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Monday, October 28, 2024

GRICE ITALO A/Z G GE

 

Grice e Gedalio: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A pupil of Porfirio, who dedicates his commentary on Aristotle’s Categories to him.

 

Grice e Gelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della difficultà di mettere in regole la nostra lingua – filosofia fiorentina – scuola di Firenze – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo Italiano.  Firenze, Toscana. Grice: “I like Gelli; he is a difficult philosopher, in a typical Italian fashion, mixing semiotics, philosophy, philology, and literature! His reflections on Adam’s tongue (lingua adamitica) is genial – and he proposes a distinction, which I often ignored, as Austin did, between ‘sweet language’ (lingua dolce, qua expression, or materia) and ‘content’ (forma) – The issue was central for Italians: Tuscan Italian was THE lingua because it was the sweetest – at least to Florence-born Gelli’s ears!” “Ricordati un poco di Palmieri, che era tuo vicino, che fece sempre lo speziale, e non di manco s'acquistò tante lettere ch'e' fu mandato da' Fiorentini per imbasciadore al Re di Napoli; la quale degnità gli fu data solamente per vedere una cosa sì rara, che in un uomo di sì bassa condizione, cadessono così nobili concetti di dare opera agli studi, senza lasciare il suo esercizio; e mi ricorda avere inteso che quel re ebbe a dire: pensa quel che sono a Firenze i medici, se gli speziali vi son così fatti.”. Figlio di Carlo, un agiato mercante di vini originario di Peretola e trasferitosi a Firenze col fratello, nacque in San Paolo.  Esercita per tutta la vita il mestiere di calzolaio e studia filosofia da amateur – cf. Grice, “Gioccatore di cricket amateur e filosofo profesionale” -- Discepolo di Francini, Verini, 3 Ficino e poeta di ispirazione savonaroliana, e vicino alla filosofia piagnona, participa, anche se in disparte, alle riunioni dell'Accademia, agli Orti Oricellari. Fedele a Cosimo I, ricopre cariche pubbliche di scarso rilievo, dapprima in qualità di magistrato delle arti, poi come membro del collegio dei dodici Buonomini, organo consuntivo del governo mediceo. Membro degli Umidi. Ne approva la trasformazione in Accademia Fiorentina l'anno successivo e ne fu console. Ivi tenne la sua prima lezione, commentando un passo sulla lingua di Adamo, tratto dal Paradiso di Dante. Tenne saltuariamente lezioni su Dante e Petrarca. Le sue opere più famose sono I capricci del bottaio, ragionamenti fra un bottaio e la propria anima (inserito nel primo indice dei libri proibiti) e La Circe, un dialogo fra Ulisse e i propri compagni trasformati in animali. Tra le tesi sostenute nelle sue opere vi sono quelle della discendenza diretta da Noè dei fondatori di Firenze, dovuta probabilmente all'influenza sul G. degli “Antiquitatum variarum volumina XVII”; un falso confezionato d’Annio da Viterbo, e quella della superiorità della lingua fiorentina sulle altre.  --- nominato da Cosimo I lettore ordinario della Commedia presso l'Accademia e recita nove letture dantesche, pubblicate con cadenza annuale, che hanno grande influenza sugli interpreti d’ALIGHIERI durante tutto il Cinquecento fiorentino. Altre saggi: “L'apparato et feste nelle nozze dello Illustrissimo Signor Duca di Firenze et della Duchessa sua Consorte”; “Egloga per il felicissimo giorno 9 di gennaio nel quale lo Eccellentissimo Signor Cosimo fu fatto Duca di Firenze”; “La sporta” “Dell'origine di Firenze”; “I capricci del bottaio”; “La Circe”; “Ragionamento sopra la difficultà di mettere in regole la nostra lingua”; “Lo errore”; “Polifila”; “Lezioni pubblicate”; “Sopra un luogo di Dante, nel Purgatorio della creazione dell'anima rationale”; “La prima lettione di G. fatta da lui l'anno, sopra un luogo di ALIGHIERI nel Paradiso”; “Spra un sonetto di M Petrarca”; “Spra que'due Sonetti del Petrarcha che Lodano il ritratto Della Sua M. Laura”; “Sopra ‘Donna mi viene spesso nella mente’ di Petrarca”; “Tutte le lettioni fatte nell'Accademia Fiorentina,” Letture sopra la Commedia d'ALIGHIERI, Delmo Maestri, Opere di G.i, POMBA, Mutini, I dialoghi morali di G. in "Storia della letteratura italiana V", Motta, Maestri; Mutini. G., Dialoghi, Scrittori d'Italia, Bari, Laterza, F. Reina, Delle opere di G., Società tipografica de' classici italiani; Gamb; G. , La Circe, Venezia, Alvisopoli; G., “La Circe e i Capricci del Bottaio (Milano, Silvestri); G. Opere di G., Firenze, Monnier, Negroni, “Lezioni petrarchesche” (Bologna, Romagnoli); Negroni, Letture edite e inedite di sopra la Commedia di ALIGHIERI, Firenze, Bocca, Fabre, La Circe di G., Torino, Salesiana; Barbi, “Trattatello dell'origine di Firenze” di G.  (nozze Gigliotti-Michelagnoli), Firenze, Carnesecchi, Ugolini, Le opere di G., Pisa, Mariotti, Bonardi, G. e le sue opere, Città di Castello,  Lapi; Ugolini, G., Scritti scelti, Milano, Vallardi, Fresco, G., I Capricci del Bottaio, Udine, Tip. Del Bianco; Bontempelli, G., La Circe e i Capricci del Bottaio, Istituto editoriale italiano, Sanesi,Opere G. (Torino, POMBA, Tissoni, G., Dialoghi, Bari, Laterza, Alesina, G., Opere, Napoli, Rossi, Bonora, “RETORICA E INVENZIONE” (Milano, Rizzoli);  Montù, “Gelliana”. Dizionario biografico degl’italiani. che essere scaciato e fuggito da ogni Àno, come s ifarebbe una fiera. A. tuparli come un filosofo Giusto; che l'inuidia è quela, la quale piu che altra cosa guasta il confortio humano; e tanto peggior i efeti produce quanto e la è in huomini piu ingeniosi piu valenti, ma egli e di gia alto ilsole, io nochetu tilieui, pieno.  0 wadi à le tue faccende, con un'altra volta ragioneremo di questo pius   ellamipare? sie. Orgliè troppo innanzi giorno à levarsi, questi fratiminori hanno questo costume, di sonar sempre il mattutino in su la mez sara meglioleuarji, machefaroiopoi, egli è tanto di quià leuatadisole, che mi rincrefcera, ma io potreiuedere, fe l'anima mia uolesse parlar meco. Anchora che io comincio a dubitare, che fe joseguito, ela non mi facciimpazzare, e non èdafarsebeffe, perche secondo me, tutiquei che impazzano, impazzan' nel'anima, nel corpo, et cosi farà forse questa mia àmeseiole credo cosi ognicosa. Eccoelam' ha cominciato à dire, che si puo esseresauioe dotto senza sapere lingua grea carolarinas che è nnacosaches' io la dicessi fra questi doti moderni, io sareiu celato proprio comeun. gufo, io permenonho mai sentito dire, che esi pos faeferefanio in volgare, ma pazzofibeneset non OVELLA lasquiladisanta Croce co E una dimostratione grandissima d'un disagio non picolo, esarà dunque bener addormentarsi un poco bene che il tempo che si dorme, è come perduto, anzi è pocomeno, che sel'huomo fufe morto, Operò S 0 an za notte chel'hucmo é apunto in Julbuondeldors mire; benche àloro che neuanno à leto come i pol tidae'poca noia, niente di manco nell'uniuersale far. I fi n'homaine duto huomo alcuno che nefiaftato fatto stimagrande, se non sa qual cosa in grammatica; ficheiononleuò cosi credere, maio potreiforseno l'hauereinte sabene, e' fara dunque meglio uedere seelauolese ragionare al quanto meco, e potrò dimandarnela, Anima mia, ò anima mia cara, uo gli ãnoi fauelar ancshotamane un poco insieme A. Di gratia Giusto, che io non ho piacere alcuno maggior di questo perche mentre che io miftòraç coltainme medesimaà parlare teco, io nounengo astare occupatainque I concetti nili, & bası, che tu hai la maggior parte del tempo; ne manco t’ho a ministrare spiriti et forze, finare quei tuoi zoccoli, et que i tuoi bariglioncin. iG. Io non mi marauiglio punto di cotesto, che io lauoro anchora io malsolen tieri; anzinonfo cosa che misiapiugraue, ale i non che melo fafarela maledettfaorzy, io non darei mai colpo. A. Er chevoreftitu? startisempre, Guruerotiosamente? G. No, mai o consumerei al tempo in qualcosa, che mi diletafsejd oue i lavorare mied'affanno et di fatica. A. O pensa quelo che egli è àmè, essendo molto piu contro ala natura mia, che a la tua. G. Io non sò cotesto, coveggo che Idio da pocihe l'huomo hebbe pecato, uoledodar glipartede la penitentia, cosi come egli haue uada. toala donnail partorir con dolore; gli diffestuman geraiil pane del sudore delupleotuoj dando gliilla   let poco a poco nel opinione mia. O tuti marauigliaui, quando iotidicena ľaltro giorno, che egli eraprufa tica, à un huom foare un paio di zoccoli, che Ai Ahahuediuedi, che tuuienià vorare per la piu graue, & piu faticosa cosachpeo To tessedargli studiare mezo ARISTOTELE, eccolaragione; tu l'hardetta da uuere. A. Egl ièiluero, ma il fato la sta contentarsidi quelo che è necessario solamente non cercare il superfluo, che è quello, che reca cada mille pensieri di futilià l'huomo, & lo tiene sempre occupato in terra, negli lascia maialzare la facia ra, acontentarsi del poco; perche chifacosigurue con pochi pensieri ,et è lieto il piu del tempo uatoinme, quãtomisiastatoutile il contentarmi di o quelocheioho, accomodandola uoglia a la fortuna, be et se io hauesi uoluto uiuer, òueftir meglio, e' miera a forza, òfar qual cosa dishonesta, ò andarastarecon me altri. A. Mal per i gran maestri, Giufto, feglihuo 2.1 il gode al  1 da teàtes per che lo studiare e naturale, Qvé pro Pas prio del'huomo, gloinuiaala perfetione sua, & bra 'il lauorare gliè'una penitentia. G. E bisognapur ancohauer alcielo; dondeusc iprimieramente l'animasua, eo - doueeladesideradiritornar'; & fappi Giusto che il maggior bene, & la piu util cosa che si possa faro agl'huomini in questa uita, è'auezarglia buon'ho pernondir o sempre, G. Io lo credo certamente perche io ho pro minifussindicotestauo gli atuti, che bisognarebbe pochi che gli restano, ul mendo inferuitis per ogni picolo prezzo, la qualeco Sa non solsegia farequel sapientissimo filosofo di Diogene, che   che esiseruissinda loro, perche e' non sono se non le moglie immoderate, ò della degnità, ò del poter ben mangiare, & bere suntuosamente uestire; che fanno, cheunb uomo , che ragionevolmentepuoui uereunsessanti anni (dequalinedieci, ò dodecipri mi, non conosce quelche èfifacia; & delrestone dorme la metà) uendeque essendogli detto da Alessandro Magno, che eichiede sequello cheuolena, Orche tue togli sarebbedator ispose cheancorche fussi cosi ponero e'non gli mincaua cosa alcuna, machesegle leuaffed'innanzi, percheglitoleusilsole,l aqual cosanonerainpotest:suadidargli. G. Certa mente che il dependere da se stesso e'una cosa bellissima, etuorrebbesieseramicode signori, minor giaseruo, honorando gli oubbidendogli però sempre, comequeglicherēgonointerrailuo godi Dio, et quando un puruuole innalzarsi, debbecercardi farlocon le virtù,& non conferuire, pensando non di mcno, chien ogni stato, glihabbiaà mancar jem pre qualcosa.A. Non tidoleradun quedeltuo; & sappi certamente che non è stato alcunoin questo mondo, douenon sia qualche incômodo, &aqual che cosache dispiaccia altrui. ne sipuoritrouareal cuno, checometuhaidetto, nonglimanchiqual, chetutiglistati daglı huominiera noàunmodo; Et diceuaàciaschedunoman caso la mente una cosa, e quelle primiera mente desidera. Verbigratia, un pou crostro piato desidera sola mente di eser sano, dapotere guadagnarsi la uita, pernonhauereàireaccatando; chréfano& non hanulla, hauer di che poter uiuere; per non hauerà lauore; ch ihadicheuiųere commodamente, has uer tanto che ei possatenere una caualcatura c u u nragazzo, & chi haquestohauer qualchedigni tà, à maggioranzasopraglialtri; e dipoessere Principe, & chi e Principe finalmente, potereper petuarsiinquello Stato, & nonhauereàmorire. A. Non'tidolereadunquetu, dihauereà lavorare un pocosedognunomancaqualcosa. G. L ha sereà lauorare un poco sarebbe un piacere, mafem prezcome ho à fare io, che ho poco è nulla; e cosa. G. Con questa ragioneuoleuagiaprouare unoamicomio 'undi Spetto. A. Ecco che tu fai pur ancortu, comegli altri, m a dimmi un poco che uorrestitu ? che ti manch'egle? A. Cinquanta ducati d’ıntrata. & staremmipoiaffaiacconciamente. A. E quando tu haueßi cotestoanchor poiti manchereb bequalchealtracosa,e desiderereftıla, cometu faihorquestaperche cometuhaidetodatsetesso, inqualsiuogli astato, si ha sempre qualcosainanzi agliocchi, chseidesiderapensandocomel'huomo  tha, dhauersi a contentare; niente di manco poi quando tu l'hai tu non ti contenti, ma comincia. Desiderarne un'altra; fiche prudentemente dise un trattou nuostro Cittadino, a uno che entraua in un disordine grandissimo per comperareun podere', che glie raaconfino. Tu doneresti pensare, che tu hai hauer canfini, e che comperato questo, tu n'ha rai a confino un'altro, del quale tí uerra la medefima uoglia. G. Io credo certamente, cheinogni statosiadepensieri; mapiue maggioriinuno che in un'altro. A. E' non è gia il tuo undiquegli chen'habbiao demaggiori fidianzi fu dato al'huomo per penitētia de suoi peç Cat. t . si di quegli ce hanno le uoglie disordinate, & chenon sicontentanodiquclchesi conuiene a lo stato loro, come hauena Adam, quando gli duuenne questo, ma achi si accomodail camminar patientemente in quella vita che egli è stato chiamato; non auuiengia coli, G. Come non, hauen doioaniveresolamente dellauorare, checom’iodir 2 , qualpuoeserepuidolce cosa, cheuiueredella faticadellesuemaniwediche Dauit Profeta ch'era pur Re, come tu sai, chiamò questifimili beati, & fappi finalmente questo, che quante piu cose fihajatante piufiha hauer cura; Brè molto piu graue & faticoso il pensiero digo Hernare le cose superflue, che la dolcezza del polle derle; e quanti pius er piò piulaworatorisi ha tan tipin , che ognibuo mon'haunramo; benfai, che èl'ha maggiore uno che un'altro; Ma ecciquesta differentia dai faui ,a i matti; che ifaui lo portan coperto, & i pazziin mano di forte che lo uede ogn’uno. G. Ehtuuuoi tábaid.A. Stafermo, iotelouoprouareinte stesso, quante uolte fetu andato aspaso per casa, ponendo i piedi nel mezo demattoni ,& cercando, conognidiligentiadinon toccareiconuenti? G. Omilleuolte, & fommiposto à contarei corenti del palco,& àfareseialtrecose da bambini.A. o dimmiunpoco, setuhauesi fatto cotestecosefuo rii fanciulli non tisareb boncorsi dietro, comefan noàipazzi? G. Permiafe, chetudiiluero; car non uòpiu negare di non hauere ilmio capriccio anch'io; anzi tengo hora per uerißimo quel prouenbio, che io ho piu volte sentito dire, che ti prunimicisi ha, come bendiceuaquel FILOSOFO, Mi lasciamo andare questir agionamenti, e' mi pare che noi n'habbiamo parlato àbastanza, Tornia moun poco àquegli dihier mattina, chenoilasciam 2 mom perfetti; perälchetudubitauidianzi, chese tumicredesi, ionontifaceßi tenere pazzo; come seancortu non'hanesilatua parte, comeglialtri. G. Oto quest'altrafeela ti piace; cheuorraitu dire, cheognounosia pazzo? A. Pazzono;  Ma che ogn'uno ne sentasi. G . O questo è quafi quelmedesimo. A. Sappi Giusto .0 sela pazzia F  A. lotiuo direancorapiula, che tu trouueraipo chihuomınıal modochehabbino lasciato fama, che setu consideri bene lauitaloro, non habbinoqual che uolta portatoilramoloro scoperto, maperche ceglieriuscito loro ben fato, ne sono statilodat, ima io non uò che noi fauelliamo piu di questo, torniamo al ragionamento nostro, dimmi un poco donde har tusaputo, che non sai grammatica a non hai studiato, che ilauorare fusse dato da Iddio. G. Si quanto à le parole; maapenetrar poi bene i sensi bilogna altro. A. Eibafta, che tu non harestidificulà nel intendere le parolė; ma solamente nella inteligentia de’sensi; la qual cosa se l'hanno ancor quegli, che le leggono ingre coo in latino che tu non ti credesi che dereunalinguayé' s’intendino ancu tuti gli Autori, tutte le scientie che sono in quela, perche àfare questo, bisogna l'aiuto de preccettori de  fuffe un dolore in ogni casa si sentirebbe stridere.'! ,a nostro primi padri per penitentia & paritione dela disúbidientia loro? G. O non losaitu, che laitante uol teletomco quelit Bibia che io ho. A. O come la intendi tu? G. Perche non uuoitu che io la inten da? non sartuche el la e in volgare? A s i sò. G. O per che me ne domandi? A. Per farti confeffa re quelche tu hai detto, eccodunquecheselescien tic, & la feritura facra fußıno in uolgare, tu le intenderesti per inten. 2 you  4  2 GL’INTERPRETI, anche pors'intendono con fatica grande, simile auuerebbe medesimamente, s'ele fußıno in uolgare; ma a me basta per hora, che tu conosca, che non sono le lingue, che fanno gli hyomini doti, ma le scientie; & che le lingue s'imparano, per acquistar le sciencie, che sono in quelle. G. E t PERO NON SI PUO EGLI ESSERE DOTTO SENZA INTENDERE LA LINGUA LATINA, dove e le fon tutte, che uuoituim parare nella noftra A. Mera 1 cede ROMANI che ne le traduffono, se LA LINGUA LATINA ne è ricca; e colpa de TOSCANI, che non han no maifatto conto de la loro, feelane è pouera: G. il fato stà, felacolpaviendz la lingua, che non sia tanto copiosa di uocaboli, ch'elenon nifi poßino scriuere. A. Oe fe ne fa di nuouo; e mettonfi in uso, di mano in mano secondo i bisogni. G. o èeg li lecito fare de le parole nuoueina una lingua? A siin quelle che non fono morte; G dacoloro solamente dichielefono propri.e G. Et qual ichiami tu morte? A. Quelle che non si parlano naturalmente in luogo alcuno; comesonohoggi, la greca, e LA LATINA, e in questa à co loro cheniseriuonpoer non esere elalaloronatit à propria, non è lecito fare parole di nuovo. G. O percheno nè egli ancor lecito à quei forestieri, che la fanno? A. Perche non essendoe la lor naturale; non le fanno in modo chel'hab in gratia,  se la natura producesse tutte le sue cose perfette, non bisognerebbe l'arte, & fel’arte potese farle perfette da sestessa non bisognarebbe la natura, ma che bisogna piu, non, e gl’ebrei dagli Egitti, non hai tumar sentito che e'no si puo dire cosi alcuna che non sia stata detta prima ma I ROMANI, chi erano altr’uomini, e d'altro giudicio, che non sono oggi i Toscan, amando piu leca   Ponmente alcune che n'hanno fattecerti moderni nella nostra, come medesimi tàgioucuolezza, mar, cigione & fimili.G. Tu giudichi adunque che non sarebbe errore farne nella nostrae? A. Non de chi l aparla naturalmente, anzisarebbecosalo-, deuole. Dimmi un poco, credituche la lingua greca, ò LA LATINA, fusin cosi perfete e copiose di uoceboli da principio, come ele furno poi nel colmo loro, e quando fiorirnoinlorotant ipregiati scrittori? G. Non credere. io. A. Sianecerto, perche e non siritrouacosa alcuna 2 fra queste che sonoeserci tateda noi; chesiastate nel principio, ò prodotta perfetta di la natura, ò ritrouata dall'arte; perche sequestosi potesefare, l'unadilorofarebbeinus no; che fecionoancor dele parole nuoue CICERONE BOEZIO see uolsero METTERE NELLA LINGUA ROMANA LE COSE DI FILOSOFIA e  di logica? G. Che le cauorono da altre nationi? A. Bensaichesi. G. Etdachi?A. Dai Greci, Eri Greci lhebbeno dagl’ebrei OPINTO feloro proprie (come è giusto ragioneuole) che Paltrui, studiavan solamente le lingue esterne, per Canarne, seuiera nulla di buono, arrichir nelai loro. G. In verità che in questo mi pare che efuf fino molto da lodare. A. Ricercaunpocobene tutte le cose antiche conuedraichesitrouapochis fimi ROMANICHE. G. In questo merito noeglino al quanto d'effere scusati non essendo come tu di quella la lingua loro. A. Anzi meritono d'essereri presi doppiamente, non ti ricorda egli haver mai sentito dire che CATONE (si veda) MAGGIORE leggendo certe cose scrite da Albino Romano in lingua greca, trovando nel principio che s’iscusa del non haverle scrite con quella eleganza che dove, dicendo che e cittadin ROMANO ornato in Italia, e molto alieno dalla lingua greca; non, o lo fare. G. Veramente che queste sono ragions tanto vere che i o per me non saprei contradirti. i A. Vedi quanto I ROMANI cercano di nobilita rela lingualoro, che e' non istımauanomancolar recare in quela qualche bela opera, che sotopore, scriuesjein greco,comfeannoque fli Toscani in latino, chenonè la lingua loro. perche faccino quanto eifannoei non fiue de mai nei loro scritti quel candore, ne quelostileche e'nei latini proprii 2. solamente non lo scusò; ma sene vise, dicendo her Albino, tu hai uoluto piu rostoha were à chiedere perdono d'uno errore fato, che no > 3 coloroiqua li haueua sottopošo con la forzaqual che Cità, è qualche prouincia àl'imperio ROMANO. G. Oani miea pensieri ueramente santi, e PAROLE DEGNE D’UN CITTADINO ROMANO, perchel'ufitio uerode Cnta dinièsemprein qualunche modo si puogiouareà la patria ala quale noi non siamo manco obligati, che, a padrıQ àle madri nostre. A. Et perquesto è hoogiin pregio tanto la lingua loro, che ritrouan dosiin quella buona parte dele scientie, chiuuole, acquistarle, bisogna prima che imparı; quella doue, se i nostri Toscani traduceßino medesimamente quel le nella nostra, chi desiderad'imparare, non harebbe a consumare quattro ò sei de primi suoi migliori annii n imparare una lingua per poter poi col mezzo di quella passare a le scientie, oltra di quest olefi imparcrebbono piu facilmente con maggior fis curta, perche tu hai à sapere questo che e nons'impara mai una lingua esterna, in modo cheelasi  plega bene, come la sua propria, & fimlmente  al'imperio lovo qual che Cità, ò qualche Regns, che questo si ailnero, leggasi il proemio che fa BOEZIO nella sua tradurrione de PREDICAMENTI d’Aristotele douee dice che essendo huomo consulare, et non atto à la guerra, cercherebbe di instruire i fuor Cittadini con la dottria; che non speraudmeri fare manco, neejere meno utile à quegli, insegnando lorol'ari de la greca sapientia, che 2 e 2 non si parlamaitanto sicuramente, ne contantai facilità, a setunon mi credi, pontrente a questi. che tu conosci, che danno opera à LA LINGUA LATINA, chequandoe’uogliono parlare in quella è par proprio che egli habbino àaccattare le parole, con tanta dificultà, e tanto adagio fauel'ano. G. Tudi; il nero, ma questo de ROMANI e certamente unmo) do belissimo, à tradure nella lingua loro, di molte cose bele; accio che che desidera intenderle fusse forzato à impararla, cosi ela uenise àfpargersi per tuto il mondo.A. E non fecion solamente questo; ma in mentre che é tennono l'imperio del mondo, ei la faceuano ancora imparare à la maggior parte de loro sudditi quasi per forza. G. Et come faceuano? A. Haueuano fatto per legge, che qual se uolesse imbasciadere non potesse essere udito IN ROMA se ei NON PARLA ROMANO, oltre à questo che tute le cause che per la qual cosatuti Nobili di quals iuogliare grone, & tutti gli Auuocati, & tutti Procura forierano forzati ad impararla. G. Oio non mi marauiglio piu che ROMA diuentasse si grande, fe. Teneuan di questi modi ne l'altre cose. A. Diquelo non uolo ragionarti, perche le cose belle che causano di tuto il mondo, ne fanno chiara testimoniázs:  11 EMA 3 sia gitauanoin qual a fiuo glia paese, soto il oro Gouernatori, & turtii i procesisi douessino scriuere in LINGUA ROMANA; F irü   .nessuno chescrinese in Egittio, ne. Greco chescriuefle in Hebreo, ne LATINO chs ecriue ffe in greco,f& e purecen’e's nostatisonopochissimi, G.Odondehannocauato adunch ei Toscani questa usanza di scriuere in grammatica, perdire a modotun A. Dal oinor di nato amor proprio, non de la patria, ò della lin gualoro, imperòche cofi facendo, fisonocredutief Jerestatitenutipiu ualenti   à chi un quele confidera. G. O costume' uerämente lodeuole, ò Cittadini ueramente amatori della patria loro. A. O questo costume Giusto non fu so la mente de Romani; ma di tutte le altre genti: cer capure quanto tu uoi, che tu non trouerai quasi mai Hebreo me quel Medico che io baueuagia? Il quale per pa rore dotto, mi ordina certe ricctte con certi nomi tanto difusati, che mi faceuon marauigliare, infra le altreiomi ricordo una mattina che mi ordina no so che riceta perque la postemation feai chero hebbi, doue infral'altrecosene n’entrauauna, chee' chiamaua Rob, un'altra Tartaro, e un'altra Al tea, per le quali mi credettii oche bisognasse mandare perese inqueste Isolenuoue ga porlunaera. Sapa; l'altra Grommadebotte, conl'altra Mal ud.A. Otulhaipropriodetto Giusto, concofil mondo, fetuconsideri bene, non è altro, tutto, che unaciurma, mafer Toscani attende fino a tradur. N. G. Che fannoe',co relefcientie nella loro lingua, 10 non fo dubbio alcuno, cheinbreuissimotempo, elauerrebbein maggior reputatione che ela non è, perche efiuedeche zao bontà gli auuiene solamente per la bellez. 2 me elapiacemolto, G ehoggi molto atesa desiderata, e questo fua naturale, laqua lcosa non conoscendo i forestieri, ben sepesso col uolerla troppo ri pulire la guastano, onde auuien proprioàlei, comeà una donna bela, che credendosi far piu bella conil lisciarsi, piufiguasta.G. Ocomepuoauueni-. requesto? A. Dirottelo, mentre che e cerca no per farla piu ornata di fare le clausule simili a quella de LA LATINA e vengono àguastarequelasua facilità & ordine naturale, nel quale consiste la bellezza di quella, oltre a questo piglieranno al cuneparolenfatequalcheuolta da Boccaccio, o da Petrarca, benche divado, le quali quanto mancole trouano usate daeßi, tanto paionolor piubele; co efarebbon gouari, altrefi, fouente, adagiare,fouer chio, & fimili, perchee' non hanno per natura ne IL VERO SIGNIFICATO, ne il uero fuono nell'orecchio, le pongon quasi in ogni luogo a bene spesofuor dipropofito, & cofile uengonoàtore la sua bellezza naturale. G. 1odubitochefee non gli sanno immitare in altro, e’non sipossadirelorocome dise Pippodifer Bruncllescoà Francesco dela Luna, che uolendo siscufared'unoarchitrame, ch'e   olihaueuafattosoprala loggia degl'innocenti, che laruvigneinsino in terra, col dire chel 'haueua Cauato del tempio de san Grouanni, gli rispose, tu, l'haiimitato appunto nel brutto. Maselalinguae diquella perfettionechetudiz donde uiene, chemot tidiquestiliteratibiasiman tanto coloro, chetra ducono qual cosa inquela? A : Etconcheragio mi? G. Dicon che la lingua non è atta, ne degna che si traduca in lei cose simil, & chesitoglielo void riputatione, & auxilisconsi molto. A. Tut tele lingupeer le ragioni che io ti dißi dianzi, sano atte ad ESPRIMERE I CONCETTI, G i bisogni dico lo socheleparlano;& quandopureelefußınoal trimenti, quei chel'usanolefanno,sichenonmial. legare piuquestascusa, cheelanonuale. G. O qual cagione adunchepuoesere, cheglimuonaa direche le cose che   liscono, fi traducono inuolgarefiauui & per don diriputatione? A. Quellache iotidissi l'altrogiorno, cheeracagioneditantial trimali, malainuidia maladetta, e il desiderio ch'egli hannodeesertenutidapiu degli altri. : G. Certamente iocredochetudicailnero, perche iomiricordo cheri trouando miaquestigiornidoue eranocertilitterati, & dicendouno che SEGNI (si veda) fa uolgare la RHETORICA ad Aristotele, uno dilorodise che egli haueuafato un gran male; & domanda codela ragione rispose, perche:   eno ista bene, ch'ogni uolo are habbiaasa per equel lo, che un'altro fihara guadagnatoin molti anni con gran fatica; supelibri grec. LATINI A. O parole disconuenienti. Io non no dir folamente a un Christiano, ma a chi un che é huomo, sapendo che quanto noi siamo obligati ad amar ciascuno cagio uarcl'unà l'altro, et moltopiua l'animacheal con poalaqualenonsipuofarmaggiorbenechefaci kitargliilmododelo intendere. G. Maftafalda e mi ricorda che dicono un'altracosa.A. Etches G. Dicono che le cose che si traducono d'una lingua in un'altra, non hanno mai quella forza ne quella bellezza, che ele hanno nella loro. A. Eleron hanno anche quella nella loro, che l'hanno nel’altre, perche ogni lingua ha le sueargurie, & le fue. capresterie, la Toscana forse piu che l'altre, et chinenuol sedere, leggadoue ALIGHERI (si veda) , orl PETRARCA han detto qual cosa che l'abia anchora deto qual che Poeta LATINO, et uedràche passaron lor di molte volteinnāzi, et cherarissimif onquelliche Jonrimasti. adietro. G. Si, ma nele tradutionifa debbe attēdere piu AL SENSO che alle parole. A.1056 che si traduce per cagione delle scienze, et non per ue. Derla forza è la bellezza delle lingue, et se’non  gr | fur fecofii ROMANI, che teneuonlalor linguaperlapru bella del modo, non harebbono tradottole cosedi Ma gone Cartaginese, & dimolti altri nela loro, nei   non lo fa per altro, se non pen che le cose fu eessendo conservare dalle lettere, che non uengon meno le voci, fienointese da tutto il mondo G. Tu giudiche adunche che il condurre le scientie nella nostra lingua fia benee? Ai Anzi affermo che non si posa far cosa piautilenep in lo deuole, perche la maggior parte degli errori nascono dall’ignorantia, e douerebbo noi Principiat tenderci, conciòsiachesieno come padri de popolis E tal padre non s'appartiene solamente Grec fimilmente chfeurontantsouperbi, & tan 92 tofi vanagloria na della loro, che chiama non tutti altre barbare, quelle degl’Egittij; o de Caldei. Niente dimancoesi debbe cercare nel tradurre oltreal'eferfideledi dir lecose piu ornatamente che sepuo, eo però è necesario a uno che traduce saper bene l'una lingua l'altra, G di poi poffe derbene quelecose, ò quele scientie chsei traduco 30, per poterle dire bene Gornata mente secondo imodi di quella lingua, perche à uoler dire le cose in una lingua con i modi del'altre, non hagratis alcuna, da se questofioferuaffe, il tradure non faa rebbeforse tantobiasimato- G. E dicono oltre di questo che si fa contro al'intentione dell’authore. A. O come puoessere questochesifacontro àl'in tentione dell’authore. A. O come puo essereque Stose chi unque scriue governare i figliuoli, ma insegnar loro coregerli, seno   2 STŮ VINbyCo. 93 noglion farquesto ditutelecosee'douerebbonals manco farlo diquele chesono necessarië 2 e .G.Et qualisonqueste? A. Leleggi, cosilediuineco mele humane. G. Et che utilitàare cherebbeque sto agli humani?A. Comecheutilita! Quanto fa rebbono eglinpiuamatori & piu defenfori dele cose appartenentia la Religione Christiana? se le comincia sino à leggere da puti, et dimaninma nofi esercita sino in quele, comefannogli Hebrci; la qual cosa non si puo fare,  non leh auendob entrở dotteinuolgare,& beneacconcie: G Non marauiglia fegl’ebrei fanno tuti si ben'parlare del le cosedelaleggeloro, òuadinsiàuergognarei Christiani, che insegnon leggere dilorofigliuoli ò insule letere di mercantia, òınsu certe leggende dano poter impararuisu cosa nessuna; doueedoue rebbono la prima cosa insegnar loro quello, cheap partienea l'esere Christiano, sapendo che quele cose che simpara non e primi anni, sono quele, che si ritengono sēprepiuche l'altre nella memoria. A. Et oltr ea questo, con quanta piu reverentia, attentione si sarebbe àgli ufici diuini  see' s’intendefe quel che dicono. G. Certamente che questo è uero. A. Dimmi conche diuotione, ò concheani molo lodano gli huomini Iddio, non intendendo quel che sidicono, tu fai pur il favellare delle putte, ca de papagali non si chiama fauellare; mammita   grati adisam Girolamoche traduse loro ogni cosa in quella line gua; come ueroam. Store della patria funt. G. Cene tamente Animi mia, che questa ina opinionemi piace molto. A. Ellati può piacere che ela é'anchora di Paulo Apostolo, che scrive     à Corintiche doue uonoancoresidire alcuni loroofitijinhes breo,com.diroloidiora Amen, sopralabenedition uostra, se egli non intende quel che si dice che frutto necauera e’mu? G. o dachevenne adunque, che quando questecosefuronocanate laprima uolta di hebreo, elenon furono moffeinvolgare? A. Perche all'hora per la mescolanza dele molte genti Barbare, che erano in quei tempi perlaItas tia, non ciera altra lingua che la latina, la quale fuf seintesa, quafi per tutto, Guedi che e non sitrous scritura alcuna diquei tempi fe non in questa me  tione di suono solamente perche e’non intendono quel cheesi dicono (conciosiache fane la reproa pria mente sia esprimere parole, che significhi noi conceti, quello, che intende colui che fanela) adunque il nostro leggere, ò cantare salmi, non intendendo quelche noi ci diciamo, è simile aungrac chiare d iputte, è cinguettare di papagalli nesoia ritrovare alcuna altra religione che la nostra, che tenga questi modi, imperò chegli Hebrei laudan de noi ddiain hebreo, i Greci, in greco; I LATINI; IN LATINO, con gli sciauo niinistiauone,  volgare, cosi le sacre come le ciuili.A. Dala maritia de Preti, defrati, che non bastandolos roquella portione delle decime che haueua ordina, toloroIddioper legge, àuoleruiuer tanto furtuo: Jamente come e'fanno, cele tengono afcolecce deendo no àpoco poco, comesidiceàminuto, in quel modo, peròche e'uogliono, spauentandogli huomini conmillefalfiminacci, i quali nonsuonan cosinela legge come egli interpretano, di masniera che egli hanno canato dimarioà pouerises colari piu chela meta di quel  desima, chseonolecosesacre,maquestobastu, circa àleleggi diuine.Veniamohoraale humane fe ele, fono quelle che hanno à regolare gli huomini, & secondo l'arbitrio delle quali si debbeuiuere, perche hanno elenoaesere in una lingua, che si intenda per pochi? I Romani che le feciono, & n'ebbonotā te da Greci, non lefecionperò in altra lingua che la loro; & cofisimilmente Ligurgo, Solone, & gli altri, che dette noleleggia tutta la Grecia, non le fecion però in altra lingua, che in quela che usana noi popoli loro . G. O s’ele fono cosi necessarie cometudi, donde uienė cheelenonsitraducono in che egli haueuano. G. Eh questo è un male che mi parechesidia non solamente ài sacerdoti, ma a ognuno, anzi non ceh nom che pensi ad altro fe non in che modo & potefjecauaree dánari dele scarfele d'altri, e    sto  mettergli nela sua, egliebëuero, chei Preti e Fra ti, egoi Notaichelo fannocon le parole sonpiuuse lenti deglialtri. A. Ehimeeno sarebbe uenuto lorfatrocosiagevolmente, seglihuomini hanesi no hauuto piu cognitione delescrituresacre, chee’nonhanno. Etlac agionechenonfi traduco no l'humane, è fimilmente lampietà di molti dotto rij@ auocati, checiuoglionuenderelecosecommu ni, e perpoterlo farmeglio, hannotrouato questo belghiribizzo, che i contratti non si poßinfare in uoloare, mi solamente in quela loro bela grammatica, che laintendon poco eglino, comancogl ialtri; somemurauigliocertamente, che gli huomini hat binmai sopportato tanto una cosasimile, sotola quale si puofaremille inganni. G. Et che e'non senefaforse, esarebbemoltopiuutile, cheefifaces fino nella nostra lingua, perchel'huomo intende rebbequelche e facese, & cosii testimoni quello che egli hanno àtestificare e vorrebbono uederlo scriuere al'hora, nò che pigliaßi noi nomi solamente, et poilodestēdesinoin sul protocoloàloro piacimë to, mettendo à ogni parola una cetera, che secondo me non è altro ch'ununcino, dove non intendendo quelche fi faccino, basta loro solamente diresi, ego non pensano ale conditioni che spessouisi comprendono; donde nascono poi millepiatt. A , Et per questo mi credo io che lo facino; onde ti uo dirque G47 totu uuoi. Ma de Preti, ede Fratinon udio gia che tu dica male; perche secondo che io ho inteso purdaloro, e non s'appartiene ài secolari, il riprender gli fto che noi non ci poßiamom ancodolerede Sacere dotic, or degl’avvocati, che si farebbono i sudditi di quei Principi, che uole sinucdere loro l'acquç Gil Sole. G. Di questi ti lascerò io dire. A. Ecco una di quelle opinioni che ficre deil mondo essere uera, per non hauer l'intendimento delle letere sacre. Dimmi un poco, non siamo noi tuti figliuoli di Dio, e conseguentemente frategli di Christo? G. Sifiamo. A. Etifrategls non sono equaliin quanto frategi? G. Sisono. A Adunque ancora noi come Christiani fi gliuoli di Dio, fiamoequali, e àl' un fratelos'ap partiene riprendere l'altro. G. Corestoèuero; ma egli hanno quella degnità del sacerdoria, che glif a piu degni di noi. A. O qual puo essere maggior dignità chel'esere figliuoli di Dio; uuoitu che il mi norlumecu opra il maggiore? egli è maggior degni tàl'effer Christiano, chel'efer Sacerdote,ò Prin. cipe, i quali sono ofituidatida Dio, & fannogli huomini ministri di Dio,tusaipurecheeglièpiues ferfeigliuolo d'unprincipe, che essere suo minifiro. G. Adunque io sono da piu che il Papa. A. Que stonò; cheegliè primieraměte Christiano cometes in questo noisiateequali; mapoiperesesreta   toeleto particularměte da Iddio, per suo miniftróz egli viene a esere in un certo modo dapiudite, per la qual cosa tu debbihonorarlo, come tuo maggiorez ma non per questo però tiè prohibito d ipotereriprē dere gli errori che e'fa, c &ommettecomehuomo, e come Christiano purch'efifacia, conquellari uerentiachein segnalacarita Glo amore del prof fimo, etchequestosiailuero, tunehailo esempio in Paulo Apostolo, il quale dice che riprese Pietro, che era fuo maggiore, perche egli era riprensibile subito ò egli miraculosamebte cadeua morto, ò egli n' eraportato da Drauoli farebbe da far loro come quel soldato, che hauendo tolto àun Fratel a metà di certo panno, che egli haueua accattato per ueftirsi, et minaccian dolo il Frate diri chi ed erglilo il di del Giuditio, gli tolequelresto; dicendo;poicheiohotanto tempoà pagarlo, io uoglio ancor quest'altro. G. In uerita che questa tua opinione non midispiace, ma io non uo giadırlaz perche oltre àl'autorità egli hanno ancora la forza, & fanno di poi conl'arme, ueggiēdo che non uaglionpiuloroles communiche; come nella primitiua chiesa; che quädoei male dina nouno, di se non haueßino altrearmi te che che le loro mala ditioni, e. G. Ehime, che non possono ancor fare degli altri miracoli ch'ei faceuano. A. Benlodises. AQUINO quando essendogli detto da Papa Innocentio, che ha . A. Certamen e OK gustato parte quando e' fu rapito elterze Cıelo) dicelle che no desidera altro, che 2 Heuaunmonte di danari innanzi, & contauagli; Tuuedi Thomaso, la Chiesa no puo piu dire come el la diceua anticamente; Argentum & aurum non eft mihi, Egli rispose; Ne anche furge etambula. GO tu fai tante cose anima mia, che tu mi faiueramë temarauigliare, et seimoltopiudotta, etpiuualen te; che io non credena; ma dimmiun poco; come hai tufato à saperle sẽzame; che mi hai pur detto, che noi siamo una cosa medesima, et che mentre che tu sei unitame co non puo operarefe non inme? A. O Giusto, quesatarebbe cosatroppolungt; io uoglio che noi indugiamoaunal trauolta, cheegl è gia di, tempo che tunadiale facende tue G. ohime. Tu di il vero, egli edichiaro affatto, oh come paffa uia il tempo che l'huomo non seneauuedde quando se fa, ò si ragiona di qual cosa che piacia altrui. V andoio consider tal uota meco med RAGIONAMENTO IH FRA cosmo BÀRTOLI E G. SOPRA LE DIFFICOLTÀ DI NEHERE IN REGOLE UL NOSTRA UNCSVA. AL MOLTO REVERENDO MESSER PIERFRANCESCO 6IAHBULLARI amico SUO canssuno G,. Da poiche voi volete pure, messer Pier Francesco mio onoratissimo, che io vi racconti il ragionamento stato tra messer Cosimo Bartoli e m quello stesso giorno che voi novamente fusto rieletto nel numero di quegli uomini che debbono riordinare e ridurre a regola la nostra lingua fiorentina; ed, a gli amici non si può né debbo negare cosa alcuna che giusta sia, mi sono risoluto in tutto porlo in iscritto, ma  semplice e puramente come e' nacque allora in fra noi, e a guisa pure di dialogo, a cagione che e la cosa sia meglio intesa, e si fugga il lungo fastìdio di quella tanto noiosa replica: disse egli, e  risposi io. E perchè voi sapete come noi altri la occasione in su che egli è nato, senza replìcarvela ora altrimenti, dico solamente che usciti de la Accademia accompagnando messer Cosimo a casa sua, sopraggiuntovi da la  sera, e desiderando fuggire quella crudezza de Farla che comunemente apporta la notte, passammo in casa, e appressò ne lo scrittojo. Dove ragionando di varie cose, e eadendo, non so in che modo, in su quello che si erd il di fatto ne l'Accademia, voltatosi messer Cosimo a me, riguardatomi alquanto, cominciò sorridendo a dirmi cosi: BariolL Io ho bene assai chiaramente conosciuto oggi, G. mio caro, esser sommamente vero quanto  dice Bartoli, contemporaneo di G., e uomo di molta dottrina e di molta fama  a' suoi tempi. È ambasciatore per Cosimo I alla Repubblica di Venena. 1a  c^ere die lascia son degne di escer tenute,  pia che non si fa, in pregio. diyinìssimo nostro ALIGHIERI  in  persona  d’Adamo  nel Paradiso: Che nullo effetto  mai razionabile,  Per lo piacere  uman,  cbe  rinovella  Seguendo  il  cielo, è sempre  durabile.   Gonciossiach'io  ho  veduto  dispiacerti  oggi  si  fattamente  ciò  che fanno  passato  tanto  ti  piacque, che con ogni tao studio e  ingegno hai pur fatto quasi che forza di non esser di nuovo eletto in quel piccol numero e scelto, che debbo ordinare e formare LE REGOLE DI QUESTA LINGUA NOSTRA; non per vietare o tórre ad alcuno la libertà e la facoltà di parlare e di scrivere a senno suo,  ma solo perchè,  essendoci alcuni  Accademici  assai  differenti  ne  la  pronunzia  e  ne  la  seri  tiara,  chi  vorrà  pure  apprendere  la  vera  e  natia lingua fiorentina, abbia almanco dove ricorrere a vedere il modo e la forma de V una e del’altra cosa comunemente iisata in Firenze. Il che nascendo pur da sincerità di mente e da desio di giovare altrui, non può essere giustamente se non lodato. E perchè le cose degne di loda si debbon sempre far volentieri,  non so io veder la cagione che ti abbia fatto cosi  fuggire una impresa tanto onorata. Ricordandomi averti sentito più volte dire, che tu porti si grande amore a questo nostro parlare, il quale, quando egli è favellato puro e senza mescuglio di forestiero ne la nostra pronunzia  propria, ti pare si bello,  che tu non puoi in maniera alcuna credere o imaginarti che e' fusse più beilo udire o GIULIO (si veda) CESARE o CICERONE  o qoal altro romano si sia, che alcuni di veri e nobili cittadini di Firenze, i quali per la loro grandezza abbino avuto il più del tempo a trattare di cose gravi,  e a mescolarsi poco  col VOLGO, CHE HA LINGUA MOLTO PIU BASSAe  parole  tìIì e plebee: dove, per l’opposito, costoro hanno parole scelte e facili, che oltre a la naturale dolcezza, di questa lingua, apportano un certo che di grandezza e di nobiltà; e massimamente quando essi parlatori hanno atteso a le lettere, esercitandosi ne gli studj, come  ne'  tempi  de  la  tua fanciallezza. Qnesto  periodo  soTercfaiamente  lungo  è  guasto  andie  per  questo  gerundio;  invece  del  quale  dicendosi  ricordami,  tornerebbe  meglio. sono Bucellai,  Biacceto,  Canacci,  Corsi, Martelli,  Vettori  e  altri litterati che  allora  si  raganavanoaTorto  de'Rncellai,  doye  to, quando ponevi  tal  volta  penetrare  io  maniera  alcana,  stavi  con  quella  reverenza  e  attenzione  a  udirli  parlare  tra  loro,  che  si  ricerca  proprio  a  gl’oracoli, E di  più  mi  ricorda  ancora  averti  sentito  dire  che  andavi  si  volentieri,  quando  ci  venivano  ambasciadori, a udirli  fare l’orazioni,  essendo in  qoe' tempi usanza che parlassino la prima  volta  pubblicamente. Di che sopra modo ti dilettavi, si per la differenzia che tu senlivi tra le lingue loro e  la  nostra,  e  si  per  udire  la  maniera  de  le  risposte  che  si  facevano  o  per  iGonfaloniere  che  fu  un  tempo Sederini,  o  pel segretario della  Signoria,  che  è  messer  Marcello  VIRGILIO (si veda),  uomo non  meno  elegante  e  facondo  nella  nostra  lingua  che  nella  latina,  e  non  manco  bel  parlatore  che  si  fosse  Soderini.  Sovviemmi  oltre  a  questo,  che  vivendo  Acciajoli  e  Guicciardini,  andavi  spesso  a  starti  con  loro, dii;endo  che, oltra  i dotti  ragionamenti,  essendo  e  l’uno  e  l’altro  litteratissimi,  ti  pigliavi  si  gran  piacere  de  lo  udirgli favellare,  parendoti  che  e'  si  fusse  cosi  ben  conservata  in  loro  la  grandezza  e  LA BELLEZZA DI QUESTA LINGUA. De  la  qual  cosa  lodi  ancor  oggi  Nardi  per  le  lettere  che  e'  ti  scrive  ;  e  messer  Vinta,  agente  ora  de  lo  illustrissi-  mo ed  eccellentissimo  Duca  nostro  appresso  la  eccellenzia  del  signor  don  Gonzaga,  parendoti  (secondo  che  tu  affermi)  che  egli,  ancora  che  Volterrano,  scriva  in  quella  pura  e  sincera  lingua  fiorentina  che tu hai sempre tanto pregiata. Queste cose, G. mìo caro, per parermi tutte, contrariea  quanto  oggi  ti  ho  visto  fare,  mi  inducono  a  maravigliarmi si  grandemente  di  questa  tua  mutazione,  che,  se  non  eh'  io  considero  che  tu  sei  uomo,  cioè  variabile  e  mutabile  come  è  la  natura  di  tutti,  io  non  saprei  quello  che  avessi  a  dirmi  di  te,  se  non  (parlandoti  piacevolmente  e  liberamente,  come  noi  sogliam  fare  insieme)  che  tu  medesimo  non  sai  ancora  quello  che tu ti voglia.   G. Messer  Cosimo  mio  carissimo,  voi  mi  siete  venuto a dosso  improvisamente  col  principio  d' una orazione tanto  consideraia  e  cosi  bene affortificata  da  tante  praoTe,  ehe io  non  80  qoasi  donde avenni a  pigliare  il  Inogo  o  la  via  da  poter  rispondere.  Tattavotta,  concedendoTÌ  quello  che  è  da  concedere, cioè  che  io  sono  umuo,  la  natora  de'  quali  non  è  fidamente  yariabile  e  matahile,  come  yoi  diceste,  ma  e  tanto  sottoposta  e  atta  ad  errare,  come  voi  forse  voleste  dire  e  per  modestia  non  lo  diceste,  che,  si  come  canta  la  santa  Chiesa, ogni  nomo  è  mendace  e  pieno  di  errori; e  negandovi, per l’opposito,  ciò  che  è  da  negare,  cioè  che  tale  malamente sia  nato  in  me  dal  non sapere io medesimo quello che io mi voglio, vi  rispondo,  per  isgannarvi,  che  se  mai  approvai  per  vero  quel  detto  che  Umvìo  dMe  mnUar  proposito  lo  approvo ora  e  tengo  verissimo;  poiché,  eletto  io  ancora  lo anno passato (come voi dite)  a  dare  regola  a  questa  lingua,  cominciai a  considerare  la  cosa  miAio  più  diligentemente  che  io  non  aveva  fotte  sino  a  qnell'  era.   Bartoli.  Egli  è  il  vero  che  questo  detto  è  molto  spesso  in  bocca  a  quegl’uomini  che  pare che  abbino  qualche  qualità più  degl’altri. Niente di manco,  se e' si considera bene il significato  di  questo  nome sapiente,  non  pare  a  me  che  e'  si  debbia  cosi  approvare  questo  motte  come  tu  di.  Perchè,  non  volendo  dire  altro  lo  esser  savio,  che  le  avere  una  vera  scienzia  e  certissima  cognizione  de  le  cose,  a  chi  è savio,  perchè  egli  ha  di  già  conosciate  il vero essere di  quelle, non  accade  mutar  proposito. Perchè  il mutarsi  conviene  solamente a  colui che  senza aver  conosciuto o vero,  rùsolutosi  troppo  tosto, vede  poi  finalmente,  o  per    e  per l’altrui  ammaestramento, di  avere errato;  e  non  volendo  mantenersi  nel  preso  errore, è  costretto  a  mutar  proposito. G. Voi  dite  il vero. Ma  il  conoscere  perfettamente  la  verità  de  le  cose non  è  si  agevole,  come  voi  forse  vi  imaginate:  anzi, per il contrario, è  tanto difficfle,  che  alcuni  filosofi usaron  dire  che  di  ciò  che  dicevan  gl’uomini  non è  vera  cosa  alcuna;  ma  che  quello  che  e'  chiamano  vero,  era  quel  che  pareva  loro. Della  quale  opinione  non  è  però  da  curarsi  molto;  si  perchè  e’si  leverebbon  via  tutte  le  scienzie;  e  si  ancora  per  averla  e  dottamente  e  argutamente  riprovata  e  annullata  il LIZIO  col  dire  che  non  essendo  vera cosa  alcuna,  venne  ancora  similmente  a  non  esser  vero  qael  che  dicevano  eglino. Sì  che,  se  bene si  paò  chiamare  solamente savio  chi  conosce  le  cose  secondo  il  vero  esser  loro,  e'  non  è  però  inconveniente  che  a  questi  tali  ancora  bisogni  a  le  volte mutare proposito, se non per il non aver conosciuto la verità,  per  la  occasione  almanco  de' tempi: i quali continovamente vanno si variando tutte le cose, che assai manifestamente si vede esser tal volta  bene  il fare  uno  effetto  in  un  tempo,  che  in  un altro non è  ben  farlo.  Benché  questa  non  è  propriamente  la causa per la quale io ho mutato proposito;  ma  solamente  lo  aver  considerata  la  cosa  molto  più  che  io  non.  ave  va  prima,  e  lo  averla  discorsa  fra  me  medesimo  molto  più  diligentemente  che  in  sino  allora. Bariolù  E  con  quali  ragioni? Perché  io  so  molto  bene  che  il  discorrere  non  è  altro  che  una  esamina  che  fa  sopra  le  cose  quella  nostra  parte  superiore,  da  ia  quale  noi  acquistiamo il  nome  d’animali  ragionevoli,  considerando  non  meno  ciò  che  fa  per  una  parte,  che  tutto  quel  eh'  appartiene  a l’altra.   G. Le  ragioni  e  le  diflicultà  che  non  solo  mi  hanno  fatto  levar  via  l’animo  daquesta  impresa,  ma  ancora  giudicarla quasi  impossìbile,  sono  e  molte  e  molto  potenti;  e  quanto  più  vi  pensava  intorno,  più  mi  se  ne  offerivano  sempre a  la  mente  de  l’altre  nuove. Di  maniera  che  io  posso  dire,  che  e' sia  avvenuto  propriamente  a  me  in  questa  cosa,  come  avviene a chi  vede  da  lontano  una  torre  o  altra  cosa  simile;  che  quanto  egli la  riguarda  più  di  discosto,  tanto gli  pare  minore  e  più  bassa; e  di poi,  appressandosele,  quanto  più  la  guarda  da  presso,  tanto  gli  apparisce  continovamente  maggiore  e  più  alta.  Cosi  ancora  io,  mentre  che  io  stava  lontano  al  mettere  in  atto  questa  formazione  delle  regole,  me  la  imaginava  piccola cosa;  ma  quando  poi  tentammo  porla  ad  effetto, quanto  più  la  considerai,  tanto  più  mi  parve  difficile.  Imperocché,  dovendo  principalmente  esser  questa opera  d'una accademia fiorentina,  mi si  appresenta  subito  all'animo, che  e’bisogna  che  ella  è  con  tanta  arte  e  con  tal  dottrina,  che  gl'uomini  non  avessino  a  dispreizarla. e  ridendosi  di  noi  e  di  quella,  dire  con  ORAZIO (si veda)  in  nostra  vergogna:   Parturient  tnontes;  nascetur  ridieuhu  mtu.   Sovveniyami  dipoi,  che  questo  nome  d’accademia  era  per  generare  negl’animi  delle  persone  un’espettazione  tanto  grande,  che  e'è  al  tutto  impossibile  il  corrisponderle: laonde,  ove  egli  è consueto  non  solamente  scusare  gli  errori  che  qualche  volta  si  riconoscono  ne  le  composizioni  de’privati,  ma  difendergli  arditamente,  affermando  che  chiunque  opera  merita  di  esser  lodato,  in  questa  nostra  impresa comune  avverrebbe  tutto l’opposito.  Perchè  i  forestieri, che  ci  vogliono  esser  maestri,  per  far  vero  il  detto  del  vulgo  che  t  più  dotti  manco  sanno,  si  porrebbono  con  ogni  industria  a  cercar  di  attaccar  lo  uncino;  e  gli  errori,  ancora  che  minimi,  chiamerebbono  sempre  gravissimi.  E  il  farla  in  ogni  sua  parte  con  tanta  considerazione,  che  alcune  cose  non  potessino  esser  chiamate  da  molti  errori,  credo  che  sia  al  tutto  impossibile. Bartoli, O  questo  perchè? G. Pela  diversità  de'  nomi  e  de  le  pronunzie  che  si  traevano  per  le  città  di  Toscana;  ciascuna  de  le  quali  pregiando più  le  sue  cose  che  quelle  d'altri,  stimerebbe  e  terrebbe errore  quello  che  in Firenze  sarebbe regola.  Ma  per  meglio  esplicarvi  ancora  questo  capo,  mi  bisogna  cominciarmi da  un  altro  principio. Ditemi  chi  fa  l' una  l' altra; o le regole le lingue, o le lingue 1q regole? Bartoli. £ chi non sa che le lingue fanno le regole, essendo quelle  innanzi che  queste;  e  non  essendo  fondate  queste  m  altro,    avendo  altra  pruova  che  le  confermi,  se  non  r  autorità  di  esse  lingue? G. E  da  questo,  essendo  egli  come  egli  è  vero,  nasce  che e’non si può far regola alcuna che sia veramente regola non solo a LA LINGUA TOSCANA, ma ancora  alla FIORENTINA:  e uditene la  ragione. Tutte le lingue del mondo sono, come voi vi sapete, o variabili o  invariabili. Le  invariabili sono quelle che non si mutano mai, per tempo o cagione alcuna, ma da quel di che  elle  hanno principio, insino  a che elle sono al mondo, sì favellano  sempre  in  qoel  medesimo modo: come è quella che gl’ebrei  stessi chiamano sacra, cioè quella della Bibbia, la quale dal suo  nascimento sino al di d’oggi si è  conservata sempre  la  medesima  appunto. E  se  bene  Esdra,  loro sacerdote,  dopo  la  servitù  babilonica vi  aggiunse punti ed accenti per farla più agevole a leggere, non  muta egli per questo    lo  idioma    la  pronunzia; laonde la  medessima lingua  favellano  ogfl^i  tutti  gl’brei,  in  qualunche  parte  del  mondo  e' si  truovino,  che  favellano i loro scrittori, e particularmente Mosè, il quale è il più antico che elli hanno. La qual cosa  è  veramente  maravigliosa: perché, non  i  mutando quasi le  lingue per altro che per mescolarsi que'cbe le parlano con genti d'altro idioma, quale è quella che dove essere più  alterata  e  più  variata  che  la  ebrea?  Gonciossiachè  i  Giudei,  dopo la cacciata loro di  Jerusalem, sono  già  MGGGG  anni,  senza  regno,  senza  patria e  senza  luogo  dove  fermarsi,  sieno  andati  continovamente  errando  sino  agli  estremi  fini  della  terra,  e  mescolandosi,  a  guisa  di  peregrini,  con  tutte  le  generazioni che il  sol  vede  sotto  il  suo  cielo.  E  nientedimanco  quella  lor  lingua  é  per  tutto  quella  medesima.   Bartolù  Ger lamento  che  ella  è  cosa  fuori  di  natura,  e  che  non  può  attribuirsi se non a Dio.  Il  quale,  avendo  dato  la legge  in quella,  e  fattovi  scrivere  tutte  le  cose  sacre  e  divine,  ha  voluto,  per  indubitata  testimonianza de  la  santissima fede  nostra,  che  ella  duri  incorrotta  sempre.   G.,  Di  queste  dunque  si  fatte  lingue  non  occorre  che  noi  parliamo,  essendo  manifestissimo  a  ciascheduno,  che  elle  possono  agevolmente  ridursi  a  regole,  o  pigliandole da  gli  scrittori  o  prendendole  pure  da  l’uso,  perchè  è  tutt'  uno. Ma le lingue che  io  chiamai  variabili non si favellano sempre in  un  modo;  anzi vanno variando e mutandosi di tempo in tempo, quando in peggii e quando in  meglio, secondo gl’accidenti che accaggiono in quelle provincie a chi  elle sono e private e proprie,  é secondo che e'vi vengono ad abitare genti d'un'  altra  lingua:  come avvenne, verbigrazia, in  ITALIA, nella venuta dei gotti e vandali, a LA LINGUA LATINA. E queste tali,  od  elle  sono  morte, cioè  mancate,  e  non si ha gionambnto intorno alla  lingoa;  parlano  più  in  laogo  alcuno,  ma  si  truovono  solamente  su  pe' libri  de  gli  scrittori;  od  elle  sono  vive,  e  si  parlano  ancora e  usano  in  qualche  paese,  come  è,  verbigrazia,  a  Firenze  LA LINGUA NOSTRA. Di  queste  ultime  due  maniere  tengo io  per  cosa  certa  che  LE MORTE SI POSSONO AGEVOLMENTE METTERE IN REGOLA, MA DELLE VIVE, CHE E’NON È SOLAMENTE DIFFICILE IL FARVI REGOLA ALCUNA PERFETTA  E VERA, MA CHE E’È QUASI AL TUTTO IMPOSSIBILE. Bartoli.  E per  che  cagione?   Gellù  Dirowelo.    voi    altro  mai  di  sano  intelletto  mi  negherà  che,  avendo  a  farsi  regole  d' una  lingua,  e'  non  si  deU)a  pigliarle  da  lei,  quando  ella  fu  favellata  meglio  che  in  alcuno  altro  tempo;  essendo  cosa  pur  ragionevole,  quando  si  hanno  a  pigliare  per  regola  le  operazioni  d'una  cosa,  pigliarlequando  ella  opera  meglio;  il  che  le  avviene  quando  ella  è  nel  suo  perfetto  essere.  E  chi  sarebbe  mai  quello,  se  non  forse  qualche  stolto,  che  avendo  a  pigliare  per  esemplo  le  operazioni  d' un  uomo,  pigliasse  quelle  che  e'  fa  ne  la  puerizia,  quando  i  sensi  suoi  interiori,  per  essere  di  troppa  umidità  ripieni  quelli  organi  ne'  quali  e'  fanno  lo  ufizio  loro,  non  potendo  porgere  a  lo  intelletto  la  facultà  che  a  perfettamente operare  gli  è  necessaria,  non  ha  esso  uomo  libero l’uso de la ragione,  e  vive  più  tosto  secondo  la  natura, che  secondo  la  mente  sua?  o  veramente  le  azioni  che  egli  fa  in  quella  parte  de  la  vecchiezza,  ne  la  quale  i  sangui,  per  il  mancamento  del  caldo  e  de  V  umido  naturali,  raffred-  dati e  diseccati  più  del  dovere,  non  somministrano  a'  medesimi sensi  gli  spiriti  atti  ed  accomodati  a  le  loro  operazioni? Ninno  certamente,  mi  penso  ;  ma    bene  quelle  che  egli  fa  ne  la  sua  età  migliore:  la  quale  indubitatamente  sarà  nel  mezzo  e  nel  colmo  de  la  sua  vita;  come  poeticamente  lo  mostra  il  divinissimo  nostro  Dante,  dicendo  essersi  accorto,  che  la  vita  nostra  era  una  oscurissima  selva  di  ignoranzia :   Nel  mezzo  del  cammin  di  nostra  vita  ec.   Bartoli.  Bella  certo  e  dottissima  considerazione.  Ma  sta  saldo,  G.;  e  prima  che  tu  proceda  più oltre, dimmi: come si puo egli  trovar già  mai,  parlando, come  e' pare  che  la faccia,  propriamente  ed  esattamente,  questo  colmo  de  la  vita  e  questo  essere  più  perfetto,  nelle  cose  generabili  e  corruttìbili? Le  quali si  come  misurate  dal  tempo,  essendo  sempre  in  moto  continolo,  non  vengono  a  stare  già  mai  in  uno stato medesimo, se non in uno instante si indivisibile, che e’non è possibil segnarlo in maniera alcuna: per  il  che  viene  a  essere più  che  impossibile,  che  e'  vi  si  troovi  dentro  fermezza.  G. Confesso  io  ancora  che  questo  è  vero ,  se  voi  intendete per  la  fermezza  il  mancare^d'  ogni  moto. Ma questo non  è  quello che io voglio inferire. Anzi dico, che in  tutte  le  cose  le  quali  dopo  il  principio  loro  salgono  al  sommo  e supremo grado  de  la  loro  perfezione,  conviene  di  necessità  concedere,  avanti  che  elle  comincino  a  scenderne, un  certo  spazio  di  tempo ;  nel  quale  elle  non  salghino  e  non  ìscendino,  ma  stiano,  in  quanto  ad  essa  perfezione,  quasi  che  ferme,  e  in  uno  stato  medesimo:  essendo  di  necessità  che  in  fra  due  moti  contrari  si  truovi  sempre  un  po' di quiete;  perchè  altrimenti,  o  non  finirebbe  mai  l'uno,  o  non  comincerebbe  mai  l'altro  moto.  E  questo  lo  potete  voi  chiaramente  cono-  scere in  un  sasso  tratto  a  lo  in  su;  il  quale,  poi che  con  la sua  gravitade  ha  superato  la  forza  di  quella  aria  che,  fessa  violentemente  dal  braccio  di  chi lo trasse, correndo con grandissima celerità  a  richiudersi  perchè  quel  luogo  non  restì  vóto,  continovamente lo pigne  in  su,  se  egli  non  si  fermasse  alquanto,  non  tornerebbe  mai  a  lo  in  giù.  Gonciossiachè,  non  si  fermando,  egli  anderebbe  sempre  a  lo  in  su;  e  andare  in  su  e  tornare  in  giù  in  un  tempo  medesimo  (rispetto  a  la  natura  de'  contrari,  che  non  patisce  che  eglino  stiano  insieme  in  un  medesimo  tempo,  in  un  subietto  medesimo)  non  è  possibile.  Adunque  egli  è  necessario  in  tutte  le  cose  che  dopo  il  principio  loro  hanno  accrescimento  e  dicresci-  mento  di  perfezione ,  che  e'  si  ritraevi  tra  V  uno  e  l' altro nn certo  spazio  di  tempo,  nel  quale  elle  restino  di  acqui-  starne più, e non comincino ancora a pèrderne:  il  qual  tempo  è  chiamato  da' filosofi  lo  stato,  ed  è  cosa  osservata  molto  da'  medici  ne  le  infermità  umane.  Ma  se  voi  volete  vedere  ancor  meglio  questo  che  io  dico,  leggete  quella parte  del    Convivio  del  nostro ALIGHIERI,  dove  e'  tratta  de  la  etÀ  del’acino,  e  resteretene  capacissimo.   Bartolù  Orsù,  sta  bene:  ma  che  vnoi  ta  dire  per  questo?   GeUi,  Yo'dire,  tornando  al  nostro  proposito,  che  non  si  potendo  sapere  ne  le  lingue  vive  quando  sia  questo  loro  stato  e  questo  colmo  de  la  loro  perfezione,  egli  non  si  può  ancora  conseguentemente  farne  regole  perfette  e   intere.  Perchè,  se  bene  e'  si  può  sapere  mediante  gli  scrittori  di  quelle  quando  meglio  che  mai  elle  si  siano  favellate  per il  passato ,  nessuno  è  però  che  si  possa  promettere  per  il  futu-  ro, che  insino  a  che  elle  non  mancano,  elle  non  si  possino  favellar  meglio,  e  cosi  che  e' non possino  surgere'  ancora  alcuni  scrittori  che  le  scrivine  molto  meglio.  Come  potete  voi  mai  sapere  quale  sia  il  mezzo  o  lo  stato  d' una  cosa,  de  la  quale,  se  bene  voi  avete  il principio noto, voi non potete però non solamente sapere quando ha ad  essere  il  fine  suo  determinatamente,  ma    anco  imaginarvelo  per conìetture; come forse la  vita e dell’uomo e di molte altre cose, le quali quando sono arrivate alla  lor  vecchiezza,  agevolmente si  può  farne  la  coniettura  quando  ha a  essere  la  morte loro;  non  essendo  però  di  quelle,  a  chi  è  concesso  da  la  natura  il  rinovellarsi, come, verbigrazìa, rerbe  e  le  pianle  la  primavera. MA LE LINGUE NON SONO DI QUESTE. Resta  dunque,  non  si  potendo  saper  lo  stato  de  le  lingue  che  vivono,  che  e'  non  se  ne  possa  ancora  formar  regola  alcuna  ferma  e  vera:  il  che  non  avviene  de  le  già  morte,  come  ne  avete  lo  esemplo  chiaro  ne  la  latina.  Ne  la  quale  considerando  i  gramatici  cbe  ne  hanno  scritto  quale  fusse  stato  il  processo  suo,  e  giudicando, come  è  il  vero,  il  colmo  di  quella  essere  stato  NE L’ETA DI GIULIO (si veda) CESARE, CICERONE (si veda) E VIRGILIO (si veda);  perchè  ne’tempi  di ENNIO (si veda) e  di  PLAUTO (si veda) si  vede  che  ella è  nello  augumento,  e  in  quegli  poi  di SVETONIO (si veda) e  di  TACITO (si veda),  nel  discrescimento, FONDARONO TUTTE LE REGOLE LORO SOPRA IL PARLARE DI GIULIO (si veda) CESARE, CICERONE (si veda) E VIRGILIO (si veda), affermando  che  ciò  che  si  dice  per  lo  avvenire  nella  maniera  de’ sopra  detti,  sempre  sarebbe  DETTO BENE E LATINAMENTE,  e  massime  secondo  GIULIO (si veda) CESARE e CICERONE (si veda);  per  esser  lecito  e  conceduto  a’poeti  lo  usare  spesso  molte  cose  ne’versi  loro,  che  non  si  comportano  nella  prosa. Ma questo non si può fare ne la lingua fiorentina, e molto manco ne la toscana, che vivono  ancora, e  non  hanno  scrittori  da  fondarvi lo intento  sno,  non  si  sapendo  se  elle  sono  ancor  pervenute al  colmo  de  Varco. Bartoli,  E  se  questo  non  si  può  fare  per  via  de  gli  scritti,  chi  vieta  che  e'  non  si  faccia  almanco  per  via  de  lo  uso?   G..  E  di  quale  uso?  Oh  questa  è  l' altra  difficultà,  e  non  punto  minore  de  la  precedente.   Bartoli.  E  perchè?   GeUi.  Perchè  ne'  tempi  nostri  non  avviene  di  questa  lìngua  QUELLO CHE NE’TEMPI DE’ROMANI AVENNE DELLA LATINA; che  essendo  propria  d'una  nazione  che  domina  allora  ad  una  grandissima  parte  di  questo  mondo,  era  tanto  stimata  e  onorata  da  ciascuno  de'  soggetti  loro,  e  in  Italia  massimamente,  che  e' non  si  trovava  nohile  alcuno  e  da  farne  stima, per qual si voglia città, il quale non si ingegna di parlar LA LINGUA ROMANA. SI  perchè chi non  sa  è d’essi  chiamato BARBARO, cioè  persona inculta e di rozzi e aspri costumi; e si ancora per ì bisogni ch’occorrevano giornalmente ne  le  faccende  é  private  e  publiche;  avendo  comandato I ROMANI in  tutte  le  loro provincie,  che  e'  non  si  potesse  agitare  causa  alcuna  criminale  o  civile,    far  procèsso  od  ìnstrumento  alcuno,  se  non IN LINGUA LATINA [cf. Gramsci – italiano: ambito privato; latino: ambito pubblico – contro Francia]. Ad  imitazione  de’quali,  per  quanto  io  n'ho  inteso  dire da  Benci,  che da venticinque anni in qua ha usato molto la Francia,  e come  voi  vi  sapete,  oltra  le  pratiche  mercantili  ha  qualche cognizione  ancora  de  le  speculative,  ordina  il  padre  di  questo  re,  che  e' si  fa  cosi  in  franzese  per  tutto  il  dominio  suo:  il  che  osservatosi  fino  ad  ora,  ha  tanto  migliorata  e  fatta  più  bella e  ricca  quella  lingua,  che  è una maraviglia a chi  lo  considera.  e  il  re  che  vive,  Arrigo  II,  imitando  le  vestìgio del  padre,  oltra  il  fare  osservare  quello  ordine,  fa  ancora  e  carezze  e  cortesie  grandissime  a  chi  traduce in  essa,  o  fa  opera  di  arricchirla  e  farla  perfetta. Bartoli. Bella  impresa e  degna veramente d'un  principe,  amare  e  onorare  la  sua  lingua [Grice – cf. The Prince of Wales]: atteso  massimamente che nessuna  può  sormontare e venire in  riputazione  senza il favor  del  principe  suo. Non  sarebbe  dunque  stato  diflScile  a  ehi  ha  voluto METTERE IN REGOLA LA LINGUA LATINA  in  que'  tempi  ehe  ella  è VIVA,  poi  che  gli  basta  osservare  solamente  Io  uso  e  il  modo  che  teneno i  cittadini  romani:  p^chè  non  era  in  que’tempi  ehi  ardisse  pre^rre  la  sua  lingua  a  qoeUa,  e  non  confessare che la vera  pronunzia e IL VERO O NATURALE MODO DI FAVELLARE è quello  de' ROMANI,  altrimenti detto FAVELLARE LATINO. Ma  non  può  questo  avvenire  a  noi  de lla  nostra,  essendo  in  Toscana TANTI PRINCIPATI E TANTI SIGNORI; li  stati  de’quali,  se  non  in  tutto,  hanno  pure  in  parte  ciascuno,  come io  dico  in  quella  mia  traduzione a  lo  illustrissimo  e  reverendissimo  Cardinale  di  Ferrara,  qualche favella e pronunzia propria, varia e diversa da tutte l’altre, e PARENDO A CIASCUNO CHE LA SUA È MEGLIO. Perchè noi non ci  abbiamo  imperio alcuno  cosi  grande,  che  e’muova  come  I ROMANI le  città  sottoposteli a  cercare  spontaneamente di  favellare ed onorare quella lingua che favella chi le comanda.  Gonciossiachè, quando ben  la  Toscana  tutta è  comandata  da  un  signor  solo,  l’imperio  suo,  per avere  ì  confini  si  presso,  non  è  mai  di  tanta  grandezza,  che  e'  è oiiorato  e temuto  quanto è  allora  quel  de’romani.  Imperocché i  suggetti  a  loro, essendo  privi d' ogni  speranza  di scir mai  di  tale  servitù,  non  aveado  principe  aieuno all’intorno  dove  ricorrere  quando  e’pensassero  di  ribellarsi,  sono  necessitati,  SE NON PER AMORE, ALMENO PER TIMORE, a far ciò che piace a’ROMANI.  Bar  Ioli. Io  cedo,  e  confesso,  quanto  a  la  grandezza  e  FORZA ROMANA,  che  egli è  vero  tutto  quel  che  tu di. Niente  dìmanco,  e’si  vede  pur  manifestamente  ne’tempi  nostri,  che  molte  persone  di  quakhe  spirito,  i»8i  fuor  d' Italia  come  in  Italia,  s’ingegnano  con  molto situdiodi  apprendere  e  di FAVELLARE QUESTA NOSTRA LINGUA  non  per  altro  che  per  amore.   G. Egli  è  vero  che  QUELLO CHE NELL’ÈTA DE’ROMANI FA LA FORZA LO FA OGGI LA BONTÀ E LA BELLEZZA DI QUESTA LINGUA.Ma  perchè  coloro  che  la  desiderano  e  cercano  per  loro  stessi  come  cosa  buona, la  appetiscono  edamano  in  quella [Intende  la  tradniione  dell'opera  di  Porzio  del  modo  di  orare cristianamente. Qui parla di cose dette  nella  lettera  dedicatoria. maniera  che  si  desidera  ed  ama  il  bene,  ella  è  ancora  di poi  seguitata  e  adoperala  come  esso  bene,  cioè  da  ì  meno,  e  non  da  i  più.  Ma  datò  che  e’fosse  il  vero  che  ognuno  cerca di  FAVELLARE IN LINGUA TOSCANA, e  desidera che  e'  se  ne  facessi  regole,  donde  si  arebbe  poi  a  cavarle, non ci essendo  ciltade  alcuna  che  signoreggi  tutta Toscana?  Perchè  i lucchesi, i  pisani,  i  sanesi,  gl’aretini,  e  qualunque  altra  città  di  questa  provìncia,  dice  sempre  che  LA VERA LINGUA [cf. Geach, True Scotman] e  pronunzia  losca  è  VERAMENTE LA SUA;  e  il  cavare  una parte di esse regole d’una  città e l’altra d’un' altra,  scegliendo, come dicono  alcuni, il  meglio,  per fare un  composito di tutte quante,  è  cosa  molto  difiScile,  e poi  forse  anche  non approvata e non  osservata,  non  ci  essendo chi la  comandi. Bartoli.  Oh,  io  non  penso però  che il  luogo donde cavare  le  regime  ha molta  difBcultà; non  essendo se  non  rarissimi que’che  volendo  imparar  la  lìngua  piglino  altri  autori  che  ALIGHERI (si veda),  PETRARCA (si veda) e  BOCCACCIO (si veda);  i quali essendo pure tutti e tre di  Firenze,  mostrano assai  manifestamente donde    debba  imparar  la  lingua. Non  ostante  che  alcuni,  poco amici  per  avventura  del  n  che  poi  the  g^i  uomini  hanno  ricomincialo  a  considerarla, come  fecero  qnegli  de  r Orto,  e  ad  osare  i  modi  de tre  nostri  Inmi ella  é  tanto  migliorata  a  poco  a  poco,  che  io la tengo  oggi  nsolto  piA  bella  universalmente,  che  eOa  non  era  ne'  tempi  loro;  e  che  se  eglino  scrissero  cosi  bene  allora  (^il  che  fn  molto  più  da  impotare  a  lo ingegno  loro  che  a  4a  bontà  de  la  Ikigoa),  scriverebbero  molto  meglio  oggi  :  non  essendo  necessitati  da  la  povertà  Òe  la  lingua,  che  oggi^  è  ricchissima^  ad  osare  quelle  parole  che  più  non  piacciono,  eqoe'  modi  ohe  son  fuggiti  da'  nostri  orecchi;  di  modo  c^e  nel  volto  ancora  del  Petrarca  non  si  scorgerebbero  q«e'  pochi  avvegnaché  pic^  eolissimi  nei, che i ben purgati giudizj vi riconoscono.  G..  Io credo che voi giudichiate bene, e che la cosa stia come voi  dite. Maio voglio andare un passo più là, e dire, che essendo ancor VIVA LA LINGUA NOSTRA, e in maggiore  speranza d’avere a vivere, che ella è fom ancor mai, egli non si può affermare che la nstnra  (la quale iton si  stracca e non invecchia mal, anzi, se bene ella varia talora alquanto, è por sempre quella medesima) non possa e  non ha ancora a produrre de gì'ingegni simili a loro; i quali, trovando LA NOSTRA LINGUA in  molto  maggior  perfezione che non la trovano i  sopradetti,  serivino non solamente bene cernie qoelli,  ma forse ancora  assai meglio di loro. Bartolù  £ questo similmeiite  mi par  di credere,  essendosi veduto ne’tempi nostri che in quaiuncàe faciità, e particolarmente nella  architettura, pittura e  scoltura,  ha  la nostra  città  generati  aiconi che  non solo  haano  paseggiaU  i  famosi  antichi, ma  forse  ancora  avanzatili  in ^oalohe  cosa. G. Non  si  poò  donqoe  dire  dM  ella  sia  ne  lo stato  Mio> veggendosi come di giorno in  gèomo olla va «i  soo augomento;  e  potendosi  agevdmente  far  conieltara  da  te cose  che  soprareiigoDO,  ehe  ella  abbia  ancora  a  farsi più  ricca  e  saolto più  beUa.   MartoU.  E  q«ali  Mm  questo  cose Gello?   GeUù  Molte  e  molte  sono,  messer  Cosimo;  e  dae  sopra  tatto  l'altre.  L'nna  de  le quali è la  moltitadine  grande di ei^oro  che  oggi  si danno,  in Firenze a LA LINGUA LATINA;  i quali imparando quelle con regola, avellano di poi ancora  reg<^tamente  la nostra, e con  leggiadria; e da questi imparando gl’altri,  mossi da quello ingenito desiderio ohe ha ciascuno di non volere, in  quello che egli può,  essere in maniera  alcuna soprayanzato da i suoi pari, faranno di mane in mano la lingua più  bella più  onorata, si  col  parlare e si col tradurre,  arrecandoci le scienzie  e l’arti  che  elli  imparano  nell’altre  lingue.  L'a&tra  è  il cominciare  i principi  e  gl’uomini  grandi  e qualificati  a  scrivere  in questa lingle  importantissime cose  de’governi  degli stati, i  maneggi  delle guerre e  gl’altri negozj gravi delle faccende, che da non molto in dietro si scrive tutti in LINGUA LATINA. Perché,  non  vi date a intendere ehe una  lingua diventi mai ricca  e  beila  per  i  ragionamenti  de’plebei  e  delle  donniciuole,  che FAVELLAN sempre  (rispetto  a  lo  avere  concetti  vilis6imi)di  cose  basse:  chò  e'  sono  solamente  gl’uomini  grandi  e  virtuosi,  quelli  ehe  inalzano  e  fanno  grandi  le lingue; imperocché,  avendo  sempre  concetti nobili e alti, e trattando e  maneggiando  coae  di gran momento, e ragionando  bene  spesso  e  discorrendo sopra  quelle  in  prò  e in  contro,  persuadendo  o  dissuadendo, accusando o lodando,  e  talvolta  ancora  ammonendo e  insegnando,  fanno le lingue loro copiose, onorate, ricche  e leggiadre. Per queste  due  cose  adunque, ancora ch’altre  cagioni  non  ci sono,  si  può  giustamente  sperare  ^M  LA NOSTRA LINGUA ha a  essere ancora un giorno tanto pregiata appresso molti che nasceranno, quanto è oggi  appresso di noi la  latina. E  conseguentemente  concludo, che  non  essendo  ella  ancor  pervenuta  allo  stato  suo,  non se ne puo far regola, che in tempo non molto lungo non abbia a scoprirsi defettuosa, e non più tale quale oggi forse ci apparirebbe. Si come avviene, per esemplo, ne la pittura; dove i ritratti de giovanetti, se bene  gli soniigliono interamente quando e' son fatti y  non  vi  corre  però  gran  tempo che,  cambiandosi lo aspetto del ritratto nel farsi egli nomo, tanto varia  la effigie, che non lo somiglia più, né  apparisce  più  qnel medesimo. BartolL  Orsù, pongbiamo  per  le  tante  cose  allegate da te,  cbe  a  r  Accademia  non si convenga il fare queste  regole: vuoi  tu  però  affermare  al  tutto,  che  una  persona  privata  e particolare,  lasciando favellare  ad  arbitrio  loro  qualonche  città  e  luogo  de  la  Toscana, senia  difettargli o ripotargli da  meno per questo, non possa  al manco  dai  tre  primi  nostri  scrittori e dall’uso  di  Firenze formare le regole, che a'tempi d' oggi insegnino  favellare  rettamente  a’Fiorentini  stessi, e  a  chi  pur  volesse  imitar?  G. Oh  questo  no,  messer  Cosimo; perchè  io  mi credo  pure,  che  un solo, in suo nome  proprio  e  non  d’accademia, con tutte quelle avvertenzie che voi avete dette, sicuramente le possa fare. Bartoli,  E con  qoal  ordine?  o  in  che  maniera? G., Dirovvelo:  ma  perchè  voi  mi  intendiate  più  facilmente, avvertite che questa lingua, come quasi tutte l'altre cose di questo mondo, ha  due parti principali; la materia, cioè, e la forma: la materia sono le parole de le quali ella è fatta; e la forma è qod modo e quell' ordine col quale son conteste e  tessute  insieme  l’una  parola  con  l’altra,  che  si  chiama  ordinariamente LA COSTRUZIONE. Di queste due parti la materiale, o delle parole,  non  tengo  io  per  molto difficile a metterla in regola; ancora  che  ella ha  forse  bisogno  di  lungo  tempo,  rispetto  a  l’aversi  a  fare  un  vocabolista  di  tutte  le  voci  che  s’usano,  come  ha  già  cominciato  il  nostro  Norchiaio,  prima  che  morte gli troncasse il volo. Ma  della  costruzione, o  volete dire della FORMA, nella quale consiste tutta la bellezza e la leggiadria della lingua, e appresso di noi è per avventura molto più dolce che ne' nostri vicini, non  so io come  ella  possa  mostrarsi  meglio che  dagl’esempi  de'  tre  scrittori. Bartolù  Oh  G.,  e'  mi  ricorda,  a  questo  proposto  de  la dolcezza  de  la  testura  del  parlar  nostro,  che  messer  Piccolaomini,  persona dottissima e tanto rara qaanto lo sai,  ritrovandosi  in  casa  mia,  e  leggendo  aicani scritti    questi  nostri,  rivoltatosi  a  me, dice:  come  può  e'  mai  essere,  messer  Cosimo  mio,  che non essendo le patrie nostre più lontane l’ttna da l’altra che trenta miglia, noi altri non abbiamo le clausole  cosi  dolci  e  gli  andari  tanto  piani e si ordinati,  quanto gli veggiamo  e  sentiamo in  voi  Fiorentini? G.  £  voi  vedete  bene  che  tutti  costoro  che  fino  ad  oggi  hanno  fatto  le regole  del  parlar  toscano, distendendosi  ne  le  declinazioni  solamente, si  hanno  passato  la  costruzione  senza parlarne  se  non pochissimo, come cosa troppo difficile e ad essi forse mal riuscibile. Laonde, circa il formare queste regole,  non maffaticherei molto ne là prima parte; ma dichiarate LE PARTI DELL’ORAZIONE, e dimostrate le declinabili  e l’indeclinabili,  e  gl’esempli  de’verbi,  massimamente con quella diversità  che  è tra l'uso  moderno e quello che  e' dicono de' nostri antichi,  me n’andrei  tutto  a  la  costruzione. Ne la quale, consistendovi tutta  la  importanzia  di  questa  lingua,  vorrei  io  certamente usare  una diligenzia più là che estrema, togliendo  da’tre sopra  detti  tutto  quel  che  è  ben detto.  Il che,  al  giudizio  mio,  solamente  sarebbe  quello che  l’uso  di  oggi  si  mantene;  essendo l’orecchio  nostro  inclinato  naturalmente  a  lasciar  sempre  le  cose aspre, dure e difficili, e seguitare le dolci e le facili. Per la qual cosa, giudicando io che oggi si favelli meglio in Firenze che in nessun  de’tempi  passati,  attribuisco  molto  a  l’uso, non di mercato e del vulgo vile, ma de’nobili e qualificati de la nostra città. Bartoli. Questo è appunto l' ordine stesso e il modo che il nostro GiambuUari tenne in quelle sue regole, che egli, già son tre anni, dona allo illustrissimo signor Don Francesco de’MEDICI primogenito di Sua Eccellenza. G. Voi dite il vero, che il GiambuUari che mi è quello amico che voi sapete, me le conferi molte volte, e massimamente r anno passato, quando siamo in questo maneggio: e perchè e'mi parve sempre che egli trova la vera via, e con una diligenzia maravigiiosa  fatto  ciò  che è possibile farsi in questa materìa, però metto io a campo di nuovo lo stesso modo die egli tenne. Ma perchè non le comunica egli ora mai con  la stampa a taUe le genti che le desiderano? BartoìL Sta di buona TogUa, G., che io ne Tho tanto contaminato che  egli  finalmente  mi da  non  solo  esse  reg(^9  ma e libera e pimia  licenzia  che  io ne  &ccia la  vof^ia  mia. E cosi fra non molti giorni comincerò a fturle stampare,  che di tanto son convenuto col Torreatmo. GM.  Sollecitate  dunque,  messer  Cosimo mi,  perché farete gran benefizio a chi desidera imparar dal buono. Maperchè  noi  siamo  oramai vicini a  l'ora  de la  nostra cena,  rimanetevi con  Dio,  che  a  casa  sono  aspettato. Bartolù Dì grazia, cena con esso meco. G. Non questa sera, messer Cosimo, che dovendo trovarmi in un altro luogo, non posso mancar de la mia promessa. Restate con la buona notte. BmtkdL Poi che cosi ti piace, va' ool oom di Dio. Tanto fu, messer Pierfranoesoo  mio  onorando,  il  ragionamento che avete chiesto; e messer Cosimo nostro ve ne può render testimonianza: Catene adunque come di cosa vostra, che io ve ne fo un presente, e vivete felice ricordandovi che G. è vostro. Di  Firenze. Come ora si direbbe  importunato, o seccato. Velia  Crusca  non  è  con  questo significato.  Io non credo, magnifico signor Consolo, prudentissimi Consi glieri, e voi altri virtuosissimi Accademici e maggiori miei ono randi, ? che con voi, i quali sapete i nostri ordini, e come più per imparare esercitandomi,che per insegnare ad altri,io sia salito oggi in questo luogo,sia di bisogno che io ne faccia seusaalcuna. Ma perchè forse qualcun di quest'altri uditori potrebbe ingiustamente incolparmidi presunzione, essendoioil primo che dopo due si dottissimi e famosissimi uomini, mes ser Francesco Verini filosofo eccellentissimo, e Dazi tanto nella greca e latina lingua celebrato, sia salito sopra que sta onorata cattedra, non vi sarà grave comportare che in escusazione e scarico mio io dica loro alquante parole. Nobilissimi uditori, iquali tirati dalla fama dei valenti uomini che insino a questo giorno hanno letto in questa nostra Acca demia siate venuti qui,se ilritrovarci in cambio di quegli oggi m e, il quale sa re i molto più atto a tacere che a parlare, v i a r recherà maraviglia,non dovete perciò incolparmi di presunzione. Imperò che avendo ordinato questi miei maggiori Accademici, che per esercizio nostro, per esaltazione di questa nostra lin gua nativa, e per imparare a esprimere in quella i nostri concetti, ciascuno di noi legga una volta quello che più gli piace, ha voluto la sorte che io sia il primo a dar principio a così lode devole, ese io non me ne inganno, utilissimo esercizio. Nè debbe. Le parole e maggiori miei onorandi mancano nella 2^ T.  La 1a T., ingiustamente potrebbe. La fa T., auditori. certamente esser preso questo se non per buono e felicissimo augurio di questa nostra Accademia.Perciò che se le cose che fa la natura sono più ferme e più stabili che quelle della fortuna, per procedere quella con ordine e questa senza, ed essendo l'ordine della natura andare sempre dallo imperfetto al perfetto (si come noi manifestamente veggiamo verbigrazia? nella creazionedell'uomo, dove ella fa primieramente un pezzo di carne, il quale è solamente animato d'anima vegetativa come le piante, dai medici chiamato embrione, e secondariamente infondendovi l'anima sensitiva lo fa animale, e finalmente gli dà l'anima razionale, la quale è l'ultima perfezione sua), dove senza dubbio questa nostra impresa aver anch'ella felice successo, da che io, che sono il più insufficiente di sì bel numero, sono il primo a darle principio. Se dunque voi non, udirete oggi da me cosa degna de’passi spesi da voi a venire in questo luogo, non mancherete però di venire a udire quest’altriche dopo me leggeranno; da i quali, per esser queglio e per natura e per professione di gran lunga più sufficienti che non sono io, caverete tal frutto, che di que. stie di quelli vi ristorerà largamente.  La lezione nostra è un luogo d’ALIGHIERI ne Paradiso; il quale, per trattare alcune cose del parlare, mi è parso molto al proposito nostro, essendo questa nostra Accademia stata principalmente ordinata per utilità di questa lingua, o per dir meglio, usando le parole stesse del nostro BOCCACCIO (si veda) nella quarta giornata, di questo nostro fiorentino, volgare. Presterretemi adunque grata udienza come avete cominciato, se non per altro, almeno per dare animo a coloro che dopo me leggeranno; da i quali senza comparazione caverete maggiore diletto Se maggior frutto. Ma vegnamo alla nostra lezione.  La 1a T.,di quella. ? verbigrazia è della 2a T. 3 La 1a T., solamente è. 4 Nella 2a T. manca sensitiva. s La 1a T., l'ultima sua perfezione. quegli è della 2a T. 7 La 1a T., che io non sono. 8 La 11 T., caverete e diletto maggiore ecc.   conosciuti, dico, i vizii e purgatosi da essi, ascese per contemplazione sopra i cieli alla gloria de’beati. Intra i quali trovato il primo nostro padre Adamo, come desideroso di sapere, lo dimanda di alcune cose; fra le quali è questa, che io oggi ho preso per materia del nostro ragionamento, cioè qual è l’idioma o vero il LINGUAGGIO nel quale, quando ei è fatto da Dio, egli primieramente parla. Alla quale dimanda risponde Adamo in questa maniera. La lingua ch'io parlo è tutta spenta Innanzi che all'opra inconsumabile  Libero, sano e dritto è tuo arbitrio, Fosse la gente di Nembrot intenta. Che nullo effetto ? mai razionabile Per lo piacer uman, che rinnovella, Seguendo il cielo, è sempre e durabile. Avendo il divino nostro poeta ALIGHIERI (si veda), poeticamente parlando, nel suo discendere all’nferno conosciuto tutti i vizii e i peccati, che cosi per malizia e per matta bestialità come per umana incontinenza e fragilità si possono commettere, ed essendosene nel passare del Purgatorio in cotal modo purgato, ch'egli è tornato in quello stato dell’innocenza nel quale è creata da Iddio l'umana natura; là dove la parte nostra inferiore, irrazionale e mortale, alla superiore, razionale e immortale, sta obbediente, nè punto arde la sensitiva e carnale, dalla originale giustizia regolata, levarsi e combattere contro allo spirito; tal che dal suo precettore gli è detto: fallo fora non fare a suo senno; | La 1a T.,che tornato era. 2Cr.Libero, dritto, sano. La 1aT.,purgato. La 1a T., Adam . Cr. oora. 8Cr. la gente di Nembrotte attenta. Cr, affetto. 8Cr. semprefu. Opera di natura è ch'uom favella; Poi fare a voi, secondo che viabbella. Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, donde s vien la letizia che mi fascia. Elle si chiamò poi, e ciò conviene; Però che l'uso umano è come fronda In ramo,che sen va, ed altra viene. Da queste parole d’Adamo caviamo noi oggi tre principali conclusioni. La prima è, come la sua lingua si spende e mancòa tutta, innanzi che Nembrot cominciasse a edificar la torre; cosa molto contraria alla volgare oppenione. La seconda, la ragione perchè si mutino i parlari. La terza, la risposta a una obie zione che se gli potrebbe fare, dove egli adduce alcuni esempli in confermazione di quanto egli ha detto, come largamente si vedrà nel nostro ragionamento. Cominciamo ora adunque a esaminare la prima, con l'aiuto di Colui dal quale depende ogni nostra sufficienzia. Avendo l'onnipotente Iddio, nellaproduzione delmondo, creato tutte le cose insieme con l'uomo, non perchè elle fossero in lor medesime solamente, ma perchèelle fossero ancor principio del l'altre, ciascheduna di quelle della sua specie, non tanto nel generarle, quanto nell'instruirle e governarle, bisognò ch'egli le creasse nel loro perfetto essere. Dalla quale ragione mossi diceno alcuni dottori ebrei che il mondo è creato di SETTEMBRE; perciò che allora pare che tutti gli alberi, insieme con l'erbe, abbiano condotto a perfezione i frutti loro. È adunque (lasciando stare l'altre cose) creato l'uomo da Dio nel suo stato più perfetto, e in quanto al corpo e in quanto all'anima. In quanto al corpo, sano, bene complessionato, e di età di trenta o tren +Cr. Operan aturale è ch'uom favella. 2Cr. El. öCr.Onde.  M a , cosi o cosi, natura lascia Un : s'appellavin terra il sommo bene, Cr. El. 5 Cr. Chè l'uso de'mortali. ancor è della 2a T. 1 6  tacinque anni, secondo la maggior parte dei dottori, acciò che ei è atto alla generazione.E in quanto all'anima, ripieno di tutte quelle scienze, alla cognizione delle quali si può na turalmente pervenire, acciò chè ei potesse insegnare a quegli che nascessero di lui tutte quelle cose che sono necessarie alla vita e al bene esser nostro. Con questa cognizione pone Adamo i nomi convenienti a tutte le cose, secondo la loro natura; e FORMA UN’DIOMA, o vogliam dire uno parlare, con il quale ei puo MANIFESTARE ai descendenti i suoi CONCETTI. Ma qual è questa lingua, non si sa già manifestamente per alcuno filosofo. Gl’ebrei, come si legge ne’loro dottori sopra lo XI del Genesi, ove il testo dice che alla edificazione della torre di Nembrot si parla in terra d'UNA SOLA LINGUA, dicono questa ESSERE STATA LA LORO, ed essersi così dal principio del mondo miracolosamente conservata intera e incorrotta, la qual cosa a nessun'altra è avvenuta giammai, per avere parlato Iddio sempre mai a Moisè e agl’altri suo i profeti in quella; e questo è ancora confermato da loro con l'autorità dei loro Cabalisti, la quale può molto appresso di loro. Il che nasce dalla opinione ch'egli hanno, che quando Iddio dette la legge – GRICE: 10 COMM. -- a Moisè sopra il monte Sinai, egli gli da ancora l’interpretazione di quella, e gli manifesta molti altri profondi misterii, contenuti e nascosi sotto la lettera di quella, si come scrive Esdra nel suo primo libro. Ma dicano ch'egli gli comanda sch'ei non scrive altro che la legge, e l'altre cose dice a bocca a quelli che reggeno il popolo. Per laqual cosa, disceso dal monte, solamente le rivela a losuè; e Iosuè di poi a i settantadue più vecchi del popolo; e quelli d ipoi per ordine successivo le revelano ai loro discendenti. E questa dicano essere la scienza Cabala, che non vuol dire altro che ricevuta a bocca per successione. QUESTA OPPENIONE EBREA HA MOLTE DIFFICULTÀ. Primiera  1 giammai è della 2a T. · La 18 T., e questo ancora confermano. 3 La ja T., esso. * Cioè, dicono; cosi, appresso, scrivano per scrivono, e simili. 5La14T.,egli comando.   mente, si come scrivano i loro Talmudisti, e non pare ch'ei sia vero che questa lingua ch'egli usano, e nella quale è scritta? la Legge, sia la lor prima e antica lingua. Imperò che Esdra, loro sommo sacerdote, nella restaurazione del tempio dopo la servitù Babilonica, temendo che se gli avveniva loro un'altra avversità simile, la Legge totalmente non si perdesse, ragunò tutti i savi loro; e fa scrivere quella, e ciò ch'ei sapevano appartenente a quella, in settantadue volumi. Ne'quali si legge che, per essere stati tanto tempo in quella servitù, mutarono molto il modo dello scrivere e dell'antica favella loro, e trovarono nuovi caratteri e nuovi punti, i quali sono quelli ch'egli usano oggi; e questo ancora pare, chesenta GIROLAMO nel prologo sopra i Libri dei Re. La ragione, per la quale ei dicano che Iddio PARLA IN QUELLA, non è d'alcuno valore; imperò che quasi tutti i loro scrittori, o la maggior parte, sopra i Profeti dicano Iddio NON AVER PARLATO MAI a quelli VOCALMENTE, ma quando egli ha VOLUTO MANIFESTARE QUALCOSA o a Moisé a agl’altri, avere loro formato nella mente uno concetto, per il quale egli hanno inteso pienamente la volontà sua.L'autorità Cabalistica, dalla servitù Babilonica in qua, non ha avuta molta fede; imperò che allora molti di loro, e per la servitù, e per la loro natura ch'è molto superstiziosa, come scrive Apuleio nel primo libro de’Floridi, scrissero di molte cose (dicendo di averle avute da i loro Cabalisti), che sono manifestamente contro alla lor legge e CONTRO ALLA RAGIONE NATURALE; come si legge nelloro Talmut Babilonico, il quale non è altro che uno raccolto di sentenzie dei loro sapienti di quel tempo. Aggiugnesi ultimamente a questo, che secondo essi medesimi la loro lingua, con loro insieme, ha così nome da Eber figliuolo di SEM, figliuolo di Noè, al quale nella divisione della terra tocca la Giudea ; il c h e ·La 1aT., per error tipografico, ha Tamuldisti; diquilo sconcio della2a, che ha Tamulisti. 2 La 18 T., hanno scritto. i La 1a T., la Babilonica servitù. mai è della 2a T. La 1a T., la sua volontà. delle.   6 La 1a T.,   I Caldei, o vero Assirii, dall'altra parte dicono similmente che la lor lingua è la prima che si parla mai ; e certamente ella è tanto simile alla ebrea, come dice Girolamo nel prologo di sopra allegato, ch'ei si potrebbe fare coniettura ch'elle sono già state o una medesima. E in confermazione di questo adducano queste ragioni, con l'autorità di Beroso Caldeo, e di Mnaseae Damasceno, e d'Ieronimo Egizio.Primieramente e'dicano che NON SI TRUOVANO SCRITTURE INNANZI AL DILUVIO, se non nella lingua loro; e queste esser certe cose di astronomia, insieme con la predizione del diluvio scritta da Enoc, figliuolo di Iared, bene cinquecento anni innanzi a quello, in certi pezzi di terra cotta, acciò che le acque non l'offendessero. E similmente dicano essere nel Monte Gordeo’in Armenia, in certi sassi, dove dopo quello si ferma l'arca, scritte in quel luogo da Noè in memoria di tanto caso alcune cose; e il luogo ancor nella loro lingua chiamarsi Mirmi Noa, che tanto vale uscita di Noè. Aggiungano a questo, che Abramo, il quale è primo a dare principio al popolo ebreo, è da Dio primamente cavato di Caldea. PLINIO (si veda) pare che è ancor egli di questa oppenione, scrivendo che le lettere assirie 3 Male le stampe Masea ; e la 12 T., con errore più grave, facendo di due scrittori uno solo,Masea Damasceno .Anche nel Giambullari, Origine della lingua fiorentina (Fir.), trovasi quasi l'errore stesso, cioè Mnassea Damasceno. Mnasea, geografo, e Niccola di Damasco o Damasceno, storico dei tempi d’OTTAVIANO (si veda), sono citati, insieme con Beroso Caldeo e con Girolamo Egiziano, da Flavio nel primo libro delle sue Antichità Giudaiche, là dove ei parla del Diluvio. ècirca trecento anni dopo il diluvio. Si che ei pare più ragionevole, ch'ella ha principio allora quando ella ha il nome, ch'ella si è parlata prima tanto tempo. E così, come voi vedete, questa loro oppenione è molto dubbiosa. 1 il che fu non si legge nelle 1a T. La 1a T., Ieronimo. 3 La 1a T., che ella fusse già stata. 4 Caldeo manca nella 2a T. 6 cotta manca nella 2a T. ? Flavio, loc. cit., lo chiama Monte de' Cordiei. 8 alcune cose manca nella 1a T. sono eterne: la quale non di manco non è senza molte difficultà. Imperò che molti istoriografi degni di fede, e particularmente GIUSTINO nel secondo della sua Istoria, tengono che la prima terra che è abitata sia la Scizia, e conseguentemente la lor lingua parimente sia stata o la prima. Il nostro ALIGHIERI (si veda), parendogli che ciascuna di queste oppenioni è dubbiosa e incerta, sicome per il testo si vede, è d'un altro parere diverso; e a ciò lo induce la esperienzia, maestra delle cose. Imperò che vedendo egli per le scritture le lingue di tempo in tempo variarsi, in modo tale che come egli scrive nel suo Convito) se quei che morirono cinquecento anni sono, risuscitatit or nassero alle loro cittadi, ei crederebbo noche quell fossero da strane genti occupate, per la lingua da loro discordante. E non potendo però per questo persuadersi che dal principio del mondo alla edificazione della torre di Nembrot, dove corsero circa due mila anni, sempre si conserva un medesimo modo di parlare, induce Adamo a rispondere che quella lingua, la quale ei primieramente parla, sispense e manca tutta, innanzi che le genti di Nembrot cominciassero a edificare la torre. Per la quale risposta si può chiaramente vedere che il libro Della volgare eloquenza, tanto da alcuni lombardi lodato, e tradotto (per dire come loro) in lingua italiana, non è d’ALIGHIERI (si veda), ma da qualcuno altro stato cosi composto, e col nome di esso ALIGHIERI mandato fuora. Con ciò sia cosa che quivi sidicas che la prima lingua, che parla Adamo, è quella che usano oggi gl’ebrei, e che ella dura insino alla edificazione della torre di Nembrot; dove qui dice ALIGHIERI il contrario. Oltr'a di  5 La 1a T., 022 que sto, quivi si biasima il parlare fiorentino, il quale ALIGHIERI nel suo Convito loda massimamente. Le quali contradizioni non credo io mai che ALIGHIERI non ha vedute, o vedutole, accon 1 La 1a T. ha soltanto stata . ? Le stampe hanno dalloro ; ma parrebbe qui meglio convenire dalla loro. i della torre, manca nella 2a T. *La 1aT., dumilia. dice . sentite e scritte.E questo basti per intelligenza della nostra prima conclusione. Or vegniamo alla seconda: Che nullo effetto 1 mai razionabile, Per lo piacere uman, che rinnovella Seguendo il cielo, è sempre ? durabile. Rende la ragione Adamo perchè si mutino e variino i parlari; e comincia da questa dizione che, dicendo che nullo effetto razionabile, cio è nessuna cosa fatta dall'uomo, il quale si chiama animal razionale, per lo piacere umano, cioè per il desiderio e per lo appetito umano. Questo vocabolo “piacere” ha nella nostra lingua DUOI SIGNIFICATI [IMPLICATURA – Gice]. Primieramente e'si piglia per ogni sorte di diletto; e appresso, perchè a tutte quelle cose che noi desideriamo, ottenute che noi le abbiamo, ne seguita la dilettazione e il piacere, ei si piglia ancora per il desiderio e per lo appetito che noi abbiamo di una cosa ;sicome noi veggiamo usarlo da BOCCACCIO (si veda) in molti luoghi, e particularmente nella novella di Rustico e di Alibec, dove ei dice: che per disporla a' suoi piaceri, cio è alle sue voglie: ed IN QUESTO SIGNIFICATO L’USA QUI ALIGHIERI, dicendo: per lo piacere umano, cioè per il desiderio umano, che si rinnova e si muta, seguendo il moto del cielo, è sempre durabile. E qui con grandissima arte egli aggiunse sempre; imperò che ei si truovano molti effetti dell'uomo, si come sono le scritture, le statue e la fama, che trae l'uom del sepolcro e'n vita il serba, come dice il nostro PETRARCA (si veda), le quali durano tanto tempo, che gl’uomini, per non vedere il fine loro, l'hanno chiamate eterne; ma non però sono durabili sempre. La qual cosa mirabilmente espresse ALIGHIERI (si veda) medesimo in un altro luogo, dicendo: Tutte le vostre cose hanno la morte 3 Come che voi;* ma celasi in alcuna Che vive 5 molto, e le vite son corte.  1 Cr. affetto. 2Cr.semprefu. ö Cr. Le vostre cose tutte hanno lor morte. i Cr. Siccome voi. 5 Cr. Che dura.   E cosi ha renduto la ragione perchè i parlari si mutino. Ma per maggiore intelligenza di questa sua ragione, è di necessità vedere per quello che l'uomo si chiami razionabile, e in che modo le sue voglie, seguendo i moti del cielo, si mutino. Devete dunque sapere che il Creatore (GRICE – GENITOR) di questo universo, per farlo più bello ch'ei poteva, fa in quello di ogni sorte creature; e quelle dispose tra loro con tanto ordine, cominciandosi dalla prima materia che riceve lo essere di tutte le cose, e salendo di grado in grado in sino all'ultima forma, ch'è Iddio, il quale 1 dà l'essere a tutte, che i filosofi l'assimigliarono a i numeri ;i quali sono tra loro disposti con tanto ordine, ch'ei non si può tra loro inframettere unità alcuna senza variargli. Intra queste cose, alcune o furono da lui fatte perfette, e alcune imperfette. Perfette si chiamono: quelle che sono da lui create incorruttibili,e in certo modo eterne, ed ebbero tutte le perfezioni che si convengono alla loro natura insieme con lo essere, sì come sono, infra i corpi, i cieli, e infra gl'intelletti, quello dell'angelo. Imperfette poi si chiamono quell'altre, che furono da lui create corruttibili e mortali, e che non ebbero da principio tutta la loro perfezione, ma sel'hanno acquistata con il moto e con il tempo ,e oltr'a questo sono sottoposte a tutte le alterazioni che arrecano seco i moti celesti; si come sono, tra i corpi, le piante e gl’animali, e tra gl'intelletti, quello dell'uomo, per essere col suo corpo mirabilmente unito. E questo fa il sommo Fattore, perchè a questo universo non manca alcuna sorte di creature, acciò che le perfette con la loro bellezza e perfezione di natura ci tirassino alla contemplazione di esso Iddio sommo, e le imperfette, poste a lato a quelle, ci ren dessino la loro bellezza più maravigliosa e più desiderabile. La qual cosa veggiamo noi che usano ancora 6 nei loro canti i musici, mescolandovi delle consonanze imperfette, perchè quelle rendino poi le perfette più dolci e più grate a gl’orecchi de gli iLa 1aT.,che. 2 2a T., alcune ne furono. 3 La 1a T., chiamo io. * La 1a T., Imperfette chiamo io ecc. 5 La 1a T., che ancor fanno.   ascoltanti. Ma perchè questo sommo benefattore e padre volle che ogni cosa potesse acquistare la perfezione sua, dette a cia scuna un valore e una virtù per la quale ad essa si conducessi, e una voglia e un desiderio ardentissimo che a quella le tirassi; si come agl’elementi uno valore che gli spigne a quei luoghi dove ei sono sempre perfetti, come alla terra lo andare al centro, e al fuoco al concavo della luna, là dove egli è veramente fuoco; (imperò che, come noi abbiamo dal LIZIO nel primo delle Meteore, questo che noi veggiamo non è fuoco, ma è una soprabbondanza di calore, sicome è il ghiaccio nell'acqua una soprabbondanza di freddo); e alle piante uno principio intrinseco, per il quale elle si nutrissero ed aumentassero e potessero generare dell'altre simili a loro? e agli animali uno principio di moto intrinseco, per il quale ei potessero fuggire quelle cose che fossero nocive e disconvenienti alla natura loro, e seguir quelle che fosser loro salutifere e convenienti, insieme con un desiderio innato che gli spingesse a cercarle. Questo principio nelle piante e negli animali è stato chiamato dai filosofi NATVRA, che altro non vuol dire, che quella potenza onde ha origine e principio quel moto, per il quale egli acquistano le loro perfezioni. E desiderando similmente ancor che l'intelletto dell'uomo acquistasse la sua perfezione, gli da una potenza o vero facultà, con la quale ei potesse similmente acquistarla, chiamata dai filosofi DISCORSO o vero RAGIONE. Imperò che l'intelletto dell'uomo non ha da natura altra cognizione che quella dei primi principii, insieme con il desiderio dello intendere, ch'è la sua perfezione: i quali, sìcome noi abbiamo dal LIZIO nel quarto della sua Prima filosofia, sono le conclusioni che sono parimente chiare e note a tutti gl'intelletti, subito ch'egli hanno inteso itermini loro, come sarebbe questa: egli è impossibile che in un medesimo tempo una cosa medesima sia e non sia; perchè ciascuno intelletto, subito ch'eisa che cosa è essere,e che 1La 1aT., uno intrinseco principio. ? La 1a T., dell'altre a loro simili. 3 La 1a T., valore. 4 La 2a T., della sua Filosofia.  cosa è non essere,sa che questa conclusione è vera per proprio lume intellettuale, e non l'impara per esperienza o per esercizio alcuno. Onde bendisse il nostro ALIGHIERI (si veda) nel suo Purgatorio. Da questa cognizione intellettuale dei primi principii, come da cosa nota, partendosi l'intelletto dell'uomo, con una potenzia ch'egli ha va discorrendo e raziocinando (se così dir si puote) all'intelligenzia delle cose ch'ei non intende, ed empiesi di’ntelligibili, dove prima è come una tavola rasa; eco sì viene ad acquistare la sua perfezione. Questa potenzia nella nostra lingua si chiama ragione; e da lei è l'uomo poi chiamato razionale, così come quell'altre cose, che io prima vi dissi, per acquistare la loro perfezione con la natura, son chiamate naturali. Questo nome razionale ? non si può dare all'angelo, ancora ch'egli abbia lo intelletto, per essere quello d'una natura pura intellettuale; la quale è creata da Dio con tutte le sue perfezioni, cioè piena di tutte le specie intelligibili (onde non se l'ha acquistare con alcuna sua operazione, come l'uomo); e che oltra di questo è 8 di tanta virtù, che quando Iddio gli appresenta qualche nuovo intelligibile, ei lo intende subito per semplice lume dell'intelletto, nel modo che intendiamo noii primi principii, e SENZA ALCUN DISCORSO, e tutto perfetta mente in uno instante e in uno tempo indivisibile; e no nprima una parte e poi l'altra, si come fa l'intelletto nostro ne l’intender suo, o per non essere di tanta perfezione; ma farebbe in quel modo che fa uno lume, quando egli è portato in una stanza buia, che la illumina tutta in uno istante, e non prima una parte e di poi un'altra. E per questo dicano alcuni teologi che gl’angeli che peccarono non si sono mai potuti pentire; imperòche ne l'intender suo, non è nella 1a T.  Però là onde nasca 1 l'intelletto Delle prime notizie, uomo non sape. 1Gr. vegnd . ? La 1a T. manca di questa parola. 3La1aT.ha: perchè egli è. ·La18T., e non sel'haavute acquistare. 5La1aT. hasolo: Oltra a di questo egli è ecc.    intendendo quegli ciò ch'egl'intendano per semplice apprensione d'intelletto, lo intendano immutabilmente, e senza mai potere variare e mutare il loro intendimento; sicome ancora noi non possiamo mutarci di quelle cose che noi INTENDIAMO PER SEMPLICE LUME D’INTELLETTO, come sono i primi principii; il che non avviene di poi di quelle che noi INTENDIAMO PER DISCORSO DI RAGIONE. E però si chiama l'angelo creatura intellettuale, el'uomo creatura RAZIONALE E DISCORSIVA. E perchè, in quanto al corpo, l'uomo è composto di questa materia elementare della quale sono composte tutte le altre cose sotto la luna, la quale materia è obligata e sottoposta alle alterazioni che inducano i moti celesti in lei, egli è da quegli insieme con l'altre cose diversamente disposto. Onde cosi come la terra altra disposizione riceve dai cieli il verno, quando ella ha a corrompere i semi e generare le cose, e altra la primavera, quando ella si ha a vestire di erbe e di fiori, così la complessione nostra altrimenti è disposta in uno tempo, e altrimenti in un altro; onde l'anima nostra razionale, in quanto ella è fondata in su questa nostra complessione corporale, altre voglie ha in un tempo, e altre in un altro. Imperò ch'ella è tanto mirabilmente unita con quello, che l'operazioni che ancor totalmente dependono da lei mentre ch'ella è in esso corpo, si attribuiscano al tutto; onde dice il Filosofo del LIZIO nel primo Dell'anima, che chi dice: l'anima mia odia, o l'anima mia ama, sarebbe come dire: l'anima mia fila, o l'anima mia tesse. E seciò non fusse, cio è che l'anima segue la disposizione del corpo, egli ne a ha, sicome apertamente pruova Galeno in una opera ch'ei fa di questa materia, che l'operazioni degl’uomini sarebbero tutte a un modo medesimo; 3di che manifestamente si vede il contrario. Imperò che le anime nostre nella loro sustanzia, e, come dicono questi teologi, in puris naturalibus, sono tutte in un medesimo modo e d'una medesima virtù; ma pigliano poi diversi costumi, secondo la complessione de'corpi ne'quali elle sono incluse,  1La1aT., per una semplice. 4 La 1a T., con manifesto errore, mutabilmente. 3 La1aT., a un modo.   e hanno diverse voglie, secondo che quegli si variano per i moti celesti. E questo basti per la seconda parte del nostro ragionamento. Or vegniamo alla terza e ultima. Risponde dottissimamente in questa ultima parte Adamo a una tacita obiezione, che se gli è potuto fare; la quale Ma, cosi o cosi, natura lascia Poi fare a voi secondo che v'abbella. Per le quali parole voi avete a considerare che l'uomo è composto di due nature, o vogliam dire di due parti; con l'una delle quali, la quale è l'anima incorporea, immortale, razionale e libera, egli è simile alle Intelligenzie celesti; e con l'altra, la quale è il corpo mortale e irrazionale, è simile agl’ANIMALI BRUTI (cf. Grice: animale +> bruto). E ciò è dalla natura fatto con mirabile artificio; imperò che avendo ella fatto in questo universo delle creature irrazionali, corporee e mortali, e delle razionali, incorporee ed immortali, e non volendo che si andasse da l'uno estremo all'altro senza mezzo, l’è necessario fare l'uomo, che con una parte communica con  1 Opera di natura 3 è ch'uom favella; può, non leggesi nella 2a T. ? naturale, manca nella 2^ T. 3 Cr. Opera naturale. è questa. Potrebbe dire alcuno: A me non pare che questa tua ragione, Adamo, conchiuda e sia bastante; imperò che tudi'che il tuo parlare manca per essere effetto dell'uomo, e gl’effetti dell'uomo col tempo mancano tutti, per esser esso uomo, ch'è la loro causa, caduco e mortale; e nessuno effetto può essere di maggior perfezione che la sua causa. Questo è ben vero, che gl’effetti che procedano semplicemente dall'uomo non sono sempre durabili; ma il parlare non è di questi. Imperò che non è suo effetto totalmente, ma è sua propietà naturale; le quali così fatte propietà non si separano mai dalla specie loro, sìcome la calidità dal fuoco, e la frigidità dall'acqua. Dunque come di tu ch'ei mancasse per esser suo effetto? Alle quali parole così risponde Adamo:  queste, e con un'altra con quelle. E però il parlar suo, insieme con l'altre sue operazioni, si può similmente considerare in due modi. Primieramente si può considerare come sua proprietà naturale; e questo è il parlare istesso in genere, non si ristrignendo più a uno modo che a uno altro; e in questo modo egli non manca mai all'uomo, ma sempre che sono uomini (zoon logikon), sempre parlanno (logikon), e di questo non parla qui Adamo. Secondariamente si può considerare come cosa dependente dalla parte libera e razionale dell'uomo; e questo è il modo del parlare (e non il parlare), come sarebbegreco, latino, o TOSCANO – Alighieri parla; Alighieri parla toscano --; e in questo modo è egli effetto dell'uomo, e variasi e mutasi secondo che pare a gl’uomini. E però disse il filosofo del LIZIO che i nomi sono stati posti alle cose, secondo ch'è piaciuto (SIGNIFICATIVM AD PLACITVM) a gl’uomini. E questo è quello che dice qui Adamo, che manca e mutossi. Onde dice nel testo: Opera di natura è ch'uom FAVELLA (FABVLA), cioè: egli è cosa naturale all'uomo il parlare; ma così o così, ma più in questo modo che in quello, natura lascia poi fare a voi, secondo che vi abbella, cioè secondo che vi piace; chè cosi significa questo verbo. Il quale è verbo provenzale, che a quei tempi è in uso; e dal medesimo Poeta ancora è usato,? nella medesima significazione, nel Purgatorio in persona di Arnaldo di Provenza, che è nei tempi suoi compositore molto famoso, sì come noi veggiamo per le parole di PETRARCA (si veda)  ne'suoi Trionfi. E così è soluta questa obiezione. Ma per maggiore dichiarazione di questo testo, voglio che noi veggiamo per quello che il parlare sia stato dato dalla natura solamente all'uomo, e non ad alcun'altracreatura, ese egli è necessario o no; imperò che la natura, così com'ella non manca mai nelle cose necessarie, non abbonda ancora mais nelle soverchie. ' La 1a T., non si ristrignendo più a questo modo che a quello. 1La 1aT. hasolo: ancora usato.  Avendo la naturà fatto l'uomo, in quanto al corpo, il più imperfetto e debole di alcun altro animale (il che forse le fu 3 ancora mai, non è nella 1a T.   forza, per volerlo fare più prudente che alcun altro, donde gli bisogna farlo di più temperata complessione), ne avviene che ogni minima cosa l'offende; il che non fa così agl’altr’animali. Oltr'a di questo, avendogli dato lo intelletto in certo modo imperfetto e il minimo tra le intelligenze, come noi abbiamo dal Filosofo del LIZIO nel libro Dell'anima, e desiderando ch'ei potesse conseguire la perfezione e dell'uno e dell'altro, le è necessario CONCEDERGLI IL PARLARE, con il quale ei potesse chiedere i bisogni del corpo, e apparare le cose necessarie alla perfezione dell'anima. Voi vedete, in quanto al corpo, ch'ei nasce ignudo, e hassia vestire della pelle degli altri animali, a procacciarsi il cibo, e a fabricare le case, dov'ei possa difendersi da quegli incommodi che arrecano seco le varie stagioni de'tempi. Vedete ancora di poi, in quanto all'anima, che gli bisogna apparare molte cose, se non necessarie allo essere, almanco al bene essere della sua vita, senza le quali ella sarebbe misera e infelice. Il chenon avviene a gl’altr’animali; perciò che ei sono vestiti dalla natura, e per tutto truovano i cibi convenienti alla lor vita; e senza alcuno maestro, ma solamente da naturale instinto guidati, si sanno fare le case, e ciò che fa loro di mestieri a conservarsi. Vedete la rondine, che quando viene il tempo di fare i suoi figliuoli, sa per natura fare il nido; e di poi, veggendogli nati ciechi, va a cercare la celidonia per guarirgli. E le formiche similmente sono da lei spinte, quando i frumenti sono sparsi su per l'aie, a pigliarne e riporgli nelle lor buche. CHE BISOGNO ADUNQUE HANNO GL’ANIMALE DI “PARLARE”? Chè, seei sono d'una specie medesima, hanno bisogno di sì poche cose, e tutti a un modo, e son spinti dalla natura a cercarle: e se ei sono di varie specie, non convengono insieme. MA ALL’UOMO È EGLI CERTAMENTE NECESSARIO; imperò che egli ha bisogno di tante cose, e quanto al corpo e quanto all'anima, che nessuno se le può procacciare per sè solo; e però è stato bisogno che si accozzino insieme molti, e che l'uno sovvenga al bisogno dell'altro. Il che non 4 La 1a T., Il che a gl’altr'animali non avviene. 2 La 1a T., è dalla natura spinta a cercare. 3 La 1a T., hanno di sì poche cose bisogno.  si saria potuto FARE SENZA QUESTO MEZZO DEL “PARLARE”, con il quale l'uno possa manifestare all'altro i suoi bisogni [GRICE – “to influence and being influenced,” to “cooperate”]; e per questo la natura l'ha dato solamente all'uomo, come quella che non manca mai nelle cose necessarie. E però è qui chiamato dal Poeta IL PARLARE OPERAZIONE NATURALE dell'uomo, cioè necessaria alla NATURA sua. E se alcuno mi opponesse, dicendo che ci sono an cora de gl’animali che parlano [GRICE – Prince Maurice’s Parrot], si come gli storn e gli, le gazze, i papagalli, e non solamente l'uomo, si risponde che il loro NON È PARLARE, ma è una imitazione di voce; imperòche ei NON INTENDONO ciò che ei dicano, e dicano sempre quelle parole che egli hanno nell'udire imparate, o a proposito o no ch'elle si sieno. E se alcun altro dicesse: Come di tu che il parlare è solamente dell'uomo? Non abbiamo noi nelle sacre lettere, in molti luoghi, ch'e'parlano ancora gli angeli? Dico che il parlare non s'appartiene all'angelo, come angelo. Imperò che gl’angeli sono spiriti, e sono loro manifesti i concetti l'uno dell'altro. Ma se eglino alcuna volta parlano, ei lo fanno per manifestarsi A NOI e per bisogno nostro, e hanno preso corpi, dal ripercotimento dei quali hanno formate le voci o vero suoni, e con la lor virtù le hanno poi terminate e fatte significative; si come ei fecero nell'asina di Balaam, la quale coi suoi strumenti naturali fa la voce, e l'angelo la termina e fa significativa. Avete dunque veduto come il parlare è solamente dell'uomo, e com'ei sia sua operazione e proprietà naturale. Della qual conclusione io probabilmente cavo una particular lode della nostra lingua; e questa si è, ch'ella è più propria all'uomo, che alcun'altra che si parli.E che questo è ilvero, lo pruovo così. Tanto quanto una operazione è all'uomo più propria e secondo la sua natura, tanto gli è anco più facile e men faticosa. Il parlare nostro gli è men faticoso e più facile che alcun altro; a dunque gli è più proprio, e più secondo la natura sua. E che La 1a T. ha: imperò che ei non intendono ciòche ei dicano, che è il proprio del parlare. E che ei sia il vero, avvertite che e' dicono sempre quelle parole ecc.  i La fa T.,che mai non manca. ? La 1a T., gli storni.   Questo siailvero, ponetemente che nessuna lingua è più facile a imparare, che la nostra. Pigliate uno che non sappia altra lingua che la sua, e menatelo in Turchia, nella Magna, fra spagnuoli, francesi o schiavoni, o tra quale altra gente sivoglia; e poi lo menate tra noi. Voi vedrete (e questo ne dimostra l’esperienzia) ch'ei non imparerà di qual si voglia lingua tanto in uno anno, quanto ei farà della nostra in uno mese. Il che non avviene per altro, che per la facilità d'essa, e per la proprietà ch'ella ha con la natura umana. Un'altra cagione si puo forse ancor dire che è quella, per la quale questa nostra lingua s'impara così facilmente.E questa si è, per avere TUTTE LE SUE PAROLE CHE FINISCONO IN LETTERE VOCALI; le quali per essere, come scrive Macrobio, quasi che NATURALI ALL’UOMO, si mandon più facilmente alla memoria che l'altre, e ancora più lungamente si ritengono.Donde nasce forse ancora quella maravigliosa bellezza ch'ella ha, scrivendo Quintiliano, che quante più lettere vocali ha una parola, tanto è più dolce e più grato il suo suono. Seguita Adamo il parlar suo; e per confermazione delle cose ch'egli ha dette adduce per esemplo, che innanzi ch'ei morisse, gli uomini mutarono il nome a Dio; e dove prima lo chiamano Uno, gli posero nome El. Nelle quali parole ei fa quella bella argomentazione che i logici chiamano a maiori; la quale io credo che noi potremo ? chiamare dalla parte più importante. Fa dunque Adamo questa argomentazione, per volere provare che la sua lingua manca, dicendo: Se Iddio, il quale è sola mente stabile e immutabile in tutto questo universo, a mio tempo muta nome, che credete voi che facessero l'altre cose, le quali sono in sempiterno moto e continuamente si variano? Di poi dice che noi non ci debbiamo maravigliare diquesto; con ciò sia cosa che l'uso umano continuamente si muti e si varii in ciascuna operazione nostra. E assomigliandolo alle frondi, fa una comparazione tanto dotta e tanto bella, che io  1La1aT.,ei fa una argomentazione. 2 Così le stampe; ma forse la lezione vera ha da essere potremmo. 3La 1aT.ha solo: conciòsiache l'uso umano continovamente si muta. Pria ? ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè: prima ch'io morissi e discendessi nel Purgatorio, o vero nel Limbo, dove andano tutte l'anime di coloro che crede vano l'avvenimento di Cristo. Ambascia è quell’infermità che i Greci e i Latini chiamano asma, e ancora da noi toscanamente si chiama asima; la quale è una difficultà di alitare, che, secondo Aezio nell'ottavo, nasce dall'avere ristretti i meati del polmone (cioè quei luoghi dove passa lo spirito a rinfrescamento del cuore), e ripieni di materie grosse eviscose; o veramente nasce da debolezza di virtù naturale. Galeno nel quarto libro De'luoghi infetti dice ch'ella può ancor procedere da infiammazione di cuore; e dà lo esemplo di coloro che hanno la febbre, e di coloro che si sono affaticati nel correre, i quali, per avere acceso il calore nel cuore ed eccitatolo, 'patiscono questa difficultà di respirare. E perchè ancora coloro che sono rinchiusi in luoghi che non abbino esito, o son ripieni di vapori grossi, patiscano questa difficultà, si dice per similitudine che gl’hanno l'ambascia. Ora perchè il Limbo, come voi avete d’ALIGHIERI (si veda) medesimo, è un luogo appiccato coll’Inferno nel ventre della Terra; e ne'luoghi che sono sotterra, per esser ripieni di vapori, che il sole continuamente tira da quella, si respira con difficultà, dice qui Adamo: Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè, al Limbo tra gl’altri santi padri. Questo luogo ancora nelle sacre lettere è chiamato il seno di Abramo; e la cagione è, perchè Abramo è il primo, che lasciati gl'idoli venissi al cultos  perme non sapre iche altra lode dar mele, se non dire ch'ella' è d’ALIGHIERI (si veda). Perciò che io non ho mai visto ancora autore alcuno che in questo l'avanzi. Dice adunque il testo: 1 La 18 T., che dire ella ecc. ? Malela2aT., Prima.3 La 1a T., di materia grossa e viscosa. La 1a T., escitatolo. 5 La 1a T., venne al vero culto.   di Dio; onde gl’è promesso che del seme suo uscirebbe la redenzione del mondo. E però coloro che muorono, andando in questo luogo, si dice che gl’andano a riposarsi nel seno d’Abramo, cioè nella promissione che è data da Dio ad Abramo. Dice adunque Adamo: pria ch'io scendessi a questo luogo,il sommo bene, cioè Iddio, donde vien la letizia che mi fascia, cioè, da cui viene la mia beatitudine (imperò che, come noi abbiamo in San Giovanni al XVII capitolo, altro non è vita eterna che vedere Iddio), è chiamato dagl’uomini uno. Il quale nome gl’è posto da quegli per similitudine, e per alcune proprieta di che ha l'unità con Dio, sìcome è, essere semplice, indivisibile, non essere numero, ma principio di tutti, e mantenere tutte le cose in essere; perchè, come voi avete da BOEZIO, tanto è una cosa, quanto ella è una; le quali tutte cose sono in Dio. Imperò che egli è semplice e indivisibile; non è alcuna di queste cose che noi veggiamo, ma principio di tutte, e mantienle in essere continuamente; e molte altre proprietà simili al l'unità, come si legge nella dottrina pitagorica di CROTONE. E però gli posero gl’uomini questo nome uno; perchè non potendo porgli nomi che significassero la sua sustanzia (perchè nessuno conosce il padre , se non il Figliuolo, come noi abbiamo in San Matteo allo XI), gli poneno di quegli che significano? qualche sua proprietà. Di poi, lasciando questo nome Uno, lo chiamarono El, cio è Dio; il quale nome gli è ancora posto per una proprietà sua. Imperò che considerando gl’uomini la maravigliosa potenza dell’opere sue, lo assimigliarono a l'ardere del fuoco, non si ritrovando infra l'operazioni delle cose naturali potenzia alcuna che superi quella delfuoco. Onde dice il testo: Elle si chiamd poi. Avvertite che tutti i testi che io ho vistidicano: Eli sichiamo poi; il che non può stare; imperò che Eli vuol dire Iddio mio; 1 La 28 T., ha ; ma la lezione è mal sicura, poiché il passo nella stampa è guasto, e potrebbe non essere stato emendato interamente nelle correzioni a detta edizione. In quella del Doni, le parole a l'unità mancano. La fa T., significavano.  donde la sentenza non quadrerebbe a dire: ei si chiama poi Iddio mio. Anzi si chiama El, che vuol dire Iddio. E per fare il verso intero disse Elle, e non El, come ei deve; e usò qui lo Elle in quel modo ch'egli usa nel purgatorio lo m , dicendo: Ben avria quivi conosciuto l'emme. Questo nome El è ancora posto a Dio per una sua proprietà; perchè tanto è a dire El, quanto potente e conservatore. E per questa cagione una gran parte degli angeli, per essere stati da Dio ordinati e deputati a governare e mantenere questo uni verso, hanno incluso nel nome loro questo nome di Iddio EL; nè senza quello si possono nella ebraica lingua proferire, si come è GABRI-EL, che vuol dire grazia o vero virtù di Dio, RAFFA-EL, medicina di Dio ,e così va discorrendo de gli altri. La qual cosa non è senza gran misterio, come potrà ben vedere chi vorrà diligentemente esaminarla nel santissimo Reuclino e nell'universalissimo Agrippa. Di poi seguita il testo: eciò conviene, e questa è cosa conveniente. Però che l'uso umano dottissimamente e con grande artificio assomiglia il Poeta i costumi dei mortali alle fronde. Imperò che, come voi sapete, le fronde si generano e cascano da gl’alberi per la disposizione che fa il sole con l'altre stelle, appressandosi o discostandosi da quegli; e così le nostre voglie, sì come noi abbiamo a sufficenzia di sopra dichiarato, si mutano e si variano secondo la disposizione che il cielo induce nei nostri corpi. E questobasti per dichiarazione di questo testo. Se altra volta ne fia data occasione,noi c'ingegneremo di sodisfarvi maggiormente per la grata audienza che voi ne avete prestata; della quale sommamente vi ringraziamo. 1 La 1a T., e universalissimo. Grice: “The issues Gelli addresses are interesting, but hardly Oxonian.” Grice: “Gelli is considering ‘our tongue’ (nostrra lingua) and conversing on how difficult it is to set it to rules – not impossible, though. Cf. my procedures. Gelli is confused about ethnicity. The Roman ethnicity is different from the Latin ethnicity, -- or rather the Latin ethnicity involved more than the Roman ethnicity – yet he uses freely and undistinnctly ‘lingua romana’ and ‘lingua latina’ – or ‘latino’ meaning sermone – otherwise, he refers to ‘i romani’ – never to ‘I latini’ – the thing is – with who is he contrasting them? With the fioreusciti fiorentini like himself, the flourished Florentines – lingua fiorentina – but he seems to prefer lingua toscana – he accepts that lingua napoletana is quite a different thing, since he himself cared to translate from ‘lingua napoletana’ to ‘lingua toscana’ – more interestingly, he is into Toschani (thus spelled) --. And here comes the myth which some have called evangelist. Etruria as the cradle of Tuscany, and Hebrew and Adam’s tongue as the ‘lingua primigenia’. Gelli is clear about the nature of language – made for ‘uno possa manifestare all’altro i suoi bisogni. Like Plato, he revels in the dialogic form, of a cooper with his own soul – what about Boezio and Cicerone, he asks. They are different. Cicero tried to ENRICH (make piu ricca) the lingua he thought was the ‘piu bella del mondo’ – Boezio the same. But the Toschani are not Romani – and so the cooper can do as he wishes!” Giovan Battista Gelli. Gelli. Keywords: sulla difficultà di mettere in regole la nostra lingua, lingua, linguaggio, Grice on English, idiolect, dialect, Language, ---. Noe – origine della lingua, la lingua di Adamo – la lingua fiorentina -- Accademia agli Orti Oricellar, la lingua dei romani, le regole nella PROSA di Cesare e Cicerone, le regole nel tempio di Ennio, Glauco, Svetonio, e Tacito, Virgilio, Alighierii. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gellio:  la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Arriano dedicated the discourses of Epitteto to Gellio, who presumably takes at least an interest in the Porch. Lucio Gellio. Gellio.

 

Grice e Gemmis: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del console – filosofia terlizzese – filosofia barese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Terlizzi). Filosofo italiano. Terlizzi, Bari, Puglia. Grice: “I love Gemmis.” Grice: “Gemmis is a good example of how an Italian philosopher differs from a philosophy don at Oxford – ‘don’ is derogatory; whereas de’ Gemmis is a barone! – And he writes about ‘reason,’ ‘ragione’ – with Abate Genovesi --; unlike a ‘don’ at Oxford who would over-do reason to keep a post at his college!” – Grice: “In them days, Italian illuminists took reason very seriously, and possibly ‘light,’ too!” Ferrante de Gemmis (Terlizzi), filosofo. Figlio del Barone di Castel Foce Tommaso de G. Si trasfere in Napoli affidato al pro-zio, dove studia dai più prestigiosi precettori. Allievo di GENOVESI (si veda), di cui divenne amico e con cui mantenne una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere familiari del celebre illuminista. Si laurea a Napoli, si introduce negl’ambienti più esclusivi della corte partenopea istituendolo erede universale. Morto il pro-zio, e nominato a Cava de' Tirreni. A Terlizzi si dedica ai suoi studi di filosofia e da vita ad una fervida attività culturale rivelandosi l'esponente primario dell'illuminismo. Istituì una gruppo di gioco, vero e proprio cenacolo culturale con scopo di ricerca filosofica e di attuazione pratica di conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione reale perché sospetto centro di idee liberali, il gruppo di gioco dovette chiudere, ma gli incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento di GENOVESI. Governatore de promosse il riscatto della città dal diritto di molitura che ha la duchessa di Giovinazzo. Fonda il Conservatorio delle Orfanelle a la scuola con reale approvazione. E inoltre incaricato da Ferdinando I di Borbone al riordinamento dell'amministrazione della Città, che fu divisa in tre ceti in base ai ranghi. Srive saggi filosofici e una “Tavola di Storia della Filosofia” (Napoli, Soc. Letteraria). Gaetano Valente Feudalesimo e feudatari Terlizzi nel Settecento, Molfetta, Mezzina, Cabreo de G., Biblioteca Provinciale G., Bari Ruggiero Di Castiglione, La Massoneria nelle Due Sicilie e i fratelli  meridionali, Gangemi, Roma.  FERRANTE DE G. Figlio di Tommaso de G. Si trasfere nella capitale affidato al pro-zio, dove studia grammatica, eloquenza latina, logica, e matematica dai più prestigiosi precettori. È anche allievo di GENOVESI (si veda), di cui divenne amico e con cui mantenne una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere familiari del celebre illuminista. Laureatosi a Napoli si introduce negl’ambienti più esclusivi della corte partenopea, essendo istituto erede universale. Nominato dal Re a Cava de' Tirreni. ATerlizzi si dedica ai suoi studi di filosofia e da vita ad una fervida attività culturale rivelandosi esponente primario dell'illuminismo della regione. Istituì una gruppo di giocco a Terlizzi, vero e proprio cenacolo culturale con scopo di ricerca filosofico e di attuazione pratica di conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione reale perché sospetto centro di idee liberali, il gruppo dove chiudere ma gli incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento di GENOVESI. Ha un grave incidente per la caduta da un calesse, per cui subì una difficile operazione e a stento salva la vita. Governatore di Terlizzi e promosse il riscatto della città dal diritto dell'ius moliendi, diritto di molitura, che aveva la duchessa di Giovinazzo. Fonda il Conservatorio delle Orfanelle e apre una scuola con reale approvazione. È inoltre incaricato da Francesco I di Borbone al riordinamento dell'amministrazione della Città, divenuta regia. Scrive numerose saggi filosofici, e una "Tavola della storia della filosofia” pubblicato a Napoli nella stamperia della Soc. Letteraria. Ne scrive la biografia Bisceglia pubblicata nel "Dizionario degli uomini illustri del Regno". Muore a Terlizzi, largamente stimato, ed e sepolto nella cappella nobiliare de G. di Terlizzi. Ferrante de Gemmis. Gemmis. Keywords: il console, tavola cronologica della storia universal, vita e opinione, prejudici e predilezioni- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gemmis” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gennadio: la ragione cnversazionale e il divino -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Marsiglia). He argues that the divine is the only incorporeal being, but that souls and angels are material. Gennadio.

 

Grice e Genovese: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della tribù – scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese --filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Grice: “I like Genovese; for one, he has explored the philosophy of ‘vincoli,’ which is all that my theory of communication is about!” Grice: “Genovese has explored the etymology of ‘tribe,’ as originating with Romolo!” Gricce: “Genovese has punned on Kant’s silly ‘pure reason,’ surely what Kant meant was a pure critique of reason – since ‘pure’ is hardly synonymous with ‘theoretical,’ which the treatise is all about! When Kant goes on to write Part II, he qualifies ‘reason,’ as ‘practical,’ HARDLY impure!” – Studia a Pisa e Parigi sotto Foucault al Collège de France. Interessato alla teoria dei sistemi, entra in contatto con Luhmann. La teoria sociologica costituirà da allora una parte importante della sua riflessione. Membro della Fondazione per la critica sociale, fa parte della redazione della rivista La società degli individui e lascia la redazione di Il Ponte per contrasti sulla direzione della rivista.  Formatosi in una prospettiva hegelo-marxista vicina alla Scuola di Francoforte, se ne allontana progressivamente (come si può osservare già in “Dell’ideologia inconsapevole. attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno” (Napoli, Liguori), assumendo sempre più nettamente una postura scettico-relativista con un’attenzione alle scienze sociali e, in esse, alla funzione, appunto relativistica, svolta dall’antropologia culturale. Indicativo di questo passaggio è l’articolo su “Hume e la filosofia antropologica” in “Tra scetticismo e nichilismo” (Pisa, Ets), in cui nel contempo si nota l’interesse per la teoria dei sistemi.  La forma compiuta dell’evoluzione della sua filosofia si trova in “La tribù occidentale”, “Per una nuova teoria critica” (Torino, Boringhieri), e:Un illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario” (Torino, Rosenberg e Sellier), in cui, nella presa di distanze dalla soluzione di Habermas (v. Speranza, “Grice e Habermas”), si profila una logica dell’ibridazione e del paradosso come fuoriuscita dalla dialettica di marca hegeliana.  Questa linea è approfondita, in senso più strettamente politico con il rilancio di un’idea di socialismo, nel successivo “Convivenza difficile” (Milano, Feltrinelli), “L’Occidente tra declino e utopia” (Milano, Feltrinelli), e soprattutto, facendo i conti finali con la teoria dei sistemi, nel “Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere” (Napoli, Cronopio),  a tutt’oggi la sua opera teoricamente più significativa. Si è dedicato in modo particolare ai temi politici e civili con “Che cos’è il berlusconismo” (Roma, Manifesto); “Il destino dell’intellettuale” (Roma, Manifesto), “Totalitarismi e populismi” (Roma, Manifesto) -- tutti pubblicati dalla casa editrice Manifesto di Roma, e intervenendo regolarmente in rete nel sito “Le parole e le cose” e in quello della rivista Il Ponte. I suoi interessi estetico-letterari si esprimono dapprima con “Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva” – keywords: scena intersoggetiva – (Napoli, Liguori), in cui, nel rivisitare il mitico personaggio teatrale, e poi anche filmico, creato da Wedekind, affronta il tema della cosiddetta lotta dei sessi, ripreso con un romanzo breve in forma epistolare (“L’anti-eros”, Firenze, Ponte alle Grazie) in cui sono presenti sia una chiara vena satirica sia il tentativo di fare filosofia in altro modo, in una vaga ispirazione kierkegaardiana. Seguono i libri di viaggio, o apparentemente tali nella miscela di finzione narrativa e saggismo, Falso diario e Tango italiano (Torino, Bollati Boringhieri); “L’Occidente (“Roma, Manifestolibri), e ancora quello che probabilmente è il suo libro più sofferto, insieme documento di una crisi e stravolta autobiografia visionaria, “Ci sono le fate a Stoccolma. Dal diario dell'esilio mentale” (Reggio Emilia, Diabasis). Altre saggi:  “Modi di attribuzione” (Napoli, Liguori); “Figure del paradosso” (Napoli, Liguori); “Critica della ragione impure” (Milano, Bruno Mondadori); “Gli attrezzi del filosofo” (Roma, Manifesto). “L'idea, o forse dovrei dire il gesto, mi sembra felice: invece di scrivere un saggio su x (ideologico, politico, storico) scrivere di sé come turista a disagio che vorrebbe scrivere un libro su x», G. Bollati a G., le Giulio Bollati. Lo studioso, l'editore, Torino, Bollati Boringhieri, A. Tricomi, La Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet. G. è quasi costretto non semplicemente ad alternare, ma addirittura a sovrapporre, ad arricchire l'uno con le peculiarità degli altri, e infine a rendere, più che reversibili, indistinguibili, registri argomentativi e stilistici tra loro assai diversi. Ci sono le fate a Stoccolma diventa perciò il libro di un  filosofo, senza che mai si possano individuare luoghi del testo in cui una delle anime che lo ispirano prenda nettamente il sopravvento. Le due leggende troiana e romulea. Il primo popolo, ossia i Ramni, i Tizii e i Luceri. La plebe. Dopo la rivoluzione portata nella storia tradizionale romana da Perizonio, con le sue Animadversiones historicæ, e dal Beaufort con la sua famosa Dissertation sur l'incertitude des cinq premiers siècles de l'histoire romaine, saggi che si succedettero alla distanza di mezzo secolo, la critica, che rimane negletta nell'evo antico e nel medio, perchè riguardata o inutile o incapace di produrre frutti fecondi, comparve un elemento necessario nello studio di quella storia tradizionale. E di quei due critici va detto ciò che in una pubblicazione recentissima. La prima edizione delle Animadversiones venne in luce ad Amsterdam, e quella della Dissertation beaufortiana ad Utrecht. Storia di Roma narrate da BONGHI (si veda), Manifesto di BRIOSCHI (si veda), GIORGINI (si veda), e MINGHETTI (si veda). Questi tre signori recano il seguente giudizio sulla Storia Romana di NIEBUHR: Amalgama felice di erudizione e di critica, l'opera di Niebhur (sic) è fatta col sentimento che vi domina, non tanto per dare una nuova direzione allo studio delle antichità, quanto per ispirarne l'amore. Questo giudizio dimostra che gl’autori del manifesto non sono storici. Ma appunto perchè non sono tali, avrebbero potuto astenersi dal profferire sul fondatore della critica storica moderna un giudizio che di là dell’alpi fa un'impressione tutt'altro che lusinghiera per noi. Al giudizio degli scrittori del manifesto, contrapponiamo quello di Savigny e di Schwegler, la cui competenza insiffatto argomento non èscono sciata da alcuno. Savigny, ne'suoi “Vermischte-Schriften”, così parla della storia romana di Niebuhr. L'opera di Niebuhr ha impresso alla trattazione della storia dell'antichità un carattere affatto nuovo (Niebuhrs Werk hat der Behandlung der Geschichte des Alterthums einen ganz neuen Charakter verliehen. Essa ha inalzato l’ideale della storiografia e fissato l'indirizzo di ogni ricerca nel campo. Rivista di Storia Italiana. Origini Romane. I critici: loro scuole: Niebuhr, Schwegler, Mommsen, BONGHI (si veda).  I.  ragione, a parer nostro, di Niebuhr; che, cioè, questi si propone più d'inspirare l'amore allo studio delle antichità romane, che di dare a quello studio un indirizzo nuovo. L'opera di Niebuhr mira soprattutto a questo secondo scopo. Quanto all'altro, del destare l'interesse per lo studio delle antichità, esso rampolla naturalmente dal primo. Mentre la critica di PERIZONIO e di Beaufort, pel suo carattere negativo, non puo prefiggersi che quest'ultimo scopo. Sebbene però il concorso della critica è, dopo la comparsa del saggio di Perizonio, generalmente ammesso, esso non è usato da tutti secondo l'ufficio suo. E se i più se ne giovarono per rettificare od anche per abbattere del tutto la tradizione romana, non mancarono anche coloro che se ne servissero in senso opposto, che è a dire, in difesa di essa tradizione. Fra questi ultimi vanno segnalati Kobbe (“Römische Geschichte”), Gerlach e Bachhofen (“Geschichte der Römer), Newmann (“Royal Rome,” ecc.) e Duruy (“Histoire des Romains”). Gl’altri scrittori, e sono il maggior numero, si divideno in due scuole. All'una vanno ascritti i seguaci di NIEBUHR, all'altra i suoi correttori. Oggi il campo è tenuto dai secondi, in mezzo ai quali spiccano le due splendide figure di Schwegler e di Mommsen. Costoro sono pure campioni di due metodi diversi nel l'applicazione della critica alla storia tradizionale romana. Il metodo di Schwegler è severamente ANALITICO. Egli espone prima la tradizione in tutti i suoi minuti particolari e con le sue varianti. Poi, nel paragrafo successivo, assoggetta la tradizione ad un rigoroso esame critico, diretto a scovrirne la genesi, e il carattere degl’elementi che concorsero a crearla. In questa diagnosi spicca, colla potenza di acume dello scrittore, la sua meravigliosa erudizione. Dopo di avere ben fermato il concetto della “leggenda” e del “mito”, e fissate del secondo le categorie diverse (mito etiologico, mito etimologico, ecc.), egli procede a classificare geneticamente i singoli elementi della tradizione romana, e ci dice quali debbano ascriversi delle antichità romane -- Schwegler (Röm. Gesch.) aggiunge, La storia romana di Niebuhr, opera sotto ogni rispetto classica, non solo da una nuova direzione allo studio dell'antichità fatto sinora, ma è ancora il punto di partenza e il fondamento a tutte le ricerche future, alle quali egli segna l'indirizzo e da il più fecondo impulso (Seinerömische   Geschichte, ein grossartiges, in jeder Beziehung classisches Werk, ist nicht nur der Brennpankt und Abschluss der bisherigen, sondern auch der Ausganzspunkt und die Grundlage aller spätern Forschungen, zu denen es den Anstoss und die fruchtbarste Anregung gegeben hat). alla “leggenda”, quali all'una o all'altra forma del “mito”, e quali deveno aversi in conto di storici. Non oseremmo asserire che in questa minuta classificazione Schwegler coglie sempre nel segno. Ma dobbiamo pur dichiarare che in essa nulla apparisce mai di coscientemente arbitrario; di maniera che si potrà dissentire da una data sua opinione, perchè faccian difetto gl’argomenti con cui comprovarla, non già perchè gl’argomenti siano stati usati a sproposito. Il saggio di Schwegler, comparsa or fanno 30 anni, rimane, a parer nostro, fino ad oggi insuperata. Il metodo di Mommsen è tutto l'opposto di quello di Schwegler. Qua il racconto tradizionale è preso in esame capo per capo. Là di esso non è fatto nemmen parola. In luogo della tradizione, abbiamo un racconto ricostruito dalla critica, senza però che estrinsecamente apparisca traccia di siffatto lavoro. Non vi è dubbio che questo metodo presenti maggiori attrattive dell'altro, perocchè escluda ogni processo dimostrativo. Ma appunto perciò porta anche maggiore responsabilità a chi lo segue; e offre più largo campo alle censure. LA STORIA ROMANA di Mommsen ne incontro difatti di vive ed acerbe, sebbene il valore generale della sua opera è da tutti riconosciuto. La polemica suscitata da essa torna poi a grande profitto della critica storica, perchè essa da occasione a Mommsen di lumeggiare alcuni luoghi oscuri della storia romana, mercè una serie di monografie storico-critiche, che egli raccolge col titolo di ““Römische Forschungen.” Il metodo di Schwegler trova un am plificatore fra noi, in BONGHI (si veda), e la sua STORIA DI ROMA comparire in luce. Il chiarissimo autore premette ad esso una lettera in risposta al manifesto dei triumviri che aveano promosso la pubblicazione della sua opera. In questa lettera egli dice, che gli pare strano e VERGOGNOSO che una storia tutta nostra non ha mai ritrovato in Italia chi dopo gl’antichi hanno intrapreso di narrarla. Veramente, gli storici nazionali di Roma antica non mancano, come non mancarono i critici, e da VALLA (si veda) a VANUCCI (si veda) trovasi una schiera numerosa di dotti che a quello studio applicarono l'ingegno e la dottrina. In questa schiera spiccano i nomi d’ORIOLI, d’UCCELLI, di ROSSI, di CANAL, di CANINA, le cui saggi dimostrano, che noi non ci siamo contentati, come afferma  Bonghi, di tradurre prima Rollin, poi Niebuhr e Mommsen. E se la letteratura nostra mancas pure di codeste saggi, non bastano le pagine inspirate che sulla storia romana dettarono MACHIAVELLI e iVICO, per ismentire il basso concetto che Bonghi reca della storiografia italiana? LA STORIA DI ROMA di Bognhi non contiene sufficiente materia, perchè si puo dire fin d'ora in quale misura l'aspettazione dell'opera sia stata soddisfatta. Perché l'autore, amplificando il metodo di Schwegler, premette alla critica storica la critica letteraria della tradizione. All'esame di ciò che vi può essere di storico nella tradizione e della genesi sua, egli manda innanzi la ricerca della sua forma primigenia. Per ora non abbiamo che la sua dichiarazione di avere scoverto in una selva selvaggia ed aspra e forte di dissensi, di congetture, di questioni d'ogni fatta qualche sentiero non ancora battuto; lo che acuisce il desiderio di avere sott'occhi il saggio che avrebbe dovuto comparire insieme col primo , con la quale ha comune il subbietto, e della quale è l'anima. L'autore stesso riconosce che lo scompagnare le due parti, come si è fatto, rende meno facile ai lettori di comprendere il suo disegno. E così appunto è avvenuto. Ed io devo confessare che questa difficoltà è nata anche in me, sebbene il lungo esercizio mi abbia reso in certo modo famigliare questo studio. Dopo il lavoro diligentissimo di Schwegler, a me è parsa meno necessaria quest'opera di gran pazienza e fatica, come l’autore stesso chiama e con ragione, l'esame minutissimo cui sottopose la tradizione. E perchè a ciò solo non si rimane l'opera sua nel saggio pubblicato, ma qua elà egli è indotto dallo sviluppo della sua analisi, ad entrare nel merito storico della tradizione, la separazione della seconda parte dalla prima è ancor più deplorata. Senza di essa noi avremmo, per esempio, chiarito subito la teorica, con la quale l'autore chiude il suo discorso sulla leggenda di ROMOLO, e che messa fuoriamo di assioma storico, a noi è parsa mancante della necessaria chiarezza, per poterci risolvere ad accettarla. Eccola con le parole stesse dell'autore. Del rimanente, è necessario, dic'egli, tenere ben distinte queste tre dimande. Prima, se una leggenda contenga elementi storici. Seconda, quale sebbene pero l'Italia fa il dover suo in questo importante studio, ciò non iscema l'interesse che desta nei dotti la comparsa di un'opera, dettata d’una mente che della sua grande potenza da saggi copiosissimi nelle discipline più svariate. la storia è stata. Terza, come la leggenda è nata. Noi abbiamo obbligo di rispondere di no alla prima dimanda, se ci si prova che debba essere negativa, pur quando non abbiam modo - e moltissime volte anche a tempi molto più vicini ai nostri, che non sono quelli della fondazione di ROMA, non ne abbiamo il modo — di rispondere nè in tutto nè in parte alla seconda ed alla terza. Come si vede, questo giudizio riesce al quanto oscuro, particolarmente perché gli manca una dichiarazione di termini, senza la quale non se ne può misurare il valore. Che cosa intende BONGHI per “leggenda”? Ciò che noi chiamiamo “leggenda”, i tedeschi chiamano “sage.” Ma la differenza sta tutta nella forma, mentre un solo ne è il concetto. Ora il concetto della “leggenda” è questo. Cioè, il ricordo d’un evento notevole trasmesso oralmente, soprattutto per mezzo di canti popolari, dall'una all'altra generazione, e colorito dalla fantasia per modo da imprimere ad esso un carattere prodigioso. Il nucleo della “leggenda” è adunque storico. Il “MITO,” invece, è tutt'altra cosa. In luogo del FATTO STORICO che costituisce l'essenza della leggenda, nel “mito” abbiamo come elemento essenziale e come motivo genetico una data idea, resa concreta e sensibile per mezzo di un intreccio di fatti immaginarii. ORA, NELLA TRADIZIONE ROMANA, LEGGENDA E MITO TROVANSI MESCOLATI INSIEME, e il lavoro della critica consiste in cio appunto, di sceverare l'una dall'altro, e liberare entrambi dagl’involucri che hanno impresso a ciascuno il carattere proprio. Questo lavoro, che non è meno improbo, e per la storia è assai più utile di quello fatto da BONGHI nel primo saggio, e già tentato da molti. Ed è in esso che apparirà nel vero valor suo l'opera dell'illustre storico. Ed ecco la ragione che BONGHI dà di questa fermata. Succede, dice BONGHI, non addirittura il primo fatto certo della storia interna di ROMA, ma quello de'suoi fatti certi più antichi da cui tutta la sua storia anteriore è spiegata, e tutta la sua storia posteriore, è, se mi si permette la parola, preformata. L’elezione dei tribuni nei comizii tribute. Per ciò che riguarda la certezza del fatto accennato, notiamo che esso, tanto rispetto alla sua cronologia, quanto rispetto al suo stesso contenuto, è tutt'altro che sicuro. Fatti certi dei primi secoli di Roma non ponno chiamarsi che quelli i quali sono attestati da documenti autentici. Ed essi sono: la fondazione del tempio federale di Diana sull'AVENTINO, avvenuta sotto il regno di Servio Tullio: il trattato  federale stipulato da Tarquinio il Juniore coi Sabini: il primo trattato di navigazione e commercio conchiuso da Roma con Cartagine subito dopo il bando di quel re. E il patto federale conchiuso da Roma colle città latine sotto il secondo consolato di Spurio Cassio. Questi sono i fatti, che si ponno chiamar certi, perchè qualcuno degli storici maggiori dichiara di AVERE VISTO il documento originale in cui sono consacrati. Tale qualifica non può essere data alla lex publilia, il cui contenuto forma ancor oggi obbietto di disputazioni fra i critici. BONGHI (si veda) ci dice fin d'ora com'egli spiega il tenore di quella legge, ed io sono curioso di sentire con quali nuovi argomenti egli suffraga una opinione, che oggi è abbandonata dai più; e cioè, che prima della lex publilia i tribuni della plebe sono eletti in altra sede fuorchè nei comizii tributi.Nei nostri Saggi critici noi esprimemmo il nostro avviso sul tenore della lex publilia, e rimandiamo il lettore a quel nostro saggio, non essendo il caso di ripeter qui ciò che scrivemmo altrove. Un'ultima osservazione. BONGHI dice, che il fatto è quello dei fatti certi più antichi di Roma, che spiega tutta la sua storia anteriore. Aspetto di avere la dimostrazione di questo asserto prima di giudicarlo. Per ora, la mia opinione, è che al disopra di quel fatto (badisi che qui si parla di fatti interni) ci stia l'altro della creazione del tribunato della plebe, da cui tanto la lex publilia, quanto le successive leges tribuniciæ e manarono come prodotti necessarii di un fattore comune. Il primo problema che si affaccia alla critica nello studio delle romane origini, è come avvenne l'innesto della leggenda troiana nella leggenda romulea, perchè è fuor d'ogni dubbio che l'una e l'altra traessero origine da fonti diverse. E mentre la romulea è creazione paesana, nata sui luoghi stessi che sono la scena del suo racconto, LA TROIANA È INDUBBIAMENTE IMPORTAZIONE STRANIERA. Però non tutti gl’elementi di questa seconda leggenda sono nati di fuori. Dal momento che l'eroe troiano pone piede nel Lazio, la leggenda lo mette in relazione con le popolazioni indigene, facendogli imprendere una serie di guerre coi latini, sabini ed etruschi. Ora, se tolgasi il protagonista che è un personaggio favoloso, il racconto di quelle guerre racchiude indubbiamente elementi storici, che la sciati inavvertiti da CATONE e da Dionisio, sono segnalati e lumeggiati dall'autore dell’Eneide. Infatti, mentre presso i due primi, le lotte combattute d’Enea si presentano come guerre dinastiche, nelle quali i popoli appariscono come stromento delle ambizioni di questo o di quel principe. Presso VIRGILIO quelle lotte assumono fin da principio la proporzione di una guerra di stirpi italiche, in cui sono adombrati gli sconvolgimenti politico-sociali onde il Lazio è teatro nella età pre-romana. Quel TURNO (si veda) he negli altri racconti figura come capo dei rutuli, nell’Eneide” comparisce come duce di una intera confederazione di città italiche e di popoli di diversa stirpe. Alla sua chiamata accorrono i guerrieri di Laurento, Ardea, Antenne, Crustumerio, Tiburi, Atina, Preneste, Gabii, Anagnia, e con essi gl’aurunci, i volsci, i sabini, i falisci. Per tener fronte a tanta oste, Enea, seguendo il consiglio d’Evandro, rivolgesi ai tirreni, i quali sonosi di recente liberati dal tiranno Mezenzio, divenuto ora alleato di Turno. E colloro ausilio, conquista Laurento. Ora, levando da questo racconto la parte leggendaria che è la intromessa d’Enea, chiaro apparisce il contenuto storico di esso. Ivi troviamo adombrati, da un lato, i progressi della conquista etrusca nella valle inferiore del Tevere, e dall'altro, gli sforzi operati dai popoli del Lazio per redimere il paese dalla servitù straniera. Alla quale impresa i latini trovano ausiliarii non pure nelle città fini time del Lazio, ma ancora in un popolo di stirpe sabellica che la primavera sacra ha già portato sulla frontiera latina, e a cui la parte avuta nella liberazione del Lazio frutta una stanza nel Settimonzio. Così per mezzo di VIRGILIO noi siamo posti in grado di spiegare la presenza dei sabini sul quirinale e sul capitolino, completando la tradizione romana, il cui contenuto storico, purificato da gl’innesti leggendarii, consiste nel presentarci i due popoli, latino e sabino, viventi già l'uno presso l'altro sul settimonzio, e riusciti a pacificarsi e ad unirsi insieme dopo di essere stati lungamente in guerra fra loro. Ancora nei tempi storici, noi troviamo gl’etruschi imperanti nella Campania; prima di arrivare nella valle del Volturno, essi hanno dovuto trarre in loro potere la valle inferiore del Tevere, che è a dire , il LAZIO. Senza l'Eneide non sapremmo come questo paese ricuperata avesse la sua libertà. L'Eneide ci apprende che ricuperolla per mezzo di una insurrezione popolare capitanata da un eroe. Quest'eroe è TURNO. Enea gli strappa dal capo il lauro dei prodi. MA L’ENEA ITALICO È UN MITO; TURNO INVECE È PERSONA RIMASTA VIVA NELLA TRADIZIONE di un popolo. Ed è singolare, che dal gran cantore d’Enea la critica storica sia stata messa sulla via di riconoscere in TURNO un EROE ITALICO, e di rendergli la sua corona. Dopo questa digressione, che non c'è parsa fuori di luogo, veniamo ora a risolvere il problema della confusione avvenuta di due leggende, tanto diverse l'una dall'altra, sia perla fonte da cui emanano, sia pel loro contenuto. La tradizione romana nella sua forma più antica, non -- Ennius dicit Iliam fuisse filiam ÆNEÆA quod si est Aeneas arus est Romuli Servio, ad Æn.] sa nulla nè dell'una nè dell'altra leggenda. Prima che la boria destata dalla potenza di Roma, introducesse il troiano Enea nelle romane origini, a che nascesse il bisogno di spiegare riflessivamente l'origine nomi, di instituti e di consuetudini di antiche che si trovano esistenti da tempo immemorabile, senza che è stato riferito ab antiquo come sono nate, la fondazione di Roma èsi spiegata in quel modo semplice, in cui l'antichità si figura la origine di tutte le città greco-italiche, vale a dire, per mezzo di un fondatore eponimo. Una città che nomasi ROMA, dove adunque, secondo il concetto dell'antichità, avere per fondatore un ROMO, progenie divina al pari di tutti i fondatori eponimi. Ed a noi è serbata questa tradizione semplice della origine di Roma, la quale biamente la più antica. Ne dobbiamo è indub la conoscenza al grammatico FESTO, che la tolsg dallo storico Antigono. Antigonus, italicæ historiæ scriptor, ait, RHOMUM quemdam nomine, Jove conceptum urbem condidisse in Palatio, Romæ eique dedisse nomen. Così Festo all'articolo Romam. La tradizione romulea, nella quale l'eponimo “ROMO” diventa “ROMO-LO” e gli è dato Remo per fratello, e l'uno e l'altro sono aggregati alla dinastia dei Silvii che regna ad Alba Lunga e ripete la sua origine d’Enea. Questa tradizione è dunque ignota all'antichità. Lo stesso ENNIO non la conosce che in uno stato ancora embrionale, giacchè ENNIO dà alla MADRE di Romolo, ILIA, Enea per padre. Pero, il concetto inspiratore della leggenda è già nato col poeta rudiese, come è nato l'intrecciamento delle due leggende Ora come avvenne questa sovrapposizione della leggenda troiana alla romulea? La ragione psicologica del fatto è data già da VICO in quella boria delle nazioni, le quali appena son pervenute leggenda ad un alto grado di potenza, non sdegnano loro origini oscure, e aspirano a fastose e insigni. VICO accenna anche la capitale cagione che induce i romani, quando andano in cerca di origini fastose, a fissare la mente sulla leggenda di Enea. Ei la attribuisce alla fama strepitosa che ha per lo mondo la guerra di Troia, a cagione del poema d’Omero e della introduzione dell'Occidente nel ciclo troiano, dovuta alla via che si fa per correre al reduce Ulisse. Però se la boria nazionale è la causa inspiratrice della fusione delle due leggende, a questa non mancarono altr’impulsi. Quando il senato romano, verso la fine della prima guerra punica, intervenne nella contesa fra gl’etoli e gl’acarnani, e giustifica la sua intromessa in favore dei secondi, osservando che gl’acarnani sono il solo popolo greco, il quale non partecipa alla guerra contro I TROIANI PROGENITORE DEI ROMANIi, è l'orgoglio nazionale che ispira quella dichiarazione. Similmente, quando il senato accetta l'amicizia offerta dal re Seleuco, ponendovi per condizione che liberasse i troiani da ogni tributo; e quando Flaminino, nel presentare i donativi dei Romani ai Dioscuri e ad Apollo, chiama i suoi concittadini col nome di ENEADI, è sempre l'orgoglio nazionale che inspira la fusione delle due leggende. Ma allorquando la politica militare di Roma produce in seno altri fattori vanno considerati. E, soprattutto, la parte che nella propagazione della leggenda d’Enea in Italia hanno le numerose colonie greche dell'Italia meridionale, e più specialmente Cuma, che oltre ad essere la più antica e la più vicina al LAZIO, è di provenienza diretta dall'Asia Minore, e precisamente dalla Misia, luogo finitimo alla Troade. E come le colonie greco-italiche divenneno al trettanti centri propagatori del culto di Afrodite Alveias, dea dei naviganti, con cui la leggenda d’Enea è intimamente collegata, cosi l'oracolo della Sibilla cumana divenne il centro propagatore dei fausti vaticinii, onde la religione della dardanica Afrodite conforta nel suo esilio la famiglia degl’Eneadi. Già nell’Iliade è fatta allusione a quei vaticinii, dicendosi che la famiglia d’Enea è serbata ad un nuovo e splendido avvenire, mentre quella di Priamo è stata destinata alla perdizione. Ora, in questa promessa di un glorioso avvenire serbato alla progenie d’Enea giace il motivo riflesso dell'amalgama delle due leggende troiana e romulea. Roma costitui se stessa obbietto dei vaticinii sibillini, e dichiara avvenute in se stessa le promesse fatte ai discendenti d’Enea. Già ENNIO presenta in questo modo il fatto, dicendo che Troia è risorta in Roma, e non anda guari che la repubblica innalza a domma nazionale l'origine troiana della potente metropoli. alla Repubblica i suoi effetti liberticidi, e la maestà quiritaria che è in bocca a tutte le nazioni straniere, ed è oggetto di terrore e di riverenza universale, scomparve dal popolo per riassumersi in un uomo, l'orgoglio nazionale passa in seconda linea per cedere il primo posto all'interesse dinastico creato d’un usurpatore. Il grande anello di congiunzione fra la leggenda d’Enea e la dinastia dei Cesari è quel famoso IVLO, che comparisce nella genealogia degl’eneadi, or quale figlio, or quale nipote d’Enea. E cosi nell'uno, come nell'altro grado, semba èvi stato introdotto dai Giulii stessi, dopo che è sorto il giorno di loro grande fortuna. Infatti, gli scrittori più antichi della leggenda non conoscono quel nome, sebbene più nomi attribuiscano al presunto figlio d’Enea, chiamandolo ora Eurileone, ora Ascanio, ora Ilo. Forse quest'ultimo nome, che ricorda quello della patria ILIO, suggere l'idea della finzione genetica, ed ILO diventa facilmente IVLO progenitore degl’IVLII. Ciò spiega il fatto del comparir di quel nome per la prima volta nei filosofi cesarei. Co mun quesia dell'origine sua, venne un giorno che il popolo romano apprende per bocca di Caio GIULIO CESARE, ch'esso ha nel suo seno una progenie di celesti, e che dalla morte di Romolo in poi essa cammina fuori del diritto divino, nel cui sentiero è ora chiamato a ritornare. Il giorno in cui GIULIO (si veda) Cesare, essendo questore, recita dalla tribuna del foro il panegirico di Giulia, è decisivo per le sorti di Roma e del mondo. E là che egli annunzia al popolo stupito, che la sua famiglia è d’un tempo progenie di dèi edire. AMITÆ MEÆ IVLIÆ MATERNVM GENVS AB REGIBVS ORTVM PATERNVM CVM DIIS IMMORTALIBVS CONINCTVM EST NAM AB ANCO MARCIO SUNT MARCII REGES QVO NOMINE FVIT MATER A VENERE IULII CVIVS GENTIS FAMILIA EST NOSTRA EST ERGO IN GENERE ET SANCTITAS REGVM QVI PLVRIMVM INTER HOMINES POLLENT ET CÆRIMONIAS DEORVM QVORVM IPSI IN POTESTATE SVNT REGES. Quando GIULIO CESARE recita questa orazione non fa ancora il suo ingresso nella politica militante, comecchè ha già coperto parecchie magistrature. Ma l'uomo che osato fare pubblicamente l'apologia della regia potestà e proclamare la origine divina della sua famiglia, ha già intuito il futuro e divisato di rivolgerne a suo profitto il realizzamento. Nel seguente anno, infatti, lo vediamo stretto in lega con Pompeo, e SVETONIO, Cæs ., avviato a compiere il cammino trionfale che da Farsaglia lo conduce a Munda, e mette nelle sue mani l'impero del mondo. Riassumendo per tanto le cose in sinquidette, notamo che se la leggenda romulea è anteriore alla troiana, all'una e all'altra so vrasta per antichità la leggenda semplice, riferita da Antigono, che Roma ha per fondatore un eroe eponimo progenie di celesti, e cioè, che è nata nello stesso modo in cui l'antichità si figura l'origine di tutte le città greco-italiche: che la leggenda romulea, sebbene nata sul suolo romano, mostrasi nelle sue parti essenziali come il prodotto di una invenzione riflessa, avente in mira di spiegare sistematicamente le origini di nomi, d'instituti e di consuetudini antiche che si trovano esistenti da tempo immemorabile, senza che è stato riferito come avessero avuto nascimento: che la leggenda troiana, divulgata in Occidente per mezzo delle colonie italiche e degli oracoli sibillini, è introdotta nella leggenda romulea, quando la boria destata nei Romani dalla loro potenza li obbligo ad andare in cerca di origini fastose da sostituire alla origine volgare trasmessa loro dai maggiori. E come la discendenza d’Enea è stata creata per soddisfare l'orgoglio di un popolo conquistatore, cosi essa e scaltramente usufruita da GIULIO CESARE per legittimare la sua opera liberticida. Un altro problema non meno interessante della fusione delle due leggende troiana e romulea, per mezzo della quale si spiega l'origine della città di Roma, è quello che concerne la formazione del suo primo popolo. La tradizione romana spiega questa formazione in un modo semplicissimo. Romolo, dopo che ha per la morte di Tito Tazio raccolta nelle sue mani la sovranità sui socii sabini del Settimonzio, parti il popolo in TRE TRIBÙ, e pose a ciascuna il nome del duce che ha la capitanata. Ai suoi pose pertanto il nome di ramnenses; ai seguaci di Tazio il nome di Titienses, e a quelli di Lucumone, che halo aiutato nella guerra contro i Sabini, il nome di Lucerenses. Quanto alla nazionalità, la tradizione ne attribuisce una propria a ciascuna tribù. I Ramnenses di Romolo sono per lei Latini; i Titienses di Tazio sono Sabini, e i Lucerenses di Lucumone sono Etruschi. Però, se la tradizione è concorde rispetto alla origine dei due primi nomi, non lo è rispetto a quella del terzo. Il Lucumone di CICERONE (si veda) diventa presso Plutarco illucus asyli, e presso Paolo Diacono il titolo dignitario e il nome topico si trasformano in una persona, in Lucero re di Ardea. Queste varianti attestano per se stesse la mal ferma base su cui riposa codesta tradizione. LIVIO (si veda) se la sbriga, dicendo il nome dei luceri “DI INCERTA ORIGINE.” Ma se lo storico maggiore di Roma qualifica d'in certezza l'origine dei luceri, LA FILOLOGIA DICHIARA IMPOSSIBILE LA DERIVAZIONE DEI RAMNI DA ROMOLO, avendo questi due nomi radicali affatto diverse. Pure la origine dei nomi è cosa di poco interesse, quando ad essi non si annette la origine della nazionalità. Il Lucumone o il re Lucero da cui si è derivato il nome della terza tribù romana, si è prodotto come testimonio dell’origine etrusca di questa tribù, e da ciò si trasse la conclusione, che la nazione romana usce fuori da tre elementi etnici, il latino, il sabino e l'etrusco, ed è quindi una nazione mista. Diciamo subito che questa opinione è oggi abbandonata, e che la critica moderna, dopo di avere impugnato la provenienza etrusca dei Luceri, non arrestando sia questo resultamento negativo, ha pur risoluto positivamente la questione, dimostrando che i Luceri devono essere tenuti in conto di una schiatta latina; onde la nazione romana è stata composta di due elementi etnici omogenei, il latino e il sabino, ramificazioni entrambi del gran ceppo italico, che [Prima della pubblicazione della Storia Romana di SCHWEGLER, l'origine etrusca dei luceri era ammessa dalla maggior parte degli storici. Tra i fautori di essa vanno ricordati: Feodor Eago, Untergang der Naturstaaton,WACHSMUTH, Aeltere Geschichte des römischen Staats, GÖTTLING, Geschichte der römischen Staatsverfassung, USCHOLD, Geschichte des trojanischen Krieges. KORTÜm, Römische Geschichte, BECKER, Handbuch der römischen alterthümer, WALTER, Geschichte des römischen Rechts, SCHÖMANN, De Tullo Hostilio, PUCCELLI, Altreviste sugl’antichi popoli italiani, Cortona, VANNUCCI, Storia dell'Italia antica, Fir., L'origine latina, anzi albana, dei Luceri è ammessa da Niebun, Römische Geschichte, da SCHWEOLER, Römische Geschichte, da NIEMEYER, De equitibus romanis, BREDA, Centurie-Verfassung des Servius Tullius da KLAUSEN, Aeneas und die Penaten dal Römische Alterthümer, Mommsen si limita ad osservare, non esseircvhinailcchutns ostacolo ad ammettere la origine latina dei luceri (Ueber die Herkunft der Lucerer lässtzu erklären), sagen, als das nichts in Wege steht die gleich den Ramnern für eine latinischeque Glelmaeidnidaendare in cerca Röm. Gesch. Ihne invece è scettico, e dice che è fatica sprecata dall'ag del vero su una questione nella quale le fonti ci lasciano al buio, e che non si gu2a0d.agna nulla giugnere un'opinione nuova a quella degl’antichi, Röm. Gesch., Leipzig, dal LANGE, parer nostro, che Ihne non ha bene studiato la quistione, altrimenti troverebbe che si guadagna qualche cosa da questa aggiunta. Il primo guadagno che si fa è quello di avere chiarito il significato del nome di questa terza tribù. LVCERE vuol dire risplendere. Luceri equivarrebbe adunque ad illustres. E questo appellativo ben si addice alla nobiltà d’Alba, la quale, dopo la distruzione della loro patria, è trasferita nel Settimonzio ed ha per sua stanza il celio. Cid dimostra, a  immigro in Italia dopo iljapigicoe prima dei raseni. Noi diremo gl’argomenti coi quali si impugna la origine etrusca dei Luceri. Indi ci faremo a dire quelli coi quali si dimostra la loro origine latina, e la loro provenienza d’Alba Longa. Prima di tutto, vuolsi avere presente, che la origine etrusca dei luceri non è che una mera presunzione, mancante di una tradizione positiva, e desunta da dati estrinseci ed accidentali, che passati sotto il crogiuolo della critica, non danno alcun frutto. L'uno di questi dati è somministrato da certa analogia che si riscontra fra il nome della terza tribù e quello di LUCUMONE, che è titolo gentilizio e dignitario presso gl’etruschi. E come il nome del colle celio si è voluto spiegare derivandolo da un duce etrusco per nome CELE Vibenna, il quale, secondo alcuni (VARRONE (si veda)), altempo di Romolo, secondo altri (TACITO (Ssi veda)), al tempo di Tarquinio Prisco, èsi stabilito con una grossa schiera dei suoi connazionali nel Settimonzio. Cosi il nome luceri che portano gl’abitanti del celio si spiego per mezzo del titolo di Lucumone che porta il Vibenna. L'altro dato è ancor più arbitrario, in quanto che è desunto dall’ubicazione geografica di Roma, quasi che il fatto deltrovarsi Roma in mezzo a tre schiatte diverse, generar dovesse necessariamente l'effetto, che essa compone la sua cittadinanza con ciascuna delle tre schiatte, per modo che esse vi sono rappresentate tutte proporzionalmente. A questo concetto subbiettivo si contrappone vittoriosamente per ciò che riguarda il contingente etrusco, il famoso motto del trans Tiberim vendere, e del senso latissimo che esso acquisto e mantenne per lungo volgere di secoli, anche dopo che gli’etruschi sono caduti sotto la dipendenza di Roma, ed il Tevere cessa di essere un confine politico. In verità, che se gl’etruschi hanno dato a Roma un contingente proporzionale della sua cittadinanza, quel motto divenne uno strano enimma. Perchè esso non si riferisce tanto alla divisione politica dei due stati, romano ed etrusco, quanto alla DIFFERENZA DI NAZIONALITÀ, avvertita e VIVAMENTE SENTITA NELLA LINGUA, nell’istituzioni politiche e civili, e nei costumi dei romani. Ma se i dati estrinseci su cui è eretta l'ipotesi della origine etrusca dei luceri non giustificano siffatta conghiettura, le prove intrinseche dimostrano addirittura la sua falsità. Queste prove si de sumono DALLA LINGUA e dalla religione dei Romani. È ovvio, che se gl’etruschi danno un proprio contributo alla formazione del popolo romano, in tal caso LA LINGUA LATINA dove somministrare la chiave per decifrare l’inscrizioni etrusche, ed essa stessado vrebbe contenere tale copia di voci etrusche da assumere il carattere di una lingua mista, ossia, di una lingua formata di due diversi organismi. Ma NÈ IL LATINO AIUTA A SPIEGARE L’ETRUSCO, nè nella costituzione organica della lingua del Lazio apparisce alcun vestigio di miscele eterogenee; chè, anzi, LA CARATTERISTICA PECULIARE DELLA LINGUA LATINA È LA STRAORDINARIA UNIFORMITÀ DELLA SUA FORMAZIONE. Lo che attesta la uniformità della sua formazione. Alla stessa conclusione conduce l'esame delle istituzioni religiose di Roma. Se i luceri sono stati una tribù etrusca, la religione romana contene traccie di divinità e di culti etruschi, come ne presenta di divinità sabine. Imperocchè il pareggiamento successivo della terza tribù alle due prime dove avere per effetto la mutua comunicazione dei rispettivi culti, come ciò è avvenuto prima fra i ramni e i Tizii, ossia fra latini e Sabini. ORA, LA RELIGIONE ROMANA NON PRESENTA UNA SOLA DIVINITÀ E UN SOLO CULTO CHE VESTA UN CARATTERE ETRUSCO. Anche lo stato d'inferiorità, in che, rispetto alla tribù dei ramni e dei tizii, trovasi la tribù dei luceri, portato al grado da tenere costoro fino al tempo di Tarquinio Prisco esclusi dal senato, contraddice alla ipotesi che i luceri entrassero fin dal l'origine di Roma a formar parte del primo popolo, e compissero di questo la compagine etnica recando nel suo seno l'elemento etrusco. Questo stato d'inferiorità si spiega invece in modo semplice e naturale, quando ammettasi che la tribù dei Luceri fosse costituita dai nobili d'Alba tramutati a Roma, e che quindi entrasse più tardi a formar parte del primo popolo. Alla posteriore aggregazione dei luceri alle due primitive tribù, e allo stato d'inferiorità dei primi rispetto alle seconde accenna il verso di Properzio. Hinc taties ramnesque viri, luceresque coloni. Non mancano poi le prove dirette, dimostranti che i luceri, oltre ad esseretrati posteriormente nel consorzio dei romani e dei tizii, sono pure di origine albana. LIVIO (si veda), parlando degli stanziamenti condotti dal re Anco Marcio sul colle Aventino, osserva che egli assegn ai vinti latini per sede quel colle, perché gli altri quattro -- il PALATINO, il CAPITOLINO, il QUIRINALE e il CELIO (il Viminale e l'Esquilino sono aggiunti alla città solo dal tempo di Servio Tullio) sono già popolati. E cioè, il colle palatino dai romani primitivi, ossia dai ramni. E il capitolino e il quirinale dai sabini, e il celio dagl’albani. Ora, se questi ultimi hanno per loro stanza il celio, non saprebbesi davvero dove collocare i luceri, quando non siammettesse che i luceri e gli’albani sono la stessa cosa. La critica adunque negando la origine etrusca dei luceri, ha messo in sodo il fatto che la nazione romana venne composta di due elementi etnici, anzichè di tre, il latino, cioè, e il sabino.Questa composizione spiega il carattere che distingue la nazione romana dalle altre nazioni italiche. Questo carattere è il prodotto della fusione di due stirpi che pareno fatte apposta per completarsi a vicenda. Dall'e lemento sabino il popolo romano riceve la frugalità, lo spirito religioso, la severità dei costumi, il principio della patriapotestas lasciata senza freno dalle leggi. Sono la base di granito e il duro cemento che i sabini apportano all'edifizio romano. Se nel sabino prevale lo spirito di conservazione, nel latino predomina lo spirito di sviluppo. Ma come il primo non è inflessibile, così il secondo non è radicale. E dal contrasto fra la mobilità latina e la stabilità sabina deriva quel lento, ma pur continuo e sicuro sviluppo della costituzione romana, che forma di essa la più grande creazione politica della civiltà antica. Ma le tribù dei ramni, dei tizii e dei luceri non formano tutto il popolo romano. Accanto a loro comparisce, come parte costitutiva di esso popolo, la plebe, la quale, dopo di essere rimasta a lungo in uno stato di semi-dipendenza dal primo popolo, ossia dal PATRIZIATO, fini col prevalere su di esso, ed obbligarlo a seguire la sua via. Ora, come sorge questo ceto sociale? Ecco il  problema che ci proponiamo di risolvere in questo nostro lavoro. I romani non sono ignari di questo prezioso patrimonio che hanno ricevuto dai sabini. Ce lo attesta CATONE (si veda) per bocca di SERVIO. Sabinorum mores populum romanum secutum CANOTE dici SERVIO ad En. Vedi Devaux, Études politiquessur les principaux événements del'histoire romaine, Paris. La quistione dell'origine della plebe e studiata particolarmente da STRESSER,Versuch über die römischen Plebejer der ältesten Zeit, Elberfeld, PELLEGRINO (si veda), Ueber den ursprünglichen Religionsunterschiedder Patricier und Plebejer, Leipzig, lune, Forschungen auf dem Gebieteder römischen Verfassungsgeschichte, Frankfurta. KRUSZYNSKI, Die römische Plebs in ihrer politischen Entwickelung vom Ursprunge bis zur völligen Gleichstellunng mit den Patriciern, Lemberg, SCHWEGLER, Römische Geschichte. TOPHOFF, De plebe romana, Essen. WALLINDER, De statu plebejorum Romanorum ante primam inmontem sacrum secessionem quaestiones, Upsaliae. Lange, Verbindung der plebs mit dem patricischen Staate nei Römische Alterthümer, Berlin. Gli storici antichi sono affatto all'oscuro intorno il fatto della origine del ceto plebeo di Roma. La sola cosa che essi sapessero è che la plebe èsi trovata sempre in uno stato d'antagonismo verso il patriziato. Da ciò la definizione negativa che essi dano della plebe, chiamandola il ceto in cui gentes civium patriciæ non insunt. Per qual via poi l'antagonismo è nato, o in altri termini, come la plebe ha origine, ciò essi riguardano come una quistione oziosa, imperocchè a loro paresse assurda l'idea che è mai esistito uno stato romano senza plebe; onde per loro è un assioma, che patriziato e plebe sono nati e cresciuti insieme collo stato romano. Contro questa presunzione sta però il fatto, non considerato, della condizione giuridica diversa in che trovavansi due ceti sociali all'infuori del patriziato, la quale attesta che essi non sono nati insieme nè allo stesso modo. Accanto alla plebe, trovasi, cioè, nei primi tempi dello stato romano, LA CLIENTELA, caratterizzata e distinta dalla plebe dalla forma speciale della sua dipendenza. Mentre la dipendenza della plebe ha un carattere impersonale e comprende il ceto nella sua generalità, quella della clientela impegna giuridicamente l'individuo come persona e non come consorte, ed appunto perciò esso nomavasi “cliente” -- da cluere, klúeiv, dipendere -- in quanto che è ascritto alla gente di un patrono, e da questo dipende. Che se nel giure politico plebei e clienti trovansi originariamente costituiti nella stessa condizione negative. Nel giure privato, la condizione loro è assai diversa. Il cliente nè possede del proprio, nè puo stare in giudizio; mentre il plebeo possede su questo campo piena personalità giuridica (civitas sine suffragio). Di guisa che, quando per la costituzione di Servio Tullio, il censo divenne il fattore del diritto di suffragio, questo diritto i plebei conseguirono, mentre i clienti ne rimasero orbi come per il passato. Ora, questa differenza esistente fra i due ceti inferiori non si pud altrimente spiegare fuorché ritenendo, che l'origine loro è, rispetto al tempo e al modo, diversa. La clientela deve certamente avere preceduto la plebe, e l'inferiorità della prima rispetto alla seconda dimostra che la forza, che crea la sottomissione dei due ceti, esercita sui vinti ridotti in clientela un impero più assoluto che su quelli ridotti in istato di plebeità. Perchè il cliente conseguire potesse il IVS SUFFRAGII fa mestieri che il dominium, che egli tene come peculium, gl’è assegnato come libera proprietà EX IVRE QVIRITIVM. Il quale atto    equivale in certo modo ad una manumissio censu. Ora, se l'istituzione della clientela è più antica che quella della plebe, è forza cercarne l'origine nella prima conquista che frutto ai Ramni ed ai Tizii il dominio del Settimonzio. Gl’abitanti primitivi di quella regione devono avere formato il nucleo della clientela romana, che le ulteriori conquiste vennero via via ingrossando. Ma tra la prima e le ulteriori conquiste, corse, rispetto agli effetti sociali, forte differenza. Se la prima non produce che dei clienti e degli schiavi, le successive produceno particolarmente dei plebei. Già l'interesse politico consiglia i conquistatori a temperare verso i nuovi vinti il rigore dell'antico IVS GENTIVM; e noi non abbiamo memoria della piena applicazione di quel diritto che verso la città di Collazia. E se alle famiglie imperanti è pur piaciuto di partire i novelli sudditi fra le genti romane, traducendole sotto la loro clientela, la monarchia dovea opporsi a questo uso della conquista che ha con pregiudizio della regia potestà accresciuto in modo esorbitante la potenza dell'aristocrazia. E chi sono poi questi vinti? SONO LATINI. Apparteneno, cioè, a quella STIRPE che ha coi ramni formato il nucleo della cittadinanza romana. Sono dunque connazionali dei romani. Che se costoro hanno pei vinti Albani tale riguardo, d’ammetterli nel loro consorzio religioso e politico, perchè vorrassi ammettere che verso gl’altri popoli latini, sottomessi pure colle armi, applicano in tutto il suo rigore il diritto della guerra? E ove pure si ammettesse che questo rigore è usato, come ci renderemmo ragione del sorgere di questa plebe e della importanza sociale che venne improvvisamente acquistando, così da presentarsi come un potente appoggio della monarchia, e da ricevere da questa servigi e beneficî che schiuderanno all'avvenir suo il più vasto orizzonte? Non dimentichiamo che questi plebei son LATINI. La tradizione stessa ci dice quando e per opera di chi i popoli del LAZIO caddero sotto ladizione diRoma. La distruzione d’Alba Longa, e il tramutamento dei nobili albani nel Settimonzio, portano per effetto lo scoppio d’ostilità fra le città latine, erettesi a vindici della loro antica metropoli, e Roma che pretende, come conquistatrice d’Alba Longa, di essere riconosciuta anche come erede della sua [Livio ci ha trasmessa la formula deditionis di Collazio, che egli attinge verisimilmente dai Commentarii Pontificum. Rex interrogavit. DEDISTIS NE VOS POPVLVMQVE CON LATINVM VRBEM AGROS AQVAM TERMINOS DELVBRA VTENSILIA DIVINA HVMANAQVE OMNIA IN MEAM POPVLIQVE ROMANI DICIONEM?  Dedimus. LIVIO (si veda) La domanda del re è rivolta ai deputati di Collazia. Rivista di Storia Italiana] egemonia sulla confederazione latina. La grossa guerra scoppia sotto ANCO MARCIO (si veda). Non è dubbio che questi, prima di scendere in campo, approfittasse delle gelosie esistenti fra l'una e l'altra città latina, e che sono effetto di ogni confederazione a base ristretta, per rompere il fascio con promesse e lusinghe date a tempo e a luogo. Senza ciò, non potremmo avere ragione della sua facile e completa vittoria. Ora che cosa faA ANCO MARCIO (si veda) di questi nuovi vinti? Gli storici antichi ce lo apprendono in modo chiaro. ANCO MARCIO (si veda), dice CICERONE, quum Latinos bello devicisset, adscivit eos in ci vitatem. E LIVIO, completando il racconto di CICERONE, osserva che Anco segue rispetto ai vinti Latini il costume regum priorum, onde anche allora parecchie migliaia di Latini sono introdotti nella cittadinanza romana. Tum quoque multis millibus Latinorum in civitatem acceptis. Non cicuriamo del racconto tradizionale, che fa materialmente introdurre da Anco in Roma questi vinti, e assegnare ad essi per sede IL COLLE AVENTINO e LA VALLE MURCIA. In questo racconto, la prolessi storica è manifesta: che sappiamo in modo in contestabile, che l'Aventino è disabitato. Ma lasciando da parte questo particolare, ciò che va considerato nel racconto tradizionale è il fatto della cittadinanza concessa d’Anco Marcio ai vinti latini. E perchè, nè questa è la prima guerra combattuta vittoriosamente da Roma contro i latini, e nemmeno è la prima volta che della vittoria è fatto quest'uso; ne emerge, e LIVIO (si veda) avvalora l'induzione nostra, che se la conquista d’Anco da il maggior contingente al ceto plebeo, essa non ne inizio la formazione, come suppone Niebuhr, seguito in cio da Schwegler, da Lange e d’altri. BONGHI (si veda), per ora si limita a dire, che non crede che la plebe dove la sua origine ad Anco ,e promette, che procura altrove di esporre donde sia nata l'opinione di una condotta rispetto a'vinti nei re di Roma, cosi diversa da quella che per molto tempo appare propria della città nel seguito della sua storia. E perchè insin d'ora egli dichiara esposta a molti e gravi dubbii cosi larga concessione di cittadinanza, il desiderio di sapere quale opinione l'insigne storico porti sul gravissimo tema della ori  [Lo fa abitare la “les Icilia de Aventino publicando”. Il tenore di questa legge ci è dato da Dionisio, il quale attesta di aver letto il testo originale di essa inciso in una colonna di bronzo che sorgeva nel tempio di Diana sull'Aventino. Drox., DeRep., Liv.] gine della plebe romana rimane più fortemente sentito. Comunque sia perd dell'opinione di BONGHI (si veda) su ciò, noi rimaniamo saldi nella nostra, la quale, oltre ad avere il suffragio delle fonti, ha pure in suo favore la condizione sociale da cui la romana plebe fu costituita. Il plebeo romano è agricoltore. Egli non è nè commerciante nè industriale.Queste arti, che nell'antichità sono assai meno considerate dell'agricoltura, sono professate in Roma peculiarmente dai clientie dai liberti. Codesta condizione sociale della plebe romana è attestata dalla tradizione in più modi. Ora, essa ci dice che SERVIO (si veda) Tullio, per poter avere l'appoggio della plebe alla sua esaltazione al trono, chiama in città i rurali, e per bocca di CATONE ci dice che gl’agricoltori formano il nerbo della fanteria romana. Ma un testimonio che serve per tutti, è l'antica istituzione che l’adunanze plebee, ossia i comizii tributi, non si possono tenere che ne igiorni di mercato (nundines), e che ogni proposta di legge dove pubblicarsi III giorni di mercato (tri-nundines) prima di essere messa a partito. Anche la condotta tenuta dalla plebe nella sua lotta col patriziato conferma questa condizione sua. Gli storici qualificano siffatta condotta colle parole modestia, verecundia e patientia. Sono doti codeste che appariscono più proprie di coloro che attendono alla coltura dei campi, che di coloro che praticano l'industria e il commercio. E se le contese sociali di Roma non degenerano in [EX AGRICOLIS VIRI FORTISSIMI ET MILITES STRENUISSIMI GIGNVNTVR -- CATONE, De re rustica, Praef., MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia. Rutilius scribit Romanos instituisse nundinas, ut VIII quidem diebus in agris rustici opus facerent, nono autem die intermisso rure ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent, et ut scita atque consulta frequentiore populo referrentur, quæ tri-nundino die proposito a singulis atque universis facile poscebantur. Ci sia permesso di riportare su l'influenza educativa dell'agricoltura un brano di una conferenza che tenemmo all'esposizione di Milano, col titolo L'industria nei suoi rapporti colla civilta. Gli economisti, dicevamo, sogliono distinguere due specie di lavoro. Quello che agisce sulle cose, e quello che agisce sugl’uomini. Questa distinzione non è esatta. Se tolgasi il lavoro puramente intellettuale, ogni altro agisce ad un tempo su gl’uomini e sulle cose. Questa duplice azione viene esercitata sopratutto dall'agricoltura e dall'industria. Dal raffronto fra queste due arti ritrarremo la ragione psicologica del nesso intimo che esiste fra l'industria e la libertà. L'agricoltore riguarda la TERRA come fonte unica della ricchezza. Essa è per lui una provvidenza e un mistero ad un tempo. Perciò noi lo vediamo affezionato al suo suolo, ivi fissato in istabile sede, ed unito in pacifico consorzio co'suoi conterranei. Da questo legame contratto dall'uomo colla terra che lo nutre nacque il primo concetto di PATRIA, come dai consorzii generatid all'agricoltura hanno origino i primi stati. Ma la terra non è per l'agricoltore solo una provvidenza, essa è per lui anche un mistero. E questo lato misterioso è una sorgente feconda di superstizioni, che egli puo facilmente anche nei negozi civili, o nelle maggiori contingenze della vita pubblica. Quei soldati di Nicia e Demostene, che una notte ricusarono di levare il campo da Siracusa e rifugiarsia  [Livio, CICERONE, de Rep. Riassumendo pertanto le cose dette intorno la formazione della plebe romana, diremo, che sebbene la genesi di quel ceto non puo essere chiarita in tutti i suoi particolari, tuttavia hannosi dati positivi, i quali rilevano di che elementi è formato, e la ragione politica che induce i vincitori a trattare i vinti con una generosità di cui non si ha esempio nella storia dell'antichità. Questi dati ci dimostrano ancora che l’istituzione della clientela precedet quella della plebe, e ci spiegano il diverso trattamento avuto dai primi vinti rispetto ai secondi. Catania, perchè quella notte comparve in cielo un ecclisse lunare, sono agricoltori dell'Attica. E l'essere essi rimasti in quel luogo porta per effetto lo sterminio della flotta e dell'esercito ateniese, e la rovina d’Atene. Del resto, non è da meravigliarsi che l'agricoltore sia superstizioso. Quel grano che egli consegna alla terra per riceverlo moltiplicato, non gli dice come sia avvenuto il fatto della moltiplicazione sua mentre questo evento che ogni anno si rinnova gli stordisce l'intelletto, altri fenomeni del mondo fisico, di natura deleteria, gli riempiono l'animo disgomento e di terrore. L'uragano che gli devasta il campo; la grandine che gli distrugge le messi, gl’appariscono mandatarii di forze arcane che gli fanno la dallo stesso principio che aveva dato nascimento alle gerarchie ipercosini che hanno origine le gerarchie sociali, trasformate ben presto in tirannidi. Il despota non è un uomo come un altro. Egli è il mandatario di un ente superiore che gli affida l'incarico d'imperare in suo nome. E l'agricoltore subisce rassegnato il suo imperio, e comprende nel suo culto mandatario e mandante, dai quali altro non impetra che la sua pace. Quanto diverso è il magistero civile che si consegue dall'industria! Anche l'industriale ritrae dalla natura fisica la materia del suo lavoro. Ma questa materia in luogo di essere per lui un mistero, è invece una rivelazione. Essa gli rivela che egli coll'opera della sua intelligenza non solo può trasformare i pro dotti della natura e adattarli a'suoi bisogni, ma può anche sorprendere i segreti di essa e svelarli. Si, l'intelligenza gl'insegna ch'egli può perfino combattere contro la natura, ora congiungendo mari da lei divisi, ora atterrando baluardi da lei inalzati fra l'una e l'altra regione, ora sopprimendo colla vaporiera e coll'elettrico le distanze. Se l'agricoltore può chiamarsi servo della natura, l'industriale può dirsi suo ribelle. Ed è mai possibile che quest'uomo, al quale l'impero della natura è troppo grave, possa rassegnarsi a sopportare l'impero di un suo simile?  guerre civili, come avvenne in tutti gli altri stati dell'antichità conjattura della loro libertà, cio e particolarmente dovuto al carattere longanime e paziente della plebe romana, la quale, convinta del suo diritto, lascia che il tempo ne fa maturare la coscienza anche nei suoi avversarii, e transigette sopra uno scacco patito oggi per essere più sicura della vittoria domani. guerra , e contro le quali egli non sa difendersi. Da ciò il suo ricorso ad una tutela che lo educherà alla sommessione per prepararlo alla servitù. In questi misteri del mondo fisico è riposta quindi la genesi tanto delle religioni, quanto delle teocrazie. Le due specie divine, l'una delle quali risiede in cielo in mezzo alla luce, l'altra negli abissi del tartaro, sono emanazioni antropomorfe delle forze benefiche e malefiche della na tura. Create le specie, e facile creare una SIMBOLICA, per mezzo della quale spiegare i diversi fenomeni e momenti della natura fisica. In questa simbolica vediamo attribuita una importanza affatto speciale al fenomeno della fecondazione terrestre. I latini simboleggiarono quel fenomeno in una festa nuziale divina chesirinnovava ognianno nel mese di dicembre, quando la natura si raccoglie in sè, e serba in istato latente le sue forze per ispiegarle rigogliose tra poco. Così ebbero origine in Roma i saturnali, la più popolare delle feste romane, durante la quale era concesso anche agli schiavi di ricordarsi di essere uomini. La chiesa cristiana sostituì ai Saturnali la nascita del Cristo, e non poteva collocare in migliore luogo la comparsa dell'uomo che veniva ad insegnare, essere tutti gli uomini eguali davanti a Dio. La clientela sorse colla conquista del Settimonzio, ossia, colla for mazione del primo stato. E clienti diventano i prischi abitatori di quella contrada. La plebe surse invece col primo sviluppo che con seguì lo stato romano fuori del Settimonzio, nelle altre contrade del Lazio. Una eccezione fu fatta cogli Albani, e fu eccezione di privilegio dovuta al primato che Alba Longa possedeva verso le città della lega latina. Sia la riverenza che tributar si volle all'antica metropoli; si al'interesse político, che consiglia la larghezza verso i vinti Albani, per poter più facilmente ridurre le città latine ad accomodarsi alla nuova padronanza. E l'una e l'altra ragione portano per effetto, che gl’Albani venissero dai vincitori accolti nel loro consorzio religioso e politico,e costituiti in una nuova tribù. Questa larghezza non poteva essere usata verso le altre città la tine, e ciò per più ragioni. Prima di tutto, va considerato il carattere d'inferiorità che, rispetto alla loro importanza, si manifesta fra esse città e Roma. Se eccettuisi Alba Longa, che ha una posizione privilegiata rispetto alle città latine confederate, queste son tutte sul piede di una piena eguaglianza vicendevole. E però, nessuna di esse puo invocare dal vincitore un trattamento eccezio nale accampando privilegi anteriori che non erano stati posseduti. Però, se l’eguaglianza delle città vinte fra loro non dava luogo a sperare che il iVS GENTIVM non sarebbe stato applicato verso di esse in tutto il suo rigore, vi sono altre ragioni che creano questa speranza, la quale ha poi nel fatto sua piena conferma. L'una di queste ragioni era riposta nella connazionalità esistente tra vinti e vincitori, Roma, dove la sua origine all'atto geniale di un fondatore, o alla deliberazione di un'assemblea, non puo dimenticare che dal Lazio sono partiti i suoi primi fondatori, i Ramni; e che dal Lazio, essa avea tolto i suoi costumi e le sue primitive istituzioni. Dopo il tramutamento in Roma dei vinti Albani, la latinità di Roma rafforza il suo contingente, onde avvenne che i rapporti morali fra lei ed il Lazio si fanno più forti e più sentiti. I quali rapporti non possono rimanere senza influenza il giorno in cui la vittoria trasse le città latine sotto la dipendenza di Roma. Anche l'interesse monarchico concorse a mitigare la sorte dei vinti. Importa ai re di rivolgere a loro profitto questa novella forza che ora introducevasi nello stato, per potere col mezzo di essa mettere un freno alle tendenze invaditrici del patriziato. Cosi, pel concorso di due circostanze, che apparentemente contraddiceansi, i vinti Latini ebbero pur essi da Roma un trattamento eccezionale. Non sono ascritti nel consorzio gentilizio come i nobili albani, ma non venneno nemmeno degradati allo stato di clientela. Diventano invece PLEBE, che vuol dire massa disorganizzata (da PLEO, PLENVS). Ma non e lontano il giorno, che essa conseguirà pure un organismo suo; e allora il nome non rappresentando più la cosa, non le rimane che come ricordo storico. Ed è il giorno, in cui, per opera di Servio Tullio, al principio teocratico che cinge in nome del diritto divino di una cerchia di ferro i privilegi del patriziato, si sostituirà il principio timocratico, che apre quella cerchia per attribuire il privilegio al censo. È questa la prima breccia aperta nella cittadella del patriziato. Dopo di essa, la espugnazione della fortezza diventa quistione di arte strategica, che è a dire, quistione di tempo. Bologna, giugno. Ma se la plebe nel suo nascere non possede la personalità giuridica che implica il jus commercii, essa non avrebbe potuto pervenire per mezzo del diritto di proprietà a quello del suf fragio, e la riforma di Servio Tullio sarebbe rimasta sterile per lei, come sarebbe mancata la ragione politica di crearla. Rino Genovese. Genovese. Keywords: tribù, attribution, self-ascription, ascription, labelling, power, language, illuminism, critical illuminism, critical theory, critica della ragione impura; tribu occidentale; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Genovese” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Genovesi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della logica pei giovanetti – filosofia campanese – cuola di Salerno -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Castiglione del Genovese). Filosofo campanese. Filosofo Italiano. Castiglione del Genovese, Salerno, Campania. Grice: “I like Genovesi.” Grice: “Genovesi is a good’un – he reminds me of Oxford – his treatise on logic he called ‘per gli giovenetti,’ which is, as Piaget would say, as it would.” Grice: “Genovesi reminds me of Strawson, or rather of myself teaching logic to Strawson back in that infamous term of 1938!” – Grice: “I like Genovesi; I don’t think Socrates taught logic to Alcebiades; he couldn’t teach since the ‘dialogue’ is hardly the way to do it; and then Socrates did not teach logic to Plato; Plato did not teach logic to Aristotle, since the dialogue is not the way to go – so it is possibly Aristotle who first ‘taught’ logic to Alexander – this would indicate that he felt the need to change the form from silly dialogical exchanges to actual propositions that Alexander could swallow – “Sign” is what stands for something – a word is the sign of an idea – the idea is the sign for a thing.” – and so on. “Some things imply others; others IMPLICATE others.” – Grice: “Genovesi has an interesting bunch of things to say about logic, but then any writer of a ‘tractatulus’ in logic would: so he explores the natural/conventional distinction as applied to signs, and then the affirmation and negation, and pragmatic concerns with obscurity and ambiguity – and sophismata – and complex ‘causal’ propositions, -- quite a genius – and if a palaeo-Griceian, if I may myself say so!” Il padre lo indirizza in tenera età verso gli studi. E affidato agli insegnamenti di Niccolò G., un congiunto, medico tornato da Napoli, il quale lo istruì in filosofia peripatetica – del LIZIO -- e quella cartesiana. Nel corso degli studi filosofici, si innamora di Angela Dragone. Questo amore non trovò l'approvazione del severissimo genitore il quale condusse immediatamente il figlio a Buccino, dove abitavano alcuni parenti, presso il convento dei Padri Agostiniani dove segue gli insegnamenti filosofici d’Abbamonte, appassionandosi al latino di Catone e Varrone. Insegna retorica a Salerno dove incontra Doti, dal quale riceve lezioni di perfezionamento nel latino.Si trasfere a Napoli, dove intraprese dapprima la carriera forense, che lascia presto. Fonda una scuola privata di metafisica e teologia. A Napoli e in contatto con VICO e ottenne la cattedra di metafisica. Alcune sue posizione contenute in “Elementa Metaphysicae” furono dai suoi nemici considerate eretiche, e dovette servirsi dell'intervento dell'arcivescovo di Taranto Galiani, e di Benedetto XIV per conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce lascia l'insegnamento della metafisica a Napoli, per passare all'etica, cattedra tenuta in passato da VICO.  L'evoluzione dalla metafisica- all'etica prosegue con il passaggio all' “economia” quando si compì la trasformazione 'da metafisico a mercante', come egli stesso ebbe a scrivere nella sua autobiografia. Insegna'commercio e meccanica, con fondi privati da Intieri, la prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa, se non consideriamo cattedre di economia quelle istituite negli anni venti Professorei n Prussia nell'ambito della tradizione camerale. Il suo lavoro come economista è stato quello più fecondo, tanto che G. divenne un autore fondamentale. Si diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta allo spirito e al costume della Contro-Riforma: gli spunti di polemica antigesuitica e anticlericale, la ripresa della lotta in difesa dell'autonomia di un sato laico contro ogni interferenza del cattolicesimo, ai primi elementi di una teoria delle monarchie illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano letterario, l'avvento di una poetica e di una critica più aperte e coraggiose.  In pratica, fu l'inizio della vera rivoluzione culturale che si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il segno dell'Illuminismo caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente i cardini dciviltà in tutte le sue manifestazioni. In questo ambito, la filosofia politica di G.e decisamente di tipo riformatore, un anglofilo sotto spoglie francesi. Nella sua filosofia, persegue un compromesso tra idealismo ed empirismo, cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali valori religiosi della filosofia cristiana. Riceve l'influenza del nuovo panorama culturale italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti il concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo stato d’oscurità (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les Lumières). Prese coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale dopo il periodo d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della necessità di intervenire per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a nuovi splendori. “Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici e che cominciava ad avere in orrore studi si turbolenti, e spesso sanguinosi, feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non pensare più a queste materie. Per tale motivo, abbandona la metafisica e si dedica all’economia affermando tra le altre cose, che l’economia deve servire ai governi per alimentare la ricchezza e la potenza del stato. Ritiene che per favorire il benessere “sociale” sia necessario promuovere la cultura e la civiltà, per questo motivo è il primo cattedratico ad impartire le sue lezioni in italiano. Docente di economia politica, occupa una cattedra istituita appositamente per lui di commercio e meccanica a Napoli da Intieri. Soggiorna più volte nel palazzo proprio di Intieri a Massaquano per lunghi periodi dove si rifugiava per trovare "la musa ispiratrice" e lì infatti scrisse alcune sue opere. Sostiene che anche le donne e i contadini abbiano diritti alla cultura poiché questa è uno strumento fondamentale per realizzare l'ordine e l'economia nelle famiglie, e di conseguenza nella società, è inoltre importante anche l'educazione degli uomini e in particolar modo lo sviluppo delle arti e delle scienze, contrapponendosi all'idea di Rousseau per il quale il progresso costituisce la fonte di tutti i mali. Denuncia anche la presenza di un numero eccessivo di persone che vivono esclusivamente di rendita e affronta tematiche importanti come problemi di debito pubblico, inflazione e circolazione monetaria. Il suo pensiero economico è espresso in Lezioni di commercio o sia di economia civile  e considerate una delle prime opere di filosofia economica. Cerca, così, di indicare la via per alcune riforme fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà fondiaria, del protezionismo governativo su commerci e industrie. Tenne sempre le sue lezioni in italiano grazie alla sua passione per il civile: viene ricordato per essere stato il primo docente a esprimersi in italiano durante i suoi corsi e per essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e di logica in italiano. Così operò, anche e soprattutto, per diffondere lo studio dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo atteggiamento G. è ancora una volta in piena continuità con gli umanisti, giudicando anche questo un mezzo di incivilimento. Altri saggi: Lezioni di commercio (Milano, Fondazione Mansutti), Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata, Napoli; Elementorum artis logicae-criticae libri quinque Gli elementi dell'arto logico-critica, Venezia, Meditazioni filosofiche; Lettere filosofiche;  Lettere Accademiche; Memorie Autobiografiche; Lezioni di commercio o sia d'economia civile; Della diceosina o sia della Filosofia del giusto e dell'onesto; Delle Scienze Metafisiche; Altre opere da ricordare sono La logica per i giovanetti, Istituzioni di Metafisica per Principianti e Lettere familiari, che testimoniano l'intensa corrispondenza epistolare tra l'abate e il letterato dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei pochi testimoni dell'illuminismo pugliese. Corpaci, G.; note sul pensiero politico, Giuffrè, Jones, Reception of Hume in Europe, Continuum, Palatano, Rosario; G. G.: teoria del commercio, LUISS, G. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Villari, Il pensiero economico di G., Monnier, Chines, Loredana. Su alcuni aspetti linguistici degli scritti di G., Pensiero politico, Alessandra, G.: uno dei padri dell'illuminismo meridionale, su historiaiuris, Bonomelli (a cura di, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede bibliografiche di Battista, note critiche di Mansutti. Milano: Electa, Bruni, Voce, G., Il Pensiero Economico Italiano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani. Bruni e Zamagni, Economia civile, Il Mulino, Bologna,. Fusco, G. e il suo mercantilismo rinnovato, in Fusco, Visite in soffitta. Saggi di storia del pensiero economico, Napoli, Editoriale Scientifica, Galasso, Il pensiero religioso di G., Rivista storica italiana, G. Genovese, Contro le "Penelopi della filosofia". Note sulle Lettere accademiche di G., L'acropoli, G. Genovese, Tra Vico e Rousseau: le autobiografie di G. L'acropoli, D. Ippolito, G. lettore di BECCARIA, Materiali per una storia della cultura giuridica, C. Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel pensiero di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, Perna, Eluggero Pii e l'edizione delle opere di G. Dialoghi e altri scritti. Intorno alle Lezioni di Commercio, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, A. M. Rao, Etica e commercio: i Dialoghi di G.  nell'edizione di Eluggero Pii, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali,  Rother, G., in Rohbeck, Rother: Grundriss der Geschichte der Philosophie, Die Philosophie des 18. Jahrhunderts, Italien. Schwabe, Basel, Villari, G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, Studi Storici, Zagari, Il metodo, il progetto e il contributo analitico di G., Studi economici, Gleijeses, Napoli nostra e le sue storie, Società Editrice Napoletana, Napoli, Signorelli, Treccani, Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Antonio Genovesi, sConferenza Episcopale Italiana.  Opere di G. G. (altra versione), su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di G., Bruni, G., Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,  Ricci, G. in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Barbagallo, G., Estratto da: Rassegna Storica Salernitana.  G. non è uno di quei filosofi, che  fanno compiere un passo innanzi al pensiero filosofico. A paragone del grande Vico, che si gloria di  aver avuto maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue  opere con profondo rispetto, G. apparisce come  uno di quei mille ammiratori, più o meno sinceri, che VICO ha tra i suoi contemporanei e tra gli uomini più  illuminati delle generazioni successive; i quali ebbero un  certo sentore di alcune teorie di lui, concordanti o no  con dottrine congeneri di altri pensatori e da annoverare  tra le parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i  problemi originali posti e risoluti dal Vico, si può dire,  non ebbero senso. Se pertanto nella storia del pensiero  il Vico rappresenta quello che egli rappresenta a’ nostri  occhi di storici che han penetrato il significato di quei  problemi, G. dopo di lui è un arresto o una deviazione. Quella vena speculativa altissima nello scolaro discorso tenuto al Teatro Verdi di Salern, ìn occasione del monumento inaugurato lo stesso giorno a Castiglione  di G.. L’illustre VICO, uno de’ fu miei maestri, uomo  d’immortai fama per la sua Scienza Nuova (Lez. di Comm.,  Napoli, Il nostro VICO nella  Scienza Nuova, libro maraviglioso e uno dei pochi che in queste materie [su Omero] facciano onore all’ Italia (Logica e Metafisica, Milano, Classici italiani, ALBORI DELLA NUOVA ITALIA è inaridita. Il pensiero ha cambiato strada, abbandonando  gli ardui argomenti con cui s’era cimentato.   Ma il paragone col Vico storicamente non è giusto. I due pensatori in verità appartengono a due piani  storici, da uno dei quali non si passa all’altro direttamente.  Se G. non ebbe occhi per vedere i problemi del  Vico, neanche il Vico, dalla parte sua, ebbe occhi per  vedere quelli di G.. Uomini di tempra diversa,  con diversi interessi spirituali, si può dire che il maestro  abbia pensato sempre al cielo, e lo scolaro alla terra.  L’uno non si guarda mai attorno se non come uomo  privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge alla  sua scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si  assorbe tutto, estraniandosi affatto dai pensieri, dalle  gioie e dai dolori della vita quotidiana. Dove non sono  in verità gli attori del dramma che egli ama studiare e  nel cui studio concentra infatti le energie più potenti  della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra i coetanei come l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non  è di questo mondo. Quantunque il suo animo, propriamente, sia a questo mondo legato così strettamente come  nessun altro mai, e di questo mondo, scrutato con sguardo  penetrante fino al profondo, aspiri appassionatamente  a intendere il significato, e in questo mondo appunto  agogni con titanico sforzo a conquistarsi razionalmente,  col pensiero, un suo posto. Ma questo mondo egli vuol  vederlo sub specie aeterni, come mondo che è sempre lo  stesso, in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti  sempre diversi, ma per l’interna virtù che lo muove con  immutabile legge. L’altro invece è tutto occhi pel mondo che si agita  intorno a lui, nella scuola e fuori della scuola; nelle città  e nelle campagne; nello Stato e nella Chiesa; a Napoli,  per tutta Italia, e di là dall’Alpi. L’istruzione del  popolo e l’educazione dei giovani; l’agricoltura e il commercio; l’economia del Regno, e i problemi della feudalità e della manomorta; il problema della moltitudine degli  ecclesiastici eccessiva in rapporto alla popolazione; e poi  la questione giurisdizionale e l’ardente lotta anticurialista in difesa dei diritti dello Stato; e via via tutte le  questioni che erano all’ordine del giorno nella Napoli del  tempo, o che uno spirito alacre ricavava da quelle a cui  la pubblica opinione s’interessava. E poiché i paesi  allora alla testa della cultura europea erano insieme  Inghilterra e Francia, e i libri che si pubblicavano in  quelle lingue i più letti, celebrati e discussi, ecco quelle  lingue, insieme con le classiche, a cui Vico si era limitato,  studiate e possedute con animo pronto a seguire il movimento della letteratura straniera in ogni campo di ricerche filosofiche e sociali. Allargato quindi enormemente  l’orizzonte. Non più quel carattere antiquato e accademico della scienza tradizionale, nel cui cerchio si muove  ancora il Vico, modernissimo per la sostanza de’ suoi  problemi, arcaico per la forma (lingua ed erudizione)  E la modernità segna la fine di quel chiuso provincialismo, onde lo scrittore napoletano si è sentito sempre  cittadino di Napoli. G. guarda più in là di Garigliano e di Tronto. Egli si sente italiano; e come  italiano, partecipe dell’unica società europea della cultura.  Italiano e moderno, si lascia alle spalle il vecchio mondo  tradizionale dell’accademia fratesca e teologizzante e  dell’angusta provincia, e respira largo, apre le finestre  della scuola della letteratura e del pensiero, e vive nel  tempo suo e si sforza d’interessare gli uomini, tutti, al  sapere e al lavoro dell’ intelligenza.   Siamo, come dicevo, in un piano diverso da quello  della pura filosofia. Qui si può dire che la filosofia rinunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli per  risorgere in forma più adeguata alle sue esigenze più  profonde. Ciò che è tante volte avvenuto nella storia; e avviene continuamente nella vita. Il pensiero sale, sale,  si purifica, si libera dal rappresentare fantastico e corpulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana,  per ridiscendere tosto al concreto della realtà che con  quell’astrazione ha cercato di definire e più perfettamente possedere: alla realtà che è corpo e fantasma,  e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso impeto dell’essere che tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di  ogni esistenza e di ogni luce. Il progresso è pur sempre  in certo modo regresso; e se si volesse andare avanti,  avanti sempre, si finirebbe col precipitare nel vuoto. Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna toccare  la terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come  l’Anteo della favola, da gigante che ha già la forza per  rialzarsi: che ha, in altri termini, un certo grado di coscienza filosofica.  Vogliamo sentire dallo stesso G. qual fosse il  suo ideale di cultura ? Basta leggere un suo Discorso sopra  il vero fine delle lettere e delle scienze, che pubblicò  innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari  per far rifiorire Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi  per giustificare la nuova via per cui egli si metteva, dopo  aver anche lui pubblicato i suoi libri di Logica, di Metafisica e di Teologia in lingua latina. In questi stessi  libri, per altro non è difficile scorgere le tendenze innovatrici di G. e il carattere dominante del suo pensiero filosofico, del quale ci proveremo qui appresso a  dare un sommario cenno ; ma ancora non è avvenuta la  radicale conversione per cui la mente dello scrittore, dopo  che ebbe trovato negli studi economici e sociali una materia più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma  storica, e ritrovò propriamente se stesso. In questo discorso G. propugna una sorta di  filosofia reale, com’egli dice, e cioè pratica ed applicativa: come dire una filosofia non propriamente speculativa e filosofica; e prende a partito tutti i più celebrati  filosofi della tradizione e le loro dottrine. Esalta bensì  la ragione come quella che più di tutte le nostre doti  ci rassomiglia a Dio, la sola cosa, per cui l’uomo si  solleva sopra tutto ciò ch’è in terra: la ragione, arte  universale governatrice di tutte le arti e strumenti onde  l’uman genere arricchisce la vita e viene ogni dì perfezionando il sistema dei mezzi diretti ad accrescerne il  benessere. Ma ne addita nelle astratte speculazioni e  schernisce i deviamenti già nell’antichità derivati appunto  dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni oziose,  sottili, astruse e atte nondimeno a suscitare la stima e l’ammirazione dei semplici e a procacciare una riputazione  fallace. Poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto sogliono più stimare quel che meno intendono, i dialettici  ed i metafisici. I don Chisciotti della repubblica delle  lettere, combattenti con gli indistruttibili giganti delle  chimere, per la gloria vanissima di sottilissimo ingegno, loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed usurparono il premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca fatale, che riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti  la Grecia, e ne’ secoli assai più vicini buona parte dell’Europa. Eppure, la prima e più antica filosofia era stata una filosofia tutta cose. I più antichi filosofi erano stati i  legislatori, i padri, i sacerdoti delle nazioni, studiosi di  etica, economica, politica; persuasi anch’essi, al pari di  tutti i buoni cittadini, che, « come partecipavano a’ comodi  della società, così dovevano aver parte alle cure e alle  fatiche » pel bene pubblico e domestico. Vennero dopo i  tempi di corruzione, in cui prevalse la massima che l’ozio  fosse un nobile e onorato mestiere. E quindi la genia infinita di coloro che sono «peste del vero sapere e della virtù; i quali si credettero nati o per garrire inutilmente, o per disputare di cose inintelligibili, o per mettere empiamente in ridicolo le sante ed utili cognizioni, le leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà. Vennero i grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti  de’ sogni dei poeti, o mercanti de’ propri; vennero i  metafisici, Penelopi della filosofia, implicati in disciorre  quelle tele, che eransi tessute colle loro mani; verniero  i dialettici, che « tendevano indissolubili lacciuoli alla  ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie  gittavan del negro, sotto cui il vero e il falso prendesse  un sol volto. Socrate, il gran Socrate, di cui è  detto  che richiamò la filosofia dal cielo in terra e a cui infatti  gl’uomini devono di sapere che tutto quello che si vuole  intendere essi non lo possono cercare se non nel pensiero,  cioè in se medesimi, — da G. non è ricordato qui  se non come colui che insegnò la più ricca e la più bella  possessione dell’uomo essere l’ozio. Dei suoi scolari non  gli giova menzionare altri che Aristippo e Diogene del CINARGO, corruttori del costume. Di Pitagora a scherno  ricorda la monade e il binario; e l’uno di Parmenide; e  l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme dell’ACCADEMIA  e le entelechie del LIZIO; ed altre cosiffatte «bambole  di ragione » degli altri più celebrati filosofi. Che dire poi della filosofia medievale ? Non si può  leggerne la storia senza aver pietà della debolezza dell’ingegno umano. Poveri scolastici! Vestono corazze  di carta, che stimano del più fino metallo; e combattono  con i mulini a vento, come con i giganti distruttori dell’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce fuor del nostro  mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra cosa,  fuor che di ciò che ci appartiene o c’ interessa.   In questa caricatura della storia della filosofia superfluo avvertire lo strazio che G.  fa delle più importanti dottrine dei maggiori pensatori. Voglio solo riferire in proposito un altro periodo, tipico documento  degli stravolgimenti storici di questa invettiva, e insieme  dello spirito che la moveva: La materia prima,  che Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagl’arabi,  fu di sì vivi e vaghi colori arricchita in mano di Abelardo,  e di alcuni altri, che divenne un divino, la quale poi  il più empio e il più freddo de’filosofi del passato secolo,  si studiò di adornare con un sistema geometrico. Allusione a Spinoza, che pure G. aveva studiato con  grande interesse. Alle quali cose quante volte io penso, conchiude il  nostro filosofo, forte mi meraviglio, come gli agricoltori,  i pastori e tutti gli altri coltivatori delle arti per cui l'uman  genere si sostiene, abbian potuto tollerare in pace una  razza di uomini, i quali, lungi di dar loro il menomo rischiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’frutti  della loro industria godevano, pare che si ridessero delle  loro fatighe, o che gli riguardassero come animali di  altra specie, fatti dal divino in forma umana per servire  a’loro piaceri. Lode a Bacone, che proclamò la necessità di ristaurazione dalle fondamenta tutto il sapere, e dimostrò che  si puo essere filosofo con assai gloria, senza essere  peso inutile agli altri uomini. Lo studio della natura,  l’esperienza, « gran maestra delle utili cognizioni, la  geometria nutrice di tutte le arti vennero in grande  onore. L’ Europa cambiò faccia. Ogni nazione ha il  suo Ercole, uccisore dei mostri che la infestano. L'Italia  ha GALILEI. Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa a  questa nuova scienza, forse perché con maggior vigore  questa potesse irrompervi a rendere più glorioso il rin- [Cfr. la sua lettera a Sterlich; dove racconta  come potè studiare 1’Etica di Spinoza: Leti,  fam., ed. Napoli, novamento che il Regno, ristaurato dal primo dei Borboni, doveva promuovere. G. ha qui un concetto che rammenta l’hegeliano spirito del mondo.Egli è  veramente un certo genio, che discorre per le nazioni,  e che in dati intervalli le anima, e le raccende, quello  che o primamente mena, o estinte ravviva le lettere e  le belle arti. Ma questo genio, secondo G., vuol essere sempre accarezzato, sollecitato e alimentato. Può dirsi che la curiosità, la più utile molla del-  l’animo umano, il dischiuda dal suo guscio, la gloria  l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione l’aguzzi  e’l rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’alimenta ». Insomma, il rinnovamento del pensiero richiedeva a Napoli le più propizie condizioni create dalla  nuova vita impressa allo Stato dal nuovo Regno.   Grande infatti il progresso già avvenuto in Napoli,  delle arti, delle scienze, della ragione che le alimenta.  Ma « un certo lezzo dell’antica barbarie » (prisci vestigia  ruris) è rimasto tuttavia attaccato agli scrittori. La  ragione non è pervenuta ancora alla sua maturità: è  ancora tutta nell’ intelletto, e deve passare nel cuore e  nelle mani. È bella, non è operatrice; adorna, non utile.  Bisogna che diventi pratica e realtà; come può solamente  quando tutta si è così diffusa nel costume e nelle arti,  che noi l’adoperiamo come sovrana regola, quasi senza  accorgercene: come accade alle bestie, in cui la cognizione è tutta uso, perché è l’arte del divino lavorante su la  materia, ed in Dio non ci sono Enti di ragione»:  cioè le astrattezze che si annidano nel cervello dei filosofi.  I dotti napoletani hanno bensì coltivato lo studio delle  leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei dialettici:  questioni sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla vita. Tutta una forma di sapere, in cui, insomma, secondo G., c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è cuore;  e c’è cattivo gusto. Manca, diremmo oggi, il senso scientifico; e gl'ingegni si credono più grandi quando sono  ammirati come incomprensibili, che quando stimati come  utili. La pratica dell' insegnamento (insegnava già egli da  sedici anni) aveva dimostrato a G. che Napoli era  un semenzaio di nobili e glandi ingegni ; ma i migliori  ingoiavano avidamente la nuova filosofia prima di digerir la vecchia. Avvezzi alle sottigliezze vane e alla ciarleria, troppo ancora se ne compiacevano per fare  il debito onore alle scienze sode, feconde, che avevano  già trasformato la cultura inglese, francese, olandese.  Sacrifichiamo dunque una volta la seduttrice e vana  gloria dell’astratta speculazione al giusto desiderio della  parte più grande degli uomini, i quali ci vogliono men  contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il divin  dono della ragione perché intendiamo, che il vero sapere  non è di sì gelosa natura che voglia essere di pochi ». Esso  deve giungere al popolo. Il quale ha bisogno di essere illuminato, e non seguito nella sua naturale ritrosia alle  novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento tenace  alla tradizione. Deve essere indotto a profittare delle  osservazioni e delle invenzioni dei dotti. Deve essere ingentilito, rianimato, spronato ad elevarsi. E si deve quindi  operare su di esso non con le leggi che non cambiano gli  uomini, sì con la savia educazione e coltura di questa  sì preziosa derrata dell'uomo, da che egli comincia a  sbucciare dal suo guscio. Curare l'educazione. È uno degli articoli principali  dell’apostolato di G. 1 ; poiché i contemporanei,  a suo giudizio, curavano più i testi di fiori e le piante Sulla educazione e istruzione popolare vedi Lez. di Comm., e Logica, Senza educazione oltreché non è possibile, che la popolazione si aumenti ma, pure dove  avviene che cresca, la repubblica si potrà ben dire aumentata di semi-uomini, ma non di forze (Lez. di Comm., peregrine che avevano per avventura ne’loro giardini,  che non i figli. E raccomandava la massima diligenza nella scelta dei maestri, poiché molto, a suo giudizio,  mancava per questa parte il Regno di Napoli. Bisogna sentire il ritratto vivo che ce ne ha lasciato: I maestri di scuola pongono poca cura a studiar l’urbanità e l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti d’onore: sovente i loro moti, gesti, tuono di voce e tutto  il lor volto, che suol esser lo specchio dei ragazzi, spira  tutt’altra cosa che gentilezza: la loro lingua è più frequentemente un gergo corrotto de’vari dialetti del nostro  Regno, che la bella e nobile della pulitissima Italia: finalmente, dirò io che il lor costume sia sempre il più puro  e il più santo ? Inoltre, quasi tutti si studiano di coltivar  assai più la memoria de’ loro allievi che la ragione e il  cuore. Un solecismo o barbarismo in lingua latina è da  loro più severamente punito, che molti a’ gentiluomini  sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi solecismi di  ragione e di costume. Si adirano anche spesso, gridano  e fanno dei schiamazzi in testa a’ loro allievi; gli battono  senza misericordia, e gli trattano più da servi, che da  figli: tutte cose più atte a fare o stupidi o villani o zotici  e feroci i ragazzi, che ad allevargli nel sapere, nelle virtù,  nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi ben anche  spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito  dire a molti di coloro un proverbio, che fa disonore agli  esseri ragionevoli: che i fanciulli si curan  colle mazze. Un filosofo che parla questo linguaggio umano,  familiare, e che pensa come s’è veduto, dei filosofi e dei  loro sistemi, evidentemente non è un filosofo di professione.  Sarà un filosofo che avrà qualche cosa da dire più e meglio  dei filosofi di professione; ma non potrà facilmente an¬  dare d’accordo con questi. Così poco rispettoso di quelle  Si che sono le idee e le maniere per loro più rispettabili e  venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto fastidio verso le questioni che formano il nutrimento e il vanto dei loro cervelli, certo potrà, per caso, trovarsi in  mezzo ad essi: ma vi starà a disagio, e se ne trarrà fuori,  spontaneamente o per necessità, appena se ne presenti  l’occasione. G., nato nella terra di Castiglione 1 ’ Ognissanti, fu avviato quattordicenne agli studi di  filosofia da un suo stretto congiunto, che gli insegnò per  due anni filosofia scolastica e per un terzo anno filosofìa  cartesiana (filosofìa di moda allora nel Napoletano);  quindi, poiché il padre lo volle ecclesiastico, obbligato ad  apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli ordini  minori, promosso suddiacono. Chiamato questo anno a insegnar rettorica nel seminario  di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo conto  con gran fervore ; finché è ordinato prete J'e  un’eredità allora conseguita gli consentirà di recarsi l’anno  appresso a Napoli, per appagare in quella Università e  nella consuetudine degli illustri letterati della metropoli  la sua sete ardentissima di sapere. A Napoli frequentò  molti corsi; tra gli altri, quello di VICO (si veda); di cui, ci racconta un anonimo biografo, aveva  già da un anno letta la Scienza Nuova Il perché corse  ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la sua servitù, ebbe  l’onore della sua amicizia  Insoddisfatto della filosofìa  che s’insegnava, disegnò programmi suoi, e aprì una sua  scuola privata; finché il Cappellano Maggiore  monsignor Galiani, che era l’uomo che poteva intenderlo,  gli affidò l’incarico d’insegnare nell’ Università Metafìsica. Legge Malebranche, Locke, studiato Spinoza Note di Cutolo alle Memorie autobiogr. di G., in Ardi. stor.  nap. Cutolo, Noie cit. e Leibniz; e detta agl’alunni, come volevano i regolamenti del tempo, le sue lezioni in latino. Ne nacquero gl’Elementi di Metafisica in lingua latina,  pel metodo geometrico  con cui la dottrina e esposta (metodo, si sussurra, caro  ai protestanti), per le novità che contene, per le concessioni che fa al razionalismo, per quello scetticismo moderato che vi domina, procura all’autore ire e persecuzioni dei censori ecclesiastici, aprendo una serie di  contestazioni teologiche, che alienarono sempre più il suo animo dagli studi che rimanevano in Italia, e sopratutto nel Mezzogiorno, monopolio quasi esclusivo dei  frati. Ma ecco che Galiani gli viene in aiuto passandolo dall’incarico di metafisica alla cattedra ordinaria d’Etica:insegnamento più conforme all’ingegno di G., e da lui infatti tenuto per un decennio con  grande efficacia per l’eloquenza delle sue lezioni, la modernità della dottrina, la ricchezza e praticità delle questioni trattate. Pure alla Metafìsica s’aggiungeva  in cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in latino.  E queste opere si ristampavano e si diffondevano in  Italia e fuori d’Italia. Nondimeno l’autore poteva  scrivere a un amico. La metafìsica mia fatta pei teologi e frati, non può piacere ai fìsici e ai matematici, come  neppure piace a me. E con tutto ciò, la logica e la metafìsica s’insegna in molti collegi di Francia, e in quasi  tutte le scuole di Germania. Avevano fortuna; poiché  questi libri rispondevano al bisogno delle scuole, e nel  loro andamento eclettico e largamente informativo ben  s’adattavano alla tendenza media degli studiosi non risolutamente moderni ma neppur ciecamente chiusi nella  tradizione, e disposti quindi a conciliare nova et vetera 1 Leti, jam.. e farsi una filosofia senza compromettersi; ma, come  si vede, non finivano di contentare l’autore stesso. Anche  i due saggi De iure et officiis eran nati dalla scuola  e per la scuola (in usum tironum) ; e del pari altri due  brevi compendii latini di Logica e di Metafisica. Ma quando a G. è possibile avere una scuola  a modo suo, intorno a materie nuove, indirizzate a pubblica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli non  scriverà più latino. Che gioia quando fu istituita per lui,  nell’Università, la cattedra di Commercio e Economia,  fondata dal suo vamico, facoltoso e autorevole,  il fiorentino Intieri, studioso di macchine  agricole e di questioni economiche: ingegno pratico alla  toscana, avverso a ogni oziosità speculativa! Allora G. si sente davvero maestro, e veramente filosofo. Grande l’attesa nel pubblico per il nuovo insegnamento;  ma potente altresì l’estro del nuovo insegnante e l’impeto e il calore della sua eloquenza. Quando tenne la sua prima lezione, fu un avvenimento  nella vita di G. e nella storia non soltanto della  cultura napoletana ma della scienza europea. Poiché questa di G. èla prima cattedra istituita in Europa  di Economia politica: dovuta, s’intende, non al semplice  intuito d’un privato ma al movimento degli studi che la  situazione economica del Regno di Napoli aveva prodotto.  In una lettera dello stesso mese Genovesi scrive a  un amico 1: Nel dì 5 corrente feci il mio discorso preliminare, o sia l'apertura alla nuova cattedra del commercio con uno straordinario concorso, tuttoché io non  avessi fatto invito. Parlai un’ora, non solo senza niente  aver mandato a memoria, ma senza aver niente scritto di quello che dissi. Con tutto ciò il discorso è ricevuto  con applauso, e subito diffuso per tutta la città. È stata Leu. falli. bella! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho potuto lor dire, che dopo averlo letto n’aveva perduto anche l’originale.Il giorno seguente cominciai a dettare. Grande è la meraviglia in sentir dettare italiano; sicché, essendomene accorto, nello incominciare la spiegazione dovetti cominciare dai pregi della lingua italiana, e urtar  di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia. La scuola  è stata sempre piena in guisa che molti non ci hanno  trovato luogo; ma la maggior parte sono uditori di barba,  e di vari ceti. Gli scriventi sono circa cento. Gran moto  è nato da queste lezioni nella città, e tutti i ceti domandavano libri di economia, di commercio, di arti, di agricoltura ; e questo è buon principio.   Da questo corso, che G. prosegue finché le  forze gli bastarono (morì, ma un  anno prima per malattia aveva dovuto lasciare la cattedra), trassero origine le belle Lezioni di Commercio ossia  di Economia civile in due volumi, che rimarranno tra le opere classiche della nuova scienza: opera  riboccante d’ingegno, di erudizione, di brio e di amore  del pubblico interesse, dall’agricoltura alla pubblica istruzione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del commercio della Gran Bretagna di John Cary con un Ragionamento del Commercio in universale e lunghe e importanti annotazioni del Genovesi sul commercio del Regno,  e altri scritti minori. In questi stessi anni il laborioso  scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle sue  opere latine. Sono le sue Meditazioni filosofiche,  che arieggiano quelle di Cartesio; ed ebbero l’ammirazione del Baretti 1; e le Lettere filosofiche; come [Da leggere l'articolo che gli dedicò nel 20 numero della Frusta  Letteraria: dove Baretti giudica il saggio con questi  termini di alto elogio (ed. Piccioni, Bari, Fra le tante migliaia e migliaia di libri scritti nella nostra lingua,  io non ne conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli di Galilei, le Lettere accademiche. Imprende a scrivere in italiano un Corso di filosofia. E volle scriverlo per gl’italiani (com’egli stesso fa sapere a un amico) che  son curiosi di sapere se le scienze potessero così parlare  italiano come una volta parlarono greco e latino. Il motivo che mi muove, è una massima, che può stare che  sia falsa, ma 1’ ho nondimeno per vera, cioè che ogni  nazione che non ha molti libri di scienze e di arti nella sua lingua è barbara. Perciò in Francia nell’età di  Luigi XIV s’è cominciato a scrivere di filosofia in  francese. Perciò ha seguito l'esempio l’Inghilterra. E altrettanto si cominciava a fare in Germania. Dove  non si scrive nella propria lingua, dice G., si  accende magari mi lume grande e brillantissimo, ma  questo resterà  nondimeno sepolto in que’ lanternoni da  antiquari d’onde non tralucono che pochi tenebrosi  raggi. E nelle stesse Lezioni di Commercio inculcava come che sia tanto pregno di pensamento e di vera scienza quanto è questo  primo tomo di questo nostro ampio, sublime ed aggiustatissimo filosofo G.. A Baretti non andava lo stile di G., seguace della scuola toscaneggiante di CAPUA (si veda). Una cosa però disapprovo in lui assolutamente, e questo è lo stile suo perché troppo a studio intralciato  e rigirato si, che non poche volte abbuia il pensiero. Com'è possibile, ho detto tra me stesso mille volte leggendo queste sue tanto  stimabili meditazioni,  com’è possibile che un uomo il quale è una  aquila quando si tratta di pensare, si mostri poi un pollo quando si  tratta di esprimere i suoi pensieri? Come mai un G. ha potuto  avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di certi secchi e  tisici uccellacci di Toscana ? Eh, G. mio, adopera gli abbindolati stili del Boccaccio, del Bembo e del Casa quando ti verrà ghiribizzo di scrivere qualche accademica diceria, qualche cicalata, qualche  insulsa tiritera al modo fiorentino antico e moderno; ma quando scrivi  le tue sublimi Meditazioni, lascia scorrere velocemente la penna;  e lascia nelle Frammette e negli Asolani e ne’Galatei, e in altri tali spregevolissimi libercoli i tuoi tanti conciossiacosacché e i perocché.... e tutte  quell’altre cacherie e smorfie di lingua, che tanti nostri muffati gram-  maticuzzi vorrebbero tuttavia far credere il non plus ultra dello scrivere. Cfr. la pref. alla Logica italiana. certissimo assioma politico che una nazione non sarà  mai perfettamente culta nelle scienze, nelle arti, nelle  maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e i  libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà  dipendere da una lingua forestiera; la quale, non essendo  intesa che da una picciolissima parte del popolo, tutto  il resto sarà fuori della sfera del lume delle lettere. Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre idee  e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere  in un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? Finché in un paese le scienze saranno in un gergo straniero alla maggior parte del popolo, avremo sempre, dice G., molte scuole inutili, molto tempo perduto,  molti cervelli stupiditi; e mancheremo delle necessarie,  né ha possibile di avere delle buone teste. Con questo ideale di una scienza che penetri il popolo  per svegliarne e metterne in moto tutte le forze morali  ed economiche, il G. voleva scuole e quando  furono da Napoli espulsi i Gesuiti e riordinata la pubblica  istruzione ed egli a tal fine invitato a scrivere un Piano  di riforme, non dimentica nelle sue proposte le scuole  del popolo; voleva metodi razionali e semplici perché  fossero efficaci gl’ insegnamenti accostati al popolo c ai  giovinetti; voleva accademie, che, abbandonando la vecchia letteratura e le discussioni vane della filosofia infeconda, si rivolgessero alle ricerche sperimentali e alle  arti più necessarie alla vita; e voleva, come sè visto,  libri in italiano, attraenti e di facile lettura. Ma aveva  pure il suo ideale di una dottrina che, liberando il popolo  dalle superstizioni e dai pregiudizi, e rinvigorendo nelle  coscienze i convincimenti morali e la fede religiosa che ne  Per questo Piano, vedi gli appunti che ne pubblico G. M. galanti, Elogio stor. di A. G., Firenze, è sempre il fondamento, potesse aprire la strada a quel  rinnovamento che egli auspicava: potesse infondere negli  uomini e nelle nazioni la fede nella ragione, di cui egli  era l’apostolo. Tutto il suo sistema riformatore era insomma ispirato a una filosofia. Della qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati di  Logica e di Metafisica, che, bene accolti dai contemporanei e più volte ristampati (è almeno da ricordare 1 edizione che della Logica volle curare Romagnosi), sono entrati a far parte della letteratura filosofica  nazionale, si scorgono i lineamenti anche da chi non ricerchi i ponderosi volumi latini, che li precedettero e  prepararono. G. è un empirista, ma non e un sensista, e  tanto meno un materialista. Combatte le idee innate,  ma cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto,  e la ragione, che l’uomo che medita trova in se stesso  come attività sovrana, libera, signoreggiatrice, col suo  giudizio, dell’universo, vede conforme a una ragione  creatrice universale, divina L’uomo per essa è immortale. Per essa destinato a vincere il dolore, a superare  ogni difficoltà, a viver felice. Questa ragione infatti non  è fredda astratta intelligenza. Essa è energia ( energetico, dice G.) perché è anche passione, cuore i. Non 1 Come empirista, G., pur non ripudiando ogni metafisica,  insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche speculative alle  questioni essenziali per una concezione sana e morale della vita. Insi¬  stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano. Vedi Gentile,  Stona della filos. ital. da G. a Galluppi, Milano, Treves, ’ dov'è particolarmente studiata la dottrina della conoscenza  di G.. Oltre i luoghi ivi citati, e le frequenti dichiarazioni che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1 infecondità  delle più astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi Logica, Notevole in special modo la lett. a Saffiotti. Vedi Meditazioni filosofiche, Milano, Silvestri, Logica, Vedi Logica, distrugge la passione; una passione infatti si combatte  con un’altra passione. E poiché ogni essere è ragione, e  soffre e aspira a godere, essa, non essendo individuale,  ma comune e universale, stringe in un vincolo di amore  gli uomini. Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una concezione  leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche  per G. i corpi, scomposti negli elementi semplici  di cui sono formati, si riducono a sostanze spirituali,  attive. E tutte le qualità sensibili dei corpi non sono  altro che fenomeni, nostre sensazioni.   Lo spirito è attività : è quella stessa forza che è in tutte  le cose che sono in natura, e che tende ad espandersi.  In noi questa forza si svela nella ragione, che è prima di  tutto coscienza, affermazione di sé. Questa forza è attiva  e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il suo dominio,  a trionfare. Il mondo non è, infine, se non questo svolgimento della ragione, che nel suo progressivo prevalere  è cultura sempre più intensa e sempre più diffusa; è  benessere in cui lo spirito viene ritrovando e procurandosi le condizioni più favorevoli al suo sviluppo ; è amore  degli altri, insieme coi quali ogni uomo viene adempiendo  in comune il destino della sua natura, la libera vita della  ragione. Questa la fede di G.. Questa la sorgente dell’entusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo dalla  cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute,  infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il segreto della potente azione da lui esercitata sul suo  tempo, promovendo nuovi studi, animando gl’italiani alla  lotta contro il vecchio mondo: contro la feudalità in favore dei lavoratori della terra e della nascente borghesia; contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il  pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la religione; contro tutto ciò che nel pensiero e nelle istituzioni impedisse 0 ostacolasse il libero sviluppo del lavoro, della civiltà, della ragione. G. non è un rivoluzionario; ma è un educatore di rivoluzionari, che quando scoppierà  in Francia la grande Rivoluzione, o crederanno di obbedire alla voce del vecchio maestro accogliendone una  scintilla anche a Napoli, e quindi suscitando il glorioso  incendio della repubblica partenopea, celebrazione di  una grande fede idealistica ancorché astrattamente giacobina, santificata dal martirio 0, uomini di grande  accorgimento ed equilibrio, come GALANTI (si veda) e CUOCO (si veda), con  più profonda intelligenza dell’ insegnamento di G., ne trarranno argomento a una più realistica concezione  politica della libertà necessaria al popolo napoletano:  poiché vedranno come il maestro aveva veduto, che  questa libertà non poteva essere vitale, se non era forte  della forza di uno Stato ben ordinato e potente: di uno  Stato infine in cui tutta l’Italia, prima o poi, doveva  unirsi tutta in un corpo solo tra l’Alpi e il mare. Questa idea di un’ Italia unificata da GALANTI (si veda), il più  fido dei discepoli di G., passa a CUOCO (si veda), e da CUOCO (si veda), come oggi sappiamo, passa a MAZZINI (si veda). Ma era  stata preconizzata a Napoli da G.. La cui commemorazione io non potrei meglio concludere che rileggendo una sua pagina, a proposito della sicurezza  necessaria al commercio, e impossibile senza una fiotta  militare adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno  di Napoli, che era tuttavia il maggiore e più potente  Stato d’Italia: «Vorrei io», scriveva nel detto anno G., in questo luogo dire un pensiero, che ho  sempre meco d’intorno all’animo avuto, ed hollo tuttavia; ma io temo ch’egli non sia per incontrar male 1 Sulla scuola di G. e la sua importanza storica, A. Simioni,  Le origini del Risorgimento politico dell' Italia meridionale, vMessina, Principato, presso coloro, che niuno amore hanno e niun zelo nutriscono per l’Italia, come madre nostra. Ma il dirò pure  in qualunque parte sia per prendersi da chi non guarda  più in là del proprio utile. A voler considerare l’Italia nostra, e dalla parte del  suo sito, e da quella degl’ ingegni, e per quello che ha ella  altre volte fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e come  dilacerata, si converrà di leggieri, ch'ella tra tutte le nazioni di Europa sia fatta a dominare; perocché il suo  clima non può esser più bello, né più acconcio il suo sito  rispetto alle terre e al mare che la circondano, né più  perspicaci e accorti e destri e capaci di scienze e di arti  e duranti di gran fatiche, e oltre a ciò più amanti della  vera gloria, i suoi popoli, di quel ch’essi sono. Ond’ è  dunque, ch’ella sia non solo rimasta tanto addietro all’altre nazioni in tutto ciò, che par suo proprio, ma divenuta in certo modo serva di tutte quelle che il vogliono?  Ella non è stata di ciò causa la sola mollezza, che le conquiste de’ Romani v’apportarono; perocché questa morbidezza, che le ricchezze e la pace v’avevano introdotta,  non durò lungo tempo; ma la vera cagione del suo avvilimento è stata quell’averla i suoi figli medesimi in tante  e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha perduto il suo  primo nome e l’antico suo vigore. Gran cagione è questa della ruma delle nazioni. Pur  nondimeno, ella potrebbe meno nuocerci, se quei tanti  principati, deposta ormai la non necessaria gelosia, la  quale hanno spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero,  sperimentata e al comune d’Italia e a se medesimi funesta, volessero meglio considerare i propri e i comuni  interessi, e in qualche forma di concordia e di unità ridursi. Questa sarebbe la sola maniera di veder rifiorire  il vigore degl’Italiani. Potrebbe per questa via aver l’Italia nostra delle  formidabili armate navali, e di tante truppe terrestri.  che la facessero stimare e rispettare non che dalle potenze d’oltremare, che pure spesso l'infestano, ma dalle  più riguardevoli che sono in Europa. Ella non vorrebbe  ambire altro imperio, che quello che la natura le ha circoscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il suo.  Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e  le industrie, dilatarsi il suo commercio, e tutte le sue parti  nuovo abito e la pristina bellezza prendere. Se questi  sensi s’ispirassero ai pastori di tutte le sue parti, forse  che non sarebbe questo un voto platonico. E mi pare che  i principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri gelosi,  che per massime vecchie che son passate ai posteri più  per costume che per sode ragioni. Non son ora i tempi  ch'erano: e quelle cagioni di reciproci timori, che potevano una volta essere ragionevoli, sono ora non solo vane,  ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si considerano.  Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le cose  sono al presente, sperare altronde la sua salute, che dalla  concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e  vero interesse suol riunire anche i nemici: non avrà egli  forza da riunire i gelosi ?   Rettor del Cielo, io chieggo  Che la pietà che ti condusse in terra.   Ti volga al tuo diletto almo paese. A G. dunque, il più filosofo dei grandi riformatori italiani, spetta il merito di essere stato  il più italiano di tutti. Egli scosse il petto dei giovani, e  vi infuse una fede nella civiltà che è scienza ed è libertà.  Egli indicò agl’Italiani l’Italia, che non c’era, ma co-1 Carv, Storia del Comm. della Gran Bretagna, Napoli. Pagina celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa nelle sue Letture del  Risorgimento Italiano.minciava a presentirsi, ed egli l’annunziò, insegnando  come le si potesse preparare la via. E la sua voce si ripercosse di generazione in generazione, finché l’Italia venne.  E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando  la letteratura alla vita, la filosofia all'uomo, ammazzando l’accademia e l’ozio ancorché dotto ed elegante,  educando il popolo a credere nella cultura, a servire  l’ideale, andando incontro per esso anche alla morte.  Fulgido esempio i martiri. Stato laico e veramente  sovrano, religione tutta rivolta alla vita dello spirito,  libera da ogni cupidigia e pretesa mondana; libera la  ragione, rispettata come cosa sacra la scienza, e la scuola  che la promuove. E di là dal breve confine della provincia,  per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata, consa¬  pevole di una sua missione civile. Questa la scuola del  G.. Perciò gl’ Italiani devono ricordare il suo nome;  perciò devono annoverare G., lui così  modesto, così riservato e chiuso tra la scuola e i libri, tra  i padri della patria. E nella scuola italiana particolar¬  mente deve esser ricordato come esempio ed ammonimento  contro la pseudoscienza astratta dalla vita sempre rina¬  scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in vita G. e sono perseguitati dalla sua dialettica e dal  suo frizzo, hanno cambiato veste, e non natura. E contro  di essi bisogna ancora combattere, ancora difendersi.  Perciò G. è vivo.  G. Nasce a Castiglione (ora Castiglione del Genovesi), piccolo paese dell'Appennino campano a pochi chilometri da Salerno, primogenito dei quattro figli di Salvatore e di Adriana Alfenito. La famiglia, un tempo benestante, era decaduta da civile in basso"stato, e viveva con i modesti proventi del lavoro del padre calzolaio e di una piccola proprietà. Allo sforzo di recuperare una condizione economicamente più solida e socialmente più prestigiosa, nonché alle strategie familiari in uso nella società del tempo e della zona, si deve la precoce destinazione di G. alla carriera ecclesiastica, realisticamente accettata dal ragazzo come unica strada percorribile per accedere agli studi superiori e a una professione intellettuale, per la quale si sentiva particolarmente tagliato, poi vissuta sempre con autentica adesione a una religiosità profondamente sentita. Affidato a parenti membri del clero locale, G. compì i primi studi nel paese natio, praticamente da autodidatta, completando il corso di lettere latine a tredici anni. Seguirono tre anni dedicati alla filosofia, dapprima quella scolastica, per la quale maturò un rapido rifiuto, poi quella cartesiana, sotto la guida di un medico suo parente, Niccolò G., a sua volta allievo del medico cartesiano napoletano N. Cirillo. Le due autobiografie redatte dal G. e rimaste incompiute e inedite in vita (la prima, Autobiografia, in Zambelli, La formazione; la seconda: Vita di G., in Illuministi italiani) ci trasmettono il ritratto di un adolescente vivace, intelligente e ricettivo, fortemente motivato allo studio per curiosità intellettuale e desiderio di primeggiare, ambizioso e abile nella dialettica. Nello stesso tempo fu iniziato al gusto della letteratura dai consigli di un altro amico del luogo, S. Parrilli; gliene derivò una passione, che durò tutta la vita, per i poemi cavallereschi, per Dante e Petrarca, alla quale seguì il nascere di un altrettanto intenso interesse per la storia.  Ma il padre sorveglia attentamente che il ragazzo non si concede distrazioni. La rigidezza paterna ha modo di manifestarsi più duramente quando G. si innamora, ricambiato, di una compaesana. Per impedire che questo amore cambiasse i programmi di vita di G., il padre gl’impone il trasferimento a Buccino, sempre non lontano da Salerno, in casa di parenti, mentre la compaesana è costretta al matrimonio con un pastore. G., pur profondamente addolorato e deluso, trova conforto nella maggiore apertura e possibilità di contatti che il nuovo ambiente, sempre provinciale ma più aperto e animato, gl’offre, e nell'amicizia con l'arciprete Abbamonte, che migliora la sua preparazione classica e stimola l'interesse per la teologia e il diritto civile e canonico. Prende gli ordini minori. Nel frattempo, spinto dalla necessità di rendersi indipendente economicamente, con l'appoggio dell'arcivescovo di Salerno Capua, che ne aveva apprezzato le doti esaminandolo per il diaconato, ottenne l'insegnamento di retorica presso il seminario della città, dove rimase due anni. Ordinato sacerdote, fornito del modesto capitale di 600 ducati ereditato da uno zio materno, insieme con il fratello Pietro, destinato alla carriera forense, si trasferì nella capitale del Regno, dove avrebbe trascorso tutto il resto della vita, allontanandosene solo per brevi periodi di villeggiatura. Abbandonato rapidamente il progetto di intraprendere anche la professione forense, che gli parve avere poca conformità con le massime del puro cristianesimo (Vita), insofferente del formalismo giuridico e dell'ambiente del foro, scelse definitivamente gli studi filosofici. Frequentò le lezioni Martino e Vico - di cui già conosce la Scienza nuova -, conosce DORIA (si veda), si legò di amicizia con BUONAFEDE, che lo descrive, in quei primi anni napoletani, in un acuto ed efficace profilo (Ritratti poetici, storici e critici di vari uomini di lettere, Venezia). Lasciò inattuato il progetto di un'opera ispirata a Platone, La repubblica divina, per rivolgersi avidamente alla cultura anglo-olandese, ai neoplatonici di Cambridge, a Clerc, a Newton, a Locke (progettando una traduzione dal francese del Cristianesimo ragionevole), al giusnaturalismo. Apre una scuola, in cui insegnare i suoi nuovi piani di filosofia e di teologia, in particolare il piano di un'etica (Vita), frutto delle riflessioni di quegli anni. Comincia a maturare in quest'esperienza - che dura tutta la vita - la vocazione pedagogica che caratterizza tutta l'attività di G. e che si realizza in un metodo d'insegnamento dinamico, in cui l'ampliarsi dell'orizzonte culturale del docente sollecitava e promuoveva l'apprendimento in interazione costante con i giovani. Il carattere innovativo e il successo della scuola gli procurarono l'amicizia e la protezione di Cusano, di Orlandi e, soprattutto, del cappellano maggiore Galiani, autentico iniziatore della nuova cultura newtoniana a Napoli, fondatore dell'accademia delle scienze e promotore della riforma universitaria, da poco avviata. Attraverso Galiani, G. ottenne il primo incarico universitario, come professore straordinario di materie metafisiche, e comincia a insegnare. Era nel frattempo approdato a una visione filosofica fondata su un "eclettismo programmatico", che tendeva alla serena composizione di un costante atteggiamento apologetico con la più totale disponibilità verso i portati della cultura innovatrice, di cui si appropriava con onnivora curiosità. Ne dette la prima dimostrazione nel manuale degli Elementa metaphysicae (Napoli), prima tappa dell'ambizioso progetto di un corso completo di filosofia. Proprio per queste caratteristiche, nonostante la sostanziale ortodossia e l'approvazione del revisore regio Orlandi, l'opera e duramente attaccata dagli ambienti ecclesiastici. La protezione di Galiani e la disponibilità ad accettare di chiarire le proprie posizioni in una Appendix pubblicata salvarono  G. dalla denuncia al S. Uffizio. La polemica però accrebbe la sua notorietà a Napoli e fuori del Regno; divenne abituale frequentatore del salotto letterario di Sarno, bibliotecario del marchese di Montealegre (duca di Salas), primo segretario di stato. Le tesi esposte nella Metafisica attirarono l'attenzione di Conti, con il quale G. avvia uno scambio di lettere filosofiche sulla natura delle idee, stampate (poi in Letterefamiliari, Venezia. Passa alla cattedra di etica, con buon successo per la rinnovata affluenza di studenti. Nello stesso anno pubblicò, in collaborazione con Orlandi, cui si devono le note scientifiche, gli Elementa physicæ di Musschenbroek, ai quali premise una Disputatio physico-historica de rerum corporearum origine et constitutione, agile e precisa sintesi delle idee scientifiche dall'antichità al presente. La manifesta adesione al newtonismo si colloca tuttavia ancora all'interno di una visione spiritualizzante e ortodossa, che connette la visione del cosmo di Newton al vitalismo di Cardano e di Campanella e con la platonica anima mundi. L'opera ebbe grande fortuna, come pure il contemporaneo manuale di logica Elementorum artis logico-criticæ (Napoli), che gli procura gl’elogi di Muratori, con il quale avvia un carteggio, quasi totalmente perduto, destinato a durare fino alla morte del modenese. Ma altri e più pericolosi attacchi si andavano preparando nel clima di scontro determinatosi a Napoli a causa del tentativo, peraltro fallito, di introdurre il tribunale dell'Inquisizione, messo in atto dall'arcivescovo cardinale Spinelli. Pubblica la seconda parte della Metafisica, dedicandola a Benedetto con l'evidente scopo di garantirsi un'autorevole tutela, e nel contempo portava a compimento la stesura del manuale di teologia cui attendeva dai primi anni Quaranta: gli Universae theologiae elementa. Quando si rende vacante la cattedra di tale disciplina, G. ritenne di avere giusto titolo per concorrervi con buone probabilità di successo. Ma la sua candidatura provoca violente opposizioni. In base alla denuncia di un altro concorrente, l'abate Molinari, la curia romana volle esaminare il manoscritto, mentre la corte di Napoli ne affida la revisione a Barba. Nonostante i suoi timori, anche questa volta G. riusce a evitare la denuncia per eresia, soprattutto in virtù dell'appoggio dei gesuiti, ostili all'arcivescovo Spinelli, della sua personale amicizia con il padre provinciale della Compagnia e del fatto che, sul piano dottrinale, si define mezzo molinista in materia di grazia. Ma in questa occasione è assai tiepido l'appoggio di Galiani, che gl’impone la rinuncia non solo alla cattedra, ma anche all'insegnamento privato della teologia e alla pubblicazione degli Universæ theologiæ elementa, provocando la decisione di G. di abbandonare studi sì turbolenti e spesso sanguinosi (Vita). G. continua a insegnare etica, mentre proseguiva il completamento della metafisica con un volume dedicato al giusnaturalismo. Reinterpretando Grozio e soprattutto Pufendorf, G. vede nel giusnaturalismo le basi per rinnovare un'etica razionalmente e scientificamente fondabile, in grado di definire il quadro di valori di una società mercantile, i cui problemi si venivano ormai collocando al centro dei suoi interessi. La persecuzione di cui è stato oggetto, oltre ad allargare la cerchia delle sue frequentazioni amichevoli a personaggi come Raimondo di Sangro principe di Sansevero e Felice, gli aveva offerto infatti l'occasione di entrare a far parte del cenacolo che in quegli anni si era venuto a creare intorno a INTIERI. Ormai avanzato nell'età, questo abile e fortunato imprenditore toscano, amico di C. Galiani e cofondatore dell'Accademia delle scienze, ritiratosi a poco a poco dalle sue multiformi attività, aveva raccolto intorno a sé vecchi e soprattutto nuovi esponenti dell'intellettualità napoletana, come RINUCCINI, ORLANDI, GALIANI, con i quali aveva avviato una fruttuosa consuetudine di discussione, tesa a stimolare non solo la circolazione delle idee in rapporto con la cultura internazionale, ma anche l'attività di collaboratori e la loro concreta azione nel contesto politico e sociale del Regno. Il cenacolo dell'Intieri fu infatti tra i primi a leggere e commentare l'Esprit des lois di Montesquieu. Dalle opere e dai carteggi di quegli anni emerge con chiarezza l'auto-rappresentazione di questo gruppo di intellettuali come forza operante nel nuovo contesto politico: la ritrovata indipendenza del Regno, che appare loro come conditio sine qua non per l'avvio di un processo di cambiamento e di modernizzazione.  Vero e proprio manifesto del programma riformatore del gruppo, incentrato sull'ineludibile nesso teoria-prassi, che ne costituì la novità immediatamente percepita dai contemporanei, è il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, maturato durante la villeggiatura nella villa intieriana di Massa Equana, e pubblicato all'inizio dell'anno seguente a Napoli insieme con il Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura di U. Montelatici e con la Relazione dell'erba orobanche di P.A. Micheli. G. operava così la sua scelta di campo, presentandosi come l'interprete più convinto di quel programma e il più attivamente impegnato nella sua realizzazione.  Requisito indispensabile per il progetto di riforma era la diffusione di una nuova cultura scientifica, economica, tecnologica, posta al centro degli interessi di una intellettualità nuova. A essa, come campo di indagine, ma anche di azione, doveva rivolgersi la "studiosa gioventù" del Regno, distolta dagli studi forensi e da speculazioni astratte, e avviata da un lato a una conoscenza cosmopolita di idee e linguaggi, dall'altro a sviluppare capacità di osservazione e di studio dei fenomeni naturali e sociali della realtà in cui viveva.  A questa istanza della cultura intieriana corrispose il progetto che meglio ne rappresentò la realizzazione istituzionale: la costituzione presso l'Università di Napoli di una cattedra di meccanica e commercio- cioè la prima di economia politica in Europa -, che Intieri volle finanziare con un lascito di 7500 ducati che garantisse una rendita di 300 ducati annui, a condizione che essa venisse affidata al G., che l'insegnamento fosse svolto in lingua italiana e che anche in futuro ne fossero esclusi rappresentanti del clero regolare. La nuova cattedra e inaugurata con grande affluenza di pubblico. G. presentò il nuovo corso con una prolusione che avrebbe poi sviluppato nel ragionamento sul commercio in universale, pubblicato in estratto e poi in apertura della Storia del commercio della Gran Brettagna scritta da Cary (Napoli).  Questo grosso centone in tre volumi conteneva pure la traduzione dell'Essai sur le commerce d'Angleterre di V. de Gournay e G.-M. Butel-Dumont (Paris), i quali avevano a loro volta tradotto e aggiornato l'Essay on the state of England di J. Cary (Bristol), e la traduzione-rifacimento genovesiana dell'England's treasure of commerce di T. Mun (London), corredate dalle ampie e ricche annotazioni dello stesso G. e da altri suoi saggi (Ragionamento filosofico sulle forze e gl’effetti delle gran ricchezze e Ragionamento sulla fede pubblica) destinati a ricomparire negli Elementi del commercio e nelle posteriori Lezioni di commercio o sia di economia civile.  Contemporaneamente G. procedeva alla stesura del suo corso biennale di Elementi del commercio, che anche nel titolo riecheggiavano gli Eléments du commerce di Véron de Fortbonnais.  Ambedue le opere avevano un palese carattere propedeutico, non solo per i destinatari, ma in certo modo per lo stesso autore, che nel suo sforzo di informazione e acquisizione di nuove competenze sembra lavorare in parallelo con i suoi allievi e lettori. Il discorso genovesiano assolveva a una duplice funzione: definire contenuti e linguaggi della nuova cultura economica; tracciare le linee di un programma di politica economica per il governo, nel quadro dell'assolutismo illuminato, che viene considerato come la garanzia istituzionale delle riforme. Esso si articola sulla polarizzazione tra il cosmopolitismo culturale, perseguito con la consueta ampiezza e tempestività di letture, e il patriottismo, consistente nell'attenzione alle specifiche condizioni del Regno, su cui misurare l'effettiva validità degli interventi. Sul primo versante i termini di confronto scelti da G. sono la Spagna e l'Inghilterra. L'una, studiata attraverso le opere di G. Uztáriz e B. de Ulloa, per le evidenti analogie con la situazione del Regno; l'altra, proposta come il modello più avanzato di economia mercantile, nel quale erano ormai operanti le strutture della moderna circolazione di merci, monete e idee. Su di essa G. si documentava con ostinata puntualità, trovando la referenza più significativa nei Political discourses di D. Hume. L'elemento di mediazione culturale, approdo dei riformatori napoletani alla koinè illuministica degli anni Sessanta, era costituito dalle opere e dai dibattiti francesi, da Melon a Fortbonnais, a Plumard de Dangeul. Sull'altro versante, G. articola una serie di proposte operative per una conoscenza sperimentalmente e statisticamente fondata delle reali condizioni del Regno (andamento demografico, natura e produttività dei terreni, configurazione della proprietà attraverso il catasto, strade e comunicazioni ecc.), cui dovevano collaborare gentiluomini e parroci, intellettuali e proprietari, creando una rete di società agrarie e scientifiche diffuse sul territorio e radicate nella società provinciale. La politica economica di un paese povero di materie prime e del tutto marginale nel commercio internazionale doveva puntare allo sviluppo qualitativo e quantitativo della produzione agricola, destinata al mercato reso libero dai vincoli interni.  L'adesione piena del G. alla liberalizzazione del commercio interno dei grani si manifestò, in concomitanza con la grave carestia che colpì il Regno, attraverso la pubblicazione dell'Agricoltore sperimentato di TRINCI (Napoli) e delle Riflessioni sull'economia generale de' grani (Napoli; traduzione della Police des grains di Herbert, Berlin), da lui prefati e commentati. La fiducia nella possibilità di realizzare le riforme si scontrava, tuttavia, con la crescente consapevolezza della natura strutturale degli ostacoli che vi si opponevano. La concentrazione delle terre nelle mani di una nobiltà feudale ancora detentrice di poteri giurisdizionali e di un clero numericamente eccessivo, attaccato ai propri privilegi, impediva la formazione di una proprietà contadina, che ormai appariva a G. la condizione necessaria perché si sviluppasse non solo l'iniziativa economica, ma pure l'auspicata mobilità sociale. Sono quindi i problemi della società civile quelli cui G. guarda con maggiore attenzione nell'ultimo quinquennio della sua vita, che rappresenta un'ulteriore scansione della sua attività. Il suo impegno politico e culturale si caratterizzava per una sempre più accentuata polivalenza di funzioni, legata alla sua ormai consolidata posizione di maître à penser. All'insegnamento universitario e privato si aggiunsero infatti le consulenze per Tanucci e per la giunta degli Abusi, sui problemi più scottanti del momento: dalla liberalizzazione del commercio dei grani ai trattati di commercio, dalla monetazione alla redazione dei nuovi piani di studio per le scuole ex gesuitiche (nel quadro di una vigorosa ripresa della battaglia giurisdizionalistica per l'abolizione della cattedra delle decretali); per l'istituzione di nuove cariche in difesa delle prerogative regie, per la lotta alla manomorta. Si intensificò soprattutto l'attività editoriale, relativa alla pubblicazione di opere proprie e altrui, che investì tutti gli aspetti della sua attività di studioso e di insegnante. Ne fa parte un corso completo d’ISTITUZIONI FILOSOFICHE, in italiano, articolato nella Logica (Napoli), nella Diceosina, osia della filosofia del giusto e dell'onesto (Napoli), nelle Scienze metafisiche. Contemporaneamente, G. stende i Dialoghi morali e le note all'Esprit des lois.  In questo contesto si collocano le tre edizioni delle Lezioni di commercio o sia di economia civile, cui G. lavora direttamente: le due napoletane, e quella intermedia, promossa a Milano dall'allievo T. Odazi. Alle Lezionifanno da contrappunto, su un tema specifico carissimo al G., le due edizioni delle Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o gl'ignoranti, in cui la ripresa della polemica con Rousseau si amplia a un riesame critico dello sviluppo delle società umana. I testi che nascono da questa attività multidisciplinare rappresentano l'espressione più compiuta di un modusoperandi già sperimentato, fondato su una memoria interna, attraverso la quale G. riutilizza e riorganizza continuamente i materiali della sua riflessione, in uno sforzo onnicomprensivo che tende a coagulare in una sintesi complessa, pur se talvolta ridondante, tutte le tensioni intellettuali e politiche degli ultimi anni di vita. Le ampie varianti recepiscono anche le spinte di circostanze esterne: per queste caratteristiche, le Lezioni si presentano come l'autentica summa del pensiero genovesiano, un vero e proprio work in progress di letteratura militante. G. colloca le problematiche dell'economia in un più ampio quadro di considerazioni sulla società, sulle sue dinamiche, esaminate negli aspetti antropologici e psicologici, secondo una linea storicizzante alla quale contribuisce con una sua versione della teoria stadiale, per approdare a un più ampio affresco della situazione del Regno. Il confronto tra gli Elementi e le tre edizioni delle Lezioni mette in luce l'evoluzione del suo pensiero sui temi più caratterizzanti, dalla popolazione al lusso alla tassazione, e l'intensificarsi della polemica antifeudale e anticuriale. Diventa centrale il problema della comunicazione, elemento caratterizzante della società e del vivere civile e di conseguenza della lingua, alla quale dedica anche una riflessione teorica nella Logica, e dei mezzi, delle sedi, delle modalità attraverso le quali essa può realizzarsi e costituire l'asse portante della formazione dell'opinione pubblica. La morte lo colge a Napoli.  Negli anni seguenti la sua opera fu oggetto di aspri attacchi e di appassionate difese, culminate nell'elogio storico dedicatogli dall'allievo Galanti (Napoli). Larga ma diversificata fu l'eco della sua opera nelle altre aree d'Italia e di Europa. Nonostante la fortuna dell'edizione milanese delle Lezioni, sulla quale furono esemplate tutte le successive ristampe, in realtà l'opera genovesiana non venne apprezzata nella Lombardia asburgica, proiettata verso la fisiocrazia, perché considerata troppo farraginosa e legata ai problemi di una società sottosviluppata. In Francia l'annunciato progetto di PINGERON di tradurre le Lezioni non ebbe seguito. In Germania, invece, vennero tradotti sia la Storia del commercio (Leipzig), sia le Lezioni, a cura rispettivamente di Witzmann e di Wichmann. Molto più ampia fu invece la diffusione dell'opera genovesiana, sia filosofica sia economica, nella penisola iberica. In Spagna, infatti, apparve una traduzione in castigliano delle Lezioni, a cura di V. de Villava, mentre nei paesi di lingua portoghese i suoi corsi di filosofia costituirono la base dell'insegnamento universitario per tutto l'ottocento.  Edizioni: Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli; Autobiografia, lettere e altri scritti, cur. Savarese, Milano; Della DICEOSINA o sia della filosofia del giusto e dell'onesto, a cura di F. Arata, Milano; Scritti, cur. Venturi, Torino; Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, Varese rist. anast. dell'ed. Milano; Scritti economici, cur. Perna, Napoli; Se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati. Lettere accademiche, a cura di G. Gaspari, Carnago; Lezioni di commercio o sia di economia civile con gli "Elementi del commercio", a cura di M.L. Perna, Napoli; Dialoghi e altri scritti. Intorno alle "Lezioni di commercio", a cura di E. Pii, Napoli. Fonti e Bibl.: Le carte genovesiane conservate si trovano a: Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIII.B. 39; ms. XIII. B. 92; ms. XIV. B. 53; Arch. di Stato di Napoli, Casa reale antica. Diversi, f. 868; LII, Affari gesuitici, ff. Altamura, Archivio Biblioteca Museo civico, Fondo Serena, Carte G.; Arch. di Stato di Milano, Piani di economia pubblica, Autografi; Arch. segr. Vaticano, Nunziatura di Napoli, Arch. di Stato di Torino, Materie economiche. Zecche e monete. Inoltre, copie manoscritte della Theologia sono conservate a Bari, Biblioteca nazionale, ms. III. 16; Biblioteca provinciale De Gemmis, Fondo De Gemmis; Fano, Biblioteca civica Federiciana, Fondo Collegio Nolfi, ms. 9; Macerata, Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms.; Napoli, Biblioteca oratoriana dei gerolamini, ms. Varie lettere sono conservate a: Firenze, Arch. stor. dell'Accademia dei Georgofili, Carteggio; Biblioteca nazionale, Autografi Gonnelli; Forlì, Biblioteca comunale, Autografi Piancastelli; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss. Beccaria, B. 231; Modena, Biblioteca Estense, MC.103. 1; Archivio Muratoriano, filza Autografoteca Campori; Torino, Biblioteca civica, Collezione Nomis di Cossilla; Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Mss. Lettere; Racioppi, G., Napoli; Monti, Due grandi riformatori, G. e Galanti, Firenze; Studi in onore di G., Napoli; Villari, Il pensiero economico di G., Firenze,Potolicchio, Postille autografe inedite alla "Logica" di G., in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di scienze, lettere ed arti in Napoli, Corpaci, A. G. note sul pensiero politico, Milano, Nuccio, Un grande riformatore napoletano. A. G.: scienza economica e problemi di rinnovamento sociale a Napoli, Roma; M. Agrimi, G. e l'Illuminismo riformatore del Mezzogiorno, in Belfagor, Badaloni, Conti, Milano, ad indicem; Luca, Gl’economisti napoletani e la politica di sviluppo, Napoli, passim; Marcialis, Note sulla Disputatio physico-historica di G., Annali delle facoltà di lettere, filosofia e magistero dell'Università di Cagliari, Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1; Luca, Scienza economica e politica sociale nel pensiero di G., Napoli,  Garin, G. storico della scienza, in Id., Dal Rinascimento all'Illuminismo, Pisa  Villari, G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, in Studi storici; Mas, Montesquieu, G. e le edizioni italiane dello "Spirito delle leggi", Firenze Addante, A. G. e la polemica antibayliana nella filosofia del Settecento. Contributo di ricerche storico-filosofiche, Bari 1972; P. Zambelli, La formazione filosofica di G., Napoli; Economisti italiani Roma Arata, G.:una proposta di morale illuminista, Padova rec. di G. Imbriglia, in Boll. del Centro di studi vichiani; Zambelli, G. and empiricism in Italy, in Journal of the history of philosophy, Piscitelli, Il pensiero degli economisti italiani sull'agricoltura, la proprietà terriera e la condizione dei contadini, in Clio, Demarco, Il dibattito settecentesco sulla popolazione in Italia, in La popolazione italiana nel Settecento. Relazioni presentate al Convegno su: La ripresa demografica Bologna Pennisi, Filosofia del linguaggio e filosofia civile nel pensiero di G., in Le forme e la storia Ferrone, Scienza, natura, religione, Napoli, Taranto, Il progetto di G. e l'economia civile di V.E. Sergio: un modello di sviluppo borghese, in Nuovi Quaderni del Meridione; Marcialis, G. tra Wolff e Locke. Metafisica ed empirismo nell’Ontosophia genovesiana, Cagliari, Pii, A. G.: dalla politica economica alla politica "civile", Firenze, Battista, La storiografia su G. oggi, in Quaderni di storia dell'economia politica, Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, Firenze Garin, A. G. metafisico e storico, in Giorn. critico della filosofia italiana, Bellamy, Da "metafisico" a "mercatante". A. G. and the development of a new language of commerce in eighteenth-century Naples, in The languages of political theory in early-modern Europe, a cura di Pagden, Cambridge, Battista, Sul popolazionismo degli economisti meridionali prima di Malthus, in Le teorie della popolazione prima di Malthus, a cura di G. Gioli, Milano; Fatica, Il lavoro come mediazione tra l'uomo "civile" e la natura: alcuni problemi di "police" in G. e nei suoi referenti culturali, in Prospettive Settanta; Marcialis, Natura e sensibilità nell'opera manualistica di G., Cagliari Pennisi, Grammatici, metafisici, mercatanti. Riflessioni linguistiche sul Settecento meridionale, in Teorie e pratiche linguistiche, a cura di L. Formigari, Bologna La linguistica dei mercatanti, NapoliFerrone, I profeti dell'Illuminismo, Bari, Galasso, La filosofia in soccorso de' governi, Napoli, Pagden, La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli, Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della co-operazione, cur. Gambetta, Torino; Marcialis, Legge di natura e calcolo della ragione nell'ultimo G., in Materiali per una storia della cultura giuridica, Robertson, The Enlightenment above national context: political economy in eighteenth-century Scotland and Naples, in The Historical Journal, Perna, L'universo comunicativo di A. G., in Atti del Convegno Editoria e cultura a Napoli, Napoli. Antonio Genovesi. Genovesi. Keywords: logica per gli giovanetti, critica della ragione economica, scambio conversazionale --. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Genovesi: critica della ragione economica” --  per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Enea all’inferno – filosofia taggese – scuola di Taggia – filosofia imperese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taggia). Filosofo taggese. Filosofo imperiese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Taggia, Imperia, Liguria. Grice: “It seems every philosopher has a catabasis – as Eneas did!” “Falamonica spends a ‘stagione’ in hell, too!” -- “I do like Falamonica – the way he makes ‘Aristoteil’ rhyme! “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” – Grice: Falamonica is interesting: there is Socrates teaching Alcibiades, and Socrates teaching Plato, and Plato teaching Aristotle, and Aristotle teaching Alexander!” Venne in contatto coll’astrologia. Compose i Canti, poema dottrinale in terzine di 42 canti, chiaramente derivato dalla Commedia di Dante. Grice: “It is a fun philosophical comedy: “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” Opere: “Canti. Dizionario Biografico degli Italiani. Di antica famiglia genovese, che negli anni 1460-1480 entrò nell'"albergo" dei Gentile (e da qui è l'origine del doppio cognome con il quale è conosciuto: cfr. Grendi), nacque a Genova, nella contrada di S. Pancrazio, intorno al 1450, da Pancrazio e da Violantina Piccamiglio.  Nulla si sa intorno alla sua formazione ed ai suoi studi. Il primo documento nel quale è nominato è il testamento del padre. In una data incerta della fine del sec. XV si trasferì in Spagna, dove svolse attività mercantile. Durante il soggiorno spagnolo fu tra i protagonisti della rinascita del lullismo, partecipando alle attività della scuola di Jaume Janer a Valencia. È promotore di iniziative editoriali, fra le quali la pubblicazione del Liber artis metaphisicalis dello stesso Janer, una sorta di summa enciclopedica del lullismo, stampata a Valencia; dalla dedicatoria apprendiamo che F. studia le dottrine di Lullo con Janer. Da un'altra dedicatoria, quella di Proaza, un altro importante membro della scuola lulliana di Valencia, alla Disputatio Remondi christiani et Homerii sarraceni, apprendiamo che F. si era dedicato anche a studi di astronomia e di medicina, e che sollecitò Proaza a pubblicare testi di Lullo. F. è inoltre in possesso di manoscritti di Lullo, del quale subì l'influenza anche nei testi letterari di cui fu autore.  Diciotto sonetti di argomento religioso, appartenenti alla tipica tradizione poetica catalana e nei quali è anche rilevabile l'influenza delle opere poetiche di Lullo, sono pubblicati per la prima volta nell'edizione di Valencia del Cancionero general. Nell'edizione del Cancionero (quella da noi consultata) sono suddivisi in cinque sonetti "sobre ecce homo", un sonetto "in dialogo de Dio", un sonetto "de trinitate", un sonetto "a la verge Maria par les guerres dela sglesia", cinque sonetti en llor del glorios nom de Iesus e cinque sonetti en llahor del nom dela gloriosa verge Maria.  Non si sa di preciso quando F. rientrò a Genova, dove muore. Si dedica alla stesura di un poema, che ci è stato tramandato ed è stato pubblicato con il generico titolo di Canti. In quarantadue canti in terzine, di cui il primo ha la funzione di proemio, F. costruisce un poema dottrinale secondo il modello dantesco del viaggio nei regni oltremondani. Ma la particolarità del testo di F., cui non manca una certa abilità nella costruzione del discorso in poesia, è data dall'aver scelto come guida del viaggio proprio Lullo, il filosofo cui aveva dedicato molti dei suoi studi durante il soggiorno spagnolo. Nei quarantadue canti troviamo trattati i temi più caratteristici della filosofia lulliana. I primi canti sono dedicati alla divisione e descrizione dell'universo ("de' cieli, de' elementi, de' minerali, de' vegetali, degli animali, dell'uomo, de' morali"), cui seguono canti sulla divinità e sul messaggio cristiano ("pronostico della cristiana religione, della divina essenza, della generazione e spirazione eterna, della creazione del mondo, della natura angelica, della incarnazione, della concezione, della passione, de' sacramenti, della predestinazione"), sull'uomo e i suoi peccati ("del divino e mondano amore, dell'usura, del giuoco, dello scandalo e della fama"), e, in ultimo, i canti del vero e proprio viaggio nei regni dell'oltretomba ("dell'inferno, del purgatorio, del final giudizio, del paradiso"). La storia del testo dei Canti è stata piuttosto tormentata: ricordati negli Annali della Repubblica di Genova di Giustiniani, già Foglietta nei Clarorum Ligurum Elogia lamenta l'inaccessibilità del testo, che si credette perduto. Venne data la notizia del ritrovamento del poema, che venne descritto nella Storia letteraria della Liguria da Spotorno. Dopo alcuni saggi di pubblicazione, i Canti vennero finalmente editi, in una veste non particolarmente curata, cur. Gazzino (Genova). In questa edizione i Canti sono accompagnati da un canto in terzine Alla Vergine e da tre sonetti In nome di Lei, che fanno parte di quelli già pubblicati nel Cancionero. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova (reprint, Bologna), (segnalazione in Spotomo, Storia letteraria della Liguria, II, Genova; Giorn. stor. della letteratura ital.); Caramella, B. G. F. (contributo alla storia del lullismo nei primordi del Cinquecento), in Dante e la Liguria. Studi e ricerche, Milano Levi, Un poeta italo-catalano del Quattrocento, in Estudis Universitaris catalans, Battlori, El lulismo, en Italia, in Revista de filosofia, McPheeters, The Italian poet and lullist B. G. in Valencia, in Symposium; Zambelli, Il De audito cabalistico e la tradizione lulliana nel Rinascimento, Firenze Grillo, Appendice alla raccolta degl’elogi di liguri illustri, Genova Pereira, Lavinheta e la diffusione del lullismo a Parigi, in Interpres, Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi, in Mélanges de l'Ecole Française de Rome, M.-A., - Temps modernes,CRIT ICA. SOPRA UN POEMA di Bartolommeo Falamonica. Non sono che pochi anni dacchè si scopri un poema di Bartolomeo G. Falamonica, uomo ligure, da lui scritto. Giustiniani e qualche altro G e novese aveano parlato di quell'uomo con assai lode ; m a deploravano la perdita di quella Opera sua, che andava smarrita. Spatorno nella sua Storia letteraria della Liguria dà un'analisi di quel Poema, che merita per, ogn irispetto d'essere conosciuto. Il manoscritto oggi trovasi presso il marchese Negro, patrizio genovese, amatore e cultore di ogni ottimo studio. Il poema di G. non ha titolo. La materia dice Giustiniani ė tutta filosofica, con interpretazione di leggi pontificie e cesaree. Lo stesso attesta Spatorno. L'A. incomincia dal favellare de' Cieli; e iprimi suoi versi sono questi: Nel tempo che s'inclina ilfiore e l'erba, TARIETA': WY > Perdar lecarespogliea l'aspra terra, Partendo dalla età dolce e superba, Lasciando addietro il sessagesim anno Vedea che l'error m 'avea condotto 39 Aristotil. Intanto gli apparve dalle parti occidentali una gran Stella in formadiromito, di nome Raimondo Lullo spiega il suo desiderio di conoscere la verità, e di lasciare alcun vestigio di sè dopo morte; e Raimondo disse: sta securo. e lo condusse al Sole, acciò lo guidasse ne'Cieli. Per man mi prese  Torna senza onor dalla mia guerra Con tutte mie speranze sparse al vento, De'miei passati giorni indarno spesi, Ch'ogni piacere in me resta spento. 2 motor che mi costrinse il senso E mi conduce in una oscura valle. Ivi il poeta udì prima un suono di guerra; poi una ltro come di favelle che parlano del Cielo e della Terra. e  Nel Il Canto vede Saturno, poi Marte, poi Giove; e il Sole gli dice: Già presso al fin che tutto il mondo atterra. Allor mi ritrovai tutto scontento A volgere al mio vero ben le spalle. Ed eccouscir del Ciel, non sosiofalle Un gran E vidi ch'eran Spirti in quel deserto Qual dicea in prosa, e qual canta in versi. E conosce tutti esser poeti , e in tanto numero E vedi alfin colui che fra'mortali Più degno par di tutto quel Collegio, Levarsi contra tutti e batter l'ali, Questa è la introduzione , e costituisce il primo Canto del Poema. Nel II Canto si trova in luogo, dal quale si vede sotto i piedi la Luna e i Pianeti; e sente il movimento delle sfere.Vide il cerchio delle Stelle fisse e da ciò prende occasione di parlare degl’astronomi, il più moderno dei quali è Regiomontano, ed afferma non essere possibile l'eternitàdel mondo. Ma qui conviene omai fermar le piante Ch'ionon potreidituttiinomidirti. Ne dice però una lunga lista di greci e latini: nd rammenta alcun italiano. Ei li lasciò tutti per gire a' filosofi, tra i quali dà il primo luogo ad Aristotele, di cui dice Per quelle strade luminose e terse Ch'io non potea lasciar la via serena. Il Sole dà al poeta un de'suoi rai, onde possa vedere gli oggetti terreni. E inquesto Canto, e nel VI parla dell'aria,! della dell? E la lussuria il buon smeraldo affrena; Vedi l'assenzio, ch'apre e scalda e sciolve: Che già della bell'arte han fatto vizio. Vacuando i denari, e non gli umori. Nel Canto IX ragiona della vitasensitiva degli animali e delle proprietà delle varie specie. E le cicogne d'empietà nemiche ecc. d'onde prende occasione di parlare della empietà degli uomini, Che gli uomini son fatti fere ed orsi: Qual strazia, qual uccide, qual graffigna. Cosi servate son le sacre norme. Le cose accennate formano la prima cantica del poema ; ed incomincia la seconda parlando dell'uomo. Alzato già del Ciel a tanto lume, acqua e del fuoco. Nel VII parla de minerali,e delle supposte aque? tempi meravigliose virtù delle pietre preziose, dicendo terr, Stringe l'acanto e falevenesalde; Tempo è omai d'entrar nel mio volume: Dove trovai del mondo tanta parte. Finchè io ti mostri la mia casa propria. Nel Canto IV visita Venere, Mercurio, e la Luna; e fa molte dimande di fisica, ele risolve colla dottrina peripatetica che allora corre. Nel canto V parla degli elementi; e vi s'introduce così: Era mia vista di luce si piena, Son gli ametisti incontro all'ebriopoto , Contra ilvenenoilgran giacinto è noto. Nel Canto VIII parla della vegetazione, e delle proprietà vereo immaginarie dellepiante. Torna l'altea la gran durezza in polve. cec. E contro i Medici. Falcon leale, e ladra la perdiceAdulterate son le cose sante La gente ritornata si maligna, Come si mostra in le passate carte , Ch'io vidi in lui siccome linea al punto Quanto Dio crca , e quanto poi comparte, Ogni mondana ed immortal bellezza. Nel Canto Il parla della immortalità e libertà dell'anima, e delle idee e degli affetti. Ogni pensier, e quanto qui s'adopra opra In questa nostra carne per sua forina (l'anima) Il lume della vita è la scienza. Questa parte filosofica è chiusa con un pronostico della Religione cristiana. Il Genio del Sole lascia finalmente il poeta ;e come questi nell'accomiatarsi sentendo una voce terribile, abbraccia spaventato il suo duce, esso sdegnato Come uomo irato qui fra noi s'incende, si volge al'Eterno, e lo prega di far sentire l'indigna zionesuaalla Terra piena di tirannide, disimoniayd'inu gratitudine e di avarizia. Han fatto un altro Dio tutto mondano; Creato per usanza un'altra legge; E posto in terraallorquando s'aggiorna  O somma vita, dove son raccolte Ligate qui col tempo , e là disciolte ; Eterno libro , in cui si nota e scrive E posto già il tuo nome tutto in vano. E commette al poeta di palesare queste cose a tutto il mondo escriverlealettered'oro; minacciandochese gliuomini non ritornano buoni, saranno preda dei Maomet tani,che alloraaveano presa Otranto. Questa seconda Cantica termina coi seguenti versi. Che nulla per di fuora par si scopra. Nel III Canto espone il difetto delle virtù, e spezialmente della carità , onde l'anima va dannata. Chiudendo incrudel pianto sua giornata. 1. Canti IV , V e VI trattano di cose morali. Nobil naturà , in cui si trova giunto Le vitenostrepriache insesienvive, Per l'alme che lassù si fanno dive; Fammi sentir sìcome dentro s' Mortal non è colui che mai non erra. Che per ricchezza l'uom non è giocondo : Un fonte di sospetti è signoria. Seguilipochi,e non lavolgargente. Da poimi vidituttii sensi presi: Con un gridar che uscia da que'paesi Oh ! mondo pravo , torna, tornia, torna.   Ed ecco allor m'apparve quel divino Miomastroantiquo (Lullo). I Canti I e II trattano della essenza divina secondo la dottrina e le sottigliezze degli Scolastici. Nel Canto III il poeta si sforza di mettere in versi la generazione del Verbo, e la spirazione eterna,giusta gli astrusi concetti delle scuole. Nel IV ragiona della creazione del Mondo; nelV della natura angelica con tutte ledivisioni gerarchiche. Nel VI e VII tratta della incarnazione del Verbo. Poi dellaconcezione, seguendo la nota sentenza di Scoto Più degno, più eccellente, più gentile , Di non veder la sua vision divina fermazione,dellaEucaristia, dela Penitenza,edelleIna dulgenze. Nel Codice autografo , dice Spatorno, è Jasciato in bianco ciò che apparteneva agli altritre Sacra menti. Favella poscia il poeta della predestinazione e del l'amore divino e mondano. Quest'ultimo lo ispira contro Usura in pravi volentier s'annida. E cresce questa piaga al mondo ognora. Quanto son pianegià le vie di morte ! Ne’susseguenti canti inveisce contro il giuoco; indi ragiona dello scandalo e della fama. La terza parte del Poema ha per soggetto il Mondo ir. visibile, e comincia dall'Inferno. E più decente ancora all'Infinito. Della più mite dottrina poi si mostra seguace rispetto ai fanciulli morti senza battesimo. Che poco curan già di veder Dio Di quanto in sè contien filosofia. In due Canti espone la passione del Redentore; nè pia. ceranno a tutti le disperazioni della Vergine a piè della croce. In due altri Canti ragiona del Battesimo, della Con I La Cantica terza abbraccia la parte teologica ; e comin cia così. È già fatto si com'uom selvaggio. Non hanno danno alcun, se non quel bando Giocando insieme tutti e giubilando, Non hanno più sospiro alcun, nè stento, E sono al lor parer si gloriosi Siccome fanno al mondo i più viziosi. E li suppone occupati M Busura. Secondo differenzia di peccati. A guardia de'superbi stanno i leoni, de'lascivi i porci; de'golosi gl’orsi: Viensi poial Giudizio universale Così montaro in Ciel disquadre in squadre. Il poema si chiude col Paradiso partito in sei capitoli. Nel I si parla della felicità de' Giusti. Nel II sono ricordati tutti i più celebri personaggi dell'antica alleanza; fra quali è taciuto di Saloinone, che secondo l'opinione del b. Alessandro Sauli si tene per dannato. Nel III si tratta degli Apostoli, dei Discepoli e degl'Innocenti, Nel IV parlandosi de' Martiri cosi dice di S . Lorenzo. Felice tu, mia Genoa, che l'onori, Eccelso cavalier di Cristo atleta. Giorgio chiamato, e vera insegna e duce Di nostra gran Liguria. Flegias, Cocito, furie d'Acheronte, Aletto con Megera e Tesifone. Lascio la Stige , e Lete, e Flegetonte, Ed ogni simulacro de Poeti Seguendo solo l'ortodossa fonte. Ne fu già l'occhio mio cotanto ardito Il Purgatorio del Falamonica ha forma di anfiteatro; le grotte che rinchiudono le anime, sono disposte sotto gli scaglioni, e sopra questi stanno demonii in sembianza di animali. La valle tenebrosa ed ipfelice D'ogni ben priva, e d'ogni male carca E le corone d'uno e d'altro impero Correr fra l'onde, e naufragar con elle. E come il balenar seconda il tuono. Ma l'invito del Giudice eterno agli Eletti, dice Spatorno, sa troppo di quelle licenze dantesche pena si perdonano all'Autore della incomparabil Commedia. E Roma, ove fursparsi i suoi dolori. E di S. Giorgio.  Che ap Cerbero lascio, Minos e Plutone, Da riveder qual fosse quello e questo. Cið gli frutterà guerra presso gli adoratori d'ogni cosa di Dante. Venite a me del nome mio maacipio, Diletti e benedetti dal mio padre. Che come miei fratelliio vi recipio. Felice ancor la Spagna, dov'ei nacque,   Nel V Canto si parla ancora de martiri. Nel VI de' dottori, monaci, ronitie confessori, e di questi l'ul timo è Bernardino di Siena. Di Bernardino parlo, che a l'uscita Di questa schiera il più moderno parve , Fra tanta moltitudine infinita. E chiama s.Anna Ava del Figlio, e Socera del Padre Miserere di un cuor che in tes'adombra! e dichiarando di sottomettere l'Opera sua al giudizio di Santa Chiesa. G. B.  Nostro celeste in Ciel. Chiude poi ilcapitolo e tutto il poema, volgendosi a Dio, e pregandolo Ch'io la rimetto a lisuoi santi piedi. Tale è l'analisi che ci ha data del poema del Falamonica Spatorno. Non poteva questa essere più ampia dovendo costituire parte di un articolo della sua Opera. Ma egli ha lasciato maggior desiderio del medesimo, poi chè pare anoi, che altri passi, e forse più felici, dovrebb'esso contenere, se, come dicegli, questo poema dopo la Commedia di Dante, e prima dell'Orlando furioso dee tenersi per la migliore composizione poetica che in quel l'intervallo l'Italia abbia avuta. Noi speriamo che il signor di Negro lo comunicherà al Pubblico colle stampe. E vidi alfin colui che fra’ mortali più degno par di tutto quell collegio levarsi contra tutti e batter l’ali. Dico Aristotil posto in sì gran pregio di lor filosofanti un lume acceso E pur dal ciel si trova dato in spregio si ch’io restai fra me tutto sospeso con l’alma or. Falamonica. Bartolomeo Fallamonica Gentile. Gentile. Keywords: Enea all’inferno, parodies of the Divine Comedy, Raimondo Lullo, Bruno e Lullo, il libro dell’amante e dell’amato, ars amative. Commedia filosofica.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale --  implicatura dell’atto conversazionale – filosofia castelvetranese – scuola di Castelvetrano – filosofia trapanese – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Castelvetrano). Filosofo castelevetranese. Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Castelvetrano, Trapani, Sicilia. Grice: “Do not multiply the senses of ‘state’ (normative, prerogative) beyond necessity.” Grice: “It’s difficult to assess the philosophy of Gentile; he is a Peirceian, like me –. He ie into ‘conventional sign’ and ‘natural sign’ – and considers intersubjectivity as a way to suprass the type of Berkeleyan idealism – his tradition is Plathegel, mine is Ariskant!” Grice: “The roots of Gentile’s philosophy are in Hegel’s logic, as are Bradley’s, Bosanquet, and Collingwood’s! – and Croce’s!” -- idealist philosopher. He taught philosophy at Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics as the process of an objectified thought. Gentile’s actualism or actual idealism claims that only the pure act of thinking or the transcendental subject can undergo a dialectical process. All reality, such as nature, God, good, and evil, is immanent in the dialectics of the transcendental subject, which is distinct from the empirical subject. Among his major works are “La teoria generale dello spirito come atto puro” and “Sistema di logica come teoria del conoscere.” Gentile sees conversation is a concerted act that overcomes the apparent difficulties of inter-subjectivity and realizes a unity within two transcendental subjects. Actualism was pretty influential. With Croce’s historicism, it influenced two Oxonian idealists discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet and R. G. Collingwood (vide: H. P. Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The Nature of Metaphysics, London, Macmillan). Insieme a Croce uno dei maggiori esponenti del idealismo, nonché un importante protagonista della cultura, fonda L’Istituto dell'Enciclopedia Italiana e artifice della riforma della pubblica istruzione (Riforma Gentile). La sua filosofia è detta attualismo.  Inoltre fu figura di spicco del fascismo italiano. In seguito alla sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, fu assassinato durante la seconda guerra mondiale da alcuni partigiani comunisti dei GAP. «Era un omone che ispirava grande simpatia; con la pancia incontenibile, i bei capelli brizzolati sopra un faccione rosso acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché un filosofo: così mi apparve, benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi di religione, freschi di lettura. Bonario, familiare (paternalista), mi fece l'impressione di un vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità sull'indiscusso ruolo di patriarca” (Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Figlio di Giovanni e Teresa Curti. Frequenta il ginnasio/liceo "Ximenes" a Trapani. Vince quindi il concorso per posti di interno di Pisa, dove si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia. A Pisa ha come maestri, tra gli altri, Ancona, professore di letteratura, legato al metodo storico e al positivismo e di idee liberali, Crivellucci, professore di storia, e Jaja, hegeliano seguace di Spaventa, che influirono molto su Gentile. Dopo la laurea, con massimo dei voti e ottenimento del diritto di pubblicazione della tesi, ed un corso di perfezionamento a Firenze, ottiene una cattedra in filosofia presso il convitto nazionale Pagano di Campobasso. Si sposta a Napoli.  Sposa Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso: dal loro matrimonio nasceranno Federico Gentile, i gemelli Gaetano G. e Giovanni G. junior, Giuseppe G., e Tonino Gentile. Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Ottiene poi la cattedra a Palermo, dove frequenta il circolo di POJERO (si veda) e fonda “Nuovi Doveri.” A Pisa e Roma. Insegna a Palermo, Pisa, Roma e Milano. Durante gli studi a Pisa incontra Croce con cui intratterrà un carteggio continuo. Uniti dall'idealismo (su cui avevano comunque idee diverse), contrastarono assieme il positivismo e le degenerazioni dell'università italiana. Insieme fondano “La Critica”  al rinnovamento della cultura italiana. L'attualismo ha configurazione sistematica. Divenne membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione. All'inizio della prima guerra mondiale, tra i dubbi della non belligeranza, si schiera a favore della guerra come conclusione del Risorgimento. Rivela a sé stesso la passione politica che gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più soltanto quella del filosofo che parla “ex cathedra”,  ma quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al pubblico. Partecipa attivamente al dibattito politico e culturale. E tra i firmatari del manifesto del “Gruppo Nazionale Liberale”, che, insieme ad altri gruppi nazionalisti e di ex combattenti forma l' “Alleanza” per le elezioni politiche, il cui programma politico prevede la rivendicazione di uno stato forte, anche se provvisto di larghe autonomie regionali e comunali, capace di combattere la metastasi burocratica, il protezionismo, le aperture democratiche alla Nitti, rivelatosi «inetto a tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di cogliere e tanto meno interpretare i sentimenti più schietti e nobili».  Fonda il “Giornale critico della filosofia italiana”.  Diviene consigliere comunale al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene nominato anche assessore supplente alla X Ripartizione, A. B.A ., ovvero alle “Antichità” e alle “Belle Arti”, sempre del Municipio di Roma. Diviene socio dell'Accademia dei Lincei.  G. non mostra particolare interesse nel confronto del fascismo. Fu solo allora che prese posizione in merito, dichiarando di vedere in Mussolini un difensore di un “liberalismo” risorgimentale nel quale si riconosce.“Mi son dovuto persuadere che il ‘liberalismo’, com'io l'intendo e come lo intendeno gli uomini della gloriosa destra che guida l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge, e perciò nello stato forte, e nello stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai ‘liberali’, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per l'appunto, da Lei.” (Lettera a Mussolini). All'insediamento del regime viene nominato ministro della Pubblica Istruzione, attuando La Riforma G., fortemente innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge Casati di più di sessant'anni prima! Diviene senatore del Regno. Si iscrive al Partito Nazionale con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale. Dopo la crisi Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato a presiedere la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello Statuto Albertino (poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento giuridico dello stato). Resta FASCISTA e pubblica il “Manifesto degli intellettuali” in cui vede la filosofia come un possibile motore della rigenerazione degli italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo manifesto sancisce l'allontanamento di G. da Croce, che gli risponde con un tipico “contro-manifesto”. Promuove la nascita dell'Istituto di Cultura. Per le numerose cariche, esercita un forte influsso sulla cultura italiana, specialmente nel settore filosofico. È imembro dell'Istituto Treccani. A G. si devono in gran parte il livello culturale e l'ampiezza della visione dell'Enciclopedia Italiana. Invita infatti a collaborare alla nuova impresa 3.266 filosofi di diverso orientamento, poiché nell'opera si deve coinvolgere tutta la cultura italiana, compresi molti studiosi notoriamente anti-fascisti, che ebbero spesso da tale lavoro il loro unico sostentamento. Riesce in tal modo a mantenere una sostanziale autonomia, nella redazione dell'Enciclopedia Italiana, dalle interferenze del regime. È coinvolto nell'istituzione del Giuramento di fedeltà al regime che causerà l'allontanamento di alcuni dall'Università.  Inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Fonda il Centro nazionale di studi manzoniani. Fonda la Domus Galilaeana a Pisa.  Non mancano comunque i dissensi col regime. In particolare, la sua filosofia subisce un duro colpo alla firma dei Patti Lateranensi tra il cattolicesimo e lo stato. Sebbene riconosca il cattolicesimo come una forma della spiritualità, ritiene di non poter accettare uno stato NON laico. Questo evento segna una svolta nel suo impegno politico militante, è inoltre contrario all'insegnamento del cattolicesimo nel ginnasio e nel liceo. Il Sant'Uffizio mette all'”Indice” le sue opere a causa del loro riconoscimento, nel solco dell'idealismo, del cattolicesimo come una mera "forma dello spirito” -- totalmente inferiore alla filosofia: ‘theologia ancilla philosophiae.” “La mia religione, in cui vi sono anche alcune velate critiche al cattolicesimo e ispirata da Alighieri, Gioberti e Manzoni. Degna di nota anche la sua difesa di Bruno, il filosofo eretico condannato al rogo dall'Inquisizione, al quale dedica una apologia, impegnandosi anche presso Mussolini perché la statua di Bruno in Campo de' Fiori e opera dello scultore anticlericale Ettore Ferrarinon fosse rimossa, come richiesto da alcuni cattolici. Comincia una lunga polemica contro Vecchi, che Gentile accusa di “inquinare la cultura”.“Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e negatrice.”“Roma accolse sempre e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli.” “Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe, l'orbe.” “La Roma antica volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice intelligenza a ogni persona a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo alieno da sé che fosse umano.”“Sono i popoli – come i longobardi! -- piccoli e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo schivo e sterile.”In La mia religione dichiara di essere credente nello stato laico – ‘stato no laico e una contradictio in terminis’ --  Nel Discorso del Campidoglio esorta all'unità. Si ritira a Troghi, dove filosofa su la “Genesi e struttura della società” nel nel quale teorizza su la politica dell’umanesimo. Considera “Genesi e struttura della societa” il coronamento dei suoi studi speculativi tanto che mostrando il manoscritto, scherzando disse. "I vostri amici possono uccidermi ora se vogliono.”“Il mia missione nella vita è compietata.”La caduta di Mussolini non preoccupa particolarmente Gentile che intese il tutto come un avvicendamento al governo. Inoltre la nomina nel primo governo Badoglio di alcuni ministri che precedentemente erano stati suoi collaboratori lo conforta. In particolare la amicizia con Severi spinse Gentile ad inviargli una lettera di auguri per la nomina e a sottoporgli alcune questioni rimaste in sospeso con il governo precedente.  Severi rispose a G. lanciandogli un duro e inatteso attacco. Travisandone volontariamente i contenuti evitando però di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si fosse proposto come consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la proposta. G. replica a Severi e rassegna le dimissioni da Pisa. G. respinse in un primo tempo la proposta di Biggini di entrare al Governo, dopo un incontro con MUSSOLINI sul lago di Garda si convinse ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Divenne presidente della Reale Accademia d'Italia, con l'obiettivo di riformare L’Accademia dei Lincei che e assorbita dall'Accademia. Venne qui tempo fa un amico a cercarmi, ed io dissi francamente i motivi politici per cui desideravo restare in disparte. Ma egli mi assicura che io potevo benissimo restare in disparate. Ma dovevo fare una visita al mio amico che desidera vedermi ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla mia persona. Negare questa visita non e possibile. Feci comodamente il viaggio con Fortunato. Ebbi un colloquio di quasi due ore, che fu commoventissimo. Dissi tutto il mio pensiero, feci molte osservazioni, di cui comincio a vedere qualche benefico aspetto. Credo di aver fatto molto bene all’Italia. Non mi chiese nulla, non mi fece offerta. Il colloquio fu a quattr'occhi. La nomina fu poi combinata col ministro amico e portata qui da me da un Direttore generale. Non accettarla sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita. Sostenne la chiamata all’armi e la coscrizione militare nell'esercito della RSI, auspicando il ri-pristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta di Mussolini.  Intanto il figlio, Federico G., capitano d'artiglieria del Regio Esercito, e internato dai tedeschi in un campo di prigionia a Leopoli in condizioni particolarmente severe. F. G. e l'unico ufficiale italiano del campo a non ricevere la posta di ritorno. F. G. aveva aderito alla RSI, ma non aveva accettato l'arruolamento nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare in Italia da civile. G. elogia pubblicamente al condottiero della grande Germania, e lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse. Pochi giorni dopo, Federico G., venne trasferito in un campo meno duro. Infine, gli e permesso il ritorno. Per il suo appoggio dichiarato alla leva per la difesa della RSI, riceve  diverse missive contenenti minacce di morte. In una in particolare era riportato. Tu sei responsabile dell'assassinio dei cinque. L'accusa e riferita alla fucilazione di cinque renitenti alla leva rastrellati dai militi della R. S. I. -- fucilazione orchestrata da Carità, che detesta G., ricambiato. Ha infatti minacciato di denunciare le eccessive violenze del suo reparto allo stesso MUSSOLINI. G. non e assolutamente collegato con tale evento. Il governo repubblicano gli offre quindi una scorta armata che però G. declina. Non sono così importante, ma poi se hanno delle accuse da muovermi sono sempre disponibile. Considerato in ambito resistenziale come il filosofo del regime, apologo della repressione e di un regime ostaggio di un esercito occupante, è ucciso sulla soglia di Villa di Montalto al Salviatino, da gappisti di ispirazione comunista. Il commando si apposta circa nei pressi della villa. Appena giunse in auto, il gappista Fanciullacci si avvicina, tenendo sotto braccio un saggio di filosofia – “Apperance and Reality,” di Bradley -- per nascondere la rivoltella e farsi così credere un filosofo. Abbassa il vetro per prestare ascolto. E subito raggiunto dai colpi della rivoltella. Fuggito il gappista in bicicletta, l'autista si diresse all'ospedale Careggi per trasferirvi il filosofo moribondo. G., colpito direttamente al cuore e in pieno petto, in breve spira. E un episodio che divide lo stesso fronte di resistenza e che è al centro di polemiche non sopite, venendo infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola esclusione del Partito Comunista, che ri-vendica l'esecuzione. E sepolto nella basilica di Santa Croce, il foscoliano tempio dell'itale glorie. Dopo l'attentato, le autorità della R. S. I.,  dopo aver sospettato all'inizio lo stesso Carità promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni su Fanciulacci.Venne disposto l'arresto di cinque, indicati da come i mandanti morali. Grazie al diretto intervento della famiglia, gl’arrestati sono rimessi in libertà. All'interno di Santa Croce si inaugura un convegno di studi gentiliani. La filosofia di G. e da lui denominata “attualismo” o idealismo attuale.L'unica vera realtà è un “atto” puro del «pensiero che pensa», cioè l'auto-coscienza, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente.Solo quello che si realizza tramite lo spirito rappresenta la realtà in cui il filosofo si riconosce. Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non c'è distinzione tra “soggetto” e “oggetto” – dunque l’intersoggetivita e un pseudo-problema. Avversa pertanto ogni dualismo rivendicando il monismo e l'unità di natura (corpo, materia) e spirito (anima, forma) (monismo).Al'interno, assieme al primato, la auto-coscienza è vista come “sintesi” della tesi del soggeto e l’antitesi dell’oggetto. Questo e un atto in cui il primo, la tesi, il soggetto, pone se stesso e pone il secondo (auto-concetto).In ciò consiste l'”autoctisi” –Non hanno quindi senso un orientamento solo spiritualista o solo materialista (naturalista).Non ha senso la divisione netta tra spirito (l’astratto) e materia (astrazzione) del platonismo, in quanto la realtà è Una. Qui è evidente l'influsso dell’aristotelismo (hyle-morphe) e il panteismo rinascimentale e anche dell’ “immanentismo” (contro il transcendentalismo) più che dell'hegelismo. Di Hegel, a differenza di Croce, che era fautore di uno storicismo assoluto (o idealismo storicista), per cui tutta la realtà è “storia” e non “atto” in senso aristotelico (energeia/dunamis – actus – cf. Grice, “What is actual”), non apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto l'impianto idealistico relativo alla auto-coscienza.La auto-coscienza è considerata il fondamento del reale. Anche vi è un errore in Hegel nella formulazione della “dialettica”. Ma questo non consiste unicamente, come afferma Croce. Croce infatti sostiene che "tutto è Spirito". La critica di Croce non è sufficiente.Gentile sostiene che Hegel confunde la dialettica del “implicare” (‘impiegare”) (che ha individuato correttamente) con la dialettica dell’ “implicatum” ‘empiegato’. Lascia forti residui della dialettica dell’impiegato,cioè quella del determinato e delle scienze. Gentile inoltre non accetta la “dialettica dei distinti” (A distinto da B) che Croce, in base al adagio che "non ogni negazione è opposizione") introduce posto accanto alla “dialettica degli opposti" (A opposto B). Infatti G.  ritiene la ‘dialettica dei distinti’ un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica propria.Questa invece si esplica in un “atto” in cui utilizza la dialettica (A opposto B, sintesi C) in un atto puro.Questa dialettica si esplica quindi nel rapporto dell’impiegare e l’impiegato. Recuperando La Dottrina della scienza di Fichte, G. afferma che lo spirito (anima, forma) è fondante in quanto unità di autocoscienza, atto; l'atto puro –, è il principio e la forma della realtà diveniente, non esistente (Gott im Werden – dall’divenire all’essere). La dialettica dell'atto puro e l’opposizione tra la soggettività (il soggeto) rappresentata dall'espressione --  intention-based semantics -- (tesi) e l'oggettività (oggeto) – cf. inter-soggetivo -- rappresentata dal positivism scientism. (antitesi), cui fa da soluzione nell’atto puro (sintesi). L'atto puro si fonda sull'opposizione della «logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero pensato” – cfr. implicans – implicatum. impiegatore – impiegante – impiegato --. La prima è una dialettica materiale– implicans/impiegante --, la seconda una logica formale – l’impiegato --. G. dedica la sua attenzione al tema della soggettività dell'espressione nel vivere del spirito. Se da un lato l'espressione è il prodotto di un sentimento soggettivo o una intenzione, dall'altro l’espressione è un atto puro “sintetico” – “composito” -- non analitico – or divisso -- che coglie tutti i momenti della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni caratteri del questo che Grice chiama il discorso razionale o la conversazione come cooperazione razionale. Sviluppando fino in fondo la filosofia di Spaventa, la filosofia dell’atto puro, per il quale la realtà esiste solo nell'atto puro che pensa la realta.è stato interpretato come un idealismo soggettivo (una forma di soggettivismo – o intersoggetivismo), sebbene G. tende a respingere tale definizione, non essendo quell'atto preceduto né dal “soggetto” né tantomeno dall'”oggetto” -- bensì coincidente con l'Idea stessa, e a differenza di Fichte, in cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un "cattivo infinito" è in realtà immanente (non trascendente) all'esperienza, proprio perché l’atto puro e creatore d una esperienza (datum). Gentile e un ideologo del regime.La filosofia politica di G. è  fortemente attivista e attualista (cioè trasponte l'attualismo del atto puro nel campo veramente inter-soggetivo dello scambio sociale.La politica coniughi «prassi e pensiero» (lo pratico e lo speculative) che sia insieme «una azione a cui è immanente una ‘dottrina’ condivisa.’”Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà, in G. troviamo il primato del futuro, l’utopia, l’ideale regolativo. Ma, allo stesso tempo, un recupero della concezione romantica illuminsita di una Ragione intesa come Spirito universale che tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione meramente strumentale mezzo-fine. In questo, l’analogia con Grice e obvia. Per G., ad esempio, il «modo generale di concepire la vita» proprio della sua dottrina è di tipo spiritualistico. La dottrina non è la sola qualificazione politica che dà dello speculative. G. infatti e un ‘liberale’ -- nonostante sembri respingere quasi in toto il ‘liberalismo ottocentesco’ ne La dottrina del regime.Difatti la sua concezione politica riprende la concezione di Hege di un stato etico o morale -- per cui ‘libero’ (free) non è primariamente l'individuo o persona atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo stato stesso nel suo processo storico. Un individuo e  ‘libero’ se esplica la sua moralità nella forma istituzionale di suo stato libero -- come chiarisce nella 'Enciclopedia italiana. L'individuo esprime la sua libertà individuale personale solo all'interno di un stato libero ("libertà nella legge" – lo giuridico -- ), con ciò a dire in un contesto istituzionale organizzato (positivismo kelseniano). Un esempio di questa concezione lo si può trovare nella destra storica, la quale governa l'Unità d'Italia. Impone un governo autoritario (concezione ereditata poi dalla sinistra storica di Crispi) che riusce a moderare l'individualità dei singoli, quella che G. definisce come la spinta alla disgregazione.Questo modello di governo forte è giusto (lo giuridico) in quanto, per definizione, un stato libero e un stato etico, definito alla Mazzini come "stato educatore". Se G. voglia uno stato totalitario vero e proprio è questione invece incerta.Di certo nella sua fase prettamente del regime, G. fa riferimento a un ‘stato totale", l'organismo che accoglie tutto in sé. Con il regime si può avere vero "liberalismo" in quanto riporta al valore primigenio del Risorgimento. G. dimostra un forte approccio storicistico, secondo il quale il regime trade la sua legittimazione dalla storia, sarebbe appunto una vera fase storica, non una mera mistica o dottrina o ideologia. Il Risorgimento non e olo un'operazione politica, ma un "atto di fede".Il campione di suddetto atto di fede e Mazzini: anti-illuminista e romantico, anti-francese, spiritualista e nemico dei principi materialistici. Lo stato giolittiano rappresenta invece un tradimento dei valori risorgimentali.Per rompere questo “status quo” degenerativo del processo italiano e necessario una rivoluzione. Porta un nuovo assetto, ma anche statale, perché va a colmare una lacuna che vige nel sistema del stato. Insiste molto sulla novità di questa rivoluzione. è un modo nuovo di concepire una nazione, ha una consapevolezza mistica di ciò che sta compiendo. Un duce viene perciò dipinto come un vero eroe idealistico. La missione della rivoluzione è quella di creare l'Uomo nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a grandi imprese. Questo nuovo tipo di uomo e anti-tetico al carattere che Giolitti tentò di imprimere a una nazione e che connota l'Italia come una nazione scettica, mediocre e furbastra. In quanto ideologo, G. sostiene che la dottrina revoluzionaria si deve istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso l'istituzione del Gran Consiglio. La dottrina si deve inoltre far assorbire dall'italianità (e non il contrario). Il fine è che nella società italiana non vi siano più contra-dizioni, nessuna differenza tra cultura italiana e cultura della dottrina. Bisogna arrivare ad una comunità omogenea e compatta anche in ambito lavorativo.  Attraverso l'istituzione della  cooperative e la corporazione, la quale deve sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la collaborazione o cooperazione di classe. Anche qua Gentile riprende le teorie di Mazzini, oltre che il distributismo. Il corporativismo (di cui le estreme realizzazioni saranno la democrazia organica e la “socializzazione” dell'economia, progettate nella R. S. I.) permette di giungere ad uno stato di fatto in cui i problemi economici si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza provocare fratture all'interno della società, ed evitando una lotta di classe (classe bassa, casse media, classe alta) grazie alla “terza via” della dottrina. Gentile sostenne, opponendosi all'ala estrema e intransigente l'idea una riconciliazione, la più ampia possibile, di tutti gli italiani.Pur riconoscendosi nella R. S. I., invita pubblicamente il popolo sano ad ascoltare la voce della patria, esortandolo alla pacificazione e ad evitare una “lotta fratricida", di cui comunque non vedrà la fine.  Il gentilismo fu una delle cinque correnti culturali del regime, assieme alla sinistra "rivoluzionario" di Malaparte, Maccari, Bottai, e Marinetti; la dottrina clericale; la mistica di Giani, Arnaldo, e Mussolini; e il neo-ghibellinismo pagano di Evola. Per l'idealista G., a differenza di Croce, che ritene il Marxismo solo "passione politica", causata da uno sdegno morale a causa delle ingiustizie sociali, il marxismo è una filosofia della storia derivata da Hegel. Gentile afferma infatti che la concezione materialistica della storia è costruita da Marx sostituendo la Materia -- la struttura economica -- allo Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà, che comprende la materia (all'interno della Filosofia della natura), come momento del suo sviluppo. Secondo Marx invece, avendo scambiato il relativo con l'assoluto, si finisce con l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè, il fatto economico) la funzione dell'Assoluto che per Hegel si sviluppa dialetticamente ed è determinato a priori rendendo così determinato a priori l'empirico: la struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia marxiana sia pertanto una errata filosofia della storia hegeliana "rovesciata", però la filosofia di Marx possiede ugualmente un pregio: è una "filosofia della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach, che G. cura, il "Moro" infatti critica il materialismo volgare. Questo concepisce metafisicamente l'oggetto come dato e il soggetto come mero ricettore dell'essenza-oggetto. Nonostante ciò, secondo G., Marx, attribuisce alla “prassi”, considerata come attività sensibile umana, la funzione di far derivare a torto il pensiero medesimo.I filosofo di Treviri infatti considera il pensiero una forma derivata dell'attività sensitiva e non un atto che ponga l'oggetto. Gentile sostiene invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto del pensiero,come atto puro a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a crearlo. G. riflette a lungo sulla funzione pedagogica e unisce la pedagogia con la filosofia, avviando una rifondazione in senso idealistico della prima, negandone i nessi con la psicologia e con l'etica. L'educazione deve essere intesa come un attuarsi, uno svolgersi dello spirito stesso che realizza così la propria autonomia. L'insegnamento è spirito in atto, di cui non si possono fissare le fasi o prescrivere il metodo.Il metodo è il maestro o tutore, il quale non deve attenersi ad alcuna didattica programmata ma affrontare questo compito sulla scorta delle proprie risorse interiori. Programmare la didattica sarebbe come cristallizzare il fuoco creatore e diveniente dello spirito che è alla base dell'educazione. Al maestro o tutore è richiesta una vasta cultura e null'altro.Il metodo verrà da sé, perché il metodo risiede nella Cultura stessa che si forma continuamente da sé nel suo processo infinito di creazione e ri-creazione.Il dualismo scolaro-maestro (tutore/tutee) deve risolversi in unità – il dialogo socratico -- attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che tramite la cultura muove l'educatore (tutore) verso l'educando (tutee – G. qui usa una forma romana, ‘educando’ – cfr. ‘implicandum’ -- e lo riassorbe nell'universalità dell'atto spirituale. Il maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro dell'essere divino, dello spirito». Il maestro incarna lo spirito stesso, l'allievo (l’educando, il tutee, lo scolareo) deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro, proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi (auto-diddatica), facendo del tutto propri i grandi contenuti presentati. Questi concetti ispirano la riforma scolastica attuata da G. in veste di ministro della Pubblica istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi desideri. Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma scolastica sono in particolare la concezione della scuola come membro fondamentale dello stato (viene infatti istituito un esame di stato che sancisce la fine di ogni ciclo scolastico, anche se gli studi sono effettuati in un istituto privato) e il predominio delle discipline del gruppo umanistico-filologico.Gentile fu ministro della pubblica istruzione e mise in atto la sua riforma scolastica, e definita da Mussolini "la più riformante delle riforme", in sostituzione della vecchia legge Casati. Essa era fortemente meritocratica e censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile individua l'organizzazione della scuola secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola di tipo piramidale, cioè pensata e dedicata ai migliori e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo ‘professionale’ per il popolo. I gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli, o comunque a quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse di studio perché gli studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire gli studi (cf. Grice, a “Midlands scholarship boy bound to Corpus!”). La logica e messa in secondo piano, poiché e una materia priva  di valore universale, che ha la sua importanza solo a livello professionale. Difatti G., a differenza di Croce che sostene l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche sulla scienza, pur criticando gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le materie letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al dialogo, con matematici e fisici italiani (come Majorana, collaboratore di Fermi nel gruppo dei ragazzi di via Panisperna, che divenne anche amico del figlio Giovanni G. jr., coetaneo di Majorana) e cercò di instaurare un confronto costruttivo con il scientism. L'obbligo scolastico fu innalzato a 14 anni ed è istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni. L'allievo che termina la scuola elementare ha la possibilità di scegliere tra il ginnasio/liceo classico e la scuola scientifica oppure un istituto tecnico.Solo il ginnasio-liceo permette l'accesso alla faculta di filosofia nella universita di Bologna.In questo modo però viene mantenuta una profonda divisione tra classi – l’elite, la classe alta, la classe media, e la classe basssa (questo vincolo fu rimosso completamente). Ciò anda incontro alla visione patriarcale del Duce. Anche G. nel complesso mostra posizioni poco ricettive verso il femminismo (il femminismo è morto, dirà), sebbene più sfumate, sostenendo che i licei dovessero formare i futuri capi guerrieri. Nel triennio dell'istruzione classica viene poi introdotta, in sostituzione, LA FILOSOFIA, adatta alla elite o classe dominanti e alla futura classe dirigente, ma non al popolo minuto. G. è un filosofo della secolarizzazione e della risoluzione della trascendenza in prassi in ciò accomunato a Marx -, determinante addirittura per lo stesso comunismo italiano attraverso la ripresa che ne fa Gramsci. Da sottolineare che già sulla rivista L'Ordine Nuovo, Gobetti nota sche G. forma la cultura filosofica italiana. Di tutt'altro avviso Sasso, secondo il quale a dover essere rivalutata non è affatto la disastrosa prassi politica di Gentile, la cui «passionale» adesione alla dottrina «fu filosofica, forse, a parole ma nelle cose no». Ciò che merita ancora di essere studiato, sostiene Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in atto», e tra essa «e la dottrina non c'è, né ci può essere, alcun nesso». La filosofia di G. e la fascistizzazione dell'attualismo e pertanto una deformazione dell'idealismo. Al di là della sua appartenenza politica, si attribuisce comunque a G. un notevole spessore filosofico. G. è fascista e paga con la vita la sua fedeltà alla dottrina. Ma è anche profondo pensatore. Lo riconobbero, nel primo dopoguerra, persino Gramsci e Togliatti. Per approfondire gli studi sull'opera di G. e create l'istituto di studi gentiliani e la fondazione G. a Roma. La filosofia gentiliana è stimata anche da Severino, che ravvisandovi una condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la considera uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale. G. e certamente un romantico, forse l'ultima più vigorosa figura del Romanticismo europeo. Gli venne dedicato un francobollo delle poste italiane, unico tra le personalità di primo piano del regime ad avere questa celebrazione da parte della Repubblica Italiana.  L'assassinio di G. è una carognata ingiusta e vigliacca. G. non è fascista. Che gl’anti-fascisti sono dei acasotto perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non hanno il coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi minano. Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italianastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italia, Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania nazista) nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania). “L'atto del pensare come atto puro; La riforma della dialettica hegeliana” (Firenze, Sansoni); La filosofia della guerra; Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze, Sansoni); I fondamenti della filosofia del diritto; “Sistema di logica come teoria del conoscere; Guerra e fede (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Dopo la vittoria (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Discorsi di religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Frammenti di storia della filosofia”; “La filosofia dell'arte”; “Introduzione alla filosofia”; “Genesi e struttura della società” “L'attualismo Cicero e con introduzione di Severino, Bompiani, Milano  Di carattere storiografico Delle commedie di Grazzini detto il Lasca”; “Rosmini e Gioberti”; “Marx”; “Dal Genovesi al Galluppi”; “Telesio; “Studi vichiani” “Le origini della filosofia contemporanea in Italia”; “Il tramonto della cultura siciliana; Bruno e il pensiero del Rinascimento; Frammenti di estetica e letteratura; La cultura piemontese; Capponi e la cultura toscana del secolo XIX; Studi sul Rinascimento; I profeti del Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti; BSpaventa; Manzoni e Leopardi; Economia ed etica; G. un filosofo scomodo; L'insegnamento della filosofia nei licei; Scuola e filosofia; Sommario di pedagogia come scienza filosofica” “I problemi della scolastica e il pensiero italiano; Il problema scolastico del dopoguerra; La riforma dell'educazione, Bari, Laterza); Educazione e scuola laica; La nuova scuola media; La riforma della scuola in Italia; “Manifesto degli intellettuali”; Che cos'è la cultura? Origini e dottrina”; “La mia religione”; “Discorso agli Italiani”; “Essenza” la prima parte si trova nella Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T.: la prima e la seconda si trovano in l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma; un'altra opera in cui si trova questo testo è in Origini e dottrina del fascismo, istituto nazionale fascista di cultura, Roma; altro testo in cui si trova si intitola Lo stato etico corporativo). La filosofia del fascismo (Origini e dottrina del fascismo; si trova in Politica e Cultura, oppure lo si può trovare le libro intitolato L’Identità” un altro libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni de Il libro italiano del mondo, Roma); Che cosa è il fascismo-discorsi e polemiche (Firenze, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola; G. Scritti per il Corriere. Note  Vi è chi attribuisce al neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe posto l'istruzione scientifica in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico letteraria (L'Italia della scienza negata, in Il Sole; altri invece respingono questa interpretazione, ricordando che durante l'egemonia gentiliana nacquero numerosi enti scientifici (Croce e Gentile amici della scienza, in Corriere della Sera).  Cit. di Pampaloni tratta da Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Staglieno, Milano, Rizzoli. Manifesto cit. in Rienzo, Storia d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, Cfr. Vito de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile. Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, Nuova Storia contemporanea, Dello stesso autore,cfr. G.. Al di là di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro", Chieti, Solfanelli, Scheda senatore G. Simoncelli Benedetti, L'Enciclopedia Italiana Treccani e la sua biblioteca, Biblioteche Oggi, Milano, Testo qui  Ripubblicato come Bruno e il pensiero del Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S. saggi cult. cont.  Bruno. LE VICENDE DELLA STATUA  Vecchi, Treccani  Paolo Simoncelli.  La scelta di campo, Marco Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le bufale, l'Opinione, Mieli, G. critica in pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo vano  Simoncelli Simoncelli Perfetti, ASSASSINIO D’UN FILOSOFO; G., di Turi; G.  Il Contributo italiano alla storia del Pensiero Filosofia”Treccani  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo Perfetti, Assassinio di un filosofo Perfetti, Assassinio di un filosofo, Canfora, La sentenza.  Marchesi e G., Palermo, Sellerio, Perfetti, Assassinio di un filosofo.  Vettori, G., Editrice Italiana, Roma, Fiori, dirigere la casa editrice Sansoni esecondo la testimonianza dell'ex interermania.html Io, italiano prigioniero in Germania, in La Repubblica, Carioti, Quando G. s'inchina a Hitler per salvare il figlio, Corriere della Sera, Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi, Historia", Uboldi, Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata; Arnoldo Mondadori Editore, Milano. G., sdegnato, minaccia di denunciarlo a Mussolini"  Chianesi, Benvenuti non volle mai raccontare i precisi particolari, dal suo punto di vista. Questa è una cosa che non dirò mai. Perché potrei fare rovesciare tutte le cose. Perché non è come è stato detto. Come è andata l’azione dei Gap io non lo voglio dire. Me l’hanno chiesto in tanti ma non l’ho rivelato mai a nessuno». Vedi un intervento della Benvenuti anche in Carratù. Paoletti, "IL DELITTO G.: esecutori e mandanti, Ed. Le Lettere, L'omicidio raccontato da Martini "Paolo" uno dei due esecutori materiali. Sicuramente (Fanciullacci l'altro esecutore) gli chiede se è il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa parte, non attraverso i due finestrini posteriori. Resistenza: Angela, la ragazza col fiore rosso Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che G. dove morire, in Corriere della Sera, Per fare in modo che i gappisti incaricati dell'agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso l'Accademia d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile imbarazzo. Mattei)  Canfora, "Giovanni Gentile nella RSI" in La Repubblica Sociale Italiana Poggio, Annali della Fondazione Micheletti, Brescia, Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che G. doveva morire, sul Corriere della Sera,: "L'omicidio di Gentile, anziano e inerme, suscitò una forte impressione e fu disapprovato dal CLN toscano, con l'astensione dei comunisti. Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione, scrisse un articolo per dissociarsi."  Maria Cristina Carratù, E dopo 70 anni nuovi scenari dietro l'esecuzione di Giovanni Gentile, La Repubblica, 24 aprile   Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", articolo su "Historia", Ecco le carte che assolvono l'archeologo  Romano. Turi, G. Così Gaetano G. ricorda il suo intervento presso la prefettura. Quella sera stessa, per desiderio di mia madre, io mi recai dal capo della Provincia e gli parlai della voce di rappresaglie diffusasi in città, esprimendogli la ferma e calda preghiera di mia Madre che quel proposito, se effettivamente esisteva, venisse abbandonato e anzi gli arrestati rilasciati. Dissi anche, naturalmente, come a me sembrasse in fondo superfluo dover esprimere tale preghiera proprio in quella stanza in cui ancora quella mattina la voce di mio Padre si era levata a deplorare la tragica inutilità di un metodo, dal quale non poteva seguire che il ripetersi indefinito di una crudele successione di attentati e rappresaglie. È ovvio poi che, indipendentemente dalla eventuale giustificazione politica o militare di atti simili, nulla del genere poteva aver luogo in occasione della morte di mio Padre, alla quale si doveva da parte del Governo e delle autorità fiorentine questo gesto di rispetto delle sue convinzioni e del suo costante atteggiamento.  Firenze: due consiglieri, via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su libero quotidiano. Attualismo», Enciclopedia Treccani  Fusaro, G.  Sull'importanza della riforma della dialettica idealista di matrice hegeliana in G., si veda quest'intervista a Sasso. L'intervista è compresa nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienza Filosofiche. Minozzi, Saggio di una teoria dell'essere come presenza pura, Il Mulino, G. quindi contestava a Fichte la trascendenza dell'io assoluto rispetto al non-io, e di restare così in un dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del pensiero, ma solo da un agire pratico dilatato all'infinito (cattivo infinito), fermo alla contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale Fichte «s'irretisce in un idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire da sé» (Discorsi di religione, Firenze, Sansoni).  G., Mussolini, LA DOTTRINA DEL FASCISMO. Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Staglieno, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, Luca, G. e il liberalismo, Mussolini, Volpe, G., Fascismo, Enciclopedia Italiana. Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in G., Giornale critico della filosofia italiana, Belardelli, Il fascismo e Mazzini  G., Manifesto degl’intellettuali fascisti  G., "Ricostruire" in Corriere della Sera, Cfr. Libertà e liberalismo (Conferenza tenuta a Bologna"), in Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, Il pensiero pedagogico di G.  La riforma Gentile, su pbmstoria. Si veda anche ne Il fascismo al governo della scuola, in Annali, Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli,  [Boffi:] Qual è il criterio su cui si è fondata Vostra Eccellenza nella limitazione delle iscrizioni? G.: Questa limitazione non c'è nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle scuole di cultura e risponde alla necessità di mantenere alto il livello di dette scuole chiudendole ai deboli e agli incapaci; dipende anche dalla riduzione del numero degli scolari nelle singole classi fatta per evidenti ragioni didattiche, quelle stesse che hanno consigliato l'abolizione delle classi aggiunte; ma soprattutto dalla necessità di consigliare agli italiani un diverso indirizzo nella loro attività.  Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali, di commercianti, di artieri, di minuti professionisti, che portino nella esplicazione delle loro arti e dei loro mestieri quello spirito fine della Nazione che finora li ha spinti a disertare le scuole industriali, commerciali e professionali per seguire la scuola umanistica.»  (R.Sandron, Il fascismo al governo della scuola, iscorsi e interviste, Boffi, Spadafora, G.: la pedagogia, la scuola: atti del Convegno di pedagogia e altri studi, Armando, Galavotti, La filosofia italiana e il neo-idealismo di Croce e G., Homolaicus.  Il mistero di Majorana  Guglielman, Dalla scuola per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo femminile della riforma G. e i suoi precedenti storici, in Da un secolo all'altro. Contributi per una "storia dell'insegnamento della storia (Guspini), Roma, Anicia, Una parte del lavoro è stata in precedenza pubblicata, con alcune varianti, sulla rivista Scuola e Città con il titolo Il liceo femminile Manacorda D'Amico, Romagnoli, Donne, la Resistenza taciuta. L'esclusione delle donne nella società fascista  G., La donna nella coscienza moderna, in La donna e il fanciullo. Due conferenze, Firenze, Sansoni, De Grazia, Le donne nel regime fascista,  Ricuperati, La scuola italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio Provinciale Pubblica Lettura, Grazia, Le donne nel regime G., La riforma della scuola in Italia, Milano citata in: Manacorda Le omissioni, qui tra parentesi tonde, sono nel testo di Manacorda. Noce, Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino,  Giovanni Bedeschi, Il ritorno del maestro, sta in Il Sole 24 ore Domenica, Sasso, Le due Italie di G., Bologna, il Mulino, Beckstein, G. und die 'Faschistisierung' des Aktualismus. Zur Deformation einer idealistischen Philosophie, Acta Universitatis Reginaehradecensis, Humanistica, Filosofia: A Firenze Convegno STUDI GENTILIANI Fondazione Gentile Dipartimento di Filosofia Roma Liberiamo la filosofia di G. dalla faziosità Severino: Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto Quotidiano  È G. il profeta del la civiltà tecnica.  «I nemici di G.», puntata de Il tempo e la storia, documentario Rai  Severino, dalla quarta di copertina de L'attualismo, Milano, Giunti,  Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, "La partigiana Fallaci fa a pezzi l'antifascismo", pubblicato da Il Giornale.  Monografie principali Carlini, Studi gentiliani,  G., la vita e il pensiero a cura della Fondazione G. per gli Studi filosofici, Firenze, Sansoni, Aldo Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, Sergio Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, Bompiani, Canfora, La sentenza. Marchesi e G., Palermo, Sellerio, Noce, G.. Per una interpretazione transpolitica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, Cavallera, Immagine e costruzione del reale nel pensiero di G., Roma, Fondazione Spirito, Sasso, Filosofia e idealismo. G. , Napoli, Bibliopolis, Hervé A. Cavallera, Riflessione e azione formativa: l'attualismo di G., Roma, Fondazione Spirito, Brianese, Invito al pensiero di G., Milano, Mursia, Sasso, Le due Italie di G., Bologna, il Mulino, Sasso, La potenza e l'atto. Due saggi su G., Firenze, La Nuova Italia, Hervé a. Cavallera, G.. L’essere e il divenire, SEAM, Roma, Paolo Mieli, Una rilettura liberale di Giovanni Gentile, da "Le storie, la storia", Milano, Rizzoli,  Daniela Coli, Giovanni Gentile, il Mulino, Sergio Romano, Giovanni Gentile, un filosofo al potere negli anni del regime, Milano, Rizzoli, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, Firenze, Le Lettere, Turi, G.. Una biografia, Torino, POMBA, Cavallera, Ethos, Eros e Tanathos in G., Pensa Multimedia, Lecce, Hervé A. Cavallera, L’IMMAGINE DEL FASCISMO in G., Pensa MultiMedia, Lecce, Marcello Mustè, La filosofia dell'idealismo italiano, Roma, Carocci, Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, il Mulino, Spanio, G., Roma, Carocci,. Paolo Bettineschi, Critica della prassi assoluta. Analisi dell'idealismo gentiliano, Napoli, Orthotes,. Paolo Simoncelli, Non credo neanch'io alla razza. G. e i colleghi ebrei, Firenze, Le Lettere,. Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di G., Milano, Adelphi,  A. James Gregor, G.: IL FILOSOFO DEL FASCISMO, Pensa, Lecce, Pescosolido, Ancora sulla morte di G.. A proposito di un volume, in Nuova Rivista Storica, Vigna, Studi gentiliani,  Orthotes, Napoli-Salerno. Valentina Gaspardo, G. e la sfida liberale, AM Edizioni, Vigonza (PD). 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Nella strada la gente ignara soffre, combatte, muore; alla .lìnestra il filosofo (che come tale deve essere puro pensiero) imperturbato, spiega, si rende conto e si frega le mani. L’ideale di LUCREZIO, che è alla base della eterna leggenda del filosofo che si libera delle passioni e rinunzia all'azione per chiudersi nel pensiero: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari qucmquam'st iucunda voluptas sed quibus ipse malis careas quia cernere suave'st: suavc ctiam belli certamiua magna tueri per campos instrncta tua sine parte perieli: sed nil dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapienlum tempia serena, despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantis quaerere vita.e, certarc ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes rerumqne potiri. O miseras hominum mentes, o pectora caeca. L'etica come legge. Disciplina. Positivismo ed empirismo. Legge. Prammatismo. Prassi e teoria. Oggetto del volere. Volontà- autoctisi. Praticità del conoscere. Unità cli teorico e pratico. L·atto. L'individuo. Senso realistico e senso idealistico della individualità. Individuo e società. Comunità immanente ali' individuo come sua legge. La comunità ideale e la gloria.  Vox populi. La concretezza dell'individuo. La conquista dei valori. li processo d<>IJa individualità. La parti­colarità dell'individuo nello spazio e nel tempo. Il carattere.Velleità, volere, carattere. Il carattere attraverso la condotta empirica. Critica del concetto della molteplicità degli atti o l'unità del volere. Presente ed estemporaneo nel carattere. Trascendentalità del carattere.Il coraggio civile. - i> La socialità origmaria.Società trascendentale o società in interiore homine. Alte" e socius. Dalla cosa al socio. Il dialogo intemo, o trascendentale. Il momento dell'alterità. La dialettica pratica. La crisi dell'Universo. sare più al clovere che ai doveri  Il bene e il male. La categoria etica e l'esperienza. Dialettica dell'Io.  li nulla. -Unicità della categoria logica. La legge dell'uomo: Pett. sa/ Intendere e amare. Intendere pratico. La categoria etica. Il senso morale e la sua inattualità. Dovere e doveri. Errore di metodo nell'etica. Necessità cli pen­ --Lo Stato. Concetto dello Stato. Nazione e Stato. Diritto. Governo e governati. Autorità e libertà. Il liberalismo. Etica e politica. Stato etico. Moralismo, Stato ed econoraia . Economicità dell'uomo e quincù dello Stato. Umanità dell'operare economico. Operare utilitario o utile? Umano e subumano. Il corpo e l'anima. Naturalità dell'utile. Le scienze della logica dell'astratto. Lo schema del naturalismo nella logica dell'astratto. La forma mate­ matica dell'economia. - ro. [L'utilitarismo. -L'edonismo. Moralità ed eudemonia.Natura e Spirito. Economia e politica. Stato e religione. Rapporto essenziale tra i due termiai. Laicità. Rel-igio 1nstntme111u,n regni. Immanenza della religione nello Stato. Stato e scienza. Scienza e filosofia; e rapporto di questa con lo Stato. Necessità cli questo rapporlo. Cultura. Scienze naturali. L'obbligo di critica della filosofia. Immanenza della filosofia nella politica dello Stato. Lo Stato e gli Stati. Libertà e infinità dello Stato.  P!ui:alità degli Stati, unità dello Stato. Critica del punto di vista intellettualistico. Concreto punto di vista pratico.  Il riconoscimento degli altri Stati e il Diritto internazionale, La guerra. La pace e la collaborazione umana. -fil Impero e ordine nuovo. LaStoria. La Storia come storia dello Stato. Storia dell'uomo. Statolatria. Autocritica dello Stato. Rivoluzione. L'Unico. Umansimo del lavoro. Famiglia. Categorie di lavoratori e rappresentanza politica. La Politica. Definizione della politica. Etica e politica. Im­ possioilità cli un'etica apolitica. Il privato e il pubblico. La teoria dei limiti dello stato. Stato autoritario e demo­crazia. L'anarchismo e il Jiberalis1:no. Bellum omnium contra omnes. Guerra e pace.Ordine. Senti­ mento politico. Genio politico. La politica del fanciullo. La politica in ogni forma di attività umana. Politica dell'arte. Politica della scienza. Politica della lede. Chiesa e proselitismo. La dottrina della tolleranza. -La politica diritto e dovere. La Società trascendentale, la morte e l' im­ mortalità. 11 motivo della fede nell’immortalità. Immortalità e religione. L'equivoco. Illusioni. Fuga tn01-t1s. - 6. La difficoltà del problema e la soluzione. La morte. L'immanenza dell'azione. NUOVI INDIZI DI HEGELLOSIGKEIT ITALIANA Bollami dell' Università di Leida in un suo interessante opuscolo, qualche anno fa mettev a in, mostra una  lunga fdza di evidenti spropositi commessi da filosofi contemporanei di ogni risma nel parlare di Hegel. E dopo  avere rilevato con 1’Herbart, con l’Alexander, con Barth. con Taggart, che Hegel non concepì mai la follìa 4 Lde-  durre dal pensiero auro ciò che non è puro pensier o (realtà  naturale e realtà storica), ma volle solo sistemare logicamente, — comunque poi si giudichi questa sistemazion e e  la sua possibilità. — la cognizione necessariamente empirica della natura e della storia, soggiunge. Intanto  anche Paulsen in vólliger Hcgellosigkeit afferma (nel  suo Kant) che Hegel deduce a priori la stessa  natura ».Di questa Hegellosigkeit, che non saprei davvero come  tradurre in italiano, di questo stato d' hegeliana innocenza,  cosi caro tuttavia agli studiosi di filosofia italiani, fu dato  recentemente dal Croce 2 qualche cenno' significativo dove  si mostrò con quanta competenza sia stato spesso giudicato in Italia 1 Hegel da quelli che volevano passare per 1 Alte I ernunft unii netto I’erstami, Leiden. Critica. Saggi critici. suoi avversari. Una prova recentissima ne ha avuta però  lo scrivente per aver curata una nuova ristampa degli Lh-  menti di filosofia 1 di Fiorentino secondo la primitiva edizione, dall’autore più tardi parzialmente  rifatta e radicalmente mutata nell’ indirizzo dottrinale. Alcuni (tra i quali uomini dotti nella storia della filosofia)  han rimproverato il nuovo editore di aver voluto dare un  Fiorentino hegeliano, laddove il Fiorentino dagli studi  degli ultimi anni della sua vita era stato costretto ad abbandonare le dottrine di Hegel per accostarsi al neo-kantismo. E un insegnante di liceo, a chi proponeva il saggio  per testo scolastico, oppone senz'altro ch’egli non poteva adottare un libro prettamente hegeliano!. Molto probabilmente l’unico fondamento di quest’asserzione, che io denuncio soltanto per richiamare ancora  una volta l’attenzione sulla comune Hegellosigkeit, è in  ciò, che questo libro è stato ristampato per cura mia, e  da me consigliato ai colleghi dei nostri licei. Ma, tralasciando i motivi che mi hanno indotto ad additare il manuale di Fiorentino, nella sua forma originaria, come l’unico, fra quanti ne abbiamo in Italia, degna , ancoraci  es ser m esso nelle mani dei giov ani e tolto a base d’un  p j nmp~ìnsegnamento filosofico (motivi che credo di avere  sufficientemente accennati nella mia prefazione alla detta  ristampa), qui voglio solo annunziare, col debito  permesso dei colleglli accusatori, che il libro di Fiorentino nella prima edizione non è punto hegeliano;  e che la differenza tra la prima e la seconda edizione non è  divario tra hegelismo e kantismo, ma tra kantismo ed empirismo spenceriano. Poiché ne avevo l’occasione, a me parve opportuno togliere di mano ai giovani, che cominciano a riflettere su  cose filosofiche, un libro,  raccomandato al nome di  Fiorentino, per tanti titoli benemerito della cultura filosofica italiana, nel quale s’insegnava a riflettere su verità di questo genere. Kant intende per a  priori soltanto ciò che non‘è derivato dalla sperienza, ma  che invece è condizione indispensabile, perchè la sperienza    1 Torino, Paravia, Psicologia e Logica  sia possibile. Egli non investiga, se questo a priori abbia  potuto originarsi da una associazione di esperienze anteriori accumulate, trasmessa poi per eredità; nè poteva ai  suoi tempi, e prima del Darwin, porre il problema in questi  nuovi termini. L ’q trio ri kantiano è una funzione dell o  spinto , non già un dato : e questo ritenghiamo anche noi :  ma ciò non toglie, che pure di questa funzione si possa  cercare di spiegare la genesi», un libro, in cui si dichiara che l’d priori kantiano è una semplice fermata al concetto dell’ attività preformata a  compiere certe funzioni, senza di cui la  sperienza non si farebbe; e che « la filosofia  moderna.... domanda: come si è preformata ? E cerca di  trovar la risposta in due fattori: l’associazionè e l’eredità; la prima che accumula, la  seconda che trasmette. Per loro mezzo, l’a priori  dell’individuo sarebbe ciò ch’è posteriori per la specie.   E altrove : Se il fine etico, che è la vita comune, è  stato il risultato di una lunga lotta per l’esistenza, è pur  sempre vero che cotesto primo acquisto viene  oggi trasmesso come eredità, che gl’individui trovano, e non debbono più riacquistare). Proposizioni che si equivalgono nei due campi  della conoscenza e della pratica, e di cui lo stesso Fiorentino. ci dice la fonte, dove avverte che nella  filosofia di Spencer ogni a priori è sbandito, e tutto è  spiegato con l’adattamento, o con la trasmissione ereditaria ». E tutta la seconda edizione è ispirata a questo principio della negazione di ogni assoluto a priori: onde si  costruisce nèi primi capitoli una teoria psicologica della  conoscenza che non occorre qui valutare. Quello che non  ha bisogno certamente d’ulteriore schiarimento, è che tale  negazione dell'a priori e tale confusione del problema psicologico con lo gnoseologico, non può a niun patto accettarsi come integrazione del kantismo. C’era un Fiorentino, che pur poteva presentarsi agl’italiani, e che io ho rimesso in luce; un Fiorentino che non  s’era lasciato sfuggire il vero punto di questa questione  fondamentale dell'a priori, che è pòi il problema di vita o di morte per Io spirito, e quindi della scienza e della  moralità Nella prima edizione lo stesso Fiorentino aveva  detto Vuoisi avvertire, che l’o priori non si deve intendere come qualche cosa di preesistente, di preformato.... ma  come una funzione essenziale dello spirito. Aveva discusso, opponendole l’una all altra, le dottrine di Kant e di Spencer intorno all’apriorità o aposteriorità della coscienza, e aveva dimostrato che non se ne può  dare nessuna derivazione empirica perchè « la coscienza è un  rapporto tale, di cui nel mondo esterno non si trova il corrispondente; ed è un rapporto semplice, che non si può dedurre dalla risultante delle nostre rappresentazioni. L’Io, la  coscienza è originaria. 11 fondamento dell'esperienza  non può essere attinto mediante l’esperienza. E questo fondamento è nella coscienza e nelle sue categorie. Se tutto derivasse davvero da dati sperimentali, nè l’idea  di sostanza, nè quella di causa, quali noi le concepiamo,  sarebbero ammissibili. Questo mi pare puro e schietto kantismo; e se. il concetto d’una possibile integrazione di Kant per via delle  ricerche psicogenetiche è uno sproposito, che oggi non ha  più bisogno d'essere dimostrato tale, mi pare anche evidente che ricondurre il manuale di Fiorentino a’ suoi  principii fosse dovere imprescindibile d’ ogni nuovo editore, hegeliano o non hegeliano. Perchè, dato e. non concesso che empiristi si possa essere per proprio conto,  certo per nessuno è più sostenibile una svista di questo  genere per cui, appunto a proposito dell interpretazione  di Kant, una questione gnoseologica si scambia con una questione psicogenetica. Hegel, dunque, non c’è entrato proprio per nulla, be  ci fosse stata di Fiorentino un’edizione hegeliana anteriore alla kantiana, chi sa!, avrei preferito il Fiorentino  hegeliano al kantiano. Ma gabellare per hegeliano quello  che ho dovuto e potuto scegliere, francamente, mi pare  indizio di Hegellosigkeit ! Pur troppo, anche nella prima  redazione del suo manuale Fiorentino rende omaggio  al fantasma della materia opposta all’attività formale dello  spirito; e nell’etica, invece di correggere il timido formalismo kantiano col formalismo assoluto, crede di compierlo  con l’eudemonismo aristotelico. Non importa: sempre meglio, infinitamente meglio Kant, anche se non perfezionato, che Spencer! Si sente, per esser sinceri, negl’Elementi di Fiorentino un’eco lontana dei Principii di filosofia di Spaventa. Ma non più che un'eco, nel paragrafo sull’auto-coscienza. Ma, se Hegel s'avesse a rannicchiare  in quell'autoctisi della coscienza accordata con tutto il formalismo astratto accettato e difeso dal Fiorentino,  io ritengo che potrebbero andare a braccetto con lui tutti  i kantiani più scrupolosi del mondo. Genovesi comincia a pubblicare in  Napoli i suoi Elemento, metaphysicae. Vico ha due profonde intuizioni fondamentali: una intorno alla potenza costruttiva dello  spirito, per cui anticipò il principio di soggettivismo  kantiano; P altra intorno al concetto dell’assoluto come  sviluppo nella natura e nel pensiero, per cui anticipò  il principio della nuova metafisica dimostrata dalla Logica di Hegel. Ne’ 6tioi Elementi di metafisica Genovesi invece si mostra seguace di un incoerente sincretismo, in cui la monadologia leibniziana s’accoppia con l’empirismo di Locke. Così la tradizione del grande  pensiero di Vico è spenta sul nascere, e finita con  1’uomo che nella solitaria meditazione del diritto, anzi  di tutto lo spirito come vive nella storia, aveva attinto  una forza speculativa che lo pose al di sopra e fuori  del tempo suo, episodio solenne nella storia del pensiero italiano. Gl’ interpetri del pensiero di Vico non  furono nè i suoi coetanei, nè i suoi immediati successori  nella filosofia italiana in genere e napoletana in ispecie. La vera interpetrazione cominciò in Germania con Jacobi, 1 dopo Kant, e fu compiuta in Italia in quel fervore di  pensiero nuovo, che venne suscitato dall’ hegelismo, da  Spaventa. Tra Vico e Spaventa  c’è un’ interruzione nello sviluppo dell’idealismo iniziato dalle opere  di Vico; nella quale il pensiero napoletano si appropria ed  elabora per conto suo la moderna filosofia europea. Questo  movimento può essere  designato dai nomi dei due pensatori che aprono e chiudono tale periodo, Da Genovesi a Galluppi. E così  appunto s’intitola la monografia, nella quale ho cercatq  d’illustrare tutti gli studi speculativi più notevoli di  cotesto periodo. Può recar meraviglia, che la ricerca sia così limitata dentro i brevi confini di spazio accennati dai nomi stessi  di Genovesi e di Galluppi, e corrispondenti ai confini  del reame di Napoli, ila chi ponga mente alle condizioni  d Italia per tutto il tempo del dominio borbonico, alle  piofonde differenze civili e politiche e letterarie, in una  paiola, storiche, tra la parte meridionale e il resto della  penisola, troverà ovvia e storicamente esatta la linea  da me tracciata intorno ai pensatori che ho studiati e  Vedi lo scritto Voti den gòtlUchen Lìingen unii ihrer Offenbarung, in Werke, Leipzig. Sul kantismo vicinano cfr.  specialmente Tocco, Descartes jugé par Vico in Reme de métaphysigue et de morale, e gli scritti da me  citati nel Discorso premesso agli Scritti filosofici di B. Si’avknta Na-  poli, Vedi tfli Scritti Studi di letteratura , storia , filosofia , pubbi. da B. Crock, voi. I  (Napoli, Edizione della Critica). considerati come formanti una speciale serie storica  a sé.  Pel carattere generale della loro filosofia questi  pensatori costituiscono una continuata corrente di empirismo, a cominciare dal Genovesi stesso, in cui ben  presto il principio critico dominante nell’ empirismo  lockiano corrode ogni concetto metafisico, fino ad COLECCHI, filosofo abruzzese pochissimo noto  benché i suoi scritti consacrati all’interpretazione di  Kant, quelli specialmente relativi alla filosofia pratica,  possano ancora esser letti con profitto  il quale, pur  combattendo la filosofia dell’esperienza di Galluppi  dal punto ili vista del kantismo, insiste tuttavia su  talune correzioni eh’ ei vorrebbe apportare alla Critica  Mia ragion pura in un senso decisamente empirico-oggettivo. Ma tutti quosti empiristi si potrebbero dividere in  due generazioni: 1 una di ideologi e l’altra di criiicisti;  e tra mezzo a queste un gruppo di seguaci della filosofia  scozzese e di eclettici. Tra gl’ideologi scrittori come DELFICO, BORRELLI e BOZZELLI meritano  certamente di esser posti accanto agl’ ideologi contemporanei francesi, ai Cabanis, ai Destutt de Tracy, coi  quali essi formano quasi una sola famiglia, rispecchiandone spesso il pensiero pur senza ripeterlo. Anzi Borrelh e Bozzelli stanno, 1’uno per la sua genealogia del pensiero (com’ei chiama la sua filosofia dello spirito) e  per la sua critica di Kant, e 1’altro pel suo tentativo di  morale intellettualistico-utilitaria, al di sopra dei francesi;  di 8 ‘ ba,la a " a dala di P“*»bUM*lone delle opere   di quest! filosofi e al tempo (leir influenza da essi esercitata; giacché  per a nascita due degli ideologi furono più giovani dei criiicisti. il cui valore nondimeno fu giustamente rivendicato nella  storia della filosofia dall’ ottima monografia del profes¬  sore F. Picavet su Les idéologues.  Una pari rivendicazione in prò dei confratelli italiani  vuol essere in parte il mio lavoro, mediante una larga  notizia e uno schiarimento delle loro dottrine. Onde ci  son rimasti documenti notevolissimi in libri ed opuscoli  estremamente rari, nelle riviste del tempo e in manoscritti ancora inediti.  In mezzo alle due generazioni alcuni pensatori levano la voce contro le tendenze materialistiche, palesi   o nascoste, proprie del pensiero speculativo di questi  ideologi, traendo autorità e argomenti dalla filosofia del  senso comune del Reid o dall’ eclettico spiritualismo di  Cousin e della sua scuola. Non hanno nessuna originalità di dottrine : ma con le loro esposizioni e coi loro  commenti di molti libri francesi, eco, per quanto fioea,  di celebri filosofie europee, valgono a suscitare o promuovere un moto di studi e di partecipazione al lavoro  filosofico straniero, onde a poco a poco si ringagliardisce  la fibra del pensiero napoletano, e si prepara una scuola  di veramente alto e libero filosofare: da cui uscirà l’estetica di Sanctis e la metafisica e la  storia della filosofia di BSpaventa. In questa  parte la mia monografia studia scrittori filosofi mediocri, testimoni di cotesta preparazione al risveglio filosofico posteriore. Nella seconda generazione campeggiano due figure  principali: Galluppi e  Colecchi: due kantiani, di  cui si può dire che la vita speculativa si consumi tutta  nella meditazione del criticismo. Ed entrambi riescono  per due vie opposte al medesimo risultato, che è di  accettarlo sostanzialmente e di farne penetrare profondamente lo spirito nella filosofia del loro paese. Galluppi   À combatte sempre, o quasi sempre, un Kant immaginario  con le armi del Kant reale ; e Colecchi combatte con  le armi stesse un immaginario Galluppi, o almeno un  Galluppi che non è il vero, poiché non vede di lui che  la dichiarata opposizione al kantismo, e non scorge mai  il valore intrinseco delle dottrine da lui professate. Dalla  curiosa situazione di questi due pensatori, che genera  altre false posizioni nella filosofia italiana successiva,  nascono, com’è agevole pensare, due conseguenze: che la scuola dei galluppiani continuerà a combattere  Kant e tutta la filosofia tedesca posteriore, sempre meglio  conosciuta in grazia dell’influsso francese già accennato;  che la scuola di Colecchi e dei tedescheggianti continua per un pezzo a disconoscere il vero valore del  pensiero del Galluppi e di quella filosofia italiana, che  da lui prende le mosse : ossia della rosminiana e giobertiana.  Se da queste ricerche si sottrae la parte che concerne Genovesi e Galluppi, si può dire che esse  scoprano una regione presso che sconosciuta nel campo  della filosofia moderna. E poiché anche del Genovesi e  del Galluppi questo studio analitico della serie in cui  essi rientrano, pono sotto una luce in parte nuova e in  parte più chiara il significato e il valore, può pure affermarsi, che l’insieme di queste ricerche colmi una  lacuna nella storia della filosofia italiana, anzi della  europea. Vico, infatti, e l’interpetrazione di Vico, i due  termini al cui intervallo coleste ricerche si riferiscono,  non sono due capitoli della storia della filosofia italiana,  ma due capitoli della storia della filosofia europea: ed  è difetto gravissimo quello che può notarsi in proposito  in tutte le recenti storie straniere della filosofia moderna. Genovesi,  Delfico, Borrelli, Bozzelli,  Galluppi e Colecchi sono nomi ai quali, una volta conosciuti gli scritti a cui sono legati, devesi pur  rovare un posto, e non degl’ infimi, nel quadro degli  u imi tentativi dell’empirismo naturalistico e materialistico e delle feconde discussioni  suscitate dalle Critiche di Kant in ogni paese civile. Il trionfo dell’Idea in Italia: Tari e Zio. Spaventa è stato nominato professore di filosofìa a Napoli;  e la sua nomina — scrive a lui stesso Meis, da  Napoli è stata accolta in questa città con una  commovente impazienza dal pubblico. Ma  Spaventa chiede ed ottenne di tornare e restare qualche  tempo a BOLOGNA, dove è passato, da Modena, a insegnare Storia della filosofìa, per farvi almeno il primo corso semestrale e non mancare al suo dovere  verso BOLOGNA. A Napoli, dopo una rapida  corsa, non anda se non negli ultimi  mesi dell’anno appresso. È a Torino, perchè  eletto deputato d’Atessa (ma la sua elezione è annullata per eccedenza del numero legale di  deputati professori,  quando gli pervenne la seguente [Già pubblicato nella Critica; ma qui ristampato con  molte aggiunte. Vedi per questi particolari il mio Spaventa, Firenze, Vailecchi] lettera di Zio, che è un curioso documento  delle disposizioni degli animi verso 1’hegelismo nella  gioventù colta di Napoli, da cui lo Spaventa era atteso: Napoli, Amico carissimo,   Mi prendo licenza di togliervi con questa mia una piccola  parte del tempo che cosi lodevolmente sacrate alla scienza.   E per due ragioni. Per procurarmi il bene di aver vostre  novello, e per dirvi poi alcunché sul trionfo dell’Idea, alla  qualo abbiamo data la nostra fede.   Sono pervenute qui in Napoli parecchie copie del nuovo  libro di Vera (V Hégélianisme et la Fhilosophie). T. lavoro  scritto con molta spiritosità, e che non solo porrà a dovere  1’intelletto superficialissimo degli ecclettici francesi, ma farà  pure il suo buon effetto in mezzo al dilettantismo filosofico  de’ nostri dominatici. Si comincia a sentire come il Pensiero  sia P infinita misura e forza, che, battuto ogni positivismo  storico e morale, eleverà ad armonia vivente Essere e Spirito,  Natura ed Umanità. Son persuaso p. es. che Pesame, che tanto ride dell’Jissere-per-si  e della Fila ridotta  a Pensiero da Meis, cesserà di sparlarne così frequeutemeute, dopo che avrà contemplato il gaio spettacolo che ha  dato di sé Jauet. Come Hegel disse che ai tempi della Rivoluzione francese  una nuova vita, un nuovo sole sorgevano per risplendere in  mezzo agl’uomini, noi possiamo dire che oggi il suo proprio  principio filosofico, l’Assoluto Spirito, è la forza che dove consapevolmente invadere ogni cosa, e chiarificare le creature  tutte quante di un raggio della idealità infinita. Affrettatevi,  amico, a partecipare alla gran vittoria. Felice voi, che siete  sì bene apparecchiato a questa lotta, che chiude nel proprio  grembo 1’ adempimento della libertà assoluta dell’ Uomo, e  quel regno di giustizia e di amore, a cui tutte cose corrono  come al bacio dell’ Universo, giusta il bel dotto di Schiller:  Diesen Kur der ganzen IVelt !  Il punto però che nel libro del Vera avrei desiderato più  estesamente sviluppato, è quello della pluralità dei mondi. I,a  dottrina di Hegel su questa materia non può essere difesa  che movendo dal principio dell’ Unità della Coscienza di si dello Spirito, unità che, nel presupposto della pluralità de’  mondi, avrebbe fuori di sè i circoli della vita siderea oltretellurici ; e cesserebbe d’ essere in conseguenza la pieua ed  una Coscienza di sè. A questa è necessario che tutto 1’essere  sia suo sapere. La dottrina poi dello Spirito assoluto, ne andrebbe, in quel  presupposto, interamente falsata. Noi non conosceremmo pili  l’Assoluto, come vuole Hegel, ma l’Assoluto umano. E, non  potendo darsi ripetizioni nello spirito, si dovrebbero porre,  post’ i mondi come innumerabili, intellezioni intinite, infinitamente diverse, dell’istesso Assoluto. E dove sarebbe l’idealità, 1’unificamento di esse? Se si risponde: nell’Idea medesima  dell’Assoluto , altri potrebbe osservare che quest’ idea appunto è quella che deve essere concreta nell’Umanità. L’Unità della Rivelazione universale dello Spirito sarebbe sempre  un postulato. Krause immagina una sintesi superiore do’  pianeti e delle stelle; ma la comunione dell’Umanità terrestre  colla solare è sempre data da lui come un’ intuizione, come  un desiderio!   Anche Tari, riconosce nella sua Lettera la necessità  della pluralità de’ mondi. Ma in questa ipotesi vedo sempre  che 1’ indeterminato piglia il Inogo del sistematico, e che il  fantastico si sostituisce alla scienza. Diventa oramai necessario di approfondire maggiormeute 1’ infinito matematico nel-  1’ influito filosofico, e sottomettere cosi 1’ astronomia al concetto della finalità assoluta, lo spirito. La lettera però del Tari appunto perchè, com’ ei dice,  tiene il germe del suo proprio sistema, avrebbe dovuto essere  più lunga e scritta più chiaramente. Vi prego intanto mandarmi una copia della vostra prolu¬  sione alla storia della filosofia italiana, perché n’ ebbi ili dono  nell’anno scorso una copia dal vostro fratello Silvio; ma  quando scesi in Basilicata per 1’insurrezione, la sperdei a  Potenza, e non ho potuto procurarmene un’ altra. Se poi con  questa mia preghiera dovessi riuscire indiscreto, allora usatemi la cortesia dirmi presso chi è vendibile a Torino, perchè  sarà mia cura farla richiedere da librai napoletani.   Quando portate a stampa il vostro libro su Gioberti f Esso  dovrà levar grido straordinario, secondo che mi accennano i  comuni amici, e per quanto ancor io presagisco dal vostro  ingegno. Date presto ; e nel frattempo compiacetevi di tenermi di tanto in tanto consapevole de’ vostri stndii, e segnatemi quelle opere che possono concorrere all’ aumento vero della  scienza. I miei ossequi a Tari ed all’ egregio De Sanctis. Se posso  attestarvi in alcunché la uiia devozione, comandatemi liberamente.   Vostro amico  Flokiano Dei. Zio.   AH’ Egregio Spaventa   Deputato al Parlamento Italiano in  Torino.   II saggio, da cui Zio prende le mosse, è 1 ’ Hé-  gélianisme et la Philosophie (Paris, Detken), che Vera, allora professore di Storia della filosofia nell’Ac¬  cademia di Milano, aveva pubblicato poco innanzi per  ribattere le critiche mosse ali* hegelismo da Paul Janet  e da altri scolari del Cousin. Pessima, discepolo di Galluppi, dal Galluppi era passato al Gio¬  berti e dal Gioberti al Krause; e mormorava contro  Hegel e gli hegeliani 1 .   La lettera di Tari, a cui Zio accenna,  è un articolo, uscito appunto nel fascicolo della torinese Rivista contemporanea, col titolo:   De’ rapporti del Kantismo collo stato della filosofia in  Alemagna, Lettera filosofica. Il difetto di chiarezza la¬  mentato in questo scritto da Zio, e divenuto  poi sempre maggiore e sempre più caratteristico del-  P ingegno del Tari,  che ingegno ebbe e una certa  bizzarra genialità fa dire a Spaventa, in  una lettera a suo fratello Silvio. Ho letto molti mesi fa un articolo di Totonno... Un  1 Vedi il mio Spaventa; Spaventa, La fllos. ital. in relazione con la fllos. europea,  e una lettera dello stesso Pessina nella Critica  articolo filosofico, come puoi immaginarti, sopra un  punto di estetica. Mi pare che abbia studiato finora per  imparare a non farsi capire. I tedeschi non sono facili  a comprendersi, e la colpa è un po’ anche loro. Ma i  più difficili tedeschi sono facilissimi di fronte a Totonno;  il quale mi pare che abbia preso da costoro più i difetti che i pregi. Ti dico, in confidenza, che sono rimasto trasecolato; e che, dopo tanti anni e con tanto  ozio, mi aspettavo qualcosa di meglio da lui. Dopo tanti anni! S’erano conosciuti a Cassino, quando  Bertrando insegnava a Montecassino; e il secondo giorno, seduti fraternamente sulla  sponda d’ un letto, Bertrando apriva così la conversazione. Dunque, che ne pensate delle categorie kantiane? Da lui Spaventa apprende i rudimenti  del tedesco; e, col suo aiuto, acquistato familiarità con  la letteratura filosofica tedesca. Nella quale Tari, chiuso nella solitudine di un villaggio  (Terelle, in provincia di Caserta), s’è sprofondato,  accumulando una meravigliosa erudizione. Questa però  non valse in verità a rischiarare il suo pensiero. Il  quale dall’assoluto idealismo di Hegel finì nell’agnosticismo del suo cosidetto Innominabile ; in cui credette  si 'lovesse fondere in una unità superiore lo spinozismo  e 1’hegelismo; in quanto il divenire della logica presuppone un principio, che, essendo fuori del divenire,  è fuori della logica; e non si può chiamare Volontà, nè  Monade, nè Inconscio, nè Noumeno, nè altro; poiché  ogni nome importerebbe conoscenza, quindi un movimento di pensiero, quindi il divenire. È un’ essenza p 'ri SPAVBNTA < leU < scruti e (toc., ed. Croce, Cotuono, Le lettere di A. Tari in diresa dell’ « Innominabile», Iranl, Vecchi, non battezzata e non battezzatile, l’Innominabile. Anch’io, Bpecie di Lohengrin, difendo il santo Graal. Sapete qual’ è? La dotta ignoranza, che Hegel chiama l’ignoranza dotta. Non è questo il luogo di chiarire questo innominabi-  liBmo o limitiamo,  com’ egli anche lo chiama,  di Tari. Giova piuttosto ricordare un aneddoto di Spaventa. Il quale, richiesto di consiglio da uno scolaro  del Tari per una dissertazione di laurea circa il diritto  di punire, gli scriveva: Ti volevo suggerire di chiedere consiglio al nostro caro Tari. Chi sa, l’Innominabile! Ma come cavare da lui il diritto di punire? Mi ricordo di aver detto a Tari, quando  fu nominato professore ordinario, che la sua  nomina era in contradizione coll’ esistenza dell’Innominabile, principio, essenza, natura, causa di ogni cosa  e avvenimento. Figurati il diritto di punire! Tari, che di questa lettera doveva aver notizia dallo  scolaro, rispondeva a questo: Parliamo ora un pò del quesito, con cui mi tenta 1’ amicissimo Spaventa. Eccolo: Come concilieremo il diritto di punire con la dottrina dell’ Innominabile? Se fossi profeta, o figlio di profeta, di  rimbecco direi : Vade retro, Satana. Noli tentare Tariiim  admiratorem tuum! Ma, non essendo Gesù, nè gesuita,  mi contento di rispondere con un tibi quoque. Ossia: Anche a te, o pensatore liberissimo, fa intoppo questa  pietra di giuridico scandalo? Anche a te metterebbe  conto salvar capra e cavolo ; cioè la capra della Feno¬  menalità di ogni fatto umano, ed il cavolo della pretesa V. le mie Orig. della / Uos. contemp. in Italia COTI’GNO, Leu. cit M   Giustizia Assoluta? Eppure ricordo che, disputando  con me di questo brocardico, uscisti in questa categorica  sentenza: — La pena non è che una valvola di sicu-  rezza che la società impiega a garentirsi di chi la insidia 1 . E di fatto, il voler costruire a priori un ma¬  nifesto modus rivendi essenziale, epperò cangevole etno-crono-topograficamente è marcia follia. La Idea Giustizia  Assoluta anzidetto, s’ha a lasciare nel natio concavo  della luna, insieme al cervello dei tanti Astolfì dell’innatismo. Chi ben pensa, riconosce la deplorevole povertà  di siffatte deduzioni... Diritti e doveri, Pene e ricompense non giacevano in seno a Giove, a mo’ delle uova  dell’aquila esopiana, ad aspettare che lo scarafaggio  umano le facesse rotolare nel basso mondo; ma si formarono, con un quasi stillicidio psicologico, a poco a  poco scavandosi un bucherello nel naturale egoismo.  E tutta la giustificazione delle pene, da quella del taglione e quella penitenziaria, che è ancora in Werden  si riduce a formare la necessità di salvarsi al bosco  dalle belve accoppandole, ed alla città dai birboni rendendoli incapaci di nuocere. Ora quali sono i birboni?  U1 e 11 busil tis; e qui interviene P Innominabile a  comporre la gran lite, illuminando i legislatori sul da  fare in sullo sdrucciolo del dispotismo, dove si trovano  sempre. Il codice penale, non che un bene in sè, è un  necessario male, presso a poco simigliante alla chirurgica  estirpazione di un arto, il quale, se curabile, anche a  dilungo, l’operatore rispetta religiosamente... Un innomi 'n^ 10 Spaventa avrà l )ure " sa[0 '(«està frase. Ma la valvola per  del delino, ! V ? Cbe neCessaria ' c °“>« necessaria era l'insidia   dello s r n e a,,a | S0Cie,A: d ’"' ,a necf8sUà Andata su"» natura  o spirito, ossia sul concetto concreto del bene. Il genuino pensiero  dello spaventa intorno all'assoluta giustificazione della pena é ne  suoi Principi di dica, ed. Gentile, p. 102 sgg. minabilista può solo affermare, in barba a tutti i dottrinari criminalisti del mondo, come qualmente il barbaro Kedivè egiziano funzionerà legalmente, da par suo,  fucilando e forse impalando 1’ eroe Arabi pascià, reo di  non aver saputo nascere dove e quando dovea. Ed in-  neggerà al magnanimo Umberto, il quale, facendo grazia all’abietto Passannante, confondeva molti tirannelli stranieri e mostravasi anche dappiù del Re Galantuomo  suo padre, cioè filantropo e progressista. In Oriente il  palo, in Occidente legislazioni che aboliscono il carnefice (v. ult. lett. di Hugo): chi ha ragione?  Secondo l’illustre prof. Vera ha ragione il palo!... 1  Insomma, le cose anzidette tumultuariamente, a modo  mio, rispondono su per giù al caro mio tentatore Asmodeo Spaventa. Avviatosi per la sua striida, Tari,  dunque, negava coraggiosamente jT diritto come diritto. Poeto-1’assoluto di là dal divenire, nel divenire, ch’egli  vedeva indirizzato a un Nirvana iperindividualistico, non  poteva trovare niente d’ assoluto. Per lui il magnifico  proemio dello Spaventa ai Prineipii di etica intorno al rapporto dell’assoluto col relativo, e quindi al  concetto dell’ assoluta relazione (per cui 1’ assoluta giustizia non solo comporta, ma richiede per la propria  realizzazione tutti i modi di esistema cangevoli etno-cronotopouraficamente), non era stato scritto. E come in quel  concetto è il segreto dell’ hegelismo, era naturale che  egli non riuscisse ad orientarsi e a vedere la nullità  del suo Innominabile in quanto tale, in quanto sostanza,  cioè di qua dallo spirito.   Il Tari fu insomma de’ tanti che girarono attorno a 1 A. Vbra pubblica un opuscolo La pena iti morte (risi, nel Sappi filosofici, Napoli, Morano, dove svolgeva le  ragioni del sistema hegeliano in sostegno della pena di morte. COTUONO, Hegel, ricevendone magari ispirazione e suggestioni feconde, senza scoprire il principio vero del suo pensiero.  Molti si ritrassero presto sconfortati dall’impresa; etra  questi Zio, che con tanto entusiasmo studia le opere e la letteratura hegeliana; e ansiosamente aspetta i saggi di Spaventa (la prolusione  letta a Modena sul Carattere e sviluppo della filosofia  italiana e la Filosofia di Gioberti, per  fede vaga che indi potesse venirgli la luce. Zio allora si prepara a un corso di lezioni,  sulla Enciclopedia di Hegel. Al quale infatti proluse  alcuni mesi dopo con una enfatica lettura, la quale,  come documento aneli’ essa de’tempi, merita d’essere  ricordata: Prolusione al corso di lezioni sulla Enciclopedia  delle scienze filosofiche di Hegel; letta in privato convegno: scritto pieno di  giovanile entusiasmo e di ardore filosofico. Oltre le opere  del Vera, fin allora pubblicate, l’Autore vi cita ed esalta  1 aurea operetta di Werder (Logile, als Commentar  u. Ergdnzung zu Hegels ÌViss. der Logik, 1 Abili, Berlino Idèi) restuta incompiuta con grave danno di coloro che s’ iniziano alla filosofia hegeliana;  i Esquisse de logique di Michelet (Paris); e 1 Risi, in Scritti filosofici, ed. Gentile. Pallavicino, a una figliola del quale lo Spaventa aveva privatamente Impartito qualche lezione, gii scriveva per questo opuscolo: Amico pregiatissimo,  l.a ringrazio della sua Prolusione  un magnifico lavoro  il quale  rnfiìf. -u- l Sn me . (le ?. l . ller ‘° di vp| ter presto pubblicata la grande  Opera eli Ella sta meditando. Ammiratore di Gioberti. posso  io non ammirare il suo degno interprete: Spaventa? lo l’ammiro  e i amo!  Pallavicino. Napoli, S. Marchese, IMI, di pp. 8-1 In 16». Reca quest'epigrafe:  « Essere, sapersi e volersi come la Personalità eterna dello Spirito,  ecco il line della lilosofla ». di questo le lezioni Ueber die Persònliehkeit Oottes u.  Unsterblichkeit der Seele, oder die ewige Persònliehkeit des  Geistes (Berlin); le quali quando sono pubblicate, tenevano aspetto di polemica negativa in rapporto a certi donimi dell’ intelletto; ma 1’avanzato  sviluppo della scienza ha tolto loro il senso irreligioso,  che gli avversarti accaniti dell’ hegelianismo volevano  a forza vedervi dentro. E debbono così considerarsi come  la teorica potente della nuova sintesi dall’ umanità: ciò che appare, nota Zio, dell’opera  maggiore di Michelet, Die Epvphanie der ewigen Persònlichkeit des Geistes. A  proposito del problema hegeliano del punto di partenza  fenomenologico e logico della filosofia, l’autore dichiara  di sperare che le difficoltà sarebbero state da lui sciolte  più chiaramente nelle note a una sua traduzione del  System der Wissenschaft, ein philosophisches Eincheiridion  (Koenigsberg, 1850) del Rosenkranz : che avrei di già  pubblicata senza la tirannide borbonica, o la guerra che  tutto il mondo ha fatto e fa presso noi al libero pensiero. Un altro suo lavoro concerneva la filosofia di  Krause, la quale, specialmente per mezzo di Ahrens  (il cui Corso di diritto naturale , è molto letto  dagli avvocati di Napoli, ed era stato anche tradotto  già due volte in italiano, da Francesco Trincherà e da  Vincenzo De Castro 1 ) poteva dirsi « in qualche modo  popolare nelle nostre province ». « Le sue Lezioni sul  sistema della scienza (Vorlesungen nb. System der Philos.,  1828)», dice il Del Zio, « e 1’ampio sviluppo enciclo- 1 Corso Ul Diruto naturale o della ftlos. del dir. traci, da Fr. Trincherà, Napoli.  e Capolago. Nuova trad. eseguita sulla  quarta ed. dal prof. V. De Castro, 2. voli., Napoli, Stab. Tip. dell'Ancora. Più tardi la sesta ed. (uscita in ted., Vienna, è trad.  in italiano da Margllieri, Napoli pedico eh’ egli tentò dare a tutto lo scibile rivelano in  classico modo il fermento incommensurabile dal quale  era travagliata 1’intera Allemagna alla vigilia dell’ apparizione d’ Hegel sul teatro della scienza. Ma in Krause  c’è il presentimento della scoperta, che fu fatta invece  da Hegel; e questo giudizio era il risultamento di una  conveniente disamina. A tanto speriamo di adempiere  più tardi, pubblicando un nostro lavoro, che ha per titolo: Studii sul rapporto del Sistema della scienza di  Krause a quello di Hegel . Appunto per quella certa  popolarità che il Krausismo aveva acquistata anche nel  Napoletano, Zio stima opportuno che fosse discussa la sua teorica generale da’ cultori della filosofia. Se non cominciamo a disputare pubblicamente sulle  nostre convinzioni speculative, il trionfo della scienza  e il progresso della nazione non saranno nè liberi nè  universali  L’opuscolo è dedicato ai napoletani con  parole di questo tono:  A voi dedico, o fratelli, questo  piccolo lavoro, il quale non è altro che il programma  dell andamento scientifico, a cui dovrebbe avviarsi, secondo le mie convinzioni, il nostro paese, per essere  in armoniu coll’ indirizzo generale della scienza in Europa. Se vi parrà vero, Voi, più che me, potrete condurlo ad atto, perchè 1’ amico vostro, comechè giovane,  è già percosso dai dolori dell’ animo e dalle sofferenze  lei corpo che 1’opera dissolutrice della tirannide seppe  in molti generare negli anni scorsi». Continuava annunziando che, accettato il suo programma, tre fiamme  divine sarebbero venute ad accendere 1’ anima dei napoletani : tre sedendovi d’un unico sole, il libero  Pensiero; le tre fiamme della Filosofia, della Rivoluzione,  dell’Amore. Colla prima darete fine alla superstizione del Papato, la più maligna fra quelle che ancora corrodono lo spirito moderno. Colla seconda scrollerete il dritto divino ed ogni altra specie d’irragionevole imperio. E coll’ ultimo tramuterete le rovine in creazione  eterna di bellezza e di verità ; costituirete I’Italia, e  getterete il fondamento alla fratellanza democratica di  tutta Europa. Svolto brevemente il concetto della Fenomenologia  dello spirilo, per mostrare come lo spirito sia necessariamente condotto dalla sua interna dialettica al punto  di vista del sapere assoluto, il Del Zio schizza con  pochi tratti l ’ideale della scieina, a cui egli invitava  con molto calore: Deliberando di seguirmi fraternamente nel mondo del sapere, renderete testimonianza  dell’ istinto divino che move lo spirito del nostro tempo,  e della vita novella d’Italia resa a sè stessa ed alla  sua naturale grandezza... Il nuovo metodo dell’insegnamento filosofi co è il metodo della morte e dell’ amore  assoluto, della morte alle cose finite e a se stesso, e  dell’ amore per 1’ assoluto, in cui lo spirito deve rinascere. Quindi combatteva le obbiezioni mosse all’ hegelismo dalla corta vista dell’intelletto 1 o del sentimentalismo ipocrita della santocchieria. Ai filosofi dell’intelletto, del pensare finito addebitava la loro incosciente  predilezione dello scetticismo e del nullismo: e dimostra che « non solo il sapere assoluto è possibile, ma  che esso è 1’unicamente possibile; poiché ninna realtà  finita, naturale o spirituale, può dirsi conosciuta fuori  del sistema, in cui essa va concepita. Ai mistici di  buona o di mala fede, cercava d’ additare il carattere  intrinsecamente religioso della filosofia hegeliana, nella  quale la verità della religione non è negata, ma trasfigurata e fatta valere per la ragione, assolutamente. In-    1 Intelletto (Verstand), nel senso di Hegel.  fine, combattendo anche lui il pregiudizio, allora saldissimo tra i giobertiani di Napoli, del primato italico-  e della filosofia nazionale, sosteneva, a simiglianza di Spaventa, che la grandezza del nostro spirito non è  tanto nel sapersi precursore di tutto l’incivilimento occidentale, quanto nel prevedere che dev’ esserne il  successore eterno. Si ammira Vico: ma egli travaglia  por tutta la vita per provare che uno spirito solo regge  il mondo delle nazioni, che una è la mente dell’Umanità, e che un piano ideale stringe in armonia assoluta  la totalità de’ fatti politici e le forme svariatissime del1’intera vita sociale. La storia della filosofia è davvero un’ opera unica, una sola attività produttrice. Le frutta abbondanti di quei primi pensieri filosofici,  che gl’ italiani destarono nella  coscienza umana sono appunto i grandi sistemi della filosofia moderna... Nutricandoci del supere e della vita  europea, noi vendicheremo lo spirito de’ padri nostri,  celebreremo la festa di commemorazione a quel Risorgimento, che il papato e l’Impero soffocarono nel sangue  di tutta la Penisola: sopra tutto a Bruno, la cui vita  randagia per 1’Europa, ma COMINCIATA IN ITALIA E IN ITALIA TRAGICAMENTE FINITA, sembra a Zio il simbolo divino del corso storico della filosofia moderna nel mondo. E col ricordo della vita del Bruno e  un invito a vendicarne la morte facendo tornare in  Italia la sua filosofia arricchita nel suo secolare viaggio,  termina questa prolusione. Cinque giorni dopo legge nell’ Università la prolusione al suo corso Spaventa, tornando a trattare il  tema: Della nazionalità nella filosofia. Fiorenti Waddingtoìi e Spaventa Affrettando col desiderio la pubblicazione dell’ impor¬  tante carteggio della marchesa M. Fiorenti Waddington  tuttavia posseduto dalla famiglia di Francesco Fio¬  rentino, gioverà spigolare tra le carte dello Spaventa,  alcune lettere e ricordi di questa egregia donna, che  non ci paiono inutili alla storia della fortuna di  Hegel in Italia. Quando la Florenzi entrò in rela¬  zione con lo Spaventa aveva passata la sessantina,  essendo nata: da Schelling è giunta fino a  Hegel: dall’ammirazione del Mamiani, per la conversazione frequente con Fiorentino, che da Bologna andava  spesso a Perugia ospite suo, era potuta passare a quella  del critico severo della prefazione, che il Mamiani aveva premessa alla sua traduzione del Bruno di  Schelling 1 . Prefazione desiderata da lei, che ne caròla  promessa con un certo imperio di belletta che. ancor possiede, come ROVERE scrive al suo fratello;* prefazione piaciuta già allo stesso  Schelling. 3 Ma ben presto la marchesa tedescheggiente  e libera pensatrice e il conte italianissimo e cantore dei  santi cattolici, s’ erano accorti di non potersi intendere. In una lettera Mamiani le rimprove- Vedi Spaventa, Saggi di critica. Napoli, Gliio. Intorno alla Florenzi v. le mie Origini della, fllos. contemp. in Italia  IMamiani, Leti, dall’ esilio a cura di E. Viterbo. Roma In una sua lettera a un suo amico, Maraiant scrive: «Quantunque lo vi discorra della tllosolla tedesca  moderna con gran franchezza di giudicio, lo Schelling non se ne tiene  punto mal soddisfatto, e scrivendo alla traduttrice, che è la march.  Florenzi, ha detto di me parole onorevolissime. Cfr.  il Bruno stesso, ed. I.e Monnier, Leti Cfr. la lett. al fratello rava di ragionare un po’ alla tedesca, e , non avendo alla  mano ragioni ferme ed evidenti, essersi rairolta della  nebbia del suo grande maestro, lo Schelling. L’ anno appresso le scriveva: « ìli congratulo molto con voi dello  studiare indefesso che fate e dello involgervi coraggiosa  tra le tenebre sacre della metafisica di Schelling. È quasi un addio dalla spiaggia a chi si avventurava  per il rischioso viaggio! Sul principio del 18GB, la Fiorenti pubblica  i suoi Filosofemi di Cosmologia e di Ontologia (Perugia, Bartelli) ; e Fiorentino, che dove scriverne una  recensione, nella Rivista Italiana (o Effemeridi della P.  di Torino), la  incita a mandarne un esemplare a Spaventa. Quindi  la seguente lettera:   Signore,   Se un nostro amicissimo, e molto suo conoscente, non m’ incoraggiasse a mandarle il mio libretto testé stampato, io non  oserei inviarglielo. Esporlo al giudizio d’uno de’ più distinti  lilosofi è al certo temerità più die grande. Ma io mi affido  più assai all’ indulgenza di cui sono capaci i grandi uomini,  e temo maggiormente i piccoli. Ardisco ancora dimandare il  suo leale, franco giudizio e la sua severa censura; ed ancbo  la disapprovazione mi sarà più cara assai di qualsiasi complimento.   È dunque sotto l’egida del nostro amico che il mio libretto  vieue a cercarla. Mi abbia per iscusata s’io l’incomodo por  cosa di sì poco valore; ma, le ripeto, io riposo nella indulgenza  sua. Me le offerisco e raccomando.   Perugia, Obb.ma M. Marianna Florenzi WAnDiNcroN.  Spaventa in ricambio le mandò il suo volume  Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, starn- 1 Lett. pato1’anno innanzi ; a cui la Florenzi fece gran festa,  diffondendolo nel circolo di letterati e filosofi, 1 che si  raccoglievano intorno a lei.  € Dono prezioso, scrive all’autore, di cui mi valgo per miu istruzione e per  ammirare uno de’più grandi filosofi (o il più grande),  che ora dia fama alla nostra nazione.   Da altre lettere della colta gentildonna si rileva che  tra gli ammiratori guadagnati da lei allo Spaventa, desiderosi di leggere i suoi scritti, v’ erano anche delle  donne. Tanto poteva 1’esempio della Florenzi! Questa manda a Spaventa un suo  piccolo discorso sojrra l' Eleroyenia che doveva essere stampato coi Filosofemi. È instancabile. Quando Spaventa le manda la memoria su Le prime categorie della logica di Hegel, ella poteva annunziargli un suo nuovo lavoro, che avrebbe toccato anche  quell’argomento (Saggio di psicologia e di logica, Firenze). Mi preme sempre di leggere le cose sue,  e per questo ho indugiato a dirmene grata e riconoscente. Non ho parole per esprimerle quanto quella  lettura mi abbia soddisfatta. Un ingegno come il suo  non poteva a meno di escogitare fino al fondo l’argomento trattato, ed in vero non c’ è nessuno che abbia  penetrato tanto addentro la dottrina e le intenzioni di  llegel, il più formidabile dei tedeschi filosofi.  Ella ha ragione: chi è mai entrato sì puramente  nella scienza del filosofo?  Tanto più piacere mi ha recato il suo scritto in  quanto che io aveva già compiti due capitoli del libro  che scrivo ora: Il divenire e V essere e il non essere, pen-  Cfr. la Necrologia che scrisse di lei il Fiorentino, in Scritti vari,  Napoli siero ed essere. Quanta istruzione io posso ricavare da  lei! Dunque, per tutto il piacere e per tutto 1’ utile ricevuto io ne la ringrazio di cuore ed anima » (Lettera).   In una poscritta d’ una delle sue lettere la Florenzi  scriveva allo Spaventa: «Vi prego di fare il grande  sforzo di rispondermi al pili presto » . Spaventa, infatti, è tardissimo a scrivere, anche se chi aspettava  era una dama così gentile. Il Fiorentino badava a fare  le sue scuse. Così, in una lettera a Spaventa, gli scriveva : Alla marchesa Florenzi  ho parecchie volte detto quale sia la vostra indole, perciò  non ho durato fatica a persuaderla della vostra trascuranzn nello scrivere. Ella ha sotto i torchi due saggi,  uno di logica e 1’ altro di psicologia, ed aspetta di averli  in pronto per rispondervi. Credo che li avrà prima che  il mese finisca. Li ha composti con l’intendimento di  dare due lavoretti elementari, e mi sembrano molto giudiziosi e precisi e chiari, da qualche capitolo almeno  che ho scorso, correggendo gli stamponi che le venivano  quando io ero colà. A proposito di lei, che cosa avete  fatto per l’Accademia, di cui mi parlaste costà? Io non  le ho detto nulla, com’ era vostro desiderio ; e sarebbe  cosa ben fatta se si potesse effettuare, perchè veramente  è una donna meravigliosa per 1’ ardore che ha per la  scienza. Spaventa aveva pensato di premiare la nobilissima  operosità e il virile animo, onde la Florenzi proseguiva  gli studi filosofici, facendola ascrivere all’Accademia  delle scienze morali e politiche di Napoli. Nomina che  la scrittrice gradì molto, e ne fregiò il frontespizio  de’ suoi libri pubblicati dopo. Primo il Saggio  sulla natura (Firenze), che è dedicato appunto allo  Spaventa: non per orgoglio , ma soltanto perla fiducia che gl’ ingegni, quanto più sono alti , tanto maggiore indulgenza tisano alle persone di buona volontà. Gliene chiese  licenza con una lettera molto modesta, dove sono espressi gli stessi sentimenti della dedica a stampa, e da cui s’ apprende che il Saggio era  da tre mesi in tipografia. È a Napoli Waddington, marito della marchesa, ed ebbe dallo Spaventa  liete accoglienze. Egli se n’è tornato, scrive Fiorentino, contento di aver conosciuto un uomo  del vostro ingegno e con quella franca ed ingenua indole,  che è segno infallibile. E come a Napoli si prepa¬  rava, in occasione d’ una esposizione di cotone, un Congresso scientifico italiano, la Florenzi contava di venirci  anche lei; come infatti ci venne: «Ebbi la vostra memoria 1 che ho letta con grande attenzione per racco¬  glierne quell’ utile che sogliono apportare i vostri scritti.  Evelino fu molto contento di conoscervi e lo sarò pur  io fra poco, perchè ai primi di agosto contiamo di essere  costì nuli’ ostante gli eventi del monito.   « Mi faceste dire di fare un qualche piccolo discorso  per 1’ occasione del Congresso; e 1’ ho tracciato alquanto,  e per distenderlo vorrei la certezza se si fa o no codesto  Congresso.  Io presumo che no, stante 1’ imminenza della  guerra ; nulla di meno vi prego a scrivercene una riga ;  ed ancora più mi preme sapere se vi troverete in Napoli a quell’epoca, o alla campagna, ed in quale campagna, od in quale città ; infine, mi direte dove dimorerete. La dottrina della conoscema di Bruno, pubbl. negli Atti  dell'Acc. delle Se. mor. e poi. di Napoli; risi. In Saggi di critica pp.  Una lettera ha un certo interesse, per l’accenno che vi si fa al discorso Della  immortalità dell’ anima umana, che la Florenzi pubblica. Io mi preparo o mi sono già preparata a scrivere  un opuscolo sulla immortalità dell’anima: problema  scabroso! ma che voglio sostenere perchè sento 1’ immortalità dentro di me e voglio essere immortale a tutti  i costi. Sarà dolorosa ai feuerbachiani miei amici 1 la  mia assoluta opposizione».   Nè anche gli amici hegeliani, non feuerbachiani, d’Italia fecero plauso all’ assunto della marchesa. E Spaventa allude forse, con quell’ ironia che gli era  propria, al discorso poco persuasivo della Florenzi,  quando, scrivendo a Meis, la chiama: la nostra immortale Marchesa, immortale  almeno come, socia della Beale nostra Accademia!   L’intimo pensiero di Spaventa sull’ immortalità  dell’ anima individuale apparisce dal principio d’una  malinconica lettera da lui scritta a Meis; dove ricorda la sua prima figliuola morta  a tre anni:  Napoli, Mio caro Camillo, Spero che la festa di quel sant’ nomo del De Lellis, tuo  omonimo concittadino e la tua, ti riconoilieranno cogli amici.  In particolare io conto sulla reminiscenza, anche involontaria,  di que’ maccheroni al pomidoro; di quella Irittata e di quelle  cocozzelle, oramai divenuti celebri no’ nostri annali domestici.  Via de’ Fiori a San Salvario, n... Il numero non lo ricordo 1 II Ff.ii* *riiach, coni' è noto, nel Gcdanhen iiber Tod und Sterb-  li chhe il sostenne la mortalità dell'anima. J v. scritti filoio/lci. ed. Gentile San Camillo De I.ellis, di Bucchianico, patria di Meis. Recapito dello Spaventa a Torino. Il numero era 23. Isabella  Scano. moglie di Spaventa, a lui sopravvissula, morta più, e non ho tempo (li consultare la signora Isabella, che  attende alle faccende di casa. Non lo ricordo; ma fa lo stesso:  ricordo il luogo, il prato, la soala, il piano, le stanze e il  mio tavolino da lavoro, e tutte le miuchionerie che scrivevo :  le cose futili e le serie; il mio chiodo Bolare e i misturi hegeliani svelati ; e te che venivi ogni giorno, angelo consola¬  tore, e le chiacchiere che facevamo insieme; e la mia povera  prima Mimi e lo sue ultime parole: Papà lavorai Papà  lavora! Io non so so (|uella casa sia rimasta ancora in piedi;  oramai non vedo piti Torino da circa vent’ anni : ma ella sussiste tuttora qui, come forse non ha mai meglio esistito iu  realtà, nel mio cervello, o, come (licevano una volta, nell’ a-  nima mia; o non si dileguerà se non quando questo cervello  (Papà lavora, Papà lavora), non ci sarà piti. E che ne sarà!  Che significa nou esserci pi fi i Diverrà proprio nullaf Eppure  è stato ed è. O ci è proprio uu modo di essere che non è  sussisterei E sussistere cos’ài 1/orgoglio e la balordaggine  umana ha trovato lo consolazione: tutto nasce e perisce, è  vero, ma gli atomi restano, e son sempre quelli, non mutali  mai. Bella scoperta! me li fo fritti gli atomi, io.  Troppo serio per la festa di San Camillo ; troppo malinconico, anzi. Ma va e freua la mia fantasia! Spaventa, non occorre dirlo, non era materialista.  Ma nella concezione hegeliana della natura e dello spi¬  rito non trovava posto per lo spiritualismo astratto, e quindi neppure per l’immortalità personale. Il primo scolaro (li Spaventa ( Fiorentino).   Battaglie carducciane ancddote. Nella nota polemica con Acri Fiorentino  dice di aver conosciuto tardi Spaventa, e poco prima  i suoi saggi. Letti i suoi saggi, intravidi un altro  mondo, e mi parve rinascere. Allora ero professore a Maddaloni, e stavo a Napoli. Tra i molti che si preparano a combatterlo c’ero io; ma, lettolo,  mi sentii tirare verso lui, e capii che i suoi avversarii  non valevano neppure i suoi calzari. Quale fu la mia  maraviglia, quando dai più sinceri riseppi, ch’ei non  avevano lotto nulla di lui, e che lo combattevano,  perchè volevano combatterlo, senza sapere perchè! Allora infatti egli si presentò allo Spaventa. Ma, quando,  sullo scorcio, ANDA A BOLOGNA professore di Storia  della filosofia, non E aveva visto che due volte o tre. L’ultima di queste ne ebbe consigli e suggerimenti  circa gli studi per cui la Biblioteca Universitaria di  BOLOGNA avrebbe potuto offrirgli E opportunità. Giacché da Spaventa egli è stimolato a intraprendere quelle  ricerche sui nostri filosofi del Risorgimento, da cui provennero le sue opere più importanti. E quando si divisero, Spaventa dove annunziargli il saggio, che  allora stampa, Prolusione e introduzione alle lezioni  di filosofia, dove Fiorentino trova uno  SCHEMA DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA. Glielo inviò  poi infatti con una lettera, della quale possediamo la  risposta:  Mio carissimo amico,  La vostra lettera e il vostro libro lungamente aspettati  mi sono arrivati carissimi. Mi son messo subito a leggerlo,  e posso dirvi di averne scorsa quasi la metà; se non che  intendo rifarmici sopra, come prima avrò satisfatto l'impaziente desiderio con questa prima lettura. Voi mi riuscite  sempre profondo e stringato ragionatore; oogliete nel criticare  il nodo del sistema, c ne mostrate lo scioglimento cosi lucidamente che meglio non si può. lo vi ho sempre tenuto, e  vi tengo a ninno secondo nell’arto difficilissima della critica  filosofica, eh’ è quella appuuto, di cui NOI ITALIANI abbiamo La fllos. contemp. in Italia, Napoli, specialmente bisogno, serondochè voi avete maestrevolmente  notato. Le considerazioni su la lìlosofia nazionale sono esatte,  e l’indole della filosofìa del Risorgimento, che io ho letta  fino a Bruno, è scolpita cou molta fiuezza, e contorni assai  rilevati. Le osservazioni su l’antichissima sapienza degl’italiani di VICO, e ricavate qunuto al fondo dalla Scienza  nuova, sono inappuntabili; ed a rifiutarlo bisognerebbe disconoscere la teorica della parola dal Vico medesimo adottata.  Io mi rallegro di tutto cuore con voi, mio carissimo amico,  ed auguro all’ Italia molti uomini che vi rassomiglino. Negli scrittori, come negli uomini, a me piace la lealtà del  manifestare le proprie convinzioni, quali che si fossero; la  coscienziosa ricerca nel formarsele, ed il saldo proposito del  sostenerle. Ora invece si scrivacchia e si cinguetta a sproposito, e più ilei nomi e dell’autorità si fa caso, che non  della verità eterna ed immutabile. Voi siete molto opportuno  nelle condizioni poco prospero del nostro paese, e gran bene  potrete fare. Esperto come siete di gran parte delle nostre  città, dovete conoscere meglio di me, che cotesta o nessuna  può spingere e continuare il movimento della italiana filosofìa. Qui se ne ha pochissima cura: alla mia scuola usano  pochi uditori, alle altre della mia facoltà meno che pochi,  o nessuno. Per buona ventura è venuto qua a continuare i  suoi studi filosofici un bravo giovane delle provincia meridionali, un tal JAJA (si veda), quel medesimo che mi accompagna, quando presi commiato da voi. Ila buon ingegno,  e buona volontà, eh’è ancora più rara no’ nostri.  Altri vanno e vengono più per curiosità che per vaghezza ili  studio: sono le comete di tutte le cattedre. Tra pochi altri giorni vi manderò la Prolusione che lessi  qui, e che ho fatta inserire sul Progresso che si stampa costà.  Me no aspètto vostro giudizio, che quanto so che sia competente, altrettanto voglio che sia ingenuo e franco. Voi  sapete che io non mi sdegno dell’essere appuntato e corrotto:  amo la verità più del mio amor proprio. A SAGGI FILOSOFICI qui si sta molto male, e sebbene mi sia  stato promesso che qualcheduno dei più necessari si farebbe  venire, pure io ci conto molto poco per la scarsezza dell’assegnamento di cui gode questa Universitaria Biblioteca. Avrei  bisogno di buoni espositori di Platone e d’Aristotile, perchè  questo anno mi occupo della filosofia greca, e intanto, tranne  alcuni commentatori antichi, non si trova altro. Ho fatto venire «lei mio la esposizione della Logica aristotelica di Barthólemy; ina a far venire tutto a proprie spese come si riescef  ìi questo per me un gran contrattempo, c, senza le vostre  prevenzioni, quasi inaspettato o iuusputtabile. Chi diamine  poteva credere che la dotta Bologna viveva ancora in pieno Medio Evo  pi Pomponazzi ci è il solo libro dell'Immortalità. I manoscritti di Boccaferrato versano più su la tisica aristotelica, che  su la metafisica: ed oltre a ciò sono poco agevoli a leggere,  e a parer mio ili poco giovamento. Ho trovato pori» Scoto  Erigena, e Patrizzi, che costà non mi era riuscito avere. Oopo  che avrò letti questi, mi metterò a studiare la storia della  filosofia indiana del Colebrooke, che voi mi diceste buona. * 1  Mi dimenticai l’altra volta di dirvi, che Vittorio Cousin  scriveva alla Florenzi una lettera sn quel mio lavoretto intorno a Bruno, dove sentenziava degl’italiani a modo suo.  È piuttosto una lunga lettera, di cui io ho copia, che vi  manderò, se vi aggrada leggerla. Parla altresì di VERA (si veda). Ecco quante ve no ho dette, e forse vi avrò annoiato: ma  io sentiva il bisogno di trattenermi con voi, e P ho fatto alla  mia usanza, e senza riserva. Io, oltre all’ammirarvi, vi amo  assai, e stimo che questo all’etto che vi porto renila più  scusabili le molte ciarle che faccio nello scrivervi. Quando  avrete tempo scrivetemi, perchò mi è caro comunicare con  qualche spirito privilegiato ed amico in tanta solitudine in  cui vivo. Se potessi in qualche cosa adoperarmi per voi, mi  terrei fortunatissimo di farlo. Addio, adunque, mio carissimo  amico, ed amate   Di Bologna.  Il tutto vostro  Fiorentino.  Colebrooke, celebre indianista, presidente della Società Asiatica londinese, autore degli Kssai/s on thè  Vedas and on thè phtlosophu of thè llindous nel I voi dei Misccllaneous Essaj/s (London); — e a parte: Essays on  thè relii/ion and phtlos. of thè Hlndous,  London Tra la corrispondenza Inedita del Cousin ci sono lettere di  Fiorentino: vedi Gentile, Albori delta nuova Italia, La prolusione al corso di storia della filosofia è da Fiorentino pubblicata nel  Progresso di Napoli;  ma non venne più ristampata. È infatti ancora un documento della fase giobertiana del pensiero di Fiorentino, quantunque vi appariscano le prime tracce dei  nuovi studi e delle nuove tendenze dell’ autore. Giova  riferirne qualche brano:   Il pensiero, o signori, regola il mondo o lo riempie, perché  esso è la pienezza ed il vigore dell’ essere : è la sua compenetrazione, e la sua identità. L’ essere senza il pensiero è sparpagliato, disterminato, e però incompiuto e Unito. Imperocché  l’essere compie se medesimo geminandosi, vale a dire facendosi principio e fine; ed il mezzo, pel quale esso si pone e  conclude, è il pensiero, la relazione, l'identità suprema.   Se non che esso nel mondo inorganico si occulta inconsapevole, eil in certo modo seppellito, comincia ad agitarsi  operoso nel vegetale, si va sempre pifi disimpacciando dal  grave involucro della materia nella forma dell’animale; e si  sveglia libero e padrone di sé filialmente nella coscienza  umana... Il pensiero divino che trasparisce attraverso tutto  il creato, si che ogui cosa, secondo la frase biblica, appaia  piena dello spirito di Dio, non parla poi e non si rivela ampiamente, se non nella coscienza dell’uomo. Il resto della  natura è parola scritta, rinchiusa, direi quasi cristallizzata:  l’uomo solo è parola viva e palpitante. La dualità di natura e spirito non è insuperabile.  Essa inette capo « nell’ unità cosmica ». E in virtù di  questa la natura tende allo spirito; che comincia bensì  aneli’ esso come forza individua partecipante all’ università del cosmo ; ma esso si generalizza pensandosi. Do spirito è l’attuazione compiuta dell’unità cosmica, e  ciò che questa è in potenza, ed esso è in atto. Or quando  lo spirito si abbia assimilato la natura e sé stesso per quella  serie di sviluppamenti che va spiegata nella Fenomenologia, egli, a rendere scientifico il suo processo spontaneo ed incosoio di sé, si rifà sopra il cammino fatto. E può rifarsi in  tre modi. Quando rigira sè in sò, dà luogo a quel ripensamento che si dice riflessione psicologica; e quando si ripete  su la natura, partorisce la riflessione detta da Gioberti ontologica. Ma sopra eoteste due guise di riflettere, ve u’ ba una  terza, che lo vince di pregio e di amplitudine, vale a dire  la riflessione logica, nella quale lo spirito si rivolgo su la  sua azione medesima, sul proprio pensiero... su la natura e   10 stesso spirito è Dio, ossia l’unità vera, l’unità che non  è il moltiplico, ma lo fa. Se l’unità cosmica fosso tutto, l’ultimo grado del pensiero sarebbe la riflessione psicologica e  l’ontologica, e la logica non sarebbe possibile. V’è logica,  perché v’ha un assoluto perfettamente uno; v’è la logica,  perchè v’è Dio... Da logica è dunque l’unità finale della  cosmologia e della psicologia, come la protologia n’ era stata  1’ unità primitiva. L’unità assoluta, ’unità cosmica, 1'anima, il concetto; ecco le quattro gradazioni, per le quali passa il  pensiero speculativo, produceudo una scienza eh’è la prima  e la massima, e che comprende la protologia, la cosmologia,  la psicologia e la logica. Venendo alla storia della filosofia, Fiorentino dichiara che il disegno della storia si deve modellare  su quello della scienza : sicché la storia dev’ essere essa  medesima un sistema. « Una storia che non fosse un  sistema ma un’ imbastitura di fatti racimolati qua e là,  non sarebbe meritevole di tanto nome». Quindi la connessione da preferire tra i vari sistemi è quella logica. So bene io essersi talvolta tenuto conto o della successione  cronologica, o della continuità etnografica; confesso che  queste maniere contengono qualche parte di vero ; che il  tempo maturi ed incalzi le deduzioni della logicn ; che la  scienza alcune volte si sviluppi come un dramma vivente in  una nazione: nondimeno il pensiero, essendo di natura estem¬  poranea ed eslraspaziale, mal si potrebbe acconciare tra questi  angusti cancelli... Egli è da maravigliaro intanto come fra  tanti che hanno trattato la storia della filosofia quasi uiuno  abbia fatto capo dellu genesi logica dei sistemi, salvo l’Hegel in cui celesta legge si appalesa inflessibile come il fato; e  nelle cni mani la storia si trasforma in una geometria, dove  nulla viene lasciato all’arbitrio del pensatore. Hegel accorcia  e distende i sistemi come il Procuste della favola, affinché  tutti ripetessero costantemente il ritmo prescelto della tricotomia. Richtor inchina per contrario a sostenere l’au¬  tonomia delle scuole e dei sistemi ; sminuzza, taglia i nervi,  e leva di mezzo ogni addentellato. Nel primo 1’ uniformità ò  monotona, nell’altro la varietà rimaue disordinata ed inorganica. Contemporaro però questi due estremi, badare alla  continuità del pensiero universale, senza disconoscere l'influenza individuale, è proprio mettersi sul giusto mezzo, ed  in postura convenevole, onde si possa portar giudicio sopra  i sistemi. E qnando dico sistemi, io non guardo alla breccia ,  ma alla radice: non all’aspetto subbiettivo, o nlla convinzione  del filosofo, ma alla materia, eli’ è stata fondamento della  sua opinione. Voglio vedere non quel ch’egli crede, ma quali  cause lo abbiano sforzato a questa credenza. La storia della filosofia presuppone un sistema, che  sia come il regolo con cui conviene riscontrare e mi¬  surare le dottrine. E dalla maggiore o minore ampiezza  del criterio di una storia, dipende il valore di questa.   Hegel ha immedesimato la storia della filosofia col suo sistema, affermando non essere tutti gli altri se non momenti del  suo, e (singolare ardimento!! egli non si è peritato di piantare le colonne di Ercole della filosofia ! L’avvenire giudicherà  di lui, provando coi fatti, se dopo la grande Enciclopedia  ancora allo spirito umano qualche cosa rimarrà da fare. Infine Fiorentino tocca la questione di una FILOSOFIA ITALIANIA contestata dagli storici stranieri. Mettendo n rassegna le nazioni filosofiche di Europa, Hegel  tripartisce il mondo della filosofia moderna, maiorasco inalienabile, tra l’Inghilterra la Germania e la Francia... Il  Cousin di poi, n cui non tornava conto una terza nazione,  non avendo una tripartizione a fare, ridusse le partite, e  diede luogo a due nazioni soltanto, alla Germania ed alla  Francia. Il professore di Berlino e quello della Sorbona si  trovano peri» d’accordo nel diseredare l’Italia. E perchè 1  Forse Telesio e Galilei non parlarono mai del metodo sperimentale? Bruno non mosse dall’unità della sostanza  prima ancora dello stesso Spinoza? Campanella non iniziò la  osservazione psicologica? E Vico non partì dalla conversione  del vero col fatto, statuendo il fondamento più solido cito  potesse avere la filosofia? Nulla di tutto questo, o signori;  tre termini bisognarono all’ Hegel, due al Consin, e per noi  non rimase luogo. L’Italia, se diamo retta alle divisioni di  oltremonte non ha fatto mai nulla, non ha pensato mai a  nuli», e sola, spogliata del comune retaggio dell’urnan gonero, ella è costretta a stare spettatrice stupida od ingloriosa  delle maraviglie altrui. Troppo beata, se il passato della Germania o della Francia potesse diventare il suo presente;  troppo venturosa se, chiamata dalla straniera magnanimità, le  venisse consentito di spigolare nel campo, ove a si larghi  manipoli hanno gli altri mietuto.   Mi rincresce, o signori, di dover prorompere in parole  amare verso uomini al cui ingegno porto di cuore molta rivegenza; me ne rincresce ancora più forte per dover rinfrescare titoli lunga stagione abusati, quando la gloria dei padri  fu chiamata a coprire la riprovevolissima inerzia de’ figli. No,  io protesto, signori, die noi non vogliamo addormentarci sugli  allori dei nostri padri, che noi non vogliamo farci belli della  loro gloria, fragile schermo alle immeritate rampogne. Fiorentino ricorda la gran sollecitudine che  a Napoli egli vede affaticare gl’ intelletti traendone argomento a bene sperare e ad asserire che forse  la filosofìa era « deputata a maturare i fati della patria.  Fa voti cho quel « desiderio ardentissimo » si diffondesse da Napoli per tutta Italia ; « lieto di poter  proseguire l’impresa, che a BOLOGNA inaugura il  suo illustre predecessore»; cioè Spaventa. Infine,  una patriottica perorazione: Por gli altri, o signori, la scienza può essere forse un addobbo ed un decoro, por noi italiani è desiderio di riscossa,  è condizione indispensabile di vita. Noi non sapremmo passarcene senza tralignare dalla nostra antica fierezza, senza disconoscere la missione nostra nella storia. E poi grandi  cose ancora ne avanzano a fare, nè potremmo meglio allenarci,  che fortificandoci la mento di profondi studi. Nella infanzia  dei popoli era la fede che operava prodigi, e remica possibili  le crociate; nella loro virilità non si possono aspettare altri  miracoli, che lineili della scienza. Un pensiero che non fosse  progenitore fecondo di magnanimi fatti, io lo disdegnerei;  ma esso avventurosamente non sarebbe nemmeno da dire  pensiero, si bene fantasma vano, e passeggero capriccio. Io  nel filosofo anzi tutto voglio guardare l’uomo coni’esso è, e  voglio trovarcelo vergine, schietto, maschio e vigoroso. Io  batto le mani a Socrate che combatte u Potidca, sento un cotal  orgoglio di coltivare la scienza elio mantenne serena la fronte  di GBruno avanti al rogo: applaudo a Kicbte che  lascia la cattedra di Jena e corre sui campi di Lipsia; e non  so rifinire di ridurmi nella memoria Sl’acteria, Mestre e Curtatouo, ove siete caduti voi, Santarosa, Poerio e Pilla, valorosi ingegni, valorosissimi cittadini. Sì, o itali, di profondi veri e di magnanimi fatti noi  abbiamo bisogno, e 1’Italia sarà. Addoppiate gli sforzi. Percorriamo di conserva e con alacrità 1' arduo arringo della  scieuza, e siamo certi di cooperare in tal guisa potentemente  al riscatto della patria nostra. La scienza lo iniziò, ed essa  indubitatamente lo coronerà, snebbiando le nienti, aprendo il  cuore a piò candidi alletti ed utlbrzando le braccia della novella ed adulta generazione. Un ultimo sforzo ancora, e quanto  prima il Ponte di Rialto risuouerà dell’ eco dell’ inno nazionale  cantato sulle serve lagune dell’Adriatico, e le piume dei nostri  bersaglieri si agiteranno al vento che spira dai sette colli. Dagli studi sulla filosofia greca pel corso universitario  annunziato nella lettera, fatti sotto  l’ispirazione di Spaventa, usce il Saggio storico sulla  filosofia greca (Firenze, Monnier), dove GIOBERTI uno di tre anni innanzi, autore dell’ opuscolo 1l Panteismo e Bruno, si palesava hegeliano e scolaro  di Spaventa, di cui infatti metteva a proposito la  memoria su Le prime categorie della Logica di Hegel. Così Fiorentino si stacca coraggiosamente dagl’amici di Napoli: onde nella conclusione del Saggio  accenna. Devoto alla verità, non mi terranno del certo impastoiato nè  preoccupazioni,  nè codarde paure. Non gli mancarono, infatti, silenzii  sdegnosi e tacite rampogne, seguite da una rottura,  che è la prima origine della polemica scoppiata dodici  anni dopo con Acri e Fornari. Nella seguente lettera  ne abbiamo il più antico documento. Mio carissimo amico, Vi so infinitamente grado di llo coso gentili che mi dito  del mio libro, o non vi nascondo che le vostro parole mi  sono valso di sprone efficacissimo a seguitare. Voi sapete di  quanto peso io tenga il vostro parere? o come lo anteponga  ad ogni nitro che potessi avere in Italia, o anche (V oltremente 5 onde me n’ è venuta allegrezza o buona voglia da  non potersi misurare. Per me la filosofìa è stata sempre un  amore, e perciò mi vi sou messo in buona fede, e senza preoccupazione di partigiano. Non timido amico del vero, io  dirò sempre aperto il mio modo di vedere; ed in ciò debbo  confessare che voi mi siete stato esempio e conforto. Delle  altrui dicerie non mi brigo; conserverò P amicizia a chi me  la continua non ostante il dissidio delle opinioni, coni’ è mio  costume; uon mi dorrà di perdere amici, i quali pretendessero  d impormi un treno, e di vincolarmi con pastoie, che Panimo  mio, non che nou comportare, anzi disdegna. Questo anno mi occuperò «Iella filosofìa tedesca, e epocialmente di Kant, lo cui opere ho già tutte, oltre ad altre esposizioni, tra le quali quella del Cousin. Sopra tutto ho in  pn.'gio il vostro lavoro su Kant e SERBATI, dove mi pare vedere il kantismo scolpito con tutP i suoi pregi e le sue lacune.   Mi vo procacciando i nostri filosofi «lei Risorgimento, per  occuparmene in un lavoro che ho in animo di stendere que-  st’anuo medesimo. Ditemi voi se le biblioteche di Torino,  dove siete stato, ne hanno qualcuno, e quale; perchè potrei  chiedere al Ministro che fossero di mano in ninno mandati a  questa hibliot«^ca por studiarli...   Vi ricordo e rnccomando da ultimo l’affare della Metafisica G., Storia della filosofia.  Aristotile del Bonghi, avendo egli ora il tempo di dedicarsi alla continuazione di quella stampa. Add.o, uno ca¬  rissimo amico, e ricordate ed amate    Di Bologna,   Il tutto rostro  £—5S-Svt*-Addio.   Dal lavoro su Kant e Rosmini di Spaventa ossia  La filosofia di Kant e la sua relazione con LA FILOSOFIA ITALIANA (Torino, rist. in Scritti filos.)  Fiorentino mostra nel Saggio di avere ben  compreso il valore della categoria kantiana. Ma poco  vantaggio potè certo cavare dalla esposizioneCousifr^Li «fe filosofìa di Kano che è stata pure tradotta in italiano da Irmctiera eredità, probabilmente, dei primi studi di Napoli, avan  alla conoscenza di Spaventa. Della tradurne della Metafisica di Aristotele, che Bonghi pubblica a Torino, Fiorentino insieme con Bonatelli, che allora gli è collega a BOLOGNA procura di rendere possibile, con una sottoscrizione.  resto della stampa, anzi la pubblicazione completa, con  hTristampa della prima parte; ed è a deplorare che non ‘ S riusci», e che Jop» Bonghi ne .1*» »b.n. donato il pensiero, quantunque la sua interpretazione   non sia senza difetti. TTT^ale che allora pubblicavano a Napoli Sancti e Settembrini.  Il corso è in effetti consacrato a Kant. Della  prolusione è notizia in quest’altra lettera, dove Fiorentino torna a lagnarsi del silenzio di Fornari, dando  a divedere quanto pur ne soffriva il suo animo affettuoso: Carissimo amico, Io sono venuto qua a passarvi le feste, ed ieri, appena,  arrivato, vi ho trovato la vostra lettera rinviatami da BOLOGNA. Aspetto con premura la vostra lunga lettera, ora che le vacanze ve ne lasciano il tempo.  Ho letto a BOLOGNA una prolusione su Kant, di cui questo  anno mi occupo precipuamente. È stampata a Firenze in  un giornale scientifico, elio ha per titolo “La civiltà  italiana”, e eh’è diretto da Gubernatis. Quando ne avrò  gl’estratti, ve ne mando uno subito. Se voi voleste scrivere  qualche rosetta, o in qualche modo valervi di questo giornale, so che Gnbernatis no sarebbe lietissimo, fc un  bravo, che io ho conosciuto, e che vi ammira molto. Sapete voi, che, avendo mandato il mio saggio ad alcuni a  Napoli, non ne ho avuto neanche risposta! Che voglia dire,  non so; ma mi par barbara usanza il voler imprigionare la  mente umana. La mia, non si lascia inceppare, e rinunzio volentieri ad alcuno amicizie, quando queste non possono conciliarsi con l’amore della verità. Por la soscrizione ili Bonghi vi rinnovo le premuro, perchè  egli sta aspettando che io gli rimandi i manifesti. So come  si vada incontro ad inconvenienti, ma noi non assumiamo  nessun obbligo personale. Addio, mio carissimo amico, ed  amate Di Perugia, Il vostro afet.mo sempre  Fiorentino. La Civiltà italiana pubblica il discorso di Fiorentino: Kant ed il mondo moderno; come pubblica di  lui stesso il saggio su I dia-    1 Cfr. quello che se ne dice nella Filos. contemp.,  Ioghi di Rucellai; le  lettere Stilla Scienza Nuova di VICO (si veda)  e il  discorso Dell’armonia del concetto d’ALIGHIERI come filologo, come storico, come statista: saggi  tutti ristampati più tardi, salvo il primo,  negli Scritti vari. Del discorso su Kant dimenticato conviene riferire qualche pagina, la quale dimostra quanto FIORENTINO  avesse profittato della lettura dei saggi di Spaventa. Ecco, per esempio, come pone il problema kantiano:   jjji sperienzu prima di Kant è stata smaltita siccome il  fondamento più stallilo della scienza, o come le colonne d’Ercole, di là dalle quali non è dato allo spirito umano  travalicare senza pericolo d’imminente naufragio. Kant riflette, clic la sperieuza è tiu fatto, e ebe perciò non può  essere primitivo; essendo un risultamento, del quale si può  e si deve cercare la guisa e la ragione del nascimento. Egli  adunque propone una domanda nuova nella storia della tìlosoiìa.  coni’è possibile la sperienzat E più generalmente ancora:  coni’ è possibile il conoscerei Con la quale domanda 1 orizzonte della scienza si trova onninamente cangiato, e i vecchi  filosofi seriamente imbrogliati. Galluppi, che PRIMO IN ITALIA giudica convenevolmente il movimento kantiano, si accolse  di questa novità di problema, e con la Bolita sua semplicità  di linguaggio la espose così. Prima di Kant la filosofia è dommutio .1 o scettica. Con Kant comincia una nuova forma, la  critica. E prima, difatti, i filosofi o ammettevano la sperienza,  o no. Kant uè l’nmmise, nè la rifiutò; ma dice: come si  formai II problema così mutato non versava più sull’esistenza del fatto, ma sul suo nascimento; e cotesto è la mutazione più sostanziale che Kant reca in mezzo nella  scienza filosofica. La scolastica mutua or dalla tradizione religiosa, or dalla  storia, or finalmente dalla FILOLOGIA (Grice) il contenuto della sua  scienza: presuppone l’anima, il mondo, Dio, i loro attributi,  la loro origine, e vi attaglia una forma scientifica per palliare l’intrinseco difetto. Cartesio se ne sdegna, e sopprimendo quel vuoto ingombro, fece capo alla coscienza, dove credette trovare il punto stabile, sul quale puntellando la leva onnipotente del pensiero si mettesse in grado di smuovere il mondo  antico, e di sfasciarlo. La filosofia sperimentalo sotterra tagli ridusse lo spirito a tavola rasa, e vi disegna sopra le  prime linee della scienza nascente. Kant sorpassa l’uno e  l’altra, e soffiò su tutto il sapere precedente, perfino su la  coscienza di Cartesio, pertìuo sulla sperienza di Locke; essendoché entrambe contenevano degli elementi variabili,  ed egli, messo sull'avviso dalle rigide deduzioni di limile]  non vuole più far entrare nella scienza nulla elio avesse  sembianza di mutabilità. Esposte rapidamente la unificazione del molteplice, onde nell’esperienza kantiana s’intuisce il sensibile e  onde si giudica per mezzo delle categorie le intuizioni,  FIORENTINO dimostra come la vera unificazione ancora  non sia compiuta, essendosi passati dall’ opposizione  della materia e della forma dell’intuizione a quella di  intuizione e categoria. Il legame primitivo, ove si rannoda il multiplo sì della  sensibilità, come della intuizione, è l’unità trascendentale  della coscienza. E badiamo che non ci tragga in inganno il  nome medesimo di coscienza, di cui Kant si vale in due significazioni ben differenti. Questa coscienza trascendentale ò  primitiva ed originaria; producondo gl’opposti, non può ella  essere un opposto. Se no, si andrebbe all’infinito. L’altra  coscienza di soconda muno vien contraseguata con la giunta  d’empirica, ed è una fattura di quella primo, come ogni  altro fenomeno. Va costruita con la forma del tempo, con le  categorie di possanza, di causa, di relazione, e via via. La  coscienza empirica, insomma, ò posteriore assai alla coscienza  trascendentale, la quale sola ò unità originaria e feconda. E non è senza ragione se ho ribadito questa distinzione, essendo capitalissima nel sistema che stiamo abbozzando, il vero merito di Kant non è di avere trovato i concetti a priori,  ma di avere posto a capo della sintesi quella eli’ ei chiama energia portentosa, vale a dire la unità sintetica originaria della  coscienza. L’illustre SPAVENTA lia con molto aocorgimento messo in sodo questo punto, criticando la esposizione che SERBATI fa di Kant. Non è gii che gli opposti sieno  dati, e che lo spirito, trovandoli, se ne impadronisca e li  vada elaborando. Questo processo ci è prima di Kant, ed  egli lo sorpassa, vedendone la insufficienza. Imperocché  quale conoscenza potessi avere, posto che i termini, ond ella  si compone, fossero stati accoppiati per caso e alla rinlusaf  Data da uua parte l’intuizione, dall’altra la categoria, e  poi lo spirito che le sforza ad un’ unione innaturale, o per  lo meno arbitraria. Non si vede che il giudizio sarebbe  un’imbastitura come quella che descrive Orazio, e non già  un processo dello spirito, il cui carattere specialissimo è  l’intimità? Se lo spirito adunque unisce gli opposti, è perchè  entrambi scaturiscano da una sorgente comune, e perchè il  riunirli è per lui una scria necessità. Ma Kant non è coerente a questo concetto della sua  energia portentosa. Confusa la coscienza trascendentale  pura con l’empirica, ritenne impossibile la deduzione  logica delle categorie, che ripescò perciò empiricamente  attraverso i giudizi; stralciò il pensiero dall’essere, facendo della sua attività una forma affatto vuota; e finì  nel noumeno inconoscibile.  E la conseguenza è giusta, ogni volta che si ammetti' un  pensiero che non pensa nulla, e, di rincontro, un essere che  non può essere pensato. Se non che lo sbaglio sta appunto  in questa concessione. Un pensiero vuoto non è: un essere  non pensato non è. Sono due astratti, ai quali voi accordate,  con soverchia larghezza, forma e persona. Che vuol dir mai  cotesta cosa in sè, che fatalmente sfugge al nostro intelletto?  Cotesto essere oscuro, che brilla per la sua mancanza, e dopo  balenato alla mente, si cela per sempre? Voi diti' di non co¬  noscerlo ed io vi replico con 1’ Hegel, chi' nulla è più Incile  a conoscere di questo punto oscuro. Esso è l’oggetto del  pensiero spogliato di ogni determinazione, vuotato di ogni  contenuto, ridotto alla mingherlina condizione il’ identità pu¬  ramente astratta. Or dunque non raffigurate in lui uuu creatura vostra?. Nè le altre due Critiche riescono a sanare pienamente  le conseguenze prodotte da questa opposizione risorta  tra pensiero ed essere nella Critica della ragion pura. Nella stessa Civiltà italiana Fiorentino inserì una recensione del  primo di quei tanti libri che poi Ruffaele Mariano venne  compilando sui libri altrui : Lassalle e il suo Eraclito,  € saggio di filosofia hegeliana » (Firenze). Recensione benevola verso il giovine autore, nella quale giova  rilevare due osservazioni, che mostrano ben  determinate le due direzioni divergenti degli scolari di VERA (si veda) da una parte e di quelli di Spaventa dall’ altra.  Una è questa : « Perchè chiamate rivoluzionaria, in senso  di... retriva la filosofia di SERBATI? Perchè dir filastrocca  quelln del GIOBERTI? Questo acerbo procedere verso due  illustri italiani, quando anche si fondasse sul vero, non  sarebbe certo modesto consiglio il tenerlo. Nè veggo che  l’essere hegeliano debba di necessità far avere in poco  conto le loro dottrine, perchè la critica imparziale e  seria, che l’illustre Spaventa ha fatto dell’ uno e  dell’altro, prova il contrario.  L’altra è anche più notevole. Ammesso come preferibile [a quello di Lassalle] il giudicio di Hegel sopra  Eraclito, non v’ha proprio nulla a ridire, specialmente  su la relazione che Hegel pone tra Eraclito e l’ultimo  degl’eleatici? VELIA (si veda) E forse vero che Eraclito segni un  progresso sopra Zenone? Pare che, Eraclito essendo stato prima di Zenone, la dialettica obbiettiva di quello è apparsa alla coscienza speculativa prima della  dialettica zenoniana; onde l’andamento storico, per lo  meno, sembra essere stato da Hegel capovolto. Dico ciò,  allinchè l’egregio Mariano si tenga in guardia inverso  la eccessiva fiducia nell’autorità di maestri, per grandi  che fossero. Le colonne di Ercole dell’ingegno umano. bisogna tenerle discoste più che si può ; e se si potesse  affondarle nell’oceano, tanto meglio. Anche Spaventa è di quest’avviso. Fiorentino si accinse al suo lavoro su  Pomponazzi, pur continuando a BOLOGNA i corsi sulla  filosofìa tedesca moderna. E scrive a Spaventa: Mio carissimo amico,  È trascorso gran tempo che manco <li vostre nuovo, non  ostante die vi abbia scritto durante le vacanze, quando il  Settembrini mi fece sapere ch’oravate a diporto nella campagna. Ora che il oholèra si sente a Napoli, io sono divenuto  inquieto per causa di qualche amico elle vi ho, e più d ogni  altro per causa vostra. Levatemi da questa iuquietitudine  scrivendomi due parole che m’informassero della vostra salute. Io sono tornato qui prima della ri-apertura di BOLOGNA,  e vi ho riprese le mie lozioni. Ho passate le vacanze qualche  giorno a Ravenna, un po’ a Firenze, un po’ a Perugia, e poi  il più del tempo in villa.   Sto esponendo la filosofìa tedesca da Kant in qua ; e ciò  alla Università. Sto preparando una biografia ilei Pomponazzi  ricavata dalle sue opero medesime, per leggerla nella Società  di Storia Patria, di cui faccio parte. Se questa prima non  dispiacerà, o non parrà inutile, ne farò qualche altra di  qualche pensatore più importante che abbia insegnato a Bo¬  logna. Oltre l’Acbillini, chi altro mi suggerireste voif Forse  potrei farla ancora del Cromonini, che, stato a Ferrara, può  dirsi delle stesse provinole di Emilia: del Zabarella no, eh’è  stato soltanto a Padova. Io poi a queste biografie, elle leggerò  nella Deputazione di Storia Patria, aggiungerò per conto mio  la esposizione e la critica del contenuto filosofico dei loro  libri, compiendo di ciascuno una monografia. Che ve ne  pare t   ...Col medesimo ordinario vi spedisco un libretto conte¬  nente alcune mie lettere su la Scienza Nuova. Le scrissi per  compiacere a De Gubernatis, che mi chiese qualcosa per la  sua Civiltà italiana. Non sapendo se abbiate o no avuto quel  periodico, ve le mando così radunato, come le feci estrarre;  e vi prego di accettarla come testimonianza della mia sincera  stima ed amicizia.   Addio adunque, datemi presto vostre nuove, e ricordate ed  amato Di Bologna. Il vostro afi.mo amico Fiorentino. E questo il primo disegno di Pomponazzi, la cui  biografìa è prima inserita negl’atti della Deputazione  di Storia Patria per le provincie di Romagna, e  poi riprodotta in capo al volum. Fiorentino, che diventa  sempre più intrinseco di Spaventa, torna a darne  notizia all’amico: Io aspetto la nuova ristampa della  tua memoria su Campanella, perché essendomene  quest’ anno occupato nel corso scolastico, sono desideroso  di vedere come tu l’hai trattato. Ora sono attorno ad  una monografia su Pomponazzi, attorno a cui raggrupperò i più celebri suoi contemporanei. Me lo stampa Monnier. Me ne dà cinquanta copie e 150 lire pei libri  che mi sono occorsi. La stampa  del mio saggio è finita, e sono attorno a scrivere due  parole di conclusione, per le quali ho aspettato di rileggere tutto il saggio, che non avevo riletto, nè ricopiato,  dopo scrittolo. A Firenze, nella Magliabechiana, trovai  di POMPONAZZI (si veda) un manoscritto inedito col titolo di Quæsliones ammostiate: le chiesi al Napoli. 3 Mi promise di  spedirle subito, ed ancora non le vedo. Ciò mi turba  non poco, non potendo sbrigare subito la stampa. Maledetta fiaccona degl’italiani! III Saggi ili critica, Napoli, Cfr. Fiorentino, Pomponazzi Napoli, allora segretario generale del Ministero della I. P. Uscito il saggio, Fiorentino, mandato che l’ha a Spaventa, ne attendeva con la solita ansietà un giudizio.  E giudice, in altro campo, era stato quell’anno Spaventa a Bologna, tra ire, sospetti e timori, di cui un’eco  risuona anche nella lettera qui appresso riferita del  Fiorentino. È stato con Brioschi e Messedaglia a  fare quella ispezione alla Università, di cui parla Carducci in Ceneri c faville ; e aveva riferito lui al Ministero. Mio Carissimo amico,   Ilo ricevuto i manoscritti di GATTI (si veda), che ho consegnato  subito a Siciliani, uonchè lo due dispense che mi mancavano,  e di cui ti ringrazio vivamente. Non ho visto incora l>e  Meis, ma fari) di tutto per leggere la lettera di venti pagine: 1  ci dovrà essere una epopea intera.   Qui si fa un grati dir male di te per la famosa relazione: io uon l’ho letta, e se non la leggerò, non me ne sto al detto  di nessuno. Mi si è detto cose, alle quali, come puoi pensare,  non ho potuto dar credito: tra le altre cose che voi avete  dato una patente d’ignoranti a tutta l’università in massa,  e che in difetto di scienza, si va in cerca di popolarità nello  associazioni politiche, lo per me, se fosBe vero il detto, nou  protesterei per l’ignoranza, che sento di averne una grossa  dose in corpo, nm protesterei per la popolarità, perchè non  no ho avuto mai gran voglia ; e se si acquista nei cliilie, ci  vorrà un pezzo prima che me ne tocchi un briciolo. Manco  male se si acquistasse dormendo, perchè allora potrei averci  delle pretensioni. Fuori di scherzo, quello che si bucina qui,  e che ha prodotte molte ire, nò senza ragione se fosse vero,  La lettera a Meis che è pubblicala col titolo Paolotttsmo,  positivismo e raslonallsmo , c che é qui appresso citata.  Si allude a una Relazione da Spaventa presentata al Ministero  della P. I. in seguito ad una inchiesta da lui fatta in commissione  con Brioschi e con Messedaglia, a Bologna, iter ragioni  d'ordine politico. Un articolo di Carducci su questa faccenda,  pubblicato nell'Amico del popolo, di Bologna, iami. si  può vedere nel volume teneri e faville: Opere, è qnell’aver messo sotto nini tuie cntegorin, e tutti in un  fascio, i professori bolognesi, lo sono nn mezzo proscritto, perchè  sapendomi tuo amico, o si guardano di me, o mi tempestano  a tutta furia.   Lasciamo questa miseria. Ho letto i documenti che Berti  lui stampato della vita di Bruno. Il processo veneto, se  non e stato adulterato il contenuto, fa mostra di poca fermezza, o non so persuadermene. Che cosa ne dici tu! Gli hai  visti! Ho tra le mani pure la seconda edizione delle opere di  Comte, e voglio leggerla tutta, perchè ne ho Ietto soltanto  esposizioni, benché assai larghe. Il mio saggio è finito, almeno le correzioni ultime le mandai  una settimana fa, ma ancora noi vedo. Appena usce, scrivo  a Firenze, che di là stesso te ne mandino mia copia, per far  più presto. Tu poi leggila col tuo comodo, e dimmene il tuo  parere, quando potrai. Capisco che hai molto da fare, o che  non puoi tutto quello che vuoi. Mi prometto di avere qualcosa di tuo pel giornale; qualcosa  del Settembrini, fosse anche tuia pagina. Siciliani spesso  me ne fa premura. Io non solo non ti ammazzo, ma ti ringrazio, e col vecchio adagio ti ripeto: meglio tardi che inai.  Non credo però a quel subito, con cui vuoi darmi ad intendere che mi scriverai del lavoro di Labriola. Sii contenterei  che fosse tra nn mese. Hai avuto il libro del De Meis! Dopo il Don Chisciotte non  ho letto libro che mi avesse fatto rider tanto. Le cause del  riso sono spesso gravide di grandi pensieri. Mi piace molto,  ma molto. Qui l’hanno con lui tutti, Rossi perchè  noi trova abbastanza filosofo, le donne per essere state chiamate animali domestici, e portino i bambini per essere stati ingiuriati Fiorentino, esaminali più lardi gli atti del processo veneto,  si confermò Infatti nel sospetto che fossero adulterati. Vedi un suo  scritto nel Oiorn. napol. di fllos. e teli., Non saprei dire a qual lavoro si alluda. Il Dopo la laurea di Meis per tignosetti. La contessa Gozzadini gli scrive una lettera,  nella quale si firma:  “l’animale domestico di Gozzadini.” Addio, mio carissimo Spaventa, veglimi bene come te ne  voglio io   Di Bologna, 19 maggio ’68.   Aff.mo tuo amico Fiorentino. Spaventa dovette rassicurarlo sul contenuto della  famosa Relazione. Quindi quest’ altra lettera di Fiorentino: Mio carissimo amico,  Ero capacitato anche prima, che tu non potevi aver detto  tutta quella roba da chiodi di questa Università, che altri  diceva, ed i pih credevano, lo perù, come amico, mi tenui  in obbligo di informartene, non per conto mio, ma per tua  regola. Tu puoi già pensarti, che con gli altri ho detto, e  gridato, e asseverato, esser impossibile che tu avessi voluto,  e potuto dire quello che non era; e elio la verità poi non si  può, nè si dove tacere. La tua lunga lettera mi ha fatto bene,  perchè mi ha snebbiato adatto la meute: il cuore, già s’intendo, propendeva sempre a darti ragione, e non ci era bisogno di altri eccitamenti. Io dunque non solo non ti ammazzo,  ma neppure ti muovo un rimprovero, molto meno poi per  mie personali considerazioni, lo sono un misto di stoico, di  cinico, e di scettico, che di questi tre elementi non so quale  prevalga pih. Dal Ministero non voglio nastri, dagli studenti  non voglio applausi; dunque, mi sento in grado di resistere  ad ogni tentazione. Ad una sola cosa non resisto, ed è il  bisogno di voler bene agli amici, e di dir loro franca, ed  anche brusca la verità. Tu avrai dovuto ricevere a quest’ora una copia del mio POMPONAZZI (si veda); perchè io, vedendo il ritardo di Monnier a  spedirmene le copie, commisi ad un mio amico di spedirne    1 Maria Teresa G., di cui scrive la Vi la 11 marito, Gozzadini (Bologna, Zanichelli), con pref. di Carducci. V. pure  Carducci, Opere, una copia almeno a te ila Firenze stessa. Fa il tuo commotlo nel leggerlo, ma poi dammene il piìl severo giudizio die tu  possa, perchè da nessuno me lo aspetto piìi aspro e più  istruttivo. Chi mi dica: bravo, non ini mancherà; ed anzi  più me lo dirà chi meno me ne crederà degno, nè io ho da  peccar contro la modestia per accettarli, o per pronunziarmeli  io stesso; ma chi mi mancherà di certo sarà chi mi dica: qui  hai sbagliato, là avresti dovuto pensar meglio: queste pagine  avresti dovuto bruciarle intere intere. Kbbene, voglio che  quest’uno non mi manchi, e dovrai essere tu. Mettiti al naso  l’inseparabile occhiale, aggrotta le ciglia, prendi quel cipiglio  mezzo tragico che hai nella fotografìa di Napoli ; e per dir  tutto in una parola, figurati di scrivere una pagina di quella  relazione, per la quale vivrai eterno tra gli archivi del Mi¬  nistero, e poi scrivimi un letterone quanto quello che scrivesti  a Meis. Più male parole ci troverò, e più te ne renderò  grazie. A proposito, quella tua lettera, con partito unanime, fu licenziata alla stampa, riseoandone certi nomi propri, e certe  espressioui che ricordavano il Candelaio di Brano. Io mi occupo in alcuni articoli successivi dei tuoi lavori. Vorrei  farne tre o quattro, o quanti me ne verranno, per far notare  lo sviluppo della filosofia italiana secondo la tua critica, che  a me pare una vera scoperta. Ma aspetto prima di finire le  lezioni, perchè tu sai che questa rivista non è tanto facile. Addio, mio carissimo Spaventa, e veglimi bene come te no  voglio io  Di Bologna Ajff.mo tuo amico Fiorentino. La lettera di Spaventa, stampata nella Rivisiti Bolognese, che allora Fiorentino pubblica con Albicini, Siciliani e Panzacchi, è quella a Meis,  col titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo (rist.  in Scritli filosofici). Gli articoli che Fiorentino ha in animo di scrivere sulla scoperta dello  Spaventa, non furono più scritti. Ma egli se ne occupò  qualche anno più tardi in quello inserito nell’itoh'a  dell’ Hillebrand.  STORIA DELLA FILOSOFIA E poiché abbiamo accennato alle brighe universitarie  bolognesi del 1868, di cui fu tanta parte il Carducci,  diamo pure un altro curioso brano di lettera di Fiorentino, diretta allo Spaventa poco dopo la sua partenza  da Bologna, dove si serba il ricordo d’una polemica  di Carducci con Meis e con Fiorentino. Io sono stato poco bene, parte per la stagione che  corre, parte ancora per una certa polemica, nella quale  ci siamo trovati Meis ed io, e di cui non so se ti  è pervenuto rumore. Or dunque, hai da sapere, che il  Carducci, credendo dall’articolo di  Meis, intitolato  Il sovrano, 1 offesa la dignità del suo partito, gli scrive  contro nell’Amico del popolo parole aspre. Gli da dell’imbecille, chiama citrullerie le cose dette da Meis. L’ articolo non è firmato ; ma io sapeva esserne stato  autore il Carducci, per aver questi scritto le stesse cose  in una lettera particolare al Siciliani. s Risposi io, dicendo... potersi combattere le opinioni, senza insultare  le persone. Carducci si rivolse contro di me una prima  volta ; ed io lo avvertii privatamente, che lo avrei jHinto  sul vivo. Non si stette a questo avviso, e ripigliò da  capo una tirata contro di De Meis e di me ad un tempo. Fiorentino replica, ed ha, a quel che sembra,  l’ultima parola. Ma, tutto ciò mi ha irritato, egli  scrive nella stessa lettera, ed il povero Meis  n’è rimasto seriamente afflitto: dopo avuta la rivincita, che TUTTA BOLOGNA approva, si è rinfrancato; ed ora Pubbl. nella Rivista bolognese. Documenti dell’amicizia di Carducci per Siciliani sono i  giudizi del primo sul Rinnovamento della filosofia positiva in Italia  del Siciliani, In Ceneri e faville, 8. II, Opere , VII, 362-68: e le af¬  fettuose parole Alla bara di P. Siciliani, in Ceneri e faville, s. Ili,  Opere è allegro e sta bene... Eccoti descritta la nostra battaglia,  eh’è finita con nostro decoro».   Quegli articoli il Carducci non li volle pili ristampati.  Ma insieme con quelli del Fiorentino sono stati rin¬  tracciati dal Croce, che ha così potuto tessere la storia  di questo aneddoto. 1   In un’altra lettera di due anni appresso (25 maggio  1870) del Fiorentino allo Spaventa si legge ancora: Io  sono sul punto di rientrare in lizza col Carducci, che  mi ha provocato con una nuova lettera insolentissima.  Questa nuova contesa, alla quale non ho potuto sot¬  trarmi, mi fa crescere il desiderio di allontanarmi definitivamente da BOLOGNA. Fiorentino, infatti, si fa tramutare a NAPOLI. Ma non lascia Bologna quando comincia a  lavorare intorno a Telesio. Ecco infatti che cosa scrive  a Spaventa Mio carissimo amico, Sono passati sei lunglii mesi che uè ti ho piti visto, nò ho  avuto tue nuove, tranne questa che mi diede tuo fratello,  che tu eri stato a villeggiare negl’Abruzzi. Ora è cominciato  un anno nuovo, e voglio ritentare se tu, chi sa, volessi pure  incominciare una vita nuova. Dalla parte mia non voglio  mancare di mandarti i miei augnrii, tra i quali non ultimo  quello di scrivere un poco più frequentemente agli amici. Vedi,  che non ho detto di pensare o di voler bene ad essi, perchè  so che per questo riguardo non ci è bisogno di miglioramenti.   Io quest’ anno mi occupo di Leibniz o di Spinoza principalmente, poi dei seguaci, e, se mi avanzerò il tempo, di Maebranche. Mi servo, oltre alle opere loro, di varii espositori  e critici, tra i quali della stupenda storia di lCuiio Fischer. Vedi CROCE, Documenti carducciani: una dimenticata potèmica tra Carducci, Fiorentino e Mele, nella Critica  Avrei intenzione di scrivere quulclie cosa sul movimento  telesiano, ed ho scritto per avere alcuni manoscritti che riguardano TELESIO, e che si trovano parte costà, parte a  Firenze. 1 lo aspetto sempre il tuo parere sul mio libro;  parere, che per essere più aspettato, e piìì pregiato di tutti,  si fa lungamente desiderare. Ma verràf Lo spero.   Hai letto che cosa ne scrisse Franti sul Centralblatt? Egli  stesso mandommi con molta cortesia un numero di quel giornale, dove ci era la sua rivista sul mio libro.   Con De Meis ci vediamo spesso, ma egli non è in grado di  darmi tue nuove, più che io non sia riguardo a lui. La  neve ieri si è fatta vedere la prima volta in città: tu però  quest’anno non verrai a goderne lo spettacolo. Io quasi quasi  sarei tentato di pregare che a qualche professore saltasse in  capo di tribuneggiare per la tassa del macinato, per vederti  comparire in commissione straordinaria. Ma non vorrei poi il  danno del prossimo: in questo sono cristiano. Tra questi giorni scriverò a VERA (si veda) per invitarlo a scrivere  qualche cosa su la nostra rivista.Siciliani, con le suo velleità ortodosse, n’ò uscito, come saprai, ed io ed Albicini  vorremmo tenerla in piedi, anche uu po’ più decorosamente. Con te non ci vogliono inviti; ma, lo so purtroppo, non c’è  neppure da far grande assegnamento. Addio, mio carissimo, scrivimi qualche riga, anche per dire  a chi mi doumnda di te, che sei vivo o sano. Di Bologna Aff.mo tuo amico  Fiokentino. L’articolo di Franti sul Pomponazzi usce nel Centralblait, e ètradotto dal Tocco e  pubblicato in Italia, in una difesa dell’opera del maestro  contro gl’attacchi della Civiltà Cattolica (nella Rivista  contemporanea di Torino. Di TELESIO si torna a parlare in una lettera. Tocco ti ha mandato la prima dispensa 1 Vedi Settembrini, Epistolario, con pref. e note di Fiorentino, Napoli.  delle sue Lezioni,  1 e so che aspetta il tuo giudizio. Io  ho cominciato a scrivacchiare le prime pagine di un  lavoro sul Telosio, che non so come mi potrà riuscire.  Aspetto la tua memoria completa su P Etica di Hegel. 1  Quanti più ne conosco, tanto più ti stimo e ti voglio  bene. Dimmi ora una cosa; vorrei dedicare a te ed  a De Meis questo mio lavoruccio sul Telesio, quando'  sarà finito: accetteresti tu la dedica? Tra me e te non  ci sono timori di adulazione, o di altri secondi fini :  è una pubblica professione di stima e di amicizia, che  mi piacerebbe di fare...». Il primo volume del Telesio è dedicato, infatti, al Spaventa: non solo  come testimonianza di amicizia, ma come dovere di gra¬  titudine e di giustizia: di giustizia verso chi aveva  scritto i saggi su Bruno e su Campanella ; di grati¬  tudine per l 'insolita luce che scintillava da essi, e da  cui il I iorentino era rimasto colpito. In questi studi  storici sui filosofi italiani del risorgimento il Fiorentino  infatti non fu, come s’è detto, se non uno scolaro dello  Spaventa: da lui avviato e da lui guidato.   Ecco come cou lo Spaventa si consigliava per pre¬  pararsi al primo corso di Filosofia della storia da tenere  a Napoli:   Camerino.   Mio carissimo amico, Ti Borivo da Camerino, per sapere come stai, poiché non  mi iti dato di rivederti a Bologna, dove sperava poter passare  qualche giornata cou te. Avevo anzi desiderio di discorrere    1 F. Tocco, Lezioni di filosofia ad uso de’ Licei, Bologna, R. Tipografia, con pref. di Fiorentino. 1 il proemio a gli Studi sull'mica di Hegel usce nella  Riv. bolognese; ristampalo con gli Studi negli  Atti della R. Acc. delle se. mor. e poi. di Napoli; e il tutto ripubblicato da me col titolo di Principti di Eitca (Napoli, Pierro). teco seriamente, per sapere che cosa avresti creduto meglio,  ch’io potessi insegnare nel corso dell’unno venturo in coleste  Università. Tu sai meglio di me i bisogni, i desideri!, ed  anche i gusti di costà, lo per me vorrei far poche chiacchiere  sui generali, e, detto quel tanto eli’è indispensabile come introduzione, entrare a dirittura nel tema, che sarebbe, salvo  tuo avviso in contrario, il mondo grimo. Dol mondo orientale  so poco: avrei bisogno di studiare prima; ed il tempo, per  questo anno almeno, mi manca. Della Grecia conosco qualche  cosa, e con questi tre mesi di studio mi preparerei suffiiiien-  temente. Che cosa ne dici tu? Quali saggi mi consigli di leggere? lo sto rileggendo gli storici greci; e dopo averli riletti  testualmente, uii gioverò di Grote e di Curtius. Per la parte  letteraria ho Milller (Ottofrodo); per le religioni, la Storia  di Minirv; PER LA PARTE FILOSOFICA, ZELLER; per arte  greca forse mi gioverebbe il Winckelmann, a noi so, perchè  ancora non lMio lotto. Da tutti questi potrei attingerò, si sa, i materiali; ma U  resto è da fare. Le poche linee di Hegel nella Filosofia Mia storia mi servirebbero di traccia: sui tuoi consigli poi faccio  largo assegnamento. Intanto comincia dal darmene qualcuno,  e fa presto. Tutto tuo  Fiorentino. Aggiungo qui appresso un altro gruppetto di lettere  o frammenti di lettere dello stesso Fiorentino a Spaventa, di cui trassi copia alcuni anni fa dalla carte  dello Spaventa ora depositate presso la biblioteca della  Società napoletana di storia patria ; poiché anche queste  lettere e frammenti / gettano qualche luce sugli studi,  sulle passioni, sulle idee, che si agitavano in Italia intorno a Spaventa (Pisa). Ieri sera parti di Pisa Silvio, ed  a quest’ora è a Milano, e domani parlerà a Bergamo. Si  trattenne con me la giornata d’ ieri, ed arrivò qni avantier-  sera. Sta benissimo, e me ne sono consolato tanto. Gli dissi  elle ti avrei scritto stamattina ed al solito ti mando questa  lettera col liciti. 1 K la tna lunga lettera? 15 rimasta tra i pii desiderii, di  cui è lastricato, dicono, 1’ inferno. Io ho scritto una risposta all' accademico linceo Pietro Hucione. Si sta stampando a Napoli, e vorrei che tu ne guardassi  le prove prima di pubblicarsi. Ne ho scritto al Zumbini,  perchè te la mostrasse. Gli ho fatta una lavata di capo delle  mie solite.La presunzione e l’ignoranza in Ferri si bilanciano tanto, che non so a quale delle due dare la preferenza. Aspetto tua lettera dopo letto questo articolo: mi preme  sapere il tuo giudizio, e ti do piena facoltà di mutare, e di  cancellare anche qualche cosa, die non ti paia conveniente,  o inesatta.   (Portici). Ieri tornai da Soma, dove lasciai Silvio che sta benissimo. Trovo qui una lettera  di Zeller, clic mi annunzia la sua venuta a Napoli. Oggi  P ho visto, ed ho insieme saputo da Labriola, che tu sei a  Maddaloni. Vuoi vederlo? Oggi si è parlato di te, ed egli desidererebbe di conoscerti di persona, come ti conosce di fama. Dimora questa settimana. (Pisa) Prima che tramonti l’ultimo sole ili questo anno, e sta già per tramontare, voglio scriverti. Il  tuo ostinato silenzio avrebbe scoraggiato ogni altro, non me,  ohe quando si tratta di te, il peggio che possa pensare è,  che il calamaio l'abbi o smarrito, o asciutto come la sabbia.  Kccoci ora intesi : tu taci, io scrivo. Io sto bene, e tutti di casa pure, salvo la Tuta 3 eh’è un  po raffreddata. E tu? E donna Isabella? E Camillo e la  Mimi f 4 Speriamo che stiate bene, ed auguriamo che stiate  meglio. Pisa  0 ’* malenla lico, che insegnava nella Università di   lll0R0, '° Luigi Ferri, cui era sialo tra gli amici dello Spaventa  applicato tale nomignolo dopo elle Vittorio Imbruni nel Olorn  Napol. di filo.,, e leu , aveva rilevato lo strafalcione dal  j ,, commesso nel trascrivere f.V. Antologia) l'epitrrafe  della tomba del Cusano in S. Pietro In Vincoli leggendo: Promise*  Pelei lìucionts [invece di retri — bucionisj non fefetut eum    HestItuta Trebbi, moglie del Fiorentino. Isabella Scano moglie di Spaventa; Camillo e Mimi tigli. Ln disfatta del nostro partito mi ha commosso non por me,  che sai quanto io stimi il genere umano in massa; ma pe  miei amici, per tuo fratello specialmente, che non ha alte  vita, si può dire, che la politica. Ne sono stato costernato,  ancora è scemata l’impressione. Nicotor» è dunque 1 arbitro  dell’Italia, e tutti, o quasi, gli si curvano, gl. si prosternano  innanzi. Quanta viltà 1 Quanta corruzione! Vaie il pregio <  curarsi del prossimo! E una terribile domanda : piò si conosce  il moudo, e piti si devo disprezzare: Leopardi non aveva  torto. Ma... c’ è un ma; ed io ti confesso che non mi “ ,re “ do -  con tutte le ragioni in contrario. Mi sono chiuso, vivo tra.  miei ed i libri, non vedo nessuno, non conosco e “   conosciuto, e mi sento beato in questo silenzio ed in questa  oscurità. 11 mio Niuarello cresce eh’è una delizia, ad ha tonto  alletto e tanto accorgimento, che mi diverte e mi ristora,  tess’io vederlo giovane fatto come il tuo (.umilio   Non Io perchè, mi sento ora più legato alla vita, come non   Cì iTn povero 1 Settembrini f  A casa mia ci fu lutto come  se fosse morta persona nostra: lessi la notizia su la Gazze a  dell’Emilia, ed insieme appresi la scondita di bihio.  colpi in una volta. Ma Silvio tornerà alla Camera, e al Ministero, se il senso dell’ onestà non sarà spento nel nostro  nomilo ; il povero Settembrini non tornerà piu.   Penso di scrivere per lui un articolo sul Giornale napoletano;  è la sola cosa ch’io possa fare per lui. Ma lasciamo questo   tr Che3 U rfacendo t lo sto scrivendo certe lezioni di  filosofia pei Licei: il Morano mi è stato addosso, e finalmente  mi ci sono piegato. È cosa molto ardua, ed il noti poterti  allargare quante vorresti, toglie gran parte della scioltezza  del pensiero, ed anche dello stilo. Farò alla meglio e quel  eli’è peggio, in fretta. 11 Morano commise lo sbaglio di un   f..U, munirò .. «,>   fogli, ora con la spada alle reni ni’...calza per la tonti   n u azione.  i n settembrini mori addi 3 . Fiorentino non   scrive poi l'articolo di cui parla in questa lettera; del rimpianto  scrisse P°' ,, u Scriui va .u di tener, polii, ed atte   (Napoli, Morano; e l’Epistolario, premettendo agl.   uni e all'altro belle e affettuose prelazioni. All’ Università faccio nu corso di Etica, ed lio riletto la  tua memoria sull’etica di Hegel. Hai visto il giudizio  portato da Berlini 1 su di te, o di Hegel f Ci ho avuto molto  gusto, perchè la sua autorità non è sospetta, come In mia,  appresso la filosofia italiana. Povero Bortini, spento anche lui 1 Scrivimi, se puoi, e se vuoi: lascio la cosa al tuo arbitrio;  non cosi, il volormi bene che in mezzo a tanti disiugauni  mi preme e mi giova assai.   Alla tua famiglia di tanti augurii anche da parte della  mia, e tu credimi sempre, e non a parole.  S. Vedi se puoi sorivere qualche cosa pel Giornale  napoletano.   (Samhinse). Ed ora un’altra notizia.  L’arciprete Pompa mi perseguita per causa tua: ha scritto  su l' Eburino, giornale che si stampa ad Elicli, una recensione  di un uuovo capolavoro artistico dell’Acri, e dico che io sono vo¬  tato a te anima e corpo. Fin qui non erra : ma il reverendo, pos¬  sessore de’ documenti della storia antidiluviana, non sa farsi  capace della mia polemica contro il vice-gesh, ed il vice-  Fornari; cioè contro Fornari, ed Acri. Quest'ultimo, dopo di aver ponzato altri 14 mesi, è venuto  fuori con un opuscolo su Spinoza ; non so che cosa dica, e  come c’entri coi giudizi su la filosofia italiana, ch’egli doveva  convalidare. Non ho nessuna intenzione di rispondere, qua¬  lunque sia il libro, che ancora non conosco, se non per la  receusione dell’arciprete noetico. Su Berlini v. lo mio Origini della fllos. contemp.  in Italia. Il giudizio cui alludo Fiorentino, é contenuto  in una lettera di Berlini a Merlo, pubblicata nel Giornale  napoletano di fllos. e letl., dov’é detto. Vi ringrazio di avermi mandato il saggio di Spaventa, che io considero corno  il più serio e il più chiaroveggente degl’Hegeliani d'Italia. Volendo lo  terminare un corso di FILOSOFIA elementare ad uso de’ licei mi sono  creduto in obbligo di tener conto delle dottrine di quel valentuomo,  tanto più che io sono sempre in questa persuasione, che II restringere il vocabolo scienza a significare puramente i risultati dell'esperienza, dell'osservazione e dell’induzione, come si fa oggidì, negando ogni valore scientifico alle discipline speculative, sia non solo arbitrario,  ma contradittorio. Quindi io credo che sla salutare un ritorno ad  Hegel, o per dir meglio, al suo metodo, e a quella sua assoluta, e  direi quasi eroica fiducia nelle forze della ragione umana.  STORIA DELLA FILOSOFIA  (Pisa). Prima di scordarmi, ae hai portata la Vita di BRUNO, 1 dalla al Betti che me la  porterà: se no, mandala a Domenico Morano, affinchè me  la l'accia pervenire.   li Bruno si sta copiando, e dentro questa settimana comincerò a mandare il manoscritto. Spero che tu hai concertato pei caratteri, pel formato, per la carta. Se non avessi  ancora stabilito niente, scrivo che aspettino Beuz’altro il tuo  ritorno.   Il Peipers mi ha risposto che a Gottinga si conserva soltanto il manoscritto dell’Oratio coneolatona; ma non mi dice  neppure s’è autografo. Quest’orazione io la trovai a Roma  tra la collezione degli opuscoli del Cardinal Valenti, ed è  rarissima. Vale la pena di far veniro il manoscritto? Nota  che a Gottinga, la copia stampata non l’hanno neppure.   L’edizione del Gfrorer ! non si trova in commercio: Zeller uii ha mandato la sua, la quale però è mancante della  quinta dispensa. Ne ho data commissione, ma non so se mi  riuscirà pescarla. Ho scritto per l’edizione del Tugiui, Ve Umbrie idearum. Ho riscontrato Buhle: non dice nulla di manoscritti: porta  un catalogo delle opere abbastanza esatto. Tovo qualche  altra notizia su Bruno uelPAoidalio. Dopo che tu partisti di Roma, riseppi che nell’archivio  della congregazione di San Giovanni decollato c’è la notizia del giorno della esecuzione di Bruno, e che questa  data non corrisponde a quella generalmente ritenuta. Mi è stata promessa una copia, benché quei  fratacchioni non vogliano far supero nulla. La notizia aggiunge, che a nessun patto si volle convertire. Come sai, questa notizia è un documento autentico, perchè finora non  c’ è altro che la lettera di quel furfante dello Scioppio. I.a Vita scritta da Berti (Torino, Paravia). Ossia il volume degli Scritti latini di BRUNO, pubblicati  (frontespizio) da Kr. Gfrorer a Stoccarda. Cfr. la pref. dello stesso Fiorentino alle Opere latine di BRUNO,  ed. Naz. Il doc. pubbl. in facsimile nel voi. Ili delle Opere latine del  Bruno a cura di F. Tocco e G. Vitelli (Firenze).   Inoltre il cav. Podestà 1 mi disse, che a lui orati venute sott’occhio parecchie carte mauoscritte concernenti il Bruno: non  sapeva però dove. Cercai una giornata intera, ma ce ne volevano delle dozzine di giornate, ed io avevo fretta di tornare.  Il Podestà mi promise di continuare le ricerche: se no, ci  andrò io per lina settimana. Mi ci sono messo, o voglio riuscire. Tornato tjiti, trovai Nino ammalato di febbre gastrica: comparvero lo macchie difteriche; in un giorno si pennellarono tre  volte; due altre volte il giorno appresso: disparvero. Ma come  fossi stato io d’animo, tu puoi pensarlo. I nervi mi ballano  ancor», o tra giorni andremo in campagna, in una villa che  ho trovata in iptel di Lucca. Ilo avuto i titoli di Bàrbera, 5 quelli del Siciliani non ancora:  conosco gli uni e gli altri; ma r/itid agenduml Sono tra l’incudine e il martello, e non so a qual partito appigliarmi. E tu dimorerai a Napoli? Ovvero andrai in campagna, e  dovei Vorrei saperlo. LABRIOLA (si veda) mi mandato un suo saggio sulla libertà; e  vorrebbe ne dicessi qualche parola: mi ci trovo imbrogliato.  Capisco il Labriola, quando parla, non lo capisco quando  Bcrive. Non ha stabilità di pensiero, ondeggia in aria, ed  ha la pretensione di parere elaborato, come egli mi scrive.  Capisco Herbart, non capisco lui. L’oscurità non è nelle  parole, o nello stile, è dentro la testa.   Ilo letto il discorso di Silvio, e poi Insita sdegnosa lettera  all’Opinione, tritai maturità ili pensiero nel primo, e qual forza  di carattere nella seconda! Il discorso appartiene al mondo  moderno, ma la lettera è di altri tempi, ed ora non tutti  possono gustarla.   Salutamelo tanto, anche da parte della mia famiglia, che  fa lo stesso con te. 1 11 bibliotecario Bartolomeo P. <m. noi 1910), allora nella Vltt.   Emanuele di Roma. Bàrbera, che è professore di filosofia morale nella R. Università di Bologna. Del concetto della libertà, studio psicologico, nell'Archivio di statìstica (risi, in Labriola, Scritti cori, ed. CROCE (si veda), M’ero dimenticato di raccomandarti Persiani. È  impaurito, perché il relatore 1 non sei tn, ina un lombardo  (forse Teneaf), e par che dalla Lombardia non si riprometta  gran che di bene. Son certo però che tn potrai njutarlo  sempre (Pisa). Avantieri ti scrive a Napoli,  ed ora avendo saputo che Betti ò stato chiamato per telegrafo, ti rescrivo da capo, e ti manderò questa lettera per mezzo suo. Io non gliela posso portare di persona, perchè sono alquanto infreddato a causa della lezione d’ieri. Tu che sei la fenice dei presidenti, specialmente quanto  a prudenza, vedi se non entra fra le attribuzioni presidenziali  quello che ti chiedo io. Ho bisogno di venire a Roma, perchè il primo volume è  finito, e per continuare la stampa voglio esser certo che il  ministro non adduca cavilli: nel qual caso pianterei 11 la  baracca. Premesso ciò, e visto e considerato che il Ministero  ha premura pel Siciliani, e poca o punta premura pel concorso  di Torino, visto e considerato, che sta alla chiaroveggente  perspicacia del Presidente il decidere se necessiti la convocazione del concilio: io riproporrei che tu ci convocassi; che,  convocati nell’ interesse del pubblico erario, stimoli i padri  ecumenici di Roma a finir la eterna questione di Torino; e  son certo, come ogni dottor Pangloss, che tutto anda per lo  meglio in questo perfettissimo mondo, tranne il mio raffreddore  che sempre piò s’inasprisce. Ed ora che ti ho detto il mio desiderio, tu con quell’occhio  critico che ti rende (che cosa dico!) che ti rende piuttosto  singolare che raro, farai quel che crederai. Ed orn da capo, ma su di un altro argomento, una notizia.  Nell’ultima puntata (stile mamianico) della Filosofia delle  scuole italiane, il sullodato Conte scrivendo all’amico Ferri,  sai che cosa gli dico f Che in tutta Europa (le pelli rosse e gli  Zulus non ci vanno compresi) a parlare di Platouo e delle  idee non ci sono rimasti altri che loro due. Povero Platone! Chi glielo avrebbe detto, che dopo tante feste, e tanti conviti,  Nel Consiglio Superiore della P. I., di cui Tenca, come Spaventa, fa parte, e da cui Persiani aspetta 1’abilitazione  all' insegnamento. tanti commensali (a 20 franchi l’uno) che lo ringiovanirono,  lo restaurarono, lo rinnovarono, oramai, finita la digestione del  pranzo, ognuno lift preso la sua via e di idee non ne vuol  sapere nessuno più? Chi avrebbe creduto che perfino quello  ragazze, tanto belline, tanto plutoniche, si son buttate anche  loro al materialismo 1 1 Ah ragazzo, ragazze: da voi me lo  aspettavo, che sareste rimaste platoniche lino ad aver  trovato un marito, o un facente funzione; ma Finali, Monabrea, Borgatti, tutta gente massiccia, chi avrebbe mai creduto ohe avrebbero lasciato nelle peste il Conte ed il suo  illustre oommilitonef  Vista la brutta china, direbbe Sella, io proporrei (il  raffreddore mi ha dato un diluvio di proposte) che ROVERE (si veda) e Ferri siano impagliati, e ben conservati nell’atrio  dell’Accademia de’ Licei con questa memore iscrizione. QUESTI BIPEDI IMPLUMI  ULTIMI DELLA SPECIE ESTINTA RIMASERO platonici, ESSI SOLI IN EUROPA DOPO IL PRANZO PLATONICO Dopo della qual cerimonia vorrei che l’Accademia prelodata  a voti unanimi incaricasse il poeta pindarico B. Spaventa  perchè ne celebrasse condegnamente l’eroismo. E diamine 1 Alle Termopili sono treceuto finalmente, eppure Simonide  s’incarica di cantarne: qui si tratta di line soli, in Europa,  non contro schiere barbariche, ma contro eserciti di dotti, e non  ti paro che ci sia più materia di canto? Ridettici bene, e poi  dimmi il tuo avviso.   Tu duuque hai leggicchiato il mio amico Marino! 5 Beato te, 1 Scolare dell’ Istituto superiore di Magistero, allora fondato a  Roma: le quali — era la prima volta che si vedevano tante signorine  in una Università  frequentano alla Sapienza le lezioni di Berti. Su questo pranzo v. le mie Orig. della fllos. contemp. Una critica che Marino (che è poi professore di filosofia  morale a Catania) pubblica degl’Elementi  di fllosofia di Fiorentino. che hai tanto tempo da marineggiare. Io l’ho qui il suo  libro, ma non mi è avanzato un briciolo di tempo: ed ho una  sua lettera autografa, che impaglierò pure. Povero!  Mi ha scritto con una ingenuità, ohe se mi fosse vicino, lo  abhraccerei. Abbracciarlo sì, ma leggere no. Non gli ho neppure  risposto, ed ho fatto male. Volevo leggere prima e poi scri¬  vere. La bestia che sono stato! Bisogna fare il rovescio: uè  senza un perchè i metodi moderni fanno precedere la scrittura  alla lettura. Berti, p. es., fondatore della moderna pedagogia  prima lm scritto lo suo opere, e solo da qualche mese iu qua,  a quanto mi assicurano, si sta esercitando nella lettura.   A proposito, vorrei venire a Berna per informarmi da lui,  perchè Camoeraceneie, che vuol lire di Cambrai, egli l'ha  tradotto della Sorbona: facendo poi una dottn osservazione,  che cioè Bruno or* saltato a piè pari dentro la rocca dol1’aristotelismo eco. E poi vorrei sapere, perchè dice che il De immenso, è un  libro, uno tA’ tanti in cui è divisa l’opera De monade, numero et figura; quando il De immenso ole. contiene otto libri,  ed il De monade, che sarebbe il contenente, non contiene nè  otto, nè due, perchè è un libro solo, unico tiglio di madre  vedova. Sono piccoli nèi, lo so, ma che dimostrano una piccolissima  cosa: il precetto pedagogico che testò avevo 1’onore di dirti,  cioè ch’egli prima scrisse, poi lesse ; o forse scrisse, e poi  spese, nello stampare, il tempo che doveva impiegare nella  lettura. Barzelletti 1 però assicura eh’è il gran capolavoro della  critica italiana : così mi han dotto, perchè io, al solito, non  1’ ho visto; e poiché 1’articolo è tradotto certamente dnll’inglese nella lingua degli Zulus, io mi tiguro la festa che  faranno quegli eruditi di laggiù. A furia di scrivere, mi sono snebbiato un poco il capo,  ina temo forte di averlo annebbiato a te; legge di compensazione. Quando io mi trovavo a discorrere di FILOSOFIA con Berti, rimanevo muto: tu sei più fortunato di me, hai il  pretesto di andare a fumare. Io che ho abborrito sempre il [Nell’ art. sulla FILOSOFIA IN ITALIA pubbl. in una rivista inglese,  e poi tradotto nella Muova Antologia] tabacco, »e tornassi deputato, per non dovermi ingoiare quelle  forti dosi di FILOSOFIA scientifica, che mi somministra il nostro BERTI (si veda), m’imparerei a fumare. Meglio lo stomaco sconvolto,  elle il cervello come un mulino. Spero bene però che non sono costretto a nessuno di questi tormenti. Non mi dicesti se Morano ti da o no la prima parte  del Manuale ili moria della FILOSOFIA. Fattelo ilare, e leggicchialo: invece di Marino, potresti dure un’occhiata al saggio mio. Vorrei sapere se quel tanto è sullìciente per la coltura generale, o s'ò dippiit, o di meno. Mi servirebbe di norma  per le altre duo parti (Portici). Ha lettera da Zeller,  che ancora ò a Roma, e seppi del viaggio che faceste insieme felicemente. M’incarica pure di dirti tante cose per la lettera  che poi gli scrivesti da Napoli. Egli è in giro dalla mattina  nlla sera, e crede che noi ci vediamo quotidianamente, e non  che siamo a due poli opposti. Ha la ricetta: si è fatta la bobba, ma non li’ è venuta  fuori la storia delle prove dell’esistenza di Uio. Per un concorso a una cattedra universitaria, della  cui commissione fa parte Fiorentino ed è presidente io SPAVENTA, questi lo prega di raccogliere gl’appunti per una relazione sulla voluminosa  Storia delle prove dell’esistenza di Dio di Bobba. Fiorentino, da Pisa gli risponde. Letto il tuo, piò volte espresso, desiderio, ho posto mano alla lettura del Itobbu. Un corto estro maccaronico mi invase  alla prima pagina; ma ho lasciato il poema lutino ai primi  due versi e mezzo. Eccoteli: Iufainem, liertrunde, iubes supportare laborem, Insipidimi scilicet putidumqiie ingoiare bobatam; Obediain tamen etc. Esto prendendo appunti; ma che diavolo vuoi appuntaret Finirà prima la pazienza mia, che le sue sciocchezze. È un  pover’ uomo, e noi uccideremo un morto. (Pisa. — E poi c’è il secondo libro della  Legge morale di  Crescenzio: il titolo è Francesco Fiorentino. Te lo saresti sognato eh’ io dovessi diventare nn secondo libro  della legge morale! Neppure per idea: la Puglia fa miracoli. Ma la cosa non Unisce qui: il terzo libro sarai tu. 1 u  in persona! con gli occhiali, con gli stivali alla prussiana, tu sarai un libro di un’opera. Non so se l’opera avrà molti altri libri: a congetturare  dall’opera de intellectn dello stesso autore, ch’era divisa in  100 libri, par checi debbano entrare il mellifluo D’Èrcole, il veronese Bertinaria, ed il truculento Ferri, con parecchi altri  personaggi minori. Ogni libro costa 20 centesimi: ed io per  ora sono venduto a questo prozzo : tu iorse salirai a cinque  soldi ; o calerai a tre, secondo che P opera seguirà il processo  ascensivo o il discensivo. Il bello consiste ne' documenti. Nella copertina 1 autore dimostra che io sono causa di parecchie depredazioni e grassazioni nei pressi di Casale. La mia influenza venefica s è  esercitata, per non so quale selezione, su la provincia di Ales¬  sandria: e la tua! Probabilmente verso Girgenti, o in quei  pressi. Che non ci sii stato non preme, l’etica hegeliana è come la filossera, si estende per salti di 70 chilometri la volta. Delle stroncature, come oggi si direbbe, dei Crescenzio ormai chi se ne ricorda più ? Ma c’ è sempre  qualche De Crescenzio in giro, pronto a dimostrare,  come quattro e quattro fanno otto, che il tal filosofo o  il tal altro sovverte la legge morale, il buon senso, o  le leggi fondamentali della logica ecc. Ma il filosofo può  accogliere siffatte dimostrazioni con lo stesso buon umore  del Fiorentino. Intorno al Fiorentino v. le mie Origini della filosofia contemporanea in Italia. Giovanni Gentile. Keywords: Reale Accademia d’Italia, what does ‘fascista’ applies to – philosophically? To ‘state’ – how is it defined philosophically? Opera complete frammenti di storia di filosofia 3 volls -- - Refs.: Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice – Luigi Speranza, “Grice e Gentile: implicatura conversazionale” -- Conversation and inter-subjectivity. – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Gentile.

 

Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Trieste – filosofia triestina – filosofia friulese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo triestino. Filosofo friulese. Filosofo italiano. Trieste, Friuli Venezia Giulia. Grice: “I love Gentile; like me, he is interested in Aristotle’s immotum motor, and the idea of number in Plato – but he extends his views to all the rest of philosophy of language; if Vitters wrote a ‘trattato,’ so did Gentile!” – Si laurea a Pisa sotto Carlini. Insegna a Mantova, Vigevano, Padova e Trieste. Fonda il Bollettino filosofico. Considerato il fondatore della "scuola padovana" di metafisica neo-aristotelica.  Altre opera: “La dottrina platonica delle idee numeri e Aristotele” (Pisa: Tip. Pacini-Mariotti); “I fondamenti metafisici della morale di Seneca” (Milano: Vita e pensiero); “La metafisica presofistica; con un'appendice su Il valore classico della metafisica antica, Padova: MILANI); “La politica di Platone, Padova: MILANI); Institutio: sommario storico di filosofia dell'educazione, Verona: La Scaligera); “Umanesimo e tecnica, Verona: Arti grafiche Chiamenti); “Bacone, Brescia: La Scuola); “Didattica: testo ad uso degli istituti magistrali e dei giovani maestri, Milano: Marzorati); “Filosofia e umanesimo, Brescia: La scuola); “Il problema della filosofia moderna, Brescia: La scuola); “Come si pone il problema metafisico, Padova: Liviana); I grandi moralisti, Torino: Edizioni Radio Italiana); “La riforma silenziosa della scuola: il completamento dell'istruzione primaria ma inferiore, Bologna: G. Malipiero); “Se e come è possibile la storia della filosofia, Padova: Liviana); “Storia della filosofia -- Periodo antico e medioevale -- Dal Rinascimento fino a Kant -- La filosofia contemporanea -- Padova: RADAR); Saggi di una nuova storia della filosofia, Padova: MILANI); Breve trattato di filosofia, Padova: MILANI). Dizionario biografico degli italiani. G. occupa sicuramente un posto importante nella storia della filosofia del secolo scorso, ma – se fin dall’inizio non vogliamo avanzare discorsi di carattere celebrativo o commemorativo, quanto innanzitutto teoretico – forse dovremmo dire, più correttamente e semplicemente, che egli occupa un posto importante nella storia della filosofia. Il senso di questa affermazione, e la ragione per cui vale la pena di rinnovare, anche in questa sede, la riflessione sul maestro patavino, è che egli ci rimette davanti alla struttura essenziale del filosofare. La sua concezione della filosofia come problematicità pura si di-mostra infatti quale dice di essere, veramente classica, in quanto, evidenziando in tale problematicità quella che non può non essere con-siderata la caratteristica fondamentale e imprescindibile del filosofare, mostra di possedere essa stessa un valore permanente ed attuale.Ricordato come fondatore della scuola padovana della metafisica classica, G., proprio in virtù del riconoscimento dell’attitudine problematica del filosofare, poté affrancarsi dalla sua formazione idealisti-co-attualista e aderire alla scoperta aristotelica dell’Atto puro quale princi-pio divino trascendente l’esperienza. Egli sviluppò così una posizione originale che, giunta a maturità speculativa negli scritti padovani del secondo dopoguerra, si distingueva, oltre che dalla corrente neoidealista, ancora attiva soprattutto nel pensiero di Spirito, anche dalle due filosofie di ispirazione cristiana allora prevalenti, la filosofia neotomistica, nelle sue va-rie declinazioni (Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e la filosofia neoclassica di Bontadini. Le sue opere più significative, in particolare  Come si pone il problema metafisico  (Padova),   Breve trattato di filosofia  (Padova) e  Trattato di filosofia  (Napoli), non sono tuttavia solo innovative per l’epoca in cui sono state concepite, ma, come si accennava, restano a tutt’oggi testi vivi e parlanti, che, nella radicalità del domandare su cui si fondano, appaiono in grado di raccordare la prospettiva metafisica anche alla sensibilità esigente e inquieta del nostro tempo. La fecondità della problematicità pura non è peraltro esaurita dai suoi esiti metafisici: il “domandare tutto che è un tutto domandare” è ben più che una formula descrittiva della natura della filosofia, è un vero e proprio “metodo”, che il maestro patavino dispiega nei più diversi ambiti del suo impegno teoretico. E che anche nel nuovo millennio merita attenzione. Di questo domandare filosofico vogliamo dunque continuare a va-gliare la profondità speculativa, a cominciare dai “saggi” qui raccolti, che intendono sviluppare i motivi di interesse riscontrati nel pensiero di G. da alcuni studiosi che lo hanno, direttamente o indiretta-mente, conosciuto. Questa stessa problematicità può del resto essere assunta anche come chiave di lettura dei contributi che presentiamo, essendo ravvi-sabile quale principio animatore, ora espressamente tematizzato, ora silenziosamente sottostante l’opportuno ripensamento dei vari aspetti dell’opera filosofica del nostro Autore. Il nesso risulta subito evidente nell’articolo di BERTI (si veda), uno dei primi e forse il principale tra gli allievi, che in un saggio denso di ricordi, si sofferma su uno scritto apparentemente secondario tra gli ultimi pubblicati dal Maestro, forse l’ultimo, dedicato alla possibilità di pregare il Motore immoto. Si tratta infatti sicuramente di un’occasione per ripercorrere nei suoi tratti essenziali l’interpretazione gentiliana della metafisica aristotelica, per ripensare le due caratteristiche fondamentali del “Dio” dello Stagirita, la trascendenza e l’intelligenza, ma anche – ci sembra di poter aggiungere – per ritrovare in quel pregare l’espressione estrema, e forse più autentica, del “domandare tutto-tutto domanda-re”, che, di fronte alla causa suprema ordinatrice del cosmo, poteva, e forse doveva, assumere connotazioni affettive e oranti. Il tema del domandare puro e integrale è ancor più pienamente al centro del saggio di Bartolomei, che di tale domandare indaga le potenzialità, sia come ineludibile punto di partenza di ogni ricerca filosofica, sia come fulcro di “fruttuosi collegamenti” con alcu-ni pensatori contemporanei, evidenziandone, pur nella distanza e divergenza delle posizioni, la comunicabilità e l’inaspettata consonanza su punti fondamentali. È quanto si verifica con Adorno, a proposito della legittimità della problematica metafisica e delle caratteristiche di apertura e processualità che connotano la conoscenza dei suoi oggetti, i concetti; con Badiou, per la specifica intenzione di verità che distin-gue la filosofia dagli altri saperi; con Weischedel, sotto il profilo della necessaria radicalità dell’interrogare filosofico, che, anche laddove non giunga ad esiti metafisici o teologici, non può non avvertire la realtàdel mistero che lo sollecita. In tutti questi casi – conclude l’Autrice – la posizione di G., interloquendo costruttivamente con linee di pensiero profondamente differenti da quella propria della metafisica classica, dimostra una inesausta vitalità filosofica.Il terzo saggio, redatto da Gabriele De Anna, affronta il problema del valore morale dell’azione cercandone la soluzione nelle pagine del TRATTATO DI FILOSOFIA, e rinvenendola nel ricorso all’uso pratico dell’intelli-genza che coglie il principio nell’esperienza, e quindi una normatività nel reale. In questa lettura l’importanza della problematicità gentiliana emerge specialmente nel farci intendere come il manifestarsi del principio, e quindi del valore, sia inseparabile dall’esperienza, intesa come atto che precede e trascende continuamente la distinzione soggetto-oggetto nella sua costitutiva tensione al sapere. Ma essa ci fa anche meglio compren-dere la prospettiva metafisica di G., che si presenta come ripresa della concezione aristotelica, ma allo stesso tempo accoglie dal pensiero moderno l’attenzione al ruolo del soggetto, si dice classica, ma non è per questo oggettivista, come altre, più note, versioni della stessa. Una particolare declinazione dell’azione morale è costituita dalla pratica pedagogica, un altro dei grandi temi della riflessione filosofica gen-tiliana, cui è dedicato il quarto e ultimo saggio, frutto della riflessione comune di Xodo e Benetton. La pedagogia di G. è una pedagogia umanista, poiché l’umanesimo – egli scrive – che è ricerca di classicità, si attua come   paideia , cioè come sforzo di realizzare nelle più diverse situazioni storiche l’essenza dell’uomo», e pertanto non è un si-stema compiuto, ma una sollecitazione a riprendere instancabilmente la ricerca speculativa sulla verità della persona, ulteriore espressione di quel domandare radicale in cui si traduce ogni serio impegno filosofico. Le Autrici sottolineano come in questa prospettiva, considerando l’essere umano nella sua integralità, l’umanesimo, anziché contrapporsi, si possa intrecciare fecondamente, anche in ambito scolastico, con la scienza, la tecnica, e le attività professionali, persino manuali. L’indicazione è di preziosa attualità e ci fornisce un’altra conferma della potenza del domandare filosofico, che percorre tutti questi testi. In essi possiamo infatti vedere tale domandare vigorosamente rinno-varsi tramite la voce di Gentile. D’altra parte, a sua volta, lo stesso Gentile, in un necessario scambio di ruoli, tramite questo domandare, persiste a interrogare e a interrogarci. Ci auguriamo che possa profi-cuamente interrogare anche l’attento lettore. Marino Gentile. Gentile. Keywords: storia della filosofia period antico – filosofia romana, la preghiera, segno dei romani – italici antici – pre-sofistica – pre-Georgia –l’uso di ‘classico’ in latino classico ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gentili: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia romana arcaica scuola di Roma – scuola romana – filosofia romana – filosofia lazia – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Valmontone). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo Italiano. Valmontone, Roma, Lazio. Grice: “I love Gentile, and Austin and Ryle do too – he is a classicist – from central Italy therefore he FEELS Roman – he has explored the beginnings of philosophical thinking in Lazio, as opposed to the old schools of Velia, Crotone, and Agrigento --.” Si laurea  a Roma sotto Mercati e Perrotta. Isegna a Urbino. Fonda Il Centro di studi sulla metrica latina. Figlio di Attilio e Giuseppina Cicciarelli. Frequent il Liceo Classico "Ovidio" di Sulmona. Studia a Roma sotto Romagnoli, laureandosi sotto Mercati con “Un Studio critico intorno alla storia di Agatia e alla sua tradizione manoscritta”. Insegna a Roma, al Liceo Classico "Virgilio" di Roma.  Quando Perrotta si avvicendò a Romagnoli a Roma, G. ne fu subito conquistato e Perrotta lo  volle come assistente.  Dal suo maestro Gentili apprese l'arte della filologia e la passione per la metrica latina (“Metrica e ritmica”). Influenza significativamente gli allora giovani della filologica latina capitolina, tra cui Rossi e Privitera che ricorda come quelle "lezioni non avevano il tono pacato delle lezioni ex cathedra. Come docente, Gentili era bifronte. Si può, anzi, dire che bifronte fosse sempre; secondo i casi poteva essere flessibile o intransigente, giocoso o severo". Le sue erano esercitazioni, erano seminari. Bbasava l'insegnamento sulle sue ricerche.  Gli anni non sono facili, sono anni di studio intensi e febbrili per lo studioso che culmineranno, insieme ai volumi sulla metrica, con una serie di lavori sui lirici: oltre alla già ricordata antologia Polinnia, il saggio Bacchilide. Studi e l'edizione di Ancreonte, Insegna a Lecce dove ebbe modo di frequentare Prato insieme al quale divenne coautore della teubneriana edizione dei Poetae elegiaci.La svolta decisiva, tuttavia, fu rappresentata dalla chiamata a Urbino dove nello stesso anno venne inaugurata la Facoltà di Lettere grazie all'impegno di Bo. Cura la Medea di Seneca (Istituto Nazionale del Dramma Antico, Mazara del Vallo). Altre opere: “Lo spettacolo nel mondo antico, Roma, Bulzoni); “Storia e biografia nel pensiero antico” Bari-Roma, Laterza. Cfr. G., Eric R. Dodds mentitore? “La idea della comunicazione nella tradizione classica" Treccani. La cultura e l’opinione pubblica: anche nel mondo romano il rapporto è stato difficile, spesso conflittuale. Le origini della filosofia a Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico. L’arco di tempo della difficoltà dei rapporti e non solo. Tensioni, incomprensioni e scontri non mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci di dissenso da NERONE, che sono le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche con ciò che la mentalità comune pensa dell’imperatore: ma qui la nostra analisi si limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima trova resistenze nella CONCRETEZZA tradizionale dei Romani. L’astrazione filosofica suscita sospetti diffusi, come se si tratta di un imbroglio, un raggiro. Non mancarono le espulsioni dei filosofi a partire almeno dal 190-180 a.C. Celebre la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene., perché giudicati pericolosi per la società romana. Soprattutto tale appare quel Carneade sul quale si interroga don Abbondio nella notte degl’imbrogli. Ma insieme alla filosofia venne colpita la retorica, cioè la tecnica del parlare bene, che pure e d’importazione greca. Svetonio ci racconta delle difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo che nel 161 a.C. un decreto del Senato bandisce dalla città insieme retori e filosofi non-romani. Ma la novità culturale non si arresta per decreto: e la tecnica retorica riprese fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente apprezzata anche dai Romani, purché fosse rigorosamente controllata dall’aristocrazia. E così accadde che nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola di retorica a Roma, per iniziativa di un personaggio non molto famoso: PLOZIO GALLO. E. la scuola dei rhetores Latini, della quale parla anche CICERONE, per testimoniarci dei successo che essa riscontrava presso i allievi di allora e del suo rammarico per non potervi accedere: Arpinate e infatti trattenuto da altri maestri, che lo indirizzavano allo studio della retorica SOLO IN GRECO, come una volta si fa. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di PLIOZIO GALLO? Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i consiglieri di CICERONE agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto didattici, quanto politici. La scuola dei retori latini rischia agl’occhi loro, e agl’occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un pericoloso centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di accesso al potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del maestro, cioè di PLOZIO GALLO col popolare MARIO, in anni di contrasti fortissimi in Roma, culminati nella guerra per il diritto di cittadinanza degli Italici. È sempre CICERONE a informarci, nel trattato intitolato “De oratore”, dell’esistenza di questi maestri e del loro insegnamento, e lo fa per bocca di LUCIO LICINIO CRASSO che, allora censore, li aveva colpiti con un editto di chiusura della scuola. E una scuola di impudenza e di perdita di tempo, agl’occhi di Crasso e dei suoi amici. Essi andano ripetendo che la mente divene ottusa e si rafforza la loro pericolosa sfacciatagggine, mentre i retori si proponeno esattamente il contrario: aprire la mente degli alunni, farli ragionare, spiegare il perché delle cose e dei problemi. Il genere di insegnamento consiste sostanzialmente in una sintesi di filosofia, in vista della formazione di un uomo di cultura completa. Si dove trattare quindi del superamento di una preparazione esclusivamente tecnica e precettistica, a vantaggio di una formazione globale dell’oratore. Questi divenne così il depositario di una cultura in grado di fargli reggere con competenza il timone della repubblica romana. È in questo contesto culturale e sociale pieno di fermenti e di stimoli nuovi che si forma CICERONE.  E. Badi?n, nella recensione al volume Gli storiografi latini tra mandati in frammenti, Atti del Convegno, Urbino, a cura di Boldrini, Lanciotti, Questa, Raffaelli (Studi Urb. n.s. B ), pubblicata in Am. Journ. Philol., una recensione per altro biliosa e insieme presuntuosa, nella stragrande maggioranza dei contributi, dedica al saggio 'Storiografia romana arcaica' appena due parole: "the long essay in unoriginal mediocrity, e.g. a potted survey by G.": un giudizio drasticamente negativo, non sorretto da un'ombra di argomentazione; diverso evidentemente il parre di Musti, che ne ha inserito un lungo brano nel reading, da lui curato, La storiografia greca. Guida storica e critica, Bari. Certamente ognuno, nel recensire un saggio, ha il diritto di giudicare come crede il saggio che recensisce. Ma ha il dovere di motivare con una qualche analisi il proprio punto di vista, se non altro per mettere in grado il lettore di comprendere il senso critico del discorso. Se il Badi?n si fosse soltanto limitato ad esprimere il suo dissenso o il suo scetticismo sulle mie tesi, non avrei ritenuto necessario que quale liquida molto perentoriamente la sto l’intervento. Ma quando egli definisce sic et simpliciter "non ad una "rassegna raffazzonata", il suo giudizio in uno stato originale" il mio discorso, debbo pensare che egli d'ira, provocato forse dal fatto che io non ho citato il suo saggio riducendolo abbia espresso 'The Early Historians', in Latin Historians, ed. Dorey, London, che, esso si, ? realmente una rassegna, certo ben informata e corretta ma senza alcuna pretesa di originalita. Egli stesso del resto lo presenta come un'esposizione panoramica intesa a riproporre alla storiografia una tem?tica da essa obliterata. Faccio notare, d'altra parte, che questo suo saggio stato da me citato, a proposito della cronaca pontificale, nel volume che ho scritto in collaborazione scorso storico nel pensiero greco e G. con Cerri, Le teorie del di Roma, ricerche la storiografia, e che rappresenta l’edizione arcaica, delle dettato infon certa ricon "prag definir? Dunque, giudizio dato mente dotta m?tica" "non sull’argomento. solo un risentimento che, prima ancora che a gl’effettivi contenuti di questo ingiusto, del mio tipo appare un rispetto sa che la studio. alla tecnica di tipo Come quella da nel soleo ? me allora ed tucidideo-polibiano. una nuova tesi, l’opera storiografia 'isocratea'? possibile proposta illustrata, indico come originale che riconduce di Che cosa io intenda quella che con questa storiografia degl’Annales di FABBIO PITTORE Pontificum di Fabio chiarito in un precedente saggio, sulla rivista II Verri, al quale di proposito avevo rinviato all’inizio dell’intervento nel Convegno di Urbino ora ripubblicato in Communication Arts in the Ancient World, ed. Havelock e Hershbell, New York. E avevo esaustivamente pubblicato frammento delle varie ancora: puo dirmi programmatico di il Badi?n se la mia Sempronio Asellione interpretazione del con una nuova A questo punto sarebbe doveroso da parte del Badi?n tornare sull’argomento per dimostrare, se ? in grado di farlo, che l’impostazione del mio discorso ? effettivamente priva di qualsiasi originalit? e non ? altro che una rassegna rabberciata di idee altrui. Universita di Urbino Letteratura: addio al insigne studioso di metrica. Accademico dei Lincei e professore emerito ad Urbino Roma,  (Adnkronos). G., insigne studioso della letteratura classica e in particolare della metrica, è morto a Roma. L'annuncio della scomparsa è stato dato dall'Accademia dei Lincei di cui è socio. Nato a Valmontone (Roma). Professore a Urbino, dove ha insegnato i classici, nella facolta' di Lettere che insieme al rettore Bo ha contribuito a istituire. Fondatore della rivista ''Quaderni urbinati di cultura classica', di cui e' stato a lungo direttore. Filologo rigoroso, G. si dedica allo studio della lirica e della metrica arcaica, curando anche edizioni critiche di testi di diversi poeti. Tra i suoi saggi ''L'Iliuperside nelle figurazioni anteriori a VIRGILIO (si veda)'', ''Metrica greca arcaica'', ''La metrica dei greci, l'edizione critica di Anacreonte, ''Bacchilide. Studi', ''Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca''; l'antologia ''Polinnia. Poesia greca arcaica'' (in collaborazione con Perrotta).  La vasta bibliografia di G. comprende anche ''Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la STORIOGRAFIA ROMANA ARCAICA' (in collaborazione con Cerri), ''Storia del mondo romano'' (in collaborazione con Pasoli e  Simonetti), ''Lo spettacolo nel mondo antico. Teatro ellenistico e teatro ROMANO arcaico', ''Storia e biografia nella FILOSOFIA antica (in collab. con Cerri) e ''Poesia e pubblico nella antichita”, che che e' valsa all'autore il Premio Viareggio-saggistica (Sin-Pam/Ct/Adnkronos) CLASSICITÀ E CONTEMPORANEITÀ: G. NEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI. Kein Volk der Geschichte, auch das begabteste nicht, läßt sich isoliert betrachten. Ein jedes wird durch äußere Anstöße aus zuständlichem Dasein in geschichtliches Leben übergeführt. Weder seine äußere noch seine innere Geschichte kann verstanden werden, ohne die Fäden zu verfolgen, die es mit außen verbinden. (Usener). Il senso vero di una vita piena è quello che essa imprime di più anche sulla quotidianità: la ricerca. Ricerca. Ricerca. Ricerca. Il possesso che noi abbiamo di certi principi (che a loro modo sono verità) è labile e sfuggente – e non appena noi ci illudiamo di stringerlo, ecco scom-pare. (Anceschi). G.  ha visto comparire vari ampi e impegnati ricordi ad opera di alcuni tra i colleghi e allievi più vicini. Con attenzione e devozione vi sono evocati i momenti e i contributi più significativi nella carriera scientifica del grande classicista; nel riper-correrla si dà davvero la possibilità di posare lo sguardo sulla storia della filologia classica, via via italiana europea. A tutti comune è il riconoscimento del forte valore innovativo nell’incessante attività critica e filologica di G., con la fondazione dei Quaderni Urbinati di Cultura Classica, vera e propria officina intellettuale dove su impulso del fondatore e direttore la filologia classica, senza mai smarrire la dimensione tecnica e specialistica, si apre al confronto serrato non solo con l’archeologia, la storia e l’ermeneutica, ma anche con discipline emergenti quali l’antropologia, la semiotica, la linguistica e la sociologia della letteratura. A tale sensibilità può ben connettersi la visione che G.  elabora della traduzione, nella ricerca e nell’asserzione di una teorica eminentemente pragmatica -- Così Catenacci -- e quindi una poetica non astratta, non prefigurata su schemi di modelli già esperiti, così sempre tendendo a «una poetica aperta che si costrui- sca gli strumenti adeguati ad una maggiore portata di comunicazione»: il problema del tradurre è così definito nei termini «di quell’idea cui aspira l’antropologia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche e sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo. Una prospettiva che nello studio e nella traduzione dall’antico (e dell’antico) a G. certo si schiuse in relazione e risposta alle sfide prodotte dai grandi mutamenti culturali e sociali, di rilievo antropologico appunto: una prospettiva d’apertura nell’analisi e negli strumenti applicati all’interpretazione dei testi antichi, e in particolare della Grecia di età ar-caica, che mi è sembrato potesse essere bene espressa dalla prima citazio-ne in esergo, di un altro grande innovatore degli studi classici al volgere di un secolo, Usener. Il passo proviene da un discorso rettorale bonnense riproposto in occasione del Congresso inter-nazionale della FIEC tenutosi a Bonn, e richiamato da Gentili nel famoso saggio   L’arte della filologia. A differenza della fortunata citazione nietzschiana d’incipit («filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire lento»), il rimando a Usener è passato piuttosto inosservato. G. si rifà alla   Rede  bonnense, dal titolo   Philologie und Geschichts- wissenschaft  4 , discutendo della prevalente natura ‘storica’ o ‘scientifica’ della filologia classica e rinvenendo «una impostazione sostanzialmente corretta del problema» nella distinzione attribuita a Usener, «che delimitò i due campi specifici della ricerca, riservando alla filologia la critica e la ricostruzione del testo e all’indagine storica l’interpretazione globale del mondo antico» La prolusione di Usener si apre con un panorama della storia degli studi classici sin dal XVI secolo francese e ugonotto, subito poi riservando  G., dalla relazione presentata al convegno   La traduzione dei testi classici.  Teoria prassi storia  (Palermo), nei cui Atti poi comparve (G.).  All’interno della   Festschrift   per il convegno curata da Schmidt; al congresso bonnense G. presenta il fondamentale intervento   L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo. Sin-cronia e diacronia nello studio di una cultura orale  (G.). 4  U. G. Che la riflessione sulla storia della filologia classica sia strettamente connessa ai temi trattati nella prolusione rettorale è ben chiarito nella postilla che la intro-duce: «Die Geschichte einer Wissenschaft verzeichnet nicht bloß Leistungen. In ihrer Geschichte entfaltet sich ihr Begriff, der nicht unberührt bleiben kann von dem Wandel der Generationen. Die wissenschaftliche Arbeit bedarf der Selbstbe-sinnung, will sie nicht ziellos in der Unendlichkeit des Einzelnen umhertreiben." grande rilievo al genio di Bentley (zur Grundlegung einer Wissenschaft die Wege dazu hat erst das Genie Rich. Bentleys gebahnt), pur riconoscendo solo alla cultura tedesca, nel fatale trapasso, la decisiva spinta perché lo studio dell’antichità classica si costituisse «zu einer geschlossenen philologischen Wissenschaft. Grazie soprattutto all’impegno di dotti come Melantone e Camerarius, la centralità della Parola proclamata dalla Riforma si era rivelata determinante per assicurare la presenza dell’insegnamento del greco nelle nuove scuole volte primaria- mente alla formazione dei pastori evangelici, finché nei rifondatori della letteratura tedesca (Klopstock, Lessing, Hamann, Herder) «der gottergebene idealistische Sinn des norddeutschen Protestantismus», laicizzandosi, risultò fecondo per la rinascita della cultura e della scienza tedesca grazie a figure come Winckelmann, Reiske, Heyne. L’organica sistematizzazione delle varie discipline volte al fine della   Rekonstruktion des Altertums  secondo l’intuizione dei grandi edificatori e teorizzatori dell’Altertumswissenschaft, Wolf e soprattutto Boeckh si fa altresì modello per le nuove filologie applicate alle varie letterature d’Europa, come pure per le discipline storico-filologiche volte allo studio del ben più antico patrimonio di cultura e civiltà delle lingue mesopotamiche, semitiche e arie. A fronte dell’enorme ampliarsi delle conoscenze non solo all’interno dell’Altertumswissenschaft, con diretto riferimento al mondo classico nelle sue varie epoche e aspetti, ma soprattutto all’esterno, negli orizzonti aperti dalle antiche civiltà del Vicino Oriente rivelate dall’archeologia, Usener riconosce l’impossibilità di isolare la civiltà greca dall’attenta considerazione di quegli influssi, certo determinanti nella genesi almeno dell’arte greca: heute zeigen die Reste Babylons und Ninivehs verglichen mit den griechischen und italischen Gräberfunden  jedem, der Augen hat zu sehen, von wo jene hellenische Kunst ihre Anstöße und auf lange hin nachwirkenden Vorbilder empfangen hat». In realtà a Usener preme soprattutto mettere in rilievo che il concetto stesso di storia si è enormemente ampliato, al di là della tradizionale identificazio- ne nella «pragmatische Entwicklung der Haupt-und Staats-aktionen von Fürsten und Völkern», ormai annettendo territori ignoti, nati dall’indagine delle origini delle lingue, dei credi, dei costumi, dei miti (die unbegrenzte Ferne einer vorgeschichtlichen Geschichte. In tale condizione appare al professore bonnense ormai impossibile aderire a una costruzione della filologia quale quella boeckhiana. La filologia, egli afferma, non può più essere intesa come scienza storica, perché radicalmente mutata è la visione stessa della storia propria del tardo XIX secolo 8 . La filologia è piuttosto da  Onde se la moderna POESIA ITALIANA e francese è figlia degli studi umanistici, la letteratura tedesca è invece legata alla nostra filologia in uno stretto rapporto di sorellanza» (Usener). 8  Usener è in proposito molto chiaro: Es bleibt also dabei: eine geschichtliche considerarsi ein Studienkreis, un insieme di discipline che vertendo sulla parola scritta, e così assolvendo alla funzione di arte o metodo di decisivo valore nel fissare i contenuti della conoscenza storica, costituisce «die letzte Voraussetzung aller geschichtlichen Forschung: una filologia come tecnica dell’interpretazione che, potenziata dalla prospettiva comparatista, assunse forse agli occhi di Usener i tratti di «una sorta di antropologia. Ho indugiato sul saggio di Usener perché l’insieme della sua opera, spesso poco apprezzata dal mondo filologico tedesco contemporaneo, gode da anni di crescente attenzione, anche in ragione degli interessi ‘trasversali’, comparativi e  religionsgeschichtlich  che l’attraversano e innervano, non privi di influssi sullo sviluppo della teologia dapprima protestante e poi cattolica nella Germania, e forse anche sulle origini degli studi novecenteschi italiani di storia delle religioni e di storia del cristianesimo. Notevole è, nelle pagine di Gentili sull’arte della filologia, il suo rifarsi a Usener. Sin dal titolo, a Nietzsche esse intendono forse associare proprio il filologo bonnense, quasi provocatorio in una prolusione rettorale nel definire Kunst l’essenza dell’attività filologica, pri- Wissenschaft ist die Philologie nicht. Sie konnte und mußte als solche erschei-nen zu der Zeit, als die Geschichtswissenschaft in ihrem heutigen Begriff noch nicht vorhanden war. Es war die Zeit, wo die moderne Geschichtswissenschaft zuerst ihre Blüten trieb. Alles hat seine Zeit». 9  «Wenn es also wahr ist, daß der Boden aller geschichtlichen Wissenschaft das geschriebene Wort ist, so folgt, daß die Kunst, welche dasselbe feststellt und deutet mittels ihres grammatischen Vermögens, die letzte Voraussetzung aller geschicht-lichen Forschung ist. Diese Kunst haben wir in der Philologie erkannt» (Usener). Così Momigliano A partire soprattutto dal seminario a Pisa coordinato da Momigliano e subito pubblicato come  Aspetti di Hermann Usener filologo della religione  (Arrighetti). Sono apparse negli ultimi anni edizioni italiane di varie opere di Usener, tra le quali Usener; Usener; Usener. ssai notevole e davvero anticipatrice, nonché oggi di particolare attualità, è la lettera al teologo bavarese I. von Doellinger, nella quale Usener afferma che «lo scopo ultimo ed inespresso dei miei sforzi è quello di aiutare a preparare l’unità della Chiesa della nostra nazione», passo su cui attira l’attenzione Momigliano. È opportuno ricordare l’attenta, e assai poco nota, presentazione che del   Le-benswerk  di Usener, grande maestro che l’Italia colta quasi ignora, da Pestalozza, sulla rivista del modernismo cattolico milanese «Il Rinnovamento» cessata quello stesso anno: su Pestalozza, in quegli anni presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano primo libero docente e poi primo do-cente in Italia di Storia delle religioni, vd. i riferimenti in Benedetto Non sorprende il dissenso, rispettoso ma chiaro, che subito espresse il trenta-quattrenne Wilamowitz circa la visione della filologia presente nella Rektoratsre-de , prospettandone una ben diversa: «Die alte Poesie (und natürlich ebenso Rechtmariamente volta a fondare l’affidabilità della   parola scritta. La centralità del testo, oggi preferiamo dire: quel testo visto da G. come struttura complessa di materiali linguistici, d’IMPLICAZIONI (IMPLICATURE) metrico-ritmiche, referenziali e pragmatiche nel cui processo interpretativo «una pluralità di discipline» è coinvolta (uno  Studienkreis , appunto) 16 . Senza qui proporsi di passare in rassegna l’ampia, varia, settantennale attività scientifica di G., si cercherà piuttosto di soffermarsi su alcuni aspetti, quali soprattutto il rapporto con la figura di Perrotta e in genere con gli studi italiani di filologia classica nella prima metà del Novecento, la produzione e la serie di saggi di portata fondativa scritti da G., nei quali evidente è una svolta per gli studi sulla lirica greca, e notevole l’interesse verso temi e problemi della traduzione dall’antico. L’esordio di G. si ha e nel pieno della Seconda guerra mondiale con un articolo nato dalla tesi di laurea con MERCATI (si veda), dedicato soprattutto a passare in rassegna quattro inesplorati codici delle  Storie di Agazia conservati in biblioteche italiane (tre Vaticani e un Marciano) . In quegli anni drammatici il giovane studioso li collazionò in parte, avendo in animo di preparare una nuova edizione critica dell’opera, in vista della quale non tace anzi l’intenzione di provvedere a «un nuova collazione accurata» di un manoscritto Vulcaniano conservato nell’allora inaccessibile Leida. Il netto cambiamento di interessi e una decisa virata ver- und Glaube und Geschichte) ist tot: unsere Aufgabe ist, sie zu beleben […] dann  empfinde ich, daß Philologie doch etwas für sich ist, oder wenigstens ihr τέλος  hat (lett. in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder), e cfr. Sassi. G.  Philologie in dieser Auffassung ist nicht eine Wissenschaft, sondern ein Stu-dienkreis (Usener). Sin d’ora rimando alle molte informazioni e osservazioni desumibili dal   Ri-cordo di G. di Angeli Bernardini; Catenacci; Cerri; Lomiento; G. A. Privitera, commemorazione lincea lincei.it/ files/documenti/ Privitera_commemorazione_G. .pdf  ; Tedeschi. Cerri. Non si tratterà di Gentili editore e critico del testo, tema che di per sé richiederebbe apposita discussione. Gentili. Come chiaramente lascia intendere la chiusa dell’articolo: «Da quanto abbia-mo detto appare chiaro che la sola finora ad avere almeno l’aspetto di edizione cri-tica ed anche il metodo è quella del Niebuhr, in quanto si fonda sul valore effettivo di una parte della tradizione. Ma l’uso di tutto il materiale manoscritto, secondo gli intendimenti che ho esposto, trae con sé la necessità di una recensione del testo di Agatia, che si fondi su basi più complete e quindi più solide. E questo compito, se le forze non mi verranno meno, spero di poter assolvere».   Vd. in particolare ccorrerebbe perciò una nuova collazione accurata  [so la poesia greca arcaica si legano all’incontro con Perrotta, dal 1938 sulla cattedra romana di Greco come successore di Romagnoli e impegnato nel rinnovamento su modello crociano dello studio della lirica greca ( Saffo e  Pindaro. Due saggi critici  uscì presso Laterza), ma attento altresì all’esegesi puntuale di frammenti e ritrovamenti papiracei, in particolare con interventi accolti nei pasqualiani STUDI ITALIANI DI FILOLOGIA CLASSICA nota è in particolare la polemica intorno al poeta degli epodi di Strasburgo. Un’importante rassegna ad opera di Perrotta su   La filologia classica nell’ultimo ventennio , apparsa per il Natale di Roma in un volu-me promosso dal Ministero dell’Educazione Nazionale (Perrotta), se è priva non solo di elogi ma si può dire di qualsiasi menzione del morente Regime, è peraltro chiarissima sin dalle prime righe nell’affermare che il «vero progresso segnato nel precedente ventennio dalla filologia classi-ca in Italia è spiegabile perché essa «ha sentito profondamente l’influsso dell’estetica moderna, anzi di tutto il pensiero moderno», con sicuro ri-ferimento al crocianesimo e in genere agli orientamenti antipositivistici: «superate le polemiche del periodo precedente, la filologia classica ha preso un nuovo indirizzo vivificata dalle correnti nuove della cultura moderna, è divenuta meno arida e pedantesca», e finanche «abbondano i saggi critici, che una volta avrebbero destato scandalo». Dopo un rapido ma attento ragguaglio di commenti, edizioni critiche ed edizioni di papiri pubblicati nel periodo considerato, l’articolo si conclude appunto notando che mentre «in qualunque campo la filologia classica italiana può sostene-re dignitosamente il confronto con quella delle altre Nazioni», proprio «nel campo della critica letteraria, essa supera di gran lunga la FILOLOGIA CLASSICA di qualunque altro Paese del mondo. Cinque anni dopo, nell’Italia e nell’Europa, presentando ai let-tori insieme al condirettore Funaioli la nuova rivista «Maia» («nome caro a due grandi poeti, a Gabriele d’Annunzio e a John Keats»), in sostan-ziale continuità e coerenza con se stesso Perrotta indicherà la via della ripresa dello «studio della civiltà antica, per noi moderni» in un «rinnovato umanesimo», fondato sull’incontro tra l’eredità del classicismo europeo  del manoscritto, che mi propongo di fare quanto prima»; si tratta del Cod. Vulc. 54, usato da Bonaventura Vulcanius per l’ editio princeps  del testo greco del   De impe-rio et rebus gestis Iustiniani imperatoris libri quinque , uscita a Leida (cfr. Dewitte). Vulcanius (Smet), e professore nella nuovissima università di Leida. Lomiento Su circostanze e contesto della successione illuminanti scorci in Canfora Sulla quale, e sulla persuasiva identificazione in Ipponatte sostenuta da Per-rotta, vd. Gamberale; Sisti; Morelli. Perrotta degli ultimi due secoli (la tradizione gloriosa di Goethe e di Humboldt, di Winckelmann e di Schlegel, di Shelley e di Keats, di Hölderlin e di Nietzsche, di FOSCOLO e di LEOPARDI, di CARDUCCI (si veda) e di PASCOLI) e una pratica filologica che, nutrita di adeguata consapevolezza critica e storica, trascendesse le mai del tutto sopite conseguenze delle polemiche, e dei connessi schieramenti, che avevano lacerato gli studi classici italiani d’inizio secolo: Il nostro ideale è il filologo che abbia l’abnegazione d’un grammatico alessandrino e l’entusiasmo d’un umanista del Quattrocento, la tecnica filologica e il senso storico dei grandi filologi dell’Ottocento, il senso artistico e la coscienza critica dei migliori critici letterari dell’età nostra. L’ideale della nostra rivista è la storia senza lo storicismo, la filologia senza il filologismo, la critica estetica senza l’estetismo e il vacuo filosofismo. Non manca subito di séguito una citazione da Nietzsche, dalla qua-le risulta la filologia nel suo senso più elevato rappresentata, come me- glio non si potrebbe, con alta fantasia poetica. Né manca un richiamo a Nietzsche, in quella stessa prima annata di «Maia», nell’ampia e intensa commemorazione che Perrotta dedicò nel decennale della morte a Ettore Romagnoli 28 , accostato a Nietzsche nell’accesa e immaginifica vita di filologo, quindi rievocato come professore universitario a Catania  Funaioli – Perrotta. Che punto nodale del «discorso sulla filologia» sia «la divisione o meno delle competenze tra filologia e critica letteraria in senso lato» rimarrà, con altra prospettiva, costante elemento di riflessione per Gentili: cfr. G.. L’ammirazione di Perrotta per Nietzsche filologo è messa in rilievo da Gigante, il quale anche suggerisce che mediatore per il filologo italiano della conoscenza di Nietzsche possa essere stato Croce; un’emendazione del giovane Nietzsche («oltre a giudicare il carme nel suo insieme con la finezza e la profondità ch’erano proprie del suo genio») è lodata e accolta in Perrotta. Un certo paradossale irrigidimento di Perrotta «negli ultimi tempi in cui poté ancora esercitare un sensibile influsso negli ambienti culturali, onde egli afferma sempre più polemicamente e rigidamente la sua fedeltà al verbo crociano commemora entusiasticamente il Romagnoli, proclama ripetutamente la indipendenza dei supremi valori poetici da ogni condizionamento ambientale e culturale» noterà Paratore (appunto a intendere «quella sopravvalutazione della critica let-teraria che è sembrata così singolare in un uomo di così severa formazione filolo-gica» è dedicata la commemorazione lincea di Paratore 1963a, in gran parte rifusa nel profilo Perrotta  in Grana). È utile citare il passo: «Federico Ritschl soleva dire che Nietzsche giovinetto concepiva una dissertazione filologica come un romanzo. Il grande filologo non intendeva certo, con queste parole, spregiare l’attività filologica di Nietzsche giovane, del quale egli presagì il genio. Ma un intuito profondo gli fa coprire in Nietzsche qualche cosa di singolare, di acceso e di appassionato, che non faceva assomigliare le sue dissertazioni, pur dottissime e condotte con metodo impeccabile, a quelle degli altri. Poichè un uomo dotato di molta immaginazione(attraverso la testimonianza del fraccaroliano e romagnoliano Guglielmino), in particolare quando  leggeva con predilezione i lirici greci, e, traducendoli, comunicava agli uditori con la scelta felice delle parole e delle espressioni, che potessero rendere con maggiore adesione il pensiero e il sentimento dell’antico poeta, e anche con l’inflessione della voce, quello che egli stesso sentiva. Il commento era sobrio, scevro d’in-gombrante erudizione: accennava a questioni controverse dibattute dai filologi solo quando avevano importanza innegabile per la retta interpretazione di un passo dub-bio, e in tal caso riduceva la questione all’essenziale. È anche quando, a cura di Perrotta e del suo as-sistente G., usce   Polinnia , antologia della lirica greca ad uso dei licei destinata a grande fortuna nella scuola italiana della seconda metà del Novecento, sino alla recente e rinnovata terza edizione. Non fu la prima antologia dei lirici greci destinata alla scuola e impostata con rigore scientifico. Dopo che i programmi, con LA RIFORMA GENTILE, più decisamente aprirono ai lirici le porte dei licei, si diffusero antologie scolastiche nate in un periodo di estetica esasperata, di olimpico dispregio per tutto quello che si chiama (e la parola è oltraggio) FILOLOGIA, come vollero osservare prefando i loro   Lirici greci scelti e commentati  Ugolini e  Setti che a quell’andazzo con efficacia e serietà reagirono, avendo per modello essenzialmente   Aglaia , la  nuova an-tologia della lirica greca da Callino a Bacchilide  pubblicata da Lavagnini. In sede di valutazione storica è giusto rilevare che ad   Aglaia  si sono ispirate tutte le antologie successive che si  finirà sempre per mettere, anche senza averne affatto il proposito, perfino in una dissertazione filologica, un po’ della sua immaginazione. Questo avveniva spesso a Romagnoli (Perrotta). Le pagine di Perrotta sono in parte ripro-dotte nella sezione su Romagnoli in Grana Nel   Profilo di Bruno Gentili  premesso da Carlo Bo al I volume dei ricchissimi  Scritti in onore di Bruno Gentili , Romagnoli ricorre accanto a Perrotta come pre-senza utile a comprendere in Gentili l’«uomo dotato di spirito creativo, quale ge-neralmente posseggono soltanto gli scrittori e in modo più specifico i poeti. La sua straordinaria perizia filologica è strettamente collegata al suo gusto e alle sue doti di creatore. Tutte cose che si possono riscontrare nella storia della sua formazione, perché accanto a uno dei suoi primi maestri, Ettore Romagnoli, a un certo punto si è accostato uno studioso come Gennaro Perrotta» (in Pretagostini  Nella   Prefazione  a Ugolini – Setti 1940 due sono «tra i lavori scolastici» quelli citati dai curatori perché risultati utili «per il loro carattere più spiccatamente scientifico»: oltre all’antologia di Lavagnini si fa cenno a un’opera di A. Taccone, in cui è da ravvisarsi l’  Antologia della melica greca  pubblicata con pre-fazione del maestro Fraccaroli, attenta e informatissima ma ormai invecchiata a fronte delle scoperte papiracee accumulatesi nei decenni successivi. Del libro di Ugolini e Setti dopo usce un’edizione ampliata e rinnovata, in seguito ristampata: Ugolini – Setti possono definire serie, a cominciare da   Polinnia » 32 , senza dimenticare che in pieni anni Trenta la volontà di chiarire agli alunni di liceo l’«enigma psicologico» di Saffo e della sua passione dettò all’antologia di Lavagnini toni ben più diretti 33  di quanto dieci anni dopo accadrà a Perrotta (cui si deve la sezione su Saffo in   Polinnia ), e più in linea con le posizioni cui Gentili espressamente approderà negli anni Sessanta. I cenni di Perrotta alle «gioie leggere del tiaso di Saffo» insieme a un certo riemergere delle preoccupazioni per la difesa della poetessa dalle accuse di immoralità   tor-nano a riflettere ambagi e premure proprie peraltro dei più noti studiosi di Saffo da Welcker a Valgimigli: impostazione da Perrotta stesso a suo tempo esplicitamente confutata in  Saffo e Pindaro Così Degani. Nell’introduzione alla sezione su Saffo in Lavagnini, si dice che «Saffo visse facendo della sua casa un centro di culto ad Afrodite, alle Muse, e alle Cariti. Le più nobili e le più belle fanciulle di Lesbo e dell’Asia vicina venivano a lei per essere ammaestrate nella poesia e nel canto, ed essa vive tutta in questa compagnia di fanciulle. Anzi l’affetto per le scolare assume un trasporto così im-petuoso e sa trovare accenti così caldi da prendere i colori della passione di sesso, sicché la Lesbia resta ancora, almeno in parte, un enigma psicologico per noi, che siamo così lontani da quel suo mondo. Ivi è inoltre il rimando alla trattazione che del tema Lavagnini aveva dato nella sua precedente Nuova antologia dei frammenti della lirica greca  (Lavagnini), dall’ incipit  e dalle tesi assai esplicite, e con esplicito rifarsi a Freud nell’individuare in Saffo «una  invertita : essa trasferì sopra creature del medesimo sesso il potenziale affettivo ( libido  secondo la termi-nologia di Freud) che avrebbe dovuto normalmente rivolgere su persone del sesso opposto. Al di là dell’interpretazione di Saffo, le pagine di Lavagnini meritano di essere particolarmente segnalate in relazione alla prima (s)fortuna italiana della psicanalisi, quando si pensi che la RIVISTA ITALIANA DI PSICOANALISI, diretta da Weiss, è fondata e soppressa due anni dopo: ricco di informazioni in proposito, benché talora disorganico e confuso, Zapperi Per più ampi riferimenti su molti dei temi qui e di seguito trattati rimando a Benedetto Cfr. Perrotta, in pagine non prive di sarcasmo e oggi dimenticate: «Infine, non giovano a nulla le discussioni, interminate e interminabili, sull’amo-re e sulla purezza di Saffo. I Welcker e i Wilamowitz hanno difeso la poetessa nobilmente, ma non si sono accorti che nel loro zelo appassionato essi stessi non erano troppo lontani dai grammatici dell’età romana, da quel Didimo che disser-tava dottamente  an Sappho publica fuerit In realtà, Saffo non ha bisogno di essere giustificata: essa che, se potesse udire i suoi accusatori e i suoi difensori, non intenderebbe neppure i termini della questione. La soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz non risolve nulla Quando per spiegare il tiaso amoroso di Saffo, si parla di un convento, di un pensionato di fanciulle, di un conservatorio di musica e di declamazione, e perfino d’un salotto letterario, e perfino d’un  club  estetico di donne, non si spiega nulla; e per giunta non si mostra né senso storico, né gusto irre-prensibile […]. E, ancora peggio, si è costretti a ridurre ad elemento secondario, ad ammettere a mala pena, facendo di tutto per togliergli ogni importanza, l’amore di Saffo per le amiche; ma per Saffo l’amore era tutto. Significativo il pieno consen [La parte curata da G. comprende tra gli altri Alceo, Anacreonte e Bacchilide, i tre autori di cui più egli si occupa. Nella difesa che G. fa (come già Coppola e Perrotta) dell’allegoricità del famoso frammento alcaico ora V. citato da Eraclito stoico («nella nave è rappresentato lo Stato, cioè la città di Mitilene, minacciata dalla rovina, tra affinità e differenze piace scorgere lo spunto delle future pagine sulla pragmatica dell’allegoria della nave. Superando i vincoli ancora operanti in   Polinnia  connessi al tradizionale confronto ‘estetico’ con Orazio, tramite l’approccio pragmatico-espressivo Gentili giungerà lì a riconoscere nell’allegoria lo strumento co-municativo strategicamente più idoneo e perciò scelto in varie occasioni da Alceo poeta e politico al fine di «trasmettere il messaggio in un linguaggio velato e allusivo  comprensibile solo  dall’uditorio dei compagni. Crocianamente priva di introduzione sia generale, sia ai singoli poeti,  Polinnia  riserva particolare attenzione alle presentazioni dei singoli carmi. Spiccano lo spazio e il ruolo assegnati all’esposizione della metrica, «quelle sequenze di lunghe e di brevi, che avevano pari dignità grafica rispetto ai caratteri del testo, e apparivano ben in evidenza, non erano nascoste a fondo pagina, magari in una nota», sì da divenire per un liceale il primo impatto reale con la metrica greca. Ciò appunto dovettero prefiggersi i curatori, con quella passione per gli studi metrici che la scarna premessa   Ai lettori  rivela: Riteniamo che l’accurata interpretazione metrica sarà accolta con favore. Essa ha per suo fine principale la lettura metrica, senza la quale non è possibile sentire e gustare un poeta greco. La metrica greca non è, come purtroppo credono ancora molti, né una scienza inesistente, né una scienza che permetta ad ognuno d’interpretare i versi come vuole, ma una scienza che è facile imparare, purché sia studiata sul serio. Per agevolare la lettura metrica, ci siamo presa la libertà di segnare gli  ictus  dei piedi, benché agli  ictus  non crediamo: certo i Greci non avevano l’accento dinamico, ma L’ACCENTO (cf. GRICE) musicale. Poiché la lettura metrica è indispensabile: coloro che traggono, dalla giusta constatazione che la nostra lettura con gli  ictus  non corri-so riservato in nota alle posizioni esegetiche di Lavagnini: «Una pagina coraggiosa scrive, invece, nel senso contrario, il Lavagnini, col quale consento in tutto, benché abbia meno fiducia di lui nella psicanalisi. Perrotta – G. . Sulle   Allegorie omeriche  del non altrimenti noto Eraclito nell’àmbito dell’esegesi antica di Alceo, e in particolare sul tema delle immagini marittime e il loro uso con significato politico da parte del poeta di Mitilene, rimando alla messa a punto di Porro in G. G. Si ricordi per confronto la collana laterziana degli  Scrittori d’Italia , priva d’introduzione e di qualsiasi apparato interpretativo. Senza introduzione generale e ai singoli poeti sarà anche la successiva edizione del 1965: Perrotta – G. Sono parole dalle pagine molto belle, di tono e sapore memorialistico, che alla metrica di   Polinnia  dedica Di Benedetto 2001, 141 sggsponde alla lettura degli antichi, la pessima conclusione dell’inutilità di ogni lettura metrica, fanno un’imperdonabile rinunzia, che generalmente tende a nascondere la pigrizia o l’ignoranza. Non diverse considerazioni, e non diversa passione didattica, animano la prefazione a   La metrica dei Greci, il saggio che rappresenta lo sdoganamento» di tale disciplina nella scuola e, più in generale, negli STUDI CLASSICI ITALIANI. Val la pena rileggere l’inizio di quella prefazione: È sentita IN ITALIA la mancanza di un MANUALE DI METRICA ad uso dei non iniziati. Tale mancanza ha nociuto sino ad oggi all’insegnamento di questa disciplina soprattutto nelle scuole medie, poiché spesso i docenti, mossi da uno strano scetticismo considerano di scarso interesse la conoscenza della metrica greca, talora ritenendola del tutto estrinseca alla poesia, pura invenzione di alcuni studiosi moderni anche perché già vi si rinvengono temi e motivi che ispireranno per decen-ni l’indefessa indagine metrica di G.: In realtà la metrica non è né estrinseca alla poesia, né invenzione dei moderni. Come ho già dimostrato nella mia   Metrica greca arcaica , alcune teorie metriche dei moderni, quelle più attendibili, sono già contenute nella migliore tradizione dei metricologi antichi. La metrica è necessaria, non solo ai fini della critica testuale, ma anche ad una più compiuta intelligenza del testo poetico. Poiché metrica e poe-sia furono nell’antica Grecia intimamente connesse, in funzione reciproca. È un errore avvicinarsi allo studio delle forme metriche con pregiudizi scolastici. Soltanto dimenticando gli schemi e seguendo i metri nel loro sviluppo storico, si può davvero intendere il valore e la necessità dello studio di questa disciplina. Notevoli sono il precoce apprezzamento per il valore dei metricisti antichi e la visione non ancillare degli studi metrici, da intendersi non Catenacci G. Circa venticinque anni dopo, tra le cause dell’isolamento in Italia dello studio della metrica greca «nel ghetto degli specialisti e guardato al pari di una disciplina esoterica con sospetto e diffidenza», G. tornerà a cita-re l’idea largamente diffusa «della impossibilità di costruire per la versificazione greca una teoria coerente ed univoca», inoltre aggiungendo l’influsso avuto dalla nostra cultura degli anni Trenta «che aveva reciso alla radice ogni altro impulso all’indagine critica che non procedesse nel solco della teoria estetica dell’arte»: cfr. G. Sensibilità critica in cui Cerri, ravvisa l’indizio di una attitudine ‘an-tropologica’ già allora in qualche modo operante nella filologia di Gentili: «Contro l’orientamento che era invalso tra i metricisti di allora, non solo rivaluta le teorie e le analisi dei metricisti antichi, ma basa costantemente su di esse la propria trat-tazione è del tutto evidente che ciò avviene non solo e non tanto perché le ritenga ipotesi scientifiche acute e azzeccate, ma soprattutto perché le assume come testimonianza diretta di una sensibilità ritmico-musicale diversa dalla nostra, di un linguaggio fonico-gestuale specifico di quella civiltà e di quell’orizzonte mentalecome meramente funzionali o subordinati alla critica del testo, ma in-dispensabili innanzitutto per una piena comprensione dell’antica poesia, nella convinzione «che la metrica non sia un fatto esteriore, ma in funzio- ne della poesia stessa», come è poi ribadito all’inizio dell’  Introduzione . Lì è anche subito affermata l’unità ritmica del verso antico, la sua strutturale unione con la musica, onde «posta l’unità del verso greco, non sarà più legittimo parlare di piedi, ma soltanto di  cola. Rievocando di recente le lezioni di metrica tenute da Gentili alla Sapienza nell’immediato dopoguerra, Privitera ha colto nella «prospetti-va storica» l’aspetto che in quelle esercitazioni più colpiva, quando «a differenza dei trattatisti, che nei manuali si limitano ad esporre le loro interpretazioni, Gentili citava anche le opinioni dei metricisti antichi e dei metricisti moderni: come con ampiezza appunto avviene in   Me-trica greca arcaica , il volume dedicato a Perrotta, anch’esso aperto dalla rivendicazione della metrica come «una scienza al pari delle altre discipline classiche», tutta «nella migliore tradizione della filologia ellenistica» 46 . Conoscenze ampie sugli studi metrici degli ultimi centocinquant’anni attestano i primi due capitoli del libro, dove dapprima (Studi metrici: brevi cenni) G. delinea con ricchezza di esempi e osservazioni lo svolgersi delle principali analisi e teorie me- triche da Hermann (con cui «la scienza metrica nacque nel secolo scor-so» sulle orme di Bentley e di Porson) a Westphal, a Usener, a Wila- Privitera, commemorazione lincea.  G. Ho consultato la copia conservata presso la biblioteca del Centro di papirologia Vogliano’ (Dipartimento di studi letterari, filologici e linguistici dell’Università degli Studi di Milano, con  ex libris  dello stesso Voglia-no (segn. Vgl.II.B.61), in quegli ultimi anni di vita alle prese con lo studio rimasto incompiuto   La lirica eolica e Pindaro nella critica di Hermann.  La cui «Entdeckung eines indogermanischen Urverses già è lodata in Usener Di Usener è rammentato con interesse il trattato   Altgriechischer Versbau: ein Versuch vergleichender Metrik   (Usener), con la sua «analisi comparativa del-la metrica greca con la metrica germanica». I capitoli IV e V dell’opera di Usener consistono di una rassegna, desultoria ma affascinante, volta a dimostrare la predi-lezione dei popoli indoeuropei per una struttura metrica base in otto sillabe ancor ravvisabile nei testi sanscriti, avestici, nelle più antiche ricostruibili forme metriche greche e latine, nei canti popolari germanici, slavi settentrionali e meridionali, li-tuani: nota è l’icastica reazione negativa di Wilamowitz alla lettura del libro («In metrischen Dingen vermag ich nicht in kurzem meine Differenz auszudrücken, weil sie zu tief geht. Ich kann überhaupt das einheitliche griechische Volk nirgends finden, also auch keine urgriechische Sprache und keinen urgriechischen Vers und keine urgriechische Religion», lett. in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder). Dal punto di vista della linguistica storica e della metrica comparativa indoeuropea severo giudizio sul lavoro di Use-ner dà Campanile, cfr. anche Morelli mowitz, a Schroeder, a Maas 49 . Il successivo capitolo (  Metrica e musica ), prendendo spunto dai lavori di R. Westphal volti a «applicare le leggi dell’isocronia musicale ai metri greci», tentativo fallito ma assai noto in Italia per l’applicazione che ne diede Romagnoli nei suoi   Poeti lirici, si segnala per la riflessione sulla centralità del rapporto metrica-musi-ca, cioè poesia e musica, e sulla necessità di considerarlo storicamen-te, alla luce delle svolte nella storia della cultura greca dall’arcaismo sino a Timoteo e poi all’età ellenistica, quando «il distacco della musica dalla poesia è definitivo; questa sarà destinata quasi sempre alla lettu-ra» 51 . Noti sono i meriti di Perrotta nella rinascita degli studi italiani di metrica antica, nei quali «egli raggiunse una competenza che lo pose in una condizione di assoluto predominio in Italia. Così Paratore all’indomani della morte del collega grecista nell’ateneo romano, rimarcandone la visione della metrica quale «premessa indispensabile per l’intelligenza di un altissimo testo poetico» e osservando la pro-fonda coerenza della «esemplare e severa scienza metrica del Perrotta» con l’intera sua concezione degli studi classici (nella metrologia di Perrotta veramente filologia e critica si dànno la mano in una sintesi tra le più feconde : nel timbro certo ‘romano’ ma già storiografica- [Cui già allora Gentili imputa gravi limiti metodologici, per la sopravvalutazione empirica’dell’observatio metrorum  e il connesso profondo scetticismo per tutti i problemi metrici di  Urgeschichte »: G. Particolarmente il secondo volume (I Poeti Lirici. Terpandro, Alceo, Saffo, Bologna) è costellato di «traduzioni in segnatura moderna della realizzazione sonora», cioè vere e proprie trascrizioni per musica dei frammenti dei tre antichi autori; almeno da un punto di vista storico non a torto Stella indica come merito di Romagnoli quello di avere richiamato l’attenzione fin dai primi anni del Novecento sul binomio   poesia-musica , in stretta interdipendenza di nota e parola, nei poeti greci fino all’età ellenistica ROMANA, e di aver così dato avvio ad una compren-sione profonda e meno letteraria di Saffo e di Pindaro, di Eschilo e Aristofane: indicava nuove strade per future ricerche». Le indagini sulla musica greca anche in età ellenistica cono-scono oggi nuovo impulso: vd. Martinelli Messi in rilievo da Albini, il quale anche ricorda che «quando la morte lo sorprese, Perrotta stava ultimando un libro sul saturnio», sul contenuto del quale vd. la ricostruzione di Morelli. Resta il paradosso, segnalato da Morelli sin dall’inizio del suo studio, che «nella produzione di Perrotta, anche tenendo conto delle notazioni occasionali e delle scansioni fornite in   Polinnia , i contributi di carattere metrico risultano nel complesso piuttosto scarsi ed esigui, specie se rapportati all’importanza che egli annetteva notoriamente alla materia e agli anni spesi nelle relative ricerche fin dall’adolescenza. Paratore. È visione che si ritrova bene espressa anche nell’esordio del I capitolo di   Metrica greca arcaica: Critica testuale, metrica, interpretazione estetica sono problemi che devono essere affrontati contemporaneamente dal filologo classico; essi rappresentano una unità indissolubile, inscindibile. È merito grandissimo dei grammatici alessandrini se essi, unitamente all’esame critico delmente atteggiato della valutazione di Paratore, la più grande scuola di metrologia classica fiorente in Italia», derivata da Perrotta, si ricapitola e si identifica nel nome di G. L’esperienza di Perrotta metricista non può disgiungersi dal magistero pasqualiano. Con il ricordo di conversazioni avute con Pasquali «su problemi importanti di metrica greca» Gentili scelse di aprire il suo contributo su Pasquali e la metrica nell’àmbito del convegno Pasquali e la FILOLOGIA CLASSICA: Ricordo con perfetta lucidità l’esame metrico cui fui sottoposto al nostro primo incontro: mi chiese se ero in grado di scandire un carme di Bacchilide o di Pindaro; risposi affermativamente. Non ne fu del tutto convinto; mi porse il testo di Bacchi-lide e mi invitò a leggere metricamente il quinto epinicio, chiedendomi prima in quale metro fosse composto. Risposi: «Dattilo-epitriti» e lessi tutta intera la prima triade strofica. Ne fu sorpreso, forse perché dubitava che un giovane non formatosi alla sua scuola fosse in grado di superare questa difficile prova. I colloqui con Pasquali, avvenuti a Firenze nell’immediato dopoguerra, si incentrarono (continua Gentili) quasi esclusivamente su un problema che particolarmente angustiava il grande filologo, quello cioè «delle re-sponsioni impure nei lirici corali e nei  cantica  della tragedia e della com-media del quinto secolo», in relazione soprattutto alla soluzione data da P. Maas in due articoli dove «egli crede di poter negare le responsioni impure in Bacchilide e in Pindaro, correggendo ar-bitrariamente il testo nei luoghi dove esse appaiono». Ciò che qui conta mettere in rilievo è la persuasione che Gentili trasse da quegli incontri dell’esigenza, in Pasquali riconoscibile, di affrontare il tanto discusso problema delle libere responsioni fra strofe e antistrofe non più nella pro-spettiva astratta e schematica indicata da Paul Maas ma in una prospettiva più attenta alla fenomenologia del rapporto metro-ritmo melodico: che cioè, più in generale, Pasquali già avesse  testo, curarono nelle loro edizioni critiche la divisione in strofe, in στίχοι e in κῶλα  dei cori lirici, tragici e comici. Se oggi il filologo dissente da essi nell’interpretazione, non potrà certo dissentire nel metodo. Conoscere, dunque, la metrica di un poeta significa poter intendere più profondamente la sua stessa poe-sia, significa poter penetrare nell’intima armonia e musicalità del verso.  Tratto ereditato da Pasquali» lo dice Gamberale G. Per la centralità nella ricerca metrica di Gentili dell’inter-pretazione dei dattilo-epitriti, «così denominati nel secolo scorso da Westphal», nella dialettica tra individuazione di  cola  unitari e sistematizzazione metrica otto-centesca di origine boeckhiana vd.  e. g.  G. – Giannini Così Gentili 1950, 21, in un passo e in un contesto che sembrano conservare qualche traccia delle conversazioni con Pasquali di quegli anni (la prefazione reca la data, ma Gentili informa il lettore che la prima parte del libro era già in bozze). Si ricordino le polemiche degli anni seguenti con Maas circa luoghi bacchi   Sent from the all new AOL app for iOSnetta e chiara l’idea che la poesia lirica sia essa monodica o corale e la musica erano i mezzi di comunicazione di una cultura che, attraverso il linguaggio poetico, i ritmi e le melodie, trasmetteva oralmente i suoi messaggi in pubbliche audizioni. In parte riguardante l’àmbito delle responsioni, e in polemica con Maas, fu l’intervento di Gentili compreso nella raccolta di contributi in memoria del maestro Maia alcuni problemi qui discussi», è detto in apertura, «furono non di rado il tema preferito da Gennaro Perrotta nelle  conversazioni con i suoi allievi, i μετρικώτατοι. L’articolo è interessante anche per l’attenzione che di-mostra, pur con vari dubbi, verso la colometria antica quale attestata dai pa-piri di Anacreonte e di Bacchilide, già in qualche modo preludendo a quel- lo che diverrà, soprattutto dagli anni Ottanta, uno degli àmbiti di studio più cari a Gentili e alla sua scuola 60 .3. Come per l’Italia e il mondo, così per Bruno Gentili gli anni Sessanta videro prepararsi e poi compiersi svolte decisive. Poco dopo la precoce scomparsa di Perrotta, G. divenne all’Università di Urbino ordinario di Letteratura greca, insegnamento tenuto per incarico da alcuni anni, sin dall’istituzione della locale Facoltà di Lettere di cui è subito figura cardine. La prolusione urbinate, pubblicatacon il titolo Aspetti del rapporto poeta, commit- lidei in cui la presunta corruttela del metro, per la responsione non perfetta» aveva condotto il filologo tedesco a ritenere corrotto il testo, difeso ammettendo la responsione impura in G. Il racconto di G. va naturalmente letto tenendo presente la frattura tra Pasquali e Perrotta su cui vd. Morelli, su sollecitazione di Pasquali, erano ripresi i rapporti epistolari con il filologo tedesco: cfr. Bossina G. (poi nei monumentali  Studi in onore di Perrotta ). Nella stessa  Gedenkschrift   non manca un breve contributo di Maas, una nota metrica di argomento ‘moderno’ datata Oxford: Maas. Anche per Maas metricologo molto si potrà trarre dall’esame delle carte segnalate in Lehnus e LehnusUna quindicina d’anni dopo Gentili osserverà: «Si ritiene che la dottrina me-trica degli antichi sia di scarso valore e di nessuna utilità per noi. Ma, ch’io sappia, nessuno sino ad oggi ha realmente dimostrato la validità di questa asser-zione. Il disprezzo e il totale rifiuto delle teorie antiche è una moda invalsa negli studi metrici del Novecento (G.). Dello sviluppo degli studi sulla colometria antica guidati da Gentili negli anni successivi sono testimonianza molti contributi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»: come sguardo d’assieme vd. Pretagostini, Gentili – Perusino e più di recente la  Tavola rotonda; breve consuntivo del dibattito in corso in García Novo Sugli studi classici a Urbino dapprima nella Facoltà di Magistero poi in quella di Lettere e Filosofia vd. il profilo di Colantonio – Bravi 2006tente, uditorio nella lirica corale greca , presenta un chiaro carattere pro-grammatico 62  e introduce quell’insieme di temi che «nel tempo si rivelerà più produttivo e tipicamente gentiliano. Fin dalle prime righe del sag-gio è messo in evidenza il valore di strumento di conoscenza del reale proprio della produzione poetica nella cultura greca del tardo arcaismo, il suo farsi «guida orientativa nell’evoluzione della società greca, nelle forme del linguaggio e dell’arte del poetare» per motivi non estrinseci ma stret-tamente connessi alla centralità del rapporto diretto tra il committente e il poeta che particolarmente connota la poesia corale. La funzione del mito, e dunque il tessuto dei contenuti stessi del carme, si svela quando ci si rifaccia al professionismo del poeta e alla funzione celebrativa costitutiva-mente propria della sua attività, volta a «scegliere una leggenda appropriata all’occasione», a trovare cioè e rendere intelligibile all’uditorio la relazione tra racconto e celebrando, cosicché «il mito avesse un reale significato e un valore esemplare». Solo in tale contesto, a un tempo storicamente determinato e aperto alla necessità dell’interpretazione, possono corretta-mente configurarsi il rapporto mito-attualità e il rapporto mito-gnome, e può considerarsi superato «il problema dell’unità dell’epinicio e in genere del carme corale sul quale per più di un secolo da Boeckh in poi la critica si è tormentata nella disperata ricerca di un’unità logica o estetica». Era, quello dell’unità dell’epinicio, il problema centrale della critica pindarica quale intuíto e sviscerato dalla grande filologia tedesca, e che Perrotta aveva posto tematicamente al centro della sezione pindarica in Saffo e Pindaro, dedicandovi una rilettura di oltre cento pagine attraverso l’intera produzione del poeta di Tebe, frammenti compresi, infi-ne giungendo alla constatazione dell’assenza di unità sia estetica sia logica nelle odi pindariche. Sostanzialmente riprendendo la visione romagnolia-na di Pindaro come «poeta del mito, l’interpretazione di quel «poeta puro, più che poeta-moralista o poeta-filosofo» 65  è infine da Perrotta per intero riportata all’interno della dicotomia crociana poesia/non poesia, senza arretrare dinanzi alle necessarie conseguenze di quella scelta critica: Non poeta dei giuochi, nè della gnome; non poeta dell’etica e della politica dorica; non poeta della saggezza di Apollo delfico. Ma poeta grandissimo del mito sentito religiosamente come miracoloso eroismo e miracoloso prodigio. Questa defini-zione dell’arte pindarica costringe a ripudiare come non poesia buona parte dei versi del poeta. Questo forse dispiacerà; e si dirà che Pindaro è ridotto ad essere, a questo modo, un poeta frammentario, e si deplorerà ch’egli è stato rimpicciolito e diminuito. Ma una più serena considerazione convincerà, che, anzi, il poeta è [Una specie di manifesto per la Scuola urbinate lo definisce ABernardini Catenacci La cui derivazione da Burckhardt sottolinea Paratore  Perrotta stato accresciuto, perchè l’unico modo di onorare un poeta è quello di esaltare la sua poesia. Isolare le parti impoetiche, non che fargli torto, è un servigio reso al poeta stesso 66 . Non a caso subito Perrotta richiama per confronto il caso della poesia dantesca («naturalmente continueranno ad esistere gli ammiratori dell’architettura, dell’unità, dell’armonia dell’epinicio pindarico, proprio come non mancano gli ammiratori dell’architettura, della struttura, della concezione del mondo dantesco), a proposito della quale con maggior valenza paradigmatica Croce aveva teorizzato e applicato la necessaria dis-tinzione – valida per ogni autore e opera letteraria – tra la dimensione pro-priamente ‘poetica’ e quella ‘allotria’, attinente una varia INTERPRETAZIONE FILOSOFICA e pratica» 68 .Trent’anni dopo, nel 1965, disegnando il percorso per un profondo rinnovamento degli studi italiani su Pindaro e i lirici che definitivamente li sottraesse alle ipoteche critiche della prima metà del secolo, G. in certo modo proietterà all’esterno il tema dell’unità dell’epinicio, rinvenen-dolo nel mondo dei valori che il poeta in rapporto al suo pubblico e alla funzione sociale della poesia era portato a interpretare. Discernere nella orazione urbinate i fili di una nascosta dialettica con Perrotta è operazio-ne non priva di giustificazioni, quando si pensi che il saggio Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca , nato da quella prolusione e poi pubblicato in più sedi, per la prima volta comparve nel volume di Studi Urbinati contenente gli  Scritti in onore di Genna-ro Perrotta 70  aperti da una pagina di presentazione di G. stesso, alla quale segue un inedito perrottiano, una nota critico-testuale a un passo di Lucano, in duello con una atetesi di Housman nel pasqualiano baluginare di «due varianti antiche. Significative le parole introduttive di Gentili, che indicano nel maestro un modello di «vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi», mentre pur non si può tacere l’esigenza di porre nuove domande alla grecità arcaica e classica: Perrotta E così prosegue: «gli uni e gli altri si riterranno i soli capaci d’intendere i poeti, pur essendo incapacissimi d’intendere qualunque poesia, perchè per poesia intendono l’allegoria, oppure la così detta poesia d’idee, oppure perfino una rac-colta di massime belle e utili». 68  Mi limito a rimandare in proposito, come testo esemplare, all’  Introduzione  di CROCE (si veda), che cito da una ristampa laterziana sostanzialmente immutata. Saranno poi i temi fondamentali di molte, famose pagine di   Poesia e pubblico nella Grecia antica,  Poeta-committente-pubblico, ovvero la norma del polipo . G. Perrotta 1Chi gli fu vicino e poté, anche fuori della scuola, ascoltarlo nella conversazione abi-tuale, sempre viva e piena d’intelligenza umana, apprese, oltre che il rigore scien-tifico della ricerca, il vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi, oggi, nelle prospettive del nostro tempo, diremo l’impegno a comprendere nell’inesauri-bile mondo della grecità arcaica e classica la problematicità dei rapporti di valore culturali e civili, quali uomo-scienza, uomo-natura, uomo-società, che sono alla base della nostra inquietudine e per i quali sentiamo l’urgenza di una soluzione se dobbiamo, tra i rottami inutilizzabili del vecchio umanesimo e tra gli automi della odierna civiltà industriale, riproporre una nuova dimensione dell’uomo, dell’uomo non come strumento ma come fine  . La seconda parte del saggio discute un buon numero di passi, perlopiù di Pindaro, anticipando traduzioni destinate all’antologia Lirica corale greca. Pindaro Bacchilide Simonide , che uscì per Guanda; il saggio originato dalla prolusione urbinate sarà lì riproposto in versione sostanzialmente immutata, a mo’ di introduzione dal titolo   Poeta e com-mittente . Nuovo è però l’avvio (ripreso nel retrocopertina), che intercetta le curiosità ‘d’avanguardia’ di quegli anni di profondi mutamenti, un po’ provocatoriamente invitandoli a una nuova lettura dei poeti della lirica corale greca: In un momento di crisi, oggi, della poesia, tra sperimentalismi d’avanguardia, giu-stificati, entro certi limiti, dalla buona intenzione di trovare linguaggi più idonei ad interpretare la realtà presente, ha forse un senso riproporre una nuova lettura dei poeti della lirica corale greca, Pindaro, Simonide, Bacchilide. La scelta non è casuale, ma ha un suo significato che sarebbe stato eluso se ci si fosse limitati a ripresentare i poeti della lirica monodica, troppo consunti dalla tradizione ermetica. Premeva invece offrire, nei limiti consentiti dall’indole della collana, un panorama delle op-poste tendenze ideologiche e artistiche che animarono la poesia del tardo arcaismo greco, cioè di un’epoca culturale caratterizzata da una profonda crisi evolutiva nella quale la poesia, come solo rare volte nella storia della cultura occidentale, divenne strumento di conoscenza del reale. Si tratta dunque di una affermazione di ‘contemporaneità’ della lirica greca ancorata a solide e rinnovate basi filologiche e storiche, proposta in un’epoca di crisi e trasformazione tra le più incisive e impetuose, come oggi sappiamo. Se può forse anche rimandare qualche eco dei  [Parole che in parte torneranno trent’anni dopo nell’introduzione premessa da G. alle  Giornate di studio su Perrotta . Si può aggiungere che nella premessa agli Scritti urbinati in onore del maestro, G. segnala che alcuni di essi costituivano i primi contributi di collaboratori del neocostituito «Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica greca e latina» presso l’Università di Urbino. G. Ho consultato presso la Biblioteca centrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano una copia appartenuta a Luigi Alfonsi, con dedica manoscritta di G. datata Urbino Con l’ultimo periodo si apre il saggio in Studi Urbinati clamori suscitati dalla beat generation  di A. Ginsberg, il cenno iniziale agli sperimentalismi d’avanguardia nell’àmbito della poesia contempora-nea, ai loro eccessi e alle loro ragioni, essenzialmente rinvia alla neoavan-guardia italiana di quegli anni, la cui fase preparatoria si suole riconoscere nel dibattito culturale sviluppato sulla rivista milanese Il Verri, fondata nel 1956: sin dall’inizio diretta da Anceschi, se n’era avviata una seconda serie presso l’editore Feltrinelli, sedendo nel comitato di redazione letterati poeti e studiosi destinati a fama e fortu-na nei successivi decenni (Nanni Balestrini, Renato Barilli, Eco, Giuliani, Guglielmi, Porta, Sanguineti). I nomi appunto intorno a cui si è aggregata l’antologia poetica   I Novissimi: poesie per gli anni Sessanta  (con testi di Balestrini, Giuliani, Pagliarani, Porta, Sanguineti), con il successivo passaggio al Gruppo 63, più eterogenea e conflittuale formazione: intorno alla metà degli anni Sessanta poli entrambi di definizione e diffusione della neoa-vanguardia italiana,   poetae novi  avversi contemporaneamente a ermetismo e neorealismo, volti (i più) alla destrutturazione sperimentale di lingua e forma come unica modalità di espressione di/in una realtà svuotata di sen-so e accettata come tale 76 . Presentando il primo numero della nuova serie de «Il Verri, Anceschi saluta il determinarsi di un evidente mutamento nel panorama della poesia italiana contemporanea. A una maniera «che fu giustamente detta  anacoretica , o  ermetica , o  chiusa , non senza certe tentazioni di involuzione neoclassica» e che intendeva la poesia «come fuga o rifugio; come estrema voce del soggetto nascosto e introverso come sintesi illuminante, pregnante, e veloce nel rigore calcolato, coltivatissimo, e raro della parola», si sostituiva ora il diverso atteggiamento e sentimento «di una poesia dissacrata, estroversa, che si ritrova in un mondo di oggetti reali, affidata talora alla casualità del sin-tagma, talora ad un ritaglio significante dell’effimero, di modi analitici, a struttura complessa e multipolare, tale che può farsi capace di una critica di vita, di un’azione per la trasformazione dell’uomo»: egli avver-tiva insomma il farsi avanti di una poesia, e di una stagione di poesia, come  accrescimento della vitalità , e nuove tecniche, e volontà di forme aperte, e speranze di una maggior portata di comunicazione. Il saggio già apparso in Studi Urbinati è da G. subito ripubblicato [Nonché «uniti e avvinti (per impulso d’Anceschi) nel programma di approfit-tare della prima congiuntura economica favorevole dopo secoli – il famoso  boom »: così Alberto Arbasino in Anceschi – Campagna – Colombo Sganciato il linguaggio da intenti determinati e da precise responsabilità semantiche, lo scrittore appare attirato non tanto dalla mancanza di senso quanto piuttosto da ciò che sembra lecito chiamare il possibile verbale, ossia l’estrema libertà di invenzione linguistica. La parola comunica non dei significati, ma le pro-prie avventure e peripezie, percorre lo spazio senza fine del desiderio, del gioco e del godimento, come efficacemente sintetizza Curi appunto su «Il Verri, all’interno di un numero monografico  Classicità e contemporaneità  contenente contributi anche di altri studiosi del mon-do antico. Il fascicolo è introdotto da un intervento di Anceschi, da sempre attento a «scoprire in modi non fortuiti una zona antica e nuova della classicità, qui volto a riflessioni di singolare lucidità e preveggen-za, oggi certo più inoppugnabilmente attuali di cinquant’anni fa: Le infinite maniere con cui nel secolo son stati sentiti i classici testimoniano già esse di un continuo vivere dei classici al di fuori della astrazione, ormai incredibile, di eterne, immobili esemplarità. Che senso avrà la lettura dei classici in un mondo in cui l’Europa non sia più il “cervello del mondo” ma solo, se sarà possibile,  una  delle sue fibre,  una  delle voci di una cultura che si è aperta, aperta al riconoscimento delle ragioni di tutti i popoli, di tutte le tradizioni? La cultura europea in certi suoi esponenti della metà del secolo scorso sembra aver intuito la possibilità del determinarsi di una situazione di questo genere. Questa è la situazione in cui siamo, qui dobbiamo vivere, e in questo ordine recuperare i nostri antichi. Particolarmente appropriati, nel contesto del numero de Il Verri, ri-sultano dunque sin dall’inizio del saggio di G. i rilievi sulla ‘lontanan-za’ dal gusto moderno specialmente della lirica corale, tra le varie forme della poesia greca arcaica, e sull’almeno apparente maggiore accessibilità dei grandi poeti della lirica monodica (Saffo, Alceo, Anacreonte) anche se il loro volto è apparso spesso da noi alterato da un certo estetismo deca-dentistico che ha ancor più accentuato, a suo modo, quell’idea astratta e astorica della lirica greca che abbiamo ereditato dalla nostra cultura classicistica. Il culto della poesia pura idoleggiò in essi quella che fu ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento” conden-sata in un’immagine di pochi versi superstiti. Il riferimento è qui alla importante, benché spesso indiretta presenza dei maggiori lirici monodici nella letteratura italiana dalla seconda metà  [Anceschi G. Grande ( Grecità ); DIANO (si veda) (Ritorno a Plutarco); Pasoli ( Per una lettura dell’epistola d’ORAZIO (si veda) a Giulio FLORO (si veda)); Giardina (Note per l’esegesi d’ORAZIO (si veda) lirico );  Mele ( Orazio e il significato culturale del classicismo latino ). 80  Cit. in Nisticò 1997. 81  Anceschi 1965, 4-5. Quanto una ben diversa visione della Grecia come antica madre comune» è IN AMBITO FILOSOFICO ITALIANO ancora viva pochi anni prima testimonia ad esempio il volume di Barié – Sini, dove a fronte del senso della crisi dei valori oggi tanto diffuso nella coscienza dei contemporanei, che nessuna generazione del passato potrebbe probabilmente reggerne il paragone, si propugna un ritorno alla Grecia, che vagheggiata dall’Umanesimo al Romanticismo come il felice e radioso mattino della nostra storia, sembra non avere mai deluso chi ricerchi in essa i germi del modo occidentale di considerare e vivere la vita (dell’Ottocento, non solo e non primariamente nelle traduzioni. Carducci in particolare, e per vari aspetti già a Foscolo, si deve «la riscoper-ta, nelle immagini e nei metri, dei lirici greci, di Alceo e Saffo, già di leo-pardiana memoria, e poi di Alcmane come modelli di poesia pura , all’origine di un ricco e complesso processo di ricezione, ancora non ade-guatamente studiato, che attraverso Pascoli 85  e D’Annunzio conduce sino ai   Lirici greci tradotti da Quasimodo, usciti a Milano, introdotti da un saggio critico del ventinovenne Anceschi. A Milano ANCHESI (si veda) si è formato con BANFI (si veda), subito segnalandosi con il volume   Autonomia ed ete-ronomia dell’arte, radicale presa di distanza dall’intuizionismo estetico crociano e dalla sua incapacità di comprendere le poetiche. Come  Bo per la corrente ‘fio- Tra le quali per più ragioni merita ricordare quella che Cavallotti, allora già famoso deputato dell’Estrema, dedicò a  Canti e frammenti di Tirteo. Versione letterale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a Gio-suè Carducci , Milano, con prefazione, interessante per il rifiuto della metrica barbara (il tentativo che non data da oggi di ricondurre la poesia italiana alla esteriorità dei metri greci e LATINI, mal saprebbe giudicarsi alla stregua di alcune splendide ispirazioni di Enotrio), e per l’attenzione alla fortuna di Tirteo anche fuori d’Italia, in particolare nel mondo tedesco (lingua che Cavallotti aveva appreso nell’ancor asburgico liceo milanese di Porta Nuova), finanche citando la versione olandese in versi di Bilderdijk: ma nella costituzione del testo adottando «per base la volgata di Stefano che ancora oggi fra tutti i distillamenti di cervello della critica germanica rimane la guida del testo più fida e più sicura. Del Foscolo si ricordi almeno la visione dei versi della  Coma  catulliano-callimachea come   poesia lirica  sin dalla dedica a Niccolini (non credo che l’antichità ci abbia mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che li pareggi») della traduzione e commento de   La Chioma di Berenice poema di Callimaco tradotto da CATULLO (si veda): ivi il   Discorso quarto. Della ragione  poetica di Callimaco  si chiude nel nome di Pindaro dopo aver esaltato Alceo e Saffo nei superstiti  rari vestigi  a fronte d’ORAZIO (si veda) e di CATULLO (si veda). Sul pindarismo foscoliano dal commento alla  Chioma di Berenice  attraverso i  Sepolcri  sino alle  Grazie  come riflessione sul nesso che lega lirica antica e moderna vd. Benedetto Nava; qualche utile elemento si trae da Tomasin Fondamentali soprattutto i   Poemi Conviviali  (la prima edizione in volume) sin dal liminare  Solon, su cui vd. le considerazioni introduttive e il dettagliato commento in Treves  Un àmbito di particolare interesse è quello della sperimentazione pascoliana ispirata ai metri della lirica greca, cfr. Giannini e ora Capone – Giannini Lo stesso anno de   La poetica del decadentismo  di W. Binni, per il cui influs-so sugli studi pindarici degli anni Quaranta di M. Untersteiner vd. Lehnus Sui fondamenti filosofici e critici del precocissimo anticrocianesimo di An-ceschi vd. Lisa  (La nuova fenomenologia e la nozione di poetica); su Anceschi, la critica di ispirazione fenomenologica e la sua connessione con la neoavanguardia (come già con l’ermetismo critico) utile profilo in Orvieto] rentina’ dell’ermetismo, sul versante milanese Anceschi fu figura di spicco tra i giovani critici che si fecero interpreti e banditori della singolare intensità della parola nella poesia di Quasimodo: poetica della parola sulla cui centralità Anceschi torna nell’introduzione ai  Lirici greci , dicendola erede dell’«esperienza complessa della poesia dopo Hölderlin, Poe, Baudelaire, e, per noi in special modo, LEOPARDI (si veda) e, soprattutto, scorgendone l’antecedente nella pura e libera voce dei lirici greci. Anceschi si mostra consapevole del fecondo lavoro filologico svoltosi per secoli intorno a quegli antichi poeti, ma del pari afferma che nella cultura europea non ci fu mai la felice e piena stagione dei lirici greci. Quella stagione ora è giunta, cosicché «nella ricerca di una poesia veramente  nuova  e  contemporanea » e soprattutto «nella aspirazione al raggiungimento di una rigorosa purezza lirical’ermetico Quasimodo può pienamente espri-mere se stesso traducendo Saffo Alceo Archiloco e Alcmane, ritrovando cioè la purezza di quell’antica sensibilità in una condizione di linguaggio attuale della poesia. Senza sentimentalismi – va detto – ma nutrito di una chiara percezione della terribile crisi della civiltà europea, risuona l’appello alla lirica greca come depositaria dell’assolutezza della parola, paradossalmente assicurata dalla condizione frammentaria di quella tra-dizione testuale: Questa aspirazione di purezza in un riconoscimento della relativa «brevità» di ogni composizione poetica, che, per raggiungere il suo scopo, deve presentarsi alla no-stra coscienza come  un tutto  è, appunto, la lirica – per la prima volta nata all’u-manità nella Grecia. Di essa solo la   parola  (qualche parola altissima, e interrotta) ci resta, là dove era anche danza e musica: parola, danza, musica in un’invisibile armonia unitaria di ritmi. E solo l’immaginazione più libera può darci un’approssi-mazione felice a quel segreto. Se pregevole appare la sottolineatura del concorrere di parola, danza e musica nel definire la particolare natura della lirica greca, è indubbio che il suggerire compatibilità o addirittura sovrapponibilità tra ‘poetica della parola’   cara agli ermetici novecenteschi e scarni testi dei lirici greci conservati   per fragmina  («qualche parola altissima, e interrotta») si risolve in una forzatura critica a danno del concetto e della realtà di ‘frammento’ propri della filologia classica: all’indomani della guerra pubblicamente lo segnala Valgimigli, peraltro con Quasimodo e  Consapevolezza che ad esempio si esprime nel richiamo a un’illuminante frase di Valéry: une civilisation a la même fragilité qu’une vie. Les cir-constances qui enverraient les oeuvres de Keats et celles de Baudelaire rejoindre les oeuvres de Ménandre ne sont plus du tout inconcevables: elles sont dans les  journaux. Valgimigli. Dopo aver ricordato che dei lirici greci «per tra-dizione medioevale diretta, oltre la silloge teognidea e quella pseudofocilidea, e oltre i quattro libri degli Epinici di Pindaro […] tutto il resto lo abbiamo o per ciAnceschi in rapporti epistolari già in quel 1940, e da subito ben disposto verso l’impresa traduttoria del poeta ermetico e i suoi risultati. Quando G., nel saggio pubblicato su «Studi Urbinati» e su «Il Verri», polemicamente allude a quell’impresa nei termini su citati (il culto della poesia pura idoleggia nei grandi poeti della lirica monodica quella che è ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o addirittura la poesia del frammento condensata in un’immagine di pochi versi superstiti), i   Lirici greci  di Quasimodo erano nel pieno della loro fortuna: mentre proprio nel 1965 era definita la for-ma  ne varietur  delle versioni dai lirici nell’edizione mondadoriana degli  Opera omnia  del poeta, tra vivaci polemiche di recente laureato dal Premio Nobel, quelli sono gl’anni in cui se ne radica e diffonde la presenza nelle scuole italiane, particolarmente dopo l’istituzione della scuola media unica. Si può dire che in Italia nella percezione comune, anche genericamente colta, la lirica greca coincise con i Lirici greci  di Quasimodo, opera anzi che già all’indomani della morte del poeta si prese a riconoscere come la sua migliore. La stessa scelta da parte di G. di  tazioni indirette, oppure, dove siamo stati più fortunati, per ritrovamenti papiracei; a ogni modo, per frammenti» e che in realtà anche la lirica era «tutta intessuta e ragionata nel mito», Valgimigli pienamente riconosce le ragioni storico-culturali di quell’equivoco, il ‘fascino singolare’ esercitato sui ‘lirici nuovi’ dagli antichi poeti in frammenti: ora, se io penso a quelle che furono ai principi del Novecento le teoriche dell’intuizionismo, del futurismo, del frammentismo, non credo peccare di temerità né di irriverenza se tra le cause di questo incontro di poesia greca e poeti nuovi oso porre anche questa umile e strana combinazione, cioè del casuale stato frammentario e quindi, in certo senso, alogico, anticontenutista, antisintattico, e, vorrei aggiungere, anticantato di certa poesia lirica greca. Quanto sopravvive dei carteggi Quasimodo-Valgimigli e Anceschi-Valgimi-gli è ora raccolto nel volume Benedetto – Greggi – Nuti. Val la pena qui trascrivere almeno la breve missiva (da Padova, su carta intestata R. Università di Padova, Seminario di Filologia Classica») con cui Valgimigli ringrazia il poeta per l’invio di una copia degli appena pubblicati   Lirici greci : Caro Quasimodo, Ho avuto il libro. Grazie. Certi versi mi hanno ridato la consolazione di un nuovo cantare. Sopra tutto, come già Le scrissi, c’è quel pudore schietto, quel pudore senza inganni, quella limpidezza liquida, che erano e sono qualità insolite e ignote. Di alcuni punti e modi, di alcuni suoni di parole, assai mi piacerebbe par-lare con Lei. Anche mi piacerebbe scrivere di questo suo libro. Ma dove, in questi giorni feroci? Addio, caro Quasimodo. E auguriamoci bene. E auguriamo bene al nostro paese e alla nostra civiltà. / M. Valgimigli» (in Benedetto – Greggi – Nuti). Così per primo Sanguineti, uno dei protagonisti della neoavanguardia, che in chiusura dell’  Introduzione  alla sua importante antologia einaudiana   Poesia italiana accomuna in iconoclastico dileggio antiermetico le versioni quasimodee al famoso saggio di Bo   Letteratura come vita ; appunto perché gli antichi lirici risultano volgarizzati, mediante il Quasimo- [antologizzare e tradurre per Guanda i poeti della lirica corale (Pindaro, Bacchilide, Simonide) è con ogni evidenza determinata dal fatto che si tratta appunto degli autori non presenti tra i Lirici  di Quasimodo perché non compatibili con l’idea di lirica sottesavi, come peraltro Anceschi ave-va a suo tempo esplicitamente affermato: Entro i limiti di una pura (attuale e antica)  idea della poesia  perciò fu osservata la scelta dei testi. Naturalmente è ben definito il senso anche delle esclusioni di poeti disposti a mettere a servizio della «celebrazione» la magnificenza di uno stile espertissimo, come Pindaro; o, come Bacchilide, abile e colto in una dolcezza di analisi descrittive. E sempre, poi, un rigore senza concessioni ha voluto la esclu-sione, o, almeno, la limitazione nella presenza di poeti semi-lirici (giambici o elegiaci, gnomici, FILOSOFICI, o politici) troppo disposti alla  sentenza , all’esortazione  o alla  narrazione : a indubbie condizioni di prosa. Dopo la comparsa dei   Lirici greci  prefati da Anceschi, G. propugna e realizza il rovesciamento di quella prospettiva critica; ci si può quindi chiedere perché il grecista urbinate abbia scelto pro-prio la rivista diretta da Anceschi per ripubblicare e più ampiamente divulgare il saggio Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Quanto si è prima accennato circa i convincimenti da Anceschi rende chiara la risposta: nemico di ogni posizione cristallizzata, Anceschi soprattutto con Il Verri individuò come primario compi-to del critico «quello di risolvere la situazione in cui si trova, e di cui sente l’ansia e l’instabilità. Non solo sin dai primi anni del dopoguerra egli si  do, con i tratti deformanti della poetica ermetica», su quindici poesie antologizzate da Sanguineti tredici sono tratte dai   Lirici greci , definiti «il suo più vero contribu-to originale alla poesia del nostro secolo» e «uno dei documenti più significativi dell’intiera stagione ermetica». Anceschi,   Introduzione  in Quasimodo Con espressioni che sembrano anche direttamente rispondere a quelle di Anceschi: per questa via era difficile accostarsi ai lirici corali del tardo ar-caismo greco, particolarmente a Simonide, Pindaro e Bacchilide, più elaborati, più consapevoli delle loro possibilità espressive, più ricchi nei contenuti etici, politici e artistici, indissolubilmente legati a un particolare ambiente e ad una determinata occasione che stimolarono e condizionarono il loro canto (G. ). Anceschi – Campagna – Colombo Anceschi – si sa – era nemico di ogni posizione cristallizzata. Non sconfessava l’ermetismo, in cui si era riconosciuto e che lo aveva visto nascere come critico militante, ma non intendeva lasciarsi rinchiudere in esso. E magistrale è la sua capacità di muoversi in territori ambigui, d’incerta definizione, non ancora riconosciuti, e di porsi come punto di riferimento per chi cercava la sua strada. Anceschi, saggio con cui si apre il primo numero de Il Verri, riproposto nella nuova serie de «il verri»; sulla condizione della letteratura italiana dopo la metà degli anni ’50, chiusa tra le ultimeera convinto (come Quasimodo del resto) dell’esaurimento della stagione ermetica, ma tornò ad affrontare i   Lirici greci  e la sua stessa introduzione dieci anni dopo, riscrivendola per una nuova edizione mondado-riana. Molte qui sono le novità, sin dall’avvio. Anceschi lascia intendere di essere all’origine dell’incontro di Quasimodo con la lirica greca (come peraltro già le pagine  lasciavano sospettare), prende atto del de-finitivo isterilirsi dell’ermetismo, contestualizza la traduzione quasimodea nel suo valore e nei suoi limiti storicamente determinati: Ma che cosa si son fatti i lirici greci nella lettura di Quasimodo? Essi furon letti, è evidente, nel gusto particolare di una certa tendenza alla poesia del tempo. Era un momento in cui la verità della poesia ci sembrava tutta compresa nella veloce intensità della lirica in una estrema lucidità di contatti tra oggetti lontanissimi e lon-tanissimi tempi della memoria; e gli antichi   frammenti  (la giustificazione della vali-dità del frammento è sempre la prova di resistenza delle estetiche) ci confermavano con la loro forza che la poesia  non  sta nella struttura,  non  sta nella «musica esterio-re»,  non  sta nel «contenuto morale» o nella «narrazione» e nel «discorso»…: tutto ciò può andar perduto, eppure una bellezza intensa e veloce resta, e ci commuove. 4. Importante novità rispetto all’introduzione è il richiamo al saggio «incompiuto e bellissimo» di Renato Serra Intorno al modo di leggere i greci , pubblicato postumo da Valgimigli su «La Critica». Ispirate dalle contradditorie reazioni che il primo volu-me della traduzione commentata dei   Lirici greci  del Fraccaroli gli suscitano, le pagine di Serra sono soprattutto una riflessione sulla fine del vecchio classicismo («il calco in gesso dell’Ellade serena, dell’Ellade perfetta, che aveva fatto le delizie di tante generazioni, dagli umanisti fino al Carducci, è andato in frantumi»), sul nuovo «desiderio di realtà» suscitato dall’incessante lavoro di filologi e archeologi, sulla inquie-  manifestazioni dell’ermetismo e il dogmatismo neo-realista, e sulla risposta libera-toria che la rivista trovò in una ‘fenomenologica’ concezione della letteratura «che rinnova continuamente la propria consapevolezza in rapporto al concreto mutare delle situazioni» torna ad esempio Anceschi Non dimenticherò certo facilmente il giorno – davvero molto lontano, or-mai – in cui, parlando con Quasimodo, mi venne fatto di associare, secondo certe ragioni, due idee familiari e carissime, che, in quel momento, sollecitavano in modo singolare la mia mente; voglio dire: l’idea della prima lirica greca, e quella della poesia italiana contemporanea. È, credo, un giorno dell’autunno: l’introdu-zione anceschiana  è ristampata in Quasimodo. Ho davanti a me i Lirici di Fraccaroli. Che cosa è dunque l’interesse di questo libro? L’intendimento nuovo di mettere sotto gli occhi dei lettori comuni questi avanzi venerabili della lirica greca, sì che ognuno possa vedere e giudicare senza scrupoli quel che sono sostanzialmente e quel che valgono. Con questo animo l’au-tore ha dato e il pubblico ha ricevuto, molto lietamente, come sapete, il libro. Per-ché dunque invece di partecipare a questa lietezza io resto malinconico e dubitoso  ad ascoltare l’eco beffardo di una ironia lontanissima. ὁρᾶς τὸν πόδα τοῦτον;»  Sent from the all new AOL app for iOSta grecità da loro rivelata, consentanea al gusto fin de siècle  («coi prefidi-aci, con la civiltà micenea e con la cretese, con le fasce delle mummie e con gli ostraka dei monticoli egiziani, e insomma con l’insistenza su tutto ciò che la Grecia può dare di più crudo, barbaro, romantico, positivo, con-trastante col vecchio ideale gelato»), e soprattutto sulle opportunità svelate da questo diverso, modernissimo ‘bisogno di antico’: Realtà, come dicevo, di cose, e non di parole. Questa è la differenza profonda fra la nostra generazione e quelle che l’han preceduta. Le statue, le fotografie, le immagini, i processi, i costumi, in somma la vita nella sua indifferente nudità ha preso il posto degli aoristi del maestro di seminario e delle figure di Longino. Una cosa è chiara, direi quasi  a priori ; che con tanta voglia di appropriarsi solo il grosso e l’essenziale della grecità, i pensieri e i motivi e le immaginazioni piuttosto che le frasi e le formalità, quest’ora dev’essere propizia per i traduttori. I passi ora citati del saggio di Serra provengono dal fascicolo de Il Verri dedicato a  Classicità e contemporaneità , che si apre con estratti da   Intorno al modo di leggere i greci . Sugli appunti di Serra si sofferma il liminare   Intervento  di Anceschi. Nel giovane critico cesenate caduto sul Podgora, Anceschi indica colui che «intuì una crisi del modo di sentire e vivere i classici, in cui noi ancora siamo», la crisi di chi ha compreso «che non ha più alcuna utilità per noi una lettura  assoluta  dei classici», ma che esistono ancora molti modi, altri modi, con cui i classici ci possono rispon-dere, molti e diversi piani su cui essi vivono ancora per noi, e che molti e diversi possono essere i gesti del nostro rapporto con loro. E su questa fenomenologia va forse ormai posato l’accento. Sono evidenti le consonanze tra un così attento bisogno di fondare una diversa presenza dei classici in un futuro avvertito come totalmente ‘altro’, e l’attività di G. in quegli anni come filologo e come docente. Ne è conferma la scelta di continuare a pubblicare su Il Verri gli articoli di maggior impegno teorico e programmatico già apparsi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica: in particolare i due saggi L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo  e   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici . Il primo (G. pienamente si presenta al lettore ‘nella dimensione del nostro tempo’, subito prospettando l’ineludibile «grosso problema di fon-do che è il problema stesso della sopravvivenza del mondo classico nella nostra cultura», letto all’interno del più radicale tema della ‘morte della storia’ nelle società a tecnologia avanzata e pervasiva. Serra Già in QUCC, con il sottotitolo  Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale: G. . Dopo, sono riflessioni che colpiscono per lungimiranza, e per estraneità agli ideologismi allora correnti come a qualsivoglia ‘umanistica’ retorica consolatoria o deprecatoria: In concreto, quale senso può avere la grecità arcaica nell’odierna civiltà tecnolo-gica che rifiuta la storia e s’impone come civiltà nuova, integrata e alienata come è definita dai sociologi, perché ha tolto al mondo, irrevocabilmente, le sue proprie dimensioni storiche? Il risultato di questa situazione irreversibile è a tutti noto: la grande crisi dei valori etici, politici, espressivi. Se volgiamo per un attimo lo sguardo alla cultura contemporanea e agli ultimi movimenti delle neoavanguardie europee, lo stato di crisi dell’espressione ha forse toccato i suoi limiti. L’articolo enuclea e propone con chiarezza i principali elementi caratte-rizzanti il rinnovamento a livello internazionale degli studi sulla lirica greca arcaica, sulla spinta soprattutto dei lavori di Havelock, muovendo dal riconoscere che dato comune alla lirica greca, e in generale alla poesia greca sino alla fine del V sec. fu il tipo di comunicazione cui fu affidata, comunicazione non scritta ma orale», e che una poesia orale «comporta modi di espressione e atteggiamenti mentali diversi dalla poesia di comu-nicazione scritta». Si è di fronte a una ‘tecnologia di scrittura’   rinvenibile «in contesti poetici di altre culture orali», solita affidarsi a periodi brevi e figurazioni paratattiche, estranea all’«uso dell’io idiosincratico», cioè appunto all’‘io lirico’ della poesia latina e poi moderna, connessa invece a una «psicologia della   performance  poetica che mira a pubblicizzare il personale e il soggettivo per renderlo immediatamente percepibile e coin-volgere emozionalmente l’uditorio attraverso la ricca serie di immagini e metafore proprie del linguaggio della lirica arcaica. La presenza del mito ne riflette la funzione, «tessuto connettivo della cultura orale e strumento sociale di interazione tra passato e presente, fra tradizione e attualità, tra poeta e uditorio», sì da delineare un tipo di poesia prammatica per la sua funzione e i suoi scopi parenetici, didattici e celebrativi, sollecitata nella scelta dei temi dalle vicende della vita militare e politica, dalle reali situazioni della vita sociale, dei simposi, delle feste religiose e degli agoni atletici, vincolata alle richieste di un committente o a un uditorio di amiche e di amici di un thiaso di ragazze o di una consorteria politica di identico rango sociale. Si trovano qui compendiate e illustrate con efficace consapevolezza critica le linee guida che per mezzo secolo ispireranno l’amplissimo lavoro di G. e della sua scuola sulla lirica greca arcaica. È opportu-no sottolineare la volontà di G. di legare l’interpretazione dei lirici greci, così rinnovata, a una prospettiva particolarmente ampia e ambizio- sa, protesa sul futuro e infatti più volte ribadita nei decenni successivi, [Esemplare l’esposizione in G. Sent from the all new AOL app for iOSl’idea cioè cui aspira l’antropologia contemporanea, dell’interpretazione come comunicabilità fra culture diverse e distanti nel tempo». Il rifiuto, all’inizio dell’articolo, sia della «interpretazione umanistica tradizionale della poesia greca come eterna storia naturale del gusto e dell’arte sia del neo-umanesimo etico, e in definitiva la presa d’atto della «crisi profon-da dell’umanesimo tradizionale» in un contesto culturale dominato dalle nuove scienze dell’uomo, mira all’affermazione di un diverso paradigma (identificabile nei nomi diversi ma variamente concordanti di Dodds e di Finley, di Vernant e di Havelock) con «lo sforzo di capire in concreto la mentalità dell’uomo greco arcaico», secondo una linea critica attenta all’oggi e al domani: nella quale cioè «convergono le domande, le cate-gorie e gli strumenti delle moderne scienze dell’uomo: dalla lessicologia semantica alla psicologia sociale e alla psicologia della storia, dalla sociologia all’antropologia», e il vero tema risulta infine il problema concreto dell’uomo nella sua vita individuale e sociale. Allo scopo evidentemente di segnalare nell’attività critica ed esegetica la necessità di una costante riflessione concernente passato dell’oggetto e presente dell’interprete, «contro il pericolo di arbitrari travestimenti, il saggio si chiude con una breve citazione da Eliot, cara a G., che la ripeterà in futuro. Si tratta di un passo proveniente da un saggio (Euripides and Murray ), violento attacco dello scrittore contro le traduzioni euripidee approntate per la scena dal famoso grecista, accusato di adottare per le proprie versioni un obsoleto stile tardo-otto-centesco incapace di trasmettere la sostanza del testo greco e di renderlo comprensibile nel presente (opinione ben espressa dalla devastante frase finale: «è per il fatto che il Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto»): è giusto aggiungere che, quali siano stati moventi e intenti della stroncatura di Eliot, le traduzioni di Murray proposte  on the stage  furono grandemente popolari per decenni, e anzi it is largely due to Murray that Greek tragedy establishes itself as a permanent feature of the theatrical landscape. L’intervento è incluso [Sul significato di fondo dell’opera di Gentili da individuarsi nella «applica-zione alla filologia testuale dell’antropologia culturale», al fine di porre «la spiega-zione dei testi, della loro struttura e dei singoli passi, nel quadro illuminante della cultura complessiva cui furono funzionali» vd. soprattutto le osservazioni di Cerri. Con riferimento a quanto sembra alle interpretazioni idealistiche e estetiz-zanti della lirica greca contro cui più polemizza Gentili. 103  «Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente e tuttavia in modo così vivo che esso sia tanto presente a noi come il presente. Cfr. Garland. Su   Euripides and Murray  vd. ora i rilievi di Morwood; sui ben noti, profondi interessi di Eliot per le letterature classiche e soprattutto per Virgilio, e sull’importanza nella costru-zione e nell’autorappresentazione del poema  The Waste Land del concetto   Sent from the all new AOL app for iOSda Eliot nella raccolta   IL BOSCO SACRO, rivelata alla cultura italiana dalla traduzione di Anceschi, che premise una lunga introduzione dove non manca di essere menzionato  Euripides and Murray , da Anceschi accostato al saggio «incompiuto e bellissimo di Serra   Intorno al modo di leggere i Greci per la comune avversione verso «quel tipo ambiguo di traduttore-poeta-filologo-professore che fu di moda nei primi anni del secolo e che non soddisfò né le ragioni pure della filologia, né tanto meno quelle, certo più rigorose, dell’arte. Bersaglio di Anceschi, subito dichiarato, è «il prof. Romagnoli», esempio più noto della «filologia poetica di fine secolo», appunto quella «  filologia poetica , che è riuscita a ridurre i liri-ci greci ad una farsa domenicale» a suo tempo già attaccata dallo stesso Anceschi (direttamente coinvolgendo Romagnoli, da poco scomparso) nell’introduzione ai   Lirici greci, priva invece di riferimenti al certo in Italia ancora ignoto intervento di Eliot contro Murray traduttore: lo si troverà poi citato, in chiusura, nella rielaborata, quasi palinodica pre-fazione anceschiana. Il terzo ampio e importante contributo che Gentili in quegli anni ripropose sulla rivista di Anceschi (Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici : G.) è per intero dedicato a discutere i radicali mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda metà del Novecento nel definire l’orizzonte della critica sui lirici greci». Il saggio prima di tutto registra con soddisfazione il venir meno «dei miti e dei luoghi comuni della vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange estetizzanti», particolarmente forti in Italia «per oltre un trentennio» proprio nell’àmbito degli studi sui lirici, e nelle tradu-zioni. Come traccia dell’estremo persistere della «critica del gusto» e in  di   fragment   («these fragments have I shored against my ruins») vd. il profilo di Martindale. Anceschi Anceschi Anceschi,   Introduzione  in Quasimodo. Questo il passo. Quasimodo sembra perciò essere veramente il più adatto – oggi – per una impresa così ardua – necessariamente – difficile in reazione a certa   filologia poetica, che è riuscita a ridurre i lirici greci ad una farsa domenicale (e si veda Romagnoli da un frammento bellissimo:  Tramontata è già Selene / e le Pleiadi: il ciel tiene /  Mezzanotte: l’ora vola; / io son qui sopita e sola, dove il riferimento è natural-mente al famoso frammento saffico. In Quasimodo, dove Eliot nel saggio su Euripide è menzionato accanto a pensieri sul tradurre di LEOPARDI (si veda) e di Pound. Pochi mesi prima della comparsa in italiano de  Il bosco sacro, il richiamo a Murray di Eliot a proposito delle traduzioni dai lirici greci prodotte in Italia da certi filologhi non so come invasati dal dio è già in Anceschi,   Presentazione  in Anceschi – Porzio dove come traduttore di poeti antichi oltre a C. Sbarbaro, da Sofocle, compare in realtà il solo S. Quasimodo, con testi da Omero, Saffo, Alceo, Erinna, Eschilo, VIRGILIO (si veda), OVIDIO (si veda), CATULLO (si veda)] generale di quel gusto del lirismo che domina la cultura italiana è indicata l’ancora presente tendenza a ricondurre il testo originale al gusto del lettore e non viceversa a guidare il lettore verso il testo originale, così procedendo a un’operazione che annulla le categorie del tempo e dello spazio in vista di una contemporaneità falsa ed artificiale». A rinforzo dell’osservazione e come monito «contro il pericolo di arbitrari travestimenti» in cui possano cadere le traduzioni, G. torna a menzionare il passo di Eliot  contra Murray  già citato al termine dell’articolo di due anni prima (  L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo. È interessante notarlo, inte-ressante e paradossale. Originario intento del brano, e in genere di Euripides and Murray, è l’accusa dello scrittore Eliot al grecista Murray di essere privo dell’‘occhio creativo capace di render vivo Euri-pide con una traduzione inglese adeguata ai tempi e alla perduta centralità dell’educazione classica. Anceschi nel presentare la traduzione italiana ravvisò in Murray l’equivalente inglese di Romagnoli, cioè dell’esponente più illustre di quella ‘filologia poetica fine di secolo a lungo di voga in Italia, colpevole di aver travestito gli antichi poeti nelle  forme di un linguaggio che non sappiamo collocare né storicizzare: un inafferrabile linguaggio di Utopia che ci ha sempre meravigliato con certi moti di umore, e oggi ancor più ci meraviglia e diverte; solo in qualche caso si potrà parlare di uno sfatto e maldestro residuo di discepolato carducciano. È opportuno citare per intero nel contesto originario il brano, con cui il sag-gio di Eliot si conclude: Abbiamo bisogno di una digestione che assimili insieme Omero e Flaubert; abbiamo bisogno (come ha incominciato Pound) di uno studio accurato degli umanisti e dei traduttori del Rinascimento. Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente, e, tuttavia in modo così vivo, che esso sia tanto presente a noi come il presente. Questo è l’occhio creativo; ed è per il fatto che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto. Eliot: I classici han perduto il loro posto di pilastri del sistema politico-sociale. Se i classici devono sopravvivere e giustificare se stessi, come letteratura, come elementi del pensiero europeo, come fondamento per la letteratura che speriamo di creare, sono proprio sfortunati per il bisogno che hanno di persone capaci di chiarirli. Se del LIZIO d’Aristotele si può dire che è stato un pilota morale dell’Europa, noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci spieghi come sia materia vitale per noi il rinunciare o no a tale pilota. E abbiamo bisogno di un gruppo di poeti colti che abbiano, almeno, opinioni sul dramma greco, e se esso sia o no di qualche utilità per noi. Si deve dire che iMurray non è l’uomo adatto per ciò. I poeti greci non avranno il più insignificante effetto di sollecitazione per la poesia inglese, se appariranno solamente travestiti in un volgare avvilimento dell’idioma troppo risentitamente personale di Swinburne. Anceschi discorso che, Anceschi tiene a precisare, «non si rife-risce ad un letterato di bella educazione e di civilissimo spirito, come Valgimigli Per l’Anceschi come per quello e parimenti  (e poi sempre), la risposta alle illeggibili e a tratti grottesche traduzioni di Fraccaroli e di Romagnoli venne dai   Lirici greci  di Quasimodo, frutto d’acuto, inatteso, e ormai da molti anni pressoché desueto contatto tra l’antico e il contemporaneo, fonte di poesia nuova e antica a un tempo: proprio l’opera cioè implicito (e di lì a poco esplicito) obiettivo polemi-co di Gentili, in quanto espressione più nota e fortunata di quel ‘lirismo novecentesco’ che indebitamente assimilò alle proprie categorie critiche ed estetiche la realtà incommensurabilmente altra della lirica greca, pie-gandola alle attese e ai gusti del moderno lettore. Riscoperto da Anceschi a sostegno di una resa dei classici antichi affine a quella operata da Quasimodo con i lirici greci,   Euripides and Professor Murray  è invece evocato da Gentili come alleato contro gl’arbitrari travestimenti realizzati da traduzioni quale quella di Quasimodo. Lo si nota non per ossessione fontistica o gusto della minuzia paradossale, ma come indizio – insieme a tanti altri più rilevanti – del ruolo che nei decenni centrali del Novecento la versione quasimodea dei   Lirici  ha, come presenza immanente e come termine di confronto positivo o negativo, non solo nel mondo letterario italiano, ma anche in quello filologico e accademico. Nel caso di G. una tale presenza e un tale confronto dovettero sin da giovane caricarsi di più intense risonanze, quando si pensi che la prima (e pressoché unica) re-censione dei   Lirici greci  di Quasimodo ad opera di un grecista accademico fu di Perrotta. Dimenticata dopo la guerra in [Ottime in proposito le osservazioni di Albini,   Prefazione, in Perrotta – Albini,  V: Le due traduzioni dei lirici greci che hanno contrassegnato la prima parte del Novecento sono opera di G. Fraccaroli ed Romagnoli, due studiosi di seria dottrina, impegnati nello sforzo di rievocare la bellezza e la grandezza dei classici antichi. Si voleva spalancare una grande finestra sul mondo antico, offrire le chiavi di un mondo paradigmatico, richiamare al passato come premessa e garanzia per l’avvenire. Se le riprendiamo in mano oggi, tali versioni si rivelano sconfortantemente indecifrabili. Lessico, movenze, stilemi ci sono estranei, ignoti, quasi. Dall’introduzione di Anceschi ora in Quasimodo Pare certo che G. sia giunto al saggio di Eliot attraverso Anceschi, che lo propose al pubblico italiano, e di cui nel saggio poche righe più avanti è del resto citata l’introduzione all’edizione dei Lirici greci. Ancora nella postuma   Premessa  di Anceschi,   Brevi parole, su un modo del tradurre  a Mariotti, le versioni di Mariotti sono lodate come «ben lontane dalle effusioni floreali del prof. Murray, non meno che da quelle di certi nostri professori-poeti», e si ha un interessante ricordo personale delle «traduzioni dai   Frammenti dei tragici greci che legge ai tempi del liceo LIZIO, lontane ormai, ma non dimenticate, di Mario Untersteiner, un traduttore che rimase esente dalle rumorose, eccitate, e un poco illusionistiche euforie degli esuberanti traduttori  liberty  del suo tempo. Anche in questo senso non è fuori luogo osservare, come più volte fece Marcello Gigante, che «la traduzione dei Lirici greci  ha conquistato un posto ben definito nella storia degli studi classici ragione della sede in cui è pubblicata, la recensione di Perrotta non si limitò a rilevare errori e spropositi della traduzione (Bella cosa, se Quasimodo sapesse un po’ meglio il greco!), ma soprattutto seppe cogliere nell’impresa di Quasimodo quella di «un poeta, un modernissimo poeta che vuol tradurre i lirici greci modernamente, e riesce così a conservare ad essi la semplicità antica»: da contemporaneo Perrotta comprese cioè il novecentismo dei Lirici greci , la loro pertinenza (come Anceschi dirà del classicismo post-simbolista di Eliot) a una zona di dignità anticamente moderna, di classiche aspirazioni, che è movimento proprio a gran parte dell’Europa civile Sono osservazioni utili, credo, a contestualizzare e meglio valutare l’attenzione, pur critica, che Gentili spesso manifestò verso i   Lirici greci  quasimodei nonché verso significato e influsso nella cultura italiana del Novecento di quella modalità di accesso alla poesia greca. Nel saggio di G. compreso nell’annata de «Il Verri» alle versioni di Quasimo-do dai lirici è accostato il   Pindaro  di Leone Traverso, cioè la traduzione delle odi e di una scelta di frammenti che il grecista e germanista L. Tra-verso pubblica per Sansoni. Va ricordato che sede originaria di   Prospettive critiche nell’interpretazione della cul-tura greca dell’età dei lirici  fu l’imponente numero in due tomi di Studi Urbinati per intero dedicato a ospitare  Studi in onore di Traverso , con   Dedica  di  Bo, di cui è altresì presente il saggio   La cultura europea in Firenze. Vi si rievoca il clima degli anni di formazione fiorentina di Traverso, poi professore di Lingua e letteratura tedesca nell’Ateneo urbinate, tra i giovani poeti e scrittori (Bo, Bigongiari, Luzi, Macrí) che raccolti intorno a «Il Frontespizio» e a «Letteratura» diedero vita all’esperienza dell’ermetismo, prima di tutto come esigenza di apertura a una cultura di carattere europeo e organicamente volta perciò alla traduzione: «anni dove la poesia è una sorta di religio- [Si tratta de «Il Bargello. Foglio d’ordini della Federazione fiorentina dei Fasci di combattimento», periodico cui collaborarono molti giovani intellettuali anche vicini all’ermetismo. La recensione ai   Lirici greci  è comunque segnalata nelle bibliografie di Perrotta in  Studi Perrotta  e in Perrotta; sul tema vd. Benedetto. Anceschi; ricordo in proposito il recente, ricco catalogo Mazzocca Traverso – Grassi G. Cfr. Bo  (in origine conferenza pronunciata a Firenze); nel I tomo è l’ampio saggio di Macrí, dove particolare attenzione è riservata alla rigorosa formazione filologica classica di Traverso («addetto, nella distribuzione dei nostri compiti generazionali, alla specula ellenico-germanica»), alla sua ammi-razione per Perrotta e alla intrinsichezza con Pasquali, alla lunga consuetudine con Pindaro, letto e tradotto «non con un rifacimento o rimpasto contemporaneizzante di tipo idealistico pseudostoricistico (poesia e non poesia, ciò che è vivo e ciò chene e la critica sposava le stesse passioni e le stesse ricerche dei poeti. Già coinvolto in una polemichetta con Quasimodo (duce  Lavagnini) ancor prima dell’uscita dei   Lirici greci , intorno all’interpretazione di ὤρα come  giovinezza  nel famoso fr. Diehl di Saffo (Tramontata è la luna ), Traverso fu uno dei primi recensori dell’opera, su «Primato» dell’1 luglio 1940. Pur notando qualche arbitrio e difetto nella resa del greco, sin dall’ incipit  egli aderisce alla scelta effettuata sui lirici («perfettamente adeguata al gusto del nostro tempo), alla sua modalità e ispirazione: Tralasciati i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al giro d’una polemica occasionale (Callino, Tirteo, Focilide,Teognide, Solone, Senofane, ecc.) e insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’ estranee al nostro spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione, come ufficiali quali Pindaro e Bacchilide  – egli isola di quella poesia una zona che più evidente offre il carattere di una «pu-rezza» rarissima in tutte le civiltà letterarie. (E l’ha aiutato efficacemente in questa selezione anzitutto lo stato in cui più di frequente furono tramandate quelle reliquie  – naturalmente per ragioni diversissime dalle sue: frammentario) Forse memore di quei lontani trascorsi, e certamente del retroterra erme-tico di Traverso, G. assimila   Lirici greci  di Quasimodo e   Pindaro  di Traverso come «prove più rappresentative di un’esperienza letteraria intesa come problema d’immagini, d’invenzione linguistica, di ricerca di stile. Mentre in Quasimodo la vera fedeltà di traduttore è nella libertà del movimento linguistico e ritmico» con il conseguente scarso valore attribuito al reale rapporto originale-traduzione, l’assai più ricca  è morto, ecc.) ma di colpo, al centro e al cuore dell’assoluto e del sublime pindari-co, che fu operazione tipica della critica ermetica nel contatto con l’opera d’arte»: notandosi inoltre che «non diverso (pur computata la diversità della preparazione filologica) fu il possesso della lirica greca da parte di Quasimodo». In una vivace intervista Macrí ha a ricordare Traverso all’inizio degli anni Trenta come parte «del primissimo gruppo pre-ermetico al caffè San Marco infusi del demone delle letterature straniere», insieme naturalmente a Bo, che «venne alla Facoltà di Lettere fiorentina per seguire gli studi classici, poi ci ripensò e divertì sulla letteratura francese, maestro Foscolo Benedetto, anche di Luzi (Tabanelli Sono parole a proposito di Quasimodo e degli anni Trenta da un articolo di Bo,   Ma dove va la poesia? , apparso sul Corriere della Sera, ora in Bo I testi della disputa, avvenuta su «Corrente di vita sono ora disponibili in Benedetto – Greggi – Nuti Traverso; la recensione è ora ripubblicata in Benedetto – Greggi – Nuti. Di fronte alle versioni di Quasimodo anche a Traverso, come a tutti i primi recensori, «preme anzitutto riconoscere la validità di poesia italiana, indipendente, che ne risulta. E quindi, come da molti è stato osservato, «il tradurre diviene un momento essenziale del poetare   Sent from the all new AOL app for iOStrama letteraria e filologica sottesa, nonché l’influsso di Hölderlin traduttore di Pindaro e di Sofocle, ha come effetto in Traverso un maggiore rispetto «per gli usi della lingua greca che per lo spirito della propria lingua», con il paradossale scivolare «in una sorta di ermetismo di scrittura che rende inintelligibile il senso e in un preziosismo linguistico che tradisce l’impegno della trasparenza anche se il calco raggiunga in qualche caso la fedeltà auspicata. Pur tra loro sotto molti aspetti differenti, le versioni di Quasimodo e di Traverso sono agli occhi di G. accomunate dall’inadeguatezza a riproporre «la totalità umana e artistica dei lirici greci», vittime della loro stessa ricerca di una «fedeltà emotiva» incapace di rendere l’attuale lettore consapevole della distanza che lo separa da quegli antichi e frammenta-ri testi. Allora e per i successivi decenni della sua intensissima attività scientifica, di filologo e di traduttore, la risposta scelta da G. fu ri-nunciare a soffermarsi sul «problema teorico, e in un certo senso ozioso, della traducibilità o intraducibilità in assoluto», e invece, per così dire fenomenologicamente, investire sul piano prammatico il problema del-la traducibilità. Si tratta di pagine di grande rilievo, dove sono indi-viduate priorità e finalità concernenti «il discorso della traducibilità dei lirici, dei modi e delle tecniche del tradurre», nel rifiuto dell’assunzione a modelli di specifiche poetiche del tradurre, affermando l’impossibilità di «prescindere dalle reali situazioni di cultura del mondo contemporaneo e dalle richieste che al traduttore pone il lettore moderno», e definendo esigenze di vasto e pur rigoroso valore comunicativo, destinate (come già si è visto) a essere ribadite e di continuo inverate nel lavoro di Gentili dei decenni a venire: Una poetica non astratta e irreale, non prefigurata su schemi di modelli già espe-riti, ma una poetica aperta del tradurre che si costruisca gli strumenti adeguati a una maggiore portata di comunicazione e riproponga il problema del tradurre dai G. Le considerazioni a proposito di Traverso, e delle tra-duzioni di Hölderlin come «esempi mostruosi» di fedeltà all’originale, torneranno in B. G.,   Introduzione , a G.– Bernardini – Cingano – Giannini G.  richiama in nota il pregevolissimo saggio di Mattioli, com-preso nel numero speciale  Classicità e contemporaneità , dove anche si aveva la fondamentale prolusione urbinate   Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Il saggio di Mattioli si conclude con alcune considera-zioni di tipo teorico, a partire dalla convinzione che la soluzione univoca (traducibilità assoluta o intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto», e che perciò risposta sul piano teorico non si può dare ma «il problema si risolve soltanto in un contesto prammatico, cioè sul piano delle molteplici risposte della storia. Alla tradizionale domanda ‘si può tradurre?’ Mattioli propone di sostituire domande quali come si traduce? e CHE SENSO HA IL TRADURRE?, cioè «sostituire alla domanda di tipo metafisico la domanda di tipo fenomenologico greci non nei limiti dei vecchi modelli privilegiati della traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella prospettiva più ampia di quella idea cui aspira l’etnografia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche, sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo. Poiché fedeltà alla poesia o fedeltà alla qualità letteraria è un problema che investe la comprensione totale del testo, non soltanto di tutte le sue connotazioni, dei suoi registri linguistici e metrici ma anche di tutta la realtà extralinguistica e situazionale dell’enunciato poetico. Senza passare dettagliatamente in rassegna l’intero saggio, bastino al-cuni richiami a temi che in futuro variamente continueranno ad occupa-re G.. Così l’interrogarsi su una versificazione italiana adeguata alla complessa struttura metrica delle strofe di Pindaro e di Bacchilide conduce Gentili a sostenere la preferibilità del verso libero delle grandi odi dannunziane, finanche segnalando le possibilità aperte dal verso dinamico e “atonale” della poesia dei Novissimi», e in effetti nell’antologia   Lirica corale greca  dello stesso G. tenta di risolvere il movimento dei metri simonidei con le tecniche metriche della poesia contem-poranea dei Novissimi: va detto che un profondo interesse per le strut-ture metriche della poesia italiana soprattutto ottocentesca e novecentesca sin dall’inizio caratterizza i «Quaderni Urbinati di Cultura Classica . La  G. [Sono affermazioni che ritorneranno, insieme a parte dell’intero saggio, nell’  Appendice II. La traduzione dai lirici. Alcune osservazioni sul problema del tradurre  in G., Si ricordi la scelta del verso libero per la traduzione delle   Pitiche , con l’os-servazione che «le grandi odi delle   Laudi  del D’Annunzio, particolarmente il verso libero della   Laus vitae , scandito da strofe di 21 versi, offrono sotto il profilo tecnico un modello esemplare di versificazione per l’esuberante dovizia delle forme ritmi-che, tali da riecheggiare […] i molteplici schemi della metrica pindarica» (G.,   Introduzione , a G. – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini); e si ricordi altresì la lunga citazione da   Maia , con l’apparizione del «monarca de-gli Inni», al principio dell’  Introduzione  alla postrema fatica G. – Catenacci  – Giannini – Lomiento Lo rileva Bernardini [In àmbito diverso ma non estraneo si tenga presente, dello stesso G., l’importante e innovativo lavoro  Cultura dell’im- provviso. Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e classica  (G.), poi riproposto in altre sedi: nella conclusione si esprime vivo interesse per esperienze contemporanee quali «l’affermarsi, in America, di un’avanguardia poetica, che si definisce “postmoderna” e trae il suo alimento dai contributi sulla poesia orale forniti, in questi ultimi decenni, non solo dall’antropo-logia culturale, ma anche e soprattutto dalla più autorevole filologia classica ameri-cana, rappresentata dagli studi del Parry, del Lord e dell’Havelock» poi in G. Già nel primo numero si ha l’articolo di Pinchera, che si apre lamentando l’effetto negativo sulle «indagini critiche relative alla storia delle forme metriche» prodotto dalla «dittatura culturale esercitata per vari decenni in Italia da Benedetto Croce».riflessione sull’eclissarsi nel secondo dopoguerra del neoumanesimo di W. Jaeger è occasione per evocare il contemporaneo «crollo dell’esperienza critica crociana», la cui presenza più autorevole nel settore della classicità e più coerente con l’orientamento crociano è riconosciuta in G. Perrotta, particolarmente per  Saffo e Pindaro. Circa la più generale posi-zione critica del maestro, G. tiene a mettere in rilievo che «pur ade-rendo senza riserve al canone dell’interpretazione estetica dei lirici, aveva tuttavia saldissime basi filologiche e storiche, non era in altri termini una critica del gusto», giacché il crocianesimo operava in lui come una sorta di sovrastruttura, sul tronco più vi-tale di quella viva metodologia critica introdotta in Italia da Giorgio Pasquali, che portava in sé già latenti i fermenti di un approccio linguistico, psicologico e antro-pologico alla cultura classica: la ricerca filologica costituiva soltanto il momento preliminare e necessario di un’indagine il cui fine era l’intelligenza del mondo an-tico nella viva concretezza della sua cultura. Nel prosieguo del contributo, Gentili brevemente si sofferma sull’innova- tivo apporto soprattutto degli indirizzi di Dodds e di Vernant allo studio della cultura greca arcaica, infine indicando il problema cardine della ricerca sulla cultura e la poesia di quell’età «nel corretto rapporto tra livello sincronico e livello diacronico della ricerca», il che è stimolo per accennare alle note riserve verso gli studi pindarici di Bundy, e poi di Young. Ad essi G. rimprovera un’analisi limitata ai soli aspetti sincronici delle strutture linguistiche e formali, tale da precludere «la possibilità di comprendere gli aspetti situazionali ed extralinguistici della   performance  della lirica pindarica». Alcuni anni dopo, più ampia- mente e duramente Gentili assocerà a questa nuova critica «il fastidio che suscita inevitabilmente un’analisi soltanto formale, intesa a repe-rire le costanti intertestuali, senza riguardo all’articolazione dei singoli contesti ed alla impostazione ideologica dei diversi autori: è per noi interessante il confronto lì istituito con «quella critica estetica che ebbe in Italia come suo massimo esponente G. Perrotta», a tutto vantaggio [In nota è menzionato il contemporaneo saggio su Saffo di Valgimigli, «da noi la prova più rilevante di una critica del gusto permeata di evoca-zioni e suggestioni letterarie della cultura italiana fra i due secoli». Significativo è, nella stessa nota, il richiamo invece favorevole all’intonazione anticlassicistica dei frammenti dal saggio di Serra   Intorno al modo di leggere i Greci  pubblicati da E. Raimondi nel numero de «Il Verri» su  Classicità e contemporaneità ; si consi-deri anche che in occasione del cinquantenario della morte, è il saggio di Bo La religione di Serra , poi accolto nel volume   La religione di Serra e altre note di lettura , Firenze Su crocianesimo e Pasquali in Perrotta, analoghe espressio-ni vent’anni dopo in G.. Su questi temi vd. poi almeno G., dell’approccio del maestro, «una critica estetica che non è puro estetismo impressionistico ed intuizionistico, ma una critica del gusto corroborata da un’acuta sensibilità storica.. L’articolo si chiude confer-mandosi come «proposta di una diversa lettura dei lirici, che recuperi nella storicità delle relazioni fra poeta e uditorio il significato originario del loro messaggio». Una proposta di cui si tiene a sottolineare il caratte-re antidogmatico, inteso a rispondere alle esigenze critiche del presente: «Ma, di là da una falsa pretesa di un equivoco oggettivismo metasto-rico, essa non presume di essere definitiva. Al contrario, consapevole del divenire storico della critica, si affianca alle precedenti proposte, già esperite, in una modalità di lettura più coerente con l’orizzonte culturale del nostro tempo. Assai più dei due precedenti interventi accolti su «Il Verri», Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici  è attento al tema della traduzione, e alle ricadute delle varie correnti critiche del Novecento su teoria e prassi delle traduzioni dai lirici greci. Al ‘piano prammatico’ e all’impostazione ‘aperta’ della traduzione, di taglio antropologico, Gentili rimarrà fedele, ulteriormente approfondendo la riflessione negli anni, sì da scorgere nel traduttore «uno “sciamano” che non conosce confini sino al punto da divenire un altro da sé e di cogliere il momento puntuale in cui significante e significato si compenetrano» 136 , nella fedeltà alla «norma dannunziana di avvicinare il lettore all’opera e non viceversa» 137 . La presenza di contributi di G. G.; sul conflitto tra gli indirizzi di Bundy e della SCUOLA URBINATE di G., le considerazioni di Lehnus. Ampia analisi delle posizioni di Bundy e di Young, con frequenti richiami a Perrotta e in nome (come noto) della riproposizione di una ‘lettura estetica’ degli epinici, è nel lavoro di Bonelli, con ricca bibliografia. G.. Analogamente, e fenomenologicamente, si concludeva il già citato Mattioli: Altre risposte (traduzioni e idee del tradurre) segui-ranno in futuro per le quali sarebbe arbitrario stabilir regole o far previsioni come lo sarebbe per l’arte del futuro», e perciò «a questo punto si può fermare il discorso, non solo perché si presenta come abbozzo di una futura ricerca, ma anche perché i  discorsi conclusi  in questo àmbito di studi sono palesemente insensati». Si veda già Mattioliper l a proposta di «una impostazione fenomenologica della ricerca, considerata particolarmente necessaria e opportuna nel campo dell’antichità classica proprio in ragione dello «scacco che ha ricevuto il tentativo, compiuto in Italia, di trasportare sic et simpliciter l’estetica crociana nella interpretazione delle letterature classiche. G.,   Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini Così in G., dove anche è ricordato il giudizio di Perrotta, per il quale ANNUNZIO (si veda) è non solo il traduttore ideale di Pindaro, ma il poeta italiano che meglio di tutti ha saputo riecheggiarne l’arte, intendendola pienamente. Più positivo si fa nel citato articolo il giudizio sulla traduzione pindarica di L. Traversosu «Il Verri» non andrà oltre i primi anni ’70 138 , ma sino alla vigilia del-la morte di Anceschi (maggio 1995) durarono i rapporti epistolari, come oggi sappiamo grazie alla pubblicazione dei diari riferiti agli ultimi anni del professore bolognese, che molte volte sino agli estremi suoi giorni continuò a tornare con il pensiero alla traduzione di Quasimodo dei  Lirici greci  e al suo significato storico e culturale. A quella stessa seconda metà degli anni ‘60 fecondissima di idee e di propositi appartiene il numero d’avvio dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», come espressione del  Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica latina  diretto da G.  e connesso al CNR. Un effettivo riesame dell’attività scientifica di Gentili comportereb-be una sistematica rilettura non solo dei contributi e degli interventi del direttore dei  Quaderni  ma più in generale delle principali linee di ricerca espresse dalla rivista, del loro permanere, mutare ed evolvere nel corso di cinquant’anni. Mi limiterò a richiamare due contributi di Gentili su Saffo ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a distanza di oltre quarant’anni l’uno dall’altro, per così dire ai due poli cronologici dei  Quaderni  di G.. Il primo è   La veneranda Saffo, che [Sino a Gentili – Cerri: sull’importanza dell’articolo per successivi saggi di G. sulla storiografia antica vd. Bernardini Oltre a un cenno in un’annotazione («Eccellente scritto di G. sulla “Repubblica”. Lo riporto integralmente. Ancora una volta acu-te considerazioni sulla oralità – e sulla situazione degli studi umanistici», cfr.   Anceschi), si veda soprattutto quella d («Lettera molto lusinghiera di G.. Conosco l’ironia, ed è tale da non accettare ambiguità. Ecco un uomo che dice quello che pensa», cfr.   Diari Anceschi). Nell’Archivio Anceschi presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna sono conservate lettere di G.: cfr. Campagna; si tratta della presenza più ampia per un filologo classico, insieme a M. Barchiesi (parimenti lettere), del quale sulla rivista anceschiana vd.   Plauto e il “metateatro” antico  (Barchiesi), con la premessa: «sulla tentazione erudita […] prevalse l’idea di tenere aperto, in perfetta modestia, il discorso su quello che è più che mai il nostro tema cruciale, e che può designarsi con la formula stessa del “Verri”, classicità e contemporaneità. Così: Con Quasimodo ho avuto una frequentazione amichevole molto prolungata e, mi pare, serena aperta ai problemi con vivi impulsi di collaborazione e di conoscenza. Certo sono passati tanti anni; per altro, l’affetto del ricordo non diminuisce. Quale che sia la forza della mia vita letteraria, per me si è trattato di un risvolto capitale. La traduzione dei   Lirici Greci  fu una esperienza radicale alle origini, che ci portò a rivivere il proble-ma del tradurre come un problema fondamentale della poesia. Da quel momento la discussione è aperta, e mi pare con qualche frutto, mi pare anche che in questo senso l’impulso continui. Penso che questa esperienza nel mettere in rilievo tanti motivi della relazione complessa tra traduzione e poesia – sia, o almeno sia per quel che mi riguarda, costitutiva di un modo di vedere che continua ad operare» ( Diari  Anceschi G. confluito in forma abbreviata in G. prende spunto dal famoso fr. 384 V. (verosimilmente) di Alceo ἰόπλοκ’ ἄγνα μελλιχόμειδε Σάπφοι, forse (si è supposto) «l’ incipit   di un car-me dedicato all’illustre concittadina» 142 . Era il frammento cui s’era volto Perrotta dopo aver espresso il proprio rifiuto verso «la soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz» a difesa della ‘purezza’ di Saffo: Molto meglio, per chi voglia davvero intendere e onorare Saffo, ricordare il fram-mento di Alceo che dice: «affo pura, dal dolce sorriso, dal crine di viola. L’omaggio devoto dell’insolente cavaliere di Lesbo basta a farci sicuri che né bia-simi né malignità aduggiarono mai la vita mortale di Saffo. Altro non è da ricercare: non si può pretendere di giudicare con le nostre idee moderne, né giudicare una donna di Lesbo con i pregiudizi di un Ateniese. Ognuno vede quanto sarebbe ingiusto rimproverare alla poetessa i suoi amori per le amiche, mentre nessuno rimprovererà al suo compatriota e contemporaneo Alceo gli amori per Lico. Ma più importa questo: Saffo è soprattutto una poetessa, anzi è soltanto una poetessa per noi; soltanto la sua poesia noi dobbiamo giudicare, e soltanto in essa noi possiamo trovare la sua immagine. Ora, alla sua poesia possiamo accostarci con animo puro: essa è pura, perché poesia, e altissima poesia. Al passo, per molti aspetti paradigmatico dell’interpretazione perrottia-na di Saffo, Gentili non fa diretto riferimento, rifacendosi invece all’ultimo articolo di Ferrari, allievo di Pasquali inviato come assistente di Perrotta a Roma. Se merito dell’intervento di Ferrari era stato sottrarre l’interpretazione dell’epiteto  ἄγνα all’àmbito della «castità profana», caro a «tutte le mitiche specula-zioni sulla purezza degli amori di Saffo» e a tutte le «moderne idealizzazioni della sua poesia, dimostrandone invece il senso arcaico «limitato esclu-sivamente alla sfera del sacro», d’altra parte – rileva G. – l’indagine di Ferrari sfociava in una idealizzazione di Saffo sostanzialmente coerente «con l’orientamento critico di stretta osservanza crociana prevalente in quei tempi», rappresentato al meglio dal  Saffo e Pindaro  di Perrotta, scritto appena cinque anni prima . Nel varare la fortunata avventura dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica, dalla ‘purezza’ di Saffo G. decide  Degani – Burzacchini Perrotta. 144  Canfora  L’articolo di Ferrari era ricordato a proposito del «significato di ἀγνός»  anche nella I edizione di   Polinnia. Questo verso famoso, che sarà da attribuire ad Alceo, è innocentemente responsabile di tutte le mitiche speculazioni (soprattutto da noi) sulla personalità di Saffo che poeti, critici e filologi ci hanno somministrato a partire dalla Saffo “dal riso morbido, dall’ondeggiante | crin di viola” del Carducci sino alla casta Saffo del Valgimigli»: così Gentili l’anno prima, in occasione del rifacimento della sezione su Alceo per l’edizione di   Polinnia  del 1965, 224 (anche in Gentili – Catenacci 2007a, 196). 147  Gentili 1966, 37-38di prendere le mosse: da quello stesso frammento, si può aggiungere, scelto ad introdurre la sezione su Saffo nei Lirici greci  di Quasimodo (o coronata di viole, divina dolce ridente Saffo). In conformità ai principî deli-neati nel saggio dell’anno precedente   Aspetti del rapporto poeta, commit-tente, uditorio nella lirica corale greca , dove si poneva in primo piano la necessità per il moderno lettore di comprendere la funzione e il fine proprio del carme lirico, il senso dell’apostrofe è rintracciato attenendosi al senso reale del contesto alcaico, così leggendo nel saluto di Alceo «un reverente omaggio alla dignità sacrale della poetessa quale ministra d’Afrodite», con precisa allusione «alla funzione religioso-sociale nell’ambito del tiaso. L’inveterato tema degli amori di Saffo è radicalmente riesaminato alla luce di carattere, aspetti, scopi del tiaso saffico «nelle sue giuste proporzioni storiche e sociali anche mediante l’apporto di analoghe esperienze di altre culture». Il riconoscimento dell’esistenza nella dinamica del tiaso di pre-cise unioni per così dire ufficiali fra le ragazze tali da non escludere «probabilmente un rapporto di tipo matrimoniale» è posto da Gentili in relazione a una testimonianza di Simone de Beauvoir circa la presenza a Singapore e a Canton ancora in anni recenti «di molte comunità femminili che nelle convenzioni e nelle pratiche di culto sembrano ripetere antichi modelli culturali molto simili a quelli delle comunità della Lesbo arcaica», e cioè «des lesbiennes reconnues e marient entre elles et adoptent des enfants». G. offre qui un geniale esempio di «interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo», come suonerà il ti-tolo dell’intervento al congresso di Bonn: al di là di eventuali dubbi circa la sostenibilità del confronto, comunque verosimile, conta mettere in luce l’efficacissima reazione ermeneutica che lega antico e contemporaneo illuminando entrambi. Né manca l’apertura sul futuro, quando si pensi in che misura a distanza di pochi decenni in molti Paesi oc-cidentali quegli antichi modelli culturali si siano concretizzati nella rifles-sione giuridica, nella legislazione e nella prassi sociale. Esempio forse tra i più chiari di quanto i classici, e il rinnovamento della loro interpretazione, abbiano contribuito a porre lontane, e meno lontane, basi della (post)moderna  sexual revolution, con tutte le forzature e gli arbitrî propri di tali ardui e complessi intrecci di tempi e di culture. Dell’attenzione di Gen- [G. Importanti in quest’àmbito anche i numerosi contributi ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a proposito di significato e contesto del partenio di Alcmane, a partire soprattutto da G.  (poi rifuso in Le vie di Eros nella poesia dei tiasi femminili e dei simposi  in G.); sul più ampio tema delle iniziazioni femminili l’assai più recente volume G. – Perusino In luogo di rifarmi alla sovrabbondante bibliografia anglosassone in proposi-to, spesso ideologicamente determinata, ricordo il capitolo   Klassieken en seksuele vrijheid  nel bel libro di Veenman: con particolare riferimento a una cultura, quale quella dei Paesi Bassi, cui in differenti epoche, sino alle più recentitili a questi temi e alle loro ricadute e implicazioni, è infine testimonianza  Saffo ‘politicamente corretta’  , l’articolo  (in collaborazione con Catenacci) dove la ribadita posizione critica che ammette la presenza nei carmi saffici di elementi avvaloranti la pratica dell’omoerotismo in àmbito iniziatico e paideutico è volta a contrastare «una nutrita serie di lavori ispirati ai  gender studies » di recente diffusisi soprattutto negli (e dagli) Stati Uniti, e intesi a sostenere che «Saffo non si rivolgeva a giovinette, ma a sue coetanee in una forma di libera attrazione omosessuale, e non svolgeva nessun ruolo né paideutico né religioso all’interno del gruppo. Un coraggioso intervento, di grande valore metodologico e rilevanza storiografica, per il quale una tale Saffo   politically correct   va respinta, al pari della Saffo otto-novecentesca votata alla purezza, giacché «rappresentazione astorica e forgiata su istanze manifestamente attualizzanti. Nel quadro del crescente interesse nei Quaderni Urbinati di Cultura Classica dell’ultimo ventennio per questioni di storia e metodologia degli studi classici, alcuni anni fa apparve un articolo di Miralles, dal titolo  The use of classics today, aperto dall’indubbia constatazione «the huma-nities are losing ground and classical studies are in retreat. Al di là dei suggerimenti proposti, e dell’enorme differenza di tempi e condizioni, torna in mente «il vigile e costante impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi» caro a Perrotta, da G. più volte ricordato nelle com-memorazioni del maestro. Nel salutare la recente rinnovata edizione di   Polinnia  è stato giustamente e autorevolmente rilevato che «in tanto rin-novamento, Gentili e la sua scuola non hanno dimenticato né che la poesia greca si può avvicinare solo attraverso la storia e la filologia, né che essa ha comunque uno straordinario valore estetico. G. non ha rinnegato le sue radici, semplicemente da esse è nato un albero capace di produrre fiori non prevedibili all’inizio – se Perrotta sarebbe contento di lui? Difficile dirlo» 153 . Forse, e per molti motivi, si può azzardare una risposta positiva. Benedetto si devono determinanti apporti nell’elaborazione di teoria e prassi della moderna sessualità liberata, Veenman mostra quanto soprattutto negli ultimi due secoli i classici hanno aiutato a capire e denominare l’omosessualità -- de klassieken hielpen homoseksualiteit te begrijpen en te benoemen. – Catenacci 2007b; circa la storia della fortuna e della ricezione di Saffo mi limito a rinviare alle incisive osservazioni di Most. Va detto che in generale la critica più recente sembra avvertire una quantità crescente di aporie circa il significato del contesto comunitario, il gruppo ristretto e omogeneo tradizionalmente attribuito a Saffo, il ‘tiaso’, e torna ad osservare che «mentre nel caso di Alceo la dimensione di gruppo ristretto è evidente e spiega ade-guatamente gran parte – se non la totalità – della sua poesia, nel caso di Saffo è più difficile da delineare senza rischiare attualizzazioni indebite (Michelazzo). Miralles Bettini Albini, Perrotta, «nomon Anceschi,   Primo tempo estetico di Eliot  , in T. S. Eliot,   Il bosco sacro. Saggi di poesia e di critica , con uno studio di L. Ance-schi, Milano 1Anceschi,  Critica e immaginazione , «Il Verri» (il verri). Anceschi,  Orizzonte della poesia , «Il Verri» Anceschi, Intervento , «Il Verri» Anceschi,   Del “Verri”, perché lo abbiamo fatto e lo  facciamo , «Il Verri» Anceschi, Interventi  per «il verri», a cura di L. 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Lettere e documenti di Manara Valgimigli,  Anceschi e Quasimodo , a cura di Benedetto – Greggi – A. Nuti; introd. di M. Biondi, Bologna Lirici greci e lirici nuovi. Lettere e documenti di Manara Valgimigli, Luciano Anceschi e Salvatore Quasimodo, cur. Benedetto – Greggi – A. Nuti; introd. di M. Biondi, Bologna Bernardini,   Rassegna critica delle edizioni, traduzio-ni e studi pindarici dQUCC» Bettini,  Una nuova  Polinnia, «QS» Bo,  Letteratura come vita , «Il Frontespizio» Bo,   La cultura europea in Firenze, «Stud- UrbB Bo,   Letteratura come vita , antologia critica a cura di S. Pau-tasso, Milano Bonelli,   Pindaro. Formalismo e critica estetica , AC  Bossina,  «Textkritik». Lettere inedite di Paul Maas a Giorgio Pasquali , «QS Campagna,  Appendice I. 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Il tempo dell’ermetismo, testi-monianze di Bo – Luzi – Betocchi – Macrí – Bigongiari  – Parronchi – Vallecchi –  Pratolini – Ulivi – Caproni, Milano Tedeschi,   Ricordo di G., A e R, Tavola rotonda , QUCC Tomasin,  Varia (s)fortuna di Alceo in Italia, ASNP Traverso,  Lirici greci , Primato Traverso – Grassi Pindaro,  Odi e frammenti , trad. e prefazione di Traverso; note introduttive e note al testo di Grassi, Firenze. Pascoli, L’opera poetica  scelta e annotata da Treves, Firenze Ugolini, Lirici greci,   scelti e commentati da   Ugolini – Setti, Firenze.Ugolini Lirici greci e poeti ellenistici , antologia a cura d’Ugolini, Setti, Firenze Usener, Altgriechischer Versbau: ein Versuch verglei-chender Metrik, Bonn Usener,   Philologie und Geschichtswissenschaft, in Id.,  Vorträge und Aufsätze , Leipzig-Berlin Usener,  Triade. Un saggio di numerologia mitologica , a cura di Ferrando, Napoli. Usener,   I nomi del divino. Saggio di teoria della formazione dei concetti religiosi, cur. di Ferrando, Brescia Usener,  Le storie del diluvio, cur. Sforza, Brescia Valgimigli, Poeti greci e lirici nuovi, La Fiera Letteraria (poi in Valgimigli, Del tradurre e altri scritti, Milano-Napoli Veenman, De klassieke traditie in de Lage Landen, Nijmegen Zapperi,  Freud e MUSSOLINI. LA PSICO-ANALISI IN ITALIA DURANTE IL REGIME FASCISTA, Milano. Grice: “I know Gentili’s type – once in love with Greek, you cannot be a honest Latinist. So he found that everything Roman had to be Hellenistic, -- see his notes on the Saturnio – this of course irrirtates and rightly so Latinists – there are Roman ways which are not Hellenistic ways. Geymonat has analysed this in social-class terms in his history: Athens remained the finishing school for the ‘figli’ of the ‘migliore famiglie romane’ – and the circle of Scipione Emiliano was pro-hellenic, but Cato won: Latin remained the lingo!” Grice: “It also shows the unfairness of academia for the poor – only the poor learn at Oxford, and I was fortunate enough to have Hardie – but imagine you are born near Urbino and decide to study classics at Urbino and you have Bruno Gentili as your teacher in “Latin literature” and all he teaches you is how Hellenistic it all is! I hope you are not poor and that you don’t have to LEARN at Urbino!” -- Bruno Gentili. Gentili. Keywords: implicature, il rettore latino – la chiasura della scuola di rettorica a Roma di Crasso e Plozio  – Cicerone – una perdita di tempo che chiude le teste dei Romani. G.: Apri!, la rettorica a roma: i primi e gl’ultimi semestri – Plozio – la guerra di Mario per l’apertura della cittadanza agl’italici --- la chiasura di la scuola di rettorica di Crasso. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentili” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gerratana: all’isola – la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del contratto sociale – scuola di Scicli – filosofia ragusese -- ffilosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Scicli). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Scicli, Ragusa, Sicilia. Grice: “I like Gerratana; for one, he translated Rousseau, and I have been called a contractualist, if not like Grice [G. R. Grice].” Grice: “Gerratana carefully edited Pintor’s oeuvre.” – Grice: “I like Gerratana; they – Italian philosophers, generally -- philosophise on the working people – operaio --; at Oxford we usually do not!” Partecipa alla resistenza a Roma, nelle file dei GAP, legandosi a Salinari e Pintor, conosciuto al corso allievi ufficiali di Salerno, e ricordato in “Sangue d'Europa.” Prende parte alla ricostruzione del PCI romano e si laurea a Roma. Insegna a Salerno e Siena. Studioso sobrio e rigoroso del marxismo, cura Labriola e Gramsci. La sua edizione, con un'accurata ricostruzione cronologica, archiviò definitivamente l'edizione tematica. G. mette in luce lo stile "frammentario" e "antidogmatico" di Gramsci. Altre opera: “L'eresia di Rousseau, Roma, Editori Riuniti), Il marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Labriola di fronte al socialismo giuridico, Milano, Giuffrè editore); “Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti); “Quaderni dal carcere. Treccani L'Enciclopedia italiana". Biografia di G. nel sito dell'ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia.  Si è svolto a Roma il 18 e 19 novembre nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Roma Tre, un convegno di studi in memoria di un importante esponente del pensiero politico italiano, G. Essenzialmente noto per aver curato l'edizione critica dei Quaderni del carcere di Gramsci, G. e in realtà uno studioso politicamente appassionato e uomo politico di estrema cultura. Merito di questo convegno è stato l'aver messo in luce tanto l'impegno politico e morale di un uomo quanto l'eclettismo, la vivacità intellettuale e la serietà di un pensatore troppo poco conosciuto in fin dei conti, la molteplicità variopinta dei suoi contributi scientifici e la continuità e coerenza del suo impegno, politico ed intellettuale.  Il convegno è stato organizzato dalla Societea Gramsci – di cui Gerratana fu co-fondatore,  assieme a Tortorella, Baratta e  Liguori. Le giornate, divise per sessioni tematiche, hanno ricordato la figura di Gerratana nella sua complessità: partigiano antifascista a Roma negli anni della Resistenza, giornalista, curatore e studioso di molti classici della storia della letteratura, della FILOSOFIA e del marxismo (dalla cura dell'edizione critica degli Scritti politici di Labriola a quella degli scritti estetici di Marx ed Engels, ai contributi su Rousseau, Machiavelli, Lukács, Lenin), ma noto in tutto il mondo anzitutto come curatore e studioso del pensiero di Gramsci (dall'edizione critica dei Quaderni, all'approfondimento dell'indagine sulle categorie sociali e politiche della riflessione gramsciana e la cura – assieme al suo più stretto collaboratore, SANTUCCI (si veda) – del volume sugli scritti gramsciani dell'Ordine nuovo. Non è facile informare esaurientemente sul convegno, credo proprio per la personalità e la grande vivacità intellettuale di G., emersa nella sua complessità lungo la due giorni di lavori.  L’evento ha messo alla prova intellettuali e ricercatori, ha dialettizzato l'ascolto reciproco di relatori e pubblico, fra i quali si è avuto un confronto sereno ma anche serrato, indubbiamente appassionato. Ne è risultato – e ne va il merito agli organizzatori – un evento generoso per ricchezza e poliedricità delle tematiche affrontate, per l'eterogeneità degli accenti che si sono avvicendati (secondo l'esperienza politico-culturale di relatori e pubblico), quanto infine per la vastità dei territori culturali esplorati (dalla storia – italiana e internazionale, alla filosofia, alla politica). Su tutta l'iniziativa s'è aggirato lo spettro benevolo di Gramsci, della sua vicenda umana come anche di quel lascito inesauribile che è la sua produzione culturale. E di Gramsci G. non è stato solo il curatore e il promulgatore, ma anche un indimenticabile interprete. Gli anni e la formazione giovanile: partigiano antifascista ed intellettuale engagé Questa introduzione credo consenta di comprendere forse più chiaramente il contesto e lo spirito in cui il convegno di questi giorni ha trovato spazio.   Anche la presenza e il saluto delle istituzioni che con la IgsItalia hanno permesso il convegno – contrariamente al solito – sono stati sentiti ed interni al tema in oggetto dell’incontro. La figura di G. è stata difatti ricordata con stima sincera e rispetto da Cecilia D'Elia (Assessora alla cultura della Provincia di Roma) e Domenici (Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Roma Tre). Elia ha sottolineato la rilevanza di questo convegno su G. – figura complessa, in cui ricerca politica e ricerca della libertà si intrecciano –, studioso che sempre volle tener connesso l'impegno pratico e l'impegno teorico, combattente antifascista negli anni della Resistenza, uomo che diede un contributo decisivo alla costruzione della democrazia in Italia. Sulla stessa linea d'onda Domenici ha salutato con piacere l'evento in ricordo di G., anzitutto perché questa facoltà contribuisce a formare i formatori: ed è stato forse fra i più grandi meriti di G. l'aver decisamente contribuito a divulgare la genesi del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci, a partire dalla cura dell'edizione critica dei Quaderni di Gramsci. Non pochi interventi hanno messo in luce i meriti di G. riguardo la divulgazione del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci. In particolare ricordiamo qui l'intervento di Santarone, Coordinatore del CESME di Roma Tre, che ha messo in luce il valore generale degli studi di pedagogia della tradizione marxista che delineano quella fondamentale concezione della formazione umana come "sviluppo onnilaterale dell'uomo". Un tale impegno risulta ancora più fondamentale in epoca di globalizzazione capitalista, sottolinea Santarone, in cui il lavoro dell'uomo e la sua formazione paiono ormai finalizzati unicamente ai processi di valorizzazione di capitale, i centri di formazione ed istruzione di massa vengono de-finanziati mentre nel contempo si sostengono economicamente scuole e poli di eccellenza privati, volti a creare le future élite e classi dirigenti. L'impegno di G. come intellettuale engagé è stato sottolineato in molti interventi nel corso del convegno, fra cui quello di Liguori che – in apertura dei lavori – si è soffermato sulle ragioni della scelta dell'espressione gramsciana filosofo democratico come carattere fondamentale dell'animo e dell'impegno di G.. Tale formulazione sta ad indicare un pensatore che non si chiude nella propria torre d'avorio, ma contribuisce attivamente alla creazione di un senso comune di massa, un uomo «convinto che la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale (Q). É questa essenzialmente l'immagine che Liguori ci ha voluto restituire di G.: un pensatore che non si accontentò del «pensiero proprio, "soggettivamente" libero, cioè astrattamente libero», ma che operò per l’unità di scienza e vita come «una unità attiva, in cui solo si realizza la libertà di pensiero», secondo un «rapporto maestro-scolaro, filosofo-ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari da impostare e risolvere», un uomo che concepì la propria attività intellettuale come rapporto di «filosofia-storia» (ibidem), un uomo il cui impegno politico e la cui elaborazione teorica sono stati la testimonianza della migliore tradizione del comunismo e del marxismo italiani. Fa seguito l'intervento di Demurtas, che illustrato i criteri e i temi sulla base dei quali si è svolto l'intervento di riordino dell'archivio di G. assieme alla collega Salvatori, di cui è stato letto un contributo, e che ha sottolineato come grazie al riordino delle carte e dei documenti sia ora possibile svolgere ricerche e approfondimenti sull’attività di G.. I documenti archiviati, difatti sono fascicoli, che si è deciso di suddividere in partizioni tematiche fra studi e attività, e fra queste risultano particolarmente rilevanti le quantità di fascicoli dedicati a Gramsci e a Labriola e da cui si evince una grande meticolosità nell'elaborazione. Ha concluso la prima parte di introduzione ai lavori del convegno la lettura della lettera di saluto del Presidente della Repubblica Napolitano in cui è stato espresso «il più vivo apprezzamento per la scelta di ricordare un insigne studioso, cui va il merito di aver contribuito, con l'edizione critica dei Quaderni del Carcere di Gramsci. È stata poi la volta del primo relatore, Musci (studioso dell'Istituto Gramsci per gli studi storici) che ha ricostruito gli anni giovanili di G., in particolare quelli degli studi universitari e della polemica con Croce, sottolineando una tendenza di G. a considerare gli eventi storici attenendosi ai fatti, alle formule logiche e alla loro riproducibilità, ma senza prescindere del tutto dalla "situazione psicologica" in cui questi si svolgono e che spesso si maschera in concetti. Ma G. non fu solo un intellettuale impegnato. Fu un partigiano. Questo hanno ricordato le successive relazioni della mattina proseguite con i due contributi "di memoria storica" di Reichlin e Prestipino–, significativi per la nota autobiografica in essi contenuta, che ha permesso una comprensione più articolata del senso dell'impegno politico di Gerratana negli anni della lotta di liberazione nazionale dal regime fascista. Medaglia d'Argento per l'impegno negli anni della lotta di Liberazione dell'Italia dal regime fascista, la narrazione di quei mesi è stata emozionante nell'intervento di Reichlin. Che ha ricordato gli anni giovanili della "passione politica" (tema che è stato ripreso anche da Tortorella in chiusura dei lavori del convegno) e le vicende in cui, nella Roma occupata dai tedeschi, Reichlin incontra G. Con Pintor formarono una cellula, e G. divenne loro dirigente, nome di battaglia "Santo". Sono quelli gli anni in cui nacque un sentimento nuovo, l'antifascismo, ed una nuova cultura, quella dell'impegno. Come allora – conclude Reichlin – il popolo italiano, nonostante appaia fiacco e corrotto, tuttavia continua ad esprimere degli intellettuali, e questi dovrebbero anch'essi prendere il proprio posto di combattimento. G. fu dunque un partigiano antifascista con un deciso interesse per la storia e la filosofia politica. Ma anche un giornalista. La tendenza all'impegno culturale trovò uno sbocco concreto in questa attività – su cui si è soffermata la relazione di Prestipino –, quando cominciò a scrivere sulla Voce della Sicilia. Prestipino racconta di un comunista, un uomo d’innata modestia, che non firma i suoi saggi, direttore di giornale cordiale ma austero, un intellettuale pensoso. G.: uomo di cultura, FILOSOFO DEMOCRATICO, marxista Non solo di politica, ma anche di letteratura e di FILOSOFIA si occupa G.. La sua natura di intellettuale a trecentosessanta gradi è stata ben messa in luce da tre relazioni in particolare, quelle di Voza, Savorelli e Burgio. Voza ricorda come si svolse in Italia un ricco dibattito sul tema della lotta per il realismo, che nel dopoguerra espresse una tendenza la quale si afferma in molta parte dell'intellettualità. Nasceno le poetiche neo-realistiche della cronaca e del documento come ricerca di un massimo d’oggettività di contro all'influenza di suggestioni lirico-decadentistiche. Nel passaggio dalla crisi del neorealismo al realismo si colloca il contributo di G., che ritene quest'ultimo un fondamentale strumento teorico-culturale. In risposta all'intervento polemico di Croce Sanctis-Gramsci? (Lo Spettatore Italiano), G. stende per "Società". Sanctis-Croce o Sanctis-Gramsci? Appunti per una polemica e sviluppa il ragionamento nell'Introduzione all'estetica desanctisiana desanctisiana (“Società”). Egli ha come riferimento la positiva valutazione di Gramsci del realismo desanctisiano, fondato sull’analisi del contenuto artistico in connessione alla lotta culturale. Difatti Gramsci coglie nel Sanctis un modello di critica letteraria che lo rende emblema della concezione di un'estetica realista e anticipatore di una concezione marxista dell'estetica. Alla base della sua concezione vi sarebbe la ricerca di unitarietà fra La Scienza e la Vita, titolo di un famoso saggio desanctisiano, più volte citato da Gramsci nei Quaderni, cosicchéSanctis si discosta dalla concezione speculativa dell'estetica di Hegel. In tal senso la tendenza estetica di Sanctis, secondo Gramsci, era "istintivamente materialista", ciò perché la sua attività critica non era «frigidamente estetica» (Q). Per tali ragioni Sanctis resta, per Gramsci, un modello di come nella stessa coscienza critica, pur rimanendo distinti, possano confluire convenientemente giudizio estetico e valutazione di una tendenza artistico-culturale, cosicché G. condivide l'appello gramsciano del ritorno a Sanctis (Q), intendendo con ciò la necessità di assumere verso il rapporto arte-vita un atteggiamento di stretta connessione, così come lo intendeva Sanctis ai suoi tempi. Nella seconda parte del suo intervento Voza ha ricordato come G. abbia steso il saggio Lukács e i problemi del realismo (“Società). Si ricordi che con la pubblicazione di Il marxismo e la critica letteraria di Lukács giungeva anche in Italia quella poetica dell'estetica marxista che si poneva come obiettivo la costituzione di una nuova letteratura in una società socialista – dunque la necessità di definirne la natura e il ruolo che in essa avrebbero dovuto ricoprire gli intellettuali. G. mette in luce due diverse idee di realismo: come metodo (di impronta lukácsiana) e come tendenza (di memoria gramsciana), specificamente come tendenza culturale che esprime un atteggiamento programmaticamente orientato verso la realtà piuttosto che verso la sua evasione. La lotta di G. per il realismo, conclude VOZA (si veda), alla luce del carattere complesso che intendeva conferirgli, alludeva in certo modo alla "lotta per l'egemonia" così come delineata da Gramsci e alle nozioni di progresso intellettuale di massa e riforma intellettuale e morale.  Se l'intervento di Voza ha posto in luce la capacità di G. di dar conto anche di questioni legate alla scienza estetica, l'intervento di Burgio ha affrontato la lettura critica da parte di G. del pensiero di Rousseau, ripercorrendo le tappe di sviluppo ed il senso della sua produzione del ginevrino. Burgio ha illustrato come G. e Rousseau siano stati legati da un lungo rapporto di fedeltà, particolarmente significativo per il fatto che G.  scelse di leggere una parte degli scritti rousseauiani – quelli politici – e perché non mancò mai d'interrogarsi sull'attualità di questi testi, pur leggendoli entro una prospettiva storica. Questa è la ragione per cui si tratta di un Rousseau sempre diverso a seconda delle diverse fasi della ricerca di G., che possono delinearsi anzitutto secondo un ordine cronologico. È sua la prefazione di G. al contratto sociale, in cui egli denota il maggior valore di questo testo rispetto ai discorsi – reazione sentimentale al compromesso della cultura illuministica con la realtà sociale iniqua e corrotta del tempo. Il moralismo di Rousseau appare tuttavia a G. storicamente attuale in forza dei valori sui quali si impernia – un valore sopra ogni altro, la libertà. D’altra parte, sottolinea G., non la libertà estenuata dal completo esautoramento da cui sembrerebbe condannata da una lunga e ormai logora tradizione liberale, bensì una libertà resa concreta dalla stretta connessione con l'uguaglianza»; piuttosto una libertà la cui essenza costitutiva è precisata dal riferimento all'idea di eguaglianza e di legge, ciò che consente a G. di riformulare il tema della libertà in chiave collettiva, sociale, vincolandolo al criterio della giustizia e della autonomia politica della società. Negli anni caratterizzati sul piano teorico dalla polemica fra il PCI e BOBBIO (si veda) – G. prende parte alla discussione sul tema della transizione dalla democrazia al socialismo (rispetto al quale Rousseau veniva chiamato in causa da VOLPE (si veda) come ispiratore dello stato democratico e socialista. Egli interviene con una prosa misurata e sobria: Rousseau è il tramite teorico-pratico dell'evoluzione della democrazia borghese in senso socialista; quello di Rousseau è dunque un programma di massimizzazione della democrazia, non d’anticipazione del socialismo. Il discorso di G. muta decisamente nella seconda parte degli anni '60, quando stende l'Introduzione alla traduzione del Discorso sull'ineguaglianza, Riuniti, sullo sfondo della quale pare di intravedere le lotte sociali che sfoceranno nel moto studentesco ed operaio. Non si tratta più del tema della transizione, nota Burgio, ma della trasformazione sociale nel suo complesso e non è più il Contratto al centro della riflessione di G., ma il secondo discorso. G. stende un saggio con al centro nuovamente l'interesse per il Contrat (Sul nesso Rousseau-Hobbes, in “tudi politici in onore di FIRPO (si veda), Angeli: Rousseau è ancora il padre della democrazia moderna (costituzionalismo) e viene contrapposto a Hobbes, teorico dell'oppressione assolutista. Burgio indica infine un possibile mutamento di prospettiva nella lettura di Rousseau da parte di G., facendo perno sul testo rousseauiano: se gli scritti privilegiano il contrat (classico del costituzionalismo e del governo della legge, letto – nota BURGIO (si veda) – in chiave fondamentalmente montesquieuiana), il contributo dtrova il suo oggetto nel secondo Discorso e qui emerge la consapevolezza di G. del versante distruttivo del progresso, della civilizzazione e della cieca tendenza degli uomini a far valere le proprie istanze particolaristiche.   Infine ricordiamo il contributo di Savorelli sul LABRIOLA (si veda) di G., che si è soffermato sull’intento di G. di sottrarre il pensiero di Labriola dalla lettura che ne faceva la tradizione crociana e liberale. Negli anni '60 G. riconsidera LABRIOLA (si veda) alla luce della polemica con lo spontaneismo dei movimenti e con la contestazione del marxismo ‘storicista’, mentre negli anni dell'arretramento del movimento operaio, mentre si profilava la crisi del PCI – G. si preoccupa per le degenerazioni della politica (sistema di aggregazioni corporative di interessi locali, per l’emergere in Italia della disinvoltura pragmatica di spregiudicati mestieranti, avventurieri e giocolieri), destinate a spingere le masse verso il riflusso e l’apatia. SAVORELLI (si veda) sottolinea come le attualizzazioni cui G. volse il pensiero di Labriola non furono una forzatura; al contrario il richiamo a Labriola, al critico sferzante della società italiana e delle sue classi dirigenti, era sinistramente profetico dell’accelerazione impressa in quel decennio ai fenomeni degenerativi di lungo periodo. Infine nell’ultimo Labriola G. scorse l’intuizione di problemi (imperialismo, globalizzazione, regresso della democrazia, «crisi della cultura popolare», ritorno del misticismo), che sarebbero ancora i nostri (G., Labriola e la politica, Studi storici). Diniha concluso la serie di testimonianze sulla vita e l'impegno culturale di Gerratana raccontando della comune esperienza negli anni dell'insegnamento universitario a Salerno. Dini ha letto una pagina dedicata da Racinaro a G. nella quale quest’ultimo è descritto come uomo poco diplomatico, amante di una verità da pronunciare senza mediazioni, uomo poco tenero anche con i cari, amante della filosofia illuminista, in particolare del Kant di Cassirer; e la sua stessa vita accademica si caratterizzava per la puntualità "kantiana", il forte senso del dovere e il rigorismo morale, quasi draconiano, che fu messo in luce anche durante gli anni all’Università di Salerno. D’altra parte il rigorismo morale di G., secondo DINI (si veda), sarebbe stato trasferito in modo eccessivamente rigido contro quella società che si stava rivoltando in quegli anni di sommovimenti sociali e popolari, dacché ne risultava un rigorismo spesso astratto. Dini ha inoltre ricordato che G. riprese l’attività universitaria a Salerno sotto sollecitazione di Colletti, che ne promosse l’ingresso, ritenendo questo rapporto G./Colletti un esempio del minimo rigorismo ideologico di G., della sua concezione aperta del marxismo – evidente anche nella ricostruzione non sistematica dei Quaderni.   Il quadro non sarebbe completo se non si accennasse a un altro tema (assieme all'indagine su Gramsci) che ha attraversato l'evento: l'impegno di G. come intellettuale marxista. Questo aspetto è stato messo in luce essenzialmente da due relazioni, quella di Frosini e quella di Filippini. Quest'ultimo ha discusso due aspetti peculiari della cultura filosofica di G., l'esser insieme democratico e marxista, e si è soffermato soprattutto su due esempi emblematici di ciò, un dialogo fra Gerratana e Colletti ed un lungo articolo di G. sul saggio di Althusser sugli Apparati ideologici di Stato. Ma è stato soprattutto  Frosini a ricostruire le linee del marxismo di G., a partire da Ricerche di storia del marxismo. Il testo, che è in realtà una raccolta di saggi già pubblicati altrove, ha una sua sistematicità. Nella Prefazione al volume Gerratana sottolinea che il principale denominatore comune degli otto saggi è il rapporto fra marxismo e movimento operaio, fino ad affermare che «marxismo e storia del marxismo fanno tutt’uno (Ricerche). La loro unitarietà sarebbe dunque nell'idea stessa di storia del marxismo. Il marxismo di G. pare a Frosini ben sintetizzato da un passo della Prefazione: «Nei confronti della pratica sociale l’analisi scientifica si distingue dalla raffigurazione ideologica perché non è solo, come questa, funzionale alla prassi, ma al tempo stesso è funzionale alla comprensione di questa prassi, che mostra l'imprescindibile reciprocità di prassi e teoria scientifica atta comprendere la prassi. In conclusione, secondo Frosini il marxismo di G. che emerge dalle Ricerche è confinato nel piano di una generalizzazione sempre provvisoria e da riprendere ogni volta in condizioni solo parzialmente ripetibili; e questa sarebbe l’unica condizione per rispettare l’apertura costitutiva di una verità che si definisce nella pratica, a contatto con la politica di massa.   G., politico (e) gramsciano   La terza sessione del convegno si è incentrata essenzialmente sul rapporto fra G. e l'impegno politico per un verso, la cura delle opere e lo studio del pensiero di Gramsci dall'altro. Presieduta da VACCA (si veda), la mattinata si è aperta con l'intervento di Albertina Vittoria sull'esperienza di G. alla Fondazione Gramsci – con cui il filosofo ha collaborato sin dagli anni della sua fondazione e che abbandonò negli anni '90 –, esperienza complessa e non esente da dissidi teorico-culturali. Vittoria ha messo in luce di G. l'impegno di studioso e insieme quello di "organizzatore della cultura", come anche l'attività di uomo politico di partito. Non si può dunque isolare l'attività di G. all'Istituto Gramsci dal resto dell'impegno: quello editoriale come anche quello nella Commissione culturale del PCI. Egli è considerato un militante anche sul piano culturale e subito dopo la Liberazione, G. collabora all’Unità, a Rinascita, fa parte del Comitato Stampa e Propaganda del PCI. È, con Platone e Trombadori, collaboratore di Onofri, allora responsabile della Commissione Propaganda del PCI; è responsabile dell’edizioni Rinascita e dopo la fusione fra queste e i Riuniti comincia la sua collaborazione con la fondazione Gramsci fondata a Roma come studioso di FILOSOFIA. Sono questi anche gli anni del rapporto con Colletti e Cerroni. Nel '54 l'Istituto Gramsci diviene “Fondazione”, nell’anno della "svolta" del Congresso del PCUS, degl’eventi di Ungheria e del manifesto dei 101 – G. resta in accordo con le posizioni di Alicata e Togliatti. Si organizza il primo convegno di studi gramsciani, evento che dà il via all'opera di divulgazione del pensiero di Gramsci, alla cui base era la necessità di riarticolare teoricamente il legame fra movimento operaio e democrazia. Sono per G. gli anni dell'impegno per l'Edizione critica dei Quaderni del carcere, impegno che aveva a monte l'intento di offrire un contributo alla garanzia dell'indagine critico-filologica. G. divenne poi direttore del centro studi gramsciani dell’istituto Gramsci, avente come obiettivo la cura degli scritti di Gramsci nel loro insieme el'attività gramsciana ga soprattutto come fine un riordino in quindici volumi dell’opera del comunista sardo. Sono i dissapori con la nuova direzione dell'Istituto, quella di Vacca (la diatriba che si incentrò soprattutto su una diversa datazione dei Quaderni sul piano metodologico, ma Vittoria rileva anche come il dissenso fosse in generale culturale e politico). La crisi giunge all'apice: G. vuole dimettersi, dimissioni successivamente ritirate, sebbene da allora in poi continui a lamentare il fatto che vi fosse un tacito dissenso sul suo lavoro. Furono questi gli eventi che infine condussero G. all’abbandono dell'Istituto Gramsci. É pur vero che G. è essenzialmente ricordato per esser stato curatore, interprete e divulgatore del pensiero di Gramsci, con l'edizione critica dei quaderni, ciò che l’ha reso noto in tutto il mondo. Da questo evento, difatti, si è avviato a livello internazionale un approfondimento dei testi e della riflessione di GRAMSCI (si veda), con l'edizione dei Prison Notebooks (cur. da Buttigieg, intervenuto su questo tema) e l'avvio in America degli studi su Gramsci come scienziato politico, tema su cui è intervenuto Coutinho. I due contributi hanno mostrato ciò che in apertura di questa relazione si è tentato di individuare come spirito del convegno: poliedricità degli accenti pur su tematiche affini, partecipazione rispetto al tema affrontato (giacché il pensiero di Gramsci è indagato come cosa viva), esigenza di dialettizzare la riflessione di G. con gli eventi politico-culturali che vedono oggi coinvolti i paesi di provenienza dei relatori. Cosicché se per Buttigieg l'edizione critica si è rivelata uno stimolo per dar vita ad una ricerca che appagasse l'esigenza di riscoprire il pensiero di GRAMSCI (si veda) come cultura aperta e dei riferimenti validi per il pensiero democraticoprogressista; per Coutinho, grazie all'edizione, il pensiero di Gramsci si è mostrato come nuova fonte per indagini di scienza politica alla luce della contemporaneità – dal marxismo alla "filosofia della prassi", al rapporto di questi con i processi di trasformazione sociale. In particolare Coutinho – docente di teoria politica all’Università Federale di Rio de Janeiro –, ha messo in luce come il valore dell'edizione dei Quaderni stia essenzialmente nella capacità di porre in luce come Gramsci nel suo operare filosofico adotti, come marxista, il punto di vista della totalità. Negli scritti di G. che Coutinho prende in esame emerge la trattazione prevalente, non casuale, di due tematiche gramsciane, rivoluzione ed egemonia. Le due nozioni sono a tal punto interconnesse che quella di egemonia consente a Gramsci di «arricchire e sviluppare il concetto marxiano di rivoluzione. G., Sul concetto di rivoluzione e Grice sul concetto di rivoluzione minore. A questi due concetti gramsciani principali se ne dialettizza un terzo (che in certo modo li tiene insieme entrambi), quello di stato allargato, che – secondo G. – viene adoperato da Gramsci per allargare il ruolo politico delle masse, per «concepire un processo di estensione delle democrazie, in connessione con il concetto di egemonia (G., Stato, partito). Come nel pensiero di Marx e di Lenin, anche in quello di Gramsci vi è un nesso filosofico-politico che tiene assieme egemonia e Stato da un lato, la rivoluzione dall'altro. Secondo Gerratana Gramsci modificò la propria concezione della rivoluzione nel corso dell'evoluzione del suo pensiero: se negli anni giovanili questa venne intesa come volontarismo soggettivista, già negli anni dell’ordine nuovo Gramsci avrebbe dato vita a una vera e propria «teoria organica della rivoluzione. G., Sul concetto di rivoluzione, in particolare a seguito dell’influenza del pensiero di Lenin. In questo secondo momento Gramsci avrebbe tenuto conto anche del peso delle condizioni oggettive in cui opera la volontà. In generale secondo G. sia Gramsci che Lenin concepirono l'egemonia come superamento della dimensione corporativa in cui opera la classe; ma quel che Gramsci riconosce a Lenin è anzitutto l’aver integrato questo concetto (la teoria dello stato-forza) con la dottrina dell’egemonia. Secondo Coutinho Gramsci dà vita in tal modo ad una generale teoria dell'egemonia, ed è qui che G. offre il suo più importante contributo: «per Gramsci le forme storiche dell’egemonia non sono sempre le stesse e debbono variare a seconda della natura delle forze sociali che esercitano l’egemonia. Egemonia del proletariato e egemonia borghese non possono avere le stesse forme né possono utilizzare gli stessi strumenti. Sviluppando l'elemento del consenso proprio dell'egemonia gramsciana, G. distingue l’egemonia borghese, che si basa su un consenso passivo o manipolato, e l’egemonia proletaria, che necessita un consenso attivo. Accenniamo infine ad altre due relazioni che hanno chiuso il convegno, quella di Tortorella e quella di Meta. Tortorella si concentra essenzialmente su due aspetti portanti della personalità dello studioso gramsciano, la passione politica e il rigore morale. Ha indicato in G. non uno studioso come altri, ma un uomo che la cui vicenda intellettuale è da porre dentro una storia specifica e collettiva: quella della Resistenza e della nascita del PCI. È proprio attraverso la storia di queste vittorie e tragedie collettive che si è sviluppata la trama della vita personale e intellettuale di G.. Tortorella ha messo in luce la profonda inquietudine che s'aggirava nell'animo di G., al di là dell'apparente serenità scientifica ed il suo rigorismo. Se una distinzione per lui esisteva fra politica (come etica pubblica) e morale (come etica privata), tuttavia il rapporto fra queste era per lui molto stretto (non a caso si era espresso sempre in modo contrario rispetto a guerre di aggressione presuntivamente etiche o a qualsiasi violazione dei diritti umani per ragioni politiche). La concezione etica cui G. fa riferimento non è quella di Cartesio, tantomeno quella di Spinoza, ma in diretta connessione con la sua passione politica, dove la politica era intesa come un'impresa razionale. La passione politica, difatti, poteva avere due diversi contenuti: volgersi a favore o contro le dittature, e G. scelge questa seconda strada. In questi anni è nato dunque un modo nuovo di intendere la libertà come effettualità, anzitutto come libertà dai rapporti di dominio sul piano materiale. L’intervento di Meta ha infine affrontato la ridefinizione del concetto di persona nella riflessione di G.. Nel corso della relazione, Meta ha mostrato come G. abbia risposto positivamente all'interrogativo sull'esistenza o meno di una teoria della personalità nel pensiero di Gramsci a partire dallo scritto Unità della persona e dissoluzione del soggetto (Critica Marxista). Indagando gli scritti gramsciani alla luce dell'elaborazione marxiana delle Tesi su Feuerbach e di Miseria della filosofia, G. ricorda che GRAMSCI (si veda) – in un quaderno dal titolo emblematico, Che cosa è l’uomo?– argomenta che l’uomo è essenzialmente un processo, precisamente «il processo dei suoi atti. D'altra parte l’individuo entra in rapporti con gli altri uomini organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi. Così lo sviluppo e costituzione della personalità di ciascuno è da intendersi come acquisizione di coscienza di tali rapporti e insieme modificazione di sé in relazione al modificarsi di tali rapporti: difatti «ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui è il centro di annodamento. Ed è proprio G., secondo Meta, uno dei pensatori che più avrebbe colto questa natura dialogico-relazionale della filosofia gramsciana, che intesse tutta la trama dei quaderni. Sottolineiamo infine un ultimo aspetto che ha qualificato questi due giorni di confronto intellettuale: la ricchezza del dibattito. Il convegno ha messo in luce come sia possibile recuperare una trasversalità reciproca nel modo di concepire il rapporto fra relatori e pubblico, fra ricerca e scienza, fra passato e presente. Quest'ultimo aspetto è stato la cifra indiscutibile del convegno: non si è trattato di esposizioni accademiche di memoria, ma di un confronto vivo con l'eredità intellettuale di G., che ha riportato all'ordine del giorno l'attualità della ricerca e della riflessione sulla scienza storico-politica del passato al fine di comprendere la politica e la cultura del nostro tempo, finanche alla luce d'uno sguardo internazionale. Su molte questioni poste dai relatori il pubblico è difatti intervenuto: dal rapporto fra G. e Calvino (Durante), G. e Rousseau (Ausilio), G. e Colletti (Liguori), al rapporto fra il pensiero di Gramsci e Lukács (Caputo), alla dialettica fra organicità e frammentarietà nei Quaderni del carcere ( Forenza). Lea Durante ha ricordato come la stretta amicizia fra G. e Calvino risalisse. Nonostante fossero intellettuali provenienti da una diversa impostazione culturale, tuttavia avevano l'uno verso l'altro reciproco rispetto ed in comune l'esperienza partigiana. Durante si è soffermata sul carteggio G./Calvino in merito al suicidio di Pavese, in cui Calvino rifiutava la lettura di questo evento come d'un gesto irrazionale, ma riteneva andasse letto piuttosto all'interno di una storia collettiva, emblematico di una "faglia" di questa storia: la volontà di risolvere l'attività politica degli intellettuali entro l'orizzonte collettivo, ciò che è impraticabile. La sottoscritta è intervenuta cercando di porre in luce come la fedeltà di G. a Rousseau nel corso di mezzo secolo possa spiegarsi anche relativamente all'unitarietà dell'opera rousseauiana, a un rapporto complementare fra i discorsi e il Contrat, da cui emerge un pensatore che per un verso è interno alla modernità borghese, per l'altro ne comincia a cogliere, prima di altri, i rischi ed i limiti. Caputo si è dialettizzato con la relazione di Voza confrontandosi sul merito della concezione lukácsiana del realismo e rilevando da un lato che l'autore fa ancora parlare di sé e dunque è tutt'altro che un "cane morto", dall'altro la necessità di riconsiderare la battaglia di G. per il recupero di SANCTIS (si veda) non tanto in contrapposizione a Hegel quanto in funzione dell'esigenza di liberarsi della lettura crociana dell'autore. Liguori è intervenuto sul rapporto fra G. e Colletti, affermando che fra i due intellettuali – sebbene legati dall’amicizia – non vi era solo una distanza, ma una radicale contrapposizione teorica. Infine Forenza ha interloquito in particolare con la relazione di Buttigieg, sottolineando il valore dell’edizione critica dei quaderni di G. nella sua capacità di porre in luce il carattere frammentario della riflessione gramsciana dei quaderni, l’attualità dialogica di un processo conoscitivo inteso come ritmo e sviluppo, la centralità della tensione nell’organicità dell’opera carceraria e il valore del frammento come elemento del processo. Ma uno dei contributi che più ha emozionato è stato quello di Manacorda, intervenuto per ricordare che in quello "Zibaldone" che pure sono i Quaderni vi è un'unità assoluta, che ritorna nelle pagine pedagogiche, e ha riguardato l’indagine gramsciana sulla formazione dell’uomo nuovo, fondata sul principio dell’unità di braccia e cervello (Q). Questa ricerca coinvolge la questione (che l'umanità si porta dietro da millenni) di cosa sia la “natura umana”. Da sempre alla base vi è una sua declinazione come duplice, cosicché quella duplicità dell'attività umana trova spazio in una duplicità sociale (gli eroi da una parte come intellettuali, la plebe dall'altro). Quell'unità fra i due elementi che si ricerca nella filosofia antica viene rotta dal cristianesimo, che ha separato drasticamente anima e corpo (così come nella struttura sociale ha diviso cleres e milites), e da allora ci trasciniamo questa duplicità, che pure oggi biologia e fisica negano esistere del tutto. Storia passata e futura: la lezione di G. serve ancora In questa due giorni di convegno si sono succeduti ricercatori, storici, docenti di filosofia, intellettuali di orientamento politico affine ma niente affatto identico, esponenti di rilievo dell'odierna intellettualità italiana che sono (o sono stati) spesso insieme politici e uomini di cultura, che hanno partecipato alla costruzione della storia democratica del nostro paese; e che si sono interrogati sul contributo culturale di G. come lezione viva, esempio per la storia politico-culturale dell'Italia futura. Un evento da e per G., dunque: antifascista, organizzatore di cultura, interprete di politica e filosofia, pensatore infaticabile ed aperto, sebbene saldo quando necessario nelle sue convinzioni, pronto alla lotta, all'ascolto come anche alla rottura. Gli interventi dei relatori hanno riportato alla luce (alcuni affettuosamente alla memoria) la riflessione di G. come frutto della contraddittorietà della modernità: di quella terra dissestata e martoriata che è stata l'Italia negli anni della lotta partigiana, di quella storia che si è radicata nella consapevolezza dell'inaggirabile dialettica fra libertà ed eguaglianza sociale. Ecco: discutere e ricordare in questi giorni G. ha significato parlare insieme della nostra storia passata e delle prospettive future per questo paese, che ha trovato in una figura come Valentino un indimenticabile esempio di caratura morale, coerenza politica, onestà e intellettuale, amore per la vita, per il progresso, per l'eguaglianza sociale, per la dignità umana e per la libertà – e questa storia, in fondo, non è di uno. Ma di tutti noi. Valentino Gerratana. Gerratana. Keywords. Rousseu, Grice on social justice, Gramsci, Labriola, Grice’s ontological Marxism, eresia di rousseau, labriola a fronte del socialismo, il metodo di gramsci – gappismo – G. A. P. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gerratana” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Geymonat: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del temperamento romano – filosofia torinese – scuola di Torino filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo Italiano. Grice: “I like Geymonat – he calls himself a neo-rationalist, like Canova – whereas I go for the real thing! Plato!” – Grice: “Geymonat has explored the origin of infinity in the triangle of Tartaglia.” – Grice: “Geymonat has explored what he calls ‘the images of man’ – Grice: “Geymonat has a curious essay on darkness (‘tenebre’) – and a longer essay on ‘reason.’ – Grice: “Like me, Geymonat has explored the philosophy of probability – from Latin ‘probare’ – and he was an anti-fascista1” –Figlio di Giovanni Battista, un geometra liberale di origini valdesi. Frequenta la scuola privata del Divin Cuore e poi l'Istituto Sociale, un liceo classico torinese gestito dai gesuiti, dal quale fu espulso l'ultimo anno di corso a causa di un tema su Giovanna d'Arco non in linea con l'ortodossia e così conseguì la maturità nel Liceo classico Cavour.  Si laurea a Torino con “Il problema della conoscenza nel positivism” sotto Pastore e sotto Fubini lcon “Sul teorema di Picard per le funzioni trascendenti intere”. La sua scelta di unire, nella sua ricerca, filosofia e logica, tenute separate in Italia dall'imperante cultura idealistica del tempo, quella gentiliana che, con la sua riforma della scuola, privilegia la cultura umanistica, e quella crociana, con la sua concezione svalutativa della scienza, creatrice, ad avviso del filosofo abruzzese, di un “pseudo-concetto”, mostra l'apertura europea delle prospettive di ricerca intravista allora da G. e la sua estraneità al provincialismo culturale italiano. Un rifiuto che egli estese anche alla politica del regime allora dominante. Assistente di Analisi algebrica nell'Torino ma avversario del fascismo, rifiutò l'iscrizione al partito fascistacio è di prendere la cosiddetta tessera del pane vedendosi così preclusa la possibilità di una carrier statale. Si avvicinò altresì a  Martinetti, non tanto per comunanza di prospettive filosofiche quanto per averlo riconosciuto un esempio di impegno civile e morale, essendo stato tra i pochissimi filosofi a rifiutare il giuramento di fedeltà al Fascismo. Come Ayer. Anda in Vienna per approfondire la dottrina del Circolo di Schlick, e  pubblica “La filosofia della natura”  e “Nuovi indirizzi della filosofia.”  e iscritto clandestinamente al Partito comunista, si guadagna da vivere insegnando matematica nella scuola Leopardi di Torino, dove Pavese insegna italiano. Con il nome di battaglia Luca fu partigiano in Piemonte nella Brigata Pisacane e, dopo la Liberazione, assessore comunista al Comune di Torino, quando, vinto il concorso a cattedra, e nominato professore a Cagliari. Insegna a Pavia e Milano. Fonda il Centro di studi metodologici a Torino. Ha uno stile di pensiero razionalista ateo. La sua filosofia può essere inquadrata nel filone del neo-positivismo (ha diversi contatti con il Circolo di Vienna), da lui ri-elaborato nell'ottica del marxismo! Nell'evoluzione della sua filosofia, si possono tracciare due fasi. Nella prima fase, approfondisce temi tipici del positivismo. Nella seconda fase, si sforza di analizzare la realtà oggettiva ed a questo scopo utilizza concetti caratteristici del materialismo dialettico.  Interpreta la concezione della matematica di GALILEI (si veda) come un strumento d'interpretazione della realtà. Approfondisce alcuni temi teorici come quello della causalità, il fondamento della probabilità, il continuo, l’intuizione, centrali nell'epistemologia. Politicamente fu vicino inizialmente al Partito Comunista Italiano, da cui si allontana poi per aderire a Democrazia Proletaria e successivamente ai movimenti che diedero vita al Partito della Rifondazione Comunista. Nel corso di questo viaggio politico ha partecipato alla Fondazione, a Roma, dell'Associazione Culturale Marxista e collabora nella rivista Marxismo Oggi (Teti). Ha compiuto alcune ricerche sul teorema di Picard e sul teorema di Carathéodory per le funzioni armoniche. In “Neo-razionalismo”, spiega che un'indagine efficace della realtà, e svolta solamente tramite lo strumento della ragione.  Per fare questo, propose di scarnificare la razionalità di ogni verità e da ogni sistema di riferimento assoluti. Il neoilluminismo, capeggiato da Abbagnano e coinvolgente numerosi altri filosofi italiani, rappresentò per G. il suo corso del neo-razionalismo, che avrebbe dovuto accogliere i metodi e i risultati della scienza, perseguendo un duplice obiettivo: ummanizare la scienza e concretizzare la filosofia – e l'utilizare un'impostazione storicistica al posto di quella metafisica. Per storicismo, intese l'analisi storica della struttura di un modello scientifico. Pur condividendo inizialmente l'anti-idealismo di Popper, sostenne che vi era la più manifesta e totale incompatibilità tra il marxismo e l'epistemologia popperiana. Alle sue accuse di essere il filosofo ufficiale dell'anti-comunismo, reo di difendere i regimi liberali, Popper gli rispose: “I nostri intellettuali dicono che vivono in un inferno, mentre di fatto questo mondo non è stato, fin da Babilonia, mai così vicino al paradiso come lo è ora il mondo occidentale. Per contrasto, in Unione Sovietica, si dice alla gente che vivono in paradiso, e tanti lo credono e sono moderatamente contenti; è questo, credo, l'unico aspetto per il quale la società sovietica è migliore della non-sovietica. Si deve a G. l'introduzione in Italia di Kuhn.  Altre opera: “Il problema della conoscenza nel positivismo” (Torino, Bocca); La nuova filosofia della natura in Germania, Torino, Bocca, “Per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore, Neo-razionalismo. Torino, Einaudi, Galilei, Collana Piccola Biblioteca Scientifica, Torino, Einaudi, La filosofia della scienza, Feltrinelli, Milano); Filosofia nella storia della civiltà, con Renato Tisato, Garzanti, Milano, Storia della filosofia, Garzanti, Milano, Il materialismo dialettico, Editori Riuniti, Roma, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano); “Paradossi e rivoluzioni. scienza e politica, Giorello e Mondadori, Il Saggiatore, Milano, La probabilita, con Feltrinelli, Milano, Kuhn e Popper, Dedalo, Bari. Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori, Milan); “Le ragioni della scienza” (Laterza, Roma-Bari, La libertà, Rusconi, Milano, La società come milizia, Minazzi, I sentimenti, Rusconi, Milano, Filosofia, scienza e verità, Rusconi, Milano, La Vienna dei paradossi. Controversie filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis, Mario Quaranta, Il poligrafo, Padova, Dialoghi sulla pace e la libertà, Cuen, Napoli, La ragione, con Minazzi e Sini, Piemme, Casale Monferrato, Attualità del Marxismo. Quaderni di Città Futura, Ancona); “Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale, Boringhieri, Torino. Regny, Mangione: breve storia di una lunga amicizia», «AppendiceL'Associazone Culturale Marxista», in Attualità del Marxismo. Filosofia e dintorni, Intellettuali non fate ideologia. L'Occidente non è quest'inferno, Antiseri, articolo su Il Mattino di Padova, lincei. G. Mario Quaranta, G. filosofo della contraddizione, Sapere, Padova, Mangione, Scienza e filosofia. Saggi in onore di G., Garzanti, Milano, Pasini, Rolando, Il neo-illuminismo italiano. Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Minazzi, Scienza e filosofia in Italia negli anni Trenta: il contributo di Persico, Abbagnano e G. . Bobbio, Ricordo, "Rivista di Filosofia" Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, Pantograf (Cnr), Genova,  Minazzi, “La passione della ragione” Thélema Edizioni Milano-Mendrisio, Mario Quaranta, Una ragione inquieta, Seam, Formello, Minazzi, Filosofia, scienza e vita civile inGeymonat, La Città del Sole, Napoli, Minazzi, Contestare e creare. La lezione epistemologico-civile di G., La Città del Sole, Napoli, Silvio Paolini Merlo, Nuove prospettive sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, in Bollettino della Società Filosofica Italiana», Maiorca,Scritti sardi. Saggi, Cagliari, Minazzi,G., un Maestro del Novecento. Il filosofo, Edizioni Unicopli, Milano, Pietro Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del Novecento, il Mulino, Bologna, Minazzi, G. epistemologo, Mimesis Edizioni, Milano Positivismo logico Circolo di Vienna Scuola di Milano. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. G., in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Massimo Mugnai, Scienza e filosofia: G. e Preti, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.Articoli della stampa italiana su L. G,, dal Sito Italiano per la Filosofia L'eredità intellettuale di G. (Preve). La setta di Crotone rappresenta un movimento filosofico di livello scientifico molto superiore a quello delli precedenti. Per la verità non tutti lo storici della filosofia italiana sono d'accordosu ciò. Taluni sostengono infatti che Pitagora (il quale non lascia nulla di scritto) sia stato il fondatore di una setta analoga all'orfismo, che non di un vero e proprio  movimento  di  pensiero  scientifico-filosofico come il di Austin. Essi affermano che soltanto mezzo secolo dopo la morte del fondatore la setta comincia ad interssarsi di filosofia. Oggi però si ritiene dai più che l'interpretazione ora accennata sia eccessivamente  critica, e si preferisce ritornare all'interpretazione tradizionale, che attribuiva proprio a Pitagora la  maggior parte delle concezioni. La ricchezza del suo sapere ci è del resto attestata d’Eraclito, che polemicamente lo define polymathés,  erudito. Anche noi dunque ci atterremo alla tradizione, pur riservandoci di trattare la reazione dei Crotonesi ai Veliani rappresentata  da Filolao. Pitagora si trasfere nella “Magna Grecia”, e precisamente a Crotona in Calabria, dove e fiorita  un’ importante scuola di filosofi medici medic. A Crotona fonda una setta che  ha un notevole peso, essendo legata al partito aristocratico. La setta e  organizzata sulla base di regole rigorosi che esigeno dagli scolari un lungo periodo di tirocinio prima di essere ammessi ai segreti. Su questa base si crea la divisione fra acusmatici od ascoltatori e matematici, partecipi degl’insegnamenti che in seguito si accusarono a vicenda di non essere i veri depositari delle dottrine del maestro. L'insegnamento di Pitagora e circondato da grande rispetto, e si ripone in lui una fiducia illimitata, tanto che a lui si rifere l’”ipse dixit” (autòs  efa). Una sommossa provocata dal partito della plebe caccia i filosofi da Crotona. Pitagora fugge a Metaponto e muore.  Sul  grande filosofo sorsero numerose leggende,  alcune delle quali note ad Aristotele. Queste accentuano il carattere religioso della sua figura, facendone poco meno che un semi-dio, e sono particolarmente care a quella filosofia misticheggiante, attraverso Numenio e Giamblico. La realtà accertata dagli storici è che, dopo l'espulsione da Crotona, si organizzarono varie sette. Esse  hanno lunga  vita  e  danno notevoli sviluppi. Le più celebri sono la  scuola  di  Filolao e quella d’Archita, che  fiore a  Taranto,  dominando anche la città.  Di Filolao ci sono pervenuti frammenti,  che dopo lunghe discussioni vengono oggi ritenuti autentici,  e che costituiscono la base per  ricostruire la  dottrina  di  Pitagora. Archita,  uomo  di  straordinaria  va- stità di  interessi, fu legato da amicizia con Platone. Platone ricorda Archita affettuosamente nella VII Epistola, ed esercita per suo tramite gran influenza sull'Accademia.  Né l'influsso della setta di Crotona si limita alla filosofia ed alla scienza, ma si risente fortemente in tutte le manifestazioni della filosofia.  All'acustica si possono far risalire molte delle teorie musicali tramandateci dagli Elementi armonici d’Aristosseno ed al pitagorismo  esplicitamente  si  richiama Policleto,  amico  di  Fidia,  che  nel  Canon  sviluppa una teoria artistica basata sulla  concezione del del corpo bello come giusta proporzione delle parti. Legato  a Crotona e pure  Ione  di  Chio. Questa dottrina si impernia su di un pensiero  fondamentale. El numero e il principio di tutto. Tutte le cose che si conoscono hanno numero. Senza numero nulla e possibile pensare, né conoscere. Dovremo ora cercare, innanzi tutto, di comprendere il significato filosofico di questo pensiero. Poi di svilupparne le conseguenze matematiche e fisiche.  Alla  fine  del  capitolo  accenneremo  al  valore  intrinseco  della  teoria,  e  al  significato  della  crisi  scientifica  formatasi  nella  scuola  prima  ancora  della  cacciata di Pitagora da Crotona. Pitagora  prende forse le  mosse  dalle  ricerche  ioniche  sul  principio  e  in  particolare  dalla  teoria  dell'àpeiron  d’Anassimandro.  Una più acuta  sensibilità  ai  problemi  etico-religiosi  (quali  l'opposizione  del  bene  e  del  male  nel  mondo,  la  vicenda  della  colpa  e  del  riscatto),  stimolata  probabilmente  dall'incontro in Italia con  i culti  misterici,  e  d'altro  canto  una  maggiore  attenzione  per  le  leggi  formali  e  modali  della  realtà,  cui  diedero  impulso  le  sue  prime  ricerche  acustiche,  dovettero  però  fargli  apparire  inadeguato  il  principio  unico  dei  naturalisti  ionici.  Per  rendere  conto  di  questi  più  complessi  problerill,  Pitagora  sdoppia  il principio in due  opposti. Da una parte il principio del limitato, del finito, dell'unitario, che rappresenta l'ordine, il  cosmo,  il  bene; dall'altra  il  principio  dell'il- limitato,  dell'infinito, che raffigura  il disordine, il caos, il male.  La sua grande intuizione consiste nel vedere nel numerola  chiave  e la struttura ultima di un assetto della  realtà.  Col termine  “numero”  i  crotonesi intendeno  soltanto  il numero  intero.  Non  fanno  particolari indagini  sulla  natura  di queste unità,  limitandosi  a  rappresentarle  con  un punto,  circondato da uno spazio vuoto. Proprio questa rappresentazione spaziale  facilita  il passaggio,  caratteristicamente  arcaico,  dalla  concezione  del  numero  come  chiave  e  rapporto  alla  sua  concezione  come  costituente  fisico  elementare  delle  cose.  Il  problema  essenziale  diventa  allora,  per  i  crotonesi,  quello  di  cogliere  il  modo  con  cui  dalla  collezione  di  più  unità  si  generano  tutti  gl’esseri.  Le  leggi  della  formazione  dei  numeri  venne  considerate  come  leggi  della  formazione  delle  cose,  e.  si  ritene  di  poter  trovare  in  esse  la  vera  ragione  esplicativa  del  mondo  fisico  e  morale.  La  più  importante  di  tali  leggi  e costituita  - secondo  i  crotonesi dall'opposta  struttura  dei  numeri  dispari  e  di  quelli  pari. L'antitesi  dispari-pari  venne cosi  assunta  a  principio  di  una  serie  di  altre  opposizioni,  che  spezzano  il  mondo  in  due:  limitato-illimitato  (opposizione  che  e  stata il  problema  iniziale,  ma  puo ora  venir  spiegata  sulla  base  dell 'antitesi  precedente);  uno-molti;  destra-sinistra; luce-tenebre;  buono-cattivo;  immobile-mobile; retto-curvo; quadrato-rettangolo. Alcune di queste opposizioni hanno palesemente un  carattere  fisico  (quella  per  esempio  di  luce  e tenebre;  da  essa  scaturiva  la  raffigurazione  del  cosmo  come  costituito da un fuoco centrale, immerso in  un'estensione  illimitata  di  nebbia);  altre  invece  un  preciso  carattere  morale.  Questa  presenza  di  significati  multipli  finiva  con  l'infondere  ai  numeri  in  generale,  e  a  certuni di essi  in  particolare, un vero e proprio valore  magico-simbolico.  Così  “V” veniva  assunto  a rappresentare  il matrimonio,  essendo  la somma del primo numero dispari,  il III,  con  il  primo  numero  pari,  il  II  (l'I  viene  considerato  come parìmpari ervendo  a  generare  sia  i  numeri  pari  che  i  dispari;  il  IV  e  il  IX  venivano  presi  come  simboli  della  giustizia;  il  VII  dell'opportunità;  e  così  via.  Di  derivazione  crotonesi  è  un  trattato  di  medicina  intitolato Sul  numero  sette, Peri  hebdomadon, che  cerca  appunto  nei  rapporti  settenari  la  spiegazione  della  struttura  dell'organismo  e delle  sue  affezioni.  Qualcuna  di  queste  concezioni  è  pervenuta  fino  a  noi,  onde  si  attribuisce  per  esempio  a VII  un  significato  speciale  etico  e  fisico  (VII sono  i vizi  capitali,  sette  le  opere  di  misericordia,  in  varie  malattie  si  ha  la settima,  ecc.).  La  purificazione  religiosa,  che  forma  almeno  in  un  primo  tempo  il  fine  principale  dell'insegnamento  pitagorico,  era  cercata  essa  pure  attraverso  la  contemplazione  dei  numeri.  Questa  venne  pertanto  a  possedere  un  doppio  aspetto:  filosofico  e  mistico.  La  peculiare  nobiltà  dell'ascesi  pitagorica  consisteva  appunto  nel  fatto  che  a  ogni  sua  tappa  doveva  corrispondere  la  conquista  di  un  più  alto  gradino  del  sapere.  Il  carattere  mistico  delle  ricerche  matematiche  costituì  per  molto  tempo  un  notevole  impulso  al  loro  sviluppo,  e  insieme  un  impedimento  al  loro  caratterizzarsi  come  ricerche  puramente  scientifiche.  In  particolare,  la  concezione  ora  spiegata  spinse  i  pitagorici  a  studiare  la  geometria  per  via  aritmetica.  Ne  sorse  una  disciplina  che,  per  il  suo  doppio  carattere,  e  chiamata  aritmo-geometria.  Essa  e  fondata  sulla  convinzione  che  da  un  lato.  fosse  possibile  ricavare  le  principali  caratteristiche  delle  figure  a  partire  dal  numero  dei  punti  (supposto,  in  ogni  caso,  finito)  che  le  compongono,  e dall'altro è  possibile- viceversa- ricorrere  alla  forma  delle  figure  per  illustrare  le  più  recondite  proprietà  dei  numeri.  Di  qui  la  distinzione  dei  numeri  in  vari  tipi. Per  esempio:  triangolari  poligonali  quadrati  c~  bici. Al  numero  triangolare  X venne  attribuita  un'importanza  speciale,  come  somma  dei  primi  quattro  numeri  naturali.  I dispari venneno  chiamati  gnomoni,  per  la  possibilità  di  rappresentarli  informa  di  gnomone, cioè  squadr). Questa  rappresentazione  permise  di  scoprire  che  ogni  numero  dispari  è  la  differenza  di  due  quadrati; per  esempio:  • • • • • • • • • • • • • • • • 7 = 42-32 Varie testimonianze tra  cui  quella  di Proclo ci dicono  che  Pitagora  e  il  primo  a  comprendere  la  validità  generale  del  teorema  che  ancor  oggi  porta  il  suo  nome,  e  che,  per  taluni  casi  particolari  (per  esempio  quando i  cateti  valgono  III e IV, e  l'ipotenusa  V),  è noto  già  prima  di  lui.  Non  sappiamo  però  quale  ragionamento  servisse  a  Pitagora  per  provare  l'importante  teorema. Certamente  la  dimostrazione  riferita  negl’Elementi” d’Euclide  non  è  ideata dal  filosofo  di  Crotone.  IV La  dottrina  che  i  numeri  sono  il  principio  di  tutte  le  cose  trova  pure  conferma  negli  studi  d’acustica.  Stando  alla  più  antica  tradizione  dobbiamo  infatti  ammettere  che  Pitagora  riuscì  a  scoprire  i  principali  intervalli  musicali.  Sarebbe  giunto  a  questa  notevolissima  scoperta  dallo  studio  sperimentale  delle  corde  sonore,  e  dalla  constatazione  che  nei  principali  accordi  il  rapporto  fra  le  loro  lunghezze  è  espresso  da  numeri  interi  molto  semplici. L'acustica  venne  in  tal  modo  a costituire  una  specie  d’aritmetica  applicata,  come  l'astronomia  costituiva  una  «geometria  applicata».  Il  quadro  delle  ricerche  scientifiche  risultò  pertanto  suddiviso  in  quattro  rami  fondamentali:  aritmetica,  musica,  geometria,  astronomia. 1 L'astronomia  pitagorica  - - parte dall'ammissione  di  un  fuoco  centrale  immerso  in  una  sconfinata  nebbia  di  tenebre.  Intorno  a  tale  fuoco  si  pensava  ruotassero  dieci  corpi  (notiamo  l'intervento  del  numero  X):  la  Terra,  l'Antiterra  (invisibile),  la  Luna,  il  Sole,  i  cinque  pianeti  allora  conosciuti,  e  il  cielo  delle  stelle  fisse.  I  movimenti  ciclici  di  questi  corpi  produrrebbero  - secondo  Pitagora una  meravigliosa  armonia, che  noi  però  non  riusciamo  a  percepire  a  causa  della  sua  continuità.  La loro  ciclicità  sarebbe  la  causa  del  ritorno  periodico  di  tutte  le  cose.  Questa  ripartizione  costituisce il lontano  antecedente  del  celebre quadrivio, che  starà  alla base dell'istruzione nelle  scuole del  medioevo. successivi  l'astronomia  pitagorica  portò  a  concezioni  di  grande  interesse  scientifico;  degna  di  particolare  menzione l 'ipotesi  eliocentrica,  ideata  per  la  prima  volta  da  Aristarco  di  Samo. Ricordiamo  infine  la  teoria  secondo  cui  tutto  il  cosmo  sarebbe  sorto  dal  fuoco  centrale  e  ritornato  in  esso  per  poi  nascere  un'altra  volta.  Con  riferimento  ad  essa, i pitagorici chiamano anno  cosmico  l'intervallo  di  tempo  impiegato  dal  cosmo  per  nascere  e  ritornare  nel  fuoco.  La  teoria  pitagorica  dell'anima,  malgrado  la  sua  ambiguità,  ebbe  notevoli  riflessi  sui  filosofi  posteriori.  Da  un  lato  alcune  testimonianze  ci  dicono  che  l'anima  veniva  concepita  dai  pitagorici  come  armonia  del  corpo,  nel  preciso  senso  in  cui  si  parla  di  ar- monia  dei  suoni  emessi  da  uno  strumento  musicale.  Secondo  questa  interpretazione,  l'anima  doveva  venire  necessariamente  pensata  come  mortale,  poiché   spezzato  lo  strumento  - anche  l'armonia  viene  a  cessare.  D'altro  lato  sappiamo  però  che  uno  dei  cardini  della  filosofia  pitagorica  era  costituito  dalla  trasmigrazione  delle  anime  (metempsicosi),  e  questa  suppone ovviamente  che  l'anima  non  muoia  con  il  corpo  che  la  ospita.  Un  frammento  del  medico  Alcmeone  (che  visse  a  Crotone  e  è  legato  ai  circoli  pitagorici)  afferma  che  l'«  anima  è  immortale  per  la sua somiglianza con  le  cose  immortali   la  luna,  il  sole,  gli  astri. Come  risolvere  l'apparente  contraddizione?  Probabilmente  bisogna  ritenere  che  i  pitagorici  ammettessero  due  specie  di  anime:  una  costituita  dal  temperamento  psichi  co,  legato  indissolubilmente  al  corpo  e  destinato  a  morire  con  esso;  l'altra da un principio  immortale  o  anima-dèmone.  In  ogni  vita  si  avrebbe  una  stretta  rispondenza  tra  le  due  anime;  questa  rispondenza  verrebbe  però  a  cessare  coll'uscita  dell'anima-dèmone  dal  corpo. Tale  uscita  sarebbe  da  lei  desiderata  per  raggiungere  la  purezza  di  una  vita  interamente  spirituale. A  tali  dottrine  si  ispirava  il modo di vita  pitagorica,  altamente  lodato  da  Platone  per  la  sua  unione  di  teoresi  e  di  ascesi;  la  metempsicosi  in  particolare  determi- nava  il  più  famoso  dei  divieti  rituali  pitagorici,  quello  di  mangiare  la  carne  di  certi  animali,  nei  quali  potrebbe  essersi  incarnata  un'anima.  Anche  dio  veniva  concepito  dai  pitagorici  come  anima;  e  precisamente  come  anima  del  mondo che  circola  continuamente  in  esso  e  perciò  è  presente in ogni  luogo.  Il  rapporto dio-mondo  restò  tuttavia  molto  incerto  nella  filosofia  pitagorica,  sicché  non  possiamo  cercare  in  essa un vero e proprio sistema teologico. Ad Alcmeone si deve  la  notevolissima  scoperta  che  il  centro  della  vita  organica  e  mentale  va  localizzato  nel  cervello. Quanto  abbiamo  finora  riferito  basta  per  farci  comprendere  la  complessità dell'insegnamento  pitagorico. Se  in  taluni  punti  esso  può  apparirci  ingenuo,  in  altri  casi  contraddittorio,  ciò  non  deve  farci  sottovalutare  l'importanza  dei  temi  ivi  abbozzati,  che  ricompariranno  ampliati  e  sviluppati  nei  più  diversi  indirizzi  filosofici  e  scientifici.  Notiamo,  per  esempio, che  l'idea  di  cercare  nei  numeri,  cioè  nella  matematica,  la  spiegazione  di  tutti  i  fenomeni,  ricomparirà  potenziata  nell'epoca  moderna  e  formerà  per  molto  tempo  la  spina  dorsale di  tutta  la  ricerca scientifica. Vi  è  chi  sostiene,  esagerando  forse  le  cose,  che  le  più  celebri  teorie  della  fisica-matematica  moderna  (per  esempio  la  teoria  della  relatività  generale)  non  costituirebbero  altro  che  il  proseguimento  del  programma  pitagorico. Ma,  a  parte  ciò,  noi  troviamo  nella  matematica  di  Pitagora  un  carattere  speciale  che  la  differenzia  notevolmente  da  molte  altre  concezioni  posteriori,  pur  esse  accentratesi  sulla  ricerca  matematica.  Il  carattere  cui  voglio  riferirmi, suol  venire  indicato  col  termine  «discontinuità».  Si  dice  che  la  scienza  di  Pi- tagora  è  una  matematica  del  discontinuo,  perché  essa  si  fonda  esclusivamente  sui  numeri  interi  e  su  ciò  che  può  venire  espresso  con  i  numeri  interi  (per  esempio  sulle  frazioni  ordinarie,  e  non,  invece,  sui  numeri  irrazionali). Secondo  essa,  l'accrescimento  di  una  grandezza  procede  per salti  discontinui,  essendo  impossibile  aggiungere  qualcosa  che  sia  minore  dell'unità.  Taluno  giunge  a  riconoscere  nelle  teorie  quantistiche  moderne una  sopravvivenza dell'antica eredità  pitagorica  sotto  forma    concezione  discontinua  dell'energia. Lasciando  da  parte  le  reminiscenze  pitagoriche  presenti  nella  fisica  moderna,  va  detto  però  ben  chiaramente  che  l'aritmo-geometria  di  Pitagora  non  ebbe  vita  lunga  nella  scienza  greca.  La  sua  fine  fu  provocata,  per  l'appunto,  dalla  crisi  di  quell'idea  di  discontinuità  che  costituiva  come  s'è  detto  uno  dei  suoi  cardini  fondamentali.  La  grande  crisi  fu  causata  dalla  scoperta che  le  figure  geometriche  sono  co- stituite  non  da  un  numero  finito,  ma  da  una  infinità  di  punti. Le teorie moderne,  che  tornano  ad  un'idea  rinnovata  di  discontinuità,  sosterranno  implicitamente  che  la  geometria  classica  - proprio  perché  parla  di  una  infinità  di  punti  - non  trova  esatta  applicazione  nella  realtà.  Il  primo fatto  geometrico che  costrinse  i  pitagorici  a  riconoscere  che  le  figure  sono costituite  da  infiniti  punti,  è  proprio  connesso  a  quel  medesimoteorema  che  porta  il  nome  di  Pitagora.  Ed  infatti,  applicando  detto  teorema  ad  uno  dei  due  triangoli  isosceli  in  cui  è  diviso  un  quadrato,  si  dimostra  facilmente  che  il  lato  e  la  diagonale  di  tale  quadrato  non  possono  avere  alcun  sottomultiplo  comune,  cioè  sono  incommensurabili.  Orbene  proviamo  a  supporre  che  un  segmento  sia  generato  dall'accostamento  di  una  serie  finita  di  punti  (piccoli  ma  non  nulli,  e  tutti  eguali  fra  loro,  come  allora  si  immagina):  ne  se- guirebbe  che  uno  qualunque  di  questi  punti  risulterebbe  contenuto  un  numero  intero,  e  finito,  di  volte  (per  esempio  m  volte)  nel  lato  e  un  altro  numero  in- tero,  e finito,  di  volte  (per  esempio  n  volte)  nella  diagonale.  Lato  e  diagonale  avreb- bero  dunque  un  sottomultiplo  comune,  e  non  sarebbero  come  si  era  dimostrato  - incommensurabili.  La  loro  incommensurabilità  esige  pertanto  che  essi  sono  costituiti  da  una  infinità  di  punti. La  leggenda  racconta  che  il  fatto  scandaloso,  ora  riferito,  è  gelosamente  custodito  per  vari  anni  tra  i  segreti  più  pericolosi  della  setta.  Esso è  rivelato  fuori  della  scuola  pitagorica  d’IPPASO (si veda) di Metaponto,  una  delle  figure  più  notevoli  dell'antico  pitagorismo.  Pastosi  a  capo  degli  acusmatici  per  la  moderna  irre- quietezza  del  suo  ingegno  che  mal  tollerava  il  dogmatismo della  setta,  egli  sarebbe  stato  vicino  ad  Eraclito  per  l'idea  che  il  fuoco  è  il  principio  di  tutte  le  cose,  e  si  sarebbe  schierato  dalla  parte  dei  democratici  nei  moti  che  condussero  alla  cacciata  dei  pitagorici  da  Crotone. Per  avere  rivelato  la  natura  delle  grandezze  incommensurabili,  Ippaso è cacciato  ignominiosamente  dalla  scuola,  ed  a  lui  anzi  i  pitagorici  hanno  eretto  una  tomba  come  ad  un  morto.  Secondo  la  tradizione  su  di  lui  è  caduta  anche  l'ira  di  Giove,  il  quale  lo  fa  perire  in  un  naufragio;  la  sua  triste  morte  non  impede  tuttavia  che  lo  scandalo  si  diffondesse  rapidamente  tra  i  cultori  di  matematica  e  finisse  per  scuotere  dalle  fondamenta  l'intera  concezione  pitagorica. Questa crisi verrà  resa  ancor  più  acuta dalla  scoperta  delle  antinomie  di  Zenone  sul  movimento  e  sulla divisibilità.  Per uscire  da  essa,  i  maggiori  scienziati  greci  non  troveranno  altra  via  se  non  quella  di  scindere  completamente  la  geometria  dall'aritmetica,  interpretando  la  prima  come  studio  del  continuo  e  la  seconda  come  studio  del  discontinuo.  Il  rapporto  tra  continuo  e  discontinuo  resterà,  per  tutta  la  storia  del  pensiero  umano,  un  problema  molto  difficile  e  molto  dibattuto;  verrà,  anzi,  considerato  come  uno  dei  più  astrusi  labirinti  della  ragione.  L'averne  intuito  l'esistenza  e  la  difficoltà  va  dunque  considerato  come  un  merito,  e  molto  notevole,  dello  spirito  greco.  Il  primo  passo  della  ragione  umana  si  compie,  in  ogni  ricerca,  col  porre  a  nudo  le  difficoltà  ivi  esistenti,  per  gravi  che  esse  siano,  non  col  nasconderle.  Solo  chi  le  conosce,  non  chi  le  ignora,  può  sentirsi  spinto  a  cercare  i  mezzi  indispensabili  per  risolverle  o,  comunque,  dominarle;  e  questa  ricerca  è  la  molla  più  decisiva  del  progresso  scientifico. Oggi  si  riconosce  quale  autentico fondatore  della  scuola  eleatica  il  grande  Parmenide,  nato  a VELIA (si veda). Parmenide scrive  un  poema  allegorico, Sulla  natura, Perì  physeos, di  cui  ci  sono  pervenuti alcuni  interessantissimi  frammenti  che,  integrati  da  varie  testimonianze,  ci  permettono  di  ricostruire  con  sufficiente  sicurezza  il  suo  pensiero.  Data  la  vicinanza  di  VELIA (si veda)  ai  maggiori  centri  del  pitagorismo,  è indubitato  che  Parmenide  subì,  in  forma  più  o  meno  diretta,  l'influenza  di  questo  indirizzo  di  pensiero. Taluni  storici,  accentuando  questo  legame,  giunsero  a  presentarcelo  come  un  pitagorico,  distaccatosi  dalla scuola di provenienza per  divergenze  di  ordine  filosofico.  Tale  interpretazione  ci  costringerebbe  a vedere  in  gran  parte  degli  argomenti  eleatici,  come  ad  esempio  nelle  aporie  di  Zenone,  un  intento  polemico  soprattutto  antipitagorico. La  gravità  di  questa  conseguenza  lascia  tuttavia  perplessi  molti  autorevoli  critici.  Si  ritiene  oggi  piuttosto  che  la  critica  di  Parmenide è  rivolta  in  generale  contro  tutte  le  filosofie  ioniche  ed  italiche  del  molteplice  e del  divenire,  di  cui  egli  rilevava  acutamente  la contraddittorietà:  nel  tentativo  di spiegare  razionalmente  la  realtà,  e  di  modellare  la  ragione  sui  dati  dell'esperienza,  tali  filosofie  dovevano  ammettere  una  serie  di  opposizioni  e  di  alterità  di  cui  però  si  assumeva  la  coesi- stenza.  Ora  - osserva Parmenide  - se  di  una  qualsiasi  cosa  si  dice  o si  pensa  che  è,  di  ciò  che  è  diverso  od  opposto  ad  essa  si  dovrà  dire  o  pensare  che  non  è:  e  com'è  possibile  riconoscere  realtà  alcuna  a  ciò  che  non  è,  se  non  si  vogliono  violare  le  leggi  immutabili  del  discorso  e  del  pensiero?  La  grandezza  della  filosofia  di  Parmenide,  quella  grandezza  che  costituì  un  fecondo  punto  di  partenza  per  il  pensiero  successivo  e  anche  un  difficile  problema  la  cui  soluzione  era  tuttavia  indispensabile  per  poter  progredire,  sta  proprio  qui:  nell'aver  cioè  individuato  nella  sua  radice  filosofica  l'ambiguità  della  speculazione  ionica  edita- lica,  e nell'aver  posto  in  primo  piano  il problema  della  verità  del  linguaggio  e  del  pensiero,  il  problema  della  via,  cioè  del  metodo,  che  linguaggio e pensiero  dovevano  percorrere  per  giungere  alla  realtà.  Il  metodo  vero  costruisce  conoscitivamente  la  realtà,  l'essere,  perché  elimina  gradualmente  dal  pensiero  tutti  i contrassegni  di  irrealtà,  di  non-essere,  che  vi  si  erano  infiltrati:  la  molteplicità  nello  spazio,  intesa come  differenziazione  di  parti,  la molteplicità  nel  tempo,  intesa  come  differenziazione  di  momenti,  il  vuoto  inteso  come  assenza  di  realtà,  la  generazione e la distruzione intese come limiti  dell'essere.  Partito  dal  riconoscimento  logico  e  metodologico delle  esigenze del pensiero e del  discorso,  Parmenide  giunge  al  culmine  della via a  dichiarare  l'impensabilità,  l'inesprimibilità  e  l'inesistenza  del  non-essere,  e  la  parimenti  assoluta  esistenza  dell'essere,  che  condiziona  la  possibilità  di  pensare  e  di  dire  il vero.  All'essere  non  potrà  venir  riferito sempre  per  l'opposizione  or  ora  accennata  alcun  attributo,  che  possa  in  qualche  modo  diminuirne  la  positività,  assimilandolo  al  non-essere.  Ci  si  dovrà  limitare  a  dire  che  esso  è  uno,  invariabile,  immobile,  eterno.  Qualche  critico  moderno  però  (come Untersteiner)  ha  ritenuto  che  Parmenide  avesse  concepito  l'essere  come totalità e  non come unità. L'erronea  interpretazione del  suo  pensiero  sarebbe  dovuta  alla  falsa testimonianza  di Teofrasto  che  attribuisce  a Parmenide  il sillogismo. Quello  che  è  oltre  l'essere  non  esiste;  quello  che  non  esiste  è  nulla;  dunque  l'essere  è  uno. L'attributo  dell'unità,  con  cui  polemizzò  Aristotele,  risalirebbe  solo  a  Melisso.  Come  possiamo  conciliare  la  concezione  parmenidea  dell'essere  col  fatto  incontrovertibile  che  l'esperienza  ci presenta ad ogni piè sospinto  degli  esseri  molteplici,  variabili,  temporanei?  Di  fronte  a  questo  stato  di  cose  risponde  Parmenide  non  vi  è  altro  da  fare  che  respingere  la  nostra  spontanea  fiducia  nell'esperienza,  riconoscendo  che  essa  costituisce  per  l'uomo una  via  di  conoscenza  fallace  e illusoria.  Al mondo  dell'esperienza  è  appunto  dedicata  la  seconda  parte  del  poema  di  Parmenide.  Confutate le opinioni  dei  mortali,  quali si  sono  espresse  nelle  precedenti cosmologie  naturalistiche  basate  sul  divenire,  Parmenide  non  rinuncia  tuttavia  a  costruire  una  propria  spiegazione  di  questo  mondo,  di  cui  aveva  di- chiarato  la  radicale  inconsistenza  di  fronte  all'assoluto  essere.  Molto  si  è discusso  fra  gli  studiosi  sul  significato  da  attribuire  a questo  sconcertante  aspetto  del  pensiero  parmenideo:  fra  le  più  recenti,  le  due  posizioni  estreme  sono  quella  di Raven,  secondo  cui  l'eleata,  impegnato  nella  polemica  contro  l'indebita  confu- sione  di  razionale  e di  empirico  tipica  dei  suoi  predecessori,  avrebbe  voluto  costrui- re  una  cosmologia  a  base  puramente  empirica,  da  affiancare  alla  dottrina  logico- razionale  dell'essere  in  modo  da  isolare  ancor  più  chiaramente  i  due  momenti;  e  quella  dell'Untersteiner,  che  ritiene  che  il  mondo  dell'essere  e  il  mondo  del- l'esperienza  siano  unificati  nel  pensiero  di  Parmenide  dal  medesimo  metodo  razionale,  in  grado  di  individuare  il  fondamento  di  realtà  presente  anche  nel  se- condo:  una  realtà,  tuttavia, che  si  differenzia  da  quella  assoluta  in  quanto  immersa  nel  tempo,  e  che  ne  costituisce  perciò  soltanto  una  immagine.  In  ogni  caso  se  ne  può  concludere  che  per  Parmenide  solo  la  ragione  è  un  mezzo  di  conoscenza  veramente  efficace;  solo  essa,  rompendo  la  crosta  delle  apparenze,  può  farci  cogliere  l'unità  profonda  del  reale.  L'opposizione  tra razionalismo  ed  empirismo,  che  tanti  sviluppi  avrà  nella  storia  della  filosofia,  trova  proprio  qui  la  sua  prima  radice.  L'essere  di  Parmenide  è  stato  interpretato  da  taluni  in  senso  idealistico,  da  talaltri  in  senso  materialistico.  Enttrambe  queste  interpretazioni  svisano,  però,  il  pensiero  del  grande eleata, non  tenendo  conto che  esso  antecede,  in  realtà,  ogni  consapevole  distinzione  tra idealismo  e  materialismo.  L'affermazione di Parmenide  che  più  si  presta  ad  una  interpretazione  materialistica  è  quella  che  ci  presenta  l'essere  come  sferico  (cioè  come  una  sfera  piena). Evidentemente Parmenide  pensa alla  sfera,  perché  la  superficie  sferica  non  è  limitata  da  alcun  perimetro    interrotta  da  alcuno  spigolo.  Non  si  può  tuttavia  negare  che  la  sfericità  ora  accennata  vada  accolta  con  la  massima  cautela;  se  infatti  la  interpretassimo  alla  lettera,  cadremmo  in  contraddizione  con  tutto  l'insegnamento  di  Parmenide,  perché  siamo  costretti  ad  ammettere  l'esistenza  di  un  non-essere  (o  vuoto),  che  è  al  di là  dell'essere  sferico,  e lo  limita.  Essa  va  intesa invece  come  identità  e assolutezza  dell'essere  lungo  tutte  le  direzioni;  come  è  stato  recentemente  osservato,  la sfera  di  Parmenide  è  più  simile  allo  spazio  curvo  einsteiniano  che  al  solido  euclideo  che  siamo  portati  a  raffigurarci.  L'interpretazione  idealistica  è  d'altra  parte  esclusa  perché  se  il  pensiero  scopre  l'essere,  certamente  non  lo  crea;  anzi  è  piuttosto  l'esistenza  dell'essere  a  rappresentare  la  possibilità  e  la  condizione  del  pensiero,  che  in  esso  culmina  e  con  esso  deve  identificarsi.  Parmenide ha  due  grandi  discepoli:  Zenone  e Melisso.  Il contributo  da  essi  arrecato  all'affinamento  del pensiero  del  maestro  assicura  loro  un  posto  assai  ragguardevole  nella  storia  della  filosofia.  Entrambi  si  adoperarono  a  difenderne  le  tesi  sia  pure  svolgendo  in  direzioni  opposte  la  tensione  che  vi  era  implicita:  Zenone  cioè  approfondendo  la  problematica  dellogos  nella  sua  crescente  autonomia, Melisso  invece  sviluppando  il  tema  dell'essere  nella  sua  assolutezza  sostanziale.  Zenone  di  Elea e un  ingegno  acuto,  sottile,  e vigorosamente  polemico. Per  gl’argomenti  ideati  a  difesa  dell'unità  (intesa  come  omogeneità  e  continuità  non  divisibile  in  parti)  ed  immobilità  dell'essere,  e  per  il  suo  metodo  di  discussione,  Aristotele,  che li  discute  a  lungo  nella Fisica,  lo  considera il  fondatore  della  dialettica. L'originalità  del suo metodo consiste nell'assumere  a  punto  di  partenza  la  tesi  da  confutare  e  nel  dedurne  rigorosamente  tutte  le  logiche  conseguenze,  per  mostrarne  la  contraddittorietà  e  di  conseguenza  l'assurdità  della  tesi. Si  occupa  di  politica e  contribue  notevolmente  al  buon  governo  di  Elea.  Muore  con  grande  fierezza per  aver  cospirato  contro  il  tiranno  della  città  (Nearco  o  Diomedonte).  Sullà  sua  fine  si  tramandano  vari  particolari  che  ne  confermano  l'eccezionale  coraggio. I  celebri  argomenti  di  Zenone  a difesa  della  filosofia  di Parmenide di VELIA (si veda) mirano  a  provarci  che,  se  la negazione  del  movimento  e della  molteplicità  può  a prima  vista  apparire  assurda,  l'ammissione  di  essi  conduce  tuttavia  ad  assurdità  ancor  più  gravi,  nascoste,  ma  non  risolte,  dal  linguaggio  ordinario.  Il perno  di  tali  argomenti  consiste  nella  dimostrazione  che,  sia  nella  nozione  di  movimento,  sia  in  quella  di  pluralità,  si  annida  il  delicato  concetto  .di  infinito.  Immaginiamo  che  un  mobile  debba  spostarsi  da  un  estremo  all'altro  di  un  I  [Ecco,  per  esempio,  una  versione  dei  suoi  ultimi  istanti. Antistene,  nelle  Successioni,  racconta  che  Zenone,  dopo  aver  denunziato come  cospiratori gl’amici  del  tiranno,  è  da  questi  interrogato  se c'è qualche altro complice. Egli rispose: Tu,  la  rovina  della  città. E  poi,  rivolto  ai  presenti,  esclama:  Mi  meraviglio  della  vostra  viltà,  se  siete  servi  della  tirannide  per  timore  di  questo  che  ora  io  sopporto.  Da  ultimo,  mozzatasi  coi  denti  la  lingua,  gliela  sputa  addosso.  I  cittadini  allora,  incitati  da  questo  esempio  abbatteno  il  tiranno.] dato  segmento:  prima  di  aver  percorso.  tutto  il  segmento,  dove  averne  percorso  la  metà;  prima  di  questa,  la  metà  della  metà,  e  cosl  via  all'infinito.  In  modo  analogo,  se  il  piè  veloce  Achille  vuole  raggiungere  la  lentissima  tartaruga,  che  lo  precede  di  un  tratto  s,  egli  dovrà  percorrere:  innanzi  tutto  quella  distanza  s,  poi  il  tratto  s'  percorso  dalla  tartaruga  mentre  Achille  percorre  s,  poi  il  tratto  s" percorso  dalla  tartaruga  mentre  Achille  percorre  s',  e  così  via  all'infinito.  Nell'un  esempio  come  nell'altro,  il  fatto in  apparenza  semplicissimo  del  movimento,  si  frantuma  dunque  in  infiniti  moti,  sia  pure  sempre  più  piccoli  ma  non  mai  nulli.  Proprio questa  loro  infinità  è  causa  di  profonde  difficoltà  concettuali,  che  non  possono  non  rendere  perplesso  qualsiasi  uomo  disposto  al  ragionamento.  Quanto  all'argomentazione  di  Zenone contro  la  molteplicità,  essa  si  svolgeva  così:  supponiamo  che  esistano  due  entità  A e  B  distinte;  per  il  fatto  di  essere  distinte,  queste  due  entità  devono  risultare  separate  da  uno  spazio  intermedio  C.  Ma  C è  distinto  tanto  da  A  quanto  da  B,  e quindi  esisteranno  altri  d).le  elementi D  ed  E  che  separano  rispettivamente  C  da  A  e  da  B,  ecc.  Poiché  ciò  può  venir  ri- petuto  all'infinito,  se  ne  conclude  che l'ammissione  di  due  entità  distinte  conduce  di  necessità  all'ammissione  di  infinite  entità.  Al  fine  di  porre  luce  sulle  difficoltà  logiche  di  quest'ammissione,  Zenone  passa  poi  a dimostrare  come,  partendo  da  essa,  si  debba  giungere  a negare  l'esi- stenza  di  qualsiasi  lunghezza  finita.  Ed  infatti- così  ragiona se  gl’elementi  che  costituiscono  un  segmento AB  sono  infiniti,  o  essi  sono  nulli,  o  non  sono  nulli;  nel  primo  caso  la lunghezza  del  segmento  non  può  essere  che  nulla  (perché  la  somma  di  infiniti  zeri  è  zero);  nel  secondo  non  può  che  essere  infinita  (per- ché  a  suo  parere  la  somma  di  infinite  quantità  diverse  da  zero  sarebbe  infinita). È  ingiusto  considerare  questi  ragionamenti  zenoniani  (e gli altri che, per brevità, siamo costretti a tralasciare) quali  semplici  sofismi  o  pseudo-ragionamenti.  In  realtà,  essi  attirano  efficacemente  la  nostra  attenzione  su  talune  gravissime  difficoltà  dei  due  concetti  di  movimento  e  di  lunghezza,  dovute  all'inevitabile  in- troduzione  dell'infinito,  sia  allorché  si  scompone  un  intervallo  di  tempo  (o  il  moto  attuantesi  in  qtJ.esto  tempo),  sia  allorché  si  scompone  un  segmento.  Questi  argomenti  che  venneno  ad  aggiungersi  alle  difficoltà  connesse  alla  scoperta  delle  grandezze  incommensurabili  - suscitarono  presso  i  greci  una  tale  diffidenza  nei  confronti  dell'infinito,  da  persuaderli  a  compiere  qualunque  sforzo  pur  di  escludere  tale  concetto per  lo  meno  nella  forma  d’infinito  attuale  1 - da ogni seria  costru-I Si dice che una  grandezza  variabile  costi- tuisce  un infinito  potenziale quando,  pur  as- s~mendo  sempre  valori  finiti,  essa  può  crescere  al  di    ~i  ?gni  limite;  se  per  esempio  immaginiamo  di  suddividere  un  dato  segmento  con  successivi  di- mezzamenti,  il  risultato  ottenuto  sarà  un  infinito  pot~nziale  perché  il  numero  delle  parti  a  cui  per- ventamo,  pur  essendo  in  ogni  caso  finito,  può  crescere  ad  arbitrio.  Si  parla  invece  di  infinito  attuale quando  ci  si  riferisce  ad  un  ben  determi- nato  insieme,  effettivamente  costituito  di  un  nume- ro  illimitato  di  elementi;  se  per  esempio  immagi- niamo  di  avere  scomposto  un  segmento  in  tutti  i  suoi  punti,  ci  troveremo  di  fronte  a  un  infinito  attuale  perché  non  esiste  alcun  numero  finito  che  riesca  a  misurare  la  totalità  di  questi  punti. zione  scientifica.  Oggi  noi  abbiamo  imparato,  con  l'analisi  infinitesimale  e  con  la  teoria  degli  insiemi,  a  trattare  con  disinvoltura  l'infinito matematico  (sia  l'infinito  potenziale  sia  quello  attuale);  proprio  perciò  tuttavia  ci  rendiamo  conto  che  le  difficoltà  incontrate  dai  greci  sono  effettive,  non  artificiose,  e  possiamo  affermare  con  piena  consapevolezza  che  non  sono  certo  dovute  a  volgari  errori  di  logica,  non  sono  dei  sofismi  nel  senso  usuale  del  termine.  Dal  punto  di  vista  dell'eleatismo,  il  metodo scelto da Zenone per  difendere  le  posizioni  di  Parmenide di VELIA (si veda) pone  tuttavia  la  premessa  di  una  loro  crisi  e  di  un  loro  superamento.  Lo  spregiudicato  uso  logico-matematico  che  egli  faceva  del  logos  non  si  muoveva  più  sulla  via  di  una  identificazione  del  logos  stesso  all'essere,  del  riconoscimento  di  una  realtà  scoperta  dal  pensiero  ma  in  cui  il  pensiero  doveva  confondersi;  Zenone  pone  piuttosto  le  premesse  per  uno  svincolamento  del  discorso  logico-matematico  dalla  realtà,  e  lavorava  quindi  oggettivamente  alla  rottura  di  quella  unità  discorso-pensiero-essere  che  caratterizzava  la  vera  via  proposta  dal  grande  maestro  di  VELIA (si veda).  La  figura  di  Melisso  è  assai  diversa  da  quella  di  Zenone.  Nato  a  Samo  quasi  contemporaneamente  a  Zenone,  egli  trascorse  tutta  la  vita  nella  propria  isola,  ove  ricoprì  importanti  cariche  politico-militari.  Basti  ricordare  che  fu  capo  della  flotta  con  cui  Samo sconfisse  gl’ateniesi.  La  sua  permanenza  a  Samo  costituì,  in  certo  modo,  il  ponte  ideale  attraverso  cui  l'insegnamento  eleatico  pervenne  dalla  Magna  Grecia  nell'Asia  Minore.  La  lunga  lotta  fra  Mileto e  Samo  può  del  resto  contribuire  a  spiegare  l'abbandono  melisseo  della  tradizione  ionica;  una  tradizione,  tuttavia,  che  continuò  ad  operare  indirettamente  nel  suo  pensiero  condizionando  in  senso  realistico  la  sua  riforma  dell'eleatismo,  in  contrapposizione  all'indirizzo  prevalentemente  logico  che  quest'ultimo  aveva  assunto  in  Zenone.  Più  che  alla  difesa  delle  teorie  del  maestro,  Melisso si  dedica  infatti  al  loro  sviluppo  e  alla  loro  integrazione. Abbandonatane  l'iniziale  carica  logico-verbale  e  metodica,  Melisso  si  propose  una  più  coerente  deduzione  dei  caratteri  sostanziali  e  antologici  dell'essere. Egli è  il  primo  ad  insistere  sul  suo  carattere  di  unità,  che  rappresentava  più  adeguatamente  in  senso  spaziale  e  temporale  la  totalità  dell'essere  parmenideo,  e  soprattutto  sulla  sua  infinità.  Melisso  afferma  in  proposito  che  non  è  possibile  interpretarlo  come  sferico  (per  le  difficoltà  accennate  alla  fine  del  paragrafo  n)  bensì  lo  si  deve  concepire  come  infinito  o  illimitato  sia  nello  spazio  sia  nel  tempo. Per  analoghe  ragioni  egli  nega  che  si  puo  ammettere,  nell'uno,  una  qualsiasi  sofferenza  o  dolore  o  altra  passione,  perché  ciò  provocherebbe  in  lui  una  specie  di  perturbazione  e  quindi  ne  diminuirebbe  l'unità  e  immobilità. Quest'ultimo  argomento  sembra  mostrare  come Melisso, sulla  traccia  della  teologia  di  Senofane  e  della  tradizione  ionica,  dovette  interpretare  l  unico essere  come  dotato  di  vita:  una  vita,  probabilmente,  identica  al  pensiero,  secondo  l'equazione  parmenidea  che  abbiamo  già  esposto.  Secondo  la  tradizione,  Melisso  avrebbe anche  definito  l'essere  come  incorporeo,  il che  contrasta  con  la  sua  infinita  esten- sione  spaziale  e  con  la  negazione  eleatica  del  vuoto:  ciò  mette  a  nudo  in  realtà  una  profonda  contraddizione  dell'eleatismo,  che  non  puo  concepire  la  realtà  come  puramente  intelligibile  ed  incorporea,  ma  tuttavia  tentava  di  attribuirle  tutte  le  caratteristiche  di  pura  intelligibilità  richieste  da  un  pensiero  filosofico  ormai  maturo.  L'incorporeità  dell'uno  melisseo  significa  dunque  soltanto  che  esso  era  invisibile  e  illimitato  da  qualsiasi  forma  o  corpo  tangibile;  e  significa  al  tempo  stesso  il  portare  al  limite  una  contraddizione  già  implicita  in  Parmenide  del  cui  superamento  avrebbe  grandemente  beneficiato  il pensiero posteriore. L'avere  reso  l'essere  infinito  nello  spazio e  nel  tempo  impede  a  Melisso  di  accettare la  bipartizione  parmenidea  tra  realtà  atemporale  e  mondo  sensibile  temporale:  a  quest'ultimo  dove  venir  negata  qualunque  sia  pur  secondaria  sussistenza,  ed  è infatti  alla  negazione  dell'esistenza  e della  concepibilità  delle  cose  sensibili  che Melisso dedica  alcune  delle  sue  argomentazioni  più  suggestive.  Perché  una  cosa  qualsiasi,  egli  dice,  possa  essere  conosciuta,  pensata  ed  esistere,  essa  dovrebbe  essere  sempre  identica  a  se  stessa,  assolutametnte  immobile  ed  immuta- bile  nello  spazio  e  nel  tempo,  giacché  una  minima  modificazione  ne  farebbe  una  cosa  diversa  e  così  via  all'infinito;  dovrebbe  dunque  avere  le  stesse  caratteristiche  dell'uno.  Proprio  questo  argomento,  che egli  intendeva  come  una sfida  contro  il  pluralismo,  è  stato  rovesciato  e  raccolto  dalla  corrente  estrema  del  pluralismo,  quella  atomistica:  si  può  dire  infatti  che  l'atomismo  attribuì  alle  sue  in- finite  unità  fisiche  proprio  tutte  le  caratteristiche  dell'uno  melisseo,  ad  eccezione  dell'immobilità  che  non  era  più  necessaria  dato  il riconoscimento  del  vuoto. Con  Zenone  e  con  Melisso,  l'arco  dell'eleatismo di VELIA (si veda) si  conclu  e ci  è rivelata  dai  sensi;  ma  il  suo  scopo  è  quello  di  rivelarci  la  verità  di  questa  molteplicità  dando  conto  dell'unità  che  la  informa  e  della  necessità  che  la  domina.  D'altra  parte,  la  conoscenza  mitica  è  penetrazione  intensiva  di  questa  unità  e necessità,  è  il  porsi  per  così  dire  dal  punto  di  vista  dello sfero che  simbolizza  l'unità  da  un  punto  di  vista  sia  fisico,  sia  religioso,  sia  morale;  è drammatica  consapevolezza,  tuttavia,  della  necessità  del  ci-do  e  dd  molteplice,  nel  loro  decadere  dall'età  aurea  e nel  loro  fatale  tornarvi. Di  qui  le purificazioni,  di  qui  la  dottrina  pitagorizzante  della  metempsicosi  che  adegua  la  sorte  dell'anima  al  ciclo  cosmico.  E  la  via  alla  purificazione  etico-religiosa  è ancora  una  volta,  per  GIRGENTI (si veda),  quella  di  vivere  fino  in  fondo  la vicenda  per  il singolo  uomo,  il  dramma dell'uno  e dei  molti,  del  tempo  e dell'eterno,  della  necessità  e del  caso;  la  via  della  purificazione  è quella  che  conduce  nel  cuore  profondo  della  natura  che  sola  giustifica  l'uomo  e  il  suo  destino,  che  sola  gli.  concede  conoscenza  e  potenza  nel  tempo,  salvazione  nell'eternità.  Sicché  la  leggenda  della  morte  del  filosofo  sparito  nella  voragine  dell'Etna  bene  esprime,  sotto  questo  aspetto,  la  vocazione  del  pensiero  empedocleo.  Si  intende  così  anche  il senso  dell'ambiguo  atteggiamento  di  GIRGENTI (si veda)  verso  le  technai,  e del  suo  interesse  profondo  per  quelle  che  consentissero  un  immediato  controllo  della  natura  (la.  medicina,  le  tecniche  manifatturiere,  la  fisica;  mentre  la  matematica  gli  doveva  sembrare  irrimediabilmente  lontana  dal  mondo  della  vita  e  quindi  sterile).  Non  v'è  nulla  di  più  ingiusto  dell'immagine  trasmessaci  dalla tradizione  di  un  GIRGENTI (si veda)  abile  medico  e  tecnologo  che  ciarlatanescamente  am- mantava  di  magia  i suoi  successi  per  guadagnarne  in  prestigio.  In  realtà,  l'opposizione  fra  technai  e magia  sarebbe  sembrata  assurda  ai  suoi  occhi.  Al  culmine  della  sua  capacità  di  penetrazione  e  di  controllo,  la  techne  aderisce  così  compiutamente  all'intima  vita  del  mondo  da  diventarne,  dall'interno,  una  forza  agente:  il miracolo  è  una  possibilità  di  fysis  che techne  porta alla  luce  (non  troppo  diverse  dovevano  essere  le vedute  degli  alchimisti  rinascimentali). Techne  si  situa  dunque al  crocevia  di  conoscenza  razionale-discorsiva  e  conoscenza  mitico-intensiva;  come  il  problema  del  rapporto  tra  uomo  e  mondo,  tra  conoscenza  e  realtà  s'è tendenzialmente annullato nell'unità della vita del cosmo,  così a techne,  allorché  muova  dalla  consapevolezza  della  struttura del reale, basta foggiarsi via via ad immagine e simiglianza della  natura  per  poter  penetrare  sempre  più  profonda- mente  in  essa,  per  paterne  acquisire  un  sempre  maggiore  controllo.  Disvelandosi  all'osservazione  dell'uomo,  la  natura  gli  aveva  donato  la  conoscenza;  offrendosi  ad  una  techne  che  ne  sappia  comprendere  i  segreti,  essa  gli  concede  l'accesso  alla  potenza:  sicché  alla  fine,  nel  volgere  del  ciclo,  l  'uomo  diviene  profeta,  bardo,  medico  e  principe,  pari  agli  dei  immortali,  come GIRGENTI (si veda)  proclama  di  se  stesso.  Data  la  natura  della  conoscenza  e delle  technai,  è chiaro  come  per  il filosofo  di  1 [V'è  un  oracolo  del  fato,  antico  decreto  degli  dei,  suggellato  da  larghi  giuramenti:  se  mai  alcuno  dei  demoni  (anime)  che  ebbero  in  sorte  lunga  vita,  macchi  le  sue  membra  di  sangue  colpevole,  o seguendo  la discordia empio  spergiuri,  vada  errando  tre  volte  diecimila  anni  !ungi  dai  beati,  nascendo  nel  corso  del  tempo  sotto  tutte  le  forme  mortali,  permutando  i  penosi  sentieri  della  vita. Uno  di  essi  sono  anch'io,  fuggiasco  dagli  dei  ed  errante,  perché  fidai  nella  folle  discordia  Da  quale  onore  e  da  quale  ampiezza  di  felicità,  così  bandito  mi  aggiro  fra  i mortali! La  traduzione  di  questi  frammenti,  come  di  quasi  tutti  quelli  empedoclei  citati,  è  di MONDOLFO (si veda). Ma  v'è  la  via  del  ritorno:  Ma  alla  fine  essi  vengono  sulla  terra  fra  gli  uomini  come  profeti,  bardi,  medici  e  principi,  e  poi  assurgono  al  rango  di  dei  degni  d'onore. Io  vengo  nelle  vostre  città  quale  un  dio  eterno,  non  certo  mortale,  coperto  d'ogni  onore. Agrigento  non  si  ponesse  il  problema  della  logica  e del  metodo. Il  metodo  che  egli  in  effetti  usa  è  essenzialmente  analogico:  acute  inferenze  dall'osservazione  quotidiana,  sia  biologica  (il  palpito  del  cuore,  lo  sviluppo  dell'uovo,  il  meccani- smo  della  respirazione),  ia  fisica  1  (la  riflessione,  l'evaporazione,  il ciclo  stagionale),  sia  tecnica  (il  travaso  dei  liquidi,  la  manifattura  dei  vasi,  la  miscelazione  dei  colori),  gli  offrivano  lo  spunto  per  audaci  generalizzazioni  cosmiche.  Tuttavia  ai  suoi  occhi  queste  estensioni  non  avevano  nulla  di  arbitrario,  basate  com'erano  sulla  certezza  di  una  fondamentale  unità  e  significatività  di  tutte  le  manifestazioni  della  natura  (una  certezza,  come  abbiamo  visto  all'inizio,  a  sua  volta  ricavata  dall'esperienza  immediata,  sia  sensoriale  sia  psichica).Allo  stesso  modo, l'espressione  linguistica  di GIRGENTI (si veda)  non  puo  che  tentare  di  riprodurre,  grazie  ad  una  poesia  potentemente  sintetica  e visualizzante,  la vita  del  mondo  nella  sua  ricchezza;  anche  qui,  l'immagine  poetica  (la  trasvalutazione  delle  radici  in  divinità  o  in  «membra»  del  mondo,  l'affiorare  ovunque  dello  psichico,  del  vivente,  dell'orga- nico)  riposava  sulla  profonda  verità  che  per  questa  via  si  tentava  di  rivelare.  Tale  dunque  la  risposta  empedoclea  al  nodo  di  problemi  che  si  sono  esposti  in  sede  introduttiva:  una  delle  più  grandiose  sintesi  mai  elaborate  dal  pensiero  greco  ed  anche  una  delle  più  affascinanti  ipotesi  scientifiche.  Il  rischio  che GIRGENTI (si veda)  si  assume è  d'altro  canto  totale  quanto  il  suo  sistema:  o  quest'ultimo  si  rivela  davvero  capace  di  spiegare  l'intero  universo,  o  sarebbe  crollato  tutto  quanto,  perché  l'agrigentino  non  offriva  - né,  date  le  sue  premesse,  avrebbe  potuto  farlo  - alcuna  regola  di  pensiero  e  di  metodo  esterna  al  sistema  ed  atta  a  modificarlo,  a  criticarlo,  a  renderlo  più  comprensivo.  La  potenza  del  genio  di GIRGENTI (si veda),  in  tutta  la  sua  ambiguità,  si  esercitò  sul  pensiero  greco  ed  oltre;  e  dinanzi  a  lui,  osserva  Bignone,  le prospettive  del  mondo  greco  si  scompongono  stranamente: è  già  un  antico rispetto  a  Tucidide,  che  è  di  pochi  lustri  più  giovane  di  lui;  ed è,  dopo  più  secoli,  quasi  un  contemporaneo rispetto  a  Platino  e  Porfirio.  Subito  rifiutato  dal  miglior  pensiero  filosofico-scientifico,  d’Anassagora  ad  Ippocrate,  che  vede  nel  dogmatismo  dell'esperienza,  nel  vitalismo  mistico,  nel  rifiuto di  ogni  strumento  razionale  di  tipo  logico-metodologico  il  più  mortale  pericolo  per  un  libero  progresso  della  ricerca, il sistema  di GIRGENTI (si veda) apparve  tuttavia  a  lungo  come  l'unico  che  potesse  garantire una  sicura  base  speculativa  alle  scienze  nascenti,  dalla  biologia alla  fisica,  l'unico  che  ne  assicurasse l'universalità. Così la  dottrina  dei  quattro  elementi,  la  concezione  organicistica  dell'universo  (che  presto  significa anche  visione  finalistica),  il  prevalere  della qualità  sulla  quantità,  finirono per  trionfare  della  scienza ionica  e  passarono  in  gran  parte  al  platonismo  del Timeo,  all'aristotelismo,  alla  medicina  I  Il  sole  è il  luogo  dove  l'emisfero  terrestre,  che  agisce  come  una  lente,  riflette  e  concentra  il  fuoco  emesso  dall'emisfero  etereo; il  mare  è  il sudore della  terra: sotto  l'azione  del  calore;  la  terra  stessa  è  stata  disseccata  dal  calore  al  pari  di  un  vaso  d'argilla;  e  così  via. siciliana  di  Filistione. Tramite  questi  canali,  e sia  pure  con  aggiustamenti  progressivi,  tali  vedute  percorsero  un  lunghissimo  cammino,  fino  ad  affacciarsi  al  rinascimento e alle  soglie  dell'età  moderna. Qui  tornarono  a  scontrarsi  con  il meccanicismo  di  tipo  democriteo,  e  risultarono  questa  volta  soccombenti  senza  però  lasciar  del  tutto  il passo.  Poco  sappiamo  della  vita  di  Filolao:  nato  a  Crotone  attorno  alla  metà  del  v  secolo,  e ivi  formatosi  in  ambiente  pitagorico,  egli si  trasferì  a  Tebe  dove lo  troviamo  a  capo  di  una  fiorente  scuola  pitagorica,  in  rapporto  con  il  gruppo  socratico-platonico ad Atene.  Questa  presenza  di  Filolao a  Tebe,  congiuntamente  all'esilio  peloponnesiaco  di  Empedocle,  ci  rivela  un  rifluire  della  filosofia  italica  nella  madrepatria  greca,  localizzato  non  a caso nelle  poleis  che  combattevano  Atene  nella  guerra  del  Peloponneso:  il  pensiero  ionico-attico  si  trovava  così  in  qualche  modo  circondato  non  meno  di  quanto  lo  fosse,  in  senso  politico-militare,  la  sua  metropoli.  I frammenti  di  Filolao  sono  stati  a  lungo  contestati  per  vari  motivi  filologici,  alla  cui  base  stava  tuttavia  la  constatazione  che essi  anticipavano  un  importante  aspetto  del  platonismo,  e  dunque  la  preoccupazione  che  questo  potesse  risultarne  sminuito  nella  sua  originalità.  L'autenticità  dei  frammenti  è  stata  per  fortuna  rivendicata  da  MONDOLFO (si veda)  e  da  Timpanaro- Cardini; ed  è  chiaro,  secondo  una  più  corretta  visione  storiografica,  che  il  genio di  Platone  risulta  tutt'altro  che  diminuito  dalla  consapevolezza  che  egli  sa fondere  in  una  sintesi  critica  gran  parte  dei  risultati  del  pensiero  filosofico-scientifico,  pur  conferendo  ad  essi  la  propria  originalissima  impronta.  D'altra  parte,  già  questa  considerazione  impone  di dare  alla  figura  di  Filolao  il  posto  che  gli  compete  fra  i  protagonisti  della filosofia  preplatonica.  Il  problema  centrale  di  Filolao  è  analogo  a  quello  di  Empedocle,  ma i  suoi  punti  di  riferimento  speculativi  sono  meglio  definiti,  e il  suo  approccio  alla  realtà  è  più  chiaramente  delimitato  dall'eredità  pitagorica  di  cui egli  si faceva  portatore. Certo,  il  pitagorismo  originario  era  stato  travolto, in campo  matematico,  dalla  crisi  degli  irrazionali,  in campo  fisico-filosofico,  dalla  critica  parmenidea  al  molteplice  e dalla  sua  incapacità  a soddisfare  i  nuovi  requisiti  logico-metodici.  Vedremo  all'inizio  del  capitolo  xn  come  si  svolge fino  ad  Archita,  il  processo  ricostruttivo  delle  matematiche  pitagoriche,  al  quale  Filolao  stesso da un  importante  contributo.  Qui  ci  interessa  piuttosto il suo  sforzo  di  ricostruzione  del  pitagorismo  come  sistema  globale  del  mondo,  compiuto  innestando  sul  tronco  di  quella  tradizione  la  più  matura  consapevolezza  posteleatica.  Si  trattava  innanzitutto  di  salvare  entrambi i  termini  della  diade  costitutiva  di  uno  e  molteplice,  di  limite  e  illimitato,  dove il  primo  termine  assicurava  la verità  e  l'intelligibilità  del  secondo  ma  dove  il  secondo  garantiva  l'estensibilità  del primo al mondo del  reale,  la  sua  presa  sull'esperienza,  conferendogli  quindi  una  concretezza  e  una  funzionalità  sepza  le  quali  esso  sarebbe  stato  confinato  alla  sfera  delle  aspirazioni  etico-religiose. Ma  non  bastava  più,  dopo  Parmenide,  con- trapporre  la  serie  dell'uno  e  del  limite  alla  serie  dei  molti  e  dell'illimitato;  giac- ché  su  quest'ultima  sarebbe  poi  gravata  la  dichiarazione  di  assurdità  e di  irrealtà, che  avrebbe  vanificato  la  tensione  insita  nella  diade.  Il  problema  di  Filolao  era  dunque  quello  di  calare  il  principio  di  unificazione  e di  verità  profondamente  all'interno  della  struttura  molteplice  dell'esperienza,  in  modo  da  garantirne  con  ciò  stesso  la  realtà;  è  di  trasformare  i  termini  della  diade  in  modalità  e  struttura  intima  di  un  unico  mondo,  di  cui  essi  potessero  dar  conto  nella  sua  to- talità.  La  chiave  più  ovvia  per  la  soluzione  del  problema  era,  agli  occhi  di  Filolao,  quella  offerta  dal  numero.  Generato  dall'uno,  e governato  da  leggi  che  sempre  all'uno puo  riportarsi  senza  contraddizione,  il  numero  era  tuttavia  atto  a  fungere  da  limite  al  molteplice  perché  ne  rifletteva  in    la  struttura;  ma  la  riflet- teva  in  modo  tale  da  renderla  omogenea  all'«  uno»  e alla  sua  legge.  Si  consideri  ad  esempio  la  decade  (il  numero  dieci):  secondo  l'analisi  di  Filolao,  essa  comprende  in    tutti  i possibili  rapporti  aritmo-geometriciche  si originano  a partire  dall'unità  ed  è  perciò  stesso  atta  a comprendere  e  ad  organizzare  il  molteplice. Ma  Filolao  non  poteva  più  arrestarsi  alla  generica  veduta  pitagorica  del  nu- mero  come  natura  delle  cose.  Occorre  che  è  davvero  possibile,  leggendo  il  libro  della  natura,  scoprirne  i  caratteri  aritmo-geometrici;  da  un  punto  di  vista  complementare,  occorre  dare  una  più  precisa  dimensione  spaziale  al  numero  e  concretarla  di  una  sussistenza  corporea.  Perciò,  partendo  dall'assioma  aritmo-geometrico  secondo  cui l'unità  rappresenta  il  punto, il due  la linea,  il tre  la  superficie, il  quattro il  solido,  Filolao  da un  impulso originale  e deciso  alla  geometria  solida,  giungendo  a costruire un certo numero di figure  semplici  che  si possono  agevolmente  riportare  alle  modalità fondamentali  dei  numeri. Queste figure si  assicurano  una  prima  realizzazione  grazie  alla  loro  applicabilità  ai movimenti e alla  configurazione  degl’astri,  e, tramite  l'astrologia  pitagorica,  allo  stesso  assetto  del  divino.  x  Più  efficaci  di  ogni  spiegazione  critica  sono  le  parole  di  Filolao  sulla  decade. L'essenza  e  le  opere  del  numero devono essere giudicate in rapporto  alla  potenza  insita  nella  decade;  grande  è  infatti  la  potenza del  numero e  tutto  opera  e  compie,  principio e guida  della  vita  divina  e  celeste  e  di  quella  umana,  in  quanto  partecipa  della  potenza  della  decade;  senza  questa,  tutto  sarebbe  interminato,  incerto  ed  oscuro.  Conoscitiva  è  la  natura  del  numero,  e direttrice  e maestra  per  ognuno,  in  ogni  cosa  che  gli  sia  dubbia  o  sconosciuta.  Perciò  nessuna  delle  cose  sarebbe  chiara  ad  alcuno,    per  se  stessa,    in  rapporto  alle  altre,  se  non  ci  fosse  il  numero  e  la  sua  essenza. Ora  questo, 74  armonizzando  tutte  le  cose con  la  sensazione  nell'interno  dell'anima,  le  rende  conoscibili  e  tra  loro  commensurabili  secondo  la natura  dello  gnomone,  in  quanto  compone  o  scompone  i  singoli  termini  delle  cose,  così  delle  interminate  come  delle  terminanti.    solo  nei  fatti  demonici  e  divini  tu  puoi  vedere  la  natura  del  numero  e la  sua  potenza  dominatrice,  ma  anche  in  tutte,  e sempre,  le  opere  e  parole  umane,  sia  che  riguardino  le  attività  tecniche  in  generale,  sia  propriamente  la  musica (trad.  Timpanaro-Cardini). Da  varie  testimonianze  risultano  le  ingegnose  deduzioni  di  natura  sia  aritmetica  e  geometrica,  sia  fisica,  dalle  quali  Filolao  traeva  conferma  al  dominio  della  decade. A  questo  punto  tuttavia  Filolao  avvertiva  l'esigenza  di  una  semplificazione  del  mondo  fisico  che è assente  nella  tradizione  pitagorica,  e  riconosceva  nel  sistema  empedocleo  il  più  potente  strumento  in  questo  senso.  È  propriamente  nel- l'assunzione  che  ne  fa  Filolao  che  le  radici  di  Empedocle  si  trasformarono  in elementi, avulsi  ormai  dalla  vita  del  cosmo  ed  inseriti  su  di  una  più  fredda  struttura  numerico-geometrica.  Nei  quattro  elementi,  infatti,  e  nello sfero che  li  riassume,  Filolao  vide  il  veicolo  ideale  per  la  conquista  del  mondo  fisico  da  parte  dei  suoi  solidi  geometrici. Per  via  analogica, il  cubo  trovò  il  suo  equivalente  nella  terra;  il  tetraedro  nel  fuoco;  l'ottaedro  nell'aria;  l'icosaedro  nell'acqua;  il  dodecaedro,  infine, nello  sfero.  Da  un  altro  punto  di  vista,  ciò  equivale  a  dire  che  gli  elementi  trovarono  il  proprio  limite,  la  propria  forma,  la  propria  armonia,  infine  la  propria  razionalità  nelle  rispettive  figure.  I  molteplici  oggetti  dell'esperienza  e  le  loro  mutazioni  si  presentavano  ormai  come  aggregati  degli  elementi e dunque come  composizione  di  forme  geometriche  semplici;  ma,  imbrigliati  dal  limite,  armonizzati  dalla  figura,  il  loro  variare  nulla  più  aveva  di  misterioso  o  di  irrazionale,  sempre  riconducibile  com'era,  sia  pure  per  vie  complesse  e  non  tutte  esplorate,  alla  legge  del  numero.  Filolao  giungeva  dunque  a  modificare  così  l 'assioma  pitagorico  che i  numeri  sono  le  cose. Tutte  le cose  hanno  un  numero;  senza  questo,  nulla  sarebbe  possibile  pensare,    conoscere. Le  cose  hanno  un  numero  perché,  come  in  un  universo  cristallografico,  hanno  una  figura-forma  che  le  delimita  e  che  è  riconducibile  a  rapporti  numerici;  1  e  perché  sono  inserite  in  un'armonia  cosmica  che  ne  ritma  il  divenire  e  che  è  anch'essa  riconducibile  al  rapporto  (logos)  numerico.  Nel  frammento  che  abbiamo  ora  citato  Filolao  compie  un'altra  fondamentale  deduzione:  poiché  la  nostra  conoscenza,  se  vuol  essere  vera,  non  può  che  muoversi  dall'«  uno»  e seguirne  la legge,  poiché  il  nostro  pensiero  non  può  che  essere  e  di  fatto,  nella  tradizione  pitagorica,  è  logos  mathematikòs,  ecco  che  il  numero  instaura  la  sua  suprema  armonia  fra  pensiero  e realtà,  fra  uomo  e  mondo;  ecco  che  il  linguaggio  dell'uomo  è  identico  al  linguaggio  di  fysis,  e basterà  affinarlo  nel  medesimo  senso  per  decifrare  fysis  tutta  intiera.  Così  egli  ristrutturava  il  pitagorismo  in  modo  da  adeguarlo  alle  esigenze  posteleatiche  e  insieme  ne  allargava  l'orizzonte  fino  a  includervi  le  necessità di spiegazione naturalistica. Più rigoroso, sebbene meno ricco di quello empedocleo, il suo sistema si  presta a brillanti deduzioni cosmologiche, ma, posto a confronto  con i problemi del significato e della vita,  è  spesso  costretto  a  sce- I [È  interessante  a  questo  proposito  la  figura  d’Eurito,  un  pitagorico  spesso  associato  a  Filolao.  Eurito   famoso  fra  i  suoi  contemporanei  perché,  assegnato  a  qualsiasi  oggetto  reale  un  determinato  numero  (non  sappiamo  come  lo  ottene),  egli  dimostra  in  un  modo  caratteristico  la  necessità  naturale  del  rapporto  fra  l'uno  e  l'altro:  si  provvede  di  un  pari  numero  di  sassolini,  traccia  la figura  dell'oggetto  in  questione  e  incastr11va  lungo  il  suo  perimetro  tali  75  sassolini  (il  numero  atto  a  definire  la  figura  dell'uomo è  per  esempio  250). Variando  le  dimensioni  dell'oggetto,  il  numero  di  sassolini,  che ne esprimeno i rapporti essenziali, non cambia.  In  tal  modo  Eurito  vuole  stabilire  visivamente  la  relazione,  tipica  anche  del  pensiero  di  Filolao,  tra  numero  e  forma  limitante  gli  enti  reali:  il  numero,  tradotto  in  forma, è quindi il principio d’individuazione e  anche d’intelligibilità  della  natura.] gliere la  via del  superamento  mistico alla maniera del pitagorismo;  oscillazione  riconoscibile  lungo  tutto  l'arco  della  riflessione  naturalistica  di  Filolao. L'uno,  ipostatizzato  fisicamente nel  fuoco, sta al centro  del  cosmo;  dal  suo  rapporto  con  l 'infinito  circostante, un rapporto  paragona  bile  al processo  dell’inspirazione  ed  espirazione, si è  generato tutto  quanto  il cosmo,  che consta  di  una  sintesi  inscindibile  d’uno  e  molti,  di  limitante  e illimitato.  Rinnovando  la  meccanica  celeste  della  tradizione  pitagorica,  spinta  a  un  tempo  dall'esigenza  astronomica  di  spiegare  l’eclissi  e  da  quella  mistica  di  assegnare  all'uno-fuoco il  posto  centrale  dell'universo,  Filolao  fece  audacemente  della  Terra  un  pianeta  eccentrico  e  mobile  come  gli  altri,  anticipando  così  di  secoli  la  veduta  d’Aristarco.  La  medesima  ambiguità  si  riscontra  nell'ipotesi  di  un  decimo  pianeta,  l'Antiterra,  in  aggiunta  ai  nove  conosciuti:  si  trattava,  da  un  lato,  di  costruire  un  modello  di meccanica celeste atto a spiegare  fenomeni  quali  la  maggior  frequenza,  in  uno  stesso  luogo,  delle  eclissi  di  luna  rispetto  a  quelle  di  sole;  e,  dall'altro,  di  trovare  un  'ulteriore  conferma  al  valore  universale  della  decade. Analogamente  ad  Empedocle,  Filolao  riteneva  poi  il  sole  percepito  dai  nostri  sensi  un  semplice  riflesso  focalizzato  del fuoco centrale.  Filolao è anche  attento  cultore  di  biologia  e di  medicina:  operando  nel  solco  della  tradizione  alcmeonica,  egli  accoglie  da  un  lato  alcune  posizioni  del  sistema  vitalistico  di  Empedocle,  dall'altro,  grazie  proprio  a  quella  tradizione,  appariva  più  vicino  all'empirismo  esprimentesi  nella  medicina  cnidia;    puo  riuscirgli  agevole  la  trasposizione  dei  punti  di  vista  aritmo-geometrici  al  campo  della  vita. Proprio  per  questa  complessità  di  approccio,  appaiono  nel  filosofo  di  Crotone  germi  interessanti  di  teoria  medica;  essi  passano  in  Platone  e  in  alcune  opere  del  Corpus  hippocraticum,  e  per  un  altro  verso  nella  scuola  siciliana  di  medicina,  ma  non  troveranno  una  diretta  continuazione per il progressivo abbandono, da parte del successivo pitagorismo, delle  ricerche  più  propriamente  naturalistiche.  Un  primo  movimento  analogico  permette  a Filolao  di  ravvisare  nel  ritmo  della  vita  organica  una  stretta  affinità  cosmogonica. Principio  costitutivo  della  vita  è  lo  sperma,  il  calore  originario;  principio  del  corpo  è  dunque  il calore,  così  come  il fuoco  lo  è  del  cosmo.  D'altra  parte  la  respirazione  introduce  nel  corpo  l'elemento  freddo  necessario  ad  equilibrare  tale  calore,  proprio  come  l'inalazione  dell'illimitato  circostante  da  parte  dell'uno  origina  l'universo.  Gli  stessi  organi  principali  del  corpo  sono  racchiusi  in  uno  schema  quaternario  analogo  a  quello  degl’elementi,  ed  essi  sono  visti  come  rispettivamente  egemonici  nelle  varie  classi  di  viventi.  Il  cervello,  cui  corrisponde  il  pensiero,  è  così  egemonico  nell'uomo  (qui  è  chiara  l'eredità  alcmeonica);  il  cuore,  cui  corrisponde  il  principio  della  vita  sensibile,  è  egemonico  negli  animali  (prevalendo  qui  l'ispirazione  empedoclea);  l'ombelico,  che  presiede  alla  crescita  dell'embrione  e alla  vita  vegetati  va,  contrassegna  la  classe  delle  piante;  i  genitali,  infine,  da  cui  proviene  il seme  fecondante,  individuano  tutti  i  viventi  in  quanto  tali.  In  senso  più  propriamente  medico Filolao  costruì  un'eziologia  in  cui  i  maggiori  agenti  patogeni,  di  derivazione  cnidia,  sono  la  bile  (vista  come  siero  delle  carni),  il  sangue  e il  flegma  o  catarro  che  si  origina  dalle  urine  ed  è  comunque  il  prodotto  di  una  infiammazione.  I  fattori  scatenanti  i processi  morbosi  sono  poi  ravvisati,  alla  stregua  della  dottrina  alcmeonica,  nell'eccesso  o  nella  scarsità  di  alimenti,  di  esercizio  fisico,  dei  fattori  ambientali  necessari  alla  vita  dell'uomo. La  teoria  dell'anima è  in  Filolao  strettamente  connessa  alla  concezione  dell'organismo:  l'anima  rappresenta  infatti  da  un  lato  il  respiro  vitale,  il  principio  di  refrigerazione  che  tempera  il  calore  corporeo  e  dava  luogo  alla  vita;  dall'altro  essa  è l'armonia  che  scature  dalla  tensione  degl’opposti  elementi  fisici, come  dalle  corde  di  uno  strumento  musicale, e  li  tene  connessi  nel  miracoloso  equilibrio  della  vita.  L'anima è  dunque  la  presenza  dell'armonia  universale  nel  corpo  vivente,  e  d'altro  canto  l'espressione  intrinseca  dei  diversi  fattori  che  si  componeno  armonicamente  a  dar  luogo  alla  vita  stessa.  Così  strettamente  legata  all'equilibrio transeunte  della  vita  organica,  l'anima  individuale  non  poteva  sopravvivere  al  dissolversi  nella  morte  degli  elementi  corporei  che  essa  armonizza;  ancora  una  volta,  per  giustificarne  l'immortalità  secondo  il  dettame  pitagorico,  Filolao  era  costretto  ad  un  trascendimento  religioso  della  propria  dottrina.  Al  contrario  di GIRGENTI (si veda),  Filolao viene  così  offrendo  al  pensiero  sia  filosofico  sia  tecnico-scientifico  uno  strumento  d'indagine  dotato  di  una  enorme  po- tenzialità:  quello  cioè  dell'analisi  formale  e  modale  della  realtà,  e  della  sua  traduzione  nei  termini  della  logica  aritmo-geometrica. In  questo  senso, è  fondamentale  il  suo apporto  allo  sviluppo  della  matematica,  che  puo ormai  procedere  sulla  via  della  specializzazione  arricchita  della  certezza  che  qualsiasi  sua  scoperta  avrebbe  comportato oggettivamente una più vasta e profonda  comprensione  della  realtà,  avrebbe  comunque  rivestito  un  signi- ficato  universale.  E  parimenti  fondamentale anche se  destinato  ad  un  meno  immediato  successo è  il suo  contributo  alla  fisica,  che  per  la  via  della  matematizzazione è  avviata  ad  una  intelligibilità,  ad  un  rigore  nuovi; un  rigore persino  superiore  a  quello  della  fisica  atomistica,  che,  come  ha  osservato  Rey,  si basa  sulla  meccanica,  una  disciplina  molto  meno progredita nel pensiero greco  di  quanto  non  lo è  l'aritmo-geometria  pitagorica. Se  in  epoca  moderna  matematizzazione  e concezione  atomica  della  fisica  erano  destinate  a riunirsi, dando luogo  al sistema  del  mondo proprio  della  scienza  a  partire  dal  Seicento,  nel  mondo  greco  pitagorismo  ed  atomismo  restarono  però a lungo contrapposti. Ciò è  dovuto  anche  all'ambiguità  che  abbiamo visto sottendersi a tutta la  speculazione di Filolao. Il logos  mathematikòs  non  era  soltanto, e non tanto, un metodo del pensiero  quanto  la  struttura essenziale, garantita,  dell'universo;  il  numero  non  era  tanto  uno  strumento  euristico  dell'uomo  quanto  una  realtà  originaria,  primale,  che garantiva  la  validità  della  scienza,  ma  soprattutto  la  condizionava  al  riconoscimento  di  sé,  principio  dogmatico  del  conoscibile  prima  che  del  conoscere.  Già  per  la  matematica,  questa  natura  del  numero  creava  una  situazione  di  privilegio  necessariamente  ambigua:  giacché  essa  veniva  trasvalutata  in  una  sorta  di  teologia  razionale,  secondo  un  processo  che  sarà  comune  a  Platone  vecchio  e  a  tutto  il  successivo  pitagorismo,  sempre  più  alieno  dalla  ricerca  empirica,  sempre  più  portato  a  rifiutare  il  contatto  così  fecondo tra la matematica stessa e le  discipline  tecniche  e  naturalistiche.  Nel  senso  di  Filolao,  assolutizzazione delle  matematiche  voleva  dire  dunque  anche  loro  isterilimento  sul  piano  scientifico-tecnico, e  contemporaneamente  condanna  ad  uno  status  non  scientifico  delle  technai  di  controllo  della  natura,  dalla  meccanica  alla  biologia.  L'accentuarsi  della  natura  mistica  del  numero che  all'origine  aveva anche  significato  l~  preoccupazione  di  una  saldatura  tra  uomo  e  mondo,  tra  conoscenza  e  realtà avrebbe  scavato  un  solco  sempre  più profondo  tra  il pitagorismo e le  tendenze  più  vive  del  pensiero,  conducendo  da  ultimo  alla  fusione  tra  un  pitagorismo  teologizzante  ed  un  parimenti  infiacchito  platonismo.  Filolao,  con  tutta  la  sua  ricchezza  di  interessi  metodici e  scientifici,  è  certamente  lontanissimo  da  tali  esiti.  Ma  la  sua  impossibilità  di  liberarsi  da  talune  ambiguità  di  fondo  lo  poneva  già,  nono- stante  tutto,  su  questa  via. LEONZIO (si veda) nacque a Lentini. La  tradizione  ci  raccontà  che  e discepolo  vuoi  dei  pitagorici  vuoi  di  GIRGENTI (si veda).  Senza  dubbio  riuscì  a  conquistarsi  la  stima  dei  suoi  concittadini,  tanto  è  vero  che  è  da  essi  inviato  come  ambasciatore  ad  Atene  per  chiedere  aiuto  contro  Siracusa.  Viaggia  per  tutta  la  Grecia,  facendo  ovunque  sfoggio  della  sua  sottilissima  arte  dialettica  che  è  basata  su  una  tecnica  analoga  a quella  di  Zenone.  Scrive  varie  opere,  fra  le  quali  ci limitiamo  a ricordare l'Elena  e  il trattatello  Intorno  al  non ente  o intorno  alla  natura, Perì  tou  me  ontos  é perì  Jjseos. Nella  prima  viene  svolta,  con  molta  abilità,  la  paradossale  difesa  della  celebre  eroina,  scagionata  da  ogni  colpa  per  l'abbandono  della  casa  del  marito,  e  viene  intessuto  l'elogio  dell'onnipotenza  della  parola, specie  quando  essa  è guidata dalla  retorica. La  parola  è  un  gran  dominatore,  che  con  piccolissimo corpo  e  invisibilissimo,  divinissime  cose  sa  compiere;  riesce  infatti  a  calmar  la  paura,  e  a  eliminare il  dolore,  e  a  suscitare  la  gioia,  e  ad  aumentare  la  pietà. Nell'altra  opera  LEONZIO (si veda)  espone, una triplice  tesi:   nulla  è;   se  anche  qualcosa  fosse,  non  sarebbe  conoscibile;  se  poi  fosse  conoscibile,  non  sarebbe  esprimibile,  poiché  il  mezzo  con  cui  ci  esprimiamo,  è  la  parola;  e  la  parola  non  è  l'oggetto,  ciò  che  è  realmente;  non  dunque  realtà  esistente  noi  esprimiamo  al  nostro  vicino,  ma  solo  parola  che  è  altro  dall'oggetto.  La  critica  della  filosofia di  Parmenide di VELIA (si veda) è  qui  evidente. Essa  si  fonda  sull'equivocità  del  termine  essere  usato  ora  nel  senso  d’esistere  ora  invece  nel  senso  puramente  copulativo.  Ma  più  ancora  di  questa  critica  è  importante  la  chiarezza  con  cui  si  pongono  i  problemi  della  conoscibilità  e  dell'esprimibilità  (cioè  i  problemi  se  tutto  ciò  che  esiste  possa,  per  il  solo  fatto  di  esistere,  venire  conosciuto  e  venire  espresso). Abbiamo  parlato,  a  proposito  sia  di  Protagora  sia  di  LEONZIO (si veda),  di  critica  all'eleatismo di VELIA (si veda)  Tale  critica  investì  certamente  il  tentativo  dell'eleatismo  di  stringere  in  una  rigida  unità  l'ordine  del  pensiero e del linguaggio con  quello  della  realtà  percepita  e vissuta,  e vi  contrappose  la  relativa  autonomia di questi  due  momenti.  Ciò  premesso, la critica  moderna tende tuttavia  a  non  sottovalutarei  legami  che  connessero  i  maggiori  sofisti  all'eleatismo,  e  non  solo  nel  senso  che  la  situazione  di  crisi  creata  da  quest'ultimo  rappresentò  il  loro  punto  di  partenza. Nell'ordine  logico,  i  sofisti  accettarono  infatti  i  requisiti  di  verità  imposti  dall'eleatismo di VELIA (si veda),  quali l'identità  tautologica (di  cui  la  orthoépeia  protagorea è una  versione  raffinata)  e  la  pregnanza  di  significati  esistenziali  e  copulativi  del  verbo  essere.  La  rivendicata  autonomia  dell'esperienza  vissuta  si  tradurrebbe  pertanto  in  una  sizioni  professionali variano  da individuo ad individuo, sicché ognuno, possedendone alcune, è privo delle altre, la capacità  di  contribuire  a  conservare e  perfezionare  l'organismo  sociale  deve  essere  considerata  presente  in  tutti  gli  individui  normali. rinuncia a  controllarla con strumenti  logici, e  in  un  suo abbandono  alla  psicologia  dell'individuo  a  sua  volta  stratificato  nella  convenzione  sociale. Questo  atteggiamento si  traduce,  da  un  lato,  in  una  certa  incapacità  della sofistica  di  comprendere  l'originale  rapporto  di  logica  ed  esperienza  che  si viene  realizzando  nella  scienza  contemporanea  (di  qui  la  polemica  di  Protagora  e  di LEONZIO (si veda)  contro  la  geometria,  la fisica e,  indirettamente,  contro  la  medicina);  dall'altro,  nella  tendenza  a  considerare  il  momento  irrazionale  del  profitto  e della  forza  come  primario  nell'ordine  sociale,  trascurandone  le esigenze  etico-storiche.  Questo  non  toglie  nulla  alla  fecondità  dell'atteggiamento  critico  della  sofistica,  ma  certamente  sottolinea  la  vastità  del  compito  di  ricostruzione  scientifica,  filosofica  e  storico- sociale  che  spetterà  al  pensiero  greco  dopo  il  fallimento  eleatico di VELIA (si veda),  l'esaurimento  della  filosofia  della  natura  e  la  critica  sofistica.  Non  sappiamo  se  a  CROTONE,  quando  vi  approdò  Callifonte,  l'asclepiade  di  Cnido,  già  esiste  una  scuola  di  medicina  o  se  la  sua  fondazione  si  deve  a questo  scienziato  venuto  dall'Oriente.  È  certo,  tuttavia,  che  la  scuola  conobbe  una  rapidissima  fioritura.  Già  il  figlio  di  Callifonte,  Democede,  si  guadagna  la fama  di  miglior  chirurgo  del  mondo  greco,  e,  fatto  ritorno  alla  nativa  costa  ionica,  impone  alla  corte  del  re  di  Persia  la  supremazia  della  nuova  scuola  ellenica  su  quella  tradizionale  d  'Egitto.  Tocca al crotoniate  ALCMEONE (si veda) di  portare  la  scuola  al  suo  massimo  livello  scientifico.  E  soprattutto  toccò  ad  Alcmeqne che  Wellmann define a  buon  diritto  pater  medicinæ  grecæ di  rinnovare  profondamente  il  pensiero  scientifico  ellenico,  condizionandone  lo  svolgimento  lungo  tutto  il  v  secolo.  A  contatto  attraverso  la  sua  scuola  con  le  esperienze  maturate  dalla  historle  ionica,  egli  entra  d'altro  canto  in  relazione  con  le  filosofie  i tali  che  che  sullo  scorcio  di  quel  secolo  si  sviluppavano  rapidamente:  il  pensiero  di  Senofane  da  un  lato, il  pitagorismo  dall'altro. Dalla  critica  senofanea  al  sapere  umano,  Alcmeone  derivò  la  consapevolezza,  via via  affinatasi,  che  l'osservazione  empirica  non  può  immediatamente  offrire  la  chiave  della  conoscenza,  che  la  verità  non  si  rivela  tutt'intera  a  chi  si  limiti  a  descrivere  la  natura. Con  il  pitagorismo,  Alcmeone  mantenne  rapporti  su  di  una  base  di  autonomia,  da  scuola  a  scuola;  insofferente  del  carattere  settario,  dogmatico,  della  dottrina  e  della  prassi  pitago- rica,  egli  rivolse  contro  di esse la sua critica  teorica  e  la  sua  azione politica  demo- cratica.  Fu  tuttavia  profondamente  interessato  non solo dai progressi che i pitagorici fanno  compiere  alle.  scienze  naturali,  ma  soprattutto  dal  loro  tentativo  di  scoprire  leggi  dell'esperienza  che  fungessero  da  principio  di  organizzazione  e  di  interpretazione  dei  fenomeni  osservati.  Ecco  dunque  che  sul  tronco  dell'empirismo  ionico,  cui  per  altro  restava  solidamente  ancorato, Alcmeone viene  innestando  una  problematica  e  una  consapevolezza  nuove,  la  cui  carenza  aveva  sempre  frenato,  come  s'è  visto,  i  progressi  di  quell'empirismo. Proprio  con  la  dichiarazione  di  questa  acquisita  consapevolezza  si  apre  l'opera  di  Alcmeone. Delle cose invisibili,  delle  cose  mortali  gli  dei  hanno  immediata  certezza,  ma  agl’uomini  tocca  procedere  per  indizi  (tekmdiresthai).  Bastava  un  tale  punto  di  vista  gnoseologico  ad  infrangere  l'illusione  dell'immediata  trasparenza  dell'esperienza,  ad  aprire  la  via  ad  una  osservazione  critica  dei  fenomeni  e  ad  un  più  attivo  intervento  dello  scienziato  nella  loro  interpretazione.  Alcmeone  si  valeva  del  principio  così  scoperto  nel  vivo  della  propria  ricerca  scientifica,  e  d'altra  parte  era  la  ricerca  stessa,  divenuta  criticamente  più  vigile,  a  confermargliene  la  validità. Nel  campo  dei  fenomeni  naturali  egli  non  vedeva  più  alcun elemento alcuna  coppia  di  contrari,  alcuna  arché  che  di  per    valessero  a  spiegare  la  natura  e  la  vita.  Da  biologo,  egli  riconosceva  piuttosto nell'empirico una indefinita molteplicità  di  principi  attivi  o qualità,  vale  a  dire  di  stimoli  capaci  di  de- terminare  nell'organismo  una  certa  reazione  fisiologica  (l'amaro,  il  freddo  e  così  via);  di  conseguenza,  non  v'era  continuità  fra  organismo  senziente  e  il  suo  ambiente,  ma  il  rapporto  fra  l'uno  e  l'altro  era  quello  di  stimolo  e  reazione  (questo  è  il  significato  della sensazione  per  contrari attribuita  ad  Alcmeone,  in  contrasto  con  la  sensazione per simili  che è tipica  di  GIRGENTI (si veda)).  Parallelamente,  Alcmeone  scopriva,  grazie  alla  pratica  coraggiosamente  scientifica  della  dissezione,  che  la  funzione  del  percepire  è  nell'uomo  bensì  diffusa  nei  vari  organi  di  senso,  ma  che  essa  viene  poi  coordinata  da  un  organo  centrale,  e  precisamente  dal  cervello. Con  questa  scoperta Alcmeone  non  solo  compiva  un  progresso  di  fondamentale  importanza  per  tutta  la  biologia  greca,  ma  trovava  altresì  una  decisiva  conferma  al  proprio  punto  di  vista  gnoseologico:  la  funzione  del  cervello  spezzava  di  fatto  il  legame  immediato  fra  uomo e  mondo,  fra  conoscenza  e  realtà.  Ed  Alcmeone  rende  esplicita  questa  con- seguenza  dichiarando  che,  se  la sensibilità  è  una  proprietà  di  tutti  gl’organismi  viventi, la funzione  del comprendere,  cioè del  ridurre a  sintesi  significativa  l'esperienza,  e  del prender  coscienza della  sensibilità  stessa  è  propria  esclusivamente  dell'uomo. Il  valore  di  queste  asserzioni  si  puo  intendere  appieno  ove  si ricordi che  ancora  una  generazione  più  tardi la  dottrina  della  centralità  del cuore  conduce GIRGENTI (si veda)  a  conclusioni  estremamente  antitetiche.  In  ogni  modo,  profondo  è  il solco  così  apertosi  fra  l'uomo  e  la  realtà  che  egli  vuol  comprendere  e  trasformare. Il  mondo  dell'esperienza  riacquistava  la  sua  concretezza,  e  l'esperienza  stessa  veniva  riconosciuta  incapace  di  dare  spontaneamente conto di sé. Così, lo scienziato  riconquista  un'autonomia  e una  possibilità  di  comprensione  e di controllo sul mondo, scoprendo un punto di vista ad esso eterogeneo. Ma Alcmeone si avvide di una  conseguenza  decisiva  di  questa  situazione:  la  realtà  si  faceva  a  un  tratto  opaca  agli  occhi  dello  scienziato;  la  sapienza,  intesa  come  perfetta  trasparenza  di  tutto il  mondo  all'uomo,  restava  ormai  solo  una  proprietà del divino.  In  termini  di  metodo  scientifico,  la  sapienza  doveva  allora  venir  sostituita  dall'indagine, la  rivelazione  dalla  congettura,  l'osservazione  e le  analogie  che  essa  sembrava  offrire  dovevano  essere  integrate  dal  metodo  dell'indizio e  della  prova. Quando  Alcmeone  poneva  il  tekmdiresthai,  il  proceder  appunto  per  indizi,  congetture e  prove,  come  metodo  tipico  della  conoscenza  umana,  egli  conferiva  una  consapevolezza  teorica  alla  prassi  della  medicina,  che  dove  interpretare  l'esperienza  per  ritrovare  in  essa un  significato,  un  valore  di  sintomo,  e  risalire  così  all'unità  della  malattia  e  delle  sue  cause:  una  consapevolezza  che,  come  s'è  visto,  fa  sempre  difetto  ai  cnidi.  Sulla  base  di  queste  prospettive  teoriche, Alcmeone  poté  anche  offrire  alla  medicina  una  dottrina  fisio-patologica  e  un'eziologia  unitaria  cui  i  cnidi  non avevano  potuto  pervenire. Le  infinite qualità (4Jnàmeis)  agenti  nell'organismo,  formano  nel  loro  stato  normale  un  composto  (krasis)  omogeneo  ed  armonico (isonomia). La  malattia  nasce  dalla  rottura  di  tale  equilibrio  e  dal  prevalere  patologico  (monarchia)  di  uno  solo  di  questi  principi,  oltre  che  per  l'azione  di  una  molteplicità  di  fattori  ambientali.  È  importante  notare,  per  l'influenza  che  questa  veduta  ebbe  su  Ippocrate,  che  Alcmeone  lascia  indefinito il numero  delle  4Jndmeis, senza  irrigidirle    nello  schema  quaternario  degli  elementi  proprio  della scuola empedoclea,  né in quello degl’umori sviluppatosi  nella  tarda  scuola  di  Cos. Queste  determinazioni  negative,  le  uniche  che  ci  restano  delle  4Jndmeis  alcmeoniche, sono  tuttavia  importanti,  perché  gettano  il  seme  di  una  embrionale  chimica  fisiologica,  consapevole  della  molteplicità  degli  elementi  e  dei composti  (come  ribadirà  anche  Anassagora)  e  attenta  soprattutto  alla  loro  sempre  variabile  funzionalità  nelle sintesi  organiche.  D'altra  parte,  rompendo  anche  qui  con  tutta  la  tradizione  della bsiologia,  Alcmeone  afferma  l'irreversibilità  dei  processi  biologici  e  dunque  l'impossibilità  del  ciclo. Gl’uomini  per  ciò  periscono,  che  non  possono  congiungere  il  principio  con  la  fine. Troppo  innovatrici  erano  tuttavia  le  sue  intuizioni,  perché  Alcmeone  ne  potesse  trarre  tutte  le  conseguenze.  La  via  del  metodo  scientifico  era  stata  indicata,  ma  un  lungo  cammino  doveva  essere  ancora  percorso  perché  quel  metodo  potesse  essere  sviluppato  e  consolidato.  Il  problema  del  rapporto  fra  pensiero  e  realtà,  fra  teoria  ed  esperienza  era  stato  posto  senza  che  le  strutture di quel  rapporto  potessero  essere  compiutamente  analizzate e  rese  esplicite.  Questa  mancanza  di  una  chiara  elaborazione  teorica  spiega  come  l'eredità  alcmeonica  si  sia  suddivisa  in  due  filoni  diversi  e  contrastanti.  Da  un  lato,  infatti,  essa  fu  riassorbita  dalla  fysiologia  italica  e  siciliana,  che  utilizzò  alcune  delle  sue  conquiste  scientifiche  contestandone  altre  e  soprattutto  annullandone  via  via  la  carica  innovatrice  dal  punto  di  vista  del  metodo.  Attraverso GIRGENTI (si veda),  questo  filone  dell'eredità  alcmeonica  passa alla  scuola  italica  di  medicina. L'altro  filone  ci  interessa  qui  più  da  vicino:  tramite  l'autonoma  ricerca  medico-biologica,  esso  rifluì nell'ambiente  scientifico  ionico-attico,  e  dunque nel suo crogiuolo  ateniese,  destandovi  immediatamente l'interesse  delle  più  vive  correnti  di  pensiero.  Ad  Anassagora  la  lezione  alcmeonica  apportava  la  veduta  dell'alterità  del  conoscere  rispetto  al  conosciuto,  dell'inesauribile  concretezza  del  mondo  empirico,  del  tekmdiresthai  come  metodo  della  conoscenza;  agli  scienziati  che si  raccoglievano  intorno al  filosofo, ai  medici  come lppocrate,  Alcmeone  insegnava  l'importanza  metodica  del  sintomo,  la centralità  del  cervello, le basi  fisiologiche  della  patologia;  agli  uomini  di  cultura,  agli  storici  come  Tucidide,  egli  trasmette analoghi  spunti  metodici,  e  ancora  il suo  rifiuto  della  ciclicità,  la  sua  concezione  così  suggestivamente  trasferibile  alle  vicende  umane dell'armonia  come  salute,  della  monarchia  come  sua  rottura  patologica Seguendo  questo secondo  filone  dell'eredità  alcmeonica,  occorre quindi  tornare  nell'Atene,  dove  si  venivano  intrecciando  i  nodi  di  tutto il  pensiero  scientifico greco e grazie a ciò si  poneno  le  premesse  per  le  sue  conquiste  più  alte. Nel  seguire il  filone  alcmeonico  che  si  svolge  attraverso  Anassagora  e  culmina  in  Ippocrate,  accennammo  anche  al  permanere  di  una  scuola  medica in Magna  Grecia e in Sicilia,  nella  quale  l'eredità  di  Alcmeone  dove  però  esser  ben  presto  sopraffatta  dal  prepotente  influsso  della  fysiologia  di  GIRGENTI (si veda).  Quest'ultima è  in  effetti  tale  da  condizionare  sia  nelle  premesse  sia  nei  metodi  la  ricerca  medico-biologica,  promuovendone  a  un  tempo lo sviluppo e  indirizzandolo verso esiti  estremamente  insidiosi. La  concezione  del  inondo  come  un organismo vivente pare  infatti  assicurare  la  fondazione più  universale  e  più  valida  alle  scienze  biologiche;  e la  riduzione  del  mondo  stesso  a  quattro  elementi  primari,  o archai,  sembra  a  sua volta  offrire  uno  strumento  decisivo per la comprensione  della  struttura  del  corpo e  delle  sue  affezioni. La  metodica  da  porre in  opera è pure  esemplificata  da  GIRGENTI (si veda):  si tratta  di  battere  la  via  dell'analogia  tra  microcosmo e  macrocosmo,  di  riportare  cioè  costantemente  i  fenomeni  organici  alla  struttura  di  fondo  del  corpo  e  la  struttura  del  corpo  a  quella  dell'universo,  ritrovando  in  quest'ultima  una  garanzia  di  ve- rità  e  una  premessa  per  ulteriori  spiegazioni.  Entro  tale  orizzonte  la  scuola  italica  si  sviluppa, FILISTIONE (si veda) di  Locri  la  conduce  al  suo  definitivo  assetto  dottrinale  e  metodico.  Importante  in  senso  dottrinale  l'elaborazione della  teoria  del  pneuma  o  respiro,  principio  vitale  che  animava  la  struttura  elementare  sia  del  corpo sia  del cosmo, e che  vale  a spiegare  molti  fenomeni  patologici  quando  la  sua  circolazione  organica  risulta  anomala. Ma soprattutto importante, dal  punto  di  vista  metodico, è la  traduzione in  senso  biologico degl’elementi empedoclei,  che  certamente  Filistione  derivava  dalla  scuola  ma  cui  egli  conferì  una  forma  destinata a dominare  per  lunghi  secoli  il  pensiero  naturalistico. Non  immemore  della  lettera  almeno  dell'insegnamento alcmeonico, e  impegnato  più  direttamente  di  GIRGENTI (si veda) GERGENTI nell'osservazione  dei  fenomeni  organici, Filistione  trasformò  gli  elementi  in  qualità  o  principi  organici  attivi  (c!Jndmeis): così  la  terra  viene  espressa  dalla  djnamis secco,  l'acqua  dall'umido,  il fuoco  dal caldo,  l'aria  dal freddo: queste  c!Jndmeis  erano  secondo  Filistione  la  forma  specifica  con  la  quale  la  struttura  elementare  dell'universo  si  manifesta  nell'organismo  umano;  grazie  tuttavia  alloro  legame  univoco  con  gli  elementi,  esse  non  potevano  diventare,  come  in  Anassagora  ed  in  Ippocrate,  stati  relativi  e  mutevoli  degli  oggetti  empirici,  bensì  restavano  principi  stabili  e necessari  dell'empirico  stesso.  Il  processo  analogico  con  il  quale  Filistione  giunge  alle  quattro  qualità  era  strettamente  affine  alla  deduzione  empedoclea  degli  elementi,  e  non  occorrerà  tornare  a  descri- verlo;  e la  sua  critica  più  pertinente,  dal  punto  di  vista  del  metodo della medicina  empirica, è del  resto  anticipata  dallo  stesso  Ippocrate  in  Antica  medicina.  L'importanza  storica  della  rielaborazione  di  Filistione  e la ragione  del  suo  duraturo  successo  stanno  da  un  lato  nell'aver  offerto  alla  biolo- gia  uno  strumento  di  spiegazione  e  di  semplificazione  dei  fenomeni  pur  sempre  dogmatico  ma  tuttavia  assai  più  riconoscibile  nella  concretezza  dei  processi  or- ganici  di  quanto  lo  fossero  gli  elementi  empedoclei  (ad  esempio  il  «calore  vitale»  e  il  suo  eccesso  patologico  rappresentato  dalle  febbri  si  spiegano  meglio  con  le  vicende  della  qualità caldo  che  con  la  materia fuoco;  d'altro  lato,  togliendo  dalla  fysiologia  empedoclea  quanto  vi  era  di  materialistico  e  in  fondo  di  meccanicistico,  Filistione  ne  troncava  i  pur  possibili  legami  con  l'atomismo  e la  rende assai  meglio  accetta  al  prevalente  indirizzo  qualitativo  del  pensiero  platonico  e  soprattutto  aristotelico. Un'altra  importante  evoluzione  egli  fa poi  subire  all'organicismo  del  filosofo  di  Agrigento.  Mentre  quest'ultimo  non  aveva  mai  compiuto  esplicita- mente  il  passo  che  portava  dalla  concezione  vitalistica  del  mondo  al  riconoscimento  di  un  finalismo  in  esso  operante,  Filistione  trovava,  ad  esito  delle  sue  ricerche  anatomiche  sull'organismo,  proprio  questo  grande  principio  esplicativo:  che  la  natura,  e  soprattutto  la  natura  vivente,  è  organizzata  in  funzione  di  un  sistema  di  fini,  che  questa  organizzazione  si  ritrova  allivello  di tutti  gl’organi,  e che  dunque  l'indagine  biologica  non  deve  vertere  tanto  sul che  cosa e  sul come, quanto  sul  perché finale dell'assetto  dei  fenomeni  studiati. Nel  trattato  sul  cuore, Perì  kardies, dove  tra  l'altro,  nonostante  la  sua  grande dottrina  anatomica,  egli  rifiuta  Alcmeone  per  Empedocle  e  pone  l'intelligenza  nel  cuore  stesso Filistione  concepisce  quest'organo  come  la  costruzione  mirabile  di  un  buon  artefice,  che  tutto  ha  predisposto  affinché la vita  potesse  aver  luogo  nel  migliore  dei  modi. L'incontro  di  queste  dottrine con il  platonismo,  concretatosi  in  quello  fra  Filistione  e  Platone  avvenuto  in  Sicilia all'inizio  del  periodo di  elaborazione  del Timeo,  dove avere  conseguenze  incalcolabili  per  la  scienza  della  natura  greca. Attraverso  Platone,  passarono  infatti  ad  Aristotele,  che  le  adottò  ancor  più  risolutamente  del  maestro,  e  grazie  a  lui  conquistarono  una  egemonia  per  lungo  tempo  quasi  incontrastata.  Ma  prima che tutto  questo  avesse  luogo,  le  posizioni  della  scuola  italica  fa- cevano  sentire  la  loro  pressione  sulla  stessa  scuola di Cos postippocratica,  e  occorre  ora  seguire  gli  estremi  tentativi  di  quest'ultima  di  salvare  la  techne, l'antica  medicina,  da  così  agguerriti  avversari. Già  si  parlò  dell'opera  di  Filolao, Qui  vogliamo  ancora  accennare  ai  progressi  compiuti,  nell'ambito  della  matematica,  dal  filosofo  e  scienziato  Archita, vissuto  a  TARANTO (si veda), figura  di  statista  pitagorico. Egli  rende  per  lungo  tempo  la  sua  città  incrementandone  la  prosperità  e  la  potenza  militare,  facendone  la  prima  della  Magna  Grecia. Si  ritiene  che  Archita  applica  la  propria  dottrina  matematica  alla  meccanica  militare,  e,  poiché  sappiamo  pure  che  fa  uso  di  strumenti  meccanici  per  risolvere  problemi  geometrici,  si  può  dire  che  per  primo  (e  sfortunatamente  con  pochi  imitatori  per  molto  tempo)  egli intuì la fecondità  teorica  e  pratica  di  una  relazione  fra  matematica  e  meccanica.  Profonda è l'impressione  che  la personalità  d’Archita  suscita  in  Platone  in  occasione  del  suo  soggiorno  a  Taranto.  In  campo  matematico,  Archita  riprende  il  problema  di  Delo secondo  le  linee  tracciate  da  Ippocrate  di  Chio, e lo porta a  soluzione  mediante  la  rappresentazione  strumentale  di  figure  geometriche  in  movimento.  La  soluzione  d’Archita  è  troppo  complessa  per  essere  qui  riportata:  da  essa  risulta  comunque che  egli  era  familiare  con  i  processi  mediante  cui si  generano  cilindri,  coni  e  altri  solidi  di  rivoluzione, e  che è  il  primo  ad  usare  consapevolmente  il concetto  di  luogo  geometrico.  In  questo  modo,  Archita  offriva  il  primo  esempio  di  applicazione  della  geometria  dello  spazio  alla  soluzione  dei  problemi  di  geometria  piana,  e  insieme  dava  inizio alle  ricerche  che  concluderanno  alla  teoria  delle  coniche.  Ma  quello  che  va  messo  in  maggiore  rilievo,  è  lo  spregiudicato  coraggio  con  il  quale  Archita  faceva  ricorso  - nonostante  la  polemica platonica a tutti  i metodi  e  gli  strumenti  che  permettessero  di  far  progredire  la  ricerca.  Parimenti  ardite  le  sue  impostazioni  in  aritmetica  e  in  acustica:  quanto  alla  prima,  egli  contribuì  a  sviluppare  il  concetto  che  il numero è  essenzialmente  un rapporto, perciò  indipendente dalle condizioni di  commensurabilità  e  razionalità,  e poté  quindi  tornare  a rivendicare  la  supremazia  dell'aritmetica  fra  le  scienze  matematiche;  quanto  alla  seconda,  egli  scoprì  che  il  suono  è  dovuto  al  movimento  e  all'urto  dei  corpi,  e  che  l'aria  è  un  corpo  atto  a  ricevere  la  vibrazione  e a propagarla La  tradizione,  che fa  di  Archita  uno  dei  maestri  di  Eudosso,  anche se  dubbia,  vale  certamente  a  simboleggiare  la  funzione  del  tarantino  nel  passaggio  dalla  matematica  alla  grande  fioritura  che  ha  luogo. I filosofi romani, prevalentemente agricoltori e guerrieri, non si occupsno affatto né  di  problemi speculative. Il loro  interesse si concentra tutto sul problema giuridico, per l'evidente importanza del diritto nella costruzione di uno stato efficiente. La conquista romana della Macedonia li porta a contatto immediato  colla filosofia. Questo t tutt'altro che armónico. La penetrazione in Roma della filosofia infatti costituie un pericolo per lo stato romano,  minacciando di alterarne quei caratteri  che costituie la base stessa del suo successo come civilizazione.. Gl’elementi conservatori, come CATONE (si veda), se ne avvidero immediatamente e cercano di opporre una seria resistenza. Un senatoconsulto ordina che i filosofi emmigrati a Roma come esuli della Macedonia,  fossero cacciati da Roma. Atene invia a Roma una missione diplomatica, formata da tre filosofi (Critolao, rappresentando il LIZIO,  Diogene  di  Babilonia,  il Portico,  e  Carneade, l’Accademia). Essi approfittarono di questo soggiorno per esporre nel Campidoglio le proprie dottrine sullo giusto. Ottennero un enorme successo, soprattutto Carneade, la cui oratoria, ricca di sottili argomentazioni dialettiche, riusce a conquistare la parte più  intelligente dell’elite romana.  Famoso è rimasto il discorso di Carneade sul contrasto fra il giusto e il vero, dimostrato proprio con l'esempio di Roma, che fonda la propria potenza sul territorio strappato con la violenza ad altri. Questa non e l'ultima ragione per cui I filosofi ateniesi, conclusa la loro missione, furono ordinati a lasciare Roma. È noto che questi due ostacoli non riuscirono a fermare il processo iniziato. Nel corso di pochi decenni, la situazione muta radicalmente. I membri delle migliori famiglie romane accorrono sempre più numerosi a studiare filosofia dagli schiavi che frequentano I circoli d’influenti  personalità  politiche.  A  Roma  e per  oltre  un  decennio Panezio, rappresentanti del Portico. Panezio  si lega  particolarmente  al circolo di SCIPIONE (si veda) Emiliano, detto L’Affricano minore. Questo circolo – il primo circolo filosofico romano -- comprende  oltre  allo  storico  Polibio,  i  maggiori  rappresentanti  della.  cultura  romana  del  tempo: TERENZIO (si veda),  LUCILIO (si veda),  Caio  LELIO (si veda),  Quinto  Elio  TUBERONE (si veda),  ecc.  Roma  comincia  a  diventare  un  centro  culturale  di  notevole importanza. E erroneo tuttavia ritenere che  la  filosofia,  con  i  successi  ora  ricordati,  sia  effettivamente  riuscita  a imporre  a  Roma  la  propria stampa. Che non sia stato così ce lo dimostra il fatto semplicissimo. Mentre il greco si  e  rapidamente  diffusa in  tutto il  mondo  mediterraneo  orientale  (per  esempio  in  Egitto), tanto  da  diventarvi  l'unico  mezzo  di  comunicazione  della  cultura,  nulla  di  simile  accadde  a Roma.  Nel  campo  linguistico, la  resistenza  del gran CATONE (si veda)  riporta  piena  vittoria. I romani filosofano in latino, arricchizzendo il vocabolario. La  civiltà  mediterranea  finisce  a  poco  a  poco  per  diventare  latina. Nel  campo della  filosofia  le  qualità  più  caratteristiche  del  temperamento indigeno romano  buone  o  cattive  che  fossero - non  andano  sommerse. La ripugnanza  per  la speculazione  astratta (scolastica),  l'interesse  volto  più  alla conclusion pratica che alla premessa, la spiccata  attitudine  del filosofo romano  all’azione, fanno sentire il peso della  loro  influenza. I notevoli riflessi di  questo temperamento  caratteristico  dei  romani hanno conseguenze nell'ambito della filosofia romana. Ora  può  essere  opportuno per  dimostrare  l'immediata  efficacia  che  tale  spirito  ha sugli  stessi  studiosi premettere qualche cenno intorno a filosofi particolarmente  significativi:  Polibio e Strabone.  Polibio è inviato  a  Roma  come  ostaggio  dalla  lega  achea  e  vi  rimase  per  oltre  sedici  anni,  nei  quali  ha  modo  di  assimilare  profondamente lo  spirito di quel  popolo. Scrive  in  greco  le  Storie  sulle  imprese  di  Roma; opera  solitamente  considerata come un grande  trattato, oltreché  di  storia,  anche  di  geografia descrittiva,  per l'enorme  ricchezza  di notizie  riferite  sugli  usi e  costumi  dei  vari  popoli  presi  in  esame. Orbene il  modo con  cui  è  concepita  quest'opera  è  una  prova  evidente  che  Polibio  intende  la  ricerca  scientifica in  maniera completamente  diversa  dai  suoi  connazionali. Proprio  nulla,  infatti, lo  interessano le  teorie  generali  e  tanto  meno  le  ipotesi  sulle  zone  lontane  e  mal  note  del  mondo;  esse  non  meritano  la  sua  attenzione,  perché prive  di  immediata  utilità. Secondo  lui,  ogni  indagine  seria  deve  essere  giustificata  da  un  ben  preciso  scopo  pratico.  Il compito,  per  esempio,  che  egli  si  propone è  quello  di  istruire  i  romani  intorno  al  mondo  mediterraneo in cui hanno svolto  e  svolgeranno  le  loro  conquiste:  tutto  ciò,  dunque,  che  fuoriesce  da  questo programma  non  può  che  apparirgli  privo  di  senso  e  dannoso  allo  sviluppo  della  ricerca.  Da  un  punto di  vista  metodologico merita  di  venire  notato che  la storiografia  di  Polibio  presenta  alcune  affinità con  quella  di  Tucidide: la  ricerca  tenace  della  certezza,  l'analogia da  lui  resa  esplicita con  il  metodo della  medicina,  la  rinuncia  ad  ogni  abbellimento  retorico.  Ancora  più  profonde  sono  tuttavia  le  differenze  che  lo  separano  dal  grande  ateniese.  Polibio  credeva  nella  diretta  fruibilità  della  storiografia  come  magistra  vitae,  nella  autonoma  significatività  delle  informazioni  riferite  quanto  più  possibilfedelmente,  e si ricollegava  in  tal  modo  alle  teorie  sia  di  Isocrate  sia  di  Teofrasto. Gl’è  ignoto  lo  sforzo  di  compenetrazione tra  ragione  e fatti  che  Tucidide  cerca  di  attuate  nel  suo metodo  storiografico,  convinto  com'era  che solo  da  esso  potesse  scaturire  quella  essenziale  verità  della  storia  la cui  utilità è certamente  meno immediata  ma  più  fondata  e  più  generalmente  feconda.  In  tal  senso  la  storiografia  di  Polibio  sta  a  quella  tucididea  esattamente  come  la  filosofia  ellenistica  sta  a  quella. Strabone  visse  un  secolo  e  mezzo  dopo. Nato  ad Amasea  nel  Ponto  da  una  famiglia  di  sangue  misto  greco-asiatico, è  anch'egli  fortemente  influenzato dallo  spirito  romano  (come  ce  lo  dimostra  la  decisione  con  cui  sostenne  il  dominio  politico  di  Roma).  Compì  lunghi  viaggi  e  scrive  una  Geografia  (Geografike),  ampio  trattato. Ebbene,  questo  trattato  dimostra,  non  meno  della  storia  di  Polibio,  il  nuovo  tipo  di  interessi  che  anima  il  suo  autore:  brevissima  è  la  parte  dedicata  all'aspetto  matematico  della  geografia;  ricchissime [La  filosofia  postaristotelica] e  diffuse  sono  invece  le  notizie  sugli  usi,  le  istituzioni,  la  storia  dei  paesi  via via  presi  in  esame.  La  differenza  fra  l'indagine  di  Strabone  e quella  compiuta  dai  geografi  alessandrini  di  qualche  secolo  prima  non  potrebbe  essere  maggiore.  L'oggetto  di  studio  ha  conservato  lo  stesso  nome,  ma  il  modo  con  cui  è  condotta  la  ricerca  dimostra  che  il  significato  stesso  della  scienza  è  completamente  mutato.  L'espressione  più  caratteristica  dell'interesse  prevalentemente  pratico  del filosofo romano  nell'ambito  delle  ricerche, è  l'eclettismo.  Non  che  esso  sia  nato  per  opera  del filosofo romano,    che  tutti  i  filosofi  romani sono  direttamente  o  indirettamente  legati  ad  esso. Ma  nell'ambiente  culturale di Roma, l’ecclettismo trova le  ragioni  del  suo  successo. Il  suo più illustre sostenitore e CICERONE. Per  trovare  un  esempio  di  filosofo  romano  che  non  ha  compiuto  alcuna  concessione  all'eclettismo,  bisogna  riferirsi  a LUCREZIO (si veda). La particolare posizione di LUCREZIO (si veda) non è che la conseguenza  logica  della  sua  adesione a un sistema o dottrina. Già sappiamo, infatti, che una dottrina puo essere un unico indirizzo d mantenutosi  costantemente  fedele  alla  propria  concezione  teoretica,  e. g. del giardino, senza  evoluzioni  interne,  e  questa  sua  stessa  staticità  esclude  che  abbiano  potuto  sorgere  seri  tentativi  di  conciliazione  fra  esso e gli indirizzi avversari. A parte Lucrezio, però, è difficile scoprire  filosofi romani che  non  mostrino  qualche  venatura  di eclettismo (forse Catone il minore, il perfetto stoico). Esplicitamente  eclettico è l'amico del avvocato Cicerone, ma anche del genio militare VARRONE (si veda); atteggiamenti eclettici  caratterizzeranno i grandi filosofi romani rappresentanti del Portico e del Cinargo, e del LIZIO e l’Accademia. del  periodo del principato. Un  po' di  eclettismo,  mescolato  con  molto  della “Scesi”,  puo venire  ritrovato quasi dovunque tra gli uomini più rappresentativi e gli spiriti più raffinati della filosofia romana,  come per esempio in ORAZIO (si veda), che riusce ad esten- dere la propria concezione eclettica fino ad includervi anche molte dottrine filosofiche  caratteristiche del GIARDINO ROMANO.  L’eclettismo  ha le  sue  prime  affermazioni  nella cosidetta Accademia e nel Portico. Esso rappresenta un tentativo di soluzione della crisi che la filosofia stav  attraversando a Roma,  e rispecchiò  una  diminuita  fiducia da parte  di  ciascuna  delle sette  - nei  propri  principi. Da questo punto di vista possiamo giustamente  sostenere che l’ecceltismo esprime un rilassamento del rigore e la gravitas dello spirito  filosofico,  una  profonda  stanchezza  e  una  mancanza  di  originalità.  Esprime  anche,  però,  la raffinata  consapevolezza  dei pericoli cui va incontro qualsiasisistema filosofico coerente, e la convinzione  di  poter  trovare, su di un piano meno rigido che quello dei principi  generali, la via per una comprensione e per una soluzione a un problema più  interessanti per il filosofo romano concreto. Da studente, CICERONE ascolta con molto interesse le lezioni di filosofi che, come  Filone  nell'Accademia e Posidonio nel Portico,  sostenneno  la  necessità  di  un'evoluzione  filosofica  in  senso  eclettico, e si  lascia  da  essi  facilmente  convincere  che  qualcosa di buono si trova di  fatto  in varie dottrine, specialmente  nei  loro  precetti  d'ordine  pratico,  che  il più delle volte coincidono,  pur venendo fatti derivare da  principi molto diversi  e in  apparenza quasi  antitetici. La  adesione del avvocato Cicerone all'eclettismo fu dunque immediata e totale, sembrandogli che esso dovesse costituire il frutto più maturo dell'ormai plurisecolare travaglio filosofico. Proprio questo atteggiamento largamente comprensivo gli consente di  studiare  con  sincero  interesse  tutta  la  storia  della filosofia romana,  sforzandosi con impegno e intelligenza di renderla accessibile ai romani. Il suo perfetto possesso della eloquenza latina permitte a Cicerone in  particolare,  di trovare espressioni eleganti e sobrie per le più difficili formulazioni tecniche. La filosofia, dice nelle  Tusculanae  disputationes, è rimasta fino ad oggi negletta,  e  su  di  essa  le lettere nostre, non ha portato nessuna luce.Ma io debbo illuminarla ed esaltarla, così che, se io sono stato di qualche utilità ai miei concittadini romani nelle faccende attive della vita, puo esserlo  anche,  se  mi  riuscirà,  standomene  ozioso. Se CICERONE ha il torto di dimenticare, in queste parole, il contributo dato alla filosofia romana da LUCREZIO (si veda), egli riesce tuttavia  ad esprimerci molto bene l'animo con cui si accinge a scrivere questo o quello saggio o dialogo di filosofia. È un dovere che Cicerone compie per colmare un gravissimo  vuoto nelle letttere romane. Cicerone sente che,  se anche non introduce Nessun concetto originale,  il semplice riuscire a mettere in  circolazione,  tra I suoi amici, un  patrimonio  così  serio  come  lo e la  filosofia  costituie un  merito  di  cui  i concittadini  dovranno  essergli grati. E di fatto gliene saranno grati non solo i concittadini,  ma  tutta la cosidetta civiliazione occidentale (senza gallilei) anche  i  posteri,  poiché  i  suoi  scritti  rappresenteranno  per  molti  secoli  una  delle  principali  fonti per la conoscenza  del  pensiero  filosofico.Tra  le principali saggi e dialogi di  Cicerone ricordiamo, oltre le Tusculanae (Le Tusculane),  il  “Delle  leggi”, “Le deffinizioni del bene e del male, “La  natura  degli  dei,” “Sui  uffizi),  il  Sogno  di  Scipione e la sua fonte, La repubblica, Ortensio, (un'esortazione alla filosofia che influenza profondamente  Agostino,  e che era un'imi- tazione  del  Protrettico di Aristotele),  ecc.  E callunniante asseverare che Cicerone si limita a presentare le filosofie altrui senza apportarvi nulla di suo. Cicerone le ri-pensa dal suo punto di vista,  le espone in modo tale da poterle utilizzare  a  favore  della  concezione  eclettica. Ora utilizza Platone, ora Aristotele,  ora  invece  la Scessi o ilPortico e conclude.Qui si accenna al fatto che Cicerone si accinse a scrivere opere filosofiche solo quando venne escluso dalla vita politica per l'affermarsi del primo triumvirato e, in seguito, per il trionfo di GIULIO (si veda) CESARE. Proprio CICERONE (si veda) pubblica il  poema  di  LUCREZIO (si veda),  e  tale  dimenticanza  è dovuta probabilmente alla posizione  dichiaratamente  anti-giardino da  lui  assunta  in  sede  filosofica. con un generico probabilismo, che ammette proprio come unico criterio di verità il consenso dei filosofi (prova evidente - secondo CICERONE  - che esistono delle idee innate, a tutti comuni). In queste molteplici  discussioni, non  prive talvolta di incoerenze l'una rispetto all'altra, nel difficile ecomplesso lavorio di selezione e coordinamento delle tesi, una preoccupazione appare costantemente presente  in  CICERONE:  quella di rendere ogni romano consapevole  dell'immenso  valore  della  filosofia.  Solo la filosofia,  infatti,  può farci cogliere il  valore esatto di essere umano,  delle  nostre  conoscenze;  solo  la filosofia ci  insegna a  guardare con effettiva serenità  la vita,  mostrandoci con chiarezza ove risiede la  vera  felicità . Non  v'è  dubbio  che,  per il senso pratico dei romani,  questa  capacità della  filosofia dialettica costituie la  sua  più  seria  giustificazione:  unica  giustificazione – il pro e il contra -- veramente sicura e  da  tutti  accettabile ANTONINO (si veda) nasce  a  Roma . Salì  al  trono  imperiale alla  morte  di  Antonino  Pio  di  cui  era  figlio  adottivo;  E convertito  al portico dalla  lettura  d’Epitteto.  Scrisse il “ad seipsum,” una  delle  più  interessan i  opere  filosofiche  della  sua  epoca:  Colloqui  con  se  stesso  (Ta  eis  heaut6n),  ordinariamente  nota  col  titolo  di  Ricordi.  Le note dominanti della sua filosofia nella quale emergono sempre più chiari  i  caratteri del PORTICO ROMANO  - sono un  disprezzo  ascetico  di  tutti i beni  esteriori  e  una  profonda  religiosità.  L'essere  divino  non  è  semplice  fato,  ma  è  soprattutto  provvidenza  universale.  Il  rapporto  dell'uomo  con  dio  è  un  rapporto  di  effettiva  parentela,  che  di  conseguenza  viene  a  legare  fra  loro  tutti  gli  uomini.  Oltre  ai  caratteri  ora  accennati,  è  tuttavia  presente  in  ANTONINO (si veda)  un  carattere  nuovo,  evidentemente  connesso  proprio  al  tipo  di vita attiva, gravida di responsabilità, che gli tocca in sorte come capo dello stato. Non a caso - egli pensa l'uomo occupa la propria carica, ma perché espressamente postovi dalla provvidenza dl divino. L'uomo ha quindi il dovere di agire con tutta la necessaria energia, di non sottrarsi ai compiti -- per quanto difficili e ingrati affidatigli da tale provvidenza. È la forma mentis del cittadino romano che si inserisce in quella del filosofo del portico. Né fra le due sorge alcun contrasto. Anzi, esse riescono a fondersi in una mirabile armonia, permeate entrambe da un senso di vivissima religiosità. Neanche il filosofo romano, malgrado il loro indiscusso spirito pratico, sa sviluppare a fondo la preziosa eredità degl’ingegneri. Essi rivelarono senza dubbio grandi capacità nella costruzione di strade, di acquedotti, di fastosi edifici, ma non riuscea  a comprendere l'interesse della vera e propria ingegneria meccanica, né avvertirono l'importanza pratica di ricerche direttamente o indirettamente rivolte alla scoperta di nuove fonti di energia. Il fatto appare tanto più singular quando si pensi che proprio risale la massima invenzione tecnologica dell'antichità: il mulino idraulico.È un fatto che non sembra spiegabile se non facendo appello alla difficoltà di comprendere i vantaggi che avrebbero potuto provenire dallo sfruttamento sistematico delle varie forme di energia naturale, mentre esse apparivano. Assai più costose dell'energia umana (schiavi) e animale. Per quanto riguarda lo scarso interesse dimostrato dal filosofo romano verso gl’ artificiosi congegni esposti negli Pneumatikd di Erone, va inoltre osservato che la via da percorrere, onde giungere ad una lorutilizzazione su vasta scala, non puo non apparire troppo lunga e difficile al filosofo romano - come appunto gl’ingegneri romani -- direttamente impegnati nelle realizzazioni pratiche immediate. L'abbandono di tale atteggiamento richiederà una profonda trasformazione sociale e culturale, che ha inizio solo parecchi secoli più tardi. Fra gli filosofi romani che scriveno saggi di  ingegneria di qualche pregio, il più importante è Vitruvio, ingegnere militare di GIULIO (si veda) CESARE e OTTAVIANO (si veda). Il suo saggio principale, “De architectura", reca  evidenti gl’ultimi sviluppi della matematica e dell'astronomia e le tracce dell'influenza degl’ingegneri. Vitruvio  ricorda  infatti  esplicitamente  Ctesibio, riferendoci parecchie sue invenzioni  (la pompa, una balestra ad aria  compressa, l'argano  idraulico, ecc.). Il  voluminoso trattato di VITRUVIO s’articola in libri che esaminano una gamma assai vasta di argomenti: dalla preparazione filosofica richiesta  all'architetto ai problemi specifici concernenti la costruzione di edifici pubblici e privati, all'idraulica, alle macchine da guerra. È inoltre ricco di richiami storici, di indicazioni giuridiche, di massime morali, e costituisce una preziosa fonte per studiare la cultura  tecnologica, e in generale i costumi  dell'epoca. In essa sono tuttavia riscontrabili alcuni non lievi difetti. Pur sforzandosi di risultare tecnicamente chiaro e cercando ove necessario d’introdurre nuove espressioni adatti al linguaggio tecnico,VITRUVIO non può nascondere talune pretese stilistiche, che spesso rendono oscura la dizione, ove accanto a volgarismi e plebeismi si trovano espressioni ampollose e ricercate. Inoltre Vitruvio non è padrone sicuro della materia di cui tratta, onde non solo non riesce a portare contributi nuovi, ma spesso suscita anzi l'impressie di non comprendere bene, egli stesso, le ricerche che si sforza di esporre. Gli è che la vera tecnica non si identifica con la pura e semplice pratica; essa è scienza applicata, e, come tale, richiede dai suoi cultori una profonda preparazione scientifica. Ma questa non poteva essere presente in chi aveva manifestamente  studiato  troppo  poca  matematica.  Più  che  di  ingegneria  la  cultura romana si era occupata di agricoltura, su cui ci sono giunti i trattati di CATONE (si veda), di VARRONE (si veda) e di COLUMELLA (si veda). È proprio una disciplina tecnico-scientifica parallela  all'agricoltura ad avere in Roma gli sviluppi  più  originali:  l  'agrimensura,  detta  gromatica  dalla  groma,  lo  strumento  che  gli  agrimensori  romani usavano nella misurazione dei terreni. Il codice Arceriano ci ha conservato una  parte delle opere degl’agrimensori da cui si possono ricavare i vari interessi dei agrornatici ed i loro importanti compiti. Ad essi e ffidato il compito di costruire gl’accampamenti, fondare le città e le colonie, misurare l’altezze dei monti e le larghezze dei fiumi nelle campagne militari, far applicare le leggi agrarie e stabilire le confische ed i tributi. Apposite scuole erano istituite nel principato romano per istruire questi funzionari  imperiali nella geometria, intesa nel suo aspetto pratico, nel diritto, nell'arte militare e nei rituali  religiosi  che  accompagnavano le  loro  opere. Fra i maggiori  autori agromatici possiamo ricordare Balbo, famoso per aver condotto a termine l'opera di misurazione di tutta l’Italia che era stata iniziata con Cesare, Igino, e infine Sesto Giulio Frontino, una volta console sotto Vespasiano e Traiano, autore anche di un'opera di arte militare  sugli Stratagemmi e di un'opera  sugl’acquedotti  di  Roma, “De  aquis  urbis  Romae”. Grice: “Geymonat, for some reason, is obsessed with science as we at Oxford are not. Indeed, he wrote a LOOONG history of “THOUGHT”, which is a word we don’t use at Oxford. The French and Latin types in general use it – pensée – the idea is something like science, mathematics, philosophy, you name it. So, his remarks about how the ignorant Romans started philosophy is interesting. According to Geymonat it was a generational thing. Catone did not want to do anything with it – for reasons of ‘state’, Geymonat says, i. e. philosophy would be subversive, as it indeed is. The odd thing is that it attracted the knock knock it’s the youngest generation knock knock knocking at the door. The Senate forbade philosophers in 161 and five years later Carneade and two more arrived and that changed things. Geymonat makes two comments. For one, the best youth – I figli delle migliore famiglie romane – would have something like the Americans call a Rhosdes – they would go to Athens as a ‘finishing school’. But what was interesting is that Scipione Emiliano started a club in his palazzo – more like a villa – where Polibio Terenzio, Cirilio, Tiburone, Elio, Celio attended --. The third terribly interesting comment Geymonat makes is twofold. For one, those Greek slaves who called themselves philosophers (Strabone and Polibio, are the only two he quotes) did write, respectively, history and geography, but ‘tuned to the Roman ear’. Geymonat speaks of ‘il temperament romano’ which he characterizes in a fourtfold way: concretto, interested in the conclusions – conclusive, rather than the premises – prattico --. So the history by Polibio is only one that may interest a Roman, a far cry from Thucydides philosophical prose! And the geography of Strabone has no information on calculus and measures – only bits about institutions of people the Romans might conquer – nothing about foreign distant lands! The second most notable remark is then that Scipione Emiliano paid lip service to the Hellens – Catone’s ‘resistenza’ won in the end – as is seen by the mere fact that Latin was retained as the lingua romana – in romano – unlike the Empire of the East where Greek was adopted – So with the fall of the Eastern Empire, the West became bilingual. The rough tongue of the Latins survived this fashion for things Hellenic! Geymonat spends enough time on what Cuoco calls ‘filosofia italica antica’ – it starts with Crotone and Metoponto – where Pythagoras settled. With his theorem he underwent a crisis, and philospophy traveled to VELIA with Parmenide and his lover, Zenone, and Melisso – reductio ad absurdum, and tertium exclusum. Then there was Girgenti, and that crazy one, Empedocle, who however wrote some witty things about the four elements (in verse! Like Parmenide). Then there’s Filolao, educated at Crotone under Pyhathogras but himself from Taranto, and himself teacher of Archita of Taranto. Then there is the sophistical movement started with Gorgia of Lentini – and Siracusa – So, ‘philosophy’, as we know it, had an Italic origin, and is molded in the language of the conquering Romans! Ludovico Geymonat. Geymonat. Keywords: ragione -- temperamento romano – concretto – pratico – Catone – il trionfo di Catone con la lingua latina – la gioventu romana entusiasta con Carneade – I Scipioni ellenisante – la gioventu delle megliore familie – grand tour a Grecia! -- il teorema di Picard, il teorema di Caratheodory per le funzione armoniche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Geymonat” – The Swimming-Pool Library.

 

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