sui libri altrui : Lassalle e il suo
Eraclito, € saggio di filosofia hegeliana » (Firenze). Recensione
benevola verso il giovine autore, nella quale giova rilevare due
osservazioni, che mostrano ben determinate le due direzioni divergenti
degli scolari di VERA (si veda) da una parte e di quelli di Spaventa dall’
altra. Una è questa : « Perchè chiamate rivoluzionaria, in senso
di... retriva la filosofia di SERBATI? Perchè dir filastrocca quelln del
GIOBERTI? Questo acerbo procedere verso due illustri italiani, quando
anche si fondasse sul vero, non sarebbe certo modesto consiglio il
tenerlo. Nè veggo che l’essere hegeliano debba di necessità far avere in
poco conto le loro dottrine, perchè la critica imparziale e seria,
che l’illustre Spaventa ha fatto dell’ uno e dell’altro, prova il
contrario. L’altra è anche più notevole. Ammesso come preferibile [a
quello di Lassalle] il giudicio di Hegel sopra Eraclito, non v’ha proprio
nulla a ridire, specialmente su la relazione che Hegel pone tra Eraclito
e l’ultimo degl’eleatici? VELIA (si veda) E forse vero che Eraclito segni
un progresso sopra Zenone? Pare che, Eraclito essendo stato prima di
Zenone, la dialettica obbiettiva di quello è apparsa alla coscienza speculativa
prima della dialettica zenoniana; onde l’andamento storico, per lo
meno, sembra essere stato da Hegel capovolto. Dico ciò, allinchè
l’egregio Mariano si tenga in guardia inverso la eccessiva fiducia
nell’autorità di maestri, per grandi che fossero. Le colonne di Ercole
dell’ingegno umano. bisogna tenerle discoste più che si può ; e se si
potesse affondarle nell’oceano, tanto meglio. Anche Spaventa è di
quest’avviso. Fiorentino si accinse al suo lavoro su Pomponazzi, pur
continuando a BOLOGNA i corsi sulla filosofìa tedesca moderna. E scrive a
Spaventa: Mio carissimo amico, È trascorso gran tempo che manco
<li vostre nuovo, non ostante die vi abbia scritto durante le vacanze,
quando il Settembrini mi fece sapere ch’oravate a diporto nella campagna.
Ora che il oholèra si sente a Napoli, io sono divenuto inquieto per causa
di qualche amico elle vi ho, e più d ogni altro per causa vostra.
Levatemi da questa iuquietitudine scrivendomi due parole che
m’informassero della vostra salute. Io sono tornato qui prima della ri-apertura
di BOLOGNA, e vi ho riprese le mie lozioni. Ho passate le vacanze
qualche giorno a Ravenna, un po’ a Firenze, un po’ a Perugia, e poi
il più del tempo in villa. Sto esponendo la filosofìa tedesca da
Kant in qua ; e ciò alla Università. Sto preparando una biografia ilei
Pomponazzi ricavata dalle sue opero medesime, per leggerla nella
Società di Storia Patria, di cui faccio parte. Se questa prima non
dispiacerà, o non parrà inutile, ne farò qualche altra di qualche
pensatore più importante che abbia insegnato a Bo¬ logna. Oltre
l’Acbillini, chi altro mi suggerireste voif Forse potrei farla ancora del
Cromonini, che, stato a Ferrara, può dirsi delle stesse provinole di
Emilia: del Zabarella no, eh’è stato soltanto a Padova. Io poi a queste
biografie, elle leggerò nella Deputazione di Storia Patria, aggiungerò
per conto mio la esposizione e la critica del contenuto filosofico dei
loro libri, compiendo di ciascuno una monografia. Che ve ne pare
t ...Col medesimo ordinario vi spedisco un libretto conte¬
nente alcune mie lettere su la Scienza Nuova. Le scrissi per compiacere a
De Gubernatis, che mi chiese qualcosa per la sua Civiltà italiana. Non
sapendo se abbiate o no avuto quel periodico, ve le mando così radunato,
come le feci estrarre; e vi prego di accettarla come testimonianza della
mia sincera stima ed amicizia. Addio adunque, datemi presto
vostre nuove, e ricordate ed amato Di Bologna. Il vostro afi.mo
amico Fiorentino. E questo il primo disegno di Pomponazzi, la
cui biografìa è prima inserita negl’atti della Deputazione di
Storia Patria per le provincie di Romagna, e poi riprodotta in capo al
volum. Fiorentino, che diventa sempre più intrinseco di Spaventa, torna a
darne notizia all’amico: Io aspetto la nuova ristampa della tua memoria
su Campanella, perché essendomene quest’ anno occupato nel corso
scolastico, sono desideroso di vedere come tu l’hai trattato. Ora sono
attorno ad una monografia su Pomponazzi, attorno a cui raggrupperò i più
celebri suoi contemporanei. Me lo stampa Monnier. Me ne dà cinquanta copie e
150 lire pei libri che mi sono occorsi. La stampa del mio saggio è
finita, e sono attorno a scrivere due parole di conclusione, per le quali
ho aspettato di rileggere tutto il saggio, che non avevo riletto, nè ricopiato,
dopo scrittolo. A Firenze, nella Magliabechiana, trovai di POMPONAZZI (si
veda) un manoscritto inedito col titolo di Quæsliones ammostiate: le chiesi al
Napoli. 3 Mi promise di spedirle subito, ed ancora non le vedo. Ciò mi
turba non poco, non potendo sbrigare subito la stampa. Maledetta fiaccona
degl’italiani! III Saggi ili critica, Napoli, Cfr. Fiorentino, Pomponazzi Napoli,
allora segretario generale del Ministero della I. P. Uscito il saggio,
Fiorentino, mandato che l’ha a Spaventa, ne attendeva con la solita ansietà un
giudizio. E giudice, in altro campo, era stato quell’anno Spaventa a
Bologna, tra ire, sospetti e timori, di cui un’eco risuona anche nella
lettera qui appresso riferita del Fiorentino. È stato con Brioschi e
Messedaglia a fare quella ispezione alla Università, di cui parla
Carducci in Ceneri c faville ; e aveva riferito lui al Ministero. Mio
Carissimo amico, Ilo ricevuto i manoscritti di GATTI (si veda), che
ho consegnato subito a Siciliani, uonchè lo due dispense che mi
mancavano, e di cui ti ringrazio vivamente. Non ho visto incora
l>e Meis, ma fari) di tutto per leggere la lettera di venti pagine:
1 ci dovrà essere una epopea intera. Qui si fa un grati dir
male di te per la famosa relazione: io uon l’ho letta, e se non la leggerò, non
me ne sto al detto di nessuno. Mi si è detto cose, alle quali, come puoi
pensare, non ho potuto dar credito: tra le altre cose che voi avete
dato una patente d’ignoranti a tutta l’università in massa, e che in
difetto di scienza, si va in cerca di popolarità nello associazioni
politiche, lo per me, se fosBe vero il detto, nou protesterei per
l’ignoranza, che sento di averne una grossa dose in corpo, nm protesterei
per la popolarità, perchè non no ho avuto mai gran voglia ; e se si
acquista nei cliilie, ci vorrà un pezzo prima che me ne tocchi un
briciolo. Manco male se si acquistasse dormendo, perchè allora potrei
averci delle pretensioni. Fuori di scherzo, quello che si bucina qui,
e che ha prodotte molte ire, nò senza ragione se fosse vero, La lettera a
Meis che è pubblicala col titolo Paolotttsmo, positivismo e raslonallsmo
, c che é qui appresso citata. Si allude a una Relazione da Spaventa
presentata al Ministero della P. I. in seguito ad una inchiesta da lui
fatta in commissione con Brioschi e con Messedaglia, a Bologna, iter
ragioni d'ordine politico. Un articolo di Carducci su questa
faccenda, pubblicato nell'Amico del popolo, di Bologna, iami. si
può vedere nel volume teneri e faville: Opere, è qnell’aver messo sotto nini
tuie cntegorin, e tutti in un fascio, i professori bolognesi, lo sono nn
mezzo proscritto, perchè sapendomi tuo amico, o si guardano di me, o mi
tempestano a tutta furia. Lasciamo questa miseria. Ho letto i
documenti che Berti lui stampato della vita di Bruno. Il processo veneto,
se non e stato adulterato il contenuto, fa mostra di poca fermezza, o non
so persuadermene. Che cosa ne dici tu! Gli hai visti! Ho tra le mani pure
la seconda edizione delle opere di Comte, e voglio leggerla tutta, perchè
ne ho Ietto soltanto esposizioni, benché assai larghe. Il mio saggio
è finito, almeno le correzioni ultime le mandai una settimana fa, ma
ancora noi vedo. Appena usce, scrivo a Firenze, che di là stesso te ne
mandino mia copia, per far più presto. Tu poi leggila col tuo comodo, e
dimmene il tuo parere, quando potrai. Capisco che hai molto da fare, o
che non puoi tutto quello che vuoi. Mi prometto di avere qualcosa di
tuo pel giornale; qualcosa del Settembrini, fosse anche tuia pagina.
Siciliani spesso me ne fa premura. Io non solo non ti ammazzo, ma ti
ringrazio, e col vecchio adagio ti ripeto: meglio tardi che inai. Non
credo però a quel subito, con cui vuoi darmi ad intendere che mi scriverai del
lavoro di Labriola. Sii contenterei che fosse tra nn mese. Hai avuto
il libro del De Meis! Dopo il Don Chisciotte non ho letto libro che mi
avesse fatto rider tanto. Le cause del riso sono spesso gravide di grandi
pensieri. Mi piace molto, ma molto. Qui l’hanno con lui tutti, Rossi
perchè noi trova abbastanza filosofo, le donne per essere state
chiamate animali domestici, e portino i bambini per essere stati
ingiuriati Fiorentino, esaminali più lardi gli atti del processo
veneto, si confermò Infatti nel sospetto che fossero adulterati. Vedi un
suo scritto nel Oiorn. napol. di fllos. e teli., Non saprei dire a qual
lavoro si alluda. Il Dopo la laurea di Meis per tignosetti. La contessa
Gozzadini gli scrive una lettera, nella quale si firma: “l’animale domestico di Gozzadini.” Addio,
mio carissimo Spaventa, veglimi bene come te ne voglio io Di
Bologna, 19 maggio ’68. Aff.mo tuo
amico Fiorentino. Spaventa dovette rassicurarlo sul contenuto
della famosa Relazione. Quindi quest’ altra lettera di Fiorentino: Mio
carissimo amico, Ero capacitato anche prima, che tu non potevi aver
detto tutta quella roba da chiodi di questa Università, che altri
diceva, ed i pih credevano, lo perù, come amico, mi tenui in obbligo di
informartene, non per conto mio, ma per tua regola. Tu puoi già pensarti,
che con gli altri ho detto, e gridato, e asseverato, esser impossibile
che tu avessi voluto, e potuto dire quello che non era; e elio la verità
poi non si può, nè si dove tacere. La tua lunga lettera mi ha fatto bene,
perchè mi ha snebbiato adatto la meute: il cuore, già s’intendo, propendeva
sempre a darti ragione, e non ci era bisogno di altri eccitamenti. Io dunque
non solo non ti ammazzo, ma neppure ti muovo un rimprovero, molto meno
poi per mie personali considerazioni, lo sono un misto di stoico,
di cinico, e di scettico, che di questi tre elementi non so quale
prevalga pih. Dal Ministero non voglio nastri, dagli studenti non voglio
applausi; dunque, mi sento in grado di resistere ad ogni tentazione. Ad
una sola cosa non resisto, ed è il bisogno di voler bene agli amici, e di
dir loro franca, ed anche brusca la verità. Tu avrai dovuto ricevere
a quest’ora una copia del mio POMPONAZZI (si veda); perchè io, vedendo il
ritardo di Monnier a spedirmene le copie, commisi ad un mio amico di
spedirne 1 Maria Teresa G., di cui scrive la Vi la 11 marito,
Gozzadini (Bologna, Zanichelli), con pref. di Carducci. V. pure Carducci,
Opere, una copia almeno a te ila Firenze stessa. Fa il tuo commotlo nel
leggerlo, ma poi dammene il piìl severo giudizio die tu possa, perchè da
nessuno me lo aspetto piìi aspro e più istruttivo. Chi mi dica: bravo,
non ini mancherà; ed anzi più me lo dirà chi meno me ne crederà degno, nè
io ho da peccar contro la modestia per accettarli, o per pronunziarmeli
io stesso; ma chi mi mancherà di certo sarà chi mi dica: qui hai
sbagliato, là avresti dovuto pensar meglio: queste pagine avresti dovuto
bruciarle intere intere. Kbbene, voglio che quest’uno non mi manchi, e
dovrai essere tu. Mettiti al naso l’inseparabile occhiale, aggrotta le
ciglia, prendi quel cipiglio mezzo tragico che hai nella fotografìa di
Napoli ; e per dir tutto in una parola, figurati di scrivere una pagina
di quella relazione, per la quale vivrai eterno tra gli archivi del
Mi¬ nistero, e poi scrivimi un letterone quanto quello che
scrivesti a Meis. Più male parole ci troverò, e più te ne renderò
grazie. A proposito, quella tua lettera, con partito unanime, fu
licenziata alla stampa, riseoandone certi nomi propri, e certe
espressioui che ricordavano il Candelaio di Brano. Io mi occupo in alcuni
articoli successivi dei tuoi lavori. Vorrei farne tre o quattro, o quanti
me ne verranno, per far notare lo sviluppo della filosofia italiana
secondo la tua critica, che a me pare una vera scoperta. Ma aspetto prima
di finire le lezioni, perchè tu sai che questa rivista non è tanto
facile. Addio, mio carissimo Spaventa, e veglimi bene come te no voglio
io Di Bologna Ajff.mo tuo amico Fiorentino. La lettera di
Spaventa, stampata nella Rivisiti Bolognese, che allora Fiorentino pubblica con
Albicini, Siciliani e Panzacchi, è quella a Meis, col titolo Paolottismo,
positivismo e razionalismo (rist. in Scritli filosofici). Gli articoli
che Fiorentino ha in animo di scrivere sulla scoperta dello Spaventa, non
furono più scritti. Ma egli se ne occupò qualche anno più tardi in quello
inserito nell’itoh'a dell’ Hillebrand. STORIA DELLA
FILOSOFIA E poiché abbiamo accennato alle brighe universitarie
bolognesi del 1868, di cui fu tanta parte il Carducci, diamo pure un
altro curioso brano di lettera di Fiorentino, diretta allo Spaventa poco dopo
la sua partenza da Bologna, dove si serba il ricordo d’una polemica
di Carducci con Meis e con Fiorentino. Io sono stato poco bene, parte per la stagione
che corre, parte ancora per una certa polemica, nella quale ci
siamo trovati Meis ed io, e di cui non so se ti è pervenuto rumore. Or
dunque, hai da sapere, che il Carducci, credendo dall’articolo di Meis, intitolato Il sovrano, 1 offesa
la dignità del suo partito, gli scrive contro nell’Amico del popolo
parole aspre. Gli da dell’imbecille, chiama citrullerie le cose dette da Meis. L’
articolo non è firmato ; ma io sapeva esserne stato autore il Carducci,
per aver questi scritto le stesse cose in una lettera particolare al
Siciliani. s Risposi io, dicendo... potersi combattere le opinioni, senza
insultare le persone. Carducci si rivolse contro di me una prima
volta ; ed io lo avvertii privatamente, che lo avrei jHinto sul vivo. Non
si stette a questo avviso, e ripigliò da capo una tirata contro di De
Meis e di me ad un tempo. Fiorentino replica, ed ha, a quel che
sembra, l’ultima parola. Ma, tutto ciò mi ha irritato, egli scrive
nella stessa lettera, ed il povero Meis n’è rimasto seriamente afflitto:
dopo avuta la rivincita, che TUTTA BOLOGNA approva, si è rinfrancato; ed
ora Pubbl. nella Rivista bolognese. Documenti dell’amicizia di
Carducci per Siciliani sono i giudizi del primo sul Rinnovamento della
filosofia positiva in Italia del Siciliani, In Ceneri e faville, 8. II,
Opere , VII, 362-68: e le af¬ fettuose parole Alla bara di P. Siciliani,
in Ceneri e faville, s. Ili, Opere è allegro e sta bene... Eccoti
descritta la nostra battaglia, eh’è finita con nostro decoro».
Quegli articoli il Carducci non li volle pili ristampati. Ma
insieme con quelli del Fiorentino sono stati rin¬ tracciati dal Croce,
che ha così potuto tessere la storia di questo aneddoto. 1 In
un’altra lettera di due anni appresso (25 maggio 1870) del Fiorentino
allo Spaventa si legge ancora: Io sono sul punto di rientrare in lizza
col Carducci, che mi ha provocato con una nuova lettera
insolentissima. Questa nuova contesa, alla quale non ho potuto sot¬
trarmi, mi fa crescere il desiderio di allontanarmi definitivamente da BOLOGNA.
Fiorentino, infatti, si fa tramutare a NAPOLI. Ma non lascia Bologna quando
comincia a lavorare intorno a Telesio. Ecco infatti che cosa scrive
a Spaventa Mio carissimo amico, Sono passati sei lunglii mesi che uè ti ho
piti visto, nò ho avuto tue nuove, tranne questa che mi diede tuo
fratello, che tu eri stato a villeggiare negl’Abruzzi. Ora è
cominciato un anno nuovo, e voglio ritentare se tu, chi sa, volessi
pure incominciare una vita nuova. Dalla parte mia non voglio
mancare di mandarti i miei augnrii, tra i quali non ultimo quello di
scrivere un poco più frequentemente agli amici. Vedi, che non ho detto di
pensare o di voler bene ad essi, perchè so che per questo riguardo non ci
è bisogno di miglioramenti. Io quest’ anno mi occupo di Leibniz o
di Spinoza principalmente, poi dei seguaci, e, se mi avanzerò il tempo, di
Maebranche. Mi servo, oltre alle opere loro, di varii espositori e
critici, tra i quali della stupenda storia di lCuiio Fischer. Vedi CROCE,
Documenti carducciani: una dimenticata potèmica tra Carducci, Fiorentino e
Mele, nella Critica Avrei intenzione di scrivere quulclie cosa sul
movimento telesiano, ed ho scritto per avere alcuni manoscritti che
riguardano TELESIO, e che si trovano parte costà, parte a Firenze. 1 lo
aspetto sempre il tuo parere sul mio libro; parere, che per essere più
aspettato, e piìì pregiato di tutti, si fa lungamente desiderare. Ma
verràf Lo spero. Hai letto che cosa ne scrisse Franti sul
Centralblatt? Egli stesso mandommi con molta cortesia un numero di quel
giornale, dove ci era la sua rivista sul mio libro. Con De Meis ci
vediamo spesso, ma egli non è in grado di darmi tue nuove, più che io non
sia riguardo a lui. La neve ieri si è fatta vedere la prima volta in
città: tu però quest’anno non verrai a goderne lo spettacolo. Io quasi
quasi sarei tentato di pregare che a qualche professore saltasse in
capo di tribuneggiare per la tassa del macinato, per vederti comparire in
commissione straordinaria. Ma non vorrei poi il danno del prossimo: in
questo sono cristiano. Tra questi giorni scriverò a VERA (si veda) per
invitarlo a scrivere qualche cosa su la nostra rivista.Siciliani, con le
suo velleità ortodosse, n’ò uscito, come saprai, ed io ed Albicini
vorremmo tenerla in piedi, anche uu po’ più decorosamente. Con te non ci
vogliono inviti; ma, lo so purtroppo, non c’è neppure da far grande
assegnamento. Addio, mio carissimo, scrivimi qualche riga, anche per
dire a chi mi doumnda di te, che sei vivo o sano. Di Bologna Aff.mo
tuo amico Fiokentino. L’articolo di Franti sul Pomponazzi usce nel
Centralblait, e ètradotto dal Tocco e pubblicato in Italia, in una difesa
dell’opera del maestro contro gl’attacchi della Civiltà Cattolica (nella
Rivista contemporanea di Torino. Di TELESIO si torna a parlare in
una lettera. Tocco ti ha mandato la prima dispensa 1 Vedi Settembrini,
Epistolario, con pref. e note di Fiorentino, Napoli. delle sue
Lezioni, 1 e so che aspetta il tuo
giudizio. Io ho cominciato a scrivacchiare le prime pagine di un
lavoro sul Telosio, che non so come mi potrà riuscire. Aspetto la tua
memoria completa su P Etica di Hegel. 1 Quanti più ne conosco, tanto più
ti stimo e ti voglio bene. Dimmi ora una cosa; vorrei dedicare a te
ed a De Meis questo mio lavoruccio sul Telesio, quando' sarà
finito: accetteresti tu la dedica? Tra me e te non ci sono timori di
adulazione, o di altri secondi fini : è una pubblica professione di stima
e di amicizia, che mi piacerebbe di fare...». Il primo volume del
Telesio è dedicato, infatti, al Spaventa: non solo come
testimonianza di amicizia, ma come dovere di gra¬ titudine e di
giustizia: di giustizia verso chi aveva scritto i saggi su Bruno e su
Campanella ; di grati¬ tudine per l 'insolita luce che scintillava da
essi, e da cui il I iorentino era rimasto colpito. In questi studi
storici sui filosofi italiani del risorgimento il Fiorentino infatti non
fu, come s’è detto, se non uno scolaro dello Spaventa: da lui avviato e
da lui guidato. Ecco come cou lo Spaventa si consigliava per
pre¬ pararsi al primo corso di Filosofia della storia da tenere a
Napoli: Camerino. Mio carissimo amico, Ti Borivo
da Camerino, per sapere come stai, poiché non mi iti dato di rivederti a
Bologna, dove sperava poter passare qualche giornata cou te. Avevo anzi
desiderio di discorrere 1 F. Tocco, Lezioni di filosofia ad uso
de’ Licei, Bologna, R. Tipografia, con pref. di Fiorentino. 1 il proemio a
gli Studi sull'mica di Hegel usce nella Riv. bolognese; ristampalo con
gli Studi negli Atti della R. Acc. delle se. mor. e poi. di Napoli; e il
tutto ripubblicato da me col titolo di Principti di Eitca (Napoli, Pierro). teco
seriamente, per sapere che cosa avresti creduto meglio, ch’io potessi
insegnare nel corso dell’unno venturo in coleste Università. Tu sai
meglio di me i bisogni, i desideri!, ed anche i gusti di costà, lo per me
vorrei far poche chiacchiere sui generali, e, detto quel tanto eli’è
indispensabile come introduzione, entrare a dirittura nel tema, che sarebbe,
salvo tuo avviso in contrario, il mondo grimo. Dol mondo orientale
so poco: avrei bisogno di studiare prima; ed il tempo, per questo anno
almeno, mi manca. Della Grecia conosco qualche cosa, e con questi tre mesi
di studio mi preparerei suffiiiien- temente. Che cosa ne dici tu? Quali saggi
mi consigli di leggere? lo sto rileggendo gli storici greci; e dopo averli
riletti testualmente, uii gioverò di Grote e di Curtius. Per la
parte letteraria ho Milller (Ottofrodo); per le religioni, la
Storia di Minirv; PER LA PARTE FILOSOFICA, ZELLER; per arte greca
forse mi gioverebbe il Winckelmann, a noi so, perchè ancora non lMio
lotto. Da tutti questi potrei attingerò, si sa, i materiali; ma U
resto è da fare. Le poche linee di Hegel nella Filosofia Mia storia mi
servirebbero di traccia: sui tuoi consigli poi faccio largo assegnamento.
Intanto comincia dal darmene qualcuno, e fa presto. Tutto tuo
Fiorentino. Aggiungo qui appresso un altro gruppetto di lettere o
frammenti di lettere dello stesso Fiorentino a Spaventa, di cui trassi copia
alcuni anni fa dalla carte dello Spaventa ora depositate presso la
biblioteca della Società napoletana di storia patria ; poiché anche
queste lettere e frammenti / gettano qualche luce sugli studi, sulle
passioni, sulle idee, che si agitavano in Italia intorno a Spaventa (Pisa).
Ieri sera parti di Pisa Silvio, ed a quest’ora è a Milano, e domani
parlerà a Bergamo. Si trattenne con me la giornata d’ ieri, ed arrivò qni
avantier- sera. Sta benissimo, e me ne sono consolato tanto. Gli
dissi elle ti avrei scritto stamattina ed al solito ti mando questa
lettera col liciti. 1 K la tna lunga lettera? 15 rimasta tra i pii
desiderii, di cui è lastricato, dicono, 1’ inferno. Io ho scritto
una risposta all' accademico linceo Pietro Hucione. Si sta stampando a Napoli,
e vorrei che tu ne guardassi le prove prima di pubblicarsi. Ne ho scritto
al Zumbini, perchè te la mostrasse. Gli ho fatta una lavata di capo
delle mie solite.La presunzione e l’ignoranza in Ferri si bilanciano
tanto, che non so a quale delle due dare la preferenza. Aspetto tua
lettera dopo letto questo articolo: mi preme sapere il tuo giudizio, e ti
do piena facoltà di mutare, e di cancellare anche qualche cosa, die non
ti paia conveniente, o inesatta. (Portici). Ieri tornai da
Soma, dove lasciai Silvio che sta benissimo. Trovo qui una lettera di Zeller,
clic mi annunzia la sua venuta a Napoli. Oggi P ho visto, ed ho insieme
saputo da Labriola, che tu sei a Maddaloni. Vuoi vederlo? Oggi si è
parlato di te, ed egli desidererebbe di conoscerti di persona, come ti conosce
di fama. Dimora questa settimana. (Pisa) Prima che tramonti l’ultimo
sole ili questo anno, e sta già per tramontare, voglio scriverti. Il
tuo ostinato silenzio avrebbe scoraggiato ogni altro, non me, ohe quando
si tratta di te, il peggio che possa pensare è, che il calamaio l'abbi o
smarrito, o asciutto come la sabbia. Kccoci ora intesi : tu taci, io
scrivo. Io sto bene, e tutti di casa pure, salvo la Tuta 3 eh’è un
po raffreddata. E tu? E donna Isabella? E Camillo e la Mimi f 4 Speriamo
che stiate bene, ed auguriamo che stiate meglio. Pisa 0 ’* malenla lico, che insegnava nella
Università di lll0R0, '° Luigi Ferri, cui era sialo tra gli amici
dello Spaventa applicato tale nomignolo dopo elle Vittorio Imbruni nel
Olorn Napol. di filo.,, e leu , aveva rilevato lo strafalcione dal
j ,, commesso nel trascrivere f.V. Antologia) l'epitrrafe della tomba del
Cusano in S. Pietro In Vincoli leggendo: Promise* Pelei lìucionts [invece
di retri — bucionisj non fefetut eum HestItuta Trebbi, moglie del
Fiorentino. Isabella Scano moglie di Spaventa; Camillo e Mimi
tigli. Ln disfatta del nostro partito mi ha commosso non por me, che
sai quanto io stimi il genere umano in massa; ma pe miei amici, per tuo
fratello specialmente, che non ha alte vita, si può dire, che la politica.
Ne sono stato costernato, ancora è scemata l’impressione. Nicotor» è
dunque 1 arbitro dell’Italia, e tutti, o quasi, gli si curvano, gl. si
prosternano innanzi. Quanta viltà 1 Quanta corruzione! Vaie il pregio
< curarsi del prossimo! E una terribile domanda : piò si conosce
il moudo, e piti si devo disprezzare: Leopardi non aveva torto. Ma... c’
è un ma; ed io ti confesso che non mi “ ,re “ do - con tutte le ragioni
in contrario. Mi sono chiuso, vivo tra. miei ed i libri, non vedo
nessuno, non conosco e “ conosciuto, e mi sento beato in questo
silenzio ed in questa oscurità. 11 mio Niuarello cresce eh’è una delizia,
ad ha tonto alletto e tanto accorgimento, che mi diverte e mi
ristora, tess’io vederlo giovane fatto come il tuo (.umilio Non
Io perchè, mi sento ora più legato alla vita, come non Cì iTn
povero 1 Settembrini f A casa mia ci fu
lutto come se fosse morta persona nostra: lessi la notizia su la Gazze
a dell’Emilia, ed insieme appresi la scondita di bihio. colpi in
una volta. Ma Silvio tornerà alla Camera, e al Ministero, se il senso dell’
onestà non sarà spento nel nostro nomilo ; il povero Settembrini non
tornerà piu. Penso di scrivere per lui un articolo sul Giornale
napoletano; è la sola cosa ch’io possa fare per lui. Ma lasciamo
questo tr Che3 U rfacendo t lo sto scrivendo certe lezioni di
filosofia pei Licei: il Morano mi è stato addosso, e finalmente mi ci
sono piegato. È cosa molto ardua, ed il noti poterti allargare quante
vorresti, toglie gran parte della scioltezza del pensiero, ed anche dello
stilo. Farò alla meglio e quel eli’è peggio, in fretta. 11 Morano commise
lo sbaglio di un f..U, munirò .. «,> fogli, ora con
la spada alle reni ni’...calza per la tonti n u azione. i n
settembrini mori addi 3 . Fiorentino non scrive poi l'articolo di
cui parla in questa lettera; del rimpianto scrisse P°' ,, u Scriui va .u
di tener, polii, ed atte (Napoli, Morano; e l’Epistolario,
premettendo agl. uni e all'altro belle e affettuose prelazioni. All’
Università faccio nu corso di Etica, ed lio riletto la tua memoria sull’etica
di Hegel. Hai visto il giudizio portato da Berlini 1 su di te, o di Hegel
f Ci ho avuto molto gusto, perchè la sua autorità non è sospetta, come In
mia, appresso la filosofia italiana. Povero Bortini, spento anche lui
1 Scrivimi, se puoi, e se vuoi: lascio la cosa al tuo arbitrio; non
cosi, il volormi bene che in mezzo a tanti disiugauni mi preme e mi giova
assai. Alla tua famiglia di tanti augurii anche da parte
della mia, e tu credimi sempre, e non a parole. S. Vedi se puoi
sorivere qualche cosa pel Giornale napoletano. (Samhinse). Ed
ora un’altra notizia. L’arciprete Pompa mi perseguita per causa tua: ha
scritto su l' Eburino, giornale che si stampa ad Elicli, una
recensione di un uuovo capolavoro artistico dell’Acri, e dico che io sono
vo¬ tato a te anima e corpo. Fin qui non erra : ma il reverendo,
pos¬ sessore de’ documenti della storia antidiluviana, non sa farsi
capace della mia polemica contro il vice-gesh, ed il vice- Fornari; cioè
contro Fornari, ed Acri. Quest'ultimo, dopo di aver ponzato altri 14 mesi,
è venuto fuori con un opuscolo su Spinoza ; non so che cosa dica, e
come c’entri coi giudizi su la filosofia italiana, ch’egli doveva
convalidare. Non ho nessuna intenzione di rispondere, qua¬ lunque sia il
libro, che ancora non conosco, se non per la receusione dell’arciprete
noetico. Su Berlini v. lo mio Origini della fllos. contemp. in Italia. Il
giudizio cui alludo Fiorentino, é contenuto in una lettera di Berlini a Merlo,
pubblicata nel Giornale napoletano di fllos. e letl., dov’é detto. Vi
ringrazio di avermi mandato il saggio di Spaventa, che io considero corno
il più serio e il più chiaroveggente degl’Hegeliani d'Italia. Volendo lo
terminare un corso di FILOSOFIA elementare ad uso de’ licei mi sono
creduto in obbligo di tener conto delle dottrine di quel valentuomo,
tanto più che io sono sempre in questa persuasione, che II restringere il
vocabolo scienza a significare puramente i risultati dell'esperienza, dell'osservazione
e dell’induzione, come si fa oggidì, negando ogni valore scientifico alle
discipline speculative, sia non solo arbitrario, ma contradittorio.
Quindi io credo che sla salutare un ritorno ad Hegel, o per dir meglio,
al suo metodo, e a quella sua assoluta, e direi quasi eroica fiducia
nelle forze della ragione umana. STORIA DELLA FILOSOFIA (Pisa).
Prima di scordarmi, ae hai portata la Vita di BRUNO, 1 dalla al Betti che me
la porterà: se no, mandala a Domenico Morano, affinchè me la
l'accia pervenire. li Bruno si sta copiando, e dentro questa
settimana comincerò a mandare il manoscritto. Spero che tu hai concertato pei
caratteri, pel formato, per la carta. Se non avessi ancora stabilito
niente, scrivo che aspettino Beuz’altro il tuo ritorno. Il
Peipers mi ha risposto che a Gottinga si conserva soltanto il manoscritto dell’Oratio
coneolatona; ma non mi dice neppure s’è autografo. Quest’orazione io la
trovai a Roma tra la collezione degli opuscoli del Cardinal Valenti, ed
è rarissima. Vale la pena di far veniro il manoscritto? Nota che a
Gottinga, la copia stampata non l’hanno neppure. L’edizione del
Gfrorer ! non si trova in commercio: Zeller uii ha mandato la sua, la quale
però è mancante della quinta dispensa. Ne ho data commissione, ma non so
se mi riuscirà pescarla. Ho scritto per l’edizione del Tugiui, Ve
Umbrie idearum. Ho riscontrato Buhle: non dice nulla di manoscritti:
porta un catalogo delle opere abbastanza esatto. Tovo qualche altra
notizia su Bruno uelPAoidalio. Dopo che tu partisti di Roma, riseppi che
nell’archivio della congregazione di San Giovanni decollato c’è la
notizia del giorno della esecuzione di Bruno, e che questa data non
corrisponde a quella generalmente ritenuta. Mi è stata promessa una copia,
benché quei fratacchioni non vogliano far supero nulla. La notizia
aggiunge, che a nessun patto si volle convertire. Come sai, questa notizia
è un documento autentico, perchè finora non c’ è altro che la lettera di
quel furfante dello Scioppio. I.a Vita scritta da Berti (Torino,
Paravia). Ossia il volume degli Scritti latini di BRUNO, pubblicati (frontespizio) da Kr. Gfrorer a Stoccarda.
Cfr. la pref. dello stesso Fiorentino alle Opere latine di BRUNO, ed. Naz.
Il doc. pubbl. in facsimile nel voi. Ili delle Opere latine del Bruno a
cura di F. Tocco e G. Vitelli (Firenze). Inoltre il cav. Podestà 1
mi disse, che a lui orati venute sott’occhio parecchie carte mauoscritte
concernenti il Bruno: non sapeva però dove. Cercai una giornata intera,
ma ce ne volevano delle dozzine di giornate, ed io avevo fretta di
tornare. Il Podestà mi promise di continuare le ricerche: se no, ci
andrò io per lina settimana. Mi ci sono messo, o voglio
riuscire. Tornato tjiti, trovai Nino ammalato di febbre gastrica:
comparvero lo macchie difteriche; in un giorno si pennellarono tre volte;
due altre volte il giorno appresso: disparvero. Ma come fossi stato io
d’animo, tu puoi pensarlo. I nervi mi ballano ancor», o tra giorni
andremo in campagna, in una villa che ho trovata in iptel di
Lucca. Ilo avuto i titoli di Bàrbera, 5 quelli del Siciliani non
ancora: conosco gli uni e gli altri; ma r/itid agenduml Sono tra
l’incudine e il martello, e non so a qual partito appigliarmi. E tu
dimorerai a Napoli? Ovvero andrai in campagna, e dovei Vorrei
saperlo. LABRIOLA (si veda) mi mandato un suo saggio sulla libertà;
e vorrebbe ne dicessi qualche parola: mi ci trovo imbrogliato.
Capisco il Labriola, quando parla, non lo capisco quando Bcrive. Non ha
stabilità di pensiero, ondeggia in aria, ed ha la pretensione di parere
elaborato, come egli mi scrive. Capisco Herbart, non capisco lui.
L’oscurità non è nelle parole, o nello stile, è dentro la testa.
Ilo letto il discorso di Silvio, e poi Insita sdegnosa lettera
all’Opinione, tritai maturità ili pensiero nel primo, e qual forza di
carattere nella seconda! Il discorso appartiene al mondo moderno, ma la
lettera è di altri tempi, ed ora non tutti possono gustarla.
Salutamelo tanto, anche da parte della mia famiglia, che fa lo
stesso con te. 1 11 bibliotecario Bartolomeo P. <m. noi 1910), allora
nella Vltt. Emanuele di Roma. Bàrbera, che è professore di filosofia
morale nella R. Università di Bologna. Del concetto della libertà, studio
psicologico, nell'Archivio di statìstica (risi, in Labriola, Scritti cori, ed. CROCE
(si veda), M’ero dimenticato di raccomandarti Persiani. È impaurito,
perché il relatore 1 non sei tn, ina un lombardo (forse Teneaf), e par
che dalla Lombardia non si riprometta gran che di bene. Son certo però
che tn potrai njutarlo sempre (Pisa). Avantieri ti scrive a Napoli,
ed ora avendo saputo che Betti ò stato chiamato per telegrafo, ti rescrivo da
capo, e ti manderò questa lettera per mezzo suo. Io non gliela posso
portare di persona, perchè sono alquanto infreddato a causa della lezione
d’ieri. Tu che sei la fenice dei presidenti, specialmente quanto a
prudenza, vedi se non entra fra le attribuzioni presidenziali quello che
ti chiedo io. Ho bisogno di venire a Roma, perchè il primo volume è
finito, e per continuare la stampa voglio esser certo che il ministro non
adduca cavilli: nel qual caso pianterei 11 la baracca. Premesso ciò, e
visto e considerato che il Ministero ha premura pel Siciliani, e poca o
punta premura pel concorso di Torino, visto e considerato, che sta alla
chiaroveggente perspicacia del Presidente il decidere se necessiti la
convocazione del concilio: io riproporrei che tu ci convocassi; che,
convocati nell’ interesse del pubblico erario, stimoli i padri ecumenici
di Roma a finir la eterna questione di Torino; e son certo, come ogni
dottor Pangloss, che tutto anda per lo meglio in questo perfettissimo
mondo, tranne il mio raffreddore che sempre piò s’inasprisce. Ed ora
che ti ho detto il mio desiderio, tu con quell’occhio critico che ti
rende (che cosa dico!) che ti rende piuttosto singolare che raro, farai
quel che crederai. Ed orn da capo, ma su di un altro argomento, una
notizia. Nell’ultima puntata (stile mamianico) della Filosofia
delle scuole italiane, il sullodato Conte scrivendo all’amico
Ferri, sai che cosa gli dico f Che in tutta Europa (le pelli rosse e
gli Zulus non ci vanno compresi) a parlare di Platouo e delle idee
non ci sono rimasti altri che loro due. Povero Platone! Chi glielo avrebbe
detto, che dopo tante feste, e tanti conviti, Nel Consiglio Superiore
della P. I., di cui Tenca, come Spaventa, fa parte, e da cui Persiani aspetta
1’abilitazione all' insegnamento. tanti commensali (a 20 franchi
l’uno) che lo ringiovanirono, lo restaurarono, lo rinnovarono, oramai,
finita la digestione del pranzo, ognuno lift preso la sua via e di idee
non ne vuol sapere nessuno più? Chi avrebbe creduto che perfino
quello ragazze, tanto belline, tanto plutoniche, si son buttate anche
loro al materialismo 1 1 Ah ragazzo, ragazze: da voi me lo aspettavo, che
sareste rimaste platoniche lino ad aver trovato un marito, o un facente
funzione; ma Finali, Monabrea, Borgatti, tutta gente massiccia, chi avrebbe
mai creduto ohe avrebbero lasciato nelle peste il Conte ed il suo
illustre oommilitonef Vista la brutta china, direbbe Sella, io proporrei
(il raffreddore mi ha dato un diluvio di proposte) che ROVERE (si veda) e
Ferri siano impagliati, e ben conservati nell’atrio dell’Accademia de’
Licei con questa memore iscrizione. QUESTI BIPEDI IMPLUMI ULTIMI DELLA
SPECIE ESTINTA RIMASERO platonici, ESSI SOLI IN EUROPA DOPO IL
PRANZO PLATONICO Dopo della qual cerimonia vorrei che l’Accademia
prelodata a voti unanimi incaricasse il poeta pindarico B. Spaventa
perchè ne celebrasse condegnamente l’eroismo. E diamine 1 Alle Termopili sono
treceuto finalmente, eppure Simonide s’incarica di cantarne: qui si
tratta di line soli, in Europa, non contro schiere barbariche, ma contro
eserciti di dotti, e non ti paro che ci sia più materia di canto?
Ridettici bene, e poi dimmi il tuo avviso. Tu duuque hai
leggicchiato il mio amico Marino! 5 Beato te, 1 Scolare dell’ Istituto
superiore di Magistero, allora fondato a Roma: le quali — era la prima
volta che si vedevano tante signorine in una Università frequentano alla Sapienza le lezioni di
Berti. Su questo pranzo v. le mie Orig. della fllos. contemp. Una critica
che Marino (che è poi professore di filosofia morale a Catania) pubblica
degl’Elementi di fllosofia di Fiorentino. che hai tanto tempo da
marineggiare. Io l’ho qui il suo libro, ma non mi è avanzato un briciolo
di tempo: ed ho una sua lettera autografa, che impaglierò pure.
Povero! Mi ha scritto con una ingenuità, ohe se mi fosse vicino, lo
abhraccerei. Abbracciarlo sì, ma leggere no. Non gli ho neppure risposto,
ed ho fatto male. Volevo leggere prima e poi scri¬ vere. La bestia che
sono stato! Bisogna fare il rovescio: uè senza un perchè i metodi moderni
fanno precedere la scrittura alla lettura. Berti, p. es., fondatore della
moderna pedagogia prima lm scritto lo suo opere, e solo da qualche mese
iu qua, a quanto mi assicurano, si sta esercitando nella lettura.
A proposito, vorrei venire a Berna per informarmi da lui, perchè
Camoeraceneie, che vuol lire di Cambrai, egli l'ha tradotto della
Sorbona: facendo poi una dottn osservazione, che cioè Bruno or* saltato a
piè pari dentro la rocca dol1’aristotelismo eco. E poi vorrei sapere,
perchè dice che il De immenso, è un libro, uno tA’ tanti in cui è divisa
l’opera De monade, numero et figura; quando il De immenso ole. contiene otto
libri, ed il De monade, che sarebbe il contenente, non contiene nè
otto, nè due, perchè è un libro solo, unico tiglio di madre
vedova. Sono piccoli nèi, lo so, ma che dimostrano una piccolissima
cosa: il precetto pedagogico che testò avevo 1’onore di dirti, cioè
ch’egli prima scrisse, poi lesse ; o forse scrisse, e poi spese, nello
stampare, il tempo che doveva impiegare nella lettura. Barzelletti 1
però assicura eh’è il gran capolavoro della critica italiana : così mi
han dotto, perchè io, al solito, non 1’ ho visto; e poiché 1’articolo è
tradotto certamente dnll’inglese nella lingua degli Zulus, io mi tiguro la
festa che faranno quegli eruditi di laggiù. A furia di scrivere, mi
sono snebbiato un poco il capo, ina temo forte di averlo annebbiato a te;
legge di compensazione. Quando io mi trovavo a discorrere di FILOSOFIA con
Berti, rimanevo muto: tu sei più fortunato di me, hai il pretesto di
andare a fumare. Io che ho abborrito sempre il [Nell’ art. sulla FILOSOFIA
IN ITALIA pubbl. in una rivista inglese, e poi tradotto nella Muova
Antologia] tabacco, »e tornassi deputato, per non dovermi ingoiare quelle
forti dosi di FILOSOFIA scientifica, che mi somministra il nostro BERTI
(si veda), m’imparerei a fumare. Meglio lo stomaco sconvolto, elle il
cervello come un mulino. Spero bene però che non sono costretto a nessuno
di questi tormenti. Non mi dicesti se Morano ti da o no la prima
parte del Manuale ili moria della FILOSOFIA. Fattelo ilare, e
leggicchialo: invece di Marino, potresti dure un’occhiata al saggio mio. Vorrei
sapere se quel tanto è sullìciente per la coltura generale, o s'ò dippiit,
o di meno. Mi servirebbe di norma per le altre duo parti (Portici). Ha
lettera da Zeller, che ancora ò a Roma, e seppi del viaggio che faceste
insieme felicemente. M’incarica pure di dirti tante cose per la lettera
che poi gli scrivesti da Napoli. Egli è in giro dalla mattina nlla sera,
e crede che noi ci vediamo quotidianamente, e non che siamo a due poli
opposti. Ha la ricetta: si è fatta la bobba, ma non li’ è venuta
fuori la storia delle prove dell’esistenza di Uio. Per un concorso a una
cattedra universitaria, della cui commissione fa parte Fiorentino ed è
presidente io SPAVENTA, questi lo prega di raccogliere gl’appunti per una
relazione sulla voluminosa Storia delle prove dell’esistenza di Dio di Bobba. Fiorentino,
da Pisa gli risponde. Letto il tuo, piò volte espresso, desiderio, ho posto
mano alla lettura del Itobbu. Un corto estro maccaronico mi invase
alla prima pagina; ma ho lasciato il poema lutino ai primi due versi e
mezzo. Eccoteli: Iufainem, liertrunde, iubes supportare laborem, Insipidimi
scilicet putidumqiie ingoiare bobatam; Obediain tamen etc. Esto
prendendo appunti; ma che diavolo vuoi appuntaret Finirà prima la pazienza
mia, che le sue sciocchezze. È un pover’ uomo, e noi uccideremo un
morto. (Pisa. — E poi c’è il secondo libro della Legge morale di Crescenzio: il titolo è Francesco
Fiorentino. Te lo saresti sognato eh’ io dovessi diventare nn secondo
libro della legge morale! Neppure per idea: la Puglia fa
miracoli. Ma la cosa non Unisce qui: il terzo libro sarai tu. 1 u in
persona! con gli occhiali, con gli stivali alla prussiana, tu sarai un
libro di un’opera. Non so se l’opera avrà molti altri libri: a
congetturare dall’opera de intellectn dello stesso autore, ch’era divisa
in 100 libri, par checi debbano entrare il mellifluo D’Èrcole,
il veronese Bertinaria, ed il truculento Ferri, con parecchi altri
personaggi minori. Ogni libro costa 20 centesimi: ed io per ora sono venduto
a questo prozzo : tu iorse salirai a cinque soldi ; o calerai a tre,
secondo che P opera seguirà il processo ascensivo o il
discensivo. Il bello consiste ne' documenti. Nella copertina 1 autore
dimostra che io sono causa di parecchie depredazioni e grassazioni nei pressi
di Casale. La mia influenza venefica s è esercitata, per non so quale
selezione, su la provincia di Ales¬ sandria: e la tua! Probabilmente
verso Girgenti, o in quei pressi. Che non ci sii stato non preme, l’etica
hegeliana è come la filossera, si estende per salti di 70 chilometri la
volta. Delle stroncature, come oggi si direbbe, dei Crescenzio ormai chi
se ne ricorda più ? Ma c’ è sempre qualche De Crescenzio in giro, pronto
a dimostrare, come quattro e quattro fanno otto, che il tal filosofo
o il tal altro sovverte la legge morale, il buon senso, o le leggi
fondamentali della logica ecc. Ma il filosofo può accogliere siffatte
dimostrazioni con lo stesso buon umore del Fiorentino. Intorno al
Fiorentino v. le mie Origini della filosofia contemporanea in Italia. Giovanni Gentile. Keywords:
Reale Accademia d’Italia, what does ‘fascista’ applies to – philosophically? To
‘state’ – how is it defined philosophically? Opera complete frammenti di storia
di filosofia 3 volls -- - Refs.: Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library,
Villa Grice – Luigi Speranza, “Grice e Gentile: implicatura conversazionale” --
Conversation and inter-subjectivity. – The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza. Gentile.
Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – scuola di Trieste – filosofia triestina – filosofia friulese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo triestino. Filosofo friulese. Filosofo
italiano. Trieste, Friuli Venezia Giulia. Grice: “I love Gentile; like me, he is interested in
Aristotle’s immotum motor, and the idea of number in Plato – but he extends his
views to all the rest of philosophy of language; if Vitters wrote a ‘trattato,’
so did Gentile!” – Si laurea a Pisa sotto Carlini. Insegna a Mantova, Vigevano, Padova e Trieste. Fonda
il Bollettino filosofico. Considerato il fondatore della "scuola
padovana" di metafisica neo-aristotelica.
Altre opera: “La dottrina platonica delle idee numeri e Aristotele” (Pisa:
Tip. Pacini-Mariotti); “I fondamenti metafisici della morale di Seneca” (Milano:
Vita e pensiero); “La metafisica presofistica; con un'appendice su Il valore
classico della metafisica antica, Padova: MILANI); “La politica di Platone,
Padova: MILANI); Institutio: sommario storico di filosofia dell'educazione,
Verona: La Scaligera); “Umanesimo e tecnica, Verona: Arti grafiche Chiamenti);
“Bacone, Brescia: La Scuola); “Didattica: testo ad uso degli istituti
magistrali e dei giovani maestri, Milano: Marzorati); “Filosofia e umanesimo,
Brescia: La scuola); “Il problema della filosofia moderna, Brescia: La scuola);
“Come si pone il problema metafisico, Padova: Liviana); I grandi moralisti,
Torino: Edizioni Radio Italiana); “La riforma silenziosa della scuola: il
completamento dell'istruzione primaria ma inferiore, Bologna: G. Malipiero); “Se
e come è possibile la storia della filosofia, Padova: Liviana); “Storia della
filosofia -- Periodo antico e medioevale -- Dal Rinascimento fino a Kant -- La
filosofia contemporanea -- Padova: RADAR); Saggi di una nuova storia della filosofia,
Padova: MILANI); Breve trattato di filosofia, Padova: MILANI). Dizionario biografico
degli italiani. G. occupa sicuramente un posto importante nella storia della
filosofia del secolo scorso, ma – se fin dall’inizio non vogliamo avanzare
discorsi di carattere celebrativo o commemorativo, quanto innanzitutto
teoretico – forse dovremmo dire, più correttamente e semplicemente, che egli
occupa un posto importante nella storia della filosofia. Il senso di questa
affermazione, e la ragione per cui vale la pena di rinnovare, anche in questa
sede, la riflessione sul maestro patavino, è che egli ci rimette davanti alla struttura
essenziale del filosofare. La sua concezione della filosofia come problematicità
pura si di-mostra infatti quale dice di essere, veramente classica, in quanto,
evidenziando in tale problematicità quella che non può non essere con-siderata
la caratteristica fondamentale e imprescindibile del filosofare, mostra di
possedere essa stessa un valore permanente ed attuale.Ricordato come fondatore
della scuola padovana della metafisica classica, G., proprio in virtù del
riconoscimento dell’attitudine problematica del filosofare, poté affrancarsi
dalla sua formazione idealisti-co-attualista e aderire alla scoperta
aristotelica dell’Atto puro quale princi-pio divino trascendente l’esperienza.
Egli sviluppò così una posizione originale che, giunta a maturità speculativa
negli scritti padovani del secondo dopoguerra, si distingueva, oltre che dalla
corrente neoidealista, ancora attiva soprattutto nel pensiero di Spirito, anche
dalle due filosofie di ispirazione cristiana allora prevalenti, la filosofia
neotomistica, nelle sue va-rie declinazioni (Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e
la filosofia neoclassica di Bontadini. Le sue opere più significative, in
particolare Come si pone il problema metafisico (Padova),
Breve trattato di filosofia (Padova) e Trattato di
filosofia (Napoli), non sono tuttavia solo innovative per l’epoca in cui
sono state concepite, ma, come si accennava, restano a tutt’oggi testi vivi e
parlanti, che, nella radicalità del domandare su cui si fondano, appaiono in
grado di raccordare la prospettiva metafisica anche alla sensibilità esigente e
inquieta del nostro tempo. La fecondità della problematicità pura non è
peraltro esaurita dai suoi esiti metafisici: il “domandare tutto che è un tutto
domandare” è ben più che una formula descrittiva della natura della filosofia, è
un vero e proprio “metodo”, che il maestro patavino dispiega nei più diversi
ambiti del suo impegno teoretico. E che anche nel nuovo millennio merita
attenzione. Di questo domandare filosofico vogliamo dunque continuare a va-gliare
la profondità speculativa, a cominciare dai “saggi” qui raccolti, che intendono
sviluppare i motivi di interesse riscontrati nel pensiero di G. da alcuni
studiosi che lo hanno, direttamente o indiretta-mente, conosciuto. Questa
stessa problematicità può del resto essere assunta anche come chiave di lettura
dei contributi che presentiamo, essendo ravvi-sabile quale principio animatore,
ora espressamente tematizzato, ora silenziosamente sottostante l’opportuno
ripensamento dei vari aspetti dell’opera filosofica del nostro Autore. Il nesso
risulta subito evidente nell’articolo di BERTI (si veda), uno dei primi e forse
il principale tra gli allievi, che in un saggio denso di ricordi, si sofferma
su uno scritto apparentemente secondario tra gli ultimi pubblicati dal Maestro,
forse l’ultimo, dedicato alla possibilità di pregare il Motore immoto. Si
tratta infatti sicuramente di un’occasione per ripercorrere nei suoi tratti
essenziali l’interpretazione gentiliana della metafisica aristotelica, per
ripensare le due caratteristiche fondamentali del “Dio” dello Stagirita, la
trascendenza e l’intelligenza, ma anche – ci sembra di poter aggiungere – per
ritrovare in quel pregare l’espressione estrema, e forse più autentica, del
“domandare tutto-tutto domanda-re”, che, di fronte alla causa suprema
ordinatrice del cosmo, poteva, e forse doveva, assumere connotazioni affettive
e oranti. Il tema del domandare puro e integrale è ancor più pienamente al
centro del saggio di Bartolomei, che di tale domandare indaga le potenzialità,
sia come ineludibile punto di partenza di ogni ricerca filosofica, sia come
fulcro di “fruttuosi collegamenti” con alcu-ni pensatori contemporanei,
evidenziandone, pur nella distanza e divergenza delle posizioni, la
comunicabilità e l’inaspettata consonanza su punti fondamentali. È quanto si
verifica con Adorno, a proposito della legittimità della problematica metafisica
e delle caratteristiche di apertura e processualità che connotano la conoscenza
dei suoi oggetti, i concetti; con Badiou, per la specifica intenzione di verità
che distin-gue la filosofia dagli altri saperi; con Weischedel, sotto il profilo
della necessaria radicalità dell’interrogare filosofico, che, anche laddove non
giunga ad esiti metafisici o teologici, non può non avvertire la realtàdel
mistero che lo sollecita. In tutti questi casi – conclude l’Autrice – la
posizione di G., interloquendo costruttivamente con linee di pensiero
profondamente differenti da quella propria della metafisica classica, dimostra
una inesausta vitalità filosofica.Il terzo saggio, redatto da Gabriele De Anna,
affronta il problema del valore morale dell’azione cercandone la soluzione
nelle pagine del TRATTATO DI FILOSOFIA, e rinvenendola nel ricorso all’uso
pratico dell’intelli-genza che coglie il principio nell’esperienza, e quindi
una normatività nel reale. In questa lettura l’importanza della problematicità
gentiliana emerge specialmente nel farci intendere come il manifestarsi del
principio, e quindi del valore, sia inseparabile dall’esperienza, intesa come
atto che precede e trascende continuamente la distinzione soggetto-oggetto
nella sua costitutiva tensione al sapere. Ma essa ci fa anche meglio
compren-dere la prospettiva metafisica di G., che si presenta come ripresa della
concezione aristotelica, ma allo stesso tempo accoglie dal pensiero moderno
l’attenzione al ruolo del soggetto, si dice classica, ma non è per questo
oggettivista, come altre, più note, versioni della stessa. Una particolare
declinazione dell’azione morale è costituita dalla pratica pedagogica, un altro
dei grandi temi della riflessione filosofica gen-tiliana, cui è dedicato il quarto
e ultimo saggio, frutto della riflessione comune di Xodo e Benetton. La
pedagogia di G. è una pedagogia umanista, poiché l’umanesimo – egli scrive –
che è ricerca di classicità, si attua come paideia , cioè come
sforzo di realizzare nelle più diverse situazioni storiche l’essenza
dell’uomo», e pertanto non è un si-stema compiuto, ma una sollecitazione a
riprendere instancabilmente la ricerca speculativa sulla verità della persona,
ulteriore espressione di quel domandare radicale in cui si traduce ogni serio
impegno filosofico. Le Autrici sottolineano come in questa prospettiva,
considerando l’essere umano nella sua integralità, l’umanesimo, anziché
contrapporsi, si possa intrecciare fecondamente, anche in ambito scolastico,
con la scienza, la tecnica, e le attività professionali, persino manuali.
L’indicazione è di preziosa attualità e ci fornisce un’altra conferma della
potenza del domandare filosofico, che percorre tutti questi testi. In essi possiamo
infatti vedere tale domandare vigorosamente rinno-varsi tramite la voce di
Gentile. D’altra parte, a sua volta, lo stesso Gentile, in un necessario
scambio di ruoli, tramite questo domandare, persiste a interrogare e a
interrogarci. Ci auguriamo che possa profi-cuamente interrogare anche l’attento
lettore. Marino Gentile. Gentile. Keywords: storia della filosofia period
antico – filosofia romana, la preghiera, segno dei romani – italici antici –
pre-sofistica – pre-Georgia –l’uso di ‘classico’ in latino classico ---- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gentili: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della filosofia romana arcaica scuola di Roma – scuola romana –
filosofia romana – filosofia lazia – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Valmontone). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo Italiano.
Valmontone, Roma, Lazio. Grice: “I love Gentile, and Austin and Ryle do too –
he is a classicist – from central Italy therefore he FEELS Roman – he has
explored the beginnings of philosophical thinking in Lazio, as opposed to the
old schools of Velia, Crotone, and Agrigento --.” Si laurea a
Roma sotto Mercati e Perrotta. Isegna a Urbino. Fonda Il Centro di studi sulla
metrica latina. Figlio di Attilio e Giuseppina Cicciarelli. Frequent il Liceo
Classico "Ovidio" di Sulmona. Studia a Roma sotto Romagnoli, laureandosi
sotto Mercati con “Un Studio critico intorno alla storia di Agatia e alla sua
tradizione manoscritta”. Insegna a Roma, al Liceo Classico "Virgilio"
di Roma. Quando Perrotta si avvicendò a Romagnoli a Roma, G. ne fu subito
conquistato e Perrotta lo volle come assistente. Dal suo maestro Gentili apprese l'arte della
filologia e la passione per la metrica latina (“Metrica e ritmica”). Influenza significativamente
gli allora giovani della filologica latina capitolina, tra cui Rossi e Privitera
che ricorda come quelle "lezioni non avevano il tono pacato delle lezioni ex
cathedra. Come docente, Gentili era bifronte. Si può, anzi, dire che bifronte
fosse sempre; secondo i casi poteva essere flessibile o intransigente, giocoso
o severo". Le sue erano esercitazioni, erano seminari. Bbasava
l'insegnamento sulle sue ricerche. Gli
anni non sono facili, sono anni di studio intensi e febbrili per lo studioso
che culmineranno, insieme ai volumi sulla metrica, con una serie di lavori sui
lirici: oltre alla già ricordata antologia Polinnia, il saggio Bacchilide.
Studi e l'edizione di Ancreonte, Insegna a Lecce dove ebbe modo di frequentare Prato
insieme al quale divenne coautore della teubneriana edizione dei Poetae
elegiaci.La svolta decisiva, tuttavia, fu rappresentata dalla chiamata a Urbino
dove nello stesso anno venne inaugurata la Facoltà di Lettere grazie
all'impegno di Bo. Cura la Medea di Seneca (Istituto Nazionale del Dramma
Antico, Mazara del Vallo). Altre opere: “Lo spettacolo nel mondo antico, Roma,
Bulzoni); “Storia e biografia nel pensiero antico” Bari-Roma, Laterza. Cfr. G.,
Eric R. Dodds mentitore? “La idea della comunicazione nella tradizione
classica" Treccani. La cultura e l’opinione pubblica: anche nel mondo
romano il rapporto è stato difficile, spesso conflittuale. Le origini della
filosofia a Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico. L’arco
di tempo della difficoltà dei rapporti e non solo. Tensioni, incomprensioni e
scontri non mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci
di dissenso da NERONE, che sono le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche
con ciò che la mentalità comune pensa dell’imperatore: ma qui la nostra analisi
si limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima trova
resistenze nella CONCRETEZZA tradizionale dei Romani. L’astrazione filosofica
suscita sospetti diffusi, come se si tratta di un imbroglio, un raggiro. Non
mancarono le espulsioni dei filosofi a partire almeno dal 190-180 a.C. Celebre
la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene., perché giudicati pericolosi per
la società romana. Soprattutto tale appare quel Carneade sul quale si interroga
don Abbondio nella notte degl’imbrogli. Ma insieme alla filosofia venne colpita
la retorica, cioè la tecnica del parlare bene, che pure e d’importazione greca.
Svetonio ci racconta delle difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo
che nel 161 a.C. un decreto del Senato bandisce dalla città insieme retori e
filosofi non-romani. Ma la novità culturale non si arresta per decreto: e la
tecnica retorica riprese fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente
apprezzata anche dai Romani, purché fosse rigorosamente controllata
dall’aristocrazia. E così accadde che nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola
di retorica a Roma, per iniziativa di un personaggio non molto famoso: PLOZIO
GALLO. E. la scuola dei rhetores Latini, della quale parla anche CICERONE, per
testimoniarci dei successo che essa riscontrava presso i allievi di allora e
del suo rammarico per non potervi accedere: Arpinate e infatti trattenuto da
altri maestri, che lo indirizzavano allo studio della retorica SOLO IN GRECO,
come una volta si fa. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di PLIOZIO
GALLO? Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i
consiglieri di CICERONE agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto
didattici, quanto politici. La scuola dei retori latini rischia agl’occhi loro,
e agl’occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un pericoloso
centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di accesso al
potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del maestro, cioè di PLOZIO
GALLO col popolare MARIO, in anni di contrasti fortissimi in Roma, culminati
nella guerra per il diritto di cittadinanza degli Italici. È sempre CICERONE a
informarci, nel trattato intitolato “De oratore”, dell’esistenza di questi
maestri e del loro insegnamento, e lo fa per bocca di LUCIO LICINIO CRASSO che,
allora censore, li aveva colpiti con un editto di chiusura della scuola. E una
scuola di impudenza e di perdita di tempo, agl’occhi di Crasso e dei suoi amici.
Essi andano ripetendo che la mente divene ottusa e si rafforza la loro
pericolosa sfacciatagggine, mentre i retori si proponeno esattamente il
contrario: aprire la mente degli alunni, farli ragionare, spiegare il perché
delle cose e dei problemi. Il genere di insegnamento consiste sostanzialmente
in una sintesi di filosofia, in vista della formazione di un uomo di cultura
completa. Si dove trattare quindi del superamento di una preparazione
esclusivamente tecnica e precettistica, a vantaggio di una formazione globale
dell’oratore. Questi divenne così il depositario di una cultura in grado di
fargli reggere con competenza il timone della repubblica romana. È in questo
contesto culturale e sociale pieno di fermenti e di stimoli nuovi che si forma
CICERONE. E. Badi?n, nella recensione al volume Gli storiografi latini
tra mandati in frammenti, Atti del Convegno, Urbino, a cura di Boldrini,
Lanciotti, Questa, Raffaelli (Studi Urb. n.s. B ), pubblicata in Am. Journ.
Philol., una recensione per altro biliosa e insieme presuntuosa, nella
stragrande maggioranza dei contributi, dedica al saggio 'Storiografia romana
arcaica' appena due parole: "the long essay in unoriginal mediocrity, e.g.
a potted survey by G.": un giudizio drasticamente negativo, non sorretto
da un'ombra di argomentazione; diverso evidentemente il parre di Musti, che ne
ha inserito un lungo brano nel reading, da lui curato, La storiografia greca.
Guida storica e critica, Bari. Certamente ognuno, nel recensire un saggio, ha
il diritto di giudicare come crede il saggio che recensisce. Ma ha il dovere di
motivare con una qualche analisi il proprio punto di vista, se non altro per
mettere in grado il lettore di comprendere il senso critico del discorso. Se il
Badi?n si fosse soltanto limitato ad esprimere il suo dissenso o il suo
scetticismo sulle mie tesi, non avrei ritenuto necessario que quale liquida
molto perentoriamente la sto l’intervento. Ma quando egli definisce sic et
simpliciter "non ad una "rassegna raffazzonata", il suo giudizio
in uno stato originale" il mio discorso, debbo pensare che egli d'ira,
provocato forse dal fatto che io non ho citato il suo saggio riducendolo abbia
espresso 'The Early Historians', in Latin Historians, ed. Dorey, London, che,
esso si, ? realmente una rassegna, certo ben informata e corretta ma senza
alcuna pretesa di originalita. Egli stesso del resto lo presenta come
un'esposizione panoramica intesa a riproporre alla storiografia una tem?tica da
essa obliterata. Faccio notare, d'altra parte, che questo suo saggio stato da
me citato, a proposito della cronaca pontificale, nel volume che ho scritto in
collaborazione scorso storico nel pensiero greco e G. con Cerri, Le teorie del
di Roma, ricerche la storiografia, e che rappresenta l’edizione arcaica, delle
dettato infon certa ricon "prag definir? Dunque, giudizio dato mente dotta
m?tica" "non sull’argomento. solo un risentimento che, prima ancora
che a gl’effettivi contenuti di questo ingiusto, del mio tipo appare un
rispetto sa che la studio. alla tecnica di tipo Come quella da nel soleo ? me
allora ed tucidideo-polibiano. una nuova tesi, l’opera storiografia
'isocratea'? possibile proposta illustrata, indico come originale che riconduce
di Che cosa io intenda quella che con questa storiografia degl’Annales di FABBIO
PITTORE Pontificum di Fabio chiarito in un precedente saggio, sulla rivista II
Verri, al quale di proposito avevo rinviato all’inizio dell’intervento nel
Convegno di Urbino ora ripubblicato in Communication Arts in the Ancient World,
ed. Havelock e Hershbell, New York. E avevo esaustivamente pubblicato frammento
delle varie ancora: puo dirmi programmatico di il Badi?n se la mia Sempronio
Asellione interpretazione del con una nuova A questo punto sarebbe doveroso da
parte del Badi?n tornare sull’argomento per dimostrare, se ? in grado di farlo,
che l’impostazione del mio discorso ? effettivamente priva di qualsiasi
originalit? e non ? altro che una rassegna rabberciata di idee altrui.
Universita di Urbino Letteratura: addio al insigne studioso di metrica. Accademico
dei Lincei e professore emerito ad Urbino Roma,
(Adnkronos). G., insigne studioso della letteratura classica e in
particolare della metrica, è morto a Roma. L'annuncio della scomparsa è stato
dato dall'Accademia dei Lincei di cui è socio. Nato a Valmontone (Roma). Professore
a Urbino, dove ha insegnato i classici, nella facolta' di Lettere che insieme
al rettore Bo ha contribuito a istituire. Fondatore della rivista ''Quaderni
urbinati di cultura classica', di cui e' stato a lungo direttore. Filologo
rigoroso, G. si dedica allo studio della lirica e della metrica arcaica,
curando anche edizioni critiche di testi di diversi poeti. Tra i suoi saggi
''L'Iliuperside nelle figurazioni anteriori a VIRGILIO (si veda)'', ''Metrica
greca arcaica'', ''La metrica dei greci, l'edizione critica di Anacreonte,
''Bacchilide. Studi', ''Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella
lirica corale greca''; l'antologia ''Polinnia. Poesia greca arcaica'' (in
collaborazione con Perrotta). La vasta bibliografia di G. comprende anche
''Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la STORIOGRAFIA ROMANA
ARCAICA' (in collaborazione con Cerri), ''Storia del mondo romano'' (in
collaborazione con Pasoli e Simonetti),
''Lo spettacolo nel mondo antico. Teatro ellenistico e teatro ROMANO arcaico',
''Storia e biografia nella FILOSOFIA antica (in collab. con Cerri) e ''Poesia e
pubblico nella antichita”, che che e' valsa all'autore il Premio
Viareggio-saggistica (Sin-Pam/Ct/Adnkronos) CLASSICITÀ E CONTEMPORANEITÀ: G.
NEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI. Kein Volk der Geschichte, auch das begabteste
nicht, läßt sich isoliert betrachten. Ein jedes wird durch äußere Anstöße aus
zuständlichem Dasein in geschichtliches Leben übergeführt. Weder seine äußere
noch seine innere Geschichte kann verstanden werden, ohne die Fäden zu
verfolgen, die es mit außen verbinden. (Usener). Il senso vero di una vita
piena è quello che essa imprime di più anche sulla quotidianità: la ricerca.
Ricerca. Ricerca. Ricerca. Il possesso che noi abbiamo di certi principi (che a
loro modo sono verità) è labile e sfuggente – e non appena noi ci illudiamo di
stringerlo, ecco scom-pare. (Anceschi). G. ha visto comparire vari ampi e impegnati
ricordi ad opera di alcuni tra i colleghi e allievi più vicini. Con attenzione
e devozione vi sono evocati i momenti e i contributi più significativi nella
carriera scientifica del grande classicista; nel riper-correrla si dà davvero
la possibilità di posare lo sguardo sulla storia della filologia classica, via
via italiana europea. A tutti comune è il riconoscimento del forte valore
innovativo nell’incessante attività critica e filologica di G., con la
fondazione dei Quaderni Urbinati di Cultura Classica, vera e propria officina
intellettuale dove su impulso del fondatore e direttore la filologia classica,
senza mai smarrire la dimensione tecnica e specialistica, si apre al confronto
serrato non solo con l’archeologia, la storia e l’ermeneutica, ma anche con
discipline emergenti quali l’antropologia, la semiotica, la linguistica e la sociologia
della letteratura. A tale sensibilità può ben connettersi la visione che G. elabora della traduzione, nella ricerca e
nell’asserzione di una teorica eminentemente pragmatica -- Così Catenacci -- e
quindi una poetica non astratta, non prefigurata su schemi di modelli già
esperiti, così sempre tendendo a «una poetica aperta che si costrui- sca gli
strumenti adeguati ad una maggiore portata di comunicazione»: il problema del
tradurre è così definito nei termini «di quell’idea cui aspira l’antropologia
contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del
mondo, strutture linguistiche e sistemi grammaticali diversi e distanti nel
tempo. Una prospettiva che nello studio e nella traduzione dall’antico (e
dell’antico) a G. certo si schiuse in relazione e risposta alle sfide prodotte
dai grandi mutamenti culturali e sociali, di rilievo antropologico appunto: una
prospettiva d’apertura nell’analisi e negli strumenti applicati
all’interpretazione dei testi antichi, e in particolare della Grecia di età
ar-caica, che mi è sembrato potesse essere bene espressa dalla prima citazio-ne
in esergo, di un altro grande innovatore degli studi classici al volgere di un
secolo, Usener. Il passo proviene da un discorso rettorale bonnense riproposto
in occasione del Congresso inter-nazionale della FIEC tenutosi a Bonn, e
richiamato da Gentili nel famoso saggio L’arte della filologia. A
differenza della fortunata citazione nietzschiana d’incipit («filologia è
quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da
parte, lasciarsi tempo, divenire lento»), il rimando a Usener è passato
piuttosto inosservato. G. si rifà alla Rede bonnense, dal
titolo Philologie und Geschichts- wissenschaft 4 , discutendo
della prevalente natura ‘storica’ o ‘scientifica’ della filologia classica e
rinvenendo «una impostazione sostanzialmente corretta del problema» nella
distinzione attribuita a Usener, «che delimitò i due campi specifici della
ricerca, riservando alla filologia la critica e la ricostruzione del testo e
all’indagine storica l’interpretazione globale del mondo antico» La prolusione
di Usener si apre con un panorama della storia degli studi classici sin dal XVI
secolo francese e ugonotto, subito poi riservando G., dalla relazione
presentata al convegno La traduzione dei testi classici.
Teoria prassi storia (Palermo), nei cui Atti poi comparve (G.).
All’interno della Festschrift per il convegno curata da
Schmidt; al congresso bonnense G. presenta il fondamentale intervento
L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro
tempo. Sin-cronia e diacronia nello studio di una cultura orale (G.).
4 U. G. Che la riflessione sulla storia della filologia classica sia
strettamente connessa ai temi trattati nella prolusione rettorale è ben
chiarito nella postilla che la intro-duce: «Die Geschichte einer Wissenschaft
verzeichnet nicht bloß Leistungen. In ihrer Geschichte entfaltet sich ihr
Begriff, der nicht unberührt bleiben kann von dem Wandel der Generationen. Die
wissenschaftliche Arbeit bedarf der Selbstbe-sinnung, will sie nicht ziellos in
der Unendlichkeit des Einzelnen umhertreiben." grande rilievo al genio di
Bentley (zur Grundlegung einer Wissenschaft die Wege dazu hat erst das Genie
Rich. Bentleys gebahnt), pur riconoscendo solo alla cultura tedesca, nel fatale
trapasso, la decisiva spinta perché lo studio dell’antichità classica si
costituisse «zu einer geschlossenen philologischen Wissenschaft. Grazie
soprattutto all’impegno di dotti come Melantone e Camerarius, la centralità
della Parola proclamata dalla Riforma si era rivelata determinante per
assicurare la presenza dell’insegnamento del greco nelle nuove scuole volte
primaria- mente alla formazione dei pastori evangelici, finché nei rifondatori
della letteratura tedesca (Klopstock, Lessing, Hamann, Herder) «der
gottergebene idealistische Sinn des norddeutschen Protestantismus»,
laicizzandosi, risultò fecondo per la rinascita della cultura e della scienza
tedesca grazie a figure come Winckelmann, Reiske, Heyne. L’organica
sistematizzazione delle varie discipline volte al fine della
Rekonstruktion des Altertums secondo l’intuizione dei grandi
edificatori e teorizzatori dell’Altertumswissenschaft, Wolf e soprattutto
Boeckh si fa altresì modello per le nuove filologie applicate alle varie
letterature d’Europa, come pure per le discipline storico-filologiche volte
allo studio del ben più antico patrimonio di cultura e civiltà delle lingue
mesopotamiche, semitiche e arie. A fronte dell’enorme ampliarsi delle
conoscenze non solo all’interno dell’Altertumswissenschaft, con diretto
riferimento al mondo classico nelle sue varie epoche e aspetti, ma soprattutto
all’esterno, negli orizzonti aperti dalle antiche civiltà del Vicino Oriente
rivelate dall’archeologia, Usener riconosce l’impossibilità di isolare la
civiltà greca dall’attenta considerazione di quegli influssi, certo
determinanti nella genesi almeno dell’arte greca: heute zeigen die Reste
Babylons und Ninivehs verglichen mit den griechischen und italischen
Gräberfunden jedem, der Augen hat zu sehen, von wo jene hellenische Kunst
ihre Anstöße und auf lange hin nachwirkenden Vorbilder empfangen hat». In
realtà a Usener preme soprattutto mettere in rilievo che il concetto stesso di
storia si è enormemente ampliato, al di là della tradizionale identificazio- ne
nella «pragmatische Entwicklung der Haupt-und Staats-aktionen von Fürsten und
Völkern», ormai annettendo territori ignoti, nati dall’indagine delle origini
delle lingue, dei credi, dei costumi, dei miti (die unbegrenzte Ferne einer
vorgeschichtlichen Geschichte. In tale condizione appare al professore bonnense
ormai impossibile aderire a una costruzione della filologia quale quella
boeckhiana. La filologia, egli afferma, non può più essere intesa come scienza
storica, perché radicalmente mutata è la visione stessa della storia propria
del tardo XIX secolo 8 . La filologia è piuttosto da Onde se la moderna POESIA
ITALIANA e francese è figlia degli studi umanistici, la letteratura tedesca è
invece legata alla nostra filologia in uno stretto rapporto di sorellanza»
(Usener). 8 Usener è in proposito molto chiaro: Es bleibt also dabei:
eine geschichtliche considerarsi ein Studienkreis, un insieme di discipline che
vertendo sulla parola scritta, e così assolvendo alla funzione di arte o metodo
di decisivo valore nel fissare i contenuti della conoscenza storica,
costituisce «die letzte Voraussetzung aller geschichtlichen Forschung: una
filologia come tecnica dell’interpretazione che, potenziata dalla prospettiva
comparatista, assunse forse agli occhi di Usener i tratti di «una sorta di
antropologia. Ho indugiato sul saggio di Usener perché l’insieme della sua
opera, spesso poco apprezzata dal mondo filologico tedesco contemporaneo, gode
da anni di crescente attenzione, anche in ragione degli interessi
‘trasversali’, comparativi e religionsgeschichtlich che
l’attraversano e innervano, non privi di influssi sullo sviluppo della teologia
dapprima protestante e poi cattolica nella Germania, e forse anche sulle origini
degli studi novecenteschi italiani di storia delle religioni e di storia del
cristianesimo. Notevole è, nelle pagine di Gentili sull’arte della filologia,
il suo rifarsi a Usener. Sin dal titolo, a Nietzsche esse intendono forse
associare proprio il filologo bonnense, quasi provocatorio in una prolusione
rettorale nel definire Kunst l’essenza dell’attività filologica, pri-
Wissenschaft ist die Philologie nicht. Sie konnte und mußte als solche
erschei-nen zu der Zeit, als die Geschichtswissenschaft in ihrem heutigen
Begriff noch nicht vorhanden war. Es war die Zeit, wo die moderne Geschichtswissenschaft
zuerst ihre Blüten trieb. Alles hat seine Zeit». 9 «Wenn es also wahr
ist, daß der Boden aller geschichtlichen Wissenschaft das geschriebene Wort
ist, so folgt, daß die Kunst, welche dasselbe feststellt und deutet mittels
ihres grammatischen Vermögens, die letzte Voraussetzung aller geschicht-lichen
Forschung ist. Diese Kunst haben wir in der Philologie
erkannt» (Usener). Così Momigliano A partire soprattutto dal seminario a Pisa
coordinato da Momigliano e subito pubblicato come Aspetti di Hermann
Usener filologo della religione (Arrighetti). Sono apparse negli ultimi
anni edizioni italiane di varie opere di Usener, tra le quali Usener; Usener;
Usener. ssai notevole e davvero anticipatrice, nonché oggi di particolare
attualità, è la lettera al teologo bavarese I. von Doellinger, nella quale
Usener afferma che «lo scopo ultimo ed inespresso dei miei sforzi è quello di
aiutare a preparare l’unità della Chiesa della nostra nazione», passo su cui
attira l’attenzione Momigliano. È opportuno ricordare l’attenta, e assai poco
nota, presentazione che del Le-benswerk di Usener, grande
maestro che l’Italia colta quasi ignora, da Pestalozza, sulla rivista del
modernismo cattolico milanese «Il Rinnovamento» cessata quello stesso anno: su
Pestalozza, in quegli anni presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano
primo libero docente e poi primo do-cente in Italia di Storia delle religioni,
vd. i riferimenti in Benedetto Non sorprende il dissenso, rispettoso ma chiaro,
che subito espresse il trenta-quattrenne Wilamowitz circa la visione della
filologia presente nella Rektoratsre-de , prospettandone una ben diversa:
«Die alte Poesie (und natürlich ebenso Rechtmariamente volta a fondare
l’affidabilità della parola scritta. La centralità del testo, oggi
preferiamo dire: quel testo visto da G. come struttura complessa di materiali
linguistici, d’IMPLICAZIONI (IMPLICATURE) metrico-ritmiche, referenziali e
pragmatiche nel cui processo interpretativo «una pluralità di discipline» è
coinvolta (uno Studienkreis , appunto) 16 . Senza qui proporsi di passare
in rassegna l’ampia, varia, settantennale attività scientifica di G., si
cercherà piuttosto di soffermarsi su alcuni aspetti, quali soprattutto il
rapporto con la figura di Perrotta e in genere con gli studi italiani di
filologia classica nella prima metà del Novecento, la produzione e la serie di
saggi di portata fondativa scritti da G., nei quali evidente è una svolta per
gli studi sulla lirica greca, e notevole l’interesse verso temi e problemi
della traduzione dall’antico. L’esordio di G. si ha e nel pieno della Seconda
guerra mondiale con un articolo nato dalla tesi di laurea con MERCATI (si veda),
dedicato soprattutto a passare in rassegna quattro inesplorati codici
delle Storie di Agazia conservati in biblioteche italiane (tre
Vaticani e un Marciano) . In quegli anni drammatici il giovane studioso li
collazionò in parte, avendo in animo di preparare una nuova edizione critica
dell’opera, in vista della quale non tace anzi l’intenzione di provvedere a «un
nuova collazione accurata» di un manoscritto Vulcaniano conservato nell’allora
inaccessibile Leida. Il netto cambiamento di interessi e una decisa virata ver-
und Glaube und Geschichte) ist tot: unsere Aufgabe ist, sie zu beleben […]
dann empfinde ich, daß Philologie doch etwas für sich ist, oder
wenigstens ihr τέλος hat (lett. in Dieterich – Hiller von Gaertringen –
Calder), e cfr. Sassi. G. Philologie in dieser
Auffassung ist nicht eine Wissenschaft, sondern ein Stu-dienkreis (Usener). Sin
d’ora rimando alle molte informazioni e osservazioni desumibili dal
Ri-cordo di G. di Angeli Bernardini; Catenacci; Cerri; Lomiento; G. A.
Privitera, commemorazione lincea lincei.it/ files/documenti/ Privitera_commemorazione_G.
.pdf ; Tedeschi. Cerri. Non si tratterà di Gentili editore e critico del
testo, tema che di per sé richiederebbe apposita discussione. Gentili. Come
chiaramente lascia intendere la chiusa dell’articolo: «Da quanto abbia-mo detto
appare chiaro che la sola finora ad avere almeno l’aspetto di edizione cri-tica
ed anche il metodo è quella del Niebuhr, in quanto si fonda sul valore
effettivo di una parte della tradizione. Ma l’uso di tutto il materiale
manoscritto, secondo gli intendimenti che ho esposto, trae con sé la necessità
di una recensione del testo di Agatia, che si fondi su basi più complete e
quindi più solide. E questo compito, se le forze non mi verranno meno, spero di
poter assolvere». Vd. in particolare ccorrerebbe perciò una nuova
collazione accurata [so la poesia greca arcaica si legano all’incontro
con Perrotta, dal 1938 sulla cattedra romana di Greco come successore di
Romagnoli e impegnato nel rinnovamento su modello crociano dello studio della
lirica greca ( Saffo e Pindaro. Due saggi critici uscì presso
Laterza), ma attento altresì all’esegesi puntuale di frammenti e ritrovamenti
papiracei, in particolare con interventi accolti nei pasqualiani STUDI ITALIANI
DI FILOLOGIA CLASSICA nota è in particolare la polemica intorno al poeta degli
epodi di Strasburgo. Un’importante rassegna ad opera di Perrotta su
La filologia classica nell’ultimo ventennio , apparsa per il Natale di
Roma in un volu-me promosso dal Ministero dell’Educazione Nazionale (Perrotta),
se è priva non solo di elogi ma si può dire di qualsiasi menzione del morente
Regime, è peraltro chiarissima sin dalle prime righe nell’affermare che il
«vero progresso segnato nel precedente ventennio dalla filologia classi-ca in Italia
è spiegabile perché essa «ha sentito profondamente l’influsso dell’estetica
moderna, anzi di tutto il pensiero moderno», con sicuro ri-ferimento al
crocianesimo e in genere agli orientamenti antipositivistici: «superate le
polemiche del periodo precedente, la filologia classica ha preso un nuovo
indirizzo vivificata dalle correnti nuove della cultura moderna, è divenuta
meno arida e pedantesca», e finanche «abbondano i saggi critici, che una volta
avrebbero destato scandalo». Dopo un rapido ma attento ragguaglio di commenti,
edizioni critiche ed edizioni di papiri pubblicati nel periodo considerato,
l’articolo si conclude appunto notando che mentre «in qualunque campo la
filologia classica italiana può sostene-re dignitosamente il confronto con quella
delle altre Nazioni», proprio «nel campo della critica letteraria, essa supera
di gran lunga la FILOLOGIA CLASSICA di qualunque altro Paese del mondo. Cinque
anni dopo, nell’Italia e nell’Europa, presentando ai let-tori insieme al
condirettore Funaioli la nuova rivista «Maia» («nome caro a due grandi poeti, a
Gabriele d’Annunzio e a John Keats»), in sostan-ziale continuità e coerenza con
se stesso Perrotta indicherà la via della ripresa dello «studio della civiltà
antica, per noi moderni» in un «rinnovato umanesimo», fondato sull’incontro tra
l’eredità del classicismo europeo del manoscritto, che mi propongo di
fare quanto prima»; si tratta del Cod. Vulc. 54, usato da Bonaventura Vulcanius
per l’ editio princeps del testo greco del De impe-rio et
rebus gestis Iustiniani imperatoris libri quinque , uscita a Leida (cfr.
Dewitte). Vulcanius (Smet), e professore nella nuovissima università di Leida.
Lomiento Su circostanze e contesto della successione illuminanti scorci in
Canfora Sulla quale, e sulla persuasiva identificazione in Ipponatte sostenuta
da Per-rotta, vd. Gamberale; Sisti; Morelli. Perrotta degli ultimi due secoli (la
tradizione gloriosa di Goethe e di Humboldt, di Winckelmann e di Schlegel, di
Shelley e di Keats, di Hölderlin e di Nietzsche, di FOSCOLO e di LEOPARDI, di CARDUCCI
(si veda) e di PASCOLI) e una pratica filologica che, nutrita di adeguata
consapevolezza critica e storica, trascendesse le mai del tutto sopite
conseguenze delle polemiche, e dei connessi schieramenti, che avevano lacerato
gli studi classici italiani d’inizio secolo: Il nostro ideale è il filologo che
abbia l’abnegazione d’un grammatico alessandrino e l’entusiasmo d’un umanista
del Quattrocento, la tecnica filologica e il senso storico dei grandi filologi
dell’Ottocento, il senso artistico e la coscienza critica dei migliori critici
letterari dell’età nostra. L’ideale della nostra rivista è la storia senza lo
storicismo, la filologia senza il filologismo, la critica estetica senza
l’estetismo e il vacuo filosofismo. Non manca subito di séguito una citazione
da Nietzsche, dalla qua-le risulta la filologia nel suo senso più elevato
rappresentata, come me- glio non si potrebbe, con alta fantasia poetica. Né
manca un richiamo a Nietzsche, in quella stessa prima annata di «Maia»,
nell’ampia e intensa commemorazione che Perrotta dedicò nel decennale della
morte a Ettore Romagnoli 28 , accostato a Nietzsche nell’accesa e immaginifica vita
di filologo, quindi rievocato come professore universitario a Catania
Funaioli – Perrotta. Che punto nodale del «discorso sulla filologia» sia «la
divisione o meno delle competenze tra filologia e critica letteraria in senso
lato» rimarrà, con altra prospettiva, costante elemento di riflessione per
Gentili: cfr. G.. L’ammirazione di Perrotta per Nietzsche filologo è messa in
rilievo da Gigante, il quale anche suggerisce che mediatore per il filologo
italiano della conoscenza di Nietzsche possa essere stato Croce; un’emendazione
del giovane Nietzsche («oltre a giudicare il carme nel suo insieme con la
finezza e la profondità ch’erano proprie del suo genio») è lodata e accolta in
Perrotta. Un certo paradossale irrigidimento di Perrotta «negli ultimi tempi in
cui poté ancora esercitare un sensibile influsso negli ambienti culturali, onde
egli afferma sempre più polemicamente e rigidamente la sua fedeltà al verbo
crociano commemora entusiasticamente il Romagnoli, proclama ripetutamente la
indipendenza dei supremi valori poetici da ogni condizionamento ambientale e
culturale» noterà Paratore (appunto a intendere «quella sopravvalutazione della
critica let-teraria che è sembrata così singolare in un uomo di così severa
formazione filolo-gica» è dedicata la commemorazione lincea di Paratore 1963a,
in gran parte rifusa nel profilo Perrotta in Grana). È utile citare
il passo: «Federico Ritschl soleva dire che Nietzsche giovinetto concepiva una
dissertazione filologica come un romanzo. Il grande filologo non intendeva
certo, con queste parole, spregiare l’attività filologica di Nietzsche giovane,
del quale egli presagì il genio. Ma un intuito profondo gli fa coprire in
Nietzsche qualche cosa di singolare, di acceso e di appassionato, che non
faceva assomigliare le sue dissertazioni, pur dottissime e condotte con metodo
impeccabile, a quelle degli altri. Poichè un uomo dotato di molta
immaginazione(attraverso la testimonianza del fraccaroliano e romagnoliano
Guglielmino), in particolare quando leggeva con predilezione i lirici
greci, e, traducendoli, comunicava agli uditori con la scelta felice delle
parole e delle espressioni, che potessero rendere con maggiore adesione il
pensiero e il sentimento dell’antico poeta, e anche con l’inflessione della
voce, quello che egli stesso sentiva. Il commento era sobrio, scevro
d’in-gombrante erudizione: accennava a questioni controverse dibattute dai
filologi solo quando avevano importanza innegabile per la retta interpretazione
di un passo dub-bio, e in tal caso riduceva la questione all’essenziale. È
anche quando, a cura di Perrotta e del suo as-sistente G., usce
Polinnia , antologia della lirica greca ad uso dei licei destinata a
grande fortuna nella scuola italiana della seconda metà del Novecento, sino
alla recente e rinnovata terza edizione. Non fu la prima antologia dei lirici
greci destinata alla scuola e impostata con rigore scientifico. Dopo che i
programmi, con LA RIFORMA GENTILE, più decisamente aprirono ai lirici le porte
dei licei, si diffusero antologie scolastiche nate in un periodo di estetica
esasperata, di olimpico dispregio per tutto quello che si chiama (e la parola è
oltraggio) FILOLOGIA, come vollero osservare prefando i loro Lirici
greci scelti e commentati Ugolini e
Setti che a quell’andazzo con efficacia e serietà reagirono, avendo per
modello essenzialmente Aglaia , la nuova an-tologia della
lirica greca da Callino a Bacchilide pubblicata da Lavagnini. In sede di
valutazione storica è giusto rilevare che ad Aglaia si sono
ispirate tutte le antologie successive che si finirà sempre per mettere,
anche senza averne affatto il proposito, perfino in una dissertazione
filologica, un po’ della sua immaginazione. Questo avveniva spesso a Romagnoli
(Perrotta). Le pagine di Perrotta sono in parte ripro-dotte nella sezione su
Romagnoli in Grana Nel Profilo di Bruno Gentili premesso da
Carlo Bo al I volume dei ricchissimi Scritti in onore di Bruno Gentili ,
Romagnoli ricorre accanto a Perrotta come pre-senza utile a comprendere in
Gentili l’«uomo dotato di spirito creativo, quale ge-neralmente posseggono
soltanto gli scrittori e in modo più specifico i poeti. La sua straordinaria
perizia filologica è strettamente collegata al suo gusto e alle sue doti di
creatore. Tutte cose che si possono riscontrare nella storia della sua
formazione, perché accanto a uno dei suoi primi maestri, Ettore Romagnoli, a un
certo punto si è accostato uno studioso come Gennaro Perrotta» (in
Pretagostini Nella
Prefazione a Ugolini – Setti 1940 due sono «tra i lavori
scolastici» quelli citati dai curatori perché risultati utili «per il loro
carattere più spiccatamente scientifico»: oltre all’antologia di Lavagnini si
fa cenno a un’opera di A. Taccone, in cui è da ravvisarsi l’ Antologia
della melica greca pubblicata con pre-fazione del maestro Fraccaroli,
attenta e informatissima ma ormai invecchiata a fronte delle scoperte papiracee
accumulatesi nei decenni successivi. Del libro di Ugolini e Setti dopo usce
un’edizione ampliata e rinnovata, in seguito ristampata: Ugolini – Setti
possono definire serie, a cominciare da Polinnia » 32 , senza
dimenticare che in pieni anni Trenta la volontà di chiarire agli alunni di liceo
l’«enigma psicologico» di Saffo e della sua passione dettò all’antologia di
Lavagnini toni ben più diretti 33 di quanto dieci anni dopo accadrà a
Perrotta (cui si deve la sezione su Saffo in Polinnia ), e più in
linea con le posizioni cui Gentili espressamente approderà negli anni Sessanta.
I cenni di Perrotta alle «gioie leggere del tiaso di Saffo» insieme a un certo
riemergere delle preoccupazioni per la difesa della poetessa dalle accuse di
immoralità tor-nano a riflettere ambagi e premure proprie peraltro
dei più noti studiosi di Saffo da Welcker a Valgimigli: impostazione da
Perrotta stesso a suo tempo esplicitamente confutata in Saffo e Pindaro
Così Degani. Nell’introduzione alla sezione su Saffo in Lavagnini, si dice che
«Saffo visse facendo della sua casa un centro di culto ad Afrodite, alle Muse,
e alle Cariti. Le più nobili e le più belle fanciulle di Lesbo e dell’Asia
vicina venivano a lei per essere ammaestrate nella poesia e nel canto, ed essa
vive tutta in questa compagnia di fanciulle. Anzi l’affetto per le scolare
assume un trasporto così im-petuoso e sa trovare accenti così caldi da prendere
i colori della passione di sesso, sicché la Lesbia resta ancora, almeno in
parte, un enigma psicologico per noi, che siamo così lontani da quel suo mondo.
Ivi è inoltre il rimando alla trattazione che del tema Lavagnini aveva dato
nella sua precedente Nuova antologia dei frammenti della lirica
greca (Lavagnini), dall’ incipit e dalle tesi assai esplicite, e
con esplicito rifarsi a Freud nell’individuare in Saffo «una invertita :
essa trasferì sopra creature del medesimo sesso il potenziale affettivo (
libido secondo la termi-nologia di Freud) che avrebbe dovuto normalmente
rivolgere su persone del sesso opposto. Al di là dell’interpretazione di Saffo,
le pagine di Lavagnini meritano di essere particolarmente segnalate in
relazione alla prima (s)fortuna italiana della psicanalisi, quando si pensi che
la RIVISTA ITALIANA DI PSICOANALISI, diretta da Weiss, è fondata e soppressa
due anni dopo: ricco di informazioni in proposito, benché talora disorganico e
confuso, Zapperi Per più ampi riferimenti su molti dei temi qui e di seguito
trattati rimando a Benedetto Cfr. Perrotta, in pagine non prive di sarcasmo e
oggi dimenticate: «Infine, non giovano a nulla le discussioni, interminate e
interminabili, sull’amo-re e sulla purezza di Saffo. I Welcker e i Wilamowitz
hanno difeso la poetessa nobilmente, ma non si sono accorti che nel loro zelo
appassionato essi stessi non erano troppo lontani dai grammatici dell’età
romana, da quel Didimo che disser-tava dottamente an Sappho publica
fuerit In realtà, Saffo non ha bisogno di essere giustificata: essa che, se
potesse udire i suoi accusatori e i suoi difensori, non intenderebbe neppure i
termini della questione. La soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz non risolve
nulla Quando per spiegare il tiaso amoroso di Saffo, si parla di un convento,
di un pensionato di fanciulle, di un conservatorio di musica e di declamazione,
e perfino d’un salotto letterario, e perfino d’un club estetico di
donne, non si spiega nulla; e per giunta non si mostra né senso storico, né
gusto irre-prensibile […]. E, ancora peggio, si è costretti a ridurre ad
elemento secondario, ad ammettere a mala pena, facendo di tutto per togliergli
ogni importanza, l’amore di Saffo per le amiche; ma per Saffo l’amore era
tutto. Significativo il pieno consen [La parte curata da G. comprende tra
gli altri Alceo, Anacreonte e Bacchilide, i tre autori di cui più egli si occupa.
Nella difesa che G. fa (come già Coppola e Perrotta) dell’allegoricità del
famoso frammento alcaico ora V. citato da Eraclito stoico («nella nave è
rappresentato lo Stato, cioè la città di Mitilene, minacciata dalla rovina, tra
affinità e differenze piace scorgere lo spunto delle future pagine sulla
pragmatica dell’allegoria della nave. Superando i vincoli ancora operanti
in Polinnia connessi al tradizionale confronto ‘estetico’ con
Orazio, tramite l’approccio pragmatico-espressivo Gentili giungerà lì a
riconoscere nell’allegoria lo strumento co-municativo strategicamente più
idoneo e perciò scelto in varie occasioni da Alceo poeta e politico al fine di
«trasmettere il messaggio in un linguaggio velato e allusivo
comprensibile solo dall’uditorio dei compagni. Crocianamente priva di
introduzione sia generale, sia ai singoli poeti, Polinnia riserva
particolare attenzione alle presentazioni dei singoli carmi. Spiccano lo spazio
e il ruolo assegnati all’esposizione della metrica, «quelle sequenze di lunghe
e di brevi, che avevano pari dignità grafica rispetto ai caratteri del testo, e
apparivano ben in evidenza, non erano nascoste a fondo pagina, magari in una
nota», sì da divenire per un liceale il primo impatto reale con la metrica
greca. Ciò appunto dovettero prefiggersi i curatori, con quella passione per
gli studi metrici che la scarna premessa Ai lettori rivela:
Riteniamo che l’accurata interpretazione metrica sarà accolta con favore. Essa
ha per suo fine principale la lettura metrica, senza la quale non è possibile
sentire e gustare un poeta greco. La metrica greca non è, come purtroppo
credono ancora molti, né una scienza inesistente, né una scienza che permetta
ad ognuno d’interpretare i versi come vuole, ma una scienza che è facile
imparare, purché sia studiata sul serio. Per agevolare la lettura metrica, ci
siamo presa la libertà di segnare gli ictus dei piedi, benché
agli ictus non crediamo: certo i Greci non avevano l’accento
dinamico, ma L’ACCENTO (cf. GRICE) musicale. Poiché la lettura metrica è
indispensabile: coloro che traggono, dalla giusta constatazione che la nostra
lettura con gli ictus non corri-so riservato in nota alle posizioni
esegetiche di Lavagnini: «Una pagina coraggiosa scrive, invece, nel senso
contrario, il Lavagnini, col quale consento in tutto, benché abbia meno fiducia
di lui nella psicanalisi. Perrotta – G. . Sulle Allegorie
omeriche del non altrimenti noto Eraclito nell’àmbito dell’esegesi antica
di Alceo, e in particolare sul tema delle immagini marittime e il loro uso con
significato politico da parte del poeta di Mitilene, rimando alla messa a punto
di Porro in G. G. Si ricordi per confronto la collana laterziana degli
Scrittori d’Italia , priva d’introduzione e di qualsiasi apparato
interpretativo. Senza introduzione generale e ai singoli poeti sarà anche la
successiva edizione del 1965: Perrotta – G. Sono parole dalle pagine molto
belle, di tono e sapore memorialistico, che alla metrica di
Polinnia dedica Di Benedetto 2001, 141 sggsponde alla lettura degli
antichi, la pessima conclusione dell’inutilità di ogni lettura metrica, fanno
un’imperdonabile rinunzia, che generalmente tende a nascondere la pigrizia o
l’ignoranza. Non diverse considerazioni, e non diversa passione didattica,
animano la prefazione a La metrica dei Greci, il saggio che
rappresenta lo sdoganamento» di tale disciplina nella scuola e, più in
generale, negli STUDI CLASSICI ITALIANI. Val la pena rileggere l’inizio di
quella prefazione: È sentita IN ITALIA la mancanza di un MANUALE DI METRICA ad
uso dei non iniziati. Tale mancanza ha nociuto sino ad oggi all’insegnamento di
questa disciplina soprattutto nelle scuole medie, poiché spesso i docenti,
mossi da uno strano scetticismo considerano di scarso interesse la conoscenza
della metrica greca, talora ritenendola del tutto estrinseca alla poesia, pura
invenzione di alcuni studiosi moderni anche perché già vi si rinvengono temi e
motivi che ispireranno per decen-ni l’indefessa indagine metrica di G.: In
realtà la metrica non è né estrinseca alla poesia, né invenzione dei moderni.
Come ho già dimostrato nella mia Metrica greca arcaica , alcune
teorie metriche dei moderni, quelle più attendibili, sono già contenute nella
migliore tradizione dei metricologi antichi. La metrica è necessaria, non solo
ai fini della critica testuale, ma anche ad una più compiuta intelligenza del
testo poetico. Poiché metrica e poe-sia furono nell’antica Grecia intimamente
connesse, in funzione reciproca. È un errore avvicinarsi allo studio delle
forme metriche con pregiudizi scolastici. Soltanto dimenticando gli schemi e
seguendo i metri nel loro sviluppo storico, si può davvero intendere il valore
e la necessità dello studio di questa disciplina. Notevoli sono il precoce
apprezzamento per il valore dei metricisti antichi e la visione non ancillare
degli studi metrici, da intendersi non Catenacci G. Circa venticinque anni
dopo, tra le cause dell’isolamento in Italia dello studio della metrica greca
«nel ghetto degli specialisti e guardato al pari di una disciplina esoterica
con sospetto e diffidenza», G. tornerà a cita-re l’idea largamente diffusa
«della impossibilità di costruire per la versificazione greca una teoria
coerente ed univoca», inoltre aggiungendo l’influsso avuto dalla nostra cultura
degli anni Trenta «che aveva reciso alla radice ogni altro impulso all’indagine
critica che non procedesse nel solco della teoria estetica dell’arte»: cfr. G. Sensibilità
critica in cui Cerri, ravvisa l’indizio di una attitudine ‘an-tropologica’ già
allora in qualche modo operante nella filologia di Gentili: «Contro
l’orientamento che era invalso tra i metricisti di allora, non solo rivaluta le
teorie e le analisi dei metricisti antichi, ma basa costantemente su di esse la
propria trat-tazione è del tutto evidente che ciò avviene non solo e non tanto
perché le ritenga ipotesi scientifiche acute e azzeccate, ma soprattutto perché
le assume come testimonianza diretta di una sensibilità ritmico-musicale
diversa dalla nostra, di un linguaggio fonico-gestuale specifico di quella
civiltà e di quell’orizzonte mentalecome meramente funzionali o subordinati
alla critica del testo, ma in-dispensabili innanzitutto per una piena
comprensione dell’antica poesia, nella convinzione «che la metrica non sia un
fatto esteriore, ma in funzio- ne della poesia stessa», come è poi ribadito
all’inizio dell’ Introduzione . Lì è anche subito affermata l’unità
ritmica del verso antico, la sua strutturale unione con la musica, onde «posta
l’unità del verso greco, non sarà più legittimo parlare di piedi, ma soltanto di
cola. Rievocando di recente le lezioni di metrica tenute da Gentili alla
Sapienza nell’immediato dopoguerra, Privitera ha colto nella «prospetti-va
storica» l’aspetto che in quelle esercitazioni più colpiva, quando «a
differenza dei trattatisti, che nei manuali si limitano ad esporre le loro
interpretazioni, Gentili citava anche le opinioni dei metricisti antichi e dei
metricisti moderni: come con ampiezza appunto avviene in Me-trica
greca arcaica , il volume dedicato a Perrotta, anch’esso aperto dalla
rivendicazione della metrica come «una scienza al pari delle altre discipline
classiche», tutta «nella migliore tradizione della filologia ellenistica» 46 .
Conoscenze ampie sugli studi metrici degli ultimi centocinquant’anni attestano
i primi due capitoli del libro, dove dapprima (Studi metrici: brevi cenni) G. delinea
con ricchezza di esempi e osservazioni lo svolgersi delle principali analisi e
teorie me- triche da Hermann (con cui «la scienza metrica nacque nel secolo
scor-so» sulle orme di Bentley e di Porson) a Westphal, a Usener, a Wila-
Privitera, commemorazione lincea. G. Ho consultato la copia conservata
presso la biblioteca del Centro di papirologia Vogliano’ (Dipartimento di studi
letterari, filologici e linguistici dell’Università degli Studi di Milano,
con ex libris dello stesso Voglia-no (segn. Vgl.II.B.61), in quegli
ultimi anni di vita alle prese con lo studio rimasto incompiuto La
lirica eolica e Pindaro nella critica di Hermann. La cui «Entdeckung
eines indogermanischen Urverses già è lodata in Usener Di Usener è rammentato
con interesse il trattato Altgriechischer Versbau: ein Versuch
vergleichender Metrik (Usener), con la sua «analisi comparativa
del-la metrica greca con la metrica germanica». I capitoli IV e V dell’opera di
Usener consistono di una rassegna, desultoria ma affascinante, volta a
dimostrare la predi-lezione dei popoli indoeuropei per una struttura metrica
base in otto sillabe ancor ravvisabile nei testi sanscriti, avestici, nelle più
antiche ricostruibili forme metriche greche e latine, nei canti popolari
germanici, slavi settentrionali e meridionali, li-tuani: nota è l’icastica
reazione negativa di Wilamowitz alla lettura del libro («In metrischen Dingen
vermag ich nicht in kurzem meine Differenz auszudrücken, weil sie zu tief geht.
Ich kann überhaupt das einheitliche griechische Volk nirgends finden, also auch
keine urgriechische Sprache und keinen urgriechischen Vers und keine
urgriechische Religion», lett. in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder).
Dal punto di vista della linguistica storica e della metrica comparativa
indoeuropea severo giudizio sul lavoro di Use-ner dà Campanile, cfr. anche
Morelli mowitz, a Schroeder, a Maas 49 . Il successivo capitolo ( Metrica
e musica ), prendendo spunto dai lavori di R. Westphal volti a «applicare le
leggi dell’isocronia musicale ai metri greci», tentativo fallito ma assai noto
in Italia per l’applicazione che ne diede Romagnoli nei suoi Poeti
lirici, si segnala per la riflessione sulla centralità del rapporto metrica-musi-ca,
cioè poesia e musica, e sulla necessità di considerarlo storicamen-te, alla
luce delle svolte nella storia della cultura greca dall’arcaismo sino a Timoteo
e poi all’età ellenistica, quando «il distacco della musica dalla poesia è
definitivo; questa sarà destinata quasi sempre alla lettu-ra» 51 . Noti sono i
meriti di Perrotta nella rinascita degli studi italiani di metrica antica, nei
quali «egli raggiunse una competenza che lo pose in una condizione di assoluto
predominio in Italia. Così Paratore all’indomani della morte del collega
grecista nell’ateneo romano, rimarcandone la visione della metrica quale
«premessa indispensabile per l’intelligenza di un altissimo testo poetico» e
osservando la pro-fonda coerenza della «esemplare e severa scienza metrica del
Perrotta» con l’intera sua concezione degli studi classici (nella metrologia di
Perrotta veramente filologia e critica si dànno la mano in una sintesi tra le
più feconde : nel timbro certo ‘romano’ ma già storiografica- [Cui già allora
Gentili imputa gravi limiti metodologici, per la sopravvalutazione
empirica’dell’observatio metrorum e il connesso profondo scetticismo per
tutti i problemi metrici di Urgeschichte »: G. Particolarmente il secondo
volume (I Poeti Lirici. Terpandro, Alceo, Saffo, Bologna) è costellato di
«traduzioni in segnatura moderna della realizzazione sonora», cioè vere e
proprie trascrizioni per musica dei frammenti dei tre antichi autori; almeno da
un punto di vista storico non a torto Stella indica come merito di Romagnoli
quello di avere richiamato l’attenzione fin dai primi anni del Novecento sul
binomio poesia-musica , in stretta interdipendenza di nota e
parola, nei poeti greci fino all’età ellenistica ROMANA, e di aver così dato
avvio ad una compren-sione profonda e meno letteraria di Saffo e di Pindaro, di
Eschilo e Aristofane: indicava nuove strade per future ricerche». Le indagini
sulla musica greca anche in età ellenistica cono-scono oggi nuovo impulso: vd.
Martinelli Messi in rilievo da Albini, il quale anche ricorda che «quando la
morte lo sorprese, Perrotta stava ultimando un libro sul saturnio», sul
contenuto del quale vd. la ricostruzione di Morelli. Resta il paradosso,
segnalato da Morelli sin dall’inizio del suo studio, che «nella produzione di
Perrotta, anche tenendo conto delle notazioni occasionali e delle scansioni
fornite in Polinnia , i contributi di carattere metrico risultano
nel complesso piuttosto scarsi ed esigui, specie se rapportati all’importanza
che egli annetteva notoriamente alla materia e agli anni spesi nelle relative
ricerche fin dall’adolescenza. Paratore. È visione che si ritrova bene espressa
anche nell’esordio del I capitolo di Metrica greca arcaica: Critica
testuale, metrica, interpretazione estetica sono problemi che devono essere
affrontati contemporaneamente dal filologo classico; essi rappresentano una
unità indissolubile, inscindibile. È merito grandissimo dei grammatici
alessandrini se essi, unitamente all’esame critico delmente atteggiato della
valutazione di Paratore, la più grande scuola di metrologia classica fiorente
in Italia», derivata da Perrotta, si ricapitola e si identifica nel nome di G.
L’esperienza di Perrotta metricista non può disgiungersi dal magistero
pasqualiano. Con il ricordo di conversazioni avute con Pasquali «su problemi
importanti di metrica greca» Gentili scelse di aprire il suo contributo su
Pasquali e la metrica nell’àmbito del convegno Pasquali e la FILOLOGIA CLASSICA:
Ricordo con perfetta lucidità l’esame metrico cui fui sottoposto al nostro primo
incontro: mi chiese se ero in grado di scandire un carme di Bacchilide o di
Pindaro; risposi affermativamente. Non ne fu del tutto convinto; mi porse il
testo di Bacchi-lide e mi invitò a leggere metricamente il quinto epinicio,
chiedendomi prima in quale metro fosse composto. Risposi: «Dattilo-epitriti» e
lessi tutta intera la prima triade strofica. Ne fu sorpreso, forse perché
dubitava che un giovane non formatosi alla sua scuola fosse in grado di
superare questa difficile prova. I colloqui con Pasquali, avvenuti a Firenze
nell’immediato dopoguerra, si incentrarono (continua Gentili) quasi
esclusivamente su un problema che particolarmente angustiava il grande
filologo, quello cioè «delle re-sponsioni impure nei lirici corali e nei
cantica della tragedia e della com-media del quinto secolo», in relazione
soprattutto alla soluzione data da P. Maas in due articoli dove «egli crede di
poter negare le responsioni impure in Bacchilide e in Pindaro, correggendo
ar-bitrariamente il testo nei luoghi dove esse appaiono». Ciò che qui conta
mettere in rilievo è la persuasione che Gentili trasse da quegli incontri
dell’esigenza, in Pasquali riconoscibile, di affrontare il tanto discusso
problema delle libere responsioni fra strofe e antistrofe non più nella pro-spettiva
astratta e schematica indicata da Paul Maas ma in una prospettiva più attenta
alla fenomenologia del rapporto metro-ritmo melodico: che cioè, più in
generale, Pasquali già avesse testo, curarono nelle loro edizioni
critiche la divisione in strofe, in στίχοι e in κῶλα dei cori lirici,
tragici e comici. Se oggi il filologo dissente da essi nell’interpretazione,
non potrà certo dissentire nel metodo. Conoscere, dunque, la metrica di un
poeta significa poter intendere più profondamente la sua stessa poe-sia,
significa poter penetrare nell’intima armonia e musicalità del verso.
Tratto ereditato da Pasquali» lo dice Gamberale G. Per la centralità nella
ricerca metrica di Gentili dell’inter-pretazione dei dattilo-epitriti, «così
denominati nel secolo scorso da Westphal», nella dialettica tra individuazione
di cola unitari e sistematizzazione metrica otto-centesca di
origine boeckhiana vd. e. g. G. – Giannini Così Gentili 1950, 21,
in un passo e in un contesto che sembrano conservare qualche traccia delle
conversazioni con Pasquali di quegli anni (la prefazione reca la data, ma
Gentili informa il lettore che la prima parte del libro era già in bozze). Si
ricordino le polemiche degli anni seguenti con Maas circa luoghi bacchi
Sent from the all new AOL app for iOSnetta e chiara l’idea che la poesia
lirica sia essa monodica o corale e la musica erano i mezzi di comunicazione di
una cultura che, attraverso il linguaggio poetico, i ritmi e le melodie,
trasmetteva oralmente i suoi messaggi in pubbliche audizioni. In parte
riguardante l’àmbito delle responsioni, e in polemica con Maas, fu l’intervento
di Gentili compreso nella raccolta di contributi in memoria del maestro Maia alcuni
problemi qui discussi», è detto in apertura, «furono non di rado il tema
preferito da Gennaro Perrotta nelle conversazioni con i suoi allievi, i
μετρικώτατοι. L’articolo è interessante anche per l’attenzione che di-mostra,
pur con vari dubbi, verso la colometria antica quale attestata dai pa-piri di
Anacreonte e di Bacchilide, già in qualche modo preludendo a quel- lo che
diverrà, soprattutto dagli anni Ottanta, uno degli àmbiti di studio più cari a
Gentili e alla sua scuola 60 .3. Come per l’Italia e il mondo, così per Bruno
Gentili gli anni Sessanta videro prepararsi e poi compiersi svolte decisive.
Poco dopo la precoce scomparsa di Perrotta, G. divenne all’Università di Urbino
ordinario di Letteratura greca, insegnamento tenuto per incarico da alcuni
anni, sin dall’istituzione della locale Facoltà di Lettere di cui è subito
figura cardine. La prolusione urbinate, pubblicatacon il titolo Aspetti
del rapporto poeta, commit- lidei in cui la presunta corruttela del metro, per
la responsione non perfetta» aveva condotto il filologo tedesco a ritenere
corrotto il testo, difeso ammettendo la responsione impura in G. Il racconto di
G. va naturalmente letto tenendo presente la frattura tra Pasquali e Perrotta
su cui vd. Morelli, su sollecitazione di Pasquali, erano ripresi i rapporti
epistolari con il filologo tedesco: cfr. Bossina G. (poi nei monumentali
Studi in onore di Perrotta ). Nella stessa Gedenkschrift non
manca un breve contributo di Maas, una nota metrica di argomento ‘moderno’
datata Oxford: Maas. Anche per Maas metricologo molto si potrà trarre dall’esame
delle carte segnalate in Lehnus e LehnusUna quindicina d’anni dopo Gentili
osserverà: «Si ritiene che la dottrina me-trica degli antichi sia di scarso
valore e di nessuna utilità per noi. Ma, ch’io sappia, nessuno sino ad oggi ha
realmente dimostrato la validità di questa asser-zione. Il disprezzo e il
totale rifiuto delle teorie antiche è una moda invalsa negli studi metrici del
Novecento (G.). Dello sviluppo degli studi sulla colometria antica guidati da
Gentili negli anni successivi sono testimonianza molti contributi nei «Quaderni
Urbinati di Cultura Classica»: come sguardo d’assieme vd. Pretagostini, Gentili
– Perusino e più di recente la Tavola rotonda; breve consuntivo del
dibattito in corso in García Novo Sugli studi classici a Urbino dapprima nella
Facoltà di Magistero poi in quella di Lettere e Filosofia vd. il profilo di
Colantonio – Bravi 2006tente, uditorio nella lirica corale greca , presenta un
chiaro carattere pro-grammatico 62 e introduce quell’insieme di temi che
«nel tempo si rivelerà più produttivo e tipicamente gentiliano. Fin dalle prime
righe del sag-gio è messo in evidenza il valore di strumento di conoscenza del
reale proprio della produzione poetica nella cultura greca del tardo arcaismo,
il suo farsi «guida orientativa nell’evoluzione della società greca, nelle
forme del linguaggio e dell’arte del poetare» per motivi non estrinseci ma
stret-tamente connessi alla centralità del rapporto diretto tra il committente
e il poeta che particolarmente connota la poesia corale. La funzione del mito,
e dunque il tessuto dei contenuti stessi del carme, si svela quando ci si
rifaccia al professionismo del poeta e alla funzione celebrativa
costitutiva-mente propria della sua attività, volta a «scegliere una leggenda
appropriata all’occasione», a trovare cioè e rendere intelligibile all’uditorio
la relazione tra racconto e celebrando, cosicché «il mito avesse un reale
significato e un valore esemplare». Solo in tale contesto, a un tempo
storicamente determinato e aperto alla necessità dell’interpretazione, possono
corretta-mente configurarsi il rapporto mito-attualità e il rapporto
mito-gnome, e può considerarsi superato «il problema dell’unità dell’epinicio e
in genere del carme corale sul quale per più di un secolo da Boeckh in poi la
critica si è tormentata nella disperata ricerca di un’unità logica o estetica».
Era, quello dell’unità dell’epinicio, il problema centrale della critica
pindarica quale intuíto e sviscerato dalla grande filologia tedesca, e che
Perrotta aveva posto tematicamente al centro della sezione pindarica
in Saffo e Pindaro, dedicandovi una rilettura di oltre cento pagine
attraverso l’intera produzione del poeta di Tebe, frammenti compresi, infi-ne
giungendo alla constatazione dell’assenza di unità sia estetica sia logica
nelle odi pindariche. Sostanzialmente riprendendo la visione romagnolia-na di
Pindaro come «poeta del mito, l’interpretazione di quel «poeta puro, più che
poeta-moralista o poeta-filosofo» 65 è infine da Perrotta per intero
riportata all’interno della dicotomia crociana poesia/non poesia, senza
arretrare dinanzi alle necessarie conseguenze di quella scelta critica: Non
poeta dei giuochi, nè della gnome; non poeta dell’etica e della politica
dorica; non poeta della saggezza di Apollo delfico. Ma poeta grandissimo del
mito sentito religiosamente come miracoloso eroismo e miracoloso prodigio.
Questa defini-zione dell’arte pindarica costringe a ripudiare come non poesia
buona parte dei versi del poeta. Questo forse dispiacerà; e si dirà che Pindaro
è ridotto ad essere, a questo modo, un poeta frammentario, e si deplorerà
ch’egli è stato rimpicciolito e diminuito. Ma una più serena considerazione
convincerà, che, anzi, il poeta è [Una specie di manifesto per la Scuola
urbinate lo definisce ABernardini Catenacci La cui derivazione da Burckhardt
sottolinea Paratore Perrotta stato accresciuto, perchè l’unico modo di
onorare un poeta è quello di esaltare la sua poesia. Isolare le parti
impoetiche, non che fargli torto, è un servigio reso al poeta stesso 66 . Non a
caso subito Perrotta richiama per confronto il caso della poesia dantesca
(«naturalmente continueranno ad esistere gli ammiratori dell’architettura,
dell’unità, dell’armonia dell’epinicio pindarico, proprio come non mancano gli
ammiratori dell’architettura, della struttura, della concezione del mondo
dantesco), a proposito della quale con maggior valenza paradigmatica Croce
aveva teorizzato e applicato la necessaria dis-tinzione – valida per ogni
autore e opera letteraria – tra la dimensione pro-priamente ‘poetica’ e quella
‘allotria’, attinente una varia INTERPRETAZIONE FILOSOFICA e pratica» 68
.Trent’anni dopo, nel 1965, disegnando il percorso per un profondo rinnovamento
degli studi italiani su Pindaro e i lirici che definitivamente li sottraesse
alle ipoteche critiche della prima metà del secolo, G. in certo modo proietterà
all’esterno il tema dell’unità dell’epinicio, rinvenen-dolo nel mondo dei
valori che il poeta in rapporto al suo pubblico e alla funzione sociale della
poesia era portato a interpretare. Discernere nella orazione urbinate i fili di
una nascosta dialettica con Perrotta è operazio-ne non priva di
giustificazioni, quando si pensi che il saggio Aspetti del rapporto poeta,
committente, uditorio nella lirica corale greca , nato da quella prolusione e
poi pubblicato in più sedi, per la prima volta comparve nel volume di Studi
Urbinati contenente gli Scritti in onore di Genna-ro Perrotta 70
aperti da una pagina di presentazione di G. stesso, alla quale segue un inedito
perrottiano, una nota critico-testuale a un passo di Lucano, in duello con una
atetesi di Housman nel pasqualiano baluginare di «due varianti antiche.
Significative le parole introduttive di Gentili, che indicano nel maestro un
modello di «vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi», mentre
pur non si può tacere l’esigenza di porre nuove domande alla grecità arcaica e
classica: Perrotta E così prosegue: «gli uni e gli altri si riterranno i soli
capaci d’intendere i poeti, pur essendo incapacissimi d’intendere qualunque
poesia, perchè per poesia intendono l’allegoria, oppure la così detta poesia
d’idee, oppure perfino una rac-colta di massime belle e utili». 68 Mi
limito a rimandare in proposito, come testo esemplare, all’
Introduzione di CROCE (si veda), che cito da una ristampa laterziana
sostanzialmente immutata. Saranno poi i temi fondamentali di molte, famose
pagine di Poesia e pubblico nella Grecia antica,
Poeta-committente-pubblico, ovvero la norma del polipo . G. Perrotta 1Chi
gli fu vicino e poté, anche fuori della scuola, ascoltarlo nella conversazione
abi-tuale, sempre viva e piena d’intelligenza umana, apprese, oltre che il
rigore scien-tifico della ricerca, il vivo impegno a dare un senso di attualità
ai nostri studi, oggi, nelle prospettive del nostro tempo, diremo l’impegno a
comprendere nell’inesauri-bile mondo della grecità arcaica e classica la
problematicità dei rapporti di valore culturali e civili, quali uomo-scienza,
uomo-natura, uomo-società, che sono alla base della nostra inquietudine e per i
quali sentiamo l’urgenza di una soluzione se dobbiamo, tra i rottami
inutilizzabili del vecchio umanesimo e tra gli automi della odierna civiltà
industriale, riproporre una nuova dimensione dell’uomo, dell’uomo non come
strumento ma come fine . La seconda
parte del saggio discute un buon numero di passi, perlopiù di Pindaro,
anticipando traduzioni destinate all’antologia Lirica corale greca.
Pindaro Bacchilide Simonide , che uscì per Guanda; il saggio originato dalla
prolusione urbinate sarà lì riproposto in versione sostanzialmente immutata, a
mo’ di introduzione dal titolo Poeta e com-mittente . Nuovo è però
l’avvio (ripreso nel retrocopertina), che intercetta le curiosità
‘d’avanguardia’ di quegli anni di profondi mutamenti, un po’ provocatoriamente
invitandoli a una nuova lettura dei poeti della lirica corale greca: In un
momento di crisi, oggi, della poesia, tra sperimentalismi d’avanguardia,
giu-stificati, entro certi limiti, dalla buona intenzione di trovare linguaggi
più idonei ad interpretare la realtà presente, ha forse un senso riproporre una
nuova lettura dei poeti della lirica corale greca, Pindaro, Simonide,
Bacchilide. La scelta non è casuale, ma ha un suo significato che sarebbe stato
eluso se ci si fosse limitati a ripresentare i poeti della lirica monodica,
troppo consunti dalla tradizione ermetica. Premeva invece offrire, nei limiti
consentiti dall’indole della collana, un panorama delle op-poste tendenze
ideologiche e artistiche che animarono la poesia del tardo arcaismo greco, cioè
di un’epoca culturale caratterizzata da una profonda crisi evolutiva nella
quale la poesia, come solo rare volte nella storia della cultura occidentale,
divenne strumento di conoscenza del reale. Si tratta dunque di una affermazione
di ‘contemporaneità’ della lirica greca ancorata a solide e rinnovate basi
filologiche e storiche, proposta in un’epoca di crisi e trasformazione tra le
più incisive e impetuose, come oggi sappiamo. Se può forse anche rimandare
qualche eco dei [Parole che in parte torneranno trent’anni dopo
nell’introduzione premessa da G. alle Giornate di studio su Perrotta . Si
può aggiungere che nella premessa agli Scritti urbinati in onore del maestro, G.
segnala che alcuni di essi costituivano i primi contributi di collaboratori del
neocostituito «Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica greca e
latina» presso l’Università di Urbino. G. Ho consultato presso la Biblioteca
centrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano una copia
appartenuta a Luigi Alfonsi, con dedica manoscritta di G. datata Urbino Con
l’ultimo periodo si apre il saggio in Studi Urbinati clamori suscitati
dalla beat generation di A. Ginsberg, il cenno iniziale agli
sperimentalismi d’avanguardia nell’àmbito della poesia contempora-nea, ai loro
eccessi e alle loro ragioni, essenzialmente rinvia alla neoavan-guardia
italiana di quegli anni, la cui fase preparatoria si suole riconoscere nel
dibattito culturale sviluppato sulla rivista milanese Il Verri, fondata nel
1956: sin dall’inizio diretta da Anceschi, se n’era avviata una seconda serie
presso l’editore Feltrinelli, sedendo nel comitato di redazione letterati poeti
e studiosi destinati a fama e fortu-na nei successivi decenni (Nanni
Balestrini, Renato Barilli, Eco, Giuliani, Guglielmi, Porta, Sanguineti). I
nomi appunto intorno a cui si è aggregata l’antologia poetica I Novissimi:
poesie per gli anni Sessanta (con testi di Balestrini, Giuliani,
Pagliarani, Porta, Sanguineti), con il successivo passaggio al Gruppo 63, più
eterogenea e conflittuale formazione: intorno alla metà degli anni Sessanta
poli entrambi di definizione e diffusione della neoa-vanguardia italiana,
poetae novi avversi contemporaneamente a ermetismo e neorealismo,
volti (i più) alla destrutturazione sperimentale di lingua e forma come unica
modalità di espressione di/in una realtà svuotata di sen-so e accettata come
tale 76 . Presentando il primo numero della nuova serie de «Il Verri, Anceschi
saluta il determinarsi di un evidente mutamento nel panorama della poesia
italiana contemporanea. A una maniera «che fu giustamente detta
anacoretica , o ermetica , o chiusa , non senza certe tentazioni di
involuzione neoclassica» e che intendeva la poesia «come fuga o rifugio; come
estrema voce del soggetto nascosto e introverso come sintesi illuminante,
pregnante, e veloce nel rigore calcolato, coltivatissimo, e raro della parola»,
si sostituiva ora il diverso atteggiamento e sentimento «di una poesia
dissacrata, estroversa, che si ritrova in un mondo di oggetti reali, affidata
talora alla casualità del sin-tagma, talora ad un ritaglio significante
dell’effimero, di modi analitici, a struttura complessa e multipolare, tale che
può farsi capace di una critica di vita, di un’azione per la trasformazione
dell’uomo»: egli avver-tiva insomma il farsi avanti di una poesia, e di una
stagione di poesia, come accrescimento della vitalità , e nuove tecniche,
e volontà di forme aperte, e speranze di una maggior portata di comunicazione.
Il saggio già apparso in Studi Urbinati è da G. subito ripubblicato [Nonché
«uniti e avvinti (per impulso d’Anceschi) nel programma di approfit-tare della
prima congiuntura economica favorevole dopo secoli – il famoso boom »:
così Alberto Arbasino in Anceschi – Campagna – Colombo Sganciato il linguaggio
da intenti determinati e da precise responsabilità semantiche, lo scrittore
appare attirato non tanto dalla mancanza di senso quanto piuttosto da ciò che
sembra lecito chiamare il possibile verbale, ossia l’estrema libertà di invenzione
linguistica. La parola comunica non dei significati, ma le pro-prie avventure e
peripezie, percorre lo spazio senza fine del desiderio, del gioco e del
godimento, come efficacemente sintetizza Curi appunto su «Il Verri, all’interno
di un numero monografico Classicità e contemporaneità contenente
contributi anche di altri studiosi del mon-do antico. Il fascicolo è introdotto
da un intervento di Anceschi, da sempre attento a «scoprire in modi non
fortuiti una zona antica e nuova della classicità, qui volto a riflessioni di
singolare lucidità e preveggen-za, oggi certo più inoppugnabilmente attuali di
cinquant’anni fa: Le infinite maniere con cui nel secolo son stati sentiti i
classici testimoniano già esse di un continuo vivere dei classici al di fuori
della astrazione, ormai incredibile, di eterne, immobili esemplarità. Che senso
avrà la lettura dei classici in un mondo in cui l’Europa non sia più il
“cervello del mondo” ma solo, se sarà possibile, una delle sue
fibre, una delle voci di una cultura che si è aperta, aperta al
riconoscimento delle ragioni di tutti i popoli, di tutte le tradizioni? La
cultura europea in certi suoi esponenti della metà del secolo scorso sembra
aver intuito la possibilità del determinarsi di una situazione di questo genere.
Questa è la situazione in cui siamo, qui dobbiamo vivere, e in questo ordine
recuperare i nostri antichi. Particolarmente appropriati, nel contesto del
numero de Il Verri, ri-sultano dunque sin dall’inizio del saggio di G. i
rilievi sulla ‘lontanan-za’ dal gusto moderno specialmente della lirica corale,
tra le varie forme della poesia greca arcaica, e sull’almeno apparente maggiore
accessibilità dei grandi poeti della lirica monodica (Saffo, Alceo, Anacreonte)
anche se il loro volto è apparso spesso da noi alterato da un certo estetismo
deca-dentistico che ha ancor più accentuato, a suo modo, quell’idea astratta e
astorica della lirica greca che abbiamo ereditato dalla nostra cultura
classicistica. Il culto della poesia pura idoleggiò in essi quella che fu
ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o
addirittura la “poesia del frammento” conden-sata in un’immagine di pochi versi
superstiti. Il riferimento è qui alla importante, benché spesso indiretta
presenza dei maggiori lirici monodici nella letteratura italiana dalla seconda
metà [Anceschi G. Grande ( Grecità ); DIANO (si veda) (Ritorno a
Plutarco); Pasoli ( Per una lettura dell’epistola d’ORAZIO (si veda) a
Giulio FLORO (si veda)); Giardina (Note per l’esegesi d’ORAZIO (si veda) lirico
); Mele ( Orazio e il significato
culturale del classicismo latino ). 80 Cit. in Nisticò 1997. 81
Anceschi 1965, 4-5. Quanto una ben diversa visione della Grecia come antica
madre comune» è IN AMBITO FILOSOFICO ITALIANO ancora viva pochi anni prima
testimonia ad esempio il volume di Barié – Sini, dove a fronte del senso della
crisi dei valori oggi tanto diffuso nella coscienza dei contemporanei, che
nessuna generazione del passato potrebbe probabilmente reggerne il paragone, si
propugna un ritorno alla Grecia, che vagheggiata dall’Umanesimo al Romanticismo
come il felice e radioso mattino della nostra storia, sembra non avere mai
deluso chi ricerchi in essa i germi del modo occidentale di considerare e
vivere la vita (dell’Ottocento, non solo e non primariamente nelle traduzioni.
Carducci in particolare, e per vari aspetti già a Foscolo, si deve «la
riscoper-ta, nelle immagini e nei metri, dei lirici greci, di Alceo e Saffo,
già di leo-pardiana memoria, e poi di Alcmane come modelli di poesia pura ,
all’origine di un ricco e complesso processo di ricezione, ancora non
ade-guatamente studiato, che attraverso Pascoli 85 e D’Annunzio conduce
sino ai Lirici greci tradotti da Quasimodo, usciti a Milano,
introdotti da un saggio critico del ventinovenne Anceschi. A Milano ANCHESI (si
veda) si è formato con BANFI (si veda), subito segnalandosi con il volume
Autonomia ed ete-ronomia dell’arte, radicale presa di distanza
dall’intuizionismo estetico crociano e dalla sua incapacità di comprendere le
poetiche. Come Bo per la corrente
‘fio- Tra le quali per più ragioni merita ricordare quella che Cavallotti,
allora già famoso deputato dell’Estrema, dedicò a Canti e frammenti di
Tirteo. Versione letterale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a
Gio-suè Carducci , Milano, con prefazione, interessante per il rifiuto della
metrica barbara (il tentativo che non data da oggi di ricondurre la poesia
italiana alla esteriorità dei metri greci e LATINI, mal saprebbe giudicarsi
alla stregua di alcune splendide ispirazioni di Enotrio), e per l’attenzione
alla fortuna di Tirteo anche fuori d’Italia, in particolare nel mondo tedesco
(lingua che Cavallotti aveva appreso nell’ancor asburgico liceo milanese di
Porta Nuova), finanche citando la versione olandese in versi di Bilderdijk: ma
nella costituzione del testo adottando «per base la volgata di Stefano che
ancora oggi fra tutti i distillamenti di cervello della critica germanica
rimane la guida del testo più fida e più sicura. Del Foscolo si ricordi almeno
la visione dei versi della Coma catulliano-callimachea come poesia
lirica sin dalla dedica a Niccolini (non credo che l’antichità ci abbia
mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che li
pareggi») della traduzione e commento de La Chioma di Berenice
poema di Callimaco tradotto da CATULLO (si veda): ivi il Discorso
quarto. Della ragione poetica di Callimaco si chiude nel nome di
Pindaro dopo aver esaltato Alceo e Saffo nei superstiti rari
vestigi a fronte d’ORAZIO (si veda) e di CATULLO (si veda). Sul
pindarismo foscoliano dal commento alla Chioma di Berenice
attraverso i Sepolcri sino alle Grazie come riflessione
sul nesso che lega lirica antica e moderna vd. Benedetto Nava; qualche utile
elemento si trae da Tomasin Fondamentali soprattutto i Poemi
Conviviali (la prima edizione in volume) sin dal liminare Solon, su
cui vd. le considerazioni introduttive e il dettagliato commento in Treves Un àmbito di particolare interesse è quello
della sperimentazione pascoliana ispirata ai metri della lirica greca, cfr.
Giannini e ora Capone – Giannini Lo stesso anno de La poetica del
decadentismo di W. Binni, per il cui influs-so sugli studi pindarici
degli anni Quaranta di M. Untersteiner vd. Lehnus Sui fondamenti filosofici e
critici del precocissimo anticrocianesimo di An-ceschi vd. Lisa (La nuova fenomenologia e la nozione di
poetica); su Anceschi, la critica di ispirazione fenomenologica e la sua
connessione con la neoavanguardia (come già con l’ermetismo critico) utile
profilo in Orvieto] rentina’ dell’ermetismo, sul versante milanese Anceschi fu
figura di spicco tra i giovani critici che si fecero interpreti e banditori
della singolare intensità della parola nella poesia di Quasimodo: poetica della
parola sulla cui centralità Anceschi torna nell’introduzione ai Lirici greci ,
dicendola erede dell’«esperienza complessa della poesia dopo Hölderlin, Poe,
Baudelaire, e, per noi in special modo, LEOPARDI (si veda) e, soprattutto,
scorgendone l’antecedente nella pura e libera voce dei lirici greci. Anceschi
si mostra consapevole del fecondo lavoro filologico svoltosi per secoli intorno
a quegli antichi poeti, ma del pari afferma che nella cultura europea non ci fu
mai la felice e piena stagione dei lirici greci. Quella stagione ora è giunta,
cosicché «nella ricerca di una poesia veramente nuova e
contemporanea » e soprattutto «nella aspirazione al raggiungimento di una
rigorosa purezza lirical’ermetico Quasimodo può pienamente espri-mere se
stesso traducendo Saffo Alceo Archiloco e Alcmane, ritrovando cioè la purezza
di quell’antica sensibilità in una condizione di linguaggio attuale della
poesia. Senza sentimentalismi – va detto – ma nutrito di una chiara percezione
della terribile crisi della civiltà europea, risuona l’appello alla lirica
greca come depositaria dell’assolutezza della parola, paradossalmente
assicurata dalla condizione frammentaria di quella tra-dizione testuale: Questa
aspirazione di purezza in un riconoscimento della relativa «brevità» di ogni
composizione poetica, che, per raggiungere il suo scopo, deve presentarsi alla
no-stra coscienza come un tutto è, appunto, la lirica – per la
prima volta nata all’u-manità nella Grecia. Di essa solo la
parola (qualche parola altissima, e interrotta) ci resta, là dove
era anche danza e musica: parola, danza, musica in un’invisibile armonia
unitaria di ritmi. E solo l’immaginazione più libera può darci
un’approssi-mazione felice a quel segreto. Se pregevole appare la
sottolineatura del concorrere di parola, danza e musica nel definire la particolare
natura della lirica greca, è indubbio che il suggerire compatibilità o
addirittura sovrapponibilità tra ‘poetica della parola’ cara agli
ermetici novecenteschi e scarni testi dei lirici greci conservati
per fragmina («qualche parola altissima, e interrotta») si risolve
in una forzatura critica a danno del concetto e della realtà di ‘frammento’
propri della filologia classica: all’indomani della guerra pubblicamente lo
segnala Valgimigli, peraltro con Quasimodo e Consapevolezza che ad
esempio si esprime nel richiamo a un’illuminante frase di Valéry: une
civilisation a la même fragilité qu’une vie. Les cir-constances qui
enverraient les oeuvres de Keats et celles de Baudelaire rejoindre les oeuvres
de Ménandre ne sont plus du tout inconcevables: elles sont dans les
journaux. Valgimigli. Dopo aver ricordato che dei
lirici greci «per tra-dizione medioevale diretta, oltre la silloge teognidea e
quella pseudofocilidea, e oltre i quattro libri degli Epinici di Pindaro […]
tutto il resto lo abbiamo o per ciAnceschi in rapporti epistolari già in quel
1940, e da subito ben disposto verso l’impresa traduttoria del poeta ermetico e
i suoi risultati. Quando G., nel saggio pubblicato su «Studi Urbinati» e su «Il
Verri», polemicamente allude a quell’impresa nei termini su citati (il culto
della poesia pura idoleggia nei grandi poeti della lirica monodica quella che è
ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o
addirittura la poesia del frammento condensata in un’immagine di pochi versi
superstiti), i Lirici greci di Quasimodo erano nel pieno
della loro fortuna: mentre proprio nel 1965 era definita la for-ma ne
varietur delle versioni dai lirici nell’edizione mondadoriana degli
Opera omnia del poeta, tra vivaci polemiche di recente laureato dal
Premio Nobel, quelli sono gl’anni in cui se ne radica e diffonde la presenza
nelle scuole italiane, particolarmente dopo l’istituzione della scuola media
unica. Si può dire che in Italia nella percezione comune, anche genericamente
colta, la lirica greca coincise con i Lirici greci di Quasimodo,
opera anzi che già all’indomani della morte del poeta si prese a riconoscere
come la sua migliore. La stessa scelta da parte di G. di tazioni
indirette, oppure, dove siamo stati più fortunati, per ritrovamenti papiracei;
a ogni modo, per frammenti» e che in realtà anche la lirica era «tutta
intessuta e ragionata nel mito», Valgimigli pienamente riconosce le ragioni
storico-culturali di quell’equivoco, il ‘fascino singolare’ esercitato sui
‘lirici nuovi’ dagli antichi poeti in frammenti: ora, se io penso a quelle che
furono ai principi del Novecento le teoriche dell’intuizionismo, del futurismo,
del frammentismo, non credo peccare di temerità né di irriverenza se tra le
cause di questo incontro di poesia greca e poeti nuovi oso porre anche questa
umile e strana combinazione, cioè del casuale stato frammentario e quindi, in
certo senso, alogico, anticontenutista, antisintattico, e, vorrei aggiungere,
anticantato di certa poesia lirica greca. Quanto sopravvive dei carteggi Quasimodo-Valgimigli
e Anceschi-Valgimi-gli è ora raccolto nel volume Benedetto – Greggi – Nuti. Val
la pena qui trascrivere almeno la breve missiva (da Padova, su carta intestata
R. Università di Padova, Seminario di Filologia Classica») con cui Valgimigli
ringrazia il poeta per l’invio di una copia degli appena pubblicati
Lirici greci : Caro Quasimodo, Ho avuto il libro. Grazie. Certi versi mi
hanno ridato la consolazione di un nuovo cantare. Sopra tutto, come già Le
scrissi, c’è quel pudore schietto, quel pudore senza inganni, quella limpidezza
liquida, che erano e sono qualità insolite e ignote. Di alcuni punti e modi, di
alcuni suoni di parole, assai mi piacerebbe par-lare con Lei. Anche mi
piacerebbe scrivere di questo suo libro. Ma dove, in questi giorni feroci?
Addio, caro Quasimodo. E auguriamoci bene. E auguriamo bene al nostro paese e
alla nostra civiltà. / M. Valgimigli» (in Benedetto – Greggi – Nuti). Così per
primo Sanguineti, uno dei protagonisti della neoavanguardia, che in chiusura
dell’ Introduzione alla sua importante antologia einaudiana
Poesia italiana accomuna in iconoclastico dileggio antiermetico le
versioni quasimodee al famoso saggio di Bo Letteratura come
vita ; appunto perché gli antichi lirici risultano volgarizzati, mediante
il Quasimo- [antologizzare e tradurre per Guanda i poeti della lirica corale
(Pindaro, Bacchilide, Simonide) è con ogni evidenza determinata dal fatto che
si tratta appunto degli autori non presenti tra i Lirici di
Quasimodo perché non compatibili con l’idea di lirica sottesavi, come peraltro
Anceschi ave-va a suo tempo esplicitamente affermato: Entro i limiti di una
pura (attuale e antica) idea della poesia perciò fu osservata
la scelta dei testi. Naturalmente è ben definito il senso anche delle esclusioni
di poeti disposti a mettere a servizio della «celebrazione» la magnificenza di
uno stile espertissimo, come Pindaro; o, come Bacchilide, abile e colto in una
dolcezza di analisi descrittive. E sempre, poi, un rigore senza concessioni ha
voluto la esclu-sione, o, almeno, la limitazione nella presenza di poeti semi-lirici
(giambici o elegiaci, gnomici, FILOSOFICI, o politici) troppo disposti
alla sentenza , all’esortazione o alla narrazione : a
indubbie condizioni di prosa. Dopo la comparsa dei Lirici greci
prefati da Anceschi, G. propugna e realizza il rovesciamento di quella
prospettiva critica; ci si può quindi chiedere perché il grecista urbinate
abbia scelto pro-prio la rivista diretta da Anceschi per ripubblicare e più
ampiamente divulgare il saggio Aspetti del rapporto poeta, committente,
uditorio nella lirica corale greca . Quanto si è prima accennato circa i
convincimenti da Anceschi rende chiara la risposta: nemico di ogni posizione
cristallizzata, Anceschi soprattutto con Il Verri individuò come primario
compi-to del critico «quello di risolvere la situazione in cui si trova, e di
cui sente l’ansia e l’instabilità. Non solo sin dai primi anni del dopoguerra
egli si do, con i tratti deformanti della poetica ermetica», su quindici
poesie antologizzate da Sanguineti tredici sono tratte dai Lirici
greci , definiti «il suo più vero contribu-to originale alla poesia del nostro
secolo» e «uno dei documenti più significativi dell’intiera stagione ermetica».
Anceschi, Introduzione in Quasimodo Con espressioni che
sembrano anche direttamente rispondere a quelle di Anceschi: per questa via era
difficile accostarsi ai lirici corali del tardo ar-caismo greco,
particolarmente a Simonide, Pindaro e Bacchilide, più elaborati, più
consapevoli delle loro possibilità espressive, più ricchi nei contenuti etici,
politici e artistici, indissolubilmente legati a un particolare ambiente e ad
una determinata occasione che stimolarono e condizionarono il loro canto (G. ).
Anceschi – Campagna – Colombo Anceschi – si sa – era nemico di ogni posizione
cristallizzata. Non sconfessava l’ermetismo, in cui si era riconosciuto e che
lo aveva visto nascere come critico militante, ma non intendeva lasciarsi
rinchiudere in esso. E magistrale è la sua capacità di muoversi in territori
ambigui, d’incerta definizione, non ancora riconosciuti, e di porsi come punto
di riferimento per chi cercava la sua strada. Anceschi, saggio con cui si apre
il primo numero de Il Verri, riproposto nella nuova serie de «il verri»; sulla
condizione della letteratura italiana dopo la metà degli anni ’50, chiusa tra
le ultimeera convinto (come Quasimodo del resto) dell’esaurimento della
stagione ermetica, ma tornò ad affrontare i Lirici greci e la
sua stessa introduzione dieci anni dopo, riscrivendola per una nuova edizione
mondado-riana. Molte qui sono le novità, sin dall’avvio. Anceschi lascia
intendere di essere all’origine dell’incontro di Quasimodo con la lirica greca
(come peraltro già le pagine lasciavano
sospettare), prende atto del de-finitivo isterilirsi dell’ermetismo,
contestualizza la traduzione quasimodea nel suo valore e nei suoi limiti
storicamente determinati: Ma che cosa si son fatti i lirici greci nella lettura
di Quasimodo? Essi furon letti, è evidente, nel gusto particolare di una certa
tendenza alla poesia del tempo. Era un momento in cui la verità della poesia ci
sembrava tutta compresa nella veloce intensità della lirica in una estrema
lucidità di contatti tra oggetti lontanissimi e lon-tanissimi tempi della
memoria; e gli antichi frammenti (la giustificazione della
vali-dità del frammento è sempre la prova di resistenza delle estetiche) ci
confermavano con la loro forza che la poesia non sta nella
struttura, non sta nella «musica esterio-re», non sta
nel «contenuto morale» o nella «narrazione» e nel «discorso»…: tutto ciò può
andar perduto, eppure una bellezza intensa e veloce resta, e ci commuove. 4.
Importante novità rispetto all’introduzione è il richiamo al saggio «incompiuto
e bellissimo» di Renato Serra Intorno al modo di leggere i greci , pubblicato
postumo da Valgimigli su «La Critica». Ispirate dalle contradditorie reazioni
che il primo volu-me della traduzione commentata dei Lirici
greci del Fraccaroli gli suscitano, le pagine di Serra sono soprattutto
una riflessione sulla fine del vecchio classicismo («il calco in gesso
dell’Ellade serena, dell’Ellade perfetta, che aveva fatto le delizie di tante
generazioni, dagli umanisti fino al Carducci, è andato in frantumi»), sul nuovo
«desiderio di realtà» suscitato dall’incessante lavoro di filologi e
archeologi, sulla inquie- manifestazioni dell’ermetismo e il dogmatismo
neo-realista, e sulla risposta libera-toria che la rivista trovò in una
‘fenomenologica’ concezione della letteratura «che rinnova continuamente la
propria consapevolezza in rapporto al concreto mutare delle situazioni» torna
ad esempio Anceschi Non dimenticherò certo facilmente il giorno – davvero molto
lontano, or-mai – in cui, parlando con Quasimodo, mi venne fatto di associare,
secondo certe ragioni, due idee familiari e carissime, che, in quel momento,
sollecitavano in modo singolare la mia mente; voglio dire: l’idea della prima
lirica greca, e quella della poesia italiana contemporanea. È, credo, un giorno
dell’autunno: l’introdu-zione anceschiana
è ristampata in Quasimodo. Ho davanti a me i Lirici di Fraccaroli. Che
cosa è dunque l’interesse di questo libro? L’intendimento nuovo di mettere
sotto gli occhi dei lettori comuni questi avanzi venerabili della lirica greca,
sì che ognuno possa vedere e giudicare senza scrupoli quel che sono
sostanzialmente e quel che valgono. Con questo animo l’au-tore ha dato e il
pubblico ha ricevuto, molto lietamente, come sapete, il libro. Per-ché dunque
invece di partecipare a questa lietezza io resto malinconico e dubitoso
ad ascoltare l’eco beffardo di una ironia lontanissima. ὁρᾶς τὸν πόδα τοῦτον;»
Sent from the all new AOL app for iOSta grecità da loro rivelata, consentanea
al gusto fin de siècle («coi prefidi-aci, con la civiltà micenea e
con la cretese, con le fasce delle mummie e con gli ostraka dei monticoli
egiziani, e insomma con l’insistenza su tutto ciò che la Grecia può dare di più
crudo, barbaro, romantico, positivo, con-trastante col vecchio ideale gelato»),
e soprattutto sulle opportunità svelate da questo diverso, modernissimo
‘bisogno di antico’: Realtà, come dicevo, di cose, e non di parole. Questa è la
differenza profonda fra la nostra generazione e quelle che l’han preceduta. Le
statue, le fotografie, le immagini, i processi, i costumi, in somma la vita
nella sua indifferente nudità ha preso il posto degli aoristi del maestro di
seminario e delle figure di Longino. Una cosa è chiara, direi quasi a
priori ; che con tanta voglia di appropriarsi solo il grosso e l’essenziale
della grecità, i pensieri e i motivi e le immaginazioni piuttosto che le frasi
e le formalità, quest’ora dev’essere propizia per i traduttori. I passi ora
citati del saggio di Serra provengono dal fascicolo de Il Verri dedicato
a Classicità e contemporaneità , che si apre con estratti da
Intorno al modo di leggere i greci . Sugli appunti di Serra si sofferma
il liminare Intervento di Anceschi. Nel giovane critico
cesenate caduto sul Podgora, Anceschi indica colui che «intuì una crisi del
modo di sentire e vivere i classici, in cui noi ancora siamo», la crisi di chi
ha compreso «che non ha più alcuna utilità per noi una lettura
assoluta dei classici», ma che esistono ancora molti modi, altri modi,
con cui i classici ci possono rispon-dere, molti e diversi piani su cui essi
vivono ancora per noi, e che molti e diversi possono essere i gesti del nostro
rapporto con loro. E su questa fenomenologia va forse ormai posato l’accento.
Sono evidenti le consonanze tra un così attento bisogno di fondare una diversa
presenza dei classici in un futuro avvertito come totalmente ‘altro’, e
l’attività di G. in quegli anni come filologo e come docente. Ne è conferma la
scelta di continuare a pubblicare su Il Verri gli articoli di maggior impegno
teorico e programmatico già apparsi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica:
in particolare i due saggi L’interpretazione dei lirici greci arcaici
nella dimensione del nostro tempo e Prospettive critiche
nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici . Il primo (G. pienamente
si presenta al lettore ‘nella dimensione del nostro tempo’, subito prospettando
l’ineludibile «grosso problema di fon-do che è il problema stesso della
sopravvivenza del mondo classico nella nostra cultura», letto all’interno del
più radicale tema della ‘morte della storia’ nelle società a tecnologia
avanzata e pervasiva. Serra Già in QUCC, con il sottotitolo Sincronia e
diacronia nello studio di una cultura orale: G. . Dopo, sono riflessioni che
colpiscono per lungimiranza, e per estraneità agli ideologismi allora correnti
come a qualsivoglia ‘umanistica’ retorica consolatoria o deprecatoria: In
concreto, quale senso può avere la grecità arcaica nell’odierna civiltà
tecnolo-gica che rifiuta la storia e s’impone come civiltà nuova, integrata e
alienata come è definita dai sociologi, perché ha tolto al mondo,
irrevocabilmente, le sue proprie dimensioni storiche? Il risultato di questa
situazione irreversibile è a tutti noto: la grande crisi dei valori etici,
politici, espressivi. Se volgiamo per un attimo lo sguardo alla cultura
contemporanea e agli ultimi movimenti delle neoavanguardie europee, lo stato di
crisi dell’espressione ha forse toccato i suoi limiti. L’articolo enuclea e
propone con chiarezza i principali elementi caratte-rizzanti il rinnovamento a
livello internazionale degli studi sulla lirica greca arcaica, sulla spinta
soprattutto dei lavori di Havelock, muovendo dal riconoscere che dato comune
alla lirica greca, e in generale alla poesia greca sino alla fine del V sec. fu
il tipo di comunicazione cui fu affidata, comunicazione non scritta ma orale»,
e che una poesia orale «comporta modi di espressione e atteggiamenti mentali
diversi dalla poesia di comu-nicazione scritta». Si è di fronte a una
‘tecnologia di scrittura’ rinvenibile «in contesti poetici di altre
culture orali», solita affidarsi a periodi brevi e figurazioni paratattiche,
estranea all’«uso dell’io idiosincratico», cioè appunto all’‘io lirico’ della
poesia latina e poi moderna, connessa invece a una «psicologia della
performance poetica che mira a pubblicizzare il personale e il
soggettivo per renderlo immediatamente percepibile e coin-volgere
emozionalmente l’uditorio attraverso la ricca serie di immagini e metafore
proprie del linguaggio della lirica arcaica. La presenza del mito ne riflette
la funzione, «tessuto connettivo della cultura orale e strumento sociale di
interazione tra passato e presente, fra tradizione e attualità, tra poeta e
uditorio», sì da delineare un tipo di poesia prammatica per la sua funzione e i
suoi scopi parenetici, didattici e celebrativi, sollecitata nella scelta dei
temi dalle vicende della vita militare e politica, dalle reali situazioni della
vita sociale, dei simposi, delle feste religiose e degli agoni atletici,
vincolata alle richieste di un committente o a un uditorio di amiche e di amici
di un thiaso di ragazze o di una consorteria politica di identico rango
sociale. Si trovano qui compendiate e illustrate con efficace consapevolezza
critica le linee guida che per mezzo secolo ispireranno l’amplissimo lavoro di
G. e della sua scuola sulla lirica greca arcaica. È opportu-no sottolineare la
volontà di G. di legare l’interpretazione dei lirici greci, così rinnovata, a
una prospettiva particolarmente ampia e ambizio- sa, protesa sul futuro e
infatti più volte ribadita nei decenni successivi, [Esemplare
l’esposizione in G. Sent from the all new AOL app for iOSl’idea cioè cui aspira
l’antropologia contemporanea, dell’interpretazione come comunicabilità fra
culture diverse e distanti nel tempo». Il rifiuto, all’inizio dell’articolo,
sia della «interpretazione umanistica tradizionale della poesia greca come
eterna storia naturale del gusto e dell’arte sia del neo-umanesimo etico, e in
definitiva la presa d’atto della «crisi profon-da dell’umanesimo tradizionale»
in un contesto culturale dominato dalle nuove scienze dell’uomo, mira
all’affermazione di un diverso paradigma (identificabile nei nomi diversi ma
variamente concordanti di Dodds e di Finley, di Vernant e di Havelock) con «lo
sforzo di capire in concreto la mentalità dell’uomo greco arcaico», secondo una
linea critica attenta all’oggi e al domani: nella quale cioè «convergono le
domande, le cate-gorie e gli strumenti delle moderne scienze dell’uomo: dalla
lessicologia semantica alla psicologia sociale e alla psicologia della storia,
dalla sociologia all’antropologia», e il vero tema risulta infine il problema
concreto dell’uomo nella sua vita individuale e sociale. Allo scopo
evidentemente di segnalare nell’attività critica ed esegetica la necessità di
una costante riflessione concernente passato dell’oggetto e presente
dell’interprete, «contro il pericolo di arbitrari travestimenti, il saggio si
chiude con una breve citazione da Eliot, cara a G., che la ripeterà in futuro.
Si tratta di un passo proveniente da un saggio (Euripides and Murray ),
violento attacco dello scrittore contro le traduzioni euripidee approntate per
la scena dal famoso grecista, accusato di adottare per le proprie versioni un
obsoleto stile tardo-otto-centesco incapace di trasmettere la sostanza del
testo greco e di renderlo comprensibile nel presente (opinione ben espressa
dalla devastante frase finale: «è per il fatto che il Murray non ha istinto
creativo che lascia Euripide lì, proprio morto»): è giusto aggiungere che,
quali siano stati moventi e intenti della stroncatura di Eliot, le traduzioni
di Murray proposte on the stage furono grandemente popolari per
decenni, e anzi it is largely due to Murray that Greek tragedy establishes
itself as a permanent feature of the theatrical landscape. L’intervento è
incluso [Sul significato di fondo dell’opera di Gentili da individuarsi
nella «applica-zione alla filologia testuale dell’antropologia culturale», al
fine di porre «la spiega-zione dei testi, della loro struttura e dei singoli
passi, nel quadro illuminante della cultura complessiva cui furono funzionali»
vd. soprattutto le osservazioni di Cerri. Con riferimento a quanto sembra alle
interpretazioni idealistiche e estetiz-zanti della lirica greca contro cui più
polemizza Gentili. 103 «Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il
passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente e tuttavia in
modo così vivo che esso sia tanto presente a noi come il presente. Cfr.
Garland. Su Euripides and Murray vd. ora i rilievi di
Morwood; sui ben noti, profondi interessi di Eliot per le letterature classiche
e soprattutto per Virgilio, e sull’importanza nella costru-zione e
nell’autorappresentazione del poema The Waste Land del
concetto Sent from the all new AOL app for iOSda Eliot nella
raccolta IL BOSCO SACRO, rivelata alla cultura italiana dalla
traduzione di Anceschi, che premise una lunga introduzione dove non manca di
essere menzionato Euripides and Murray , da Anceschi accostato al saggio
«incompiuto e bellissimo di Serra Intorno al modo di leggere i
Greci per la comune avversione verso «quel tipo ambiguo di
traduttore-poeta-filologo-professore che fu di moda nei primi anni del secolo e
che non soddisfò né le ragioni pure della filologia, né tanto meno quelle, certo
più rigorose, dell’arte. Bersaglio di Anceschi, subito dichiarato, è «il prof.
Romagnoli», esempio più noto della «filologia poetica di fine secolo», appunto
quella « filologia poetica , che è riuscita a ridurre i liri-ci greci ad
una farsa domenicale» a suo tempo già attaccata dallo stesso Anceschi
(direttamente coinvolgendo Romagnoli, da poco scomparso) nell’introduzione
ai Lirici greci, priva invece di riferimenti al certo in Italia
ancora ignoto intervento di Eliot contro Murray traduttore: lo si troverà poi
citato, in chiusura, nella rielaborata, quasi palinodica pre-fazione
anceschiana. Il terzo ampio e importante contributo che Gentili in quegli anni
ripropose sulla rivista di Anceschi (Prospettive critiche nell’interpretazione
della cultura greca dell’età dei lirici : G.) è per intero dedicato a discutere
i radicali mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda metà del Novecento
nel definire l’orizzonte della critica sui lirici greci». Il saggio prima di
tutto registra con soddisfazione il venir meno «dei miti e dei luoghi comuni
della vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange estetizzanti»,
particolarmente forti in Italia «per oltre un trentennio» proprio nell’àmbito
degli studi sui lirici, e nelle tradu-zioni. Come traccia dell’estremo
persistere della «critica del gusto» e in di fragment
(«these fragments have I shored against my ruins») vd. il profilo di
Martindale. Anceschi Anceschi Anceschi, Introduzione in
Quasimodo. Questo il passo. Quasimodo sembra perciò essere veramente il più
adatto – oggi – per una impresa così ardua – necessariamente – difficile in
reazione a certa filologia poetica, che è riuscita a ridurre i
lirici greci ad una farsa domenicale (e si veda Romagnoli da un frammento
bellissimo: Tramontata è già Selene / e le Pleiadi: il ciel tiene /
Mezzanotte: l’ora vola; / io son qui sopita e sola, dove il riferimento è
natural-mente al famoso frammento saffico. In Quasimodo, dove Eliot nel saggio
su Euripide è menzionato accanto a pensieri sul tradurre di LEOPARDI (si veda)
e di Pound. Pochi mesi prima della comparsa in italiano de Il bosco
sacro, il richiamo a Murray di Eliot a proposito delle traduzioni dai lirici
greci prodotte in Italia da certi filologhi non so come invasati dal dio è già
in Anceschi, Presentazione in Anceschi – Porzio dove come
traduttore di poeti antichi oltre a C. Sbarbaro, da Sofocle, compare in realtà
il solo S. Quasimodo, con testi da Omero, Saffo, Alceo, Erinna, Eschilo, VIRGILIO
(si veda), OVIDIO (si veda), CATULLO (si veda)] generale di quel gusto del
lirismo che domina la cultura italiana è indicata l’ancora presente tendenza a
ricondurre il testo originale al gusto del lettore e non viceversa a guidare il
lettore verso il testo originale, così procedendo a un’operazione che annulla
le categorie del tempo e dello spazio in vista di una contemporaneità falsa ed
artificiale». A rinforzo dell’osservazione e come monito «contro il pericolo di
arbitrari travestimenti» in cui possano cadere le traduzioni, G. torna a
menzionare il passo di Eliot contra Murray già citato al termine
dell’articolo di due anni prima ( L’interpretazione dei lirici greci
arcaici nella dimensione del nostro tempo. È interessante notarlo,
inte-ressante e paradossale. Originario intento del brano, e in genere
di Euripides and Murray, è l’accusa dello scrittore Eliot al grecista
Murray di essere privo dell’‘occhio creativo capace di render vivo Euri-pide
con una traduzione inglese adeguata ai tempi e alla perduta centralità
dell’educazione classica. Anceschi nel presentare la traduzione italiana
ravvisò in Murray l’equivalente inglese di Romagnoli, cioè dell’esponente più
illustre di quella ‘filologia poetica fine di secolo a lungo di voga in Italia,
colpevole di aver travestito gli antichi poeti nelle forme di un
linguaggio che non sappiamo collocare né storicizzare: un inafferrabile
linguaggio di Utopia che ci ha sempre meravigliato con certi moti di umore, e
oggi ancor più ci meraviglia e diverte; solo in qualche caso si potrà parlare
di uno sfatto e maldestro residuo di discepolato carducciano. È opportuno
citare per intero nel contesto originario il brano, con cui il sag-gio di Eliot
si conclude: Abbiamo bisogno di una digestione che assimili insieme Omero e
Flaubert; abbiamo bisogno (come ha incominciato Pound) di uno studio accurato
degli umanisti e dei traduttori del Rinascimento. Abbiamo bisogno di un occhio
che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal
presente, e, tuttavia in modo così vivo, che esso sia tanto presente a noi come
il presente. Questo è l’occhio creativo; ed è per il fatto che il professor
Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto. Eliot: I
classici han perduto il loro posto di pilastri del sistema politico-sociale. Se
i classici devono sopravvivere e giustificare se stessi, come letteratura, come
elementi del pensiero europeo, come fondamento per la letteratura che speriamo
di creare, sono proprio sfortunati per il bisogno che hanno di persone capaci
di chiarirli. Se del LIZIO d’Aristotele si può dire che è stato un pilota
morale dell’Europa, noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci spieghi come sia
materia vitale per noi il rinunciare o no a tale pilota. E abbiamo bisogno di
un gruppo di poeti colti che abbiano, almeno, opinioni sul dramma greco, e se
esso sia o no di qualche utilità per noi. Si deve dire che iMurray non è l’uomo
adatto per ciò. I poeti greci non avranno il più insignificante effetto di
sollecitazione per la poesia inglese, se appariranno solamente travestiti in un
volgare avvilimento dell’idioma troppo risentitamente personale di Swinburne.
Anceschi discorso che, Anceschi tiene a precisare, «non si rife-risce ad un
letterato di bella educazione e di civilissimo spirito, come Valgimigli Per
l’Anceschi come per quello e parimenti
(e poi sempre), la risposta alle illeggibili e a tratti grottesche
traduzioni di Fraccaroli e di Romagnoli venne dai Lirici
greci di Quasimodo, frutto d’acuto, inatteso, e ormai da molti anni
pressoché desueto contatto tra l’antico e il contemporaneo, fonte di poesia
nuova e antica a un tempo: proprio l’opera cioè implicito (e di lì a poco
esplicito) obiettivo polemi-co di Gentili, in quanto espressione più nota e
fortunata di quel ‘lirismo novecentesco’ che indebitamente assimilò alle
proprie categorie critiche ed estetiche la realtà incommensurabilmente altra
della lirica greca, pie-gandola alle attese e ai gusti del moderno lettore.
Riscoperto da Anceschi a sostegno di una resa dei classici antichi affine a
quella operata da Quasimodo con i lirici greci, Euripides and
Professor Murray è invece evocato da Gentili come alleato contro gl’arbitrari
travestimenti realizzati da traduzioni quale quella di Quasimodo. Lo si nota
non per ossessione fontistica o gusto della minuzia paradossale, ma come
indizio – insieme a tanti altri più rilevanti – del ruolo che nei decenni
centrali del Novecento la versione quasimodea dei Lirici ha,
come presenza immanente e come termine di confronto positivo o negativo, non
solo nel mondo letterario italiano, ma anche in quello filologico e accademico.
Nel caso di G. una tale presenza e un tale confronto dovettero sin da giovane
caricarsi di più intense risonanze, quando si pensi che la prima (e pressoché
unica) re-censione dei Lirici greci di Quasimodo ad opera di
un grecista accademico fu di Perrotta. Dimenticata dopo la guerra in [Ottime
in proposito le osservazioni di Albini, Prefazione, in Perrotta –
Albini, V: Le due traduzioni dei lirici greci che hanno contrassegnato la
prima parte del Novecento sono opera di G. Fraccaroli ed Romagnoli, due
studiosi di seria dottrina, impegnati nello sforzo di rievocare la bellezza e
la grandezza dei classici antichi. Si voleva spalancare una grande finestra sul
mondo antico, offrire le chiavi di un mondo paradigmatico, richiamare al
passato come premessa e garanzia per l’avvenire. Se le riprendiamo in mano
oggi, tali versioni si rivelano sconfortantemente indecifrabili. Lessico,
movenze, stilemi ci sono estranei, ignoti, quasi. Dall’introduzione di Anceschi
ora in Quasimodo Pare certo che G. sia giunto al saggio di Eliot attraverso
Anceschi, che lo propose al pubblico italiano, e di cui nel saggio poche righe
più avanti è del resto citata l’introduzione all’edizione dei Lirici
greci. Ancora nella postuma Premessa di Anceschi,
Brevi parole, su un modo del tradurre a Mariotti, le versioni di
Mariotti sono lodate come «ben lontane dalle effusioni floreali del prof.
Murray, non meno che da quelle di certi nostri professori-poeti», e si ha un
interessante ricordo personale delle «traduzioni dai Frammenti dei
tragici greci che legge ai tempi del liceo LIZIO, lontane ormai, ma non
dimenticate, di Mario Untersteiner, un traduttore che rimase esente dalle
rumorose, eccitate, e un poco illusionistiche euforie degli esuberanti
traduttori liberty del suo tempo. Anche in questo senso non è fuori
luogo osservare, come più volte fece Marcello Gigante, che «la traduzione
dei Lirici greci ha conquistato un posto ben definito nella storia
degli studi classici ragione della sede in cui è pubblicata, la recensione
di Perrotta non si limitò a rilevare errori e spropositi della traduzione
(Bella cosa, se Quasimodo sapesse un po’ meglio il greco!), ma soprattutto
seppe cogliere nell’impresa di Quasimodo quella di «un poeta, un modernissimo
poeta che vuol tradurre i lirici greci modernamente, e riesce così a conservare
ad essi la semplicità antica»: da contemporaneo Perrotta comprese cioè il
novecentismo dei Lirici greci , la loro pertinenza (come Anceschi dirà del
classicismo post-simbolista di Eliot) a una zona di dignità anticamente
moderna, di classiche aspirazioni, che è movimento proprio a gran parte
dell’Europa civile Sono osservazioni utili, credo, a contestualizzare e meglio
valutare l’attenzione, pur critica, che Gentili spesso manifestò verso i
Lirici greci quasimodei nonché verso significato e influsso nella
cultura italiana del Novecento di quella modalità di accesso alla poesia greca.
Nel saggio di G. compreso nell’annata de «Il Verri» alle versioni di Quasimo-do
dai lirici è accostato il Pindaro di Leone Traverso, cioè la
traduzione delle odi e di una scelta di frammenti che il grecista e germanista
L. Tra-verso pubblica per Sansoni. Va ricordato che sede originaria di
Prospettive critiche nell’interpretazione della cul-tura greca dell’età
dei lirici fu l’imponente numero in due tomi di Studi Urbinati per intero
dedicato a ospitare Studi in onore di Traverso , con
Dedica di Bo, di cui è
altresì presente il saggio La cultura europea in Firenze. Vi si
rievoca il clima degli anni di formazione fiorentina di Traverso, poi
professore di Lingua e letteratura tedesca nell’Ateneo urbinate, tra i giovani
poeti e scrittori (Bo, Bigongiari, Luzi, Macrí) che raccolti intorno a «Il
Frontespizio» e a «Letteratura» diedero vita all’esperienza dell’ermetismo,
prima di tutto come esigenza di apertura a una cultura di carattere europeo e
organicamente volta perciò alla traduzione: «anni dove la poesia è una sorta di
religio- [Si tratta de «Il Bargello. Foglio d’ordini della Federazione
fiorentina dei Fasci di combattimento», periodico cui collaborarono molti
giovani intellettuali anche vicini all’ermetismo. La recensione ai
Lirici greci è comunque segnalata nelle bibliografie di Perrotta
in Studi Perrotta e in Perrotta; sul tema vd. Benedetto. Anceschi;
ricordo in proposito il recente, ricco catalogo Mazzocca Traverso – Grassi G. Cfr.
Bo (in origine conferenza pronunciata a
Firenze); nel I tomo è l’ampio saggio di Macrí, dove particolare attenzione è
riservata alla rigorosa formazione filologica classica di Traverso («addetto,
nella distribuzione dei nostri compiti generazionali, alla specula
ellenico-germanica»), alla sua ammi-razione per Perrotta e alla intrinsichezza
con Pasquali, alla lunga consuetudine con Pindaro, letto e tradotto «non con un
rifacimento o rimpasto contemporaneizzante di tipo idealistico
pseudostoricistico (poesia e non poesia, ciò che è vivo e ciò chene e la
critica sposava le stesse passioni e le stesse ricerche dei poeti. Già
coinvolto in una polemichetta con Quasimodo (duce Lavagnini) ancor prima
dell’uscita dei Lirici greci , intorno all’interpretazione di ὤρα
come giovinezza nel famoso fr. Diehl di Saffo (Tramontata è la luna
), Traverso fu uno dei primi recensori dell’opera, su «Primato» dell’1 luglio
1940. Pur notando qualche arbitrio e difetto nella resa del greco, sin dall’
incipit egli aderisce alla scelta effettuata sui lirici («perfettamente
adeguata al gusto del nostro tempo), alla sua modalità e ispirazione:
Tralasciati i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al giro d’una
polemica occasionale (Callino, Tirteo, Focilide,Teognide, Solone, Senofane,
ecc.) e insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’ estranee al
nostro spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione, come ufficiali
quali Pindaro e Bacchilide – egli isola di quella poesia una zona che più
evidente offre il carattere di una «pu-rezza» rarissima in tutte le civiltà
letterarie. (E l’ha aiutato efficacemente in questa selezione anzitutto lo
stato in cui più di frequente furono tramandate quelle reliquie –
naturalmente per ragioni diversissime dalle sue: frammentario) Forse memore di
quei lontani trascorsi, e certamente del retroterra erme-tico di Traverso, G.
assimila Lirici greci di Quasimodo e
Pindaro di Traverso come «prove più rappresentative di
un’esperienza letteraria intesa come problema d’immagini, d’invenzione
linguistica, di ricerca di stile. Mentre in Quasimodo la vera fedeltà di
traduttore è nella libertà del movimento linguistico e ritmico» con il
conseguente scarso valore attribuito al reale rapporto originale-traduzione,
l’assai più ricca è morto, ecc.) ma di colpo, al centro e al cuore
dell’assoluto e del sublime pindari-co, che fu operazione tipica della critica
ermetica nel contatto con l’opera d’arte»: notandosi inoltre che «non diverso
(pur computata la diversità della preparazione filologica) fu il possesso della
lirica greca da parte di Quasimodo». In una vivace intervista Macrí ha a
ricordare Traverso all’inizio degli anni Trenta come parte «del primissimo
gruppo pre-ermetico al caffè San Marco infusi del demone delle letterature
straniere», insieme naturalmente a Bo, che «venne alla Facoltà di Lettere
fiorentina per seguire gli studi classici, poi ci ripensò e divertì sulla
letteratura francese, maestro Foscolo Benedetto, anche di Luzi (Tabanelli Sono
parole a proposito di Quasimodo e degli anni Trenta da un articolo di Bo,
Ma dove va la poesia? , apparso sul Corriere della Sera, ora in Bo I
testi della disputa, avvenuta su «Corrente di vita sono ora disponibili in
Benedetto – Greggi – Nuti Traverso; la recensione è ora ripubblicata in
Benedetto – Greggi – Nuti. Di fronte alle versioni di Quasimodo anche a
Traverso, come a tutti i primi recensori, «preme anzitutto riconoscere la
validità di poesia italiana, indipendente, che ne risulta. E quindi, come da
molti è stato osservato, «il tradurre diviene un momento essenziale del
poetare Sent from the all new AOL app for iOStrama letteraria e
filologica sottesa, nonché l’influsso di Hölderlin traduttore di Pindaro e di
Sofocle, ha come effetto in Traverso un maggiore rispetto «per gli usi della
lingua greca che per lo spirito della propria lingua», con il paradossale
scivolare «in una sorta di ermetismo di scrittura che rende inintelligibile il
senso e in un preziosismo linguistico che tradisce l’impegno della trasparenza
anche se il calco raggiunga in qualche caso la fedeltà auspicata. Pur tra loro
sotto molti aspetti differenti, le versioni di Quasimodo e di Traverso sono
agli occhi di G. accomunate dall’inadeguatezza a riproporre «la totalità umana
e artistica dei lirici greci», vittime della loro stessa ricerca di una
«fedeltà emotiva» incapace di rendere l’attuale lettore consapevole della
distanza che lo separa da quegli antichi e frammenta-ri testi. Allora e per i
successivi decenni della sua intensissima attività scientifica, di filologo e
di traduttore, la risposta scelta da G. fu ri-nunciare a soffermarsi sul
«problema teorico, e in un certo senso ozioso, della traducibilità o
intraducibilità in assoluto», e invece, per così dire fenomenologicamente,
investire sul piano prammatico il problema del-la traducibilità. Si tratta di
pagine di grande rilievo, dove sono indi-viduate priorità e finalità
concernenti «il discorso della traducibilità dei lirici, dei modi e delle
tecniche del tradurre», nel rifiuto dell’assunzione a modelli di specifiche
poetiche del tradurre, affermando l’impossibilità di «prescindere dalle reali
situazioni di cultura del mondo contemporaneo e dalle richieste che al
traduttore pone il lettore moderno», e definendo esigenze di vasto e pur
rigoroso valore comunicativo, destinate (come già si è visto) a essere ribadite
e di continuo inverate nel lavoro di Gentili dei decenni a venire: Una poetica
non astratta e irreale, non prefigurata su schemi di modelli già espe-riti, ma
una poetica aperta del tradurre che si costruisca gli strumenti adeguati a una
maggiore portata di comunicazione e riproponga il problema del tradurre
dai G. Le considerazioni a proposito di Traverso, e delle tra-duzioni di
Hölderlin come «esempi mostruosi» di fedeltà all’originale, torneranno in B. G.,
Introduzione , a G.– Bernardini – Cingano – Giannini G. richiama in nota il pregevolissimo saggio di
Mattioli, com-preso nel numero speciale Classicità e contemporaneità ,
dove anche si aveva la fondamentale prolusione urbinate Aspetti del
rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Il saggio di
Mattioli si conclude con alcune considera-zioni di tipo teorico, a partire
dalla convinzione che la soluzione univoca (traducibilità assoluta o
intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto», e che perciò
risposta sul piano teorico non si può dare ma «il problema si risolve soltanto
in un contesto prammatico, cioè sul piano delle molteplici risposte della
storia. Alla tradizionale domanda ‘si può tradurre?’ Mattioli propone di
sostituire domande quali come si traduce? e CHE SENSO HA IL TRADURRE?, cioè
«sostituire alla domanda di tipo metafisico la domanda di tipo
fenomenologico greci non nei limiti dei vecchi modelli privilegiati della
traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella prospettiva più
ampia di quella idea cui aspira l’etnografia contemporanea della traduzione
come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche,
sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo. Poiché fedeltà alla poesia o
fedeltà alla qualità letteraria è un problema che investe la comprensione
totale del testo, non soltanto di tutte le sue connotazioni, dei suoi registri
linguistici e metrici ma anche di tutta la realtà extralinguistica e
situazionale dell’enunciato poetico. Senza passare dettagliatamente in rassegna
l’intero saggio, bastino al-cuni richiami a temi che in futuro variamente
continueranno ad occupa-re G.. Così l’interrogarsi su una versificazione
italiana adeguata alla complessa struttura metrica delle strofe di Pindaro e di
Bacchilide conduce Gentili a sostenere la preferibilità del verso libero delle
grandi odi dannunziane, finanche segnalando le possibilità aperte dal verso
dinamico e “atonale” della poesia dei Novissimi», e in effetti
nell’antologia Lirica corale greca dello stesso G. tenta di
risolvere il movimento dei metri simonidei con le tecniche metriche della
poesia contem-poranea dei Novissimi: va detto che un profondo interesse per le
strut-ture metriche della poesia italiana soprattutto ottocentesca e
novecentesca sin dall’inizio caratterizza i «Quaderni Urbinati di Cultura
Classica . La G. [Sono affermazioni che ritorneranno, insieme a parte
dell’intero saggio, nell’ Appendice II. La traduzione dai lirici. Alcune
osservazioni sul problema del tradurre in G., Si ricordi la scelta del
verso libero per la traduzione delle Pitiche , con l’os-servazione
che «le grandi odi delle Laudi del D’Annunzio,
particolarmente il verso libero della Laus vitae , scandito da
strofe di 21 versi, offrono sotto il profilo tecnico un modello esemplare di
versificazione per l’esuberante dovizia delle forme ritmi-che, tali da
riecheggiare […] i molteplici schemi della metrica pindarica» (G.,
Introduzione , a G. – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini); e si
ricordi altresì la lunga citazione da Maia , con l’apparizione del
«monarca de-gli Inni», al principio dell’ Introduzione alla
postrema fatica G. – Catenacci – Giannini – Lomiento Lo rileva Bernardini
[In àmbito diverso ma non estraneo si tenga presente, dello stesso G.,
l’importante e innovativo lavoro Cultura dell’im- provviso. Poesia orale
colta nel Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e classica
(G.), poi riproposto in altre sedi: nella conclusione si esprime vivo interesse
per esperienze contemporanee quali «l’affermarsi, in America, di un’avanguardia
poetica, che si definisce “postmoderna” e trae il suo alimento dai contributi
sulla poesia orale forniti, in questi ultimi decenni, non solo
dall’antropo-logia culturale, ma anche e soprattutto dalla più autorevole
filologia classica ameri-cana, rappresentata dagli studi del Parry, del Lord e
dell’Havelock» poi in G. Già nel primo numero si ha l’articolo di Pinchera, che
si apre lamentando l’effetto negativo sulle «indagini critiche relative alla
storia delle forme metriche» prodotto dalla «dittatura culturale esercitata per
vari decenni in Italia da Benedetto Croce».riflessione sull’eclissarsi nel
secondo dopoguerra del neoumanesimo di W. Jaeger è occasione per evocare il
contemporaneo «crollo dell’esperienza critica crociana», la cui presenza più
autorevole nel settore della classicità e più coerente con l’orientamento
crociano è riconosciuta in G. Perrotta, particolarmente per Saffo e
Pindaro. Circa la più generale posi-zione critica del maestro, G. tiene a
mettere in rilievo che «pur ade-rendo senza riserve al canone
dell’interpretazione estetica dei lirici, aveva tuttavia saldissime basi
filologiche e storiche, non era in altri termini una critica del gusto»,
giacché il crocianesimo operava in lui come una sorta di sovrastruttura, sul
tronco più vi-tale di quella viva metodologia critica introdotta in Italia da
Giorgio Pasquali, che portava in sé già latenti i fermenti di un approccio
linguistico, psicologico e antro-pologico alla cultura classica: la ricerca filologica
costituiva soltanto il momento preliminare e necessario di un’indagine il cui
fine era l’intelligenza del mondo an-tico nella viva concretezza della sua
cultura. Nel prosieguo del contributo, Gentili brevemente si sofferma
sull’innova- tivo apporto soprattutto degli indirizzi di Dodds e di Vernant
allo studio della cultura greca arcaica, infine indicando il problema cardine
della ricerca sulla cultura e la poesia di quell’età «nel corretto rapporto tra
livello sincronico e livello diacronico della ricerca», il che è stimolo per
accennare alle note riserve verso gli studi pindarici di Bundy, e poi di Young.
Ad essi G. rimprovera un’analisi limitata ai soli aspetti sincronici delle
strutture linguistiche e formali, tale da precludere «la possibilità di
comprendere gli aspetti situazionali ed extralinguistici della
performance della lirica pindarica». Alcuni anni dopo, più ampia-
mente e duramente Gentili assocerà a questa nuova critica «il fastidio che
suscita inevitabilmente un’analisi soltanto formale, intesa a repe-rire le
costanti intertestuali, senza riguardo all’articolazione dei singoli contesti
ed alla impostazione ideologica dei diversi autori: è per noi interessante il
confronto lì istituito con «quella critica estetica che ebbe in Italia come suo
massimo esponente G. Perrotta», a tutto vantaggio [In nota è menzionato il
contemporaneo saggio su Saffo di Valgimigli, «da noi la prova più rilevante di
una critica del gusto permeata di evoca-zioni e suggestioni letterarie della
cultura italiana fra i due secoli». Significativo è, nella stessa nota, il
richiamo invece favorevole all’intonazione anticlassicistica dei frammenti dal
saggio di Serra Intorno al modo di leggere i Greci pubblicati
da E. Raimondi nel numero de «Il Verri» su Classicità e contemporaneità ;
si consi-deri anche che in occasione del cinquantenario della morte, è il
saggio di Bo La religione di Serra , poi accolto nel volume La
religione di Serra e altre note di lettura , Firenze Su crocianesimo e Pasquali
in Perrotta, analoghe espressio-ni vent’anni dopo in G.. Su questi temi vd. poi
almeno G., dell’approccio del maestro, «una critica estetica che non è puro
estetismo impressionistico ed intuizionistico, ma una critica del gusto
corroborata da un’acuta sensibilità storica.. L’articolo si chiude
confer-mandosi come «proposta di una diversa lettura dei lirici, che recuperi
nella storicità delle relazioni fra poeta e uditorio il significato originario
del loro messaggio». Una proposta di cui si tiene a sottolineare il caratte-re antidogmatico,
inteso a rispondere alle esigenze critiche del presente: «Ma, di là da una
falsa pretesa di un equivoco oggettivismo metasto-rico, essa non presume di
essere definitiva. Al contrario, consapevole del divenire storico della
critica, si affianca alle precedenti proposte, già esperite, in una modalità di
lettura più coerente con l’orizzonte culturale del nostro tempo. Assai più dei
due precedenti interventi accolti su «Il Verri», Prospettive critiche
nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici è attento al
tema della traduzione, e alle ricadute delle varie correnti critiche del
Novecento su teoria e prassi delle traduzioni dai lirici greci. Al ‘piano
prammatico’ e all’impostazione ‘aperta’ della traduzione, di taglio antropologico,
Gentili rimarrà fedele, ulteriormente approfondendo la riflessione negli anni,
sì da scorgere nel traduttore «uno “sciamano” che non conosce confini sino al
punto da divenire un altro da sé e di cogliere il momento puntuale in cui
significante e significato si compenetrano» 136 , nella fedeltà alla «norma
dannunziana di avvicinare il lettore all’opera e non viceversa» 137 . La
presenza di contributi di G. G.; sul conflitto tra gli indirizzi di Bundy e
della SCUOLA URBINATE di G., le considerazioni di Lehnus. Ampia analisi delle
posizioni di Bundy e di Young, con frequenti richiami a Perrotta e in nome
(come noto) della riproposizione di una ‘lettura estetica’ degli epinici, è nel
lavoro di Bonelli, con ricca bibliografia. G.. Analogamente, e fenomenologicamente,
si concludeva il già citato Mattioli: Altre risposte (traduzioni e idee del
tradurre) segui-ranno in futuro per le quali sarebbe arbitrario stabilir regole
o far previsioni come lo sarebbe per l’arte del futuro», e perciò «a questo
punto si può fermare il discorso, non solo perché si presenta come abbozzo di
una futura ricerca, ma anche perché i discorsi conclusi in questo
àmbito di studi sono palesemente insensati». Si veda già Mattioliper l a
proposta di «una impostazione fenomenologica della ricerca, considerata
particolarmente necessaria e opportuna nel campo dell’antichità classica
proprio in ragione dello «scacco che ha ricevuto il tentativo, compiuto in
Italia, di trasportare sic et simpliciter l’estetica crociana nella
interpretazione delle letterature classiche. G., Introduzione , a
Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini Così in G., dove anche è
ricordato il giudizio di Perrotta, per il quale ANNUNZIO (si veda) è non solo
il traduttore ideale di Pindaro, ma il poeta italiano che meglio di tutti ha
saputo riecheggiarne l’arte, intendendola pienamente. Più positivo si fa nel
citato articolo il giudizio sulla traduzione pindarica di L. Traversosu «Il
Verri» non andrà oltre i primi anni ’70 138 , ma sino alla vigilia del-la morte
di Anceschi (maggio 1995) durarono i rapporti epistolari, come oggi sappiamo
grazie alla pubblicazione dei diari riferiti agli ultimi anni del professore
bolognese, che molte volte sino agli estremi suoi giorni continuò a tornare con
il pensiero alla traduzione di Quasimodo dei Lirici greci e al suo
significato storico e culturale. A quella stessa seconda metà degli anni ‘60
fecondissima di idee e di propositi appartiene il numero d’avvio dei «Quaderni
Urbinati di Cultura Classica», come espressione del Centro di studi sulla
lirica greca e sulla metrica latina diretto da G. e connesso al
CNR. Un effettivo riesame dell’attività scientifica di Gentili comportereb-be
una sistematica rilettura non solo dei contributi e degli interventi del
direttore dei Quaderni ma più in generale delle principali linee di
ricerca espresse dalla rivista, del loro permanere, mutare ed evolvere nel
corso di cinquant’anni. Mi limiterò a richiamare due contributi di Gentili su
Saffo ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a distanza di oltre
quarant’anni l’uno dall’altro, per così dire ai due poli cronologici dei
Quaderni di G.. Il primo è La veneranda Saffo, che [Sino
a Gentili – Cerri: sull’importanza dell’articolo per successivi saggi di G.
sulla storiografia antica vd. Bernardini Oltre a un cenno in un’annotazione
(«Eccellente scritto di G. sulla “Repubblica”. Lo riporto integralmente. Ancora
una volta acu-te considerazioni sulla oralità – e sulla situazione degli studi
umanistici», cfr. Anceschi), si veda soprattutto quella d («Lettera
molto lusinghiera di G.. Conosco l’ironia, ed è tale da non accettare
ambiguità. Ecco un uomo che dice quello che pensa», cfr. Diari
Anceschi). Nell’Archivio Anceschi presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di
Bologna sono conservate lettere di G.: cfr. Campagna; si tratta della presenza
più ampia per un filologo classico, insieme a M. Barchiesi (parimenti lettere),
del quale sulla rivista anceschiana vd. Plauto e il “metateatro”
antico (Barchiesi), con la premessa: «sulla tentazione erudita […]
prevalse l’idea di tenere aperto, in perfetta modestia, il discorso su quello
che è più che mai il nostro tema cruciale, e che può designarsi con la formula
stessa del “Verri”, classicità e contemporaneità. Così: Con Quasimodo ho avuto
una frequentazione amichevole molto prolungata e, mi pare, serena aperta ai
problemi con vivi impulsi di collaborazione e di conoscenza. Certo sono passati
tanti anni; per altro, l’affetto del ricordo non diminuisce. Quale che sia la
forza della mia vita letteraria, per me si è trattato di un risvolto capitale.
La traduzione dei Lirici Greci fu una esperienza radicale
alle origini, che ci portò a rivivere il proble-ma del tradurre come un
problema fondamentale della poesia. Da quel momento la discussione è aperta, e
mi pare con qualche frutto, mi pare anche che in questo senso l’impulso
continui. Penso che questa esperienza nel mettere in rilievo tanti motivi della
relazione complessa tra traduzione e poesia – sia, o almeno sia per quel che mi
riguarda, costitutiva di un modo di vedere che continua ad operare»
( Diari Anceschi G. confluito in forma abbreviata in G. prende
spunto dal famoso fr. 384 V. (verosimilmente) di Alceo ἰόπλοκ’ ἄγνα
μελλιχόμειδε Σάπφοι, forse (si è supposto) «l’ incipit di un car-me
dedicato all’illustre concittadina» 142 . Era il frammento cui s’era volto
Perrotta dopo aver espresso il proprio rifiuto verso «la soluzione dei Welcker
e dei Wilamowitz» a difesa della ‘purezza’ di Saffo: Molto meglio, per chi
voglia davvero intendere e onorare Saffo, ricordare il fram-mento di Alceo che
dice: «affo pura, dal dolce sorriso, dal crine di viola. L’omaggio devoto
dell’insolente cavaliere di Lesbo basta a farci sicuri che né bia-simi né
malignità aduggiarono mai la vita mortale di Saffo. Altro non è da ricercare:
non si può pretendere di giudicare con le nostre idee moderne, né giudicare una
donna di Lesbo con i pregiudizi di un Ateniese. Ognuno vede quanto sarebbe
ingiusto rimproverare alla poetessa i suoi amori per le amiche, mentre nessuno
rimprovererà al suo compatriota e contemporaneo Alceo gli amori per Lico. Ma
più importa questo: Saffo è soprattutto una poetessa, anzi è soltanto una
poetessa per noi; soltanto la sua poesia noi dobbiamo giudicare, e soltanto in
essa noi possiamo trovare la sua immagine. Ora, alla sua poesia possiamo
accostarci con animo puro: essa è pura, perché poesia, e altissima poesia. Al
passo, per molti aspetti paradigmatico dell’interpretazione perrottia-na di
Saffo, Gentili non fa diretto riferimento, rifacendosi invece all’ultimo
articolo di Ferrari, allievo di Pasquali inviato come assistente di Perrotta a
Roma. Se merito dell’intervento di Ferrari era stato sottrarre
l’interpretazione dell’epiteto ἄγνα all’àmbito della «castità profana»,
caro a «tutte le mitiche specula-zioni sulla purezza degli amori di Saffo» e a
tutte le «moderne idealizzazioni della sua poesia, dimostrandone invece il
senso arcaico «limitato esclu-sivamente alla sfera del sacro», d’altra parte –
rileva G. – l’indagine di Ferrari sfociava in una idealizzazione di Saffo
sostanzialmente coerente «con l’orientamento critico di stretta osservanza
crociana prevalente in quei tempi», rappresentato al meglio dal Saffo e
Pindaro di Perrotta, scritto appena cinque anni prima . Nel varare la
fortunata avventura dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica, dalla ‘purezza’
di Saffo G. decide Degani – Burzacchini Perrotta. 144 Canfora L’articolo di Ferrari era ricordato a
proposito del «significato di ἀγνός» anche nella I edizione di
Polinnia. Questo verso famoso, che sarà da attribuire ad Alceo, è
innocentemente responsabile di tutte le mitiche speculazioni (soprattutto da
noi) sulla personalità di Saffo che poeti, critici e filologi ci hanno
somministrato a partire dalla Saffo “dal riso morbido, dall’ondeggiante | crin
di viola” del Carducci sino alla casta Saffo del Valgimigli»: così Gentili
l’anno prima, in occasione del rifacimento della sezione su Alceo per
l’edizione di Polinnia del 1965, 224 (anche in Gentili –
Catenacci 2007a, 196). 147 Gentili 1966, 37-38di prendere le mosse: da
quello stesso frammento, si può aggiungere, scelto ad introdurre la sezione su
Saffo nei Lirici greci di Quasimodo (o coronata di viole, divina
dolce ridente Saffo). In conformità ai principî deli-neati nel saggio dell’anno
precedente Aspetti del rapporto poeta, commit-tente, uditorio nella
lirica corale greca , dove si poneva in primo piano la necessità per il moderno
lettore di comprendere la funzione e il fine proprio del carme lirico, il senso
dell’apostrofe è rintracciato attenendosi al senso reale del contesto alcaico,
così leggendo nel saluto di Alceo «un reverente omaggio alla dignità sacrale
della poetessa quale ministra d’Afrodite», con precisa allusione «alla funzione
religioso-sociale nell’ambito del tiaso. L’inveterato tema degli amori di Saffo
è radicalmente riesaminato alla luce di carattere, aspetti, scopi del tiaso
saffico «nelle sue giuste proporzioni storiche e sociali anche mediante
l’apporto di analoghe esperienze di altre culture». Il riconoscimento
dell’esistenza nella dinamica del tiaso di pre-cise unioni per così dire
ufficiali fra le ragazze tali da non escludere «probabilmente un rapporto di
tipo matrimoniale» è posto da Gentili in relazione a una testimonianza di
Simone de Beauvoir circa la presenza a Singapore e a Canton ancora in anni
recenti «di molte comunità femminili che nelle convenzioni e nelle pratiche di
culto sembrano ripetere antichi modelli culturali molto simili a quelli delle
comunità della Lesbo arcaica», e cioè «des lesbiennes reconnues e marient entre
elles et adoptent des enfants». G. offre qui un geniale esempio di
«interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo»,
come suonerà il ti-tolo dell’intervento al congresso di Bonn: al di là di
eventuali dubbi circa la sostenibilità del confronto, comunque verosimile,
conta mettere in luce l’efficacissima reazione ermeneutica che lega antico e
contemporaneo illuminando entrambi. Né manca l’apertura sul futuro, quando si
pensi in che misura a distanza di pochi decenni in molti Paesi oc-cidentali
quegli antichi modelli culturali si siano concretizzati nella rifles-sione
giuridica, nella legislazione e nella prassi sociale. Esempio forse tra i più
chiari di quanto i classici, e il rinnovamento della loro interpretazione,
abbiano contribuito a porre lontane, e meno lontane, basi della
(post)moderna sexual revolution, con tutte le forzature e gli arbitrî
propri di tali ardui e complessi intrecci di tempi e di culture. Dell’attenzione
di Gen- [G. Importanti in quest’àmbito anche i numerosi contributi ospitati nei
«Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a proposito di significato e contesto
del partenio di Alcmane, a partire soprattutto da G. (poi rifuso in Le vie di Eros nella poesia dei
tiasi femminili e dei simposi in G.); sul più ampio tema delle
iniziazioni femminili l’assai più recente volume G. – Perusino In luogo di
rifarmi alla sovrabbondante bibliografia anglosassone in proposi-to, spesso
ideologicamente determinata, ricordo il capitolo Klassieken en
seksuele vrijheid nel bel libro di Veenman: con particolare riferimento a
una cultura, quale quella dei Paesi Bassi, cui in differenti epoche, sino alle
più recentitili a questi temi e alle loro ricadute e implicazioni, è infine
testimonianza Saffo ‘politicamente corretta’ , l’articolo (in collaborazione con Catenacci) dove la
ribadita posizione critica che ammette la presenza nei carmi saffici di
elementi avvaloranti la pratica dell’omoerotismo in àmbito iniziatico e
paideutico è volta a contrastare «una nutrita serie di lavori ispirati ai
gender studies » di recente diffusisi soprattutto negli (e dagli) Stati Uniti,
e intesi a sostenere che «Saffo non si rivolgeva a giovinette, ma a sue
coetanee in una forma di libera attrazione omosessuale, e non svolgeva nessun
ruolo né paideutico né religioso all’interno del gruppo. Un coraggioso
intervento, di grande valore metodologico e rilevanza storiografica, per il
quale una tale Saffo politically correct va respinta,
al pari della Saffo otto-novecentesca votata alla purezza, giacché
«rappresentazione astorica e forgiata su istanze manifestamente attualizzanti. Nel
quadro del crescente interesse nei Quaderni Urbinati di Cultura Classica
dell’ultimo ventennio per questioni di storia e metodologia degli studi
classici, alcuni anni fa apparve un articolo di Miralles, dal titolo The
use of classics today, aperto dall’indubbia constatazione «the huma-nities are
losing ground and classical studies are in retreat. Al di là dei suggerimenti
proposti, e dell’enorme differenza di tempi e condizioni, torna in mente «il
vigile e costante impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi» caro a
Perrotta, da G. più volte ricordato nelle com-memorazioni del maestro. Nel
salutare la recente rinnovata edizione di Polinnia è stato
giustamente e autorevolmente rilevato che «in tanto rin-novamento, Gentili e la
sua scuola non hanno dimenticato né che la poesia greca si può avvicinare solo
attraverso la storia e la filologia, né che essa ha comunque uno straordinario
valore estetico. G. non ha rinnegato le sue radici, semplicemente da esse è
nato un albero capace di produrre fiori non prevedibili all’inizio – se
Perrotta sarebbe contento di lui? Difficile dirlo» 153 . Forse, e per molti
motivi, si può azzardare una risposta positiva. Benedetto si devono
determinanti apporti nell’elaborazione di teoria e prassi della moderna
sessualità liberata, Veenman mostra quanto soprattutto negli ultimi due secoli
i classici hanno aiutato a capire e denominare l’omosessualità -- de klassieken
hielpen homoseksualiteit te begrijpen en te benoemen. – Catenacci 2007b; circa
la storia della fortuna e della ricezione di Saffo mi limito a rinviare alle
incisive osservazioni di Most. Va detto che in generale la critica più recente
sembra avvertire una quantità crescente di aporie circa il significato del
contesto comunitario, il gruppo ristretto e omogeneo tradizionalmente
attribuito a Saffo, il ‘tiaso’, e torna ad osservare che «mentre nel caso di
Alceo la dimensione di gruppo ristretto è evidente e spiega ade-guatamente gran
parte – se non la totalità – della sua poesia, nel caso di Saffo è più
difficile da delineare senza rischiare attualizzazioni indebite
(Michelazzo). Miralles Bettini Albini, Perrotta, «nomon Anceschi,
Primo tempo estetico di Eliot , in T. S. Eliot, Il
bosco sacro. Saggi di poesia e di critica , con uno studio di L. Ance-schi,
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Orizzonte della poesia , «Il Verri» Anceschi, Intervento , «Il Verri»
Anceschi, Del “Verri”, perché lo abbiamo fatto e lo facciamo
, «Il Verri» Anceschi, Interventi per «il verri», a cura di L.
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memorie , a cura di M. G. Anceschi – A. Campagna – D. Colombo, Milano
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della reli-gione . Seminario della Scuola normale superiore di Pisa, a cura di
Arrighetti et al.; prefazione di Momigliano, Pisa Barchiesi, Plauto
e il “metateatro” antico” , «Il Verri» Barié – Sini, I Greci e noi
, Milano Benedetto, I Sepolcri nella storia della fortuna di
Pindaro , in Dei Sepolcri di Foscolo , a cura di G. Barbarisi – W.
Spaggiari, Milano Benedetto, Filologia classica e storia antica:
pre-messe e sviluppi, PER UNA STORIA DELL’UNIVERSITA DI MILANO, Bologna Annali
di storia delle università italiane Benedetto, Tradurre da poesia
classica in frammen-ti: note di Manara Valgimigli ai Lirici greci di Quasimodo,
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Valgimigli, Anceschi e Quasimodo , a cura di Benedetto – Greggi – A.
Nuti; introd. di M. Biondi, Bologna Lirici greci e lirici nuovi. Lettere e
documenti di Manara Valgimigli, Luciano Anceschi e Salvatore Quasimodo, cur. Benedetto
– Greggi – A. Nuti; introd. di M. Biondi, Bologna Bernardini,
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laboratorio di Luciano Anceschi. Pagine, carte, memorie , a cura di Anceschi
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Versione let-terale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a Giosuè
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Degani – Burzacchini Degani – G. Burzacchini, Lirici greci, seconda
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editions Benedetto, Ricordo di Polinnia, Lexis Il richiamo del
testo. Contributi di filologia e letteratura , Pisa I diari di Luciano
Anceschi, «il verri I diari di Anceschi, il verri Dieterich – Hiller von
Gaertringen – Calder Usener und Wila-mowitz. Ein Briefwechsel hrsg. von
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della Facoltà , Roma García Novo, Métrica , in Veinte años de
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Agatia , «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio
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Gentili, La metrica dei Greci , Messina-Firenze G., Bacchilide.
Studi, Urbino G., Problemi di metrica Maia Studi in onore di Perrotta ,
Bologna G., Aspetti del rapporto poeta, committente, udi-torio nella
lirica corale greca , «StudUrbB G., Aspetti del rapporto poeta,
committente, udito-rio nella lirica corale greca , «Il Verri» Gentili Lirica
corale greca. Pindaro Bacchilide Simonide , con testo a fronte versioni
introduzione e note di B. G., Parma G., La veneranda Saffo , «QUCC G., L’interpretazione dei lirici
greci arcaici nella dimensione del nostro tempo. Sincronia e diacronia nello
studio di una cultura orale , «QUCC G., L’interpretazione dei
lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo , «Il Verri» G.,
Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età
dei lirici , StudUrbB G. Prospettive critiche nell’interpretazione
della cultura greca dell’età dei lirici , «Il Verri» G., Il Partenio
di Alcmane e l’amore omoerotico femminile nei tiasi spartani ,
«QUCC G. Metrica greca. Problemi di metodologia e rap- porto
metrica-musica , in Storia e civiltà dei Greci , direttore R. Bianchi
Bandinelli; La crisi della polis. Arte, religione, musica , Milano
Gentili, Poeta, committente, pubblico , in Storia e civil-tà
dei Greci , direttore R. Bianchi Bandinelli; La Grecia nell’età di
Pericle. Storia, letteratura, filosofia , Milano G., Cultura
dell’improvviso. Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca
dell’età arcaica e classica , «QUCC G., Poesia e pubblico nella
Grecia antica , Roma-Bari G., Gli studi di Pasquali sulla metrica gre-ca
e sul saturnio latino , in Pasquali e la filologia classica del
Novecento . Atti del Convegno Firenze-Pisa, a cura di Bornmann, Firenze G.,
Tradurre poesia, Aufidus G., Die pragmatischen Aspekte der
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iniziazione femminile nel santuario di Artemide, cur. G. – Perusino, Pisa
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interprete di Pindaro , in L’etica della ragione. Ricordo di Untersteiner,
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filologia del passato , Bari Lehnus, Repertorio di libri ed
estratti postillati da Paul Maas , «QS in L. Lehnus, Incontri con
la filologia del passato , Bari Lehnus, Repertorio di carte
di Paul Maas e di documenti da lui provenienti o a lui indirizzati , QS ora in
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Le poetiche dell’oggetto da Luciano Anceschi ai Novissimi. Linee
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da Omero all’età ellenistica: scritti in onore di G., a cura di Pretagostini,
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leggere i Greci , a cura di E. Raimondi, Il Verri Sisti, Gli scritti
sulla lirica greca arcaica, Giornate di studio su Perrotta, Atti del Convegno
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dell’ermetismo, testi-monianze di Bo – Luzi – Betocchi – Macrí –
Bigongiari – Parronchi – Vallecchi – Pratolini – Ulivi – Caproni, Milano
Tedeschi, Ricordo di G., A e R, Tavola rotonda , QUCC Tomasin,
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di Traverso; note introduttive e note al testo di Grassi, Firenze. Pascoli, L’opera
poetica scelta e annotata da Treves, Firenze Ugolini, Lirici greci,
scelti e commentati da Ugolini – Setti, Firenze.Ugolini
Lirici greci e poeti ellenistici , antologia a cura d’Ugolini, Setti, Firenze
Usener, Altgriechischer Versbau: ein Versuch verglei-chender Metrik, Bonn
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Vorträge und Aufsätze , Leipzig-Berlin Usener, Triade. Un saggio di
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tradurre e altri scritti, Milano-Napoli Veenman, De klassieke traditie in
de Lage Landen, Nijmegen Zapperi, Freud e MUSSOLINI. LA PSICO-ANALISI IN
ITALIA DURANTE IL REGIME FASCISTA, Milano. Grice: “I know Gentili’s type – once in love with
Greek, you cannot be a honest Latinist. So he found that everything Roman had
to be Hellenistic, -- see his notes on the Saturnio – this of course irrirtates
and rightly so Latinists – there are Roman ways which are not Hellenistic ways.
Geymonat has analysed this in social-class terms in his history: Athens
remained the finishing school for the ‘figli’ of the ‘migliore famiglie romane’
– and the circle of Scipione Emiliano was pro-hellenic, but Cato won: Latin
remained the lingo!” Grice: “It also shows the unfairness of academia for the
poor – only the poor learn at Oxford, and I was fortunate enough to have Hardie
– but imagine you are born near Urbino and decide to study classics at Urbino
and you have Bruno Gentili as your teacher in “Latin literature” and all he
teaches you is how Hellenistic it all is! I hope you are not poor and that you
don’t have to LEARN at Urbino!” -- Bruno Gentili. Gentili. Keywords: implicature, il rettore latino –
la chiasura della scuola di rettorica a Roma di Crasso e Plozio – Cicerone – una perdita di tempo che chiude
le teste dei Romani. G.: Apri!, la rettorica a roma: i primi e gl’ultimi
semestri – Plozio – la guerra di Mario per l’apertura della cittadanza
agl’italici --- la chiasura di la scuola di rettorica di Crasso. -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Gentili” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gerratana: all’isola – la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del contratto sociale – scuola
di Scicli – filosofia ragusese -- ffilosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi
Speranza (Scicli). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Scicli, Ragusa,
Sicilia. Grice: “I like Gerratana; for one, he translated Rousseau, and I have
been called a contractualist, if not like Grice [G. R. Grice].” Grice:
“Gerratana carefully edited Pintor’s oeuvre.” – Grice: “I like Gerratana; they
– Italian philosophers, generally -- philosophise on the working people –
operaio --; at Oxford we usually do not!” Partecipa alla resistenza a Roma, nelle file dei GAP,
legandosi a Salinari e Pintor, conosciuto al corso allievi ufficiali di
Salerno, e ricordato in “Sangue d'Europa.” Prende parte alla ricostruzione del
PCI romano e si laurea a Roma. Insegna a Salerno e Siena. Studioso sobrio e
rigoroso del marxismo, cura Labriola e Gramsci. La sua edizione, con
un'accurata ricostruzione cronologica, archiviò definitivamente l'edizione
tematica. G. mette in luce lo stile "frammentario" e
"antidogmatico" di Gramsci. Altre opera: “L'eresia di Rousseau, Roma,
Editori Riuniti), Il marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Labriola di fronte al
socialismo giuridico, Milano, Giuffrè editore); “Gramsci. Problemi di metodo,
Roma, Editori Riuniti); “Quaderni dal carcere. Treccani L'Enciclopedia
italiana". Biografia di G. nel sito dell'ANPI Associazione Nazionale
Partigiani d'Italia. Si è svolto a Roma il 18 e 19 novembre nella Facoltà
di Scienze della Formazione dell'Università Roma Tre, un convegno di studi in
memoria di un importante esponente del pensiero politico italiano, G. Essenzialmente
noto per aver curato l'edizione critica dei Quaderni del carcere di Gramsci, G.
e in realtà uno studioso politicamente appassionato e uomo politico di estrema
cultura. Merito di questo convegno è stato l'aver messo in luce tanto l'impegno
politico e morale di un uomo quanto l'eclettismo, la vivacità intellettuale e
la serietà di un pensatore troppo poco conosciuto in fin dei conti, la
molteplicità variopinta dei suoi contributi scientifici e la continuità e
coerenza del suo impegno, politico ed intellettuale. Il convegno è stato
organizzato dalla Societea Gramsci – di cui Gerratana fu co-fondatore, assieme a Tortorella, Baratta e Liguori. Le giornate, divise per sessioni
tematiche, hanno ricordato la figura di Gerratana nella sua complessità:
partigiano antifascista a Roma negli anni della Resistenza, giornalista,
curatore e studioso di molti classici della storia della letteratura, della FILOSOFIA
e del marxismo (dalla cura dell'edizione critica degli Scritti politici di
Labriola a quella degli scritti estetici di Marx ed Engels, ai contributi su
Rousseau, Machiavelli, Lukács, Lenin), ma noto in tutto il mondo anzitutto come
curatore e studioso del pensiero di Gramsci (dall'edizione critica dei
Quaderni, all'approfondimento dell'indagine sulle categorie sociali e politiche
della riflessione gramsciana e la cura – assieme al suo più stretto
collaboratore, SANTUCCI (si veda) – del volume sugli scritti gramsciani
dell'Ordine nuovo. Non è facile informare esaurientemente sul convegno, credo
proprio per la personalità e la grande vivacità intellettuale di G., emersa
nella sua complessità lungo la due giorni di lavori. L’evento ha messo
alla prova intellettuali e ricercatori, ha dialettizzato l'ascolto reciproco di
relatori e pubblico, fra i quali si è avuto un confronto sereno ma anche
serrato, indubbiamente appassionato. Ne è risultato – e ne va il merito agli
organizzatori – un evento generoso per ricchezza e poliedricità delle tematiche
affrontate, per l'eterogeneità degli accenti che si sono avvicendati (secondo
l'esperienza politico-culturale di relatori e pubblico), quanto infine per la
vastità dei territori culturali esplorati (dalla storia – italiana e
internazionale, alla filosofia, alla politica). Su tutta l'iniziativa s'è
aggirato lo spettro benevolo di Gramsci, della sua vicenda umana come anche di
quel lascito inesauribile che è la sua produzione culturale. E di Gramsci G.
non è stato solo il curatore e il promulgatore, ma anche un indimenticabile
interprete. Gli anni e la formazione giovanile: partigiano antifascista ed
intellettuale engagé Questa introduzione credo consenta di comprendere forse
più chiaramente il contesto e lo spirito in cui il convegno di questi giorni ha
trovato spazio. Anche la presenza e il saluto delle istituzioni che
con la IgsItalia hanno permesso il convegno – contrariamente al solito – sono
stati sentiti ed interni al tema in oggetto dell’incontro. La figura di G. è
stata difatti ricordata con stima sincera e rispetto da Cecilia D'Elia
(Assessora alla cultura della Provincia di Roma) e Domenici (Preside della
Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Roma Tre). Elia ha
sottolineato la rilevanza di questo convegno su G. – figura complessa, in cui
ricerca politica e ricerca della libertà si intrecciano –, studioso che sempre
volle tener connesso l'impegno pratico e l'impegno teorico, combattente
antifascista negli anni della Resistenza, uomo che diede un contributo decisivo
alla costruzione della democrazia in Italia. Sulla stessa linea d'onda Domenici
ha salutato con piacere l'evento in ricordo di G., anzitutto perché questa
facoltà contribuisce a formare i formatori: ed è stato forse fra i più grandi
meriti di G. l'aver decisamente contribuito a divulgare la genesi del pensiero
pedagogico-educativo di Gramsci, a partire dalla cura dell'edizione critica dei
Quaderni di Gramsci. Non pochi interventi hanno messo in luce i meriti di G. riguardo
la divulgazione del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci. In particolare
ricordiamo qui l'intervento di Santarone, Coordinatore del CESME di Roma Tre,
che ha messo in luce il valore generale degli studi di pedagogia della tradizione
marxista che delineano quella fondamentale concezione della formazione umana
come "sviluppo onnilaterale dell'uomo". Un tale impegno risulta
ancora più fondamentale in epoca di globalizzazione capitalista, sottolinea
Santarone, in cui il lavoro dell'uomo e la sua formazione paiono ormai
finalizzati unicamente ai processi di valorizzazione di capitale, i centri di
formazione ed istruzione di massa vengono de-finanziati mentre nel contempo si
sostengono economicamente scuole e poli di eccellenza privati, volti a creare
le future élite e classi dirigenti. L'impegno di G. come intellettuale engagé è
stato sottolineato in molti interventi nel corso del convegno, fra cui quello
di Liguori che – in apertura dei lavori – si è soffermato sulle ragioni della
scelta dell'espressione gramsciana filosofo democratico come carattere
fondamentale dell'animo e dell'impegno di G.. Tale formulazione sta ad indicare
un pensatore che non si chiude nella propria torre d'avorio, ma contribuisce
attivamente alla creazione di un senso comune di massa, un uomo «convinto che
la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto
sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale (Q). É questa
essenzialmente l'immagine che Liguori ci ha voluto restituire di G.: un
pensatore che non si accontentò del «pensiero proprio,
"soggettivamente" libero, cioè astrattamente libero», ma che operò
per l’unità di scienza e vita come «una unità attiva, in cui solo si realizza
la libertà di pensiero», secondo un «rapporto maestro-scolaro,
filosofo-ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari
da impostare e risolvere», un uomo che concepì la propria attività
intellettuale come rapporto di «filosofia-storia» (ibidem), un uomo il cui
impegno politico e la cui elaborazione teorica sono stati la testimonianza
della migliore tradizione del comunismo e del marxismo italiani. Fa seguito
l'intervento di Demurtas, che illustrato i criteri e i temi sulla base dei
quali si è svolto l'intervento di riordino dell'archivio di G. assieme alla
collega Salvatori, di cui è stato letto un contributo, e che ha sottolineato
come grazie al riordino delle carte e dei documenti sia ora possibile svolgere
ricerche e approfondimenti sull’attività di G.. I documenti archiviati, difatti
sono fascicoli, che si è deciso di suddividere in partizioni tematiche fra
studi e attività, e fra queste risultano particolarmente rilevanti le quantità
di fascicoli dedicati a Gramsci e a Labriola e da cui si evince una grande
meticolosità nell'elaborazione. Ha concluso la prima parte di introduzione ai
lavori del convegno la lettura della lettera di saluto del Presidente della
Repubblica Napolitano in cui è stato espresso «il più vivo apprezzamento per la
scelta di ricordare un insigne studioso, cui va il merito di aver contribuito,
con l'edizione critica dei Quaderni del Carcere di Gramsci. È stata poi la
volta del primo relatore, Musci (studioso dell'Istituto Gramsci per gli studi
storici) che ha ricostruito gli anni giovanili di G., in particolare quelli
degli studi universitari e della polemica con Croce, sottolineando una tendenza
di G. a considerare gli eventi storici attenendosi ai fatti, alle formule
logiche e alla loro riproducibilità, ma senza prescindere del tutto dalla
"situazione psicologica" in cui questi si svolgono e che spesso si
maschera in concetti. Ma G. non fu solo un intellettuale impegnato. Fu un
partigiano. Questo hanno ricordato le successive relazioni della mattina
proseguite con i due contributi "di memoria storica" di Reichlin e Prestipino–,
significativi per la nota autobiografica in essi contenuta, che ha permesso una
comprensione più articolata del senso dell'impegno politico di Gerratana negli
anni della lotta di liberazione nazionale dal regime fascista. Medaglia
d'Argento per l'impegno negli anni della lotta di Liberazione dell'Italia dal
regime fascista, la narrazione di quei mesi è stata emozionante nell'intervento
di Reichlin. Che ha ricordato gli anni giovanili della "passione
politica" (tema che è stato ripreso anche da Tortorella in chiusura dei
lavori del convegno) e le vicende in cui, nella Roma occupata dai tedeschi,
Reichlin incontra G. Con Pintor formarono una cellula, e G. divenne loro
dirigente, nome di battaglia "Santo". Sono quelli gli anni in cui
nacque un sentimento nuovo, l'antifascismo, ed una nuova cultura, quella
dell'impegno. Come allora – conclude Reichlin – il popolo italiano, nonostante
appaia fiacco e corrotto, tuttavia continua ad esprimere degli intellettuali, e
questi dovrebbero anch'essi prendere il proprio posto di combattimento. G. fu
dunque un partigiano antifascista con un deciso interesse per la storia e la
filosofia politica. Ma anche un giornalista. La tendenza all'impegno culturale
trovò uno sbocco concreto in questa attività – su cui si è soffermata la
relazione di Prestipino –, quando cominciò a scrivere sulla Voce della Sicilia.
Prestipino racconta di un comunista, un uomo d’innata modestia, che non firma i
suoi saggi, direttore di giornale cordiale ma austero, un intellettuale
pensoso. G.: uomo di cultura, FILOSOFO DEMOCRATICO, marxista Non solo di
politica, ma anche di letteratura e di FILOSOFIA si occupa G.. La sua
natura di intellettuale a trecentosessanta gradi è stata ben messa in luce da
tre relazioni in particolare, quelle di Voza, Savorelli e Burgio. Voza ricorda
come si svolse in Italia un ricco dibattito sul tema della lotta per il
realismo, che nel dopoguerra espresse una tendenza la quale si afferma in molta
parte dell'intellettualità. Nasceno le poetiche neo-realistiche della cronaca e
del documento come ricerca di un massimo d’oggettività di contro all'influenza
di suggestioni lirico-decadentistiche. Nel passaggio dalla crisi del
neorealismo al realismo si colloca il contributo di G., che ritene quest'ultimo
un fondamentale strumento teorico-culturale. In risposta all'intervento
polemico di Croce Sanctis-Gramsci? (Lo Spettatore Italiano), G. stende per
"Società". Sanctis-Croce o Sanctis-Gramsci? Appunti per una polemica
e sviluppa il ragionamento nell'Introduzione all'estetica desanctisiana
desanctisiana (“Società”). Egli ha come riferimento la positiva valutazione di
Gramsci del realismo desanctisiano, fondato sull’analisi del contenuto
artistico in connessione alla lotta culturale. Difatti Gramsci coglie nel
Sanctis un modello di critica letteraria che lo rende emblema della concezione
di un'estetica realista e anticipatore di una concezione marxista
dell'estetica. Alla base della sua concezione vi sarebbe la ricerca di
unitarietà fra La Scienza e la Vita, titolo di un famoso saggio desanctisiano,
più volte citato da Gramsci nei Quaderni, cosicchéSanctis si discosta dalla
concezione speculativa dell'estetica di Hegel. In tal senso la tendenza
estetica di Sanctis, secondo Gramsci, era "istintivamente
materialista", ciò perché la sua attività critica non era «frigidamente
estetica» (Q). Per tali ragioni Sanctis resta, per Gramsci, un modello di come
nella stessa coscienza critica, pur rimanendo distinti, possano confluire
convenientemente giudizio estetico e valutazione di una tendenza
artistico-culturale, cosicché G. condivide l'appello gramsciano del ritorno a Sanctis
(Q), intendendo con ciò la necessità di assumere verso il rapporto arte-vita un
atteggiamento di stretta connessione, così come lo intendeva Sanctis ai suoi
tempi. Nella seconda parte del suo intervento Voza ha ricordato come G. abbia
steso il saggio Lukács e i problemi del realismo (“Società). Si ricordi che con
la pubblicazione di Il marxismo e la critica letteraria di Lukács giungeva
anche in Italia quella poetica dell'estetica marxista che si poneva come
obiettivo la costituzione di una nuova letteratura in una società socialista –
dunque la necessità di definirne la natura e il ruolo che in essa avrebbero
dovuto ricoprire gli intellettuali. G. mette in luce due diverse idee di
realismo: come metodo (di impronta lukácsiana) e come tendenza (di memoria
gramsciana), specificamente come tendenza culturale che esprime un
atteggiamento programmaticamente orientato verso la realtà piuttosto che verso
la sua evasione. La lotta di G. per il realismo, conclude VOZA (si veda), alla
luce del carattere complesso che intendeva conferirgli, alludeva in certo modo
alla "lotta per l'egemonia" così come delineata da Gramsci e alle
nozioni di progresso intellettuale di massa e riforma intellettuale e morale.
Se l'intervento di Voza ha posto in luce la capacità di G. di dar conto anche
di questioni legate alla scienza estetica, l'intervento di Burgio ha affrontato
la lettura critica da parte di G. del pensiero di Rousseau, ripercorrendo le
tappe di sviluppo ed il senso della sua produzione del ginevrino. Burgio ha
illustrato come G. e Rousseau siano stati legati da un lungo rapporto di
fedeltà, particolarmente significativo per il fatto che G. scelse di leggere una parte degli scritti
rousseauiani – quelli politici – e perché non mancò mai d'interrogarsi
sull'attualità di questi testi, pur leggendoli entro una prospettiva storica.
Questa è la ragione per cui si tratta di un Rousseau sempre diverso a seconda
delle diverse fasi della ricerca di G., che possono delinearsi anzitutto
secondo un ordine cronologico. È sua la prefazione di G. al contratto sociale,
in cui egli denota il maggior valore di questo testo rispetto ai discorsi –
reazione sentimentale al compromesso della cultura illuministica con la realtà
sociale iniqua e corrotta del tempo. Il moralismo di Rousseau appare tuttavia a
G. storicamente attuale in forza dei valori sui quali si impernia – un valore
sopra ogni altro, la libertà. D’altra parte, sottolinea G., non la libertà
estenuata dal completo esautoramento da cui sembrerebbe condannata da una lunga
e ormai logora tradizione liberale, bensì una libertà resa concreta dalla
stretta connessione con l'uguaglianza»; piuttosto una libertà la cui essenza
costitutiva è precisata dal riferimento all'idea di eguaglianza e di legge, ciò
che consente a G. di riformulare il tema della libertà in chiave collettiva,
sociale, vincolandolo al criterio della giustizia e della autonomia politica
della società. Negli anni caratterizzati sul piano teorico dalla polemica fra
il PCI e BOBBIO (si veda) – G. prende parte alla discussione sul tema della
transizione dalla democrazia al socialismo (rispetto al quale Rousseau veniva
chiamato in causa da VOLPE (si veda) come ispiratore dello stato democratico e
socialista. Egli interviene con una prosa misurata e sobria: Rousseau è il
tramite teorico-pratico dell'evoluzione della democrazia borghese in senso
socialista; quello di Rousseau è dunque un programma di massimizzazione della
democrazia, non d’anticipazione del socialismo. Il discorso di G. muta
decisamente nella seconda parte degli anni '60, quando stende l'Introduzione
alla traduzione del Discorso sull'ineguaglianza, Riuniti, sullo sfondo della
quale pare di intravedere le lotte sociali che sfoceranno nel moto studentesco
ed operaio. Non si tratta più del tema della transizione, nota Burgio, ma della
trasformazione sociale nel suo complesso e non è più il Contratto al centro
della riflessione di G., ma il secondo discorso. G. stende un saggio con al
centro nuovamente l'interesse per il Contrat (Sul nesso Rousseau-Hobbes, in
“tudi politici in onore di FIRPO (si veda), Angeli: Rousseau è ancora il padre
della democrazia moderna (costituzionalismo) e viene contrapposto a Hobbes,
teorico dell'oppressione assolutista. Burgio indica infine un possibile
mutamento di prospettiva nella lettura di Rousseau da parte di G., facendo
perno sul testo rousseauiano: se gli scritti privilegiano il contrat (classico
del costituzionalismo e del governo della legge, letto – nota BURGIO (si veda)
– in chiave fondamentalmente montesquieuiana), il contributo dtrova il suo
oggetto nel secondo Discorso e qui emerge la consapevolezza di G. del versante
distruttivo del progresso, della civilizzazione e della cieca tendenza degli
uomini a far valere le proprie istanze particolaristiche. Infine
ricordiamo il contributo di Savorelli sul LABRIOLA (si veda) di G., che si è
soffermato sull’intento di G. di sottrarre il pensiero di Labriola dalla
lettura che ne faceva la tradizione crociana e liberale. Negli anni '60 G.
riconsidera LABRIOLA (si veda) alla luce della polemica con lo spontaneismo dei
movimenti e con la contestazione del marxismo ‘storicista’, mentre negli anni
dell'arretramento del movimento operaio, mentre si profilava la crisi del PCI –
G. si preoccupa per le degenerazioni della politica (sistema di aggregazioni
corporative di interessi locali, per l’emergere in Italia della disinvoltura
pragmatica di spregiudicati mestieranti, avventurieri e giocolieri), destinate
a spingere le masse verso il riflusso e l’apatia. SAVORELLI (si veda) sottolinea
come le attualizzazioni cui G. volse il pensiero di Labriola non furono una
forzatura; al contrario il richiamo a Labriola, al critico sferzante della
società italiana e delle sue classi dirigenti, era sinistramente profetico
dell’accelerazione impressa in quel decennio ai fenomeni degenerativi di lungo
periodo. Infine nell’ultimo Labriola G. scorse l’intuizione di problemi
(imperialismo, globalizzazione, regresso della democrazia, «crisi della cultura
popolare», ritorno del misticismo), che sarebbero ancora i nostri (G., Labriola
e la politica, Studi storici). Diniha concluso la serie di testimonianze sulla
vita e l'impegno culturale di Gerratana raccontando della comune esperienza
negli anni dell'insegnamento universitario a Salerno. Dini ha letto una pagina
dedicata da Racinaro a G. nella quale quest’ultimo è descritto come uomo poco
diplomatico, amante di una verità da pronunciare senza mediazioni, uomo poco
tenero anche con i cari, amante della filosofia illuminista, in particolare del
Kant di Cassirer; e la sua stessa vita accademica si caratterizzava per la
puntualità "kantiana", il forte senso del dovere e il rigorismo
morale, quasi draconiano, che fu messo in luce anche durante gli anni
all’Università di Salerno. D’altra parte il rigorismo morale di G., secondo DINI
(si veda), sarebbe stato trasferito in modo eccessivamente rigido contro quella
società che si stava rivoltando in quegli anni di sommovimenti sociali e
popolari, dacché ne risultava un rigorismo spesso astratto. Dini ha inoltre
ricordato che G. riprese l’attività universitaria a Salerno sotto
sollecitazione di Colletti, che ne promosse l’ingresso, ritenendo questo
rapporto G./Colletti un esempio del minimo rigorismo ideologico di G., della
sua concezione aperta del marxismo – evidente anche nella ricostruzione non
sistematica dei Quaderni. Il quadro non sarebbe completo se non si
accennasse a un altro tema (assieme all'indagine su Gramsci) che ha
attraversato l'evento: l'impegno di G. come intellettuale marxista. Questo
aspetto è stato messo in luce essenzialmente da due relazioni, quella di
Frosini e quella di Filippini. Quest'ultimo ha discusso due aspetti peculiari
della cultura filosofica di G., l'esser insieme democratico e marxista, e si è
soffermato soprattutto su due esempi emblematici di ciò, un dialogo fra
Gerratana e Colletti ed un lungo articolo di G. sul saggio di Althusser sugli
Apparati ideologici di Stato. Ma è stato soprattutto Frosini a ricostruire le linee del marxismo
di G., a partire da Ricerche di storia del marxismo. Il testo, che è in realtà
una raccolta di saggi già pubblicati altrove, ha una sua sistematicità. Nella
Prefazione al volume Gerratana sottolinea che il principale denominatore comune
degli otto saggi è il rapporto fra marxismo e movimento operaio, fino ad
affermare che «marxismo e storia del marxismo fanno tutt’uno (Ricerche). La
loro unitarietà sarebbe dunque nell'idea stessa di storia del marxismo. Il
marxismo di G. pare a Frosini ben sintetizzato da un passo della Prefazione:
«Nei confronti della pratica sociale l’analisi scientifica si distingue dalla
raffigurazione ideologica perché non è solo, come questa, funzionale alla
prassi, ma al tempo stesso è funzionale alla comprensione di questa prassi, che
mostra l'imprescindibile reciprocità di prassi e teoria scientifica atta
comprendere la prassi. In conclusione, secondo Frosini il marxismo di G. che
emerge dalle Ricerche è confinato nel piano di una generalizzazione sempre
provvisoria e da riprendere ogni volta in condizioni solo parzialmente
ripetibili; e questa sarebbe l’unica condizione per rispettare l’apertura
costitutiva di una verità che si definisce nella pratica, a contatto con la
politica di massa. G., politico (e) gramsciano La terza
sessione del convegno si è incentrata essenzialmente sul rapporto fra G. e
l'impegno politico per un verso, la cura delle opere e lo studio del pensiero
di Gramsci dall'altro. Presieduta da VACCA (si veda), la mattinata si è aperta
con l'intervento di Albertina Vittoria sull'esperienza di G. alla Fondazione
Gramsci – con cui il filosofo ha collaborato sin dagli anni della sua
fondazione e che abbandonò negli anni '90 –, esperienza complessa e non esente
da dissidi teorico-culturali. Vittoria ha messo in luce di G. l'impegno di
studioso e insieme quello di "organizzatore della cultura", come
anche l'attività di uomo politico di partito. Non si può dunque isolare
l'attività di G. all'Istituto Gramsci dal resto dell'impegno: quello editoriale
come anche quello nella Commissione culturale del PCI. Egli è considerato un
militante anche sul piano culturale e subito dopo la Liberazione, G. collabora
all’Unità, a Rinascita, fa parte del Comitato Stampa e Propaganda del PCI. È,
con Platone e Trombadori, collaboratore di Onofri, allora responsabile della
Commissione Propaganda del PCI; è responsabile dell’edizioni Rinascita e dopo
la fusione fra queste e i Riuniti comincia la sua collaborazione con la fondazione
Gramsci fondata a Roma come studioso di FILOSOFIA. Sono questi anche gli anni
del rapporto con Colletti e Cerroni. Nel '54 l'Istituto Gramsci diviene
“Fondazione”, nell’anno della "svolta" del Congresso del PCUS, degl’eventi
di Ungheria e del manifesto dei 101 – G. resta in accordo con le posizioni di
Alicata e Togliatti. Si organizza il primo convegno di studi gramsciani, evento
che dà il via all'opera di divulgazione del pensiero di Gramsci, alla cui base
era la necessità di riarticolare teoricamente il legame fra movimento operaio e
democrazia. Sono per G. gli anni dell'impegno per l'Edizione critica dei
Quaderni del carcere, impegno che aveva a monte l'intento di offrire un
contributo alla garanzia dell'indagine critico-filologica. G. divenne poi
direttore del centro studi gramsciani dell’istituto Gramsci, avente come
obiettivo la cura degli scritti di Gramsci nel loro insieme el'attività
gramsciana ga soprattutto come fine un riordino in quindici volumi dell’opera
del comunista sardo. Sono i dissapori con la nuova direzione dell'Istituto,
quella di Vacca (la diatriba che si incentrò soprattutto su una diversa
datazione dei Quaderni sul piano metodologico, ma Vittoria rileva anche come il
dissenso fosse in generale culturale e politico). La crisi giunge all'apice: G.
vuole dimettersi, dimissioni successivamente ritirate, sebbene da allora in poi
continui a lamentare il fatto che vi fosse un tacito dissenso sul suo lavoro.
Furono questi gli eventi che infine condussero G. all’abbandono dell'Istituto
Gramsci. É pur vero che G. è essenzialmente ricordato per esser stato
curatore, interprete e divulgatore del pensiero di Gramsci, con l'edizione
critica dei quaderni, ciò che l’ha reso noto in tutto il mondo. Da questo
evento, difatti, si è avviato a livello internazionale un approfondimento dei
testi e della riflessione di GRAMSCI (si veda), con l'edizione dei Prison
Notebooks (cur. da Buttigieg, intervenuto su questo tema) e l'avvio in America degli
studi su Gramsci come scienziato politico, tema su cui è intervenuto Coutinho.
I due contributi hanno mostrato ciò che in apertura di questa relazione si è
tentato di individuare come spirito del convegno: poliedricità degli accenti
pur su tematiche affini, partecipazione rispetto al tema affrontato (giacché il
pensiero di Gramsci è indagato come cosa viva), esigenza di dialettizzare la
riflessione di G. con gli eventi politico-culturali che vedono oggi coinvolti i
paesi di provenienza dei relatori. Cosicché se per Buttigieg l'edizione critica
si è rivelata uno stimolo per dar vita ad una ricerca che appagasse l'esigenza
di riscoprire il pensiero di GRAMSCI (si veda) come cultura aperta e dei
riferimenti validi per il pensiero democraticoprogressista; per Coutinho,
grazie all'edizione, il pensiero di Gramsci si è mostrato come nuova fonte per
indagini di scienza politica alla luce della contemporaneità – dal marxismo
alla "filosofia della prassi", al rapporto di questi con i processi
di trasformazione sociale. In particolare Coutinho – docente di teoria politica
all’Università Federale di Rio de Janeiro –, ha messo in luce come il valore
dell'edizione dei Quaderni stia essenzialmente nella capacità di porre in luce
come Gramsci nel suo operare filosofico adotti, come marxista, il punto di vista
della totalità. Negli scritti di G. che Coutinho prende in esame emerge la
trattazione prevalente, non casuale, di due tematiche gramsciane, rivoluzione
ed egemonia. Le due nozioni sono a tal punto interconnesse che quella di
egemonia consente a Gramsci di «arricchire e sviluppare il concetto marxiano di
rivoluzione. G., Sul concetto di rivoluzione e Grice sul concetto di
rivoluzione minore. A questi due concetti gramsciani principali se ne
dialettizza un terzo (che in certo modo li tiene insieme entrambi), quello di
stato allargato, che – secondo G. – viene adoperato da Gramsci per allargare il
ruolo politico delle masse, per «concepire un processo di estensione delle
democrazie, in connessione con il concetto di egemonia (G., Stato, partito).
Come nel pensiero di Marx e di Lenin, anche in quello di Gramsci vi è un nesso
filosofico-politico che tiene assieme egemonia e Stato da un lato, la
rivoluzione dall'altro. Secondo Gerratana Gramsci modificò la propria
concezione della rivoluzione nel corso dell'evoluzione del suo pensiero: se
negli anni giovanili questa venne intesa come volontarismo soggettivista, già
negli anni dell’ordine nuovo Gramsci avrebbe dato vita a una vera e propria
«teoria organica della rivoluzione. G., Sul concetto di rivoluzione, in
particolare a seguito dell’influenza del pensiero di Lenin. In questo secondo
momento Gramsci avrebbe tenuto conto anche del peso delle condizioni oggettive
in cui opera la volontà. In generale secondo G. sia Gramsci che Lenin
concepirono l'egemonia come superamento della dimensione corporativa in cui
opera la classe; ma quel che Gramsci riconosce a Lenin è anzitutto l’aver
integrato questo concetto (la teoria dello stato-forza) con la dottrina
dell’egemonia. Secondo Coutinho Gramsci dà vita in tal modo ad una generale
teoria dell'egemonia, ed è qui che G. offre il suo più importante contributo:
«per Gramsci le forme storiche dell’egemonia non sono sempre le stesse e
debbono variare a seconda della natura delle forze sociali che esercitano
l’egemonia. Egemonia del proletariato e egemonia borghese non possono avere le
stesse forme né possono utilizzare gli stessi strumenti. Sviluppando l'elemento
del consenso proprio dell'egemonia gramsciana, G. distingue l’egemonia
borghese, che si basa su un consenso passivo o manipolato, e l’egemonia
proletaria, che necessita un consenso attivo. Accenniamo infine ad altre due
relazioni che hanno chiuso il convegno, quella di Tortorella e quella di Meta.
Tortorella si concentra essenzialmente su due aspetti portanti della
personalità dello studioso gramsciano, la passione politica e il rigore morale.
Ha indicato in G. non uno studioso come altri, ma un uomo che la cui vicenda
intellettuale è da porre dentro una storia specifica e collettiva: quella della
Resistenza e della nascita del PCI. È proprio attraverso la storia di queste
vittorie e tragedie collettive che si è sviluppata la trama della vita
personale e intellettuale di G.. Tortorella ha messo in luce la profonda
inquietudine che s'aggirava nell'animo di G., al di là dell'apparente serenità
scientifica ed il suo rigorismo. Se una distinzione per lui esisteva fra
politica (come etica pubblica) e morale (come etica privata), tuttavia il
rapporto fra queste era per lui molto stretto (non a caso si era espresso
sempre in modo contrario rispetto a guerre di aggressione presuntivamente
etiche o a qualsiasi violazione dei diritti umani per ragioni politiche). La
concezione etica cui G. fa riferimento non è quella di Cartesio, tantomeno
quella di Spinoza, ma in diretta connessione con la sua passione politica, dove
la politica era intesa come un'impresa razionale. La passione politica,
difatti, poteva avere due diversi contenuti: volgersi a favore o contro le
dittature, e G. scelge questa seconda strada. In questi anni è nato dunque un
modo nuovo di intendere la libertà come effettualità, anzitutto come libertà
dai rapporti di dominio sul piano materiale. L’intervento di Meta ha infine
affrontato la ridefinizione del concetto di persona nella riflessione di G..
Nel corso della relazione, Meta ha mostrato come G. abbia risposto
positivamente all'interrogativo sull'esistenza o meno di una teoria della
personalità nel pensiero di Gramsci a partire dallo scritto Unità della persona
e dissoluzione del soggetto (Critica Marxista). Indagando gli scritti
gramsciani alla luce dell'elaborazione marxiana delle Tesi su Feuerbach e di
Miseria della filosofia, G. ricorda che GRAMSCI (si veda) – in un quaderno dal
titolo emblematico, Che cosa è l’uomo?– argomenta che l’uomo è essenzialmente
un processo, precisamente «il processo dei suoi atti. D'altra parte l’individuo
entra in rapporti con gli altri uomini organicamente, cioè in quanto entra a
far parte di organismi dai più semplici ai più complessi. Così lo sviluppo e
costituzione della personalità di ciascuno è da intendersi come acquisizione di
coscienza di tali rapporti e insieme modificazione di sé in relazione al
modificarsi di tali rapporti: difatti «ognuno cambia se stesso, si modifica,
nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui è
il centro di annodamento. Ed è proprio G., secondo Meta, uno dei pensatori
che più avrebbe colto questa natura dialogico-relazionale della filosofia
gramsciana, che intesse tutta la trama dei quaderni. Sottolineiamo infine un
ultimo aspetto che ha qualificato questi due giorni di confronto intellettuale:
la ricchezza del dibattito. Il convegno ha messo in luce come sia possibile
recuperare una trasversalità reciproca nel modo di concepire il rapporto fra
relatori e pubblico, fra ricerca e scienza, fra passato e
presente. Quest'ultimo aspetto è stato la cifra indiscutibile del
convegno: non si è trattato di esposizioni accademiche di memoria, ma di un
confronto vivo con l'eredità intellettuale di G., che ha riportato all'ordine
del giorno l'attualità della ricerca e della riflessione sulla scienza
storico-politica del passato al fine di comprendere la politica e la cultura
del nostro tempo, finanche alla luce d'uno sguardo internazionale. Su molte
questioni poste dai relatori il pubblico è difatti intervenuto: dal rapporto
fra G. e Calvino (Durante), G. e Rousseau (Ausilio), G. e Colletti (Liguori),
al rapporto fra il pensiero di Gramsci e Lukács (Caputo), alla dialettica fra
organicità e frammentarietà nei Quaderni del carcere ( Forenza). Lea Durante ha
ricordato come la stretta amicizia fra G. e Calvino risalisse. Nonostante
fossero intellettuali provenienti da una diversa impostazione culturale,
tuttavia avevano l'uno verso l'altro reciproco rispetto ed in comune
l'esperienza partigiana. Durante si è soffermata sul carteggio G./Calvino in
merito al suicidio di Pavese, in cui Calvino rifiutava la lettura di questo
evento come d'un gesto irrazionale, ma riteneva andasse letto piuttosto
all'interno di una storia collettiva, emblematico di una "faglia" di
questa storia: la volontà di risolvere l'attività politica degli intellettuali
entro l'orizzonte collettivo, ciò che è impraticabile. La sottoscritta è
intervenuta cercando di porre in luce come la fedeltà di G. a Rousseau nel
corso di mezzo secolo possa spiegarsi anche relativamente all'unitarietà
dell'opera rousseauiana, a un rapporto complementare fra i discorsi e il
Contrat, da cui emerge un pensatore che per un verso è interno alla modernità
borghese, per l'altro ne comincia a cogliere, prima di altri, i rischi ed i
limiti. Caputo si è dialettizzato con la relazione di Voza confrontandosi sul
merito della concezione lukácsiana del realismo e rilevando da un lato che
l'autore fa ancora parlare di sé e dunque è tutt'altro che un "cane
morto", dall'altro la necessità di riconsiderare la battaglia di G. per il
recupero di SANCTIS (si veda) non tanto in contrapposizione a Hegel quanto in
funzione dell'esigenza di liberarsi della lettura crociana dell'autore. Liguori
è intervenuto sul rapporto fra G. e Colletti, affermando che fra i due
intellettuali – sebbene legati dall’amicizia – non vi era solo una distanza, ma
una radicale contrapposizione teorica. Infine Forenza ha interloquito in
particolare con la relazione di Buttigieg, sottolineando il valore
dell’edizione critica dei quaderni di G. nella sua capacità di porre in luce il
carattere frammentario della riflessione gramsciana dei quaderni, l’attualità
dialogica di un processo conoscitivo inteso come ritmo e sviluppo, la centralità
della tensione nell’organicità dell’opera carceraria e il valore del frammento
come elemento del processo. Ma uno dei contributi che più ha emozionato è stato
quello di Manacorda, intervenuto per ricordare che in quello
"Zibaldone" che pure sono i Quaderni vi è un'unità assoluta, che
ritorna nelle pagine pedagogiche, e ha riguardato l’indagine gramsciana sulla
formazione dell’uomo nuovo, fondata sul principio dell’unità di braccia e
cervello (Q). Questa ricerca coinvolge la questione (che l'umanità si porta
dietro da millenni) di cosa sia la “natura umana”. Da sempre alla base vi è una
sua declinazione come duplice, cosicché quella duplicità dell'attività umana
trova spazio in una duplicità sociale (gli eroi da una parte come
intellettuali, la plebe dall'altro). Quell'unità fra i due elementi che si
ricerca nella filosofia antica viene rotta dal cristianesimo, che ha separato
drasticamente anima e corpo (così come nella struttura sociale ha diviso cleres
e milites), e da allora ci trasciniamo questa duplicità, che pure oggi biologia
e fisica negano esistere del tutto. Storia passata e futura: la lezione di G.
serve ancora In questa due giorni di convegno si sono succeduti ricercatori,
storici, docenti di filosofia, intellettuali di orientamento politico affine ma
niente affatto identico, esponenti di rilievo dell'odierna intellettualità
italiana che sono (o sono stati) spesso insieme politici e uomini di cultura,
che hanno partecipato alla costruzione della storia democratica del nostro
paese; e che si sono interrogati sul contributo culturale di G. come lezione
viva, esempio per la storia politico-culturale dell'Italia futura. Un evento da
e per G., dunque: antifascista, organizzatore di cultura, interprete di
politica e filosofia, pensatore infaticabile ed aperto, sebbene saldo quando
necessario nelle sue convinzioni, pronto alla lotta, all'ascolto come anche
alla rottura. Gli interventi dei relatori hanno riportato alla luce (alcuni
affettuosamente alla memoria) la riflessione di G. come frutto della
contraddittorietà della modernità: di quella terra dissestata e martoriata che
è stata l'Italia negli anni della lotta partigiana, di quella storia che si è
radicata nella consapevolezza dell'inaggirabile dialettica fra libertà ed
eguaglianza sociale. Ecco: discutere e ricordare in questi giorni G. ha
significato parlare insieme della nostra storia passata e delle prospettive
future per questo paese, che ha trovato in una figura come Valentino un
indimenticabile esempio di caratura morale, coerenza politica, onestà e
intellettuale, amore per la vita, per il progresso, per l'eguaglianza sociale,
per la dignità umana e per la libertà – e questa storia, in fondo, non è di
uno. Ma di tutti noi. Valentino Gerratana. Gerratana. Keywords. Rousseu, Grice
on social justice, Gramsci, Labriola, Grice’s ontological Marxism, eresia di
rousseau, labriola a fronte del socialismo, il metodo di gramsci – gappismo –
G. A. P. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gerratana” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Geymonat: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del temperamento romano – filosofia torinese – scuola di Torino
filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo
Italiano. Grice: “I like Geymonat – he calls himself a neo-rationalist, like
Canova – whereas I go for the real thing! Plato!” – Grice: “Geymonat has
explored the origin of infinity in the triangle of Tartaglia.” – Grice:
“Geymonat has explored what he calls ‘the images of man’ – Grice: “Geymonat has
a curious essay on darkness (‘tenebre’) – and a longer essay on ‘reason.’ –
Grice: “Like me, Geymonat has explored the philosophy of probability – from
Latin ‘probare’ – and he was an anti-fascista1” –Figlio di Giovanni Battista,
un geometra liberale di origini valdesi. Frequenta
la scuola privata del Divin Cuore e poi l'Istituto Sociale, un liceo classico
torinese gestito dai gesuiti, dal quale fu espulso l'ultimo anno di corso a
causa di un tema su Giovanna d'Arco non in linea con l'ortodossia e così
conseguì la maturità nel Liceo classico Cavour. Si laurea a Torino con “Il
problema della conoscenza nel positivism” sotto Pastore e sotto Fubini lcon “Sul
teorema di Picard per le funzioni trascendenti intere”. La sua scelta di unire,
nella sua ricerca, filosofia e logica, tenute separate in Italia dall'imperante
cultura idealistica del tempo, quella gentiliana che, con la sua riforma della
scuola, privilegia la cultura umanistica, e quella crociana, con la sua
concezione svalutativa della scienza, creatrice, ad avviso del filosofo
abruzzese, di un “pseudo-concetto”, mostra l'apertura europea delle prospettive
di ricerca intravista allora da G. e la sua estraneità al provincialismo culturale
italiano. Un rifiuto che egli estese anche alla politica del regime allora
dominante. Assistente di Analisi algebrica nell'Torino ma avversario del
fascismo, rifiutò l'iscrizione al partito fascistacio è di prendere la
cosiddetta tessera del pane vedendosi così preclusa la possibilità di una carrier
statale. Si avvicinò altresì a Martinetti, non tanto per comunanza di
prospettive filosofiche quanto per averlo riconosciuto un esempio di impegno
civile e morale, essendo stato tra i pochissimi filosofi a rifiutare il
giuramento di fedeltà al Fascismo. Come Ayer. Anda in Vienna per approfondire
la dottrina del Circolo di Schlick, e
pubblica “La filosofia della natura”
e “Nuovi indirizzi della filosofia.” e iscritto clandestinamente
al Partito comunista, si guadagna da vivere insegnando matematica nella scuola
Leopardi di Torino, dove Pavese insegna italiano. Con il nome di battaglia Luca
fu partigiano in Piemonte nella Brigata Pisacane e, dopo la Liberazione,
assessore comunista al Comune di Torino, quando, vinto il concorso a cattedra,
e nominato professore a Cagliari. Insegna a Pavia e Milano. Fonda il Centro di
studi metodologici a Torino. Ha uno stile di pensiero razionalista ateo. La sua
filosofia può essere inquadrata nel filone del neo-positivismo (ha diversi
contatti con il Circolo di Vienna), da lui ri-elaborato nell'ottica del
marxismo! Nell'evoluzione della sua filosofia, si possono tracciare due fasi.
Nella prima fase, approfondisce temi tipici del positivismo. Nella seconda
fase, si sforza di analizzare la realtà oggettiva ed a questo scopo utilizza
concetti caratteristici del materialismo dialettico. Interpreta la
concezione della matematica di GALILEI (si veda) come un strumento
d'interpretazione della realtà. Approfondisce alcuni temi teorici come quello
della causalità, il fondamento della probabilità, il continuo, l’intuizione,
centrali nell'epistemologia. Politicamente fu vicino inizialmente al Partito
Comunista Italiano, da cui si allontana poi per aderire a Democrazia Proletaria
e successivamente ai movimenti che diedero vita al Partito della Rifondazione
Comunista. Nel corso di questo viaggio politico ha partecipato alla Fondazione,
a Roma, dell'Associazione Culturale Marxista e collabora nella rivista Marxismo
Oggi (Teti). Ha compiuto alcune ricerche sul teorema di Picard e sul
teorema di Carathéodory per le funzioni armoniche. In “Neo-razionalismo”,
spiega che un'indagine efficace della realtà, e svolta solamente tramite lo
strumento della ragione. Per fare
questo, propose di scarnificare la razionalità di ogni verità e da ogni sistema
di riferimento assoluti. Il neoilluminismo, capeggiato da Abbagnano e coinvolgente
numerosi altri filosofi italiani, rappresentò per G. il suo corso del neo-razionalismo,
che avrebbe dovuto accogliere i metodi e i risultati della scienza, perseguendo
un duplice obiettivo: ummanizare la scienza e concretizzare la filosofia – e
l'utilizare un'impostazione storicistica al posto di quella metafisica. Per
storicismo, intese l'analisi storica della struttura di un modello scientifico. Pur
condividendo inizialmente l'anti-idealismo di Popper, sostenne che vi era la più
manifesta e totale incompatibilità tra il marxismo e l'epistemologia
popperiana. Alle sue accuse di essere il filosofo ufficiale
dell'anti-comunismo, reo di difendere i regimi liberali, Popper gli rispose: “I
nostri intellettuali dicono che vivono in un inferno, mentre di fatto questo
mondo non è stato, fin da Babilonia, mai così vicino al paradiso come lo è ora
il mondo occidentale. Per contrasto, in Unione Sovietica, si dice alla gente
che vivono in paradiso, e tanti lo credono e sono moderatamente contenti; è
questo, credo, l'unico aspetto per il quale la società sovietica è migliore
della non-sovietica. Si deve a G. l'introduzione in Italia di Kuhn. Altre
opera: “Il problema della conoscenza nel positivismo” (Torino, Bocca); La nuova
filosofia della natura in Germania, Torino, Bocca, “Per un nuovo razionalismo,
Torino, Chiantore, Neo-razionalismo. Torino, Einaudi, Galilei, Collana Piccola
Biblioteca Scientifica, Torino, Einaudi, La filosofia della scienza, Feltrinelli,
Milano); Filosofia nella storia della civiltà, con Renato Tisato, Garzanti, Milano,
Storia della filosofia, Garzanti, Milano, Il materialismo dialettico, Editori Riuniti,
Roma, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano); “Paradossi e rivoluzioni. scienza
e politica, Giorello e Mondadori, Il Saggiatore, Milano, La probabilita, con Feltrinelli,
Milano, Kuhn e Popper, Dedalo, Bari. Lineamenti di filosofia della scienza,
Mondadori, Milan); “Le ragioni della scienza” (Laterza, Roma-Bari, La libertà,
Rusconi, Milano, La società come milizia, Minazzi, I sentimenti, Rusconi,
Milano, Filosofia, scienza e verità, Rusconi, Milano, La Vienna dei paradossi.
Controversie filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis, Mario Quaranta, Il
poligrafo, Padova, Dialoghi sulla pace e la libertà, Cuen, Napoli, La ragione,
con Minazzi e Sini, Piemme, Casale Monferrato, Attualità del Marxismo. Quaderni
di Città Futura, Ancona); “Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale,
Boringhieri, Torino. Regny, Mangione: breve storia di una lunga amicizia», «AppendiceL'Associazone
Culturale Marxista», in Attualità del Marxismo. Filosofia e dintorni, Intellettuali
non fate ideologia. L'Occidente non è quest'inferno, Antiseri, articolo su Il
Mattino di Padova, lincei. G. Mario Quaranta, G. filosofo della contraddizione,
Sapere, Padova, Mangione, Scienza e filosofia. Saggi in onore di G., Garzanti,
Milano, Pasini, Rolando, Il neo-illuminismo italiano. Cronache di filosofia, Il
Saggiatore, Milano, Minazzi, Scienza e filosofia in Italia negli anni Trenta:
il contributo di Persico, Abbagnano e G. . Bobbio, Ricordo, "Rivista di
Filosofia" Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di
Studi Metodologici" di Torino, Pantograf (Cnr), Genova, Minazzi, “La passione della ragione” Thélema
Edizioni Milano-Mendrisio, Mario Quaranta, Una ragione inquieta, Seam,
Formello, Minazzi, Filosofia, scienza e vita civile inGeymonat, La Città del
Sole, Napoli, Minazzi, Contestare e creare. La lezione epistemologico-civile di
G., La Città del Sole, Napoli, Silvio Paolini Merlo, Nuove prospettive sul
"Centro di Studi Metodologici" di Torino, in Bollettino della Società
Filosofica Italiana», Maiorca,Scritti sardi. Saggi, Cagliari, Minazzi,G., un
Maestro del Novecento. Il filosofo, Edizioni Unicopli, Milano, Pietro Rossi,
Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del
Novecento, il Mulino, Bologna, Minazzi, G. epistemologo, Mimesis Edizioni,
Milano Positivismo logico Circolo di Vienna Scuola di Milano. Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. G., in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Massimo Mugnai,
Scienza e filosofia: G. e Preti, in Il contributo italiano alla storia del
Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.Articoli della stampa
italiana su L. G,, dal Sito Italiano per la Filosofia L'eredità intellettuale di
G. (Preve). La setta di Crotone rappresenta un movimento filosofico di livello
scientifico molto superiore a quello delli precedenti. Per la verità non tutti
lo storici della filosofia italiana sono d'accordosu ciò. Taluni sostengono
infatti che Pitagora (il quale non lascia nulla di scritto) sia stato il
fondatore di una setta analoga all'orfismo, che non di un vero e proprio movimento
di pensiero scientifico-filosofico come il di Austin.
Essi affermano che soltanto mezzo secolo dopo la morte del fondatore la setta
comincia ad interssarsi di filosofia. Oggi però si ritiene dai più che
l'interpretazione ora accennata sia eccessivamente critica, e si preferisce ritornare
all'interpretazione tradizionale, che attribuiva proprio a Pitagora la maggior parte delle concezioni. La ricchezza
del suo sapere ci è del resto attestata d’Eraclito, che polemicamente lo define
polymathés, erudito. Anche noi dunque ci
atterremo alla tradizione, pur riservandoci di trattare la reazione dei
Crotonesi ai Veliani rappresentata da
Filolao. Pitagora si trasfere nella “Magna Grecia”, e precisamente a Crotona in
Calabria, dove e fiorita un’ importante
scuola di filosofi medici medic. A Crotona fonda una setta che ha un notevole peso, essendo legata al
partito aristocratico. La setta e
organizzata sulla base di regole rigorosi che esigeno dagli scolari un
lungo periodo di tirocinio prima di essere ammessi ai segreti. Su questa base
si crea la divisione fra acusmatici od ascoltatori e matematici, partecipi
degl’insegnamenti che in seguito si accusarono a vicenda di non essere i veri
depositari delle dottrine del maestro. L'insegnamento di Pitagora e circondato
da grande rispetto, e si ripone in lui una fiducia illimitata, tanto che a lui
si rifere l’”ipse dixit” (autòs efa).
Una sommossa provocata dal partito della plebe caccia i filosofi da Crotona.
Pitagora fugge a Metaponto e muore.
Sul grande filosofo sorsero
numerose leggende, alcune delle quali
note ad Aristotele. Queste accentuano il carattere religioso della sua figura,
facendone poco meno che un semi-dio, e sono particolarmente care a quella
filosofia misticheggiante, attraverso Numenio e Giamblico. La realtà accertata
dagli storici è che, dopo l'espulsione da Crotona, si organizzarono varie
sette. Esse hanno lunga vita
e danno notevoli sviluppi. Le più
celebri sono la scuola di
Filolao e quella d’Archita, che
fiore a Taranto, dominando anche la città. Di Filolao ci sono pervenuti frammenti, che dopo lunghe discussioni vengono oggi
ritenuti autentici, e che costituiscono
la base per ricostruire la dottrina
di Pitagora. Archita, uomo
di straordinaria va- stità di
interessi, fu legato da amicizia con Platone. Platone ricorda Archita
affettuosamente nella VII Epistola, ed esercita per suo tramite gran influenza
sull'Accademia. Né l'influsso della
setta di Crotona si limita alla filosofia ed alla scienza, ma si risente
fortemente in tutte le manifestazioni della filosofia. All'acustica si possono far risalire molte
delle teorie musicali tramandateci dagli Elementi armonici d’Aristosseno ed al
pitagorismo esplicitamente si
richiama Policleto, amico di
Fidia, che nel
Canon sviluppa una teoria
artistica basata sulla concezione del
del corpo bello come giusta proporzione delle parti. Legato a Crotona e pure Ione
di Chio. Questa dottrina si
impernia su di un pensiero fondamentale.
El numero e il principio di tutto. Tutte le cose che si conoscono hanno numero.
Senza numero nulla e possibile pensare, né conoscere. Dovremo ora cercare,
innanzi tutto, di comprendere il significato filosofico di questo pensiero. Poi
di svilupparne le conseguenze matematiche e fisiche. Alla
fine del capitolo
accenneremo al valore
intrinseco della teoria,
e al significato
della crisi scientifica
formatasi nella scuola
prima ancora della
cacciata di Pitagora da Crotona. Pitagora prende forse le mosse
dalle ricerche ioniche
sul principio e
in particolare dalla
teoria dell'àpeiron d’Anassimandro. Una più acuta
sensibilità ai problemi
etico-religiosi (quali l'opposizione
del bene e del male
nel mondo, la
vicenda della colpa
e del riscatto),
stimolata probabilmente dall'incontro in Italia con i culti
misterici, e d'altro
canto una maggiore
attenzione per le
leggi formali e
modali della realtà,
cui diedero impulso
le sue prime
ricerche acustiche, dovettero
però fargli apparire
inadeguato il principio
unico dei naturalisti
ionici. Per rendere
conto di questi
più complessi problerill,
Pitagora sdoppia il principio in due opposti. Da una parte il principio del
limitato, del finito, dell'unitario, che rappresenta l'ordine, il cosmo,
il bene; dall'altra il
principio dell'il- limitato, dell'infinito, che raffigura il disordine, il caos, il male. La sua grande intuizione consiste nel vedere
nel numerola chiave e la struttura ultima di un assetto
della realtà. Col termine
“numero” i crotonesi intendeno soltanto
il numero intero. Non
fanno particolari indagini sulla
natura di queste unità, limitandosi
a rappresentarle con un
punto, circondato da uno spazio vuoto.
Proprio questa rappresentazione spaziale
facilita il passaggio, caratteristicamente arcaico,
dalla concezione del
numero come chiave
e rapporto alla
sua concezione come
costituente fisico elementare
delle cose. Il
problema essenziale diventa
allora, per i
crotonesi, quello di
cogliere il modo
con cui dalla
collezione di più
unità si generano
tutti gl’esseri. Le
leggi della formazione
dei numeri venne
considerate come leggi
della formazione delle
cose, e. si
ritene di poter
trovare in esse
la vera ragione
esplicativa del mondo
fisico e morale.
La più importante
di tali leggi
e costituita - secondo i
crotonesi dall'opposta
struttura dei numeri
dispari e di
quelli pari. L'antitesi dispari-pari
venne cosi assunta a
principio di una
serie di altre
opposizioni, che spezzano
il mondo in
due: limitato-illimitato (opposizione
che e stata il
problema iniziale, ma puo
ora venir spiegata
sulla base dell 'antitesi precedente);
uno-molti; destra-sinistra;
luce-tenebre; buono-cattivo; immobile-mobile; retto-curvo;
quadrato-rettangolo. Alcune di queste opposizioni hanno palesemente un carattere
fisico (quella per
esempio di luce e
tenebre; da essa
scaturiva la raffigurazione del
cosmo come costituito da un fuoco centrale, immerso
in un'estensione illimitata
di nebbia); altre
invece un preciso
carattere morale. Questa
presenza di significati
multipli finiva con
l'infondere ai numeri
in generale, e
a certuni di essi in
particolare, un vero e proprio valore
magico-simbolico. Così “V” veniva
assunto a rappresentare il matrimonio, essendo
la somma del primo numero dispari,
il III, con il
primo numero pari,
il II (l'I viene considerato
come parìmpari ervendo a generare
sia i numeri
pari che i
dispari; il IV
e il IX
venivano presi come
simboli della giustizia;
il VII dell'opportunità; e
così via. Di
derivazione crotonesi è un trattato
di medicina intitolato Sul numero
sette, Peri hebdomadon, che cerca
appunto nei rapporti
settenari la spiegazione
della struttura dell'organismo e delle
sue affezioni. Qualcuna
di queste concezioni
è pervenuta fino
a noi, onde
si attribuisce per
esempio a VII un
significato speciale etico
e fisico (VII sono
i vizi capitali, sette
le opere di
misericordia, in varie
malattie si ha la
settima, ecc.). La
purificazione religiosa, che
forma almeno in
un primo tempo
il fine principale
dell'insegnamento pitagorico, era
cercata essa pure
attraverso la contemplazione dei
numeri. Questa venne
pertanto a possedere
un doppio aspetto:
filosofico e mistico.
La peculiare nobiltà
dell'ascesi pitagorica consisteva
appunto nel fatto
che a ogni
sua tappa doveva
corrispondere la conquista
di un più
alto gradino del
sapere. Il carattere
mistico delle ricerche
matematiche costituì per
molto tempo un
notevole impulso al
loro sviluppo, e
insieme un impedimento
al loro caratterizzarsi come
ricerche puramente scientifiche.
In particolare, la
concezione ora spiegata
spinse i pitagorici
a studiare la
geometria per via
aritmetica. Ne sorse
una disciplina che,
per il suo
doppio carattere, e
chiamata aritmo-geometria. Essa e fondata
sulla convinzione che da un
lato. fosse possibile
ricavare le principali
caratteristiche delle figure
a partire dal
numero dei punti
(supposto, in ogni
caso, finito) che
le compongono, e dall'altro è possibile- viceversa- ricorrere alla
forma delle figure
per illustrare le
più recondite proprietà
dei numeri. Di qui la
distinzione dei numeri
in vari tipi. Per
esempio: triangolari poligonali
quadrati c~ bici. Al
numero triangolare X venne
attribuita un'importanza speciale,
come somma dei
primi quattro numeri
naturali. I dispari venneno chiamati
gnomoni, per la
possibilità di rappresentarli informa
di gnomone, cioè squadr). Questa rappresentazione permise
di scoprire che
ogni numero dispari
è la differenza
di due quadrati; per
esempio: • • • • • • • • • • • •
• • • • 7 = 42-32 Varie testimonianze tra
cui quella di Proclo ci dicono che
Pitagora e il
primo a comprendere
la validità generale
del teorema che
ancor oggi porta
il suo nome,
e che, per
taluni casi particolari
(per esempio quando i
cateti valgono III e IV, e
l'ipotenusa V), è noto
già prima di
lui. Non sappiamo
però quale ragionamento
servisse a Pitagora
per provare l'importante
teorema. Certamente la dimostrazione
riferita negl’Elementi”
d’Euclide non è
ideata dal filosofo di
Crotone. IV La dottrina
che i numeri
sono il principio
di tutte le
cose trova pure
conferma negli studi
d’acustica. Stando alla
più antica tradizione
dobbiamo infatti ammettere
che Pitagora riuscì
a scoprire i
principali intervalli musicali.
Sarebbe giunto a
questa notevolissima scoperta
dallo studio sperimentale
delle corde sonore,
e dalla constatazione
che nei principali
accordi il rapporto
fra le loro
lunghezze è espresso
da numeri interi
molto semplici. L'acustica venne in tal
modo a costituire una
specie d’aritmetica applicata,
come l'astronomia costituiva
una «geometria applicata».
Il quadro delle
ricerche scientifiche risultò
pertanto suddiviso in
quattro rami fondamentali:
aritmetica, musica, geometria,
astronomia. 1 L'astronomia
pitagorica - - parte
dall'ammissione di un
fuoco centrale immerso
in una sconfinata
nebbia di tenebre.
Intorno a tale
fuoco si pensava
ruotassero dieci corpi
(notiamo l'intervento del
numero X): la
Terra, l'Antiterra (invisibile),
la Luna, il
Sole, i cinque
pianeti allora conosciuti,
e il cielo
delle stelle fisse.
I movimenti ciclici
di questi corpi
produrrebbero - secondo Pitagora una
meravigliosa armonia, che noi
però non riusciamo
a percepire a
causa della sua
continuità. La loro ciclicità
sarebbe la causa
del ritorno periodico
di tutte le
cose. Questa ripartizione
costituisce il lontano
antecedente del celebre quadrivio, che starà
alla base dell'istruzione nelle
scuole del medioevo.
successivi l'astronomia pitagorica
portò a concezioni
di grande interesse
scientifico; degna di
particolare menzione l
'ipotesi eliocentrica, ideata
per la prima
volta da Aristarco
di Samo. Ricordiamo infine
la teoria secondo
cui tutto il
cosmo sarebbe sorto
dal fuoco centrale
e ritornato in
esso per poi
nascere un'altra volta.
Con riferimento ad
essa, i pitagorici chiamano anno
cosmico l'intervallo di
tempo impiegato dal
cosmo per nascere
e ritornare nel
fuoco. La teoria
pitagorica dell'anima, malgrado
la sua ambiguità,
ebbe notevoli riflessi
sui filosofi posteriori.
Da un lato
alcune testimonianze ci
dicono che l'anima
veniva concepita dai
pitagorici come armonia
del corpo, nel
preciso senso in
cui si parla
di ar- monia dei
suoni emessi da uno strumento
musicale. Secondo questa
interpretazione, l'anima doveva
venire necessariamente pensata
come mortale, poiché
spezzato lo strumento
- anche l'armonia viene
a cessare. D'altro
lato sappiamo però
che uno dei
cardini della filosofia
pitagorica era costituito
dalla trasmigrazione delle
anime (metempsicosi), e
questa suppone ovviamente che
l'anima non muoia
con il corpo
che la ospita.
Un frammento del
medico Alcmeone (che
visse a Crotone
e è legato
ai circoli pitagorici)
afferma che l'«
anima è immortale
per la sua somiglianza con le
cose immortali la
luna, il sole,
gli astri. Come risolvere
l'apparente contraddizione? Probabilmente
bisogna ritenere che
i pitagorici ammettessero
due specie di
anime: una costituita
dal temperamento psichi
co, legato indissolubilmente al
corpo e destinato
a morire con
esso; l'altra da un principio immortale
o anima-dèmone. In
ogni vita si
avrebbe una stretta
rispondenza tra le due anime;
questa rispondenza verrebbe
però a cessare
coll'uscita
dell'anima-dèmone dal corpo. Tale
uscita sarebbe da lei desiderata
per raggiungere la
purezza di una
vita interamente spirituale. A
tali dottrine si
ispirava il modo di vita pitagorica,
altamente lodato da
Platone per la
sua unione di
teoresi e di
ascesi; la metempsicosi
in particolare determi- nava
il più famoso
dei divieti rituali
pitagorici, quello di
mangiare la carne
di certi animali,
nei quali potrebbe
essersi incarnata un'anima.
Anche dio veniva
concepito dai pitagorici
come anima; e
precisamente come anima
del mondo che circola
continuamente in esso e perciò
è presente in ogni luogo.
Il rapporto dio-mondo restò
tuttavia molto incerto
nella filosofia pitagorica,
sicché non possiamo
cercare in essa un vero e proprio sistema teologico. Ad
Alcmeone si deve la notevolissima
scoperta che il
centro della vita
organica e mentale
va localizzato nel
cervello. Quanto abbiamo finora
riferito basta per
farci comprendere la
complessità dell'insegnamento
pitagorico. Se in taluni
punti esso può
apparirci ingenuo, in
altri casi contraddittorio, ciò
non deve farci
sottovalutare l'importanza dei
temi ivi abbozzati,
che ricompariranno ampliati
e sviluppati nei
più diversi indirizzi
filosofici e scientifici.
Notiamo, per esempio, che
l'idea di cercare
nei numeri, cioè
nella matematica, la
spiegazione di tutti
i fenomeni, ricomparirà
potenziata nell'epoca moderna
e formerà per
molto tempo la
spina dorsale di tutta
la ricerca scientifica. Vi è chi sostiene,
esagerando forse le
cose, che le
più celebri teorie
della fisica-matematica moderna
(per esempio la
teoria della relatività
generale) non costituirebbero altro
che il proseguimento
del programma pitagorico. Ma, a
parte ciò, noi
troviamo nella matematica
di Pitagora un
carattere speciale che
la differenzia notevolmente
da molte altre
concezioni posteriori, pur
esse accentratesi sulla
ricerca matematica. Il
carattere cui voglio
riferirmi, suol venire indicato
col termine «discontinuità». Si
dice che la
scienza di Pi- tagora
è una matematica
del discontinuo, perché
essa si fonda
esclusivamente sui numeri
interi e su
ciò che può
venire espresso con
i numeri interi
(per esempio sulle
frazioni ordinarie, e
non, invece, sui
numeri irrazionali). Secondo essa,
l'accrescimento di una
grandezza procede per salti
discontinui, essendo impossibile
aggiungere qualcosa che
sia minore dell'unità.
Taluno giunge a
riconoscere nelle teorie
quantistiche moderne una sopravvivenza dell'antica eredità pitagorica
sotto forma dì
concezione discontinua dell'energia. Lasciando da
parte le reminiscenze
pitagoriche presenti nella
fisica moderna, va
detto però ben chiaramente che
l'aritmo-geometria di Pitagora
non ebbe vita
lunga nella scienza
greca. La sua
fine fu provocata,
per l'appunto, dalla
crisi di quell'idea
di discontinuità che
costituiva come s'è
detto uno dei
suoi cardini fondamentali.
La grande crisi
fu causata dalla
scoperta che le figure
geometriche sono co- stituite
non da un
numero finito, ma
da una infinità
di punti. Le teorie moderne, che
tornano ad un'idea
rinnovata di discontinuità, sosterranno
implicitamente che la
geometria classica - proprio
perché parla di una infinità
di punti - non
trova esatta applicazione
nella realtà. Il
primo fatto geometrico che costrinse
i pitagorici a
riconoscere che le
figure sono costituite da
infiniti punti, è
proprio connesso a
quel medesimoteorema che
porta il nome
di Pitagora. Ed
infatti, applicando detto
teorema ad uno
dei due triangoli
isosceli in cui
è diviso un
quadrato, si dimostra facilmente
che il lato
e la diagonale
di tale quadrato
non possono avere
alcun sottomultiplo comune,
cioè sono incommensurabili. Orbene
proviamo a supporre
che un segmento
sia generato dall'accostamento di
una serie finita
di punti (piccoli
ma non nulli,
e tutti eguali
fra loro, come
allora si immagina):
ne se- guirebbe che
uno qualunque di
questi punti risulterebbe
contenuto un numero
intero, e finito,
di volte (per
esempio m volte)
nel lato e
un altro numero
in- tero, e finito, di
volte (per esempio
n volte) nella
diagonale. Lato e
diagonale avreb- bero dunque
un sottomultiplo comune,
e non sarebbero
come si era
dimostrato - incommensurabili. La
loro incommensurabilità esige
pertanto che essi sono costituiti
da una infinità
di punti. La leggenda
racconta che il
fatto scandaloso, ora
riferito, è gelosamente
custodito per vari
anni tra i
segreti più pericolosi
della setta. Esso è
rivelato fuori della
scuola pitagorica d’IPPASO (si veda) di Metaponto, una
delle figure più
notevoli dell'antico pitagorismo.
Pastosi a capo
degli acusmatici per
la moderna irre- quietezza del
suo ingegno che
mal tollerava il
dogmatismo della setta, egli
sarebbe stato vicino
ad Eraclito per
l'idea che il
fuoco è il
principio di tutte
le cose, e
si sarebbe schierato
dalla parte dei
democratici nei moti
che condussero alla
cacciata dei pitagorici
da Crotone. Per avere
rivelato la natura
delle grandezze incommensurabili, Ippaso è cacciato ignominiosamente dalla
scuola, ed a
lui anzi i
pitagorici hanno eretto
una tomba come
ad un morto.
Secondo la tradizione
su di lui è caduta
anche l'ira di
Giove, il quale
lo fa perire
in un naufragio;
la sua triste
morte non impede
tuttavia che lo
scandalo si diffondesse
rapidamente tra i
cultori di matematica
e finisse per
scuotere dalle fondamenta
l'intera concezione pitagorica. Questa crisi verrà resa
ancor più acuta dalla
scoperta delle antinomie
di Zenone sul
movimento e sulla divisibilità. Per uscire
da essa, i
maggiori scienziati greci
non troveranno altra
via se non
quella di scindere
completamente la geometria
dall'aritmetica,
interpretando la prima
come studio del
continuo e la
seconda come studio
del discontinuo. Il
rapporto tra continuo
e discontinuo resterà,
per tutta la
storia del pensiero
umano, un problema
molto difficile e
molto dibattuto; verrà,
anzi, considerato come
uno dei più
astrusi labirinti della
ragione. L'averne intuito
l'esistenza e la
difficoltà va dunque
considerato come un
merito, e molto
notevole, dello spirito
greco. Il primo
passo della ragione
umana si compie,
in ogni ricerca,
col porre a
nudo le difficoltà
ivi esistenti, per
gravi che esse
siano, non col
nasconderle. Solo chi le conosce,
non chi le
ignora, può sentirsi
spinto a cercare
i mezzi indispensabili per
risolverle o, comunque,
dominarle; e questa
ricerca è la
molla più decisiva
del progresso scientifico. Oggi si
riconosce quale autentico fondatore della
scuola eleatica il
grande Parmenide, nato a
VELIA (si veda). Parmenide scrive
un poema allegorico, Sulla natura, Perì
physeos, di cui ci
sono pervenuti alcuni interessantissimi frammenti
che, integrati da
varie testimonianze, ci
permettono di ricostruire
con sufficiente sicurezza
il suo pensiero.
Data la vicinanza
di VELIA (si veda) ai
maggiori centri del
pitagorismo, è indubitato che
Parmenide subì, in
forma più o
meno diretta, l'influenza
di questo indirizzo
di pensiero. Taluni storici,
accentuando questo legame,
giunsero a presentarcelo
come un pitagorico,
distaccatosi dalla scuola di
provenienza per divergenze di
ordine filosofico. Tale
interpretazione ci costringerebbe a vedere
in gran parte
degli argomenti eleatici,
come ad esempio
nelle aporie di
Zenone, un intento
polemico soprattutto antipitagorico. La gravità
di questa conseguenza
lascia tuttavia perplessi
molti autorevoli critici.
Si ritiene oggi
piuttosto che la
critica di Parmenide è
rivolta in generale
contro tutte le
filosofie ioniche ed
italiche del molteplice
e del divenire, di
cui egli rilevava
acutamente la contraddittorietà: nel
tentativo di spiegare razionalmente
la realtà, e
di modellare la
ragione sui dati
dell'esperienza, tali filosofie
dovevano ammettere una
serie di opposizioni
e di alterità
di cui però
si assumeva la
coesi- stenza. Ora - osserva Parmenide - se
di una qualsiasi
cosa si dice o
si pensa
che è, di
ciò che è
diverso od opposto
ad essa si
dovrà dire o
pensare che non
è: e com'è
possibile riconoscere realtà
alcuna a ciò
che non è,
se non si
vogliono violare le
leggi immutabili del
discorso e del
pensiero? La grandezza
della filosofia di
Parmenide, quella grandezza
che costituì un
fecondo punto di
partenza per il
pensiero successivo e
anche un difficile
problema la cui
soluzione era tuttavia
indispensabile per poter
progredire, sta proprio
qui: nell'aver cioè
individuato nella sua
radice filosofica l'ambiguità
della speculazione ionica
edita- lica, e nell'aver posto
in primo piano
il problema della verità
del linguaggio e
del pensiero, il
problema della via,
cioè del metodo,
che linguaggio e pensiero dovevano
percorrere per giungere
alla realtà. Il
metodo vero costruisce
conoscitivamente la realtà,
l'essere, perché elimina
gradualmente dal pensiero
tutti i contrassegni di
irrealtà, di non-essere,
che vi si
erano infiltrati: la
molteplicità nello spazio,
intesa come differenziazione di
parti, la molteplicità nel
tempo, intesa come
differenziazione di momenti,
il vuoto inteso
come assenza di
realtà, la generazione e la distruzione intese come
limiti dell'essere. Partito
dal riconoscimento logico
e metodologico delle esigenze del pensiero e del discorso,
Parmenide giunge al
culmine della via a dichiarare
l'impensabilità,
l'inesprimibilità e l'inesistenza
del non-essere, e
la parimenti assoluta
esistenza dell'essere, che
condiziona la possibilità
di pensare e
di dire il vero.
All'essere non potrà
venir riferito sempre per
l'opposizione or ora
accennata alcun attributo,
che possa in
qualche modo diminuirne
la positività, assimilandolo
al non-essere. Ci
si dovrà limitare
a dire che
esso è uno,
invariabile, immobile, eterno.
Qualche critico moderno
però (come Untersteiner) ha
ritenuto che Parmenide
avesse concepito l'essere
come totalità e non come unità.
L'erronea interpretazione del suo
pensiero sarebbe dovuta
alla falsa testimonianza di Teofrasto
che attribuisce a Parmenide
il sillogismo. Quello che è
oltre l'essere non
esiste; quello che
non esiste è
nulla; dunque l'essere
è uno. L'attributo dell'unità,
con cui polemizzò
Aristotele, risalirebbe solo
a Melisso. Come
possiamo conciliare la
concezione parmenidea dell'essere
col fatto incontrovertibile che
l'esperienza ci presenta ad ogni piè
sospinto degli esseri
molteplici, variabili, temporanei?
Di fronte a
questo stato di
cose risponde Parmenide
non vi è
altro da fare
che respingere la
nostra spontanea fiducia
nell'esperienza,
riconoscendo che essa
costituisce per l'uomo una
via di conoscenza
fallace e illusoria. Al mondo
dell'esperienza è appunto
dedicata la seconda
parte del poema
di Parmenide. Confutate le opinioni dei
mortali, quali si sono
espresse nelle precedenti cosmologie naturalistiche basate
sul divenire, Parmenide
non rinuncia tuttavia
a costruire una
propria spiegazione di
questo mondo, di
cui aveva di- chiarato
la radicale inconsistenza
di fronte all'assoluto
essere. Molto si è
discusso fra gli
studiosi sul significato
da attribuire a questo
sconcertante aspetto del
pensiero parmenideo: fra
le più recenti,
le due posizioni
estreme sono quella
di Raven, secondo cui
l'eleata, impegnato nella
polemica contro l'indebita
confu- sione di razionale
e di empirico tipica
dei suoi predecessori,
avrebbe voluto costrui- re
una cosmologia a
base puramente empirica,
da affiancare alla
dottrina logico- razionale dell'essere
in modo da
isolare ancor più
chiaramente i due
momenti; e quella
dell'Untersteiner, che ritiene
che il mondo
dell'essere e il
mondo del- l'esperienza siano
unificati nel pensiero
di Parmenide dal
medesimo metodo razionale,
in grado di
individuare il fondamento
di realtà presente
anche nel se- condo:
una realtà, tuttavia, che
si differenzia da quella
assoluta in quanto
immersa nel tempo,
e che ne
costituisce perciò soltanto
una immagine. In
ogni caso se
ne può concludere
che per Parmenide
solo la ragione
è un mezzo
di conoscenza veramente
efficace; solo essa,
rompendo la crosta
delle apparenze, può
farci cogliere l'unità
profonda del reale.
L'opposizione tra
razionalismo ed empirismo,
che tanti sviluppi
avrà nella storia
della filosofia, trova
proprio qui la
sua prima radice.
L'essere di Parmenide
è stato interpretato
da taluni in
senso idealistico, da
talaltri in senso
materialistico. Enttrambe queste
interpretazioni svisano, però,
il pensiero del
grande eleata, non tenendo conto che
esso antecede, in
realtà, ogni consapevole
distinzione tra idealismo e
materialismo. L'affermazione di
Parmenide che più si presta
ad una interpretazione materialistica è
quella che ci
presenta l'essere come
sferico (cioè come
una sfera piena). Evidentemente Parmenide pensa alla
sfera, perché la
superficie sferica non
è limitata da
alcun perimetro né
interrotta da alcuno
spigolo. Non si
può tuttavia negare
che la sfericità
ora accennata vada
accolta con la
massima cautela; se
infatti la interpretassimo alla
lettera, cadremmo in
contraddizione con tutto
l'insegnamento di Parmenide,
perché siamo costretti
ad ammettere l'esistenza
di un non-essere
(o vuoto), che
è al di là
dell'essere sferico, e lo
limita. Essa va
intesa invece come identità
e assolutezza dell'essere lungo
tutte le direzioni;
come è stato
recentemente osservato, la sfera
di Parmenide è
più simile allo
spazio curvo einsteiniano
che al solido
euclideo che siamo
portati a raffigurarci.
L'interpretazione
idealistica è d'altra
parte esclusa perché
se il pensiero
scopre l'essere, certamente
non lo crea;
anzi è piuttosto
l'esistenza dell'essere a
rappresentare la possibilità
e la condizione
del pensiero, che
in esso culmina
e con esso
deve identificarsi. Parmenide ha
due grandi discepoli:
Zenone e Melisso. Il contributo
da essi arrecato
all'affinamento del pensiero del
maestro assicura loro
un posto assai
ragguardevole nella storia
della filosofia. Entrambi
si adoperarono a
difenderne le tesi
sia pure svolgendo
in direzioni opposte
la tensione che
vi era implicita:
Zenone cioè approfondendo
la problematica dellogos
nella sua crescente
autonomia, Melisso invece sviluppando
il tema dell'essere
nella sua assolutezza
sostanziale. Zenone di
Elea e un ingegno acuto,
sottile, e vigorosamente polemico. Per
gl’argomenti ideati a
difesa dell'unità (intesa
come omogeneità e
continuità non divisibile
in parti) ed
immobilità dell'essere, e per il
suo metodo di
discussione, Aristotele, che li
discute a lungo
nella Fisica, lo considera il
fondatore della dialettica. L'originalità del suo metodo consiste nell'assumere a
punto di partenza
la tesi da
confutare e nel
dedurne rigorosamente tutte
le logiche conseguenze,
per mostrarne la
contraddittorietà e di
conseguenza l'assurdità della
tesi. Si occupa di
politica e contribue notevolmente
al buon governo
di Elea. Muore
con grande fierezza per
aver cospirato contro
il tiranno della
città (Nearco o
Diomedonte). Sullà sua
fine si tramandano
vari particolari che
ne confermano l'eccezionale
coraggio. I celebri argomenti
di Zenone a difesa
della filosofia di Parmenide di VELIA (si veda) mirano a
provarci che, se la
negazione del movimento
e della molteplicità può a
prima vista apparire
assurda, l'ammissione di
essi conduce tuttavia
ad assurdità ancor
più gravi, nascoste,
ma non risolte,
dal linguaggio ordinario.
Il perno di tali
argomenti consiste nella
dimostrazione che, sia
nella nozione di
movimento, sia in
quella di pluralità,
si annida il
delicato concetto .di
infinito. Immaginiamo che
un mobile debba
spostarsi da un
estremo all'altro di
un I [Ecco,
per esempio, una
versione dei suoi
ultimi istanti. Antistene, nelle
Successioni, racconta che
Zenone, dopo aver
denunziato come cospiratori
gl’amici del tiranno,
è da questi
interrogato se c'è qualche altro
complice. Egli rispose: Tu, la rovina
della città. E poi,
rivolto ai presenti,
esclama: Mi meraviglio
della vostra viltà,
se siete servi
della tirannide per
timore di questo
che ora io
sopporto. Da ultimo,
mozzatasi coi denti
la lingua, gliela
sputa addosso. I
cittadini allora, incitati
da questo esempio
abbatteno il tiranno.] dato segmento:
prima di aver
percorso. tutto il
segmento, dove averne
percorso la metà;
prima di questa,
la metà della
metà, e cosl
via all'infinito. In
modo analogo, se
il piè veloce
Achille vuole raggiungere
la lentissima tartaruga,
che lo precede
di un tratto
s, egli dovrà
percorrere: innanzi tutto
quella distanza s,
poi il tratto
s' percorso dalla
tartaruga mentre Achille
percorre s, poi
il tratto s" percorso dalla
tartaruga mentre Achille
percorre s', e
così via all'infinito.
Nell'un esempio come
nell'altro, il fatto in
apparenza semplicissimo del
movimento, si frantuma
dunque in infiniti
moti, sia pure
sempre più piccoli
ma non mai
nulli. Proprio questa loro
infinità è causa
di profonde difficoltà
concettuali, che non
possono non rendere
perplesso qualsiasi uomo
disposto al ragionamento.
Quanto all'argomentazione di
Zenone contro la molteplicità,
essa si svolgeva
così: supponiamo che
esistano due entità
A e B distinte;
per il fatto
di essere distinte,
queste due entità
devono risultare separate
da uno spazio
intermedio C. Ma C è distinto
tanto da A
quanto da B, e
quindi esisteranno altri
d).le elementi D ed
E che separano
rispettivamente C da A e
da B, ecc.
Poiché ciò può
venir ri- petuto all'infinito,
se ne conclude
che l'ammissione di due
entità distinte conduce
di necessità all'ammissione di
infinite entità. Al
fine di porre
luce sulle difficoltà
logiche di quest'ammissione, Zenone
passa poi a dimostrare
come, partendo da
essa, si debba
giungere a negare l'esi- stenza
di qualsiasi lunghezza
finita. Ed infatti- così
ragiona se gl’elementi che
costituiscono un segmento AB
sono infiniti, o
essi sono nulli,
o non sono
nulli; nel primo
caso la lunghezza del
segmento non può
essere che nulla
(perché la somma
di infiniti zeri
è zero); nel
secondo non può
che essere infinita
(per- ché a suo
parere la somma
di infinite quantità
diverse da zero
sarebbe infinita). È ingiusto
considerare questi ragionamenti
zenoniani (e gli altri che, per
brevità, siamo costretti a tralasciare) quali
semplici sofismi o
pseudo-ragionamenti. In realtà,
essi attirano efficacemente
la nostra attenzione
su talune gravissime
difficoltà dei due
concetti di movimento
e di lunghezza,
dovute all'inevitabile in- troduzione dell'infinito, sia
allorché si scompone
un intervallo di
tempo (o il
moto attuantesi in
qtJ.esto tempo), sia
allorché si scompone
un segmento. Questi
argomenti che venneno
ad aggiungersi alle
difficoltà connesse alla
scoperta delle grandezze
incommensurabili -
suscitarono presso i
greci una tale
diffidenza nei confronti
dell'infinito, da persuaderli
a compiere qualunque
sforzo pur di
escludere tale concetto per
lo meno nella
forma d’infinito attuale
1 - da ogni seria costru-I Si
dice che una grandezza variabile
costi- tuisce un infinito potenziale quando, pur
as- s~mendo sempre valori
finiti, essa può
crescere al di
là ~i ?gni
limite; se per
esempio immaginiamo di
suddividere un dato
segmento con successivi
di- mezzamenti, il risultato
ottenuto sarà un
infinito pot~nziale perché
il numero delle
parti a cui
per- ventamo, pur essendo
in ogni caso
finito, può crescere
ad arbitrio. Si
parla invece di
infinito attuale quando ci
si riferisce ad
un ben determi- nato
insieme, effettivamente costituito
di un nume- ro
illimitato di elementi;
se per esempio
immagi- niamo di avere
scomposto un segmento
in tutti i
suoi punti, ci
troveremo di fronte
a un infinito
attuale perché non
esiste alcun numero
finito che riesca
a misurare la
totalità di questi
punti. zione scientifica. Oggi
noi abbiamo imparato,
con l'analisi infinitesimale e
con la teoria
degli insiemi, a
trattare con disinvoltura
l'infinito matematico (sia l'infinito
potenziale sia quello
attuale); proprio perciò
tuttavia ci rendiamo
conto che le
difficoltà incontrate dai
greci sono effettive,
non artificiose, e
possiamo affermare con
piena consapevolezza che
non sono certo
dovute a volgari
errori di logica,
non sono dei
sofismi nel senso
usuale del termine.
Dal punto di
vista dell'eleatismo, il
metodo scelto da Zenone per
difendere le posizioni
di Parmenide di VELIA (si veda)
pone tuttavia la
premessa di una
loro crisi e
di un loro
superamento. Lo spregiudicato
uso logico-matematico che
egli faceva del
logos non si
muoveva più sulla
via di una
identificazione del logos
stesso all'essere, del
riconoscimento di una
realtà scoperta dal
pensiero ma in
cui il pensiero
doveva confondersi; Zenone
pone piuttosto le
premesse per uno
svincolamento del discorso
logico-matematico dalla realtà,
e lavorava quindi
oggettivamente alla rottura
di quella unità
discorso-pensiero-essere che caratterizzava la
vera via proposta
dal grande maestro
di VELIA (si veda). La
figura di Melisso
è assai diversa
da quella di
Zenone. Nato a
Samo quasi contemporaneamente a
Zenone, egli trascorse
tutta la vita
nella propria isola,
ove ricoprì importanti
cariche politico-militari. Basti
ricordare che fu
capo della flotta
con cui Samo sconfisse gl’ateniesi.
La sua permanenza
a Samo costituì,
in certo modo,
il ponte ideale
attraverso cui l'insegnamento eleatico
pervenne dalla Magna
Grecia nell'Asia Minore.
La lunga lotta
fra Mileto e Samo
può del resto
contribuire a spiegare
l'abbandono melisseo della
tradizione ionica; una
tradizione, tuttavia, che
continuò ad operare
indirettamente nel suo
pensiero condizionando in
senso realistico la
sua riforma dell'eleatismo, in
contrapposizione
all'indirizzo prevalentemente logico
che quest'ultimo aveva
assunto in Zenone.
Più che alla
difesa delle teorie
del maestro, Melisso si
dedica infatti al
loro sviluppo e
alla loro integrazione. Abbandonatane l'iniziale
carica logico-verbale e
metodica, Melisso si
propose una più
coerente deduzione dei
caratteri sostanziali e
antologici dell'essere. Egli è il
primo ad insistere
sul suo carattere
di unità, che
rappresentava più adeguatamente
in senso spaziale
e temporale la
totalità dell'essere parmenideo,
e soprattutto sulla
sua infinità. Melisso
afferma in proposito
che non è
possibile interpretarlo come
sferico (per le
difficoltà accennate alla
fine del paragrafo
n) bensì lo
si deve concepire
come infinito o
illimitato sia nello
spazio sia nel
tempo. Per analoghe ragioni
egli nega che
si puo ammettere,
nell'uno, una qualsiasi
sofferenza o dolore
o altra passione,
perché ciò provocherebbe
in lui una
specie di perturbazione
e quindi ne
diminuirebbe l'unità e
immobilità. Quest'ultimo
argomento sembra mostrare
come Melisso, sulla traccia della
teologia di Senofane
e della tradizione
ionica, dovette interpretare
l unico essere come
dotato di vita:
una vita, probabilmente, identica
al pensiero, secondo
l'equazione parmenidea che
abbiamo già esposto.
Secondo la tradizione,
Melisso avrebbe anche definito
l'essere come incorporeo,
il che contrasta con
la sua infinita
esten- sione spaziale e
con la negazione
eleatica del vuoto:
ciò mette a
nudo in realtà
una profonda contraddizione dell'eleatismo, che
non puo concepire
la realtà come
puramente intelligibile ed
incorporea, ma tuttavia
tentava di attribuirle
tutte le caratteristiche di
pura intelligibilità richieste
da un pensiero
filosofico ormai maturo.
L'incorporeità dell'uno melisseo
significa dunque soltanto
che esso era
invisibile e illimitato
da qualsiasi forma
o corpo tangibile;
e significa al
tempo stesso il
portare al limite
una contraddizione già
implicita in Parmenide
del cui superamento
avrebbe grandemente beneficiato
il pensiero posteriore. L'avere
reso l'essere infinito
nello spazio e nel
tempo impede a
Melisso di accettare la
bipartizione parmenidea tra
realtà atemporale e
mondo sensibile temporale:
a quest'ultimo dove
venir negata qualunque
sia pur secondaria
sussistenza, ed è infatti
alla negazione dell'esistenza e della
concepibilità delle cose
sensibili che Melisso dedica alcune
delle sue argomentazioni più
suggestive. Perché una
cosa qualsiasi, egli
dice, possa essere
conosciuta, pensata ed
esistere, essa dovrebbe
essere sempre identica
a se stessa,
assolutametnte immobile ed
immuta- bile nello spazio
e nel tempo,
giacché una minima
modificazione ne farebbe
una cosa diversa
e così via
all'infinito; dovrebbe dunque
avere le stesse
caratteristiche dell'uno. Proprio
questo argomento, che egli
intendeva come una sfida
contro il pluralismo,
è stato rovesciato
e raccolto dalla
corrente estrema del
pluralismo, quella atomistica:
si può dire
infatti che l'atomismo
attribuì alle sue
in- finite unità fisiche
proprio tutte le
caratteristiche dell'uno melisseo,
ad eccezione dell'immobilità che
non era più
necessaria dato il riconoscimento del
vuoto. Con Zenone e
con Melisso, l'arco
dell'eleatismo di VELIA (si veda) si
conclu e ci è rivelata
dai sensi; ma
il suo scopo
è quello di
rivelarci la verità
di questa molteplicità
dando conto dell'unità
che la informa
e della necessità
che la domina.
D'altra parte, la
conoscenza mitica è
penetrazione intensiva di
questa unità e necessità,
è il porsi
per così dire
dal punto di
vista dello sfero che simbolizza
l'unità da un
punto di vista
sia fisico, sia
religioso, sia morale;
è drammatica consapevolezza, tuttavia,
della necessità del
ci-do e dd
molteplice, nel loro
decadere dall'età aurea
e nel loro fatale
tornarvi. Di qui le purificazioni, di
qui la dottrina
pitagorizzante della metempsicosi
che adegua la
sorte dell'anima al
ciclo cosmico. E
la via alla
purificazione etico-religiosa è ancora
una volta, per GIRGENTI
(si veda), quella di
vivere fino in
fondo la vicenda per il
singolo uomo, il
dramma dell'uno e dei molti,
del tempo e dell'eterno, della
necessità e del caso;
la via della
purificazione è quella che
conduce nel cuore
profondo della natura
che sola giustifica
l'uomo e il
suo destino, che
sola gli. concede
conoscenza e potenza
nel tempo, salvazione
nell'eternità. Sicché la
leggenda della morte
del filosofo sparito
nella voragine dell'Etna
bene esprime, sotto
questo aspetto, la
vocazione del pensiero
empedocleo. Si intende
così anche il senso
dell'ambiguo atteggiamento di GIRGENTI
(si veda) verso le
technai, e del suo
interesse profondo per
quelle che consentissero
un immediato controllo
della natura (la.
medicina, le tecniche
manifatturiere, la fisica;
mentre la matematica
gli doveva sembrare
irrimediabilmente lontana dal
mondo della vita
e quindi sterile).
Non v'è nulla
di più ingiusto
dell'immagine trasmessaci dalla tradizione di
un GIRGENTI (si veda) abile
medico e tecnologo
che ciarlatanescamente am- mantava
di magia i suoi
successi per guadagnarne
in prestigio. In
realtà, l'opposizione fra
technai e magia sarebbe
sembrata assurda ai
suoi occhi. Al
culmine della sua
capacità di penetrazione
e di controllo,
la techne aderisce
così compiutamente all'intima
vita del mondo
da diventarne, dall'interno,
una forza agente:
il miracolo è una
possibilità di fysis
che techne porta alla luce
(non troppo diverse
dovevano essere le vedute
degli alchimisti rinascimentali). Techne si
situa dunque al crocevia
di conoscenza razionale-discorsiva e
conoscenza mitico-intensiva; come
il problema del
rapporto tra uomo
e mondo, tra
conoscenza e realtà
s'è tendenzialmente annullato nell'unità della vita del cosmo, così a techne, allorché
muova dalla consapevolezza della
struttura del reale, basta foggiarsi via via ad immagine e simiglianza
della natura per
poter penetrare sempre
più profonda- mente in
essa, per paterne
acquisire un sempre
maggiore controllo. Disvelandosi
all'osservazione dell'uomo, la
natura gli aveva
donato la conoscenza;
offrendosi ad una
techne che ne
sappia comprendere i
segreti, essa gli
concede l'accesso alla
potenza: sicché alla
fine, nel volgere
del ciclo, l
'uomo diviene profeta,
bardo, medico e
principe, pari agli
dei immortali, come GIRGENTI (si veda) proclama
di se stesso.
Data la natura
della conoscenza e delle
technai, è chiaro come
per il filosofo di 1 [V'è un
oracolo del fato,
antico decreto degli
dei, suggellato da
larghi giuramenti: se
mai alcuno dei
demoni (anime) che
ebbero in sorte
lunga vita, macchi
le sue membra
di sangue colpevole,
o seguendo la discordia empio spergiuri,
vada errando tre
volte diecimila anni
!ungi dai beati,
nascendo nel corso
del tempo sotto
tutte le forme
mortali, permutando i
penosi sentieri della
vita. Uno di essi
sono anch'io, fuggiasco
dagli dei ed
errante, perché fidai
nella folle discordia
Da quale onore
e da quale
ampiezza di felicità,
così bandito mi
aggiro fra i mortali! La
traduzione di questi
frammenti, come di
quasi tutti quelli
empedoclei citati, è di
MONDOLFO (si veda). Ma v'è la
via del ritorno:
Ma alla fine
essi vengono sulla
terra fra gli
uomini come profeti,
bardi, medici e
principi, e poi
assurgono al rango
di dei degni
d'onore. Io vengo nelle
vostre città quale
un dio eterno,
non certo mortale,
coperto d'ogni onore. Agrigento non si ponesse
il problema della
logica e del metodo. Il
metodo che egli
in effetti usa è essenzialmente analogico:
acute inferenze dall'osservazione quotidiana,
sia biologica (il
palpito del cuore,
lo sviluppo dell'uovo, il
meccani- smo della respirazione), ia
fisica 1 (la
riflessione, l'evaporazione, il ciclo
stagionale), sia tecnica
(il travaso dei
liquidi, la manifattura
dei vasi, la
miscelazione dei colori),
gli offrivano lo
spunto per audaci
generalizzazioni cosmiche. Tuttavia
ai suoi occhi
queste estensioni non
avevano nulla di
arbitrario, basate com'erano
sulla certezza di
una fondamentale unità
e significatività di
tutte le manifestazioni della
natura (una certezza,
come abbiamo visto
all'inizio, a sua
volta ricavata dall'esperienza immediata,
sia sensoriale sia
psichica).Allo stesso modo, l'espressione linguistica
di GIRGENTI (si veda) non puo
che tentare di
riprodurre, grazie ad
una poesia potentemente
sintetica e visualizzante, la vita
del mondo nella
sua ricchezza; anche
qui, l'immagine poetica
(la trasvalutazione delle
radici in divinità
o in «membra»
del mondo, l'affiorare
ovunque dello psichico,
del vivente, dell'orga- nico) riposava
sulla profonda verità
che per questa
via si tentava
di rivelare. Tale
dunque la risposta
empedoclea al nodo
di problemi che
si sono esposti
in sede introduttiva:
una delle più
grandiose sintesi mai
elaborate dal pensiero
greco ed anche
una delle più
affascinanti ipotesi scientifiche.
Il rischio che GIRGENTI (si veda) si
assume è d'altro canto
totale quanto il
suo sistema: o
quest'ultimo si rivela
davvero capace di
spiegare l'intero universo,
o sarebbe crollato
tutto quanto, perché
l'agrigentino non offriva
- né, date le
sue premesse, avrebbe
potuto farlo - alcuna
regola di pensiero
e di metodo
esterna al sistema
ed atta a
modificarlo, a criticarlo,
a renderlo più
comprensivo. La potenza
del genio di GIRGENTI (si veda), in
tutta la sua
ambiguità, si esercitò
sul pensiero greco
ed oltre; e
dinanzi a lui,
osserva Bignone, le prospettive del mondo
greco si scompongono
stranamente: è già un
antico rispetto a Tucidide,
che è di
pochi lustri più
giovane di lui; ed
è, dopo
più secoli, quasi
un contemporaneo rispetto a
Platino e Porfirio.
Subito rifiutato dal miglior pensiero
filosofico-scientifico, d’Anassagora ad
Ippocrate, che vede
nel dogmatismo dell'esperienza, nel
vitalismo mistico, nel
rifiuto di ogni strumento
razionale di tipo
logico-metodologico il più
mortale pericolo per
un libero progresso
della ricerca, il sistema di GIRGENTI (si veda) apparve tuttavia
a lungo come
l'unico che potesse
garantire una sicura base
speculativa alle scienze
nascenti, dalla biologia alla
fisica, l'unico che ne assicurasse l'universalità. Così la dottrina
dei quattro elementi,
la concezione organicistica
dell'universo (che presto
significa anche visione finalistica),
il prevalere della qualità
sulla quantità, finirono per
trionfare della scienza ionica e
passarono in gran
parte al platonismo
del Timeo,
all'aristotelismo, alla medicina
I Il sole è
il luogo
dove l'emisfero terrestre,
che agisce come
una lente, riflette
e concentra il
fuoco emesso dall'emisfero
etereo; il mare è il
sudore della terra: sotto l'azione
del calore; la
terra stessa è
stata disseccata dal
calore al pari
di un vaso
d'argilla; e così
via. siciliana di Filistione. Tramite questi
canali, e sia pure
con aggiustamenti progressivi,
tali vedute percorsero
un lunghissimo cammino,
fino ad affacciarsi
al rinascimento e alle soglie
dell'età moderna. Qui tornarono
a scontrarsi con il
meccanicismo di tipo
democriteo, e risultarono
questa volta soccombenti
senza però lasciar
del tutto il passo.
Poco sappiamo della
vita di Filolao:
nato a Crotone
attorno alla metà
del v secolo,
e ivi formatosi in
ambiente pitagorico, egli si
trasferì a Tebe
dove lo troviamo a
capo di una
fiorente scuola pitagorica,
in rapporto con
il gruppo socratico-platonico ad Atene. Questa
presenza di Filolao a
Tebe, congiuntamente all'esilio
peloponnesiaco di Empedocle,
ci rivela un
rifluire della filosofia
italica nella madrepatria
greca, localizzato non a
caso nelle poleis che
combattevano Atene nella
guerra del Peloponneso:
il pensiero ionico-attico
si trovava così
in qualche modo
circondato non meno
di quanto lo
fosse, in senso
politico-militare, la sua
metropoli. I frammenti di
Filolao sono stati
a lungo contestati
per vari motivi
filologici, alla cui
base stava tuttavia
la constatazione che essi
anticipavano un importante
aspetto del platonismo,
e dunque la
preoccupazione che questo
potesse risultarne sminuito
nella sua originalità.
L'autenticità dei frammenti
è stata per
fortuna rivendicata da MONDOLFO
(si veda) e da
Timpanaro- Cardini; ed è chiaro,
secondo una più
corretta visione storiografica, che
il genio di Platone
risulta tutt'altro che
diminuito dalla consapevolezza che
egli sa fondere in
una sintesi critica
gran parte dei
risultati del pensiero
filosofico-scientifico, pur conferendo
ad essi la
propria originalissima impronta.
D'altra parte, già
questa considerazione impone
di dare alla figura
di Filolao il
posto che gli
compete fra i
protagonisti della filosofia preplatonica.
Il problema centrale
di Filolao è
analogo a quello
di Empedocle, ma i
suoi punti di
riferimento speculativi sono
meglio definiti, e il
suo approccio alla
realtà è più
chiaramente delimitato dall'eredità
pitagorica di cui egli
si faceva portatore. Certo, il
pitagorismo originario era
stato travolto, in campo matematico,
dalla crisi degli
irrazionali, in campo fisico-filosofico, dalla
critica parmenidea al
molteplice e dalla sua
incapacità a soddisfare i
nuovi requisiti logico-metodici. Vedremo
all'inizio del capitolo
xn come si
svolge fino ad Archita,
il processo ricostruttivo
delle matematiche pitagoriche,
al quale Filolao
stesso da un importante contributo.
Qui ci interessa
piuttosto il suo sforzo di
ricostruzione del pitagorismo
come sistema globale
del mondo, compiuto
innestando sul tronco
di quella tradizione
la più matura
consapevolezza posteleatica. Si
trattava innanzitutto di
salvare entrambi i termini
della diade costitutiva
di uno e
molteplice, di limite
e illimitato, dove il
primo termine assicurava
la verità e l'intelligibilità del
secondo ma dove
il secondo garantiva
l'estensibilità del primo al
mondo del reale, la
sua presa sull'esperienza, conferendogli
quindi una concretezza
e una funzionalità
sepza le quali
esso sarebbe stato
confinato alla sfera
delle aspirazioni etico-religiose. Ma non
bastava più, dopo
Parmenide, con- trapporre la
serie dell'uno e
del limite alla
serie dei molti
e dell'illimitato; giac- ché
su quest'ultima sarebbe
poi gravata la
dichiarazione di assurdità
e di irrealtà, che avrebbe
vanificato la tensione
insita nella diade.
Il problema di
Filolao era dunque
quello di calare
il principio di
unificazione e di verità
profondamente all'interno della
struttura molteplice dell'esperienza, in
modo da garantirne
con ciò stesso
la realtà; è
di trasformare i
termini della diade
in modalità e
struttura intima di
un unico mondo,
di cui essi
potessero dar conto
nella sua to- talità.
La chiave più
ovvia per la
soluzione del problema
era, agli occhi
di Filolao, quella
offerta dal numero.
Generato dall'uno, e governato
da leggi che
sempre all'uno puo riportarsi
senza contraddizione, il
numero era tuttavia
atto a fungere
da limite al
molteplice perché ne
rifletteva in sé
la struttura; ma
la riflet- teva in
modo tale da
renderla omogenea all'«
uno» e alla sua
legge. Si consideri
ad esempio la
decade (il numero
dieci): secondo l'analisi
di Filolao, essa
comprende in sé
tutti i possibili rapporti
aritmo-geometriciche si originano a partire
dall'unità ed è
perciò stesso atta a
comprendere e ad
organizzare il molteplice. Ma Filolao
non poteva più
arrestarsi alla generica
veduta pitagorica del
nu- mero come natura
delle cose. Occorre
che è davvero
possibile, leggendo il
libro della natura,
scoprirne i caratteri
aritmo-geometrici; da un
punto di vista
complementare, occorre dare
una più precisa
dimensione spaziale al
numero e concretarla
di una sussistenza
corporea. Perciò, partendo
dall'assioma aritmo-geometrico secondo
cui l'unità rappresenta il
punto, il due la linea, il tre
la superficie, il quattro il
solido, Filolao da un
impulso originale e deciso alla
geometria solida, giungendo
a costruire un certo numero di figure
semplici che si possono
agevolmente riportare alle
modalità fondamentali dei numeri. Queste figure si assicurano
una prima realizzazione
grazie alla loro
applicabilità ai movimenti e alla configurazione degl’astri,
e, tramite l'astrologia pitagorica,
allo stesso assetto
del divino. x
Più efficaci di
ogni spiegazione critica
sono le parole
di Filolao sulla
decade. L'essenza e le
opere del numero devono essere giudicate in rapporto alla
potenza insita nella
decade; grande è
infatti la potenza del
numero e tutto opera
e compie, principio e guida della
vita divina e
celeste e di
quella umana, in
quanto partecipa della
potenza della decade;
senza questa, tutto
sarebbe interminato, incerto
ed oscuro. Conoscitiva
è la natura
del numero, e direttrice
e maestra per ognuno,
in ogni cosa
che gli sia
dubbia o sconosciuta.
Perciò nessuna delle
cose sarebbe chiara
ad alcuno, né
per se stessa,
né in rapporto
alle altre, se
non ci fosse
il numero e
la sua essenza. Ora
questo, 74 armonizzando tutte
le cose con la
sensazione nell'interno dell'anima,
le rende conoscibili
e tra loro
commensurabili secondo la natura
dello gnomone, in
quanto compone o
scompone i singoli
termini delle cose,
così delle interminate
come delle terminanti.
Né solo nei
fatti demonici e
divini tu puoi
vedere la natura
del numero e la
sua potenza dominatrice,
ma anche in
tutte, e sempre, le
opere e parole
umane, sia che
riguardino le attività
tecniche in generale,
sia propriamente la
musica (trad. Timpanaro-Cardini).
Da varie
testimonianze risultano le
ingegnose deduzioni di
natura sia aritmetica
e geometrica, sia
fisica, dalle quali
Filolao traeva conferma
al dominio della
decade. A questo punto
tuttavia Filolao avvertiva
l'esigenza di una
semplificazione del mondo
fisico che è assente nella
tradizione pitagorica, e
riconosceva nel sistema
empedocleo il più
potente strumento in
questo senso. È
propriamente nel-
l'assunzione che ne fa Filolao
che le radici
di Empedocle si
trasformarono in elementi,
avulsi ormai dalla
vita del cosmo
ed inseriti su
di una più
fredda struttura numerico-geometrica. Nei
quattro elementi, infatti,
e nello sfero che li
riassume, Filolao vide
il veicolo ideale
per la conquista
del mondo fisico
da parte dei
suoi solidi geometrici. Per via
analogica, il cubo trovò
il suo equivalente
nella terra; il
tetraedro nel fuoco;
l'ottaedro nell'aria; l'icosaedro
nell'acqua; il dodecaedro,
infine, nello sfero. Da
un altro punto
di vista, ciò
equivale a dire
che gli elementi
trovarono il proprio
limite, la propria
forma, la propria
armonia, infine la
propria razionalità nelle
rispettive figure. I
molteplici oggetti dell'esperienza e
le loro mutazioni
si presentavano ormai
come aggregati degli
elementi e dunque come
composizione di forme
geometriche semplici; ma,
imbrigliati dal limite,
armonizzati dalla figura,
il loro variare
nulla più aveva
di misterioso o
di irrazionale, sempre
riconducibile com'era, sia
pure per vie
complesse e non
tutte esplorate, alla
legge del numero.
Filolao giungeva dunque
a modificare così l
'assioma pitagorico che i
numeri sono le
cose. Tutte le cose hanno
un numero; senza
questo, nulla sarebbe
possibile pensare, né
conoscere. Le cose hanno
un numero perché,
come in un
universo cristallografico, hanno
una figura-forma che
le delimita e
che è riconducibile
a rapporti numerici;
1 e perché
sono inserite in
un'armonia cosmica che
ne ritma il
divenire e che
è anch'essa riconducibile
al rapporto (logos)
numerico. Nel frammento
che abbiamo ora
citato Filolao compie
un'altra fondamentale deduzione:
poiché la nostra
conoscenza, se vuol
essere vera, non
può che muoversi
dall'« uno» e seguirne
la legge, poiché il
nostro pensiero non
può che essere
e di fatto,
nella tradizione pitagorica,
è logos mathematikòs,
ecco che il
numero instaura la
sua suprema armonia
fra pensiero e realtà,
fra uomo e
mondo; ecco che
il linguaggio dell'uomo
è identico al
linguaggio di fysis,
e basterà affinarlo nel
medesimo senso per
decifrare fysis tutta
intiera. Così egli
ristrutturava il pitagorismo
in modo da
adeguarlo alle esigenze
posteleatiche e insieme
ne allargava l'orizzonte
fino a includervi
le necessità di spiegazione
naturalistica. Più rigoroso, sebbene meno ricco di quello empedocleo, il suo
sistema si presta a brillanti deduzioni
cosmologiche, ma, posto a confronto con
i problemi del significato e della vita,
è spesso costretto
a sce- I [È interessante
a questo proposito
la figura d’Eurito,
un pitagorico spesso
associato a Filolao.
Eurito famoso fra i suoi
contemporanei perché, assegnato
a qualsiasi oggetto
reale un determinato
numero (non sappiamo
come lo ottene),
egli dimostra in un modo
caratteristico la necessità
naturale del rapporto
fra l'uno e
l'altro: si provvede
di un pari
numero di sassolini,
traccia la figura dell'oggetto
in questione e
incastr11va lungo il suo perimetro
tali 75 sassolini
(il numero atto
a definire la
figura dell'uomo è per
esempio 250). Variando le
dimensioni dell'oggetto, il
numero di sassolini,
che ne esprimeno i rapporti essenziali, non cambia. In
tal modo Eurito
vuole stabilire visivamente
la relazione, tipica
anche del pensiero
di Filolao, tra
numero e forma
limitante gli enti reali: il
numero, tradotto in
forma, è quindi il principio d’individuazione e anche d’intelligibilità della
natura.] gliere la via del superamento
mistico alla maniera del pitagorismo;
oscillazione riconoscibile lungo
tutto l'arco della
riflessione naturalistica di
Filolao. L'uno, ipostatizzato fisicamente nel fuoco, sta al centro del
cosmo; dal suo
rapporto con l 'infinito
circostante, un rapporto
paragona bile al processo
dell’inspirazione ed espirazione, si è generato tutto quanto
il cosmo, che consta di
una sintesi inscindibile
d’uno e molti,
di limitante e illimitato.
Rinnovando la meccanica
celeste della tradizione
pitagorica, spinta a
un tempo dall'esigenza
astronomica di spiegare
l’eclissi e da
quella mistica di
assegnare all'uno-fuoco il posto
centrale dell'universo, Filolao
fece audacemente della
Terra un pianeta
eccentrico e mobile
come gli altri,
anticipando così di
secoli la veduta
d’Aristarco. La medesima
ambiguità si riscontra
nell'ipotesi di un
decimo pianeta, l'Antiterra,
in aggiunta ai
nove conosciuti: si
trattava, da un
lato, di costruire
un modello di meccanica celeste atto a spiegare fenomeni
quali la maggior
frequenza, in uno
stesso luogo, delle
eclissi di luna
rispetto a quelle
di sole; e,
dall'altro, di trovare
un 'ulteriore conferma
al valore universale
della decade. Analogamente ad
Empedocle, Filolao riteneva
poi il sole
percepito dai nostri
sensi un semplice
riflesso focalizzato del fuoco centrale. Filolao è anche attento
cultore di biologia
e di medicina: operando
nel solco della
tradizione alcmeonica, egli
accoglie da un
lato alcune posizioni
del sistema vitalistico
di Empedocle, dall'altro,
grazie proprio a
quella tradizione, appariva
più vicino all'empirismo
esprimentesi nella medicina
cnidia; né puo
riuscirgli agevole la
trasposizione dei punti
di vista aritmo-geometrici al
campo della vita. Proprio
per questa complessità
di approccio, appaiono
nel filosofo di
Crotone germi interessanti
di teoria medica;
essi passano in
Platone e in
alcune opere del
Corpus hippocraticum, e per un
altro verso nella
scuola siciliana di
medicina, ma non
troveranno una diretta
continuazione per il progressivo abbandono, da parte del successivo
pitagorismo, delle ricerche più
propriamente naturalistiche. Un
primo movimento analogico
permette a Filolao di
ravvisare nel ritmo
della vita organica
una stretta affinità
cosmogonica. Principio
costitutivo della vita
è lo sperma,
il calore originario;
principio del corpo
è dunque il calore,
così come il fuoco
lo è del
cosmo. D'altra parte
la respirazione introduce
nel corpo l'elemento
freddo necessario ad
equilibrare tale calore,
proprio come l'inalazione
dell'illimitato circostante da
parte dell'uno origina
l'universo. Gli stessi organi
principali del corpo
sono racchiusi in
uno schema quaternario
analogo a quello
degl’elementi, ed essi
sono visti come
rispettivamente egemonici nelle
varie classi di
viventi. Il cervello,
cui corrisponde il
pensiero, è così
egemonico nell'uomo (qui
è chiara l'eredità
alcmeonica); il cuore,
cui corrisponde il
principio della vita
sensibile, è egemonico
negli animali (prevalendo
qui l'ispirazione empedoclea);
l'ombelico, che presiede
alla crescita dell'embrione
e alla vita vegetati
va, contrassegna la
classe delle piante;
i genitali, infine,
da cui proviene
il seme fecondante, individuano
tutti i viventi
in quanto tali.
In senso più
propriamente medico Filolao costruì
un'eziologia in cui i maggiori
agenti patogeni, di
derivazione cnidia, sono
la bile (vista
come siero delle
carni), il sangue
e il flegma o
catarro che si
origina dalle urine
ed è comunque
il prodotto di una infiammazione. I
fattori scatenanti i processi
morbosi sono poi
ravvisati, alla stregua
della dottrina alcmeonica,
nell'eccesso o nella
scarsità di alimenti,
di esercizio fisico,
dei fattori ambientali
necessari alla vita
dell'uomo. La teoria dell'anima è
in Filolao strettamente
connessa alla concezione
dell'organismo: l'anima rappresenta
infatti da un
lato il respiro
vitale, il principio
di refrigerazione che
tempera il calore
corporeo e dava
luogo alla vita;
dall'altro essa è l'armonia
che scature dalla
tensione degl’opposti elementi
fisici, come dalle corde
di uno strumento
musicale, e li tene
connessi nel miracoloso
equilibrio della vita.
L'anima è dunque la
presenza dell'armonia universale
nel corpo vivente,
e d'altro canto
l'espressione intrinseca dei
diversi fattori che
si componeno armonicamente
a dar luogo
alla vita stessa.
Così strettamente legata
all'equilibrio transeunte
della vita organica,
l'anima individuale non
poteva sopravvivere al
dissolversi nella morte
degli elementi corporei
che essa armonizza;
ancora una volta,
per giustificarne l'immortalità
secondo il dettame
pitagorico, Filolao era
costretto ad un
trascendimento religioso della
propria dottrina. Al
contrario di GIRGENTI (si veda), Filolao viene
così offrendo al
pensiero sia filosofico
sia tecnico-scientifico uno
strumento d'indagine dotato
di una enorme
po- tenzialità: quello cioè
dell'analisi formale e
modale della realtà,
e della sua
traduzione nei termini
della logica aritmo-geometrica. In questo
senso, è fondamentale il suo
apporto allo sviluppo
della matematica, che puo
ormai procedere sulla
via della specializzazione arricchita
della certezza che
qualsiasi sua scoperta
avrebbe comportato oggettivamente
una più vasta e profonda
comprensione della realtà,
avrebbe comunque rivestito
un signi- ficato universale.
E parimenti fondamentale anche se destinato
ad un meno
immediato successo è il suo
contributo alla fisica,
che per la
via della matematizzazione è avviata
ad una intelligibilità, ad
un rigore nuovi; un
rigore persino superiore a
quello della fisica
atomistica, che, come
ha osservato Rey, si
basa sulla meccanica,
una disciplina molto
meno progredita nel pensiero greco
di quanto non lo
è l'aritmo-geometria pitagorica. Se in
epoca moderna matematizzazione e concezione
atomica della fisica
erano destinate a riunirsi, dando luogo al sistema
del mondo proprio della
scienza a partire
dal Seicento, nel
mondo greco pitagorismo
ed atomismo restarono
però a lungo contrapposti. Ciò è
dovuto anche all'ambiguità
che abbiamo visto sottendersi a
tutta la speculazione di Filolao. Il logos mathematikòs
non era soltanto, e non tanto, un metodo del pensiero quanto
la struttura essenziale,
garantita, dell'universo; il
numero non era
tanto uno strumento
euristico dell'uomo quanto
una realtà originaria,
primale, che garantiva la
validità della scienza,
ma soprattutto la
condizionava al riconoscimento di
sé, principio dogmatico
del conoscibile prima
che del conoscere.
Già per la
matematica, questa natura
del numero creava
una situazione di
privilegio necessariamente ambigua:
giacché essa veniva
trasvalutata in una
sorta di teologia
razionale, secondo un
processo che sarà
comune a Platone
vecchio e a
tutto il successivo
pitagorismo, sempre più
alieno dalla ricerca
empirica, sempre più
portato a rifiutare
il contatto così
fecondo tra la matematica stessa e le
discipline tecniche e
naturalistiche. Nel senso
di Filolao, assolutizzazione delle matematiche
voleva dire dunque
anche loro isterilimento
sul piano scientifico-tecnico, e contemporaneamente condanna
ad uno status
non scientifico delle
technai di controllo
della natura, dalla
meccanica alla biologia.
L'accentuarsi della natura
mistica del numero che
all'origine aveva anche significato
l~ preoccupazione di
una saldatura tra
uomo e mondo,
tra conoscenza e
realtà avrebbe scavato un
solco sempre più profondo
tra il pitagorismo e le tendenze
più vive del
pensiero, conducendo da
ultimo alla fusione
tra un pitagorismo
teologizzante ed un
parimenti infiacchito platonismo.
Filolao, con tutta
la sua ricchezza
di interessi metodici e
scientifici, è certamente
lontanissimo da tali
esiti. Ma la
sua impossibilità di
liberarsi da talune
ambiguità di fondo
lo poneva già,
nono- stante tutto, su
questa via. LEONZIO (si veda)
nacque a Lentini. La tradizione ci
raccontà che e discepolo
vuoi dei pitagorici
vuoi di GIRGENTI (si veda). Senza
dubbio riuscì a
conquistarsi la stima
dei suoi concittadini,
tanto è vero
che è da
essi inviato come
ambasciatore ad Atene
per chiedere aiuto contro Siracusa.
Viaggia per tutta
la Grecia, facendo
ovunque sfoggio della
sua sottilissima arte
dialettica che è
basata su una
tecnica analoga a quella
di Zenone. Scrive
varie opere, fra
le quali ci limitiamo
a ricordare l'Elena e il trattatello Intorno
al non ente o intorno
alla natura, Perì tou
me ontos é perì
Jjseos. Nella prima viene
svolta, con molta
abilità, la paradossale
difesa della celebre
eroina, scagionata da
ogni colpa per
l'abbandono della casa
del marito, e
viene intessuto l'elogio
dell'onnipotenza della parola, specie quando
essa è guidata dalla retorica. La
parola è un
gran dominatore, che
con piccolissimo corpo e
invisibilissimo, divinissime cose
sa compiere; riesce
infatti a calmar
la paura, e
a eliminare il dolore,
e a suscitare
la gioia, e
ad aumentare la
pietà. Nell'altra opera LEONZIO (si veda) espone, una triplice tesi:
nulla è; se
anche qualcosa fosse,
non sarebbe conoscibile;
se poi fosse
conoscibile, non sarebbe
esprimibile, poiché il
mezzo con cui
ci esprimiamo, è
la parola; e
la parola non
è l'oggetto, ciò
che è realmente;
non dunque realtà
esistente noi esprimiamo
al nostro vicino,
ma solo parola
che è altro
dall'oggetto. La critica
della filosofia di Parmenide di VELIA (si veda) è qui
evidente. Essa si fonda
sull'equivocità del termine
essere usato ora
nel senso d’esistere
ora invece nel
senso puramente copulativo.
Ma più ancora
di questa critica
è importante la
chiarezza con cui
si pongono i
problemi della conoscibilità
e dell'esprimibilità (cioè
i problemi se
tutto ciò che
esiste possa, per
il solo fatto
di esistere, venire
conosciuto e venire
espresso). Abbiamo parlato, a
proposito sia di
Protagora sia di LEONZIO
(si veda), di critica
all'eleatismo di VELIA (si veda)
Tale critica investì
certamente il tentativo
dell'eleatismo di stringere
in una rigida
unità l'ordine del
pensiero e del linguaggio con
quello della realtà
percepita e vissuta, e vi
contrappose la relativa
autonomia di questi due momenti.
Ciò premesso, la critica moderna tende tuttavia a
non sottovalutarei legami
che connessero i
maggiori sofisti all'eleatismo, e
non solo nel
senso che la
situazione di crisi
creata da quest'ultimo
rappresentò il loro
punto di partenza. Nell'ordine logico,
i sofisti accettarono
infatti i requisiti
di verità imposti
dall'eleatismo di VELIA (si veda),
quali l'identità tautologica
(di cui
la orthoépeia protagorea è una versione
raffinata) e la
pregnanza di significati
esistenziali e copulativi
del verbo essere.
La rivendicata autonomia
dell'esperienza vissuta si
tradurrebbe pertanto in
una sizioni professionali variano da individuo ad individuo, sicché ognuno,
possedendone alcune, è privo delle altre, la capacità di contribuire
a conservare e perfezionare
l'organismo sociale deve
essere considerata presente
in tutti gli
individui normali. rinuncia a controllarla con strumenti logici, e
in un suo abbandono
alla psicologia dell'individuo a sua volta
stratificato nella convenzione
sociale. Questo atteggiamento
si traduce, da
un lato, in
una certa incapacità
della sofistica di comprendere
l'originale rapporto di
logica ed esperienza
che si viene realizzando
nella scienza contemporanea
(di qui la
polemica di Protagora
e di LEONZIO (si veda) contro
la geometria, la fisica e,
indirettamente, contro la
medicina); dall'altro, nella
tendenza a considerare
il momento irrazionale
del profitto e della
forza come primario
nell'ordine sociale, trascurandone
le esigenze etico-storiche. Questo
non toglie nulla
alla fecondità dell'atteggiamento critico
della sofistica, ma
certamente sottolinea la
vastità del compito
di ricostruzione scientifica,
filosofica e storico- sociale che
spetterà al pensiero
greco dopo il
fallimento eleatico di VELIA (si
veda), l'esaurimento della
filosofia della natura
e la critica
sofistica. Non sappiamo
se a CROTONE,
quando vi approdò
Callifonte, l'asclepiade di
Cnido, già esiste
una scuola di
medicina o se la sua
fondazione si deve a
questo scienziato venuto
dall'Oriente. È certo,
tuttavia, che la
scuola conobbe una
rapidissima fioritura. Già il figlio
di Callifonte, Democede,
si guadagna la fama
di miglior chirurgo
del mondo greco,
e, fatto ritorno
alla nativa costa
ionica, impone alla
corte del re
di Persia la
supremazia della nuova
scuola ellenica su
quella tradizionale d
'Egitto. Tocca al crotoniate ALCMEONE (si veda) di portare
la scuola al
suo massimo livello
scientifico. E soprattutto
toccò ad Alcmeqne che
Wellmann define a buon diritto
pater medicinæ grecæ di
rinnovare profondamente il
pensiero scientifico ellenico,
condizionandone lo svolgimento
lungo tutto il
v secolo. A
contatto attraverso la
sua scuola con
le esperienze maturate
dalla historle ionica,
egli entra d'altro
canto in relazione
con le filosofie
i tali che che
sullo scorcio di
quel secolo si
sviluppavano rapidamente: il
pensiero di Senofane
da un lato, il
pitagorismo dall'altro.
Dalla critica senofanea
al sapere umano,
Alcmeone derivò la
consapevolezza, via via affinatasi,
che l'osservazione empirica
non può immediatamente offrire
la chiave della
conoscenza, che la
verità non si
rivela tutt'intera a
chi si limiti
a descrivere la
natura. Con il pitagorismo,
Alcmeone mantenne rapporti
su di una
base di autonomia,
da scuola a
scuola; insofferente del
carattere settario, dogmatico,
della dottrina e
della prassi pitago- rica,
egli rivolse contro
di esse la sua critica
teorica e la
sua azione politica demo- cratica. Fu
tuttavia profondamente interessato
non solo dai progressi che i pitagorici fanno compiere
alle. scienze naturali,
ma soprattutto dal
loro tentativo di
scoprire leggi dell'esperienza che
fungessero da principio
di organizzazione e
di interpretazione dei
fenomeni osservati. Ecco
dunque che sul
tronco dell'empirismo ionico,
cui per altro
restava solidamente ancorato, Alcmeone viene innestando
una problematica e una consapevolezza nuove,
la cui carenza
aveva sempre frenato,
come s'è visto,
i progressi di
quell'empirismo. Proprio con la
dichiarazione di questa
acquisita consapevolezza si
apre l'opera di
Alcmeone. Delle cose invisibili,
delle cose mortali
gli dei hanno
immediata certezza, ma agl’uomini tocca
procedere per indizi
(tekmdiresthai). Bastava un
tale punto di
vista gnoseologico ad
infrangere l'illusione dell'immediata trasparenza
dell'esperienza, ad aprire
la via ad
una osservazione critica
dei fenomeni e ad un
più attivo intervento
dello scienziato nella
loro interpretazione. Alcmeone
si valeva del
principio così scoperto
nel vivo della
propria ricerca scientifica,
e d'altra parte
era la ricerca
stessa, divenuta criticamente
più vigile, a
confermargliene la validità. Nel
campo dei fenomeni
naturali egli non
vedeva più alcun elemento alcuna coppia
di contrari, alcuna
arché che di
per sé valessero
a spiegare la
natura e la
vita. Da biologo,
egli riconosceva piuttosto nell'empirico una indefinita
molteplicità di principi
attivi o qualità, vale
a dire di
stimoli capaci di de-
terminare nell'organismo una
certa reazione fisiologica
(l'amaro, il freddo
e così via);
di conseguenza, non
v'era continuità fra
organismo senziente e il suo
ambiente, ma il
rapporto fra l'uno
e l'altro era
quello di stimolo
e reazione (questo
è il significato
della sensazione per contrari attribuita ad
Alcmeone, in contrasto
con la sensazione per simili che è tipica
di GIRGENTI (si veda)). Parallelamente, Alcmeone
scopriva, grazie alla
pratica coraggiosamente scientifica
della dissezione, che
la funzione del
percepire è nell'uomo
bensì diffusa nei
vari organi di
senso, ma che
essa viene poi
coordinata da un
organo centrale, e
precisamente dal cervello. Con
questa scoperta Alcmeone non
solo compiva un
progresso di fondamentale
importanza per tutta
la biologia greca,
ma trovava altresì
una decisiva conferma
al proprio punto
di vista gnoseologico:
la funzione del
cervello spezzava di
fatto il legame
immediato fra uomo e
mondo, fra conoscenza
e realtà. Ed
Alcmeone rende esplicita
questa con- seguenza dichiarando
che, se la sensibilità è
una proprietà di
tutti gl’organismi viventi, la funzione del comprendere, cioè del
ridurre a sintesi significativa
l'esperienza, e del prender coscienza della sensibilità
stessa è propria
esclusivamente dell'uomo. Il valore
di queste asserzioni
si puo intendere
appieno ove si ricordi che ancora
una generazione più
tardi la dottrina della
centralità del cuore conduce GIRGENTI (si veda) a
conclusioni estremamente antitetiche.
In ogni modo,
profondo è il solco
così apertosi fra
l'uomo e la
realtà che egli
vuol comprendere e
trasformare. Il mondo dell'esperienza riacquistava
la sua concretezza,
e l'esperienza stessa
veniva riconosciuta incapace
di dare spontaneamente conto di sé. Così, lo
scienziato riconquista un'autonomia
e una possibilità di
comprensione e di controllo sul
mondo, scoprendo un punto di vista ad esso eterogeneo. Ma Alcmeone si avvide di
una conseguenza decisiva
di questa situazione:
la realtà si
faceva a un
tratto opaca agli
occhi dello scienziato;
la sapienza, intesa
come perfetta trasparenza
di tutto il mondo
all'uomo, restava ormai solo una
proprietà del divino. In termini
di metodo scientifico,
la sapienza doveva
allora venir sostituita
dall'indagine, la
rivelazione dalla congettura,
l'osservazione e le analogie
che essa sembrava
offrire dovevano essere
integrate dal metodo
dell'indizio e della prova. Quando
Alcmeone poneva il
tekmdiresthai, il proceder
appunto per indizi,
congetture e prove, come
metodo tipico della
conoscenza umana, egli
conferiva una consapevolezza teorica
alla prassi della
medicina, che dove
interpretare l'esperienza per
ritrovare in essa un
significato, un valore
di sintomo, e
risalire così all'unità
della malattia e
delle sue cause:
una consapevolezza che,
come s'è visto,
fa sempre difetto
ai cnidi. Sulla
base di queste
prospettive teoriche, Alcmeone poté
anche offrire alla
medicina una dottrina
fisio-patologica e un'eziologia
unitaria cui i
cnidi non avevano potuto
pervenire. Le infinite qualità (4Jnàmeis) agenti
nell'organismo, formano nel
loro stato normale
un composto (krasis)
omogeneo ed armonico (isonomia). La malattia
nasce dalla rottura
di tale equilibrio
e dal prevalere
patologico (monarchia) di
uno solo di
questi principi, oltre
che per l'azione
di una molteplicità
di fattori ambientali.
È importante notare,
per l'influenza che
questa veduta ebbe
su Ippocrate, che
Alcmeone lascia indefinito il numero delle
4Jndmeis, senza irrigidirle né
nello schema quaternario
degli elementi proprio
della scuola empedoclea, né in
quello degl’umori sviluppatosi
nella tarda scuola
di Cos. Queste determinazioni negative,
le uniche che
ci restano delle
4Jndmeis alcmeoniche, sono tuttavia
importanti, perché gettano
il seme di
una embrionale chimica
fisiologica, consapevole della
molteplicità degli elementi
e dei composti (come
ribadirà anche Anassagora)
e attenta soprattutto
alla loro sempre
variabile funzionalità nelle sintesi
organiche. D'altra parte,
rompendo anche qui
con tutta la
tradizione della bsiologia, Alcmeone
afferma l'irreversibilità dei
processi biologici e
dunque l'impossibilità del
ciclo. Gl’uomini per ciò
periscono, che non
possono congiungere il
principio con la
fine. Troppo innovatrici erano
tuttavia le sue
intuizioni, perché Alcmeone
ne potesse trarre
tutte le conseguenze.
La via del
metodo scientifico era
stata indicata, ma
un lungo cammino
doveva essere ancora
percorso perché quel
metodo potesse essere
sviluppato e consolidato.
Il problema del
rapporto fra pensiero
e realtà, fra
teoria ed esperienza
era stato posto
senza che le
strutture di quel rapporto potessero
essere compiutamente analizzate e
rese esplicite. Questa
mancanza di una
chiara elaborazione teorica
spiega come l'eredità
alcmeonica si sia
suddivisa in due
filoni diversi e
contrastanti. Da un
lato, infatti, essa
fu riassorbita dalla
fysiologia italica e
siciliana, che utilizzò
alcune delle sue
conquiste scientifiche contestandone
altre e soprattutto
annullandone via via la carica
innovatrice dal punto di vista
del metodo. Attraverso GIRGENTI (si veda), questo
filone dell'eredità alcmeonica
passa alla scuola italica
di medicina. L'altro filone
ci interessa qui
più da vicino:
tramite l'autonoma ricerca
medico-biologica, esso rifluì nell'ambiente scientifico
ionico-attico, e dunque nel suo crogiuolo ateniese,
destandovi immediatamente
l'interesse delle più
vive correnti di
pensiero. Ad Anassagora
la lezione alcmeonica
apportava la veduta
dell'alterità del conoscere
rispetto al conosciuto,
dell'inesauribile concretezza del
mondo empirico, del
tekmdiresthai come metodo
della conoscenza; agli
scienziati che si raccoglievano
intorno al filosofo, ai medici
come lppocrate, Alcmeone insegnava
l'importanza metodica del
sintomo, la centralità del
cervello, le basi
fisiologiche della patologia;
agli uomini di
cultura, agli storici
come Tucidide, egli
trasmette analoghi spunti metodici,
e ancora il suo
rifiuto della ciclicità,
la sua concezione
così suggestivamente trasferibile
alle vicende umane dell'armonia come
salute, della monarchia
come sua rottura
patologica Seguendo questo
secondo filone dell'eredità
alcmeonica, occorre quindi tornare
nell'Atene, dove si
venivano intrecciando i nodi di
tutto il pensiero scientifico greco e grazie a ciò si poneno
le premesse per
le sue conquiste
più alte. Nel seguire il
filone alcmeonico che si svolge
attraverso Anassagora e culmina in
Ippocrate, accennammo anche
al permanere di
una scuola medica in Magna Grecia e in Sicilia, nella
quale l'eredità di
Alcmeone dove però
esser ben presto
sopraffatta dal prepotente
influsso della fysiologia
di GIRGENTI (si veda). Quest'ultima è in
effetti tale da
condizionare sia nelle
premesse sia nei
metodi la ricerca
medico-biologica,
promuovendone a un
tempo lo sviluppo e
indirizzandolo verso esiti
estremamente insidiosi. La concezione
del inondo come
un organismo vivente pare
infatti assicurare la
fondazione più universale e
più valida alle
scienze biologiche; e la
riduzione del mondo
stesso a quattro
elementi primari, o archai,
sembra a sua volta
offrire uno strumento
decisivo per la comprensione
della struttura del
corpo e delle sue
affezioni. La metodica da
porre in opera è pure esemplificata
da GIRGENTI (si veda): si tratta
di battere la via dell'analogia
tra microcosmo e macrocosmo,
di riportare cioè
costantemente i fenomeni
organici alla struttura
di fondo del
corpo e la
struttura del corpo
a quella dell'universo, ritrovando
in quest'ultima una
garanzia di ve- rità
e una premessa
per ulteriori spiegazioni.
Entro tale orizzonte
la scuola italica
si sviluppa, FILISTIONE (si veda)
di Locri
la conduce al
suo definitivo assetto
dottrinale e metodico.
Importante in senso
dottrinale l'elaborazione
della teoria del
pneuma o respiro,
principio vitale che
animava la struttura
elementare sia del
corpo sia del cosmo, e che vale a
spiegare molti fenomeni
patologici quando la
sua circolazione organica
risulta anomala. Ma soprattutto
importante, dal punto di
vista metodico, è la traduzione in
senso biologico degl’elementi
empedoclei, che certamente
Filistione derivava dalla
scuola ma cui
egli conferì una
forma destinata a dominare per
lunghi secoli il
pensiero naturalistico. Non immemore
della lettera almeno
dell'insegnamento alcmeonico, e
impegnato più direttamente
di GIRGENTI (si veda) GERGENTI
nell'osservazione dei fenomeni
organici, Filistione
trasformò gli elementi
in qualità o
principi organici attivi
(c!Jndmeis): così la terra
viene espressa dalla
djnamis secco, l'acqua dall'umido,
il fuoco dal caldo, l'aria
dal freddo: queste c!Jndmeis erano
secondo Filistione la
forma specifica con
la quale la
struttura elementare dell'universo
si manifesta nell'organismo umano;
grazie tuttavia alloro
legame univoco con
gli elementi, esse
non potevano diventare,
come in Anassagora
ed in Ippocrate,
stati relativi e
mutevoli degli oggetti
empirici, bensì restavano
principi stabili e necessari
dell'empirico stesso. Il
processo analogico con
il quale Filistione
giunge alle quattro
qualità era strettamente
affine alla deduzione
empedoclea degli elementi,
e non occorrerà
tornare a descri- verlo; e la
sua critica più
pertinente, dal punto
di vista del
metodo della medicina empirica, è
del resto anticipata
dallo stesso Ippocrate
in Antica medicina.
L'importanza storica della
rielaborazione di Filistione
e la ragione del suo
duraturo successo stanno
da un lato
nell'aver offerto alla
biolo- gia uno strumento
di spiegazione e
di semplificazione dei
fenomeni pur sempre
dogmatico ma tuttavia
assai più riconoscibile
nella concretezza dei
processi or- ganici di
quanto lo fossero
gli elementi empedoclei
(ad esempio il
«calore vitale» e
il suo eccesso
patologico rappresentato dalle
febbri si spiegano
meglio con le
vicende della qualità caldo
che con la
materia fuoco; d'altro lato,
togliendo dalla fysiologia
empedoclea quanto vi
era di materialistico e
in fondo di
meccanicistico, Filistione ne
troncava i pur
possibili legami con
l'atomismo e la rende assai
meglio accetta al
prevalente indirizzo qualitativo
del pensiero platonico
e soprattutto aristotelico. Un'altra importante
evoluzione egli fa poi
subire all'organicismo del
filosofo di Agrigento.
Mentre quest'ultimo non
aveva mai compiuto
esplicita- mente il passo
che portava dalla
concezione vitalistica del
mondo al riconoscimento di
un finalismo in
esso operante, Filistione
trovava, ad esito
delle sue ricerche
anatomiche sull'organismo, proprio
questo grande principio
esplicativo: che la
natura, e soprattutto
la natura vivente,
è organizzata in
funzione di un
sistema di fini,
che questa organizzazione si
ritrova allivello di tutti
gl’organi, e che dunque
l'indagine biologica non
deve vertere tanto
sul che cosa e sul come, quanto sul
perché finale dell'assetto
dei fenomeni studiati. Nel
trattato sul cuore, Perì
kardies, dove tra l'altro,
nonostante la sua
grande dottrina anatomica, egli
rifiuta Alcmeone per
Empedocle e pone
l'intelligenza nel cuore
stesso Filistione concepisce quest'organo
come la costruzione
mirabile di un
buon artefice, che
tutto ha predisposto
affinché la vita potesse aver
luogo nel migliore
dei modi. L'incontro di
queste dottrine con il platonismo,
concretatosi in quello
fra Filistione e
Platone avvenuto in
Sicilia all'inizio del periodo di
elaborazione del Timeo, dove avere
conseguenze incalcolabili per
la scienza della
natura greca. Attraverso Platone,
passarono infatti ad
Aristotele, che le
adottò ancor più
risolutamente del maestro,
e grazie a
lui conquistarono una
egemonia per lungo
tempo quasi incontrastata. Ma
prima che tutto questo avesse
luogo, le posizioni
della scuola italica
fa- cevano sentire la
loro pressione sulla
stessa scuola di Cos
postippocratica, e occorre
ora seguire gli
estremi tentativi di
quest'ultima di salvare
la techne, l'antica medicina,
da così agguerriti
avversari. Già si parlò
dell'opera di Filolao, Qui
vogliamo ancora accennare
ai progressi compiuti,
nell'ambito della matematica,
dal filosofo e
scienziato Archita, vissuto a TARANTO
(si veda), figura di statista
pitagorico. Egli rende per
lungo tempo la
sua città incrementandone la
prosperità e la
potenza militare, facendone
la prima della
Magna Grecia. Si ritiene
che Archita applica
la propria dottrina
matematica alla meccanica
militare, e, poiché
sappiamo pure che fa uso
di strumenti meccanici
per risolvere problemi
geometrici, si può
dire che per
primo (e sfortunatamente con
pochi imitatori per
molto tempo) egli intuì la fecondità teorica
e pratica di
una relazione fra
matematica e meccanica.
Profonda è l'impressione che la personalità d’Archita
suscita in Platone
in occasione del
suo soggiorno a
Taranto. In campo
matematico, Archita riprende
il problema di
Delo secondo le linee
tracciate da Ippocrate
di Chio, e lo porta a soluzione
mediante la rappresentazione strumentale
di figure geometriche
in movimento. La
soluzione d’Archita è
troppo complessa per
essere qui riportata:
da essa risulta
comunque che egli era
familiare con i
processi mediante cui si
generano cilindri, coni
e altri solidi
di rivoluzione, e che è
il primo ad
usare consapevolmente il concetto
di luogo geometrico.
In questo modo,
Archita offriva il
primo esempio di
applicazione della geometria
dello spazio alla
soluzione dei problemi
di geometria piana,
e insieme dava
inizio alle ricerche che
concluderanno alla teoria
delle coniche. Ma
quello che va
messo in maggiore
rilievo, è lo
spregiudicato coraggio con
il quale Archita
faceva ricorso - nonostante
la polemica platonica a
tutti i metodi e
gli strumenti che
permettessero di far
progredire la ricerca.
Parimenti ardite le sue impostazioni
in aritmetica e in acustica:
quanto alla prima,
egli contribuì a
sviluppare il concetto
che il numero è essenzialmente un rapporto, perciò indipendente dalle condizioni di commensurabilità e
razionalità, e poté quindi
tornare a rivendicare la
supremazia dell'aritmetica fra
le scienze matematiche;
quanto alla seconda,
egli scoprì che
il suono è
dovuto al movimento
e all'urto dei
corpi, e che
l'aria è un
corpo atto a
ricevere la vibrazione
e a propagarla La
tradizione, che fa di Archita uno
dei maestri di
Eudosso, anche se dubbia,
vale certamente a
simboleggiare la funzione
del tarantino nel
passaggio dalla matematica
alla grande fioritura
che ha luogo. I filosofi romani, prevalentemente
agricoltori e guerrieri, non si occupsno affatto né di
problemi speculative. Il loro
interesse si concentra tutto sul problema giuridico, per l'evidente
importanza del diritto nella costruzione di uno stato efficiente. La conquista
romana della Macedonia li porta a contatto immediato colla filosofia. Questo t tutt'altro che
armónico. La penetrazione in Roma della filosofia infatti costituie un pericolo
per lo stato romano, minacciando di
alterarne quei caratteri che costituie
la base stessa del suo successo come civilizazione.. Gl’elementi conservatori,
come CATONE (si veda), se ne avvidero immediatamente e cercano di opporre una
seria resistenza. Un senatoconsulto ordina che i filosofi emmigrati a Roma come
esuli della Macedonia, fossero cacciati
da Roma. Atene invia a Roma una missione diplomatica, formata da tre filosofi
(Critolao, rappresentando il LIZIO,
Diogene di Babilonia,
il Portico, e Carneade, l’Accademia). Essi approfittarono
di questo soggiorno per esporre nel Campidoglio le proprie dottrine sullo
giusto. Ottennero un enorme successo, soprattutto Carneade, la cui oratoria,
ricca di sottili argomentazioni dialettiche, riusce a conquistare la parte più intelligente dell’elite romana. Famoso è rimasto il discorso di Carneade sul
contrasto fra il giusto e il vero, dimostrato proprio con l'esempio di Roma,
che fonda la propria potenza sul territorio strappato con la violenza ad altri.
Questa non e l'ultima ragione per cui I filosofi ateniesi, conclusa la loro
missione, furono ordinati a lasciare Roma. È noto che questi due ostacoli non
riuscirono a fermare il processo iniziato. Nel corso di pochi decenni, la
situazione muta radicalmente. I membri delle migliori famiglie romane accorrono
sempre più numerosi a studiare filosofia dagli schiavi che frequentano I
circoli d’influenti personalità politiche.
A Roma e per
oltre un decennio Panezio, rappresentanti del Portico.
Panezio si lega particolarmente al circolo di SCIPIONE (si veda) Emiliano,
detto L’Affricano minore. Questo circolo – il primo circolo filosofico romano
-- comprende oltre allo
storico Polibio, i
maggiori rappresentanti della.
cultura romana del
tempo: TERENZIO (si veda), LUCILIO
(si veda), Caio LELIO (si veda), Quinto
Elio TUBERONE (si veda), ecc.
Roma comincia a
diventare un centro
culturale di notevole importanza. E erroneo tuttavia
ritenere che la filosofia,
con i successi
ora ricordati, sia
effettivamente riuscita a imporre
a Roma la
propria stampa. Che non sia stato così ce lo dimostra il fatto
semplicissimo. Mentre il greco si e rapidamente
diffusa in tutto il mondo
mediterraneo orientale (per
esempio in Egitto), tanto da
diventarvi l'unico mezzo
di comunicazione della
cultura, nulla di
simile accadde a Roma.
Nel campo linguistico, la resistenza
del gran CATONE (si veda)
riporta piena vittoria. I romani filosofano in latino,
arricchizzendo il vocabolario. La
civiltà mediterranea finisce
a poco a
poco per diventare
latina. Nel campo della filosofia
le qualità più
caratteristiche del temperamento indigeno romano buone
o cattive che
fossero - non andano sommerse. La ripugnanza per la
speculazione astratta (scolastica), l'interesse
volto più alla conclusion pratica che alla premessa, la
spiccata attitudine del filosofo romano all’azione, fanno sentire il peso della loro
influenza. I notevoli riflessi di
questo temperamento
caratteristico dei romani hanno conseguenze nell'ambito della
filosofia romana. Ora può essere
opportuno per dimostrare l'immediata
efficacia che tale
spirito ha sugli stessi
studiosi premettere qualche cenno intorno a filosofi
particolarmente significativi: Polibio e Strabone. Polibio è inviato a
Roma come ostaggio
dalla lega achea e vi
rimase per oltre
sedici anni, nei
quali ha modo
di assimilare profondamente lo spirito di quel popolo. Scrive in
greco le Storie
sulle imprese di
Roma; opera solitamente considerata come un grande trattato, oltreché di
storia, anche di
geografia descrittiva, per
l'enorme ricchezza di notizie
riferite sugli usi e
costumi dei vari
popoli presi in
esame. Orbene il modo con cui
è concepita quest'opera
è una prova
evidente che Polibio
intende la ricerca
scientifica in maniera
completamente diversa dai
suoi connazionali. Proprio nulla,
infatti, lo interessano le teorie
generali e tanto
meno le ipotesi
sulle zone lontane
e mal note
del mondo; esse
non meritano la
sua attenzione, perché prive
di immediata utilità. Secondo lui,
ogni indagine seria
deve essere giustificata
da un ben
preciso scopo pratico.
Il compito, per esempio,
che egli si
propone è quello di
istruire i romani
intorno al mondo mediterraneo in cui hanno svolto e
svolgeranno le loro
conquiste: tutto ciò,
dunque, che fuoriesce
da questo programma non
può che apparirgli
privo di senso
e dannoso allo
sviluppo della ricerca.
Da un punto di
vista metodologico merita di
venire notato che la storiografia di
Polibio presenta alcune
affinità con quella di
Tucidide: la ricerca tenace
della certezza, l'analogia da
lui resa esplicita con
il metodo della medicina,
la rinuncia ad
ogni abbellimento retorico.
Ancora più profonde
sono tuttavia le
differenze che lo
separano dal grande
ateniese. Polibio credeva
nella diretta fruibilità
della storiografia come
magistra vitae, nella
autonoma significatività delle
informazioni riferite quanto
più possibilfedelmente, e si ricollegava in
tal modo alle
teorie sia di
Isocrate sia di
Teofrasto. Gl’è ignoto lo
sforzo di compenetrazione tra ragione
e fatti che Tucidide
cerca di attuate
nel suo metodo storiografico, convinto
com'era che solo da
esso potesse scaturire
quella essenziale verità
della storia la cui
utilità è certamente meno
immediata ma più
fondata e più
generalmente feconda. In tal senso
la storiografia di
Polibio sta a
quella tucididea esattamente
come la filosofia
ellenistica sta a
quella. Strabone visse un
secolo e mezzo
dopo. Nato ad Amasea nel
Ponto da una
famiglia di sangue
misto greco-asiatico, è anch'egli
fortemente influenzato dallo spirito
romano (come ce lo dimostra
la decisione con
cui sostenne il
dominio politico di
Roma). Compì lunghi
viaggi e scrive
una Geografia (Geografike),
ampio trattato. Ebbene, questo
trattato dimostra, non
meno della storia
di Polibio, il
nuovo tipo di
interessi che anima
il suo autore:
brevissima è la
parte dedicata all'aspetto
matematico della geografia;
ricchissime [La filosofia postaristotelica] e diffuse
sono invece le
notizie sugli usi,
le istituzioni, la
storia dei paesi
via via presi in
esame. La differenza
fra l'indagine di
Strabone e quella compiuta
dai geografi alessandrini
di qualche secolo
prima non potrebbe
essere maggiore. L'oggetto
di studio ha
conservato lo stesso
nome, ma il
modo con cui
è condotta la
ricerca dimostra che il significato
stesso della scienza
è completamente mutato.
L'espressione più caratteristica dell'interesse prevalentemente pratico
del filosofo romano
nell'ambito delle ricerche, è
l'eclettismo. Non che
esso sia nato
per opera del filosofo romano, né che tutti
i filosofi romani sono
direttamente o indirettamente legati
ad esso. Ma nell'ambiente
culturale di Roma, l’ecclettismo trova le ragioni
del suo successo. Il
suo più illustre sostenitore e CICERONE. Per trovare
un esempio di
filosofo romano che
non ha compiuto
alcuna concessione all'eclettismo, bisogna
riferirsi a LUCREZIO (si veda).
La particolare posizione di LUCREZIO (si veda) non è che la conseguenza logica
della sua adesione a un sistema o dottrina. Già
sappiamo, infatti, che una dottrina puo essere un unico indirizzo d mantenutosi costantemente
fedele alla propria
concezione teoretica, e. g. del giardino, senza evoluzioni
interne, e questa
sua stessa staticità
esclude che abbiano
potuto sorgere seri
tentativi di conciliazione
fra esso e gli indirizzi avversari.
A parte Lucrezio, però, è difficile scoprire
filosofi romani che non mostrino
qualche venatura di eclettismo (forse Catone il minore, il
perfetto stoico). Esplicitamente
eclettico è l'amico del avvocato Cicerone, ma anche del genio militare VARRONE
(si veda); atteggiamenti eclettici
caratterizzeranno i grandi filosofi romani rappresentanti del Portico e
del Cinargo, e del LIZIO e l’Accademia. del
periodo del principato. Un po' di eclettismo,
mescolato con molto
della “Scesi”, puo venire ritrovato quasi dovunque tra gli uomini più
rappresentativi e gli spiriti più raffinati della filosofia romana, come per esempio in ORAZIO (si veda), che
riusce ad esten- dere la propria concezione eclettica fino ad includervi anche
molte dottrine filosofiche
caratteristiche del GIARDINO ROMANO.
L’eclettismo ha le sue
prime affermazioni nella cosidetta Accademia e nel Portico. Esso
rappresenta un tentativo di soluzione della crisi che la filosofia stav attraversando a Roma, e rispecchiò
una diminuita fiducia da parte di
ciascuna delle sette - nei
propri principi. Da questo punto
di vista possiamo giustamente sostenere
che l’ecceltismo esprime un rilassamento del rigore e la gravitas dello
spirito filosofico, una
profonda stanchezza e una mancanza
di originalità. Esprime
anche, però, la raffinata
consapevolezza dei pericoli cui
va incontro qualsiasisistema filosofico coerente, e la convinzione di
poter trovare, su di un piano
meno rigido che quello dei principi
generali, la via per una comprensione e per una soluzione a un problema
più interessanti per il filosofo romano
concreto. Da studente, CICERONE ascolta con molto interesse le lezioni di
filosofi che, come Filone nell'Accademia e Posidonio nel Portico, sostenneno
la necessità di un'evoluzione filosofica
in senso eclettico, e si lascia
da essi facilmente
convincere che qualcosa di buono si trova di fatto
in varie dottrine, specialmente
nei loro precetti
d'ordine pratico, che il
più delle volte coincidono, pur venendo
fatti derivare da principi molto
diversi e in apparenza quasi antitetici. La adesione del avvocato Cicerone all'eclettismo
fu dunque immediata e totale, sembrandogli che esso dovesse costituire il
frutto più maturo dell'ormai plurisecolare travaglio filosofico. Proprio questo
atteggiamento largamente comprensivo gli consente di studiare
con sincero interesse
tutta la storia
della filosofia romana,
sforzandosi con impegno e intelligenza di renderla accessibile ai
romani. Il suo perfetto possesso della eloquenza latina permitte a Cicerone
in particolare, di trovare espressioni eleganti e sobrie per
le più difficili formulazioni tecniche. La filosofia, dice nelle Tusculanae
disputationes, è rimasta fino ad oggi negletta, e
su di essa
le lettere nostre, non ha portato nessuna luce.Ma io debbo illuminarla
ed esaltarla, così che, se io sono stato di qualche utilità ai miei
concittadini romani nelle faccende attive della vita, puo esserlo anche,
se mi riuscirà,
standomene ozioso. Se CICERONE ha
il torto di dimenticare, in queste parole, il contributo dato alla filosofia
romana da LUCREZIO (si veda), egli riesce tuttavia ad esprimerci molto bene l'animo con cui si
accinge a scrivere questo o quello saggio o dialogo di filosofia. È un dovere
che Cicerone compie per colmare un gravissimo
vuoto nelle letttere romane. Cicerone sente che, se anche non introduce Nessun concetto
originale, il semplice riuscire a
mettere in circolazione, tra I suoi amici, un patrimonio
così serio come
lo e la filosofia costituie un
merito di cui i
concittadini dovranno essergli grati. E di fatto gliene saranno
grati non solo i concittadini, ma tutta la cosidetta civiliazione occidentale
(senza gallilei) anche i posteri,
poiché i suoi
scritti rappresenteranno per
molti secoli una
delle principali fonti per la conoscenza del
pensiero filosofico.Tra le principali saggi e dialogi di Cicerone ricordiamo, oltre le Tusculanae (Le
Tusculane), il “Delle
leggi”, “Le deffinizioni del bene e del male, “La natura
degli dei,” “Sui uffizi),
il Sogno di
Scipione e la sua fonte, La repubblica, Ortensio, (un'esortazione alla
filosofia che influenza profondamente
Agostino, e che era un'imi-
tazione del Protrettico di Aristotele), ecc. E
callunniante asseverare che Cicerone si limita a presentare le filosofie altrui
senza apportarvi nulla di suo. Cicerone le ri-pensa dal suo punto di vista, le espone in modo tale da poterle
utilizzare a favore
della concezione eclettica. Ora utilizza Platone, ora
Aristotele, ora invece
la Scessi o ilPortico e conclude.Qui si accenna al fatto che Cicerone si
accinse a scrivere opere filosofiche solo quando venne escluso dalla vita
politica per l'affermarsi del primo triumvirato e, in seguito, per il trionfo
di GIULIO (si veda) CESARE. Proprio CICERONE (si veda) pubblica il poema
di LUCREZIO (si veda), e
tale dimenticanza è dovuta probabilmente alla posizione dichiaratamente anti-giardino da lui
assunta in sede
filosofica. con un generico probabilismo, che ammette proprio come unico
criterio di verità il consenso dei filosofi (prova evidente - secondo CICERONE - che esistono delle idee innate, a tutti
comuni). In queste molteplici
discussioni, non prive talvolta
di incoerenze l'una rispetto all'altra, nel difficile ecomplesso lavorio di
selezione e coordinamento delle tesi, una preoccupazione appare costantemente
presente in CICERONE:
quella di rendere ogni romano consapevole dell'immenso
valore della filosofia.
Solo la filosofia, infatti, può farci cogliere il valore esatto di essere umano, delle
nostre conoscenze; solo
la filosofia ci insegna a guardare con effettiva serenità la vita,
mostrandoci con chiarezza ove risiede la
vera felicità . Non v'è dubbio
che, per il senso pratico dei
romani, questa capacità della filosofia dialettica costituie la sua
più seria giustificazione: unica
giustificazione – il pro e il contra -- veramente sicura e da
tutti accettabile ANTONINO (si
veda) nasce a Roma . Salì
al trono imperiale alla morte
di Antonino Pio
di cui era
figlio adottivo; E convertito
al portico dalla lettura d’Epitteto.
Scrisse il “ad seipsum,” una
delle più interessan i
opere filosofiche della
sua epoca: Colloqui
con se stesso
(Ta eis heaut6n),
ordinariamente nota col
titolo di Ricordi.
Le note dominanti della sua filosofia nella quale emergono sempre più
chiari i
caratteri del PORTICO ROMANO -
sono un disprezzo ascetico
di tutti i beni esteriori
e una profonda
religiosità. L'essere divino
non è semplice
fato, ma è
soprattutto provvidenza universale.
Il rapporto dell'uomo
con dio è
un rapporto di
effettiva parentela, che
di conseguenza viene
a legare fra loro
tutti gli uomini.
Oltre ai caratteri
ora accennati, è
tuttavia presente in ANTONINO
(si veda) un carattere
nuovo, evidentemente connesso
proprio al tipo
di vita attiva, gravida di responsabilità, che gli tocca in sorte come
capo dello stato. Non a caso - egli pensa l'uomo occupa la propria carica, ma
perché espressamente postovi dalla provvidenza dl divino. L'uomo ha quindi il
dovere di agire con tutta la necessaria energia, di non sottrarsi ai compiti --
per quanto difficili e ingrati affidatigli da tale provvidenza. È la forma
mentis del cittadino romano che si inserisce in quella del filosofo del
portico. Né fra le due sorge alcun contrasto. Anzi, esse riescono a fondersi in
una mirabile armonia, permeate entrambe da un senso di vivissima religiosità.
Neanche il filosofo romano, malgrado il loro indiscusso spirito pratico, sa
sviluppare a fondo la preziosa eredità degl’ingegneri. Essi rivelarono senza
dubbio grandi capacità nella costruzione di strade, di acquedotti, di fastosi edifici,
ma non riuscea a comprendere l'interesse
della vera e propria ingegneria meccanica, né avvertirono l'importanza pratica
di ricerche direttamente o indirettamente rivolte alla scoperta di nuove fonti
di energia. Il fatto appare tanto più singular quando si pensi che proprio
risale la massima invenzione tecnologica dell'antichità: il mulino idraulico.È
un fatto che non sembra spiegabile se non facendo appello alla difficoltà di
comprendere i vantaggi che avrebbero potuto provenire dallo sfruttamento
sistematico delle varie forme di energia naturale, mentre esse apparivano.
Assai più costose dell'energia umana (schiavi) e animale. Per quanto riguarda
lo scarso interesse dimostrato dal filosofo romano verso gl’ artificiosi
congegni esposti negli Pneumatikd di Erone, va inoltre osservato che la via da
percorrere, onde giungere ad una lorutilizzazione su vasta scala, non puo non
apparire troppo lunga e difficile al filosofo romano - come appunto
gl’ingegneri romani -- direttamente impegnati nelle realizzazioni pratiche
immediate. L'abbandono di tale atteggiamento richiederà una profonda
trasformazione sociale e culturale, che ha inizio solo parecchi secoli più
tardi. Fra gli filosofi romani che scriveno saggi di ingegneria di qualche pregio, il più
importante è Vitruvio, ingegnere militare di GIULIO (si veda) CESARE e OTTAVIANO
(si veda). Il suo saggio principale, “De architectura", reca evidenti gl’ultimi sviluppi della matematica
e dell'astronomia e le tracce dell'influenza degl’ingegneri. Vitruvio ricorda
infatti esplicitamente Ctesibio, riferendoci parecchie sue
invenzioni (la pompa, una balestra ad
aria compressa, l'argano idraulico, ecc.). Il voluminoso trattato di VITRUVIO s’articola in
libri che esaminano una gamma assai vasta di argomenti: dalla preparazione
filosofica richiesta all'architetto ai
problemi specifici concernenti la costruzione di edifici pubblici e privati,
all'idraulica, alle macchine da guerra. È inoltre ricco di richiami storici, di
indicazioni giuridiche, di massime morali, e costituisce una preziosa fonte per
studiare la cultura tecnologica, e in
generale i costumi dell'epoca. In essa
sono tuttavia riscontrabili alcuni non lievi difetti. Pur sforzandosi di
risultare tecnicamente chiaro e cercando ove necessario d’introdurre nuove
espressioni adatti al linguaggio tecnico,VITRUVIO non può nascondere talune
pretese stilistiche, che spesso rendono oscura la dizione, ove accanto a
volgarismi e plebeismi si trovano espressioni ampollose e ricercate. Inoltre
Vitruvio non è padrone sicuro della materia di cui tratta, onde non solo non
riesce a portare contributi nuovi, ma spesso suscita anzi l'impressie di non
comprendere bene, egli stesso, le ricerche che si sforza di esporre. Gli è che
la vera tecnica non si identifica con la pura e semplice pratica; essa è
scienza applicata, e, come tale, richiede dai suoi cultori una profonda
preparazione scientifica. Ma questa non poteva essere presente in chi aveva
manifestamente studiato troppo
poca matematica. Più
che di ingegneria
la cultura romana si era occupata
di agricoltura, su cui ci sono giunti i trattati di CATONE (si veda), di VARRONE
(si veda) e di COLUMELLA (si veda). È proprio una disciplina
tecnico-scientifica parallela
all'agricoltura ad avere in Roma gli sviluppi più
originali: l 'agrimensura,
detta gromatica dalla
groma, lo strumento
che gli agrimensori
romani usavano nella misurazione dei terreni. Il codice Arceriano ci ha
conservato una parte delle opere degl’agrimensori da cui si possono
ricavare i vari interessi dei agrornatici ed i loro importanti compiti. Ad essi
e ffidato il compito di costruire gl’accampamenti, fondare le città e le
colonie, misurare l’altezze dei monti e le larghezze dei fiumi nelle campagne
militari, far applicare le leggi agrarie e stabilire le confische ed i tributi.
Apposite scuole erano istituite nel principato romano per istruire questi
funzionari imperiali nella geometria, intesa nel suo aspetto pratico, nel
diritto, nell'arte militare e nei rituali religiosi che accompagnavano
le loro opere. Fra i maggiori autori agromatici possiamo
ricordare Balbo, famoso per aver condotto a termine l'opera di misurazione di
tutta l’Italia che era stata iniziata con Cesare, Igino, e infine Sesto Giulio
Frontino, una volta console sotto Vespasiano e Traiano, autore anche di
un'opera di arte militare sugli Stratagemmi e di un'opera
sugl’acquedotti di Roma, “De aquis urbis Romae”. Grice: “Geymonat, for some
reason, is obsessed with science as we at Oxford are not. Indeed, he wrote a
LOOONG history of “THOUGHT”, which is a word we don’t use at Oxford. The French
and Latin types in general use it – pensée – the idea is something like science,
mathematics, philosophy, you name it. So, his remarks about how the ignorant
Romans started philosophy is interesting. According to Geymonat it was a
generational thing. Catone did not want to do anything with it – for reasons of
‘state’, Geymonat says, i. e. philosophy would be subversive, as it indeed is.
The odd thing is that it attracted the knock knock it’s the youngest generation
knock knock knocking at the door. The Senate forbade philosophers in 161 and
five years later Carneade and two more arrived and that changed things.
Geymonat makes two comments. For one, the best youth – I figli delle migliore
famiglie romane – would have something like the Americans call a Rhosdes – they
would go to Athens as a ‘finishing school’. But what was interesting is that
Scipione Emiliano started a club in his palazzo – more like a villa – where
Polibio Terenzio, Cirilio, Tiburone, Elio, Celio attended --. The third
terribly interesting comment Geymonat makes is twofold. For one, those Greek
slaves who called themselves philosophers (Strabone and Polibio, are the only
two he quotes) did write, respectively, history and geography, but ‘tuned to
the Roman ear’. Geymonat speaks of ‘il temperament romano’ which he
characterizes in a fourtfold way: concretto, interested in the conclusions –
conclusive, rather than the premises – prattico --. So the history by Polibio
is only one that may interest a Roman, a far cry from Thucydides philosophical
prose! And the geography of Strabone has no information on calculus and measures
– only bits about institutions of people the Romans might conquer – nothing
about foreign distant lands! The second most notable remark is then that
Scipione Emiliano paid lip service to the Hellens – Catone’s ‘resistenza’ won
in the end – as is seen by the mere fact that Latin was retained as the lingua
romana – in romano – unlike the Empire of the East where Greek was adopted – So
with the fall of the Eastern Empire, the West became bilingual. The rough
tongue of the Latins survived this fashion for things Hellenic! Geymonat spends
enough time on what Cuoco calls ‘filosofia italica antica’ – it starts with
Crotone and Metoponto – where Pythagoras settled. With his theorem he underwent
a crisis, and philospophy traveled to VELIA with Parmenide and his lover,
Zenone, and Melisso – reductio ad absurdum, and tertium exclusum. Then there
was Girgenti, and that crazy one, Empedocle, who however wrote some witty
things about the four elements (in verse! Like Parmenide). Then there’s
Filolao, educated at Crotone under Pyhathogras but himself from Taranto, and
himself teacher of Archita of Taranto. Then there is the sophistical movement
started with Gorgia of Lentini – and Siracusa – So, ‘philosophy’, as we know
it, had an Italic origin, and is molded in the language of the conquering
Romans! Ludovico Geymonat. Geymonat. Keywords: ragione
-- temperamento romano – concretto – pratico – Catone – il trionfo di Catone
con la lingua latina – la gioventu romana entusiasta con Carneade – I Scipioni
ellenisante – la gioventu delle megliore familie – grand tour a Grecia! -- il
teorema di Picard, il teorema di Caratheodory per le funzione armoniche. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Geymonat” – The Swimming-Pool Library.
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