Luigi Speranza -- Grice e Cicerone: la
semiotica -- l’implicatura conversazionale di Marc’Antonio – scuola di Ponte
Olmo -- scuola d’Arpino – scuola di Frosinone – scuola di Roma -- filosofia
romana – filosofia lazia -- filosofia italiana -- Luigi Speranza – (Italia). Filosofo italiano. Ponte Olmo, Abbazia
di San Domenico, Arpino, Frosinone, Lazio. Ciceronian implicaturum: Grice: “One has to be
careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone ain’t Italian, but
Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo romano’ – matter!”
Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone IS discussed by
this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to provide us with some
nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I would mention the
two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for the “Roman
chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to Lucrezio and
Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty recent: due to
the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome in 183 a. u.
c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely class, notably
the Scipioni!” -- della cultura greca,
attraverso la sua opera i Romani poterono anche acquisire una migliore
conoscenza della filosofia greca. Tra
i suoi maggiori contributi alla cultura latina, vi fu la creazione di un
lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il
corrispondente vocabolo in latino per ogni termine specifico del linguaggio
filosofico greco. Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo
latino si collocano, invece, le Lettere/Epistulae (in particolar modo, quelle
all'amico Tito Pomponio Attico) che offrono numerose riflessioni su ogni
avvenimento, permettendo così di comprendere quali fossero le reali linee
politiche dell'aristocrazia romana. C.
occupò, per molti anni, anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della
politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di
Lucio Sergio Catilina (e aver così ottenuto l'appellativo di pater patriae,
padre della patria), fu un membro eminente della fazione degli Optimates.
Infatti, nelle guerre civili, difese strenuamente, fino alla morte, una
repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel
principatus augusteo. C. nacque a Ponte Olmo, in prossimità del fiume Fibreno
accanto al comune di Arpinum (area attualmente occupata dall'Abbazia di San
Domenico. Gli Arpinati ricevettero la civitas sine suffragio nel IV secolo a.C.
e i pieni diritti di cittadinanza nel 188 a.C.; in seguito, la città ottenne
anche lo status di municipium.[5] La lingua latina era in uso già da lungo
tempo[6]; tuttavia, ad Arpino, era diffuso anche l'insegnamento della lingua
greca, che l'élite senatoriale romana preferiva spesso a quella latina,
riconoscendone la maggiore raffinatezza e precisione.[7] L'assimilazione, da
parte dei Romani, delle comunità italiche vicine a Roma (avvenuta tra il II e
il I secolo a.C.), permise a C. di diventare scrittore, statista e
oratore. C. apparteneva alla classe
equestre (la piccola nobiltà locale) e, anche se lontanamente imparentato con
Gaio Mario (il corifèo dei Populares durante la guerra civile contro gli
optimates di Lucio Cornelio Silla[8]), non aveva alcun legame con l'oligarchia
senatoriale romana; era dunque un homo novus. La famiglia era composta dal
padre Marco Tullio C. il Vecchio, uomo colto ma di origine sconosciuta; dalla
madre Elvia, di nobile casato e integri costumi[9] e dal fratello Quinto. Il cognomen Cicero è il soprannome di un suo
antenato abbastanza noto per un'escrescenza carnosa sul naso (presumibilmente,
una verruca) che ricorda un cece -- cicer, ciceris è il termine latino per
cece. Quando Marco presenta, per la prima volta, la propria candidatura a un
ufficio pubblico, alcuni amici gli sconsigliarono l'utilizzo del suo cognomen
ma egli rispose che «avrebbe fatto sì che esso diventasse più noto di quello
degli Scauri e dei Catuli. céce e
cécio nap. cecere, ven. cesere, c. ciciru, sard. cixiri; prov. cezer; fr.
ceire; ted. kicher (pruss. kockers ¡sello): dallat. cicer (= ciR-crR) -
acc. ciCEREM - che il Curtius deriva dalla ra KAR esser duro, onde il
sser. KAR-EAR-duro e come sost. osso ed anche pisell KHAR-AS duro, ruvido,
KAR-AKA noce cocco o il gr. KAR-KAROS duro e come s stant. pisello (cfr.
Ardito). - Ad altri il vece sembra affine al lat. cicus involuca del seme dei
frutti (cfr. Chicco), ovyero gr. KEKis escrescenza. - Specie di legun in torma
di granello alquanto appuntat che secco indurisce assai e si mangia cott
Deriv. Cecerèllo; Ceciarollo; Ceciato. Cfr. G cèrbita; Cicérchia;
¿cerone.Studi Fanciullo che legge C. di
Vincenzo Foppa, Collezione Wallace di Londra. C. si rivelò subito un fanciullo
dotato di una straordinaria intelligenza (tanto da distinguersi, a scuola, dai
propri coetanei) che gli fece accumulare fama e onore.[11] Il padre, auspicando una brillante carriera
forense e politica per i figli, li condusse a Roma dove Marco venne introdotto
nel circolo dei migliori oratori (e protettori della sua famiglia): Lucio
Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore; Crasso ebbe particolare influenza su C.
che lo considerò sempre un modello di oratore e di statista. A Roma, poté anche
formarsi nella giurisprudenza, grazie alla scuola di Quinto Mucio Scevola[12].
Tra i suoi compagni, ci furono anche Gaio Mario il Giovane, Servio Sulpicio
Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato, nonché, uno dei pochi che C.
considerò superiori a sé stesso) e Tito Pomponio (che prese poi il cognomen di
Attico, dopo una lunga permanenza ad Atene, e che divenne intimo amico di C.;
infatti, gli scrisse in una lettera: «Sei per me come un secondo fratello, un
alter ego al quale posso dire ogni cosa»[13]).
In questo periodo, C. si avvicinò anche alla poesia[14]: in particolare,
si cimentò nella traduzione delle opere di Omero e dei Fenomeni di Arato (opere
che, in seguito, influenzarono le Georgiche di Virgilio). Particolarmente attratto dalla filosofia,[15]
alla quale avrebbe dato grandi contributi (tra i quali, la creazione del
vocabolario filosofico in lingua latina), nel 91 a.C. incontrò, assieme
all'amico Tito Pomponio, il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma; entrambi
ne rimasero affascinati ma solo Pomponio rimase, per tutta la vita, seguace
della dottrina epicurea. Tra il 79 e il 77 a.C., conobbe il maestro di retorica
Apollonio Molone[16] (che istruì, pochi anni dopo, anche Gaio Giulio Cesare) e
l'accademico Filone di Larissa che esercitò su di lui, un'influenza profonda:
infatti, era a capo dell'Accademia di Atene che Platone aveva fondato circa
trecento anni prima; di conseguenza, grazie a lui, C. assimilò la filosofia
platonica, tanto che arrivò spesso a definire Platone come il proprio dio (pur
rigettando la sua teoria delle idee).
Poco tempo dopo, C. incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo; tale
movimento era già stato precedentemente introdotto a Roma, dove aveva ricevuto
larghi consensi grazie all'enfasi posta sul controllo delle emozioni e sulla
forza di volontà (in linea con gli ideali romani). C. non adottò completamente
l'austera filosofia stoica ma preferì uno stoicismo modificato; in seguito,
Diodoto divenne un protetto di C., dal quale fu ospitato fino alla
morte[15]. Cursus honorum Prime
esperienze Il sogno di infanzia di C. era quello di "essere sempre il migliore
ed eccellere sugli altri", in linea con gli ideali omerici: infatti,
desiderava dignitas e auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e dalla
verga dei littori; c'era un solo modo per ottenerli: percorrere i gradini del
cursus honorum. Nel 90 a.C., tuttavia, era ancora troppo giovane per approdare
a qualsiasi carica del cursus honorum ma non per acquisire l'esperienza
preliminare in guerra che una carriera politica richiedeva. Tra il 90 a.C. e
l'88 a.C., C. servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante
le campagne della guerra sociale sebbene non provasse alcuna attrazione per la
vita militare dato che si sentiva un intellettuale (infatti, molti anni dopo,
scrisse al suo amico Attico che stava raccogliendo statue marmoree per le ville
di C., "Perché mi spedisci una statua di Marte? Sai che io sono un
pacifista!"[17]). L'ingresso di C.
nella carriera forense avvenne ufficialmente nell'81 a.C. con la sua prima
orazione pubblica, la Pro Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario
il più celebre oratore del tempo, Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero
esordio nell'oratoria a carattere politico (almeno secondo le testimonianze
scritte pervenute), si ebbe con la Pro Roscio Amerino che conserva molto di
scolastico nello stile esuberante[18][19]: nell'orazione, difese, con successo,
un figlio ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio
nell'assumersene la difesa (il parricidio era, infatti, considerato tra i
crimini peggiori a Roma) mentre i veri colpevoli erano sostenuti dal liberto di
Silla, Lucio Cornelio Crisogono. Se Silla avesse voluto, sarebbe stato fin
troppo facile eliminare C., proprio alla sua prima apparizione nei
tribunali. Lucio Cornelio Silla C.
divise le sue argomentazioni in tre parti: nella prima, difese Roscio e tentò
di provare che non era stato lui a commettere l'assassinio; nella seconda,
attaccò quelli che avevano realmente commesso il crimine (tra cui, anche un
parente dello stesso Roscio) e dimostrò come l'assassinio favoriva più loro che
Roscio; nella terza, attaccò direttamente Crisogono, affermando che il padre di
Roscio fosse stato assassinato per ottenere i suoi terreni a un prezzo
conveniente, una volta messi all'asta. In forza di queste argomentazioni,
Roscio fu assolto. Per sfuggire a una
probabile vendetta di Silla[20], tra il 79 e il 77 a.C., C. si recò,
accompagnato dal fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche
dall'amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia e in Asia Minore[21]:
particolarmente significativa fu la sua permanenza ad Atene dove incontrò
nuovamente l'amico Attico che, fuggito da un'Italia sconvolta dalle guerre, si
era rifugiato in Grecia; Attico, in seguito, divenne cittadino onorario di
Atene e poté presentare a C., alcune tra le più importanti personalità ateniesi
del tempo. Ad Atene, inoltre, C. visitò quelli che erano i luoghi sacri della
filosofia, a cominciare dall'Accademia di Platone (di cui era allora a capo
Antioco di Ascalona). Di quest'ultimo, C. ammirò la facilità di parola, senza
tuttavia condividerne le idee filosofiche (ben differenti da quelle di Filone
di Larissa, delle quali era convinto ammiratore[22][23]). Dopo un breve
soggiorno a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio, tornò in Grecia (dove fu
iniziato ai misteri eleusini, che lo impressionarono molto) e dove poté
visitare l'Oracolo di Delfi; in quell'occasione, domandò alla Pizia in quale
modo avrebbe potuto raggiungere la gloria ed ella gli rispose che avrebbe
dovuto seguire il suo istinto invece dei suggerimenti che riceveva[24]. Ingresso in politica Busto di C. Tornato a Roma dopo la morte di
Silla, C. iniziò la sua vera e propria carriera politica, in un ambiente
sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C., dopo aver pronunciato la celebre
orazione Pro Roscio comoedo, si presentò come candidato alla questura, la prima
magistratura del cursus honorum.[25] I questori, eletti per un massimo di venti
membri, si occupavano della gestione finanziaria o assistevano propretori e
proconsoli nel governo delle province. Eletto alla carica per la città di
Lilibeo (l'odierna Marsala), nella Sicilia occidentale, svolse il proprio
lavoro con scrupolo e onestà (tanto da guadagnarsi la fiducia degli abitanti
del luogo). Durante la permanenza in Sicilia, visitò la tomba di Archimede a
Siracusa: grazie al suo interesse per l'uomo, sono state rinvenute alcune
importanti informazioni sullo scienziato (in particolare, per quanto riguardi
il suo planetario). Al termine del
mandato, i siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre,
colpevole di aver tiranneggiato l'isola nel triennio 73-71 a.C.[26][27]. C.
raccolse le prove della colpevolezza, pronunciò due orazioni preliminari
(Divinatio in Quintum Caecilium e Actio prima in Verrem) e l'ex-governatore,
attaccato da prove schiaccianti, scelse l'esilio volontario[28]. Le cinque
orazioni preparate per le successive fasi del processo (che costituiscono
l'Actio secunda), furono pubblicate in seguito e costituiscono un'importante
prova del malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle
riforme di Silla. Attaccando Verre, C. attaccò la prepotenza della nobiltà
corrotta ma non l'istituzione senatoria stessa (anzi, fece appello proprio alla
dignità di tale ordine affinché ne estromettesse i membri indegni). Acquisì,
inoltre, un enorme prestigio perché a difendere Verre era Quinto Ortensio
Ortalo, considerato il più grande avvocato dell'epoca[29]:
"sconfitto", Ortensio dovette accettare che il suo posto venisse
preso da C. (il quale, si guadagnò il titolo di "Principe del Foro");
nonostante l'episodio, tuttavia, i due oratori strinsero, in seguito, un buon
legame di amicizia (infatti, proprio a Ortalo che elogiò anche nel Brutus, C.
dedicò un'intera opera non pervenuta, l'Hortensius). A Roma, l'oratoria e l'attività forense erano
uno dei principali mezzi di propaganda per i politici emergenti, poiché non
esistevano documenti scritti di argomento politico (con l'eccezione degli Acta
Diurna che, però, godevano di scarsa diffusione). Contro C., tuttavia, rimaneva
la diffidenza dei nobili verso gli homines novi, accresciuta dal fatto che
l'ultimo homo novus ad acquisire rilevante peso politico fosse stato un
concittadino dello stesso C., Gaio Mario. Tuttavia, anche lo stesso Silla,
fiero oppositore di Mario, aveva preso alcuni provvedimenti che permettevano e
facilitavano l'ingresso degli equites nella vita politica, dando così a C. la
possibilità di raggiungere le vette del cursus honorum. Il successo ottenuto da quelle orazioni (che
vennero poi chiamate Verrine), anticipatrici dei principi di un governo umano e
ispirato a onestà e filantropia, portò C. in primo piano sulla scena politica:
nel 69 a.C., venne eletto alla carica di edile curule[30] e, nel 66 a.C.,
diventò anche pretore con una elezione all'unanimitàL. Nello stesso anno,
pronunciò il suo primo discorso politico, Pro lege Manilia de imperio Cn.
Pompei, in favore del conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la guerra
mitridatica; in quell'occasione, Pompeo era appoggiato dai cavalieri,
interessati alla rapida risoluzione della guerra in Asia, mentre gli era
contraria la maggioranza del Senato[32]. Il motivo dell'impegno di C. in una
causa ostile all'alta aristocrazia (che, d'altronde, era restìa ad accoglierlo
tra le proprie file) stava probabilmente nell'importanza che essa aveva per i
pubblicani (titolari degli appalti pubblici e della riscossione delle imposte)
e gli affaristi, minacciati nei loro interessi da Mitridate VI. La provincia
dell'Asia Minore, minacciata dal sovrano del Ponto, era, infatti,
particolarmente attiva dal punto di vista dell'economia e del commercio. Consolato
C. denuncia Catilina, affresco di Cesare Maccari a Palazzo Madama in
Roma che raffigura C. mentre pronuncia una delle orazioni contro Catilina Nel
65 a.C. C. presentò la candidatura al consolato. Nel 64 venne eletto console
per l'anno successivo (ossia il 63 a.C.). La sua posizione venne illustrata dal
fratello Quinto in un'opera (di dubbia attribuzione: la scrisse lo stesso C.?),
Commentariolum petitionis, scritta per consigliarlo nella campagna elettorale.
Per un gioco delle classi, C. risultò eletto con il voto di tutte le
centurie.[33] Assieme a lui risultò eletto il patrizio Gaio Antonio Ibrida, zio
di Marco Antonio, futuro triumviro e acerrimo nemico dell'arpinate, accusato
dallo stesso C. (In toga candida, orazione - pervenutaci in condizioni
frammentarie - tenuta in Senato come candidato poco prima delle elezioni del
64) di essere collusore di Lucio Sergio Catilina.[34] La fiducia riposta in C.
dalla classe equestre venne ripagata già all'inizio del consolato con la
pronuncia di quattro orazioni (De lege agraria) contro la proposta di
redistribuzione delle terre del tribuno Publio Servilio Rullo.[35] Durante il proprio consolato C. dovette
contrastare il tentativo di congiura messo in atto da Catilina. Questi era un
nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato
il cursus honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console
tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con possibili brogli
elettorali e infine ordì una congiura per rovesciare la repubblica.[36]
Catilina contava soprattutto sull'appoggio della plebe, a cui prometteva
radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un
vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito, che lo avrebbe probabilmente
portato ad assumere un potere monarchico o quasi, inoltre sembrerebbe fosse
stato supportato politicamente da Gaio Giulio Cesare che venne però tenuto
fuori dallo stesso C. e non ebbe conseguenze.[37] Venuto a conoscenza del
pericolo che la Repubblica correva grazie alla soffiata di Fulvia, amante del
congiurato Quinto Curio,[38] C. fece promulgare dal Senato un senatus consultum
ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si
attribuivano, come era previsto in situazioni di particolare gravità, poteri
speciali ai consoli.[39][40] Sfuggito poi a un attentato da parte dei
congiurati,[41] C. convocò il Senato nel tempio di Giove Statore, dove
pronunciò una violenta accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima
Catilinaria[42][43], che si apre con il celebre incipit (LA) «Quousque tandem abutere, Catilina,
patientia nostra?» (IT) «Fino a quando,
Catilina, abuserai della nostra pazienza?»
(Marco Tullio C., Catilinarie I,1)
Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per
ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida
della congiura ad alcuni uomini di fiducia, Lentulo Sura e Cetego.[44][45] Grazie alla collaborazione di una delegazione
di ambasciatori inviati a Roma dai Galli Allobrogi, C. poté però trascinare
anche Lentulo e Cetego davanti al Senato: gli ambasciatori, incontratisi con i
congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi
benefici se avessero appoggiato Catilina, furono arrestati fittiziamente e i
documenti caddero nelle mani di C.. Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri
davanti al Senato, ma nel decidere quale pena dovesse essere applicata, si
scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la pena capitale,
Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con il confino e la confisca
dei beni. Il discorso di Cesare provocò scalpore, e avrebbe probabilmente convinto
i senatori se Marco Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un
altrettanto acceso discorso in favore della pena di morte. I congiurati furono
quindi giustiziati, e C. annunziò la loro morte al popolo con la formula: (LA) «Vixerunt» (IT) «Vissero» (Marco Tullio C.) poiché era considerato di cattivo auspicio
pronunciare la parola "morte" (ed espressioni di significato affine
come "sono morti") nel foro. Catilina fu poi sconfitto, nel gennaio
62, in battaglia assieme al suo esercito.
C., che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la
salvezza dello Stato (si ricordi il famoso verso di C. sul suo consolato:
Cedant arma togae, trad: "che le armi lascino il posto alla toga [del
magistrato]"), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne
un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l'appellativo di pater
patriae. Nonostante ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei
congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum (ovvero l'appello al
popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena
detentiva) gli sarebbe costata cara soltanto pochi anni dopo. Durante la guerra civile Dal primo
triumvirato alle Idi di Marzo Gaio
Giulio Cesare (Musei Vaticani) A seguito del riemergere dei contrasti tra
senatori e populares, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni
dell'oligarchia senatoria, C. fu messo da parte. L'ultima possibilità di
rientrare nel gioco politico gli fu offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti
uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla conclusione
dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a C. di appoggiare la
legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente. C.,
tuttavia, rifiutò non solo per non apparire un traditore dell'aristocrazia, ma
anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di cui gli ottimati si
proclamavano difensori.[46] Dopo questo
rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, C. si tenne fuori dalla
politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio
del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico di C. per un
precedente processo per sacrilegio,[47] fece approvare una legge con valore
retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un
cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Si trattava, in
realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare (che per l'appunto prima di
partire per la Gallia attese che C. fosse fuggito da Roma) che, attraverso il
suo alleato Clodio, eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari
più tenaci, che avrebbero potuto osteggiarlo durante la sua ascesa al potere. C.
fu dunque processato per la sua condotta durante il processo ai Catilinari
Lentulo e Cetego[48] e costretto all'esilio. Lasciò Roma la notte tra il 19 e
il 20 marzo di quell'anno e si recò a Vibona, sperando di portarsi in Sicilia,
ma il pretore Virgilio - benché suo vecchio amico - non glielo consentì: in
effetti l'isola distava da Roma meno delle 500 miglia prescritte dal bando e
pertanto C. optò per la città di Brindisi, dove soggiornò tredici giorni negli
orti di Lenio Flacco prima di salpare per Durazzo. In più occasioni nei suoi
scritti l'oratore loda l'ospitalità e l'amicizia dei brindisini e della
famiglia di Lenio Flacco. Nei mesi dell'esilio C. non si diede pace, implorando
le sue conoscenze perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece
approvare anche una serie di altre leggi che prevedevano che C. non si potesse
neppure avvicinare al confine dell'Italia, e che le sue proprietà venissero
confiscate[49] In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta,
e una sorte simile toccò poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum[50][51].
Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e Pompeo posero un
freno alle iniziative di Clodio Pulcro: C. poté dunque rientrare in Italia e,
proveniente da Durazzo, giunse nuovamente a Brindisi - come narra lui stesso -
il 5 agosto: nel porto oltre ai suoi familiari e la figlia Tullia che
festeggiava il compleanno, c'era anche Lenio Flacco; le accoglienze tributate
al retore furono raddoppiate dal fatto che nella città quel giorno ricorreva
anche l'anniversario della deduzione a colonia.
Tornato a Roma riprese la sua lotta contro il tribuno della plebe[52][53].
Simpatizzante degli optimates per via anche della sua personale amicizia con
Milone, uno dei capi della fazione, tenne tre orazioni in difesa di tre
optimates. Nel 56 a.C. C. pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui allargava il
suo precedente ideale politico: l'alleanza tra cavalieri e senatori a suo
avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione politica.
Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla
sovversione tentata dai populares: tale proposta prende il nome di consensus
omnium bonorum. Sempre lo stesso anno tenne l’orazione Pro Caelio con cui C. si
trova a difendere Marco Celio Rufo dall’accusa di tentato avvelenamento della
sua amante, Clodia (sorella del tribuno della plebe Clodio Pulcro e
identificata dagli studiosi come la Lesbia di Catullo). Nonostante la donna
venisse dipinta come colei che per prima aveva tentato di uccidere l’amante in
quanto avversario politico del fratello le accuse erano inconsistenti e C.
spiegò il gesto compiuto da Marco Celio Rufo come un errore di gioventù. Nel 55
a.C. scrive In Pisonem, orazione contro il governatore di Macedonia Lucio
Calpurnio Pisone, suocero di Cesare. Patrizi e plebe si scontravano con l'uso
di bande armate, e in uno di questi scontri, più precisamente sulla via Appia,
Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise il tribuno
Clodio.[54][55] Al processo per omicidio, tenutosi nel 52 a.C., C. difese
Milone improntando la sua orazione sulla differenza tra tirannicidio e
omicidio; in questo caso sarebbe stato tirannicidio e per tanto giustificabile.
Ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con la giusta forza per il
clamore della folla e per il timore che gli incutevano i partigiani di Clodio
nel foro, Milone venne condannato all'esilio a Marsiglia (una versione della
Pro Milone venne pubblicata solo successivamente, dando modo di verificare come
fosse un'orazione tra le più abili e sottili sul piano giuridico). Il mondo romano allo scoppio della guerra
civile (1 gennaio 49 a.C.). Sono inoltre evidenziate le legioni distribuite per
provincia Dopo essere stato nominato augure nel 53 a.C. al posto di Crasso,[56]
nel 51 a.C. come proconsole si recò in Cilicia,[56] proprio mentre i rapporti
tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da Roma, i
pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia della guerra civile. Tornato
in patria, non cessò di invitare le parti alla moderazione ed alla
conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a causa del fanatismo che
spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare.
Quando Cesare varcò il Rubicone, C. cercò di accattivarsene il favore, ma poi
decise ugualmente di lasciare l'Italia per unirsi a Pompeo.[57][58] Sbarcò,
dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i Pompeiani, si accorse di quanto le
speranze che egli riponeva in loro quali salvatori della repubblica fossero
infondate: ognuno di loro era lì non in difesa degli ideali, ma soltanto per
tentare di trarre profitto dalla guerra. Dopo la grande vittoria di Cesare
nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., C. decise di tornare a Roma, dove
ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47 a.C.[59] C. rivelava nelle sue opere ed in lettere ad
amici come Cornelio Nepote, riguardo alla personalità di Cesare: «Non vedo a chi Cesare debba cedere il passo.
Ha un modo di esporre elegante, brillante ed anche, in un certo modo si
pronuncia in modo elegante e splendido... Chi gli vorresti anteporre, anche tra
gli oratori di professione? Chi è più acuto o ricco nei concetti? Chi più
ornato o elegante nell'esposizione?»
(Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 55.)
La speranza di C. di collaborare al governo di Cesare venne troncata
dalla piega assolutistica e monarchica presa dal potere[60]. L'oratore si
ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere filosofico ed oratorio. A
questo si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia
Tullia, seguita dalla separazione dalla seconda moglie Publilia, una
giovinetta. Quando Cesare fu ucciso, il
15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura ordita da Marco Giunio Bruto e
Gaio Cassio Longino, per Roma, e per lo stesso C., si avviò una nuova fase
politica, che avrebbe avuto termine solo con l'avvento dell'impero. L'opposizione ad Antonio e la morte C. non
fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei Liberatores, di
Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si andava
tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando una
grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso
della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del
sangue di Cesare ancora in mano, additò C. definendolo l'uomo che avrebbe
ristabilito l'ordine nella repubblica.[61]
Scrisse a Lucio Minucio Basilo, uno dei cesaricidi, una lettera per
congratularsi dell'assassinio di Cesare:
(LA) «Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid
agas quidque agatur, certior fieri volo.»
(IT) «Con te mi congratulo, per me sono contento; ti sono vicino, ho
cura delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e di farmi sapere che cosa fai e
che cosa succede.» (C., Ad Familiares,
vi, 15) La data della missiva non è
conosciuta, ma viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla
congiura.[62] L'espressione «quid agas quidque agatur» la indicherebbe[62] come
scritta prima che C. si recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano
trovato rifugio dopo l'assassinio, asserragliati nel tempio capitolino e
protetti dai gladiatori di Bruto.[63] C.,
infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori rappresentanti della
fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum
di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di
fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i
Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma C.
fu promotore di un accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti i
provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua dittatura, garantiva
l'impunità a Bruto e Cassio.[64] Poco dopo, i due, assieme agli altri
congiurati, fuggirono verso la penisola ellenica.[65] Statua di Augusto comunemente detta Augusto
di Prima Porta, custodita ai Musei Vaticani. Tra C. ed Antonio, comunque, i
rapporti non erano dei migliori, e i due, d'altra parte, si trovavano
all'esatto opposto in ambito politico: C. era il difensore degli interessi
dell'oligarchia senatoriale, convinto sostenitore della repubblica
monopolizzata dai ricchi, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di
Cesare ed assumere gradualmente un potere monocratico.[66] Intanto, un'altra
figura si andava affermando dal nulla nel panorama politico di Roma, la figura
del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di Cesare e
suo erede designato nel testamento.[67][68] Ottaviano decise di adottare una
politica filosenatoriale, senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di
Cesare. C., allora, si schierò ancora
più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di
Cesare, e come uomo mandato dagli dèi per ristabilire l'ordine.[69] C. sperava,
infatti, nell'affermazione di un giovane princeps in re publica che, assistito
da un membro del senato di grande esperienza, come lo stesso C., riportasse la
pace e riformasse la repubblica.[70] Iniziò, inoltre, tra il 44 a.C. e il 43
a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, note con il nome di
Filippiche in quanto richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene
contro Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio, nella volontà di condurre una
nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio, decise di marciare
contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo
assediò nella città di Modena. Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti
consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso Ottaviano, che
lo sconfissero.[71] Tornato a Roma,
Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono
della politica cesariana, che avrebbe tenuto in vita l'agonizzante repubblica,
e l'allontanamento dal Senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente.[72]
Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme
ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato, un accordo politico
secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto compiere una profonda opera di
riforma della repubblica.[73] C. fu costretto ad accettare che sarebbe ora
stato impossibile attuare il suo piano di un princeps, ma non per questo ritirò
le severe accuse rivolte ad Antonio nelle Filippiche. Quest'ultimo, allora,
nonostante la fievole opposizione di Ottaviano, decise di inserire C. nelle
liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.[74] C. lasciò allora Roma e si ritirò nella sua
villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A
Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da
un liberto di nome Filologo,[75] poterono trovarlo fin troppo facilmente. C.,
accortosi dell'arrivo dei suoi assassini, non tentò di difendersi, ma si
rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Tale località prese il nome di
Vindicio (dal latino "vindicta", vendetta), attuale frazione di
Formia.[76] Una volta ucciso, per ordine di Antonio, gli furono tagliate anche
le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare
durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche,[77] che furono
esposte in senato insieme alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra
la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli
oppositori del triumvirato.[78][79] (LA)
«Prominenti ex lectica praebentique immotam cervicem caput praecisum est. Nec
satis stolidae crudelitati militum fuit: manus quoque scripsisse aliquid in
Antonium exprobrantes praeciderunt.»
(IT) «Sporgendosi dalla lettiga ed offrendo il collo senza tremare, gli
fu recisa la testa. E ciò non bastò alla sciocca crudeltà dei soldati: essi gli
tagliarono anche le mani, rimproverandole di aver scritto qualcosa contro
Antonio.» (Livio - Ab Urbe condita
libri, CXX - cit. in Seneca il Vecchio, Suasoriae, 6,17) (GRC) «Αὐτὸς δ' ὥσπερ εἰώθει τῇ ἀριστερᾷ
χειρὶ τῶν γενείων ἁπτόμενος, ἀτενὲς ἐνεώρα τοῖς σφαγεῦσιν, αὐχμοῦ καὶ κόμης
ἀνάπλεως καὶ συντετηκὼς ὑπὸ φροντίδων τὸ πρόσωπον, ὥστε τοὺς πλείστους
ἐγκαλύψασθαι τοῦ Ἑρεννίου σφάζοντος αὐτόν. Ἐσφάγη δὲ τὸν τράχηλον ἐκ τοῦ
φορείου προτείνας, ἔτος ἐκεῖνο γεγονὼς ἑξηκοστὸν καὶ τέταρτον. Τὴν δὲ κεφαλὴν
ἀπέκοψαν αὐτοῦ καὶ τὰς χεῖρας, Ἀντωνίου κελεύσαντος, αἷς τοὺς Φιλιππικοὺς
ἔγραψεν. Αὐτός τε γὰρ ὁ Κικέρων τοὺς κατ' Ἀντωνίου λόγους Φιλιππικοὺς ἐπέγραψε,
καὶ μέχρι νῦν Φιλιππικοὶ καλοῦνται.»
(IT) «Ed egli, come era solito, toccandosi le guance con la mano
sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari, ricoperto dal sudore e
dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni, tanto che i più
si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. E fu ucciso mentre sporgeva
il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il suo
sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa e
le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche. C. stesso infatti
intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio e tuttora sono chiamate
Filippiche.» (Plutarco, Vite parallele,
Vita di C., 48, 4-6) Una volta sconfitto
Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di C., come collega per il consolato, e
proprio Marco comminò le pene ad Antonio, facendone abbattere le statue e
decretando che nessun membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere
chiamato Marco.[80] Plutarco racconta
che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un
nipote che leggeva le opere di C., gli prese il libro, e ne lesse una parte.
Una volta che glielo ebbe restituito, disse: "Era un saggio, ragazzo mio,
un saggio, e amava la patria".[81]
Vita privata Matrimoni C. probabilmente sposò Terenzia all'età di 29
anni, nel 77 a.C. Il matrimonio - di convenienza - fu piuttosto armonioso per
30 anni. Terenzia era di famiglia patrizia ed era una ricca ereditiera,
entrambi fattori particolarmente importanti per il giovane ambizioso che era C..
Da Terenzia C. avrà due figli: Marco Tullio C., che come il padre diventerà un
politico a Roma, e Tullia o «la dolce Tulliola», come appunto viene descritta
da C. in una delle sue innumerevoli lettere; che sposò prima con un Pisone
Frugi e poi in seconde nozze con Publio Cornelio Dolabella dal quale divorzierà
perché il padre sosteneva la fazione degli ottimati mentre Dolabella era
luogotenente di Cesare, infine morirà molto giovane all'età di 34 anni. Una
delle sorelle o cugina di Terenzia era stata scelta come vergine Vestale, il
che costituiva un grandissimo onore. Terenzia era una donna dal carattere forte
e prese parte alla carriera politica di suo marito più di quanto permise a lui
di prenderne negli affari di famiglia. Non condivise, tuttavia, gli interessi
intellettuali di C. né il suo agnosticismo. C. lamenta a Terenzia in una
lettera scritta durante il suo esilio in Grecia che «...né gli dei che Lei ha
adorato con tale devozione né gli uomini che io ho servito hanno mostrato il
più piccolo segno di gratitudine nei nostri confronti».[82] Terenzia era una
donna devota e probabilmente piuttosto materialista. Alla fine del 47 a.C. o all'inizio del 46
a.C. C. ripudiò Terenzia.[83] I motivi del distacco sono ignoti, ma C. accusò
la moglie di averlo trascurato durante la guerra, di non essere neppure venuta
ad accoglierlo al suo ritorno e di avergli restituito la casa gravata di forti
debiti.[84] Verso la fine del 46 a.C. C.
sposò Publilia, giovane e ricca fanciulla orfana di padre, che viveva sola con
la madre.[85] Secondo Terenzia (che accusava Publilia di essere la causa del
suo divorzio), la giovinezza della fanciulla avrebbe causato l'innamoramento di
C., mentre secondo Tirone, liberto dell'oratore, dietro la decisione ci sarebbe
stato il desiderio di usufruire dei beni della giovane[86]; C. peraltro era già
stato nominato tutore di Publilia, e ne amministrava le ricchezze.[87] Poco
dopo il matrimonio, Tullia, figlia di C., morì di parto.[88] Egli rimase
fortemente colpito e nel luglio del 45 a.C., mentre gli amici gli recavano
conforto, decise di ripudiare Publilia colpevole di essersi rallegrata della
morte di Tullia, dopo soli sette mesi di matrimonio.[89] Il divorzio dalla storica consorte Terenzia e
le seconde nozze con Publilia, destinate anch'esse alla rottura, resero C.
oggetto di feroci critiche, come quelle rivoltegli da Antonio nelle repliche
alle Filippiche. Entrambe le mogli di C.
morirono in tardissima età, cosa insolita per quei tempi (Terenzia addirittura
centenaria; in quanto a Publilia, era ancora viva durante l'impero di Tiberio,
avendo sposato in seconde nozze il console Gaio Vibio Rufo, secondo quanto
afferma Cassio Dione). Prole È
universalmente noto l'amore di C. per la figlia Tullia, sebbene il matrimonio
con Terenzia, da cui lei era nata, fosse stato un matrimonio di convenienza.
Tullia era l'unica persona che C. non criticò mai. La descrive così in una
lettera al fratello Quinto: «Com'è affettuosa, com'è modesta, com'è
intelligente! Quando lei si ammalò improvvisamente nel febbraio del 45 a.C. e
morì, dopo che era sembrato che potesse guarire, dando alla luce un figlio, C.
scrisse ad Attico: «Ho perso l'unica cosa che mi legava alla vita».[17] Attico invitò C. ad andarlo a trovare nelle
prime settimane dopo la morte di Tullia per poterlo consolare. Nella grande
biblioteca di Attico, C. lesse tutto quello che i filosofi greci avevano
scritto circa il superamento del dolore, «...ma il mio dolore sconfigge ogni
consolazione».[90] Cesare e Bruto gli spedirono lettere di condoglianze, e così
fece anche il suo vecchio amico e collega, l'avvocato Servio Sulpicio Rufo.
Questi spedì una lettera che in seguito è stata molto apprezzata, piena di
riflessioni sulla fugacità di tutte le cose.
Dopo un po', C. decise di abbandonare ogni compagnia per ritirarsi in
solitudine nella sua villa di Astura, appena acquistata. Si trovava in un bosco
solitario, ma non lontano da Napoli, e per molti mesi non fece altro che
camminare per il bosco, piangendo. Scrisse ad Attico: «Io mi immergo là nel
bosco selvatico e fitto la mattina presto, e vi soggiorno fino a sera».[17] Più
tardi decise di scrivere un libro per insegnare a se stesso come superare il
dolore; questo libro, intitolato Consolatio, fu estremamente apprezzato in
antichità (in particolare da Sant'Agostino), ma sfortunatamente è andato
perduto, e ne restano solo pochi frammenti. In seguito C. progettò anche di far
erigere un piccolo tempio alla memoria di Tullia, la "sua
incomparabile" figlia, ma poi non portò a termine il progetto, per ragioni
ignote. C. sperava che il figlio Marco
scegliesse di diventare filosofo come lui, ma era un'aspettativa priva di basi:
Marco, per conto suo, desiderava intraprendere la carriera militare, e nel 49
a.C. si unì a Pompeo ed al suo esercito, e partì con loro per la penisola
ellenica. Quando nel 48 a.C., dopo la disastrosa sconfitta dei pompeiani a
Farsalo, Marco si presentò a Cesare, questi lo perdonò. C., allora, non perse
tempo, e lo mandò ad Atene a formarsi nella scuola del filosofo peripatetico
Cratippo, ma Marco, ben distante dall'occhio vigile del padre, passò il tempo a
mangiare, bere e divertirsi, seguendo le lezioni del retore Gorgia. Dopo l'assassinio del padre, Marco si unì
all'esercito dei Liberatores, guidati da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio
Longino, ma dopo la sconfitta nella battaglia di Filippi, nel 42 a.C., fu
perdonato da Ottaviano. Questi, infatti, sentendosi in colpa per aver permesso
che C. fosse inserito nelle liste di proscrizione del secondo triumvirato,
decise di favorire la carriera del giovane Marco. Quest'ultimo divenne, dunque,
augure, e fu poi nominato prima console nel 30 a.C. assieme allo stesso
Ottaviano, e poi proconsole in Siria e nella provincia d'Asia. L'umorismo ciceroniano [91] Vedendo un busto marmoreo che raffigurava suo
fratello Quinto, uomo di bassa statura, C. osservò: "Che strano! Mio
fratello è più grande quando è mezzo che quando è intero" Anche il marito
della figlia non era alto, e vedendolo indossare l’armatura e le armi di
legionario C. chiese ai presenti: "Chi ha legato mio genero alla
spada?". Un certo Vibio Curione aveva il vezzo di abbassarsi l'età e C.:
"Ma allora quando andavamo a scuola insieme non eri ancora nato?".
Saputo che Fabia Dolabella asseriva di avere trent’anni, C. assentì: "È
vero! Sono vent’anni che glielo sento dire." C. non aveva nobili natali
per cui il patrizio Metello Nepote lo derideva, durante le udienze in
tribunale, chiedendogli chi era suo padre. Ma C.: "Per quanto ti riguarda,
invece, tua madre ti ha reso difficile rispondere a questa domanda!" Ad un
avversario disonesto che lo attaccò in Senato domandandogli: "Perché abbai
tanto?", C. rispose: "Perché vedo un ladro!" C. politico Lo stesso argomento in dettaglio: Pensiero
politico di C.. Busto di C. (LA)
«Potestas in populo, auctoritas in senatu»
(IT) «Il potere è del popolo, l'autorità del senato» (Marco Tullio C., De Legibus,3,12) Come uomo politico, C. è sempre stato
bersaglio della critica di antichi e moderni. Le accuse mossegli vanno
dall'incoerenza alla vanità, alla poca lungimiranza. Ma la sua conduzione
oggettivamente può essere giustificata se la si contestualizza nella politica
del tempo, fatta in un mobile gioco di accordi e conflitti tra gruppi di potere
e famiglie nobili, che sfruttavano le etichette di partito per mire
personali. «C. era attaccato al governo
repubblicano per tradizione e per ricordo, rammentando le grandi cose che esso
aveva fatto e a cui egli, come molte altre persone, doveva le sue dignità, il
suo grado sociale e il nome. Non poteva dunque pensare a rassegnarsi così
facilmente alla sua caduta, anche se la libertà effettiva non esisteva più a
Roma, e non ne restava che l'ombra. Non bisogna biasimare coloro, come C., che
vi s'attaccano e fanno sforzi disperati per non lasciarla perire, poiché
quest'ombra, questa apparenza li consola della libertà perduta e infonde loro
qualche speranza di riconquistarla. Questo era ciò che pensavano i Romani che,
come C., dopo matura riflessione, senza entusiasmo, senza passione, e senza
speranza, andarono a raggiungere Pompeo»; questo è ciò che Lucano fa dire a
Catone in quei versi ammirevoli che esprimono i sentimenti di tutti coloro che,
senza nascondere la triste condizione della Repubblica, si ostinarono a
difenderla fino alla fine: «Come un padre, che ha or ora perduto il figlio,
prova una sorta di piacere a dirigere i riti funebri, accende con le sue mani
il rogo, non lo lascia che a malincuore e il più tardi possibile, così, Roma,
io non t'abbandonerò prima di averti tenuta morta tra le mie braccia. Io
seguirò fino alla fine il tuo solo nome, o libertà, anche quando non sarai più
che un'ombra vana».[92] Preoccupazione
costante di C. fu la difesa dello status quo e dei diritti della grande
proprietà latifondista, desideroso soprattutto di acquisire presso i notabili
romani il credito necessario per entrare a far parte della classe dirigente.
Egli si adoperò quindi per la conservazione del potere e dei privilegi di cui
godeva la classe degli optimates, secondo una formula che, in sostanza,
significava sicurezza e tranquillità (otium) per tutti i possidenti, e che
implicava che il potere (dignitas) rimanesse nelle mani di un'oligarchia. Il suo
preteso desiderio che in questa élite si entrasse per "merito" e non
per nascita, quand'anche non lo si voglia meramente intendere come un
sottinteso riferimento alle sue vicende personali, rimase comunque
un'astrazione teorica, un'utopia, anche per l'assenza, allora come oggi, di una
vera modifica nel tessuto politico e sociale della Repubblica.[93] C. fu, inoltre, sostenitore dell'ideale
politico della concordia ordinum (intesa tra il ceto equestre e senatorio
divenuta poi concordia omnium bonorum, ovvero concordia di tutti i cittadini
onesti), e la esaltò, in particolare, nella quarta orazione contro Catilina:
allora, per la prima volta nella storia tardo repubblicana, i senatori, i
cavalieri ed il popolo si trovarono d'accordo sulle decisioni da prendere,
decisioni dalle quali dipendeva la salvezza dello stato. C. auspicava che la
concordia potesse durare per sempre, pur capendo che essa era nata, in quel
particolare frangente, solo per la pressione emotiva: d'altronde, la concordia
non faceva leva su un particolare progetto politico, ma solamente su motivi di
carattere sentimentale ed economico.[94]
C. filosofo Per le opere, vedi l'apposita sezione La filosofia prima di C. Ritratto di C. C. fu il primo degli autori
romani a comporre opere filosofiche in latino: ne andava, infatti, molto fiero,
ma si scusava, allo stesso tempo, di aver dedicato alla filosofia così tanto
tempo. Alcuni, infatti, ritenevano che fosse disdicevole per un uomo romano
dedicarsi alla filosofia, altri pensavano che comunque non bisognasse dedicarle
più di un certo tempo. Altri ancora, infine, erano convinti sostenitori della
totale superiorità della filosofia greca e consideravano per l'appunto solo le
opere greche degne di essere lette.[95] C.
era però convinto che, se i Romani si fossero dedicati seriamente alla
filosofia, avrebbero allora raggiunto le stesse vette dei Greci, che già
avevano eguagliato nella retorica. Ma il gusto per le speculazioni filosofiche
era totalmente estraneo alla società romana: il vir era, d'altronde, un uomo
d'azione. I Romani conobbero la filosofia grazie al contatto con i Greci, ma
consideravano inutile, se non addirittura deleteria, una vita spesa alla
continua ricerca di un sapere che non portava nessuna gloria alla patria né
alcuna ricchezza. Il Senato arrivò, infatti, addirittura ad espellere dall'Urbe
i filosofi ateniesi che vi erano giunti in visita nel 155 a.C., Carneade,
Diogene e Critolao.[95] La stessa
nobilitas senatoriale non voleva, poi, che il popolo e i giovani si
interessassero alla filosofia (che avrebbe prodotto in loro un certo amore per
l'otium, allontanandoli dalla vita reale), ma furono costretti ad ammettere che
nessun uomo degno di tale nome poteva restare estraneo a questa scienza. I
senatori decisero di richiamare a Roma i filosofi che avevano scacciato per
prendere da loro delle vere e proprie lezioni di filosofia, vietando, comunque,
loro di insegnare la filosofia pubblicamente. Persino Marco Porcio Catone,
fiero oppositore della penetrazione della cultura greco-ellenistica a Roma,[96]
studiò la filosofia greca, come tutti gli esponenti dell'oligarchia senatoriale
del tempo.[95] A riscuotere un
istantaneo successo a Roma fu lo stoicismo, ma presto ad esso si unirono le
altre dottrine, i cui esponenti arrivarono "in massa" a Roma nel
corso del I secolo a.C. In poco tempo, dunque, la situazione aveva subito un
totale ribaltamento e non esisteva più uomo estraneo alla filosofia.[95] Formazione filosofica di C. C. non si
comportò diversamente dai suoi contemporanei, ma, almeno in gioventù, studiò la
filosofia convinto che si trattasse esclusivamente di un valido supporto per la
retorica: iniziò a comporre opere filosofiche, infatti, soltanto in tarda età,
quando solo la composizione, appunto, poteva essere l'impiego del suo tempo
libero. Nella filosofia C. cercò e seppe trovare la consolazione di cui aveva
bisogno, il rimedio somministratogli dall'antica saggezza.[95] Da giovane, C. studiò d'impulso
l'epicureismo, dottrina che aveva avuto numerosi discepoli anche a Roma, tra
cui Amafinio, Cazio e Lucrezio. In principio, C. fu, infatti, allievo di
filosofi epicurei, quali Fedro e Zenone. Più tardi, sotto l'influsso di altri
maestri, abbracciò, almeno in parte, lo stoicismo, ma non ne fu mai un convinto
sostenitore: come altri al suo tempo, elaborò una personale fusione tra le due
filosofie, in modo eclettico.[95] Mostrò, tuttavia, forti preferenze per la
dottrina accademica insegnatagli da Filone: la teoria del probabilismo e del
verosimile si adattavano perfettamente ad una personalità quale quella di C., a
cui si addiceva perfettamente anche l'elevazione morale dello stoicismo. Questa
particolare mescolanza fra più filosofie fu la vera filosofia di C..[95] Opere
Marci Tullii Ciceronis Opera Omnia, 1566 Scritti filosofici Frontespizio di una stampa del De officiis;
Christopher Froschouer, 1560 Le opere filosofiche di C. costituiscono
un'importante fonte su teorie filosofiche ellenistiche poco documentate
direttamente. In particolare gli Academica sono una testimonianza essenziale
sullo scetticismo della media Accademia. In molti casi C. traduce per la prima
volta in latino termini filosofici greci.[97] Ad esempio i termini probabile e
probabilità, usati con leggere varianti in tutte le lingue occidentali per
indicare concetti filosofici e scientifici, traggono il loro significato
attuale dalla scelta di C. di tradurre con il latino probabilis il termine
πιθανὸς (pithanòs), nel senso in cui esso è usato da Carneade.[98] Il De re publica e il De legibus, e la
traduzione del Timeo e del Protagora contribuirono a diffondere a Roma il
Platonismo.[99] Panoramica alfabetica di
tutte le opere filosofiche Academica priora (prima stesura dei libri sulla
dottrina della conoscenza dell'accademia platonica). Catulus (Dialogo), la
prima parte dell'Academica priora, perduto. Lucullus (Dialogo), la seconda
parte dell'Academica priora, conservato. Academici libri oppure Academica
posteriora (versione tarda del trattato sulla dottrina della conoscenza
dell'accademia platonica, in quattro libri). Cato Maior de senectute
("Catone il censore, sull'anzianità"). C. immagina Catone il Censore
all'età di 84 anni ed esprime la sua nostalgia del buon tempo antico, quando a
Roma l'uomo politico eminente poteva mantenere prestigio e autorevolezza fino
alla più tarda età. Consolatio: una consolazione a sé stesso scritta alla morte
dell'amata figlia Tullia, in cui C. esorta a considerare la caducità di ogni
cosa e l'importanza della filosofia. L'opera è andata perduta. De Divinatione
("Sulle profezie"): Quest'opera, probabilmente la più originale tra
tutte quelle composte da C., mette in luce un'opinione molto esplicita sulla
fiducia che bisogna riporre nell'arte aruspicina. Sebbene discuta anche delle
opinioni stoiche al riguardo, si nota che C. tratta gli argomenti con la
dimestichezza di chi ha potuto osservare da vicino il funzionamento della
religione romana (nelle vesti di augure), e può trarne un lucido giudizio, che
non può non essere negativo. Da quest'opera e dal terzo libro del De natura
deorum i primi cristiani attinsero argomenti per combattere il politeismo. De
finibus bonorum et malorum ("Sui confini del bene e del male"). È un
dialogo in cinque libri che si pone il problema di cosa sia il sommo bene,
tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea che,
rispettivamente, lo classificavano come virtù e piacere. De Fato ("Sul
Fato"), giuntoci non integralmente. Viene argomentata la dottrina
provvidenzialistica degli stoici. De natura deorum ("Sull'essenza degli
dei"): Il De natura deorum fu scritto nel 44 a.C., subito prima della
morte di Cesare, ed inviato a Bruto. C. orchestra una conversazione tra un
epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che espongono e
discutono le opinioni dei vecchi filosofi sugli dei e sulla Provvidenza.
L'ateismo dissimulato di Epicuro viene confutato da Cotta, che sembra
rappresentare lo stesso C.. Cotta prende, poi, la parola, per confutare anche
il pensiero stoico riguardo alla Provvidenza. Se C. respingeva con certezza il
parere degli epicurei al riguardo, non possiamo, invece, sapere con altrettanta
certezza cosa pensasse della religiosità dello stoicismo: le parole di Cotta,
pervenuteci, tra l'altro, solo in parte, non contengono nessuna riflessione
dello stesso C.. Si è però ipotizzato che C. abbracciasse almeno in parte il
probabilismo accademico, sebbene suoi ammiratori fossero invece convinti che si
fosse allontanato del tutto dallo scetticismo. Comunque, è importante il poter
constatare l'estrema discrezione dell'atteggiamento di C.: egli è persuaso che
il culto nell'esistenza degli dei e nella loro azione sul mondo debba
esercitare una profonda influenza sulla vita, e che è, dunque, di un'importanza
fondamentale per il governo di uno stato. Esso deve, perciò, essere mantenuto
vivo nel popolo. Sono il politico e l'augure che parlano. C. non trova gli
argomenti degli stoici molto convincenti, e li confuta per mezzo di Cotta.
Infine, si dice incline a credere che gli dei esistano e che governino il
mondo: lo crede, perché è un'opinione comune a tutti i popoli. Questo"
accordo" universale equivale per lui ad una legge della natura (consensus
omnium populorum lex naturae putanda est). In quanto alla pluralità degli dei,
sebbene non si esprima categoricamente su questo punto, sembra che non ci
creda, o per lo meno che, come gli stoici, consideri gli dei come nient'altro,
per così dire, che le emanazioni del Dio unico. Concepisce poi questo Dio unico
come uno spirito libero e privo di qualsiasi elemento mortale, all'origine di
tutto. Non risparmia, invece, i racconti mitici del politeismo greco-romano;
schernisce e condanna le leggende comuni a tutti i popoli. Era soprattutto
questa parte dell'opera, il terzo libro, ad affascinare i filosofi del XVIII
secolo: non era difficile mettere in luce gli aspetti ridicoli della religione
popolare, e si può dire che anche al tempo di C. ciò era diventato un luogo
comune filosofico. Gli uni, respingendo con disprezzo queste favole, che
giudicavano grossolane, respingevano anche ogni credenza; gli altri adottavano
la dottrina stoica. A C., invece, l'esistenza degli dei appariva come
necessaria: tutti i popoli credevano, e di conseguenza credeva anche lui.
Pressappoco nello stesso modo, C. analizza, poi, il tema dell'immortalità
dell'anima, prendendo in prestito molte delle opinioni espresse a questo
proposito da Platone.[100] De officiis ("Sui doveri"): Il De officis,
che - pare - fu scritto dopo la morte di Cesare, nel 44 a.C., è l'ultima opera
filosofica di C., che la dedicò al figlio Marco, che si trovava ad Atene.
L'opera, ispirata ad un lavoro dello stoico Panezio, è divisa in tre libri: il
primo tratta di ciò che è onesto, il secondo di ciò che utile, ed il terzo
traccia una comparazione tra utile ed onesto. Nell'opera, C. non fornisce
profonde spiegazioni con rigore scientifico, ma enuncia una serie di ottimi
precetti, indispensabili per fare di un uomo un buon cittadino romano, ligio ai
suoi doveri e dunque in grado di vivere nell'ottica della virtus. Hortensius:
sorta di protrettico ovvero esortazione alla filosofia, modellata su un'analoga
opera perduta di Aristotele. Come testimoniato dal proemio al II libro del De
divinatione, in essa appariva Quinto Ortensio Ortalo, il quale svalutava
l'attività filosofica; contro questa tesi si pronunciava C.. L'opera fu assai
apprezzata nell'antichità, specie da Agostino; essa è andata perduta e gli
unici frammenti pervenutici provengono da citazioni che ne fa appunto Agostino.
Laelius seu de amicitia ("Lelio" o "sull'amicizia").
Paradoxa Stoicorum (Teoremi di spiegazione dei paradossi etici della scuola
degli stoici): Si tratta di esercitazioni di casistica oratoria, spesso
giudicate di basso livello dalla critica. Tusculanae disputationes
("Conversazioni a Tusculum"): Le Tusculanae disputationes furono composte
nel 45 a.C., sotto la dittatura di Cesare, quando Catone Uticense era già stato
costretto al suicidio e la repubblica aveva, in fin dei conti, cessato di
esistere. Il dittatore si era dimostrato clemente, ma aveva dato a intendere
agli intellettuali che non avrebbe accettato una loro
"insubordinazione": a C., che aveva scritto un libro in memoria di
Catone, Cesare aveva risposto con l'Anticato ("Anticatone"), in cui
criticava l'illustre morto, mostrando quale sarebbe stato il suo atteggiamento
verso gli oppositori. Per C. la situazione era davvero complicata: sua figlia
Tullia era appena morta, e la vita politica aveva perso ogni senso. L'oratore
decise dunque di ritirarsi nella villa di Tusculum, particolarmente amata da
Tullia, dove si dedicò allo studio della filosofia. Gli argomenti delle
disputationes rispecchiano dunque il suo stato d'animo: cos'è la morte? Cos'è
il dolore? C'è un modo per alleviare le afflizioni dell'animo? Cosa sono le
passioni? Come si deve confrontare il saggio nei confronti di questi elementi
turbatori della propria imperturbabilità? Infine: cos'è la virtù? Basta a
rendere felice una vita? Tra le ultime riflessioni ve n'è anche una a proposito
del suicidio, inteso come mezzo per eludere la morte. C. tratta questi temi con
il suo solito stile eloquente, ma vi si intravede un forte senso d'impotenza: è
evidente che il suo pensiero è sempre rivolto, nonostante tutto, a Roma ed alla
politica. De re publica ("Sulla repubblica"), sul modello della
Repubblica di Platone. De legibus ("Sulle leggi"): Il De legibus fu
composto probabilmente nel 52 a.C., dopo che C. era stato nominato augure. Si
tratta di uno scritto che può considerarsi complementare del De re publica, del
quale ricalca pregi e difetti: non è un lavoro puramente filosofico, né un
semplice trattato di giurisprudenza, ma piuttosto un compromesso tra le due
scienze. Nel primo libro, ispirato all'omonima opera di Platone e al trattato
Sulle leggi di Crisippo, C. dimostra con una grande elevazione di pensiero e di
stile l'esistenza di una legge universale, eterna, immutabile, conforme alla
ragione divina, che si confonde con lei. Proprio la ragione divina, infatti,
costituisce il diritto naturale, che esisteva prima di tutti gli ordinamenti.
Dopo quest'avvio, C. passa all'analisi delle leggi in rapporto alle varie forme
di governo, così come farà, molto tempo dopo, Montesquieu. Non avendo a
disposizione altra repubblica all'infuori di quella romana, C. non immagina
leggi diverse da quelle romane: esse sono le leggi perfette. Terminata
l'analisi, C. si limita, nel secondo libro, ad enunciare le poche che possono
essere considerate imperfette, soprattutto tra quelle che regolano il culto.
L'attenta analisi delle consuetudini religiose appare, alla luce della data di
pubblicazione, come un'attenta manovra di propaganda, con la quale C. appare ai
suoi concittadini come uomo ben degno della carica sacerdotale che gli è stata
affidata. Nel terzo libro, di cui sono andati perduti alcuni passi, C. analizza
la natura e l'organizzazione del potere, il carattere delle diverse funzioni
dello stato e l'antagonismo salutare che deve esistere tra le forze che lo
costituiscono. Queste domande, di interesse generale così vivo poiché toccavano
direttamente il problema della libertà politica, avevano un'importanza
considerevole per i contemporanei di C.. Quale doveva essere la parte
dell'aristocrazia o del senato, e quale quella del popolo nel governo della
repubblica? Non era lontano il tempo in cui Cesare avrebbe dato la risposta
definitiva a questo quesito, e tutti coloro che presagivano ciò che sarebbe
accaduto tentavano di rafforzare l'autorità della nobilitas e del senato.
Nell'opera, il fratello di C., Quinto, è fortemente contrario al tribunato
della plebe, carica che ritiene potenzialmente troppo pericolosa: C., pur
discostandosi dalle opinioni del fratello, riconosce il pericolo che il
tribunato della plebe costituisce per il mantenimento della calma e della pace.
Possediamo solamente i primi tre libri del De legibus: ce n'erano probabilmente
sei. Il quarto era dedicato all'esame del diritto politico, il quinto al
diritto criminale, il sesto al diritto civile. Si trattava di opere
particolarmente preziose, perché C. non ha mai trattato altrove gli stessi
argomenti. Non dimentichiamo che i trattati De re publica e De legibus furono
scritti in un'epoca durante la quale la costituzione romana era ancora in
piedi, prima della guerra civile e la fine dell'antica libertà. Questa circostanza
spiega il carattere dei due lavori: sono al tempo stesso libri teorici e
pratici, ed anche tecnici. Dopo l'avvento di Cesare, l'elemento speculativo
dominerà nella filosofia di C., che infatti fuggirà la vita pubblica per
ritirarsi nella contemplazione.[101] Orazioni
C. mentre pronuncia un'orazione in Senato. Particolare, Cesare Maccari,
1882-1888, Villa Madama, Roma. (LA) «In principiis dicendi tota mente atque
artubus contremisco.» (IT) «All'inizio
di un discorso mi tremano le gambe, le braccia e la mente.» (Marco Tullio C.) C. è certamente il più celebre oratore
dell'antica Roma. Nel Brutus egli ritiene completato con se stesso (non senza
un certo fine autocelebrativo) lo sviluppo dell'arte oratoria latina, e già da
Quintiliano la fama di C. quale modello classico dell'oratore è ormai
incontrastata. C. ha pubblicato da sé la maggior parte dei suoi discorsi;
cinquantotto orazioni (alcune parzialmente lacunose) sono state rinvenute nella
versione originale mentre circa cento sono conosciute per il titolo o per
alcuni frammenti. I testi si possono dividere tra orazioni pronunciate di
fronte al Senato (o al popolo) e tra le arringhe pronunciate in qualità di -
utilizzando termini moderni - avvocato difensore o pubblica accusa, nonostante
anche questi ultimi abbiano spesso un forte substrato politico come nel
celeberrimo caso contro Gaio Verre (unica volta in cui C. compare come
accusatore in un processo penale). Il suo successo è dovuto alla sua abilità
argomentatoria e stilistica, che si sa adattare perfettamente all'oggetto
dell'orazione e al pubblico,[104] soprattutto alla sua tattica astuta, che si
adatta di volta in volta al particolare uditorio, appoggiando appropriatamente
diverse scuole filosofiche o politiche, al fine di convincere il pubblico contrario
e raggiungere il proprio scopo. Tecniche
di memorizzazione Per memorizzare i suoi discorsi C. utilizzava una tecnica
associativa che venne chiamata tecnica dei loci o tecnica delle stanze.[105]
Egli scomponeva il discorso in parole chiave e parole concetto che gli
permettessero di parlare dell'argomento desiderato e associava queste parole,
nell'ordine desiderato, alle stanze di una casa o di un palazzo che conosceva
bene, in modo creativo e insolito. Durante l'orazione egli immaginava di
percorrere le stanze di quel palazzo o di quella casa, e questo faceva sì che
le parole concetto del suo discorso gli venissero in mente nella sequenza
desiderata. È da questo metodo di memorizzazione che derivano le locuzioni
italiane "in primo luogo", "in secondo luogo" e così
via. Panoramica alfabetica di tutte le
orazioni De domo sua ad pontifices ("Sulla propria casa, al collegio
pontificale", 57 a.C.): arringa pronunciata per uno scopo particolare:
durante l'esilio di C. il suo avversario Clodio aveva consacrato una parte
della proprietà di C. sul Palatino alla dea Libertas; C. dichiara questa
consacrazione invalida per ottenerne la restituzione. È da tale contesto che
nasce la locuzione Cicero pro domo sua. De haruspicum responsis ("Sul
responso degli aruspici", 56 a.C.): Clodio redige un passo sulla
profanazione di alcune reliquie durante una perizia degli aruspici sul terreno
di C. sul Palatino e chiede la demolizione di una casa di C. ivi in
costruzione. Contro questa ed altre accuse C. si rivolge con un appello al
Senato, nel quale spiega, che la maggior parte delle accuse di Clodio si basano
su indagini dolosamente carenti. De imperio Cn. Pompei (De lege Manilia)
("Sul comando di Gneo Pompeo (sulla legge Manilia)", 66 a.C.),
orazione di carattere politico pronunciata di fronte al popolo in occasione
dell'attribuzione, effettuata su proposta del tribuno della plebe Gaio Manilio,
a Gneo Pompeo di poteri speciali per la conduzione di una campagna militare
contro il re del Ponto Mitridate VI. De lege agraria (Contra Rullum) I–III
("Sulla legge agraria (contro Rullo)", 63 a.C.): orazione pronunciata
durante l'anno di consolato, tenuta in Senato (I) e davanti al popolo (II/III);
un quarto dell'orazione è stato perduto. De provinciis consularibus ("Sulle
province consolari", 56 a.C.), orazione pronunciata in senato riguardo
alle province consolari romane. De Sullae bonis ("Sui beni di Silla",
66 a.C.). Divinatio in Caecilium ("Dibattito contro Cecilio", 70
a.C.), dibattito riguardo all'assunzione del ruolo di accusatore nel processo
contro Verre. Quinto Cecilio Nigro fu sotto Verre questore in Sicilia e
presentò la propria candidatura nel ruolo di accusatore. Per C. egli era
infatti invischiato nelle macchinazioni di Verre. In L. Calpurnium Pisonem
("Contro Lucio Calpurnio Pisone", 55 a.C.), orazione d'accusa
politica contro Lucio Calpurnio Pisone Cesonino. In Catilinam I–IV
("Contro Catilina I-IV" ovvero "Le Catilinarie", 63 a.C.),
orazioni contro Lucio Sergio Catilina: i discorsi del 7 e dell'8 novembre 63
a.C. pronunciati di fronte al Senato (I) e al popolo (II); i discorsi della
scoperta e della condanna dei seguaci di Catilina, del 3 dicembre di fronte al
popolo (III) e del 5 dicembre di fronte al Senato (IV) In P. Vatinium
("Contro Publio Vatinio", 56 a.C.), orazione accusatoria contro
P.Vatinio riguardo all'interrogatorio nel processo contro P.Sestio. In Verrem
actio prima ("Prima accusa contro Verre", 70 a.C.), orazione
accusatoria nel processo contro Verre, accusato di concussione (crimen
pecuniarum repetundarum) In Verrem actio secunda I–V ("Seconda accusa
contro Verre I–V", 70 a.C.), questi cinque discorsi non sono mai stati
pronunciati a causa dell'esilio volontario di Verre, ma vennero comunque
pubblicati in forma scritta. Oratio cum populo gratias egit ("Ringraziamento
al popolo", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che hanno appoggiato
il ritorno di C. dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita
politica. Oratio cum senatui gratias egit ("Ringraziamento al
senato", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che in Senato hanno
appoggiato il ritorno di C. dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella
vita politica. Philippicae orationes I – XIV ("Le filippiche"),
orazioni contro Marco Antonio. Pro M. Aemilio Scauro ("In difesa di M.
Emilio Scauro", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di
Marco Emilio Scauro. Pro T. Annio Milone ("In difesa di Tito Annio
Milone", 52 a.C.), orazione difensiva, originariamente diversa dalla
versione pubblicata, non sortì il proprio effetto in quanto la curia era
assediata dai fedeli della fazione clodiana. Dopo l'esilio di Milone subirà
profonde modifiche per essere pubblicata quale ci è pervenuta: la più bella
orazione di C.. Contiene tra l'altro la celebre citazione "Inter arma enim
silent leges" Pro Archia ("In difesa di Archia", 62 a.C.),
orazione pronunciata nel ruolo di difensore del poeta antiochiano Aulo Licinio
Archia. Pro Aulo Caecina ("In difesa di Aulo Cecina", 69 a.C./ca. 71
a.C.), orazione tenuta per il querelante in un processo civile per un'azione di
rivendicazione. Il fondamento giuridico è l'interdetto de vi armata (rimedio
del possessore contro lo spossessamento violento). Sostenitore della parte
avversa è Gaio Calpurnio Pisone; entrambe le parti fanno ricorso manifestamente
all'autorevolezza del giurista Gaio Aquilio Gallo. Pro M. Caelio ("In
difesa di M. Celio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di
difensore. Pro A. Cluentio Habito ("In difesa di Aulo Cluenzio
Abito", 66 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro G.
Cornelio ("In difesa di Gaio Cornelio", 65 a.C.), orazione
pronunciata nel ruolo di difensore. Pro L. Cornelio Balbo ("In difesa di
Lucio Cornelio Balbo", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
Pro P. Cornelio Sulla ("In difesa di Publio Cornelio Silla", 62
a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Marco Fonteio ("In
difesa di Marco Fonteio", 69 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di
difensore. Pro Q. Ligario ("In difesa di Quinto Ligario" 46 a.C.),
orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Quinto Ligario, indirizzata a
Cesare in quanto dittatore. Pro Marco Marcello ("In difesa di Marco
Marcello", 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Marco
Marcello, indirizzata a Cesare in quanto dittatore. Pro muliere Arretina
("In difesa di una donna di Arezzo", 80 a.C.), orazione pronunciata
nel ruolo di difensore. Pro Lucio Murena ("A favore di Murena", 63
a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore in un processo di corruzione
elettorale. Pro Gneo Plancio ("In difesa di Gneo Plancio", 54 a.C.),
orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Publio Quinctio ("In
difesa di Publio Quinzio", 81 a.C.), il più antico discorso giuridico
tradizionale di C. a favore del querelante in un processo civile. Oggetto del
contendere è la legittimità dell'azione di sequestro preventivo eseguita dal
convenuto Sesto Nevio contro il cliente di C. Publio Quinto. Difensore della
parte avversa è Quinto Ortensio Ortalo, giudice è Gaio Aquilio Gallo. Pro C.
Rabirio perduellionis reo ("In difesa di Gaio Rabirio, colpevole di alto
tradimento", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro
Rabirio Postumo ("In difesa di Rabirio Postumo"), 54 a.C./53 a.C.
oppure 53 a.C./52 a.C.), orazione difensiva pronunciata nella fase
pregiudiziale del processo contro Aulo Gabinio a causa di concussione nelle
province. Verte attorno alla presenza di "bustarelle" in connessione
con la reintegrazione al trono d'Egitto di Tolomeo XII Aulete. Pro rege
Deiotaro ("In difesa del re Deiotaro", 45 a.C.), orazione in difesa
del Re Deiotaro, rivolta a Cesare Pro Sex. Roscio Amerino ("In difesa di
Sesto Roscio da Amelia", 80 a.C.), orazione di difesa, è la prima arringa
di C. in un processo per omicidio. Sesto Roscio era accusato di parricidio.
Durante la guerra civile un parente si era impossessato del patrimonio del
padre di Roscio e ora cercava di assicurarsi il maltolto, il quale apparteneva
ai legittimi eredi del deceduto. C. ottenne l'assoluzione. Pro Q. Roscio
Comoedo ("In difesa dell'attore Quinto Roscio", circa 77 a.C. o 76
a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro P. Sestio ("In
difesa di Publio Sestio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di
difensore. Pro Titinia ("In difesa di Titinia", 79 a.C.), orazione
pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Marco Tullio ("In difesa di Marco
Tullio", 72 a.C./71 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
Pro L. Valerio Flacco ("In difesa di Lucio Valerio Flacco", 59 a.C.),
orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
Miniatura quattrocentesca del De oratore. Scritti di retorica Lo stesso argomento in dettaglio: Retorica
latina. Così come per C. è difficile distinguere tra vita ed opere, così in
particolare differenziare tra scritti filosofici e retorici è sì pratico e chiaro,
tuttavia non rappresenta pienamente la concezione e l'opinione di C.. Già nella
sua prima opera conservata (De inventione I 1-5) chiarisce che la sapienza,
l'eloquenza e l'arte del governare hanno sviluppato un legame naturale, che
indubbiamente ha contribuito allo sviluppo della cultura degli uomini e che
dev'essere ristabilito. Egli ha in mente quest'unità come modello ideale sia
negli scritti teoretici sia anche nella sua propria vita activa al servizio
della Repubblica - o almeno è così che egli ha voluto idealizzare e vedere la
propria realtà. Perciò non è affatto
sorprendente se C. ha sviluppato i suoi scritti filosofici con i mezzi della
retorica e strutturato le sue teorie della retorica su principi filosofici. La
separazione tra sapienza ed eloquenza C. l'addossa alla "rottura tra
linguaggio e intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De oratore
III 61) e tenta attraverso i suoi scritti di "risanare" questa
frattura; e quindi per una migliore attuazione la filosofia e la retorica
secondo lui devono essere dipendenti l'una dall'altra (v. p.e. De oratore III
54-143); C. stesso dichiara che "io sono diventato un oratore non nelle
scuole dei retori ma nei saloni dell'Accademia": con ciò allude alla sua
formazione sulle dottrine della Nuova Accademia di Carneade e Filone di
Larissa, suo maestro. Panoramica
alfabetica delle opere sulla retorica pervenuteci Brutus: il libro dedicato a
Marco Giunio Bruto venne scritto all'inizio del 46 a.C. e tratta, nella forma
di un dialogo tra C., Bruto ed Attico, la storia dell'arte retorica romana fino
a C. stesso. Dopo un'introduzione (1-9) C. inizia un confronto con la retorica
greca (25-31) e sottolinea che l'arte oratoria poiché è la più complessa di
tutte le arti solo tardi giunse alla perfezione. Mentre ritiene gli antichi
oratori romani appena mediocri, parla di Catone come base della propria
esperienza. Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore, entrambi protagonisti
del De oratore, sono dettagliatamente confrontati (139 e ss.). Dopo
un'escursione sull'importanza del giudizio del pubblico (183-200) e una
riflessione sull'oratore Ortensio (201-283), C. respinge fermamente il modello
dell'Atticismo (284-300). L'opera culmina in confronto tra l'arte oratoria di
Ortensio e di C. stesso, non senza una notevole dose di autocelebrazione
(301-328), egli infatti presenta se stesso come il punto d'arrivo di un
processo di sviluppo dell'arte oratoria. Punto principale dell'opera è la
critica alla diffusione nello stile neoattico, a cui anche il giovane Bruto appartiene,
difendendo il suo stile, assai più ricco e magniloquente, dalla critica di
essere un esempio dello stile asiano. De inventione: ("L'invenzione
retorica"): sviluppato tra l'85 a.C. e l'80 a.C. questo è il primo di due
libri di una descrizione globale della retorica, mai completata. C. rinunciò a
completarla, per dedicarsi ad una più accattivante rappresentazione nel De
oratore, e tuttavia l'opera servì, nonostante il carattere frammentario, come
testo d'insegnamento fino al Medioevo. La parte completata tratta nel primo
libro dei concetti principali della retorica (I 5-9), la dottrina
dell'insegnamento della retorica in riferimento ad Ermagora di Temno (I 10-19)
nonché il ruolo dell'oratore (I 19-109); il secondo libro tratta delle tecniche
d'argomentazione, soprattutto nelle arringhe giuridiche (II 11-154) nonché
brevemente delle orazioni di fronte al popolo (II 157-176) e in occasione di
celebrazioni (II 177-178). Le dichiarazioni di C. per quanto riguarda il
contenuto dell'opera presentano molte somiglianze con la Rhetorica ad
Herennium, ma per lungo tempo erratamente ritenuta sua, cosa che ha portato a
numerose discussioni tra gli studiosi riguardo al rapporto tra le due opere.
Entrambi gli scritti sono all'incirca dello stesso periodo e si basano
direttamente o indirettamente sulle medesime o su affini fonti greche. Inoltre
c'è una notevole somiglianza letterale in alcuni periodi, cosa che suggerisce
probabilmente anche una comune fonte latina, forse originata da un comune
insegnamento dottrinario che ha mediato il preponderante contenuto di origine
greca. De optimo genere oratorum ("Sulla miglior arte
dell'oratoria"): questa breve opera, scritta probabilmente nel 46 a.C. o,
secondo altri pareri, già nel 50 a.C., è un'introduzione alla traduzione delle
orazioni di Demostene ed Eschine, per e contro Ctesifonte. L'introduzione verte
soprattutto sugli atticisti romani, all'incirca con le stesse argomentazioni
dell'Orator. La traduzione comunque non ci è pervenuta, e non è chiaro se C.
l'abbia mai effettivamente completata. L'autenticità dell'opera è stata più
volte messa in discussione, ma oggi è per lo più accettata. De oratore
(Sull'oratore): la più importante opera sulla retorica di C. non dev'essere
confusa con l'opera quasi omonima Orator. È un'opera composta nel 55 a.C. in
forma di dialogo, così come per il Brutus. I protagonisti stavolta sono Lucio
Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi, secondo C., dei più grandi oratori
della generazione precedente. Nel I libro è Crasso (portavoce di C.) ad esporre
la tesi principale dell'opera ossia che il buon oratore deve avere
un'approfondita conoscenza dell'argomento di cui vuole trattare, osteggiando la
concezione di alcuni retori greci che ritenevano sufficiente una formazione
basata su regole, tecnicismi ed esercizi per affrontare qualsiasi discorso. Il
II libro tratta invece delle "parti" in cui si suddivide la retorica,
cioè l'inventio, la dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello
stile, cioè l'elocutio, e dell'actio, cioè il modo in cui l'oratore deve
comportarsi durante l'orazione. Il de oratore è considerata l'opera di C.
scritta con più cura formale e per questo motivo è sempre stata utilizzata e
studiata come modello primo dello stile ciceroniano. Orator
("L'oratore"): Venne scritta nell'estate del 46 a.C. ed è anche
questa dedicata a Marco Giunio Bruto e descrive un modello ideale del perfetto
oratore, riprendendo molti dei temi già trattati nel De oratore. Contrariamente
alla disputa di quel tempo tra gli atticisti, che - come Bruto - pretendono
dall'oratore uno stile sobrio e preciso, e gli asiani, che prediligono uno
stile molto ricercato e magniloquente, C. ritiene che il perfetto oratore, come
Demostene, deve dominare tutti gli stili e saper passare da uno all'altro con
naturalezza. Per questo motivo bisogna dedicarsi soprattutto alla formazione
filosofica: solo così potranno svolgere i tre compiti dell'oratore: probare,
delectare, flectere (dimostrare, divertire, convincere), i quali vengono bene
ordinati e descritti (76-99). C. parla anche qui brevemente dell'inventio
(44-49), della dispositio (50) ma tratta soprattutto dell'elocutio (51-236),
soffermandosi sulle figure retoriche e sulla costruzione ritmica del periodo.
Partitiones oratoriae ("Partizione dell'arte oratoria"): Quest'opera
venne scritta nel 54 a.C., quando il figlio di C., Marco, stava studiando la
retorica, ed è ideata come una sorta di 'catechismo', trattando la teoria della
retorica, soprattutto con divisioni schematiche, nella forma di domanda e risposta
tra padre e figlio. L'originalità di C. in quest'opera spicca molto meno, a
causa dello stile molto semplice e delle poche novità introdotte. I Topica (44
a.C.): scritti nel corso del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico
Trebazio, trattano della dottrina dell'inventio divulgata da Aristotele, ovvero
l'arte di saper trovare gli argomenti. In questa produzione retorica vengono
considerati i luoghi (topoi) come ottimo spunto per ogni genere di argomento ed
utilizzabili per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia,
ecc.) Opere perdute Tra le opere tardive di C. si possono annoverare scritti
consolatori, contributi alla storiografia, poesie (alcune anche sul suo periodo
di consolato) e traduzioni. Queste opere sono per la maggior parte perdute.
Delle poesie ci rimangono comunque svariate citazioni anche in altri lavori
dello stesso C.. Questi frammenti dimostrano l'influenza di uno dei più
importanti poeti latini, Catullo e di altri neoterici. Panoramica alfabetica delle opere poetiche ed
epico-storiche di C. Alcyones: epillio composto da C. dopo il 92 a.C. nel quale
veniva cantato il mito di Alcione e del marito Ceice. Dato che questi si
paragonavano a Giove e Giunone per la loro ricchezza, sfarzosità e potenza, gli
dei fecero fare loro naufragio durante un tragitto in mare. Dato che Ceice morì
nella tempesta, Alcione si lasciò annegare per il dolore, così Giove tramutò
entrambi i defunti in uccelli alcioni. Aratea: libera traduzione giovanile dei
Fenomeni celesti del poeta ellenistico Arato di Soli. De consulatu suo:
poemetto autobiografico composto da C. tra il 60 a.C. e il 55 a.C. in cui si
parla dell'ascesa al consolato dell'autore e della sua vittoria nel processo
contro Lucio Sergio Catilina. De temporibus suis: altra opera autobiografica
perduta scritta nel 54 a.C. in cui C. celebrava i suoi interventi migliori
durante il consolato. Epigrammata ("Epigrammi"): componimenti
satirici scritti da C. quando aveva circa vent'anni. Stando alle testimonianze
di Quintiliano, l'opera era di genere comico e ironico e trattava di vari
argomenti fantastici e reali. Līmōn: il titolo deriva dal sostantivo greco
Λειμών, "prato"; ciò sottolineava il carattere variegato dell'opera,
un poema in esametri in cui venivano trattati diversi argomenti letterali e
sociali. Infatti una testimonianza di Svetonio riporta un giudizio severo
dell'autore riguardo a un'opera del commediografo Terenzio. Marius: poema
epico-storico in cui C. parla delle imprese del console Gaio Mario. L'opera è
importante per il passaggio dell'autore dal genere alessandrino a quello
storico mescolato alla poesia, cioè epico. Nilus: opera quasi sconosciuta. Si
pensa che C. l'abbia scritta per lodare le qualità del fiume Nilo dell'Egitto.
Pontius Glaucus: componimento in stile alessandrino di C.. Scritto circa nel 93
a.C., l'opera trattava del mito di Glauco, il quale dopo aver mangiato un'erba
afrodisiaca dai poteri magici, si trasformò in un animale marino. Tymhaeus:
vasti frammenti del lavoro compiuto sul Timeo di Platone, che C.
presumibilmente non ha mai pubblicato, preparando semplicemente abbozzi di
traduzione. Uxorius: opera nota quasi esclusivamente attraverso il titolo, che
significa Il marito devoto (alla moglie); si ritiene avesse argomento leggero e
carattere scherzoso, se non apertamente comico. Epistolario Edizione delle Epistole agli amici, Venezia
1547 Le epistole di C. furono riscoperte da Petrarca e dal cancelliere e
umanista Coluccio Salutati. Complessivamente furono ritrovate circa 864
lettere, delle quali una novantina furono scritte da corrispondenti, e ciò
inizialmente provocò un grande entusiasmo, temperato successivamente dal fatto
che l'immagine che traspariva di C. non era quella dello strenuo eroe difensore
della Repubblica, come si era sempre dipinto nelle sue opere e nelle sue
orazioni, ma una versione molto più umana, con le sue debolezze e i suoi
aspetti meno retorici, ma certamente affascinanti nella loro genuinità. Le epistole furono raccolte e archiviate dal
segretario di C., Tirone, fra il 48 e il 43 a.C. Si dividono in 4
categorie: Epistole agli amici
(Epistulae ad familiares) (16 libri) Epistole al fratello Quinto (Epistulae ad
Quintum fratrem) (3 libri) Epistole a Marco Giunio Bruto Epistole ad Attico (Epistulae
ad Atticum) (16 libri) Memoria Presente in tutto il Medioevo, il ricordo di C.
fiorì durante il Rinascimento[107]; Giovanni I di Brandeburgo principe elettore
del Brandeburgo nel XV secolo, venne ricordato, dopo la sua morte, con
l'appellativo di C., proprio a causa della sua eloquenza. Negli Stati Uniti d'America vi sono ben
quattro città cui è stato dato il nome "Cicero" in onore di Marco
Tullio C.. Inoltre l'espressione latina Cicero pro domo sua viene utilizzata
per descrivere chi parla sostenendo il proprio tornaconto, ma che maschera più
o meno bene il fine del suo discorso come perorazione per altra causa. Essa
deriva da un'orazione tenuta da Marco Tullio nel 57 a.C. per ottenere la
restituzione della propria casa, requisitagli durante l'esilio.[108] Il nome di C. è diventato un'antonomasia per
indicare la guida che accompagna i turisti nella visita a monumenti e luoghi
illustrando loro ciò che stanno visitando.[108] Parimenti con il nome C.
vengono identificate le marche da bollo, di diverso valore (e colore), ma tutte
riportanti l'effigie del busto di Marco Tullio C., da apporre agli atti
giudiziari, il cui ricavato alimenta il Fondo di previdenza degli avvocati. Note
^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 2, 1. ^ Dionigi Antonelli,
Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel Medioevo,
Pontificia Università Lateranense, Roma, Loffredo, S. Domenico di Sora e i
luoghi natali di C., Tipografia dell’Abbazia di Casamari, Veroli Narducci Rawson, p. 1. ^ Rawson, Rawson, Plutarco,
Vita di C., 1, 1. ^ Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di
C., 3, 2. ^ Rawson, pp. 14-15. ^ Plutarco, Vita di C., 2, 3. Rawson, p. 18. ^ Plutarco, Vita di C., 4,
5. C., Lettere ad Attico ^ Plutarco,
Vita di C., 3, 5. ^ Rawson, p. 22. ^ Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 83. ^
Plutarco, Vita di C., 4, 1-2. ^ Rawson Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C.
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per la problematica semiotica nel mondo ro mano fa parte di quel processo di
costante e progressiva ac quisizione del patrimonio culturale greco, che
inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro mano,
il paradigma semiotico abbandona il campo della fi losofia in senso stretto,
per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia
la conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole
postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire
dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica,
una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto partizione
della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente orientati
in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del paradigma
se miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più congeniali, del
dibattito politico e giudiziario, dibattito de stinato a essere condotto con
gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi conto, nel modo più
chiaro, del cambiamen to di prospettiva, basta mettere a confronto
l'atteggiamento di Aristotele con quello di C. nei riguardi della retori ca.
Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo importante
trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei segni; ma,
come era già avve202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi analitici, aveva tentato
di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella dei tipi di sillogismo.
Cosi fa cendo, aveva indicato un percorso ben preciso: la logica stabilisce le
forme fondamentali del ragionamento, che de vono rimanere un punto di
riferimento anche quando l'inte resse si sposta, come nel caso della retorica,
dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni referenziali a quelli
efficaci . In C., e in genere nella trattatistica retorica roma na, si
registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori ca non occupa più il
secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è la
filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è quello
di contri buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo quenza
l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del De oratore
(Il, 159-160) mostra abbastanza chia ramente l'opinione di C. circa i rapporti
tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene detto che i
dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma non di
produrne. In effetti, per C. la retorica costituisce il "corona
mento" della filosofia, dalla quale non può essere dissociata (De orat.,
III, 59-61), e non deve essere considerata una tec nica capace di aggiungere
un'espressione elegante a un pen siero già formato. Come mettono bene in luce
Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in C. agisce un principio,
sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si parla bene, si pensa
anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente bene se non quando si
parla ve ramente bene. Tuttavia la retorica, indiscutibilmente, presenta anche
un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra che essa è organiz zata secondo
due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di di scorso: il discorso dei
tribunali (giuridico); il discorso del l'assemblea (politico); il discorso
delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo riguarda le parti della
retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono essere messi in atto per
strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri cerca degli argomenti);
dispositio (ordinamento di quel che 9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è
stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or nata); memoria
(procedimenti mnemotecnici); actio (recita zione del discorso: gesti e
dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore della
inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che convincano
l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le prove, in
retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si
inseriscono nel pro gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei
due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro gramma è il
commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio
o sulla sua forza proba toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia,
come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare
l'espressione "prova" per indicare le probationes (pfsteis)
retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno tazione scientifica la
cui assenza appunto definisce le "pro ve" retoriche. Tuttavia, un
merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di
dare una classifi cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza
argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni
autore ha assolto in ma niera particolare, proponendo una classificazione che
non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi
paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li nee secondo le quali i tre
grandi autori della trattatistica re torica romana, cioè Cornificio (autore
della Rhetorica ad Herennium), C. e Quintiliano, ricostruiscono nelle
rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia scuno secondo
diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una
documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati
del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium, attribuita un tempo a C.
sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi asse
gnata a Cornificio (Calboli: 1969). 204 9. RETORICA LATINA La
problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della
constitutio coniecturalis dove, per verifica re se sia stata commessa o no una
determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col
pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret tamente a cui i segni
devono rimandare non è il fatto o rea to, che è ovviamente noto, ma l'agente
responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un
certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed
è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi
reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla
spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma
insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del
fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la
verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione
nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può
scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La
retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una
fiducia incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo
e l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti
pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura le in sei parti,
sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità),
conlatio (confronto), signum (pro cedimento indiziario), argumentum (segno),
consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). Troviamo qui una terminologia in
parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la trasposizione la
tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo a questi due casi.
Ma i contenuti delle espressioni latine so9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM no
completamente difformi dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il
probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che era utile commettere il
crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da comportamenti di tale
turpitudine" (Il, 3), defi nizione nella quale non rimane molto
deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è connessa alla
caratteriz zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se [l'accu
satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem pre stato avaro,
se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto congenito
con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua
ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di
"movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento
indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che
serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione
(del crimine)" (II, 6). Non ritro viamo nemmeno qui la nozione greca di
smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia
ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico struire il fatto
scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine
separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di
por tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il
segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la
sua definizione non è ancora molto elo quente ("Argumentum è ciò
attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e
con un so spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci
tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe nomeno
percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile direttamente; la sua
struttura è quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico:
"Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza,
significa che è stato uc ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova
del sangue sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit to,
significa che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum
viene suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità,
con temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente
del segno; classificazione, questa, che risale al la retorica prearistotelica
(si trova a esempio nella Rhetori ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e
giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili
Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli mette in
relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice
Cornificio, dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e
gli innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è
giunti a interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab bia titubato,
sia caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa,
che sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle
reazioni fisi che non controllabili, dei segni involontari che possono ve
nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati
d'animo (come il senso di colpa). Questi se gni, per quanto non siano
facilmente dissimulabili, sono pe rò manipolabili a livello di
interpretazione: infatti l'avvoca to difensore può intervenire sulla loro
presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del
pe ricolo e non per la coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac cusatore
può intervenire sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato
aveva a tal punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza,
ragione che rende l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno
cenza" (ibidem). probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum -
neminem alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l
argumentum consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD
HERENNIUM Come si può vedere, il procedimento indiziario che viene messo in
atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari li velli: (i) innanzitutto, ci
sono i segni della premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono
distribuiti tra il probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che
l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il
delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso,
che sono rappresentati dagli ar gumenta: essi mettono in relazione diretta
l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella sorta di
segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal comportamen to
dell'imputato osservato in un momento diverso e succes sivo rispetto a quello
dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente la classificazione
della materia congetturale effettuata da Cornificio con il se guente schema
(Curcio 1900): - locus - tempus - spatium - consequens Se
messa a paragone con quella della Retorica aristoteli ca, la classificazione
di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non saldamente fondata.
Tuttavia, con temporaneamente, appare molto più aderente alla materia instans
conscientiae - signe confidentiae - signa innocentiae 208 9.
RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non priva di una logica inter
na nel suo seguire i segni deli'imputato in un percorso che parte dal momento
precedente il crimine e culmina nel pro cesso . Cornificio discute anche della
forza argomentativa dei se gni, quando propone di organizzare in una struttura
logica gli argomenti trovati. E, a questo proposito, nota che ci so no dei
segni che non garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver
partorito, poiché porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal
momento che è pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare,
si tratta di segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi
non sono sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma
anche una quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che
Cornificio non li rifiu ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel
caso che compaiano in gran numero ("se però vi si aggiungono an che tutti
gli altri, tali segni hanno un certo peso per accre scere il sospetto). C. C.
affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della
sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che
parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di
questo ambi to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so cio-politico, volta a definire la figura
deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo
di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini
di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i
personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le
Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate
dalla caratteristica di prendere in considerazio ne e di sistematizzare la
gran massa delle nozioni che com pongono l'apparato tecnico della retorica. Un
limite di que ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di C.
e con densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a
Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In
particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an
tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata
l'attenzione verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il
balbettare dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare la
classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il
fatto crimi noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti
di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei
segni proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti.
Essa ap pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar
gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle
prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere
qualche cosa che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra
in . un mo do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44).
Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in
questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è
stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato)
rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già
aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e
un'inferenza necessaria (necessarie demon strans) . I segni necessari sono
così definiti. Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi
né essere pro vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono
esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se
respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., l, 86). Come
C. spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il
conseguente sono legati da una re lazione inscindibile (cum priore necessario
posterius cohae rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non
necessario viene poi cosi defini to: "Probabile è poi ciò che suole
generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé
qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De
inv., l, 46). Con questa definizione C. mette in evidenza due caratteri: (i)
quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da
Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi
due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos:
"Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del
giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di
generalizzazio ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet.,
1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari,
era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 C. 21 1 I, 47),
che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2.
1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar tizione
dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum
(giudicato) e al comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre nozioni
appaiono distinte in base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle
trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni
abbastan za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no
stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più
sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il
pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si
vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e
generalmente non vo lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio
nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra
il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,
vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.
Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo sta nel De inventione
(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae
sono un'opera della tarda matu rità di C., nella quale la classificazione
della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al
trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da
quella dei modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo
gli indizi (qui chiamati argumentatio
necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi nione
positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl)
non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un
ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos
sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub
sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum
est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio/ l
"signum erodibile indicBtLm comparabile /
Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi
estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche",
titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove
tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e
che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi
estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche
quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi
sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è
sicuramente un residuo di una concezione orda lica e antichissima
deli'amministrazione della giustizia; tut tavia è anche un indizio di un
continuo riaffiorare del para digma divinatorio all'interno dei fatti
semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati. Né
questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura
greca, si ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così
si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze
umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi
anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza Il verisimile e il
segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti
intrin seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau sa
congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i
verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle
cose). Il verisimile, come dice C., è "ciò che accade per lo più"
(Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo
particolare". Questo tipo di segno corri sponde ali'eik6s aristotelico,
di cui ha il carattere probabili stico e generalizzante. La nnta propria rei
viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e
indica una cosa certa, co me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si
tratta, evi dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche
dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman da alla nozione di
fdion smeion (segno proprio). Per Ari stotele il segno proprio era la
caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i
leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per
le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat tere di necessità e
si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui
rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono,
poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali 214 9. RETORICA LATINA
vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti,
imbarazzo, alterazione del colorito, discor so contraddittorio, tremore, gli
indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni
delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). C.
non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni
avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte ristica condivisa anche dai
signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli
argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti
se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae
rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa
sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma
nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda
alla cate goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto
dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove
ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono
definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente,
caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma
mentre Aristotele condannava i smefa da un punto di vista episte mologico per
la loro insicurezza, C. è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si
presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi
schematizzare la classificazione cicero niana nelle Partitiones oratoriae
(cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la
retorica giudiziaria alla divina zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si
avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente
accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una
distinzione tra aspetti che sono eminente mente congetturali e altri aspetti
che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue
- uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine coniecturs - l -
verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt
certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche
corrisponde la distinzione tra di vinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione naturale. Infine, come
C. pole micamente rileva (De div.), i segni della divinazione sono talvolta
interpretati in maniera diametralmente oppo sta, proprio come avviene nel
processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due
interpretazioni di verse ed entrambe plausibili. Ma C. apprezza i metodi
deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti
della di vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet tuali
della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi losofia greca, a
fondamento razionalistico, e contempora neamente impegnato in politica, sente
l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di
cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica
tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere
conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la superstizione, invece,
costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco
credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per ché non venga
limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della
repubblica. 216 9. RETORICA LATINA C. affronta questi argomenti nel De
natura deo rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que st'ultima
opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale
difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la
divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di C. contro la teoria
soste nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono
una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e
contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La
divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si
pongono come fon te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu
nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda
dei due specifici tipi di divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura
in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in
cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica
professionale di decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in
un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et
fu/gurum (inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti
del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes
sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed
estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità
si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui
l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano
le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica,
secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se
ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento
primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per
intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola
divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo
ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in
quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre
quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso
l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si ripetono e, pur
non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne
gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem).
Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con nessioni passate, si
crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività. Si può schematizzare
così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato
sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo
di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque
tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione
divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte
di questo tipo le forme di preveggenza derivan ti da invasamento profetico,
cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico
·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri
patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div., II,
100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una
volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che
la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo
del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una
parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento
futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i
segni divinatori Le obiezioni che C. muove ai sostenitori della divi nazione
si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la
quale C. nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere
semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non siano
veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti
rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli
presunti della divinazione, C. istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche
(come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del
contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la
predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro
fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza
(ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)"
(De div.), le prati che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte,
tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative,
quella di sapere quali fatti il caso farà accade re" (De div., II, 18).
Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta
di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la
stessa con cui i medici ip pocratici tendevano a distinguere la propria
scienza profes sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica
medicina, cap. XII). C. poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria
secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello
ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e
insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la
divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di
uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div.); (ii) si
verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente,
per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio
so, ma a ben diverse cause naturali (De div.);
l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne cessità di
rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi
l'interpretazione è motivata da ra gioni di faziosità politica e quindi è
priva di oggettività (De div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di
Quintiliano, la trasformazione del regime politico dalla repubblica all'impero
aveva fatto si che la re torica divenisse inutilizzabile come mezzo di
agitazione po litica e sociale: per questo, da strumento pragmatico quale
l'aveva essenzialmente concepita C., era divenuta so prattutto materia
teorica. In questo quadro Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte
retorica nella maniera migliore e più completa di chiunque altro e
contemporanea mente registra il processo di cadaverizzazione che l'elo quenza
stava subendo. Nella sua Institutio oratoria tratta un programma completo del
ciclo educativo del perfetto orato re, in cui la competenza semiotica ha una
posizione di rilie vo. Gran parte degli elementi che compongono l'opera di
Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio tica; ma nella
lnstitutio è presente anche una sezione speci ficamente dedicata ai segni,
come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica. Vaie anche nel caso
di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli altri trattatisti di
retorica, e cioè che la ri flessione sul segno è saldamente inquadrata
all'interno del l'ottica giuridica con cui viene trattata la materia. I segni
in fatti fanno parte delle probationes artificiales, cioè delle RETORICA
LA... INA prove che l'abilità (ars) dell'oratore saprà trovare per far
assolvere o condannare un imputato. D'altro canto, le pro bationes
inartificiales sono quegli elementi che derivano dali'esterno del processo e
vengono consegnati ali'oratore insieme al suo dossier. Il seguente schema ne
mostra l'inventario completo: 9.3. 1 Orientamento della retorica di Quintiliano
probstiones (prove) i n a rt i f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi)
rumores (voce pubblica) tormenta, quaesita ( inter rogatorio sotto tortura)
tabulae (scritture, atti, contratti ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia
(testimonianze) a rtificisles formale Va pure detto che la retorica di
Quintiliano, accanto a un orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente
teorico, che tende a inquadrare la materia il più possibile in termini logici e
formali (anche se è stato rilevato che Quinti liano non si trova del tutto a
suo agio in questo campo) (Kennedy). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche
(signa, argumenta, exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo
giche vicine al genere deli'implicazione, ovvero del rappor to "se p,
allora q". Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di
fatto) argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed
epistemologico QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logica
che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse re
una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun que non è
notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q)
(''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dal
non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è
giorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia (
-p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst. Or.).
Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono a configurarsi come
degli antecedenti rispetto a dei conse guenti; nozione, questa, che
Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto attinta
direttamen te dalla tradizione della retorica e della logica greca. Dallo
stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem pi, tra cui
l'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo",
che, più o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come
Aristotele, a cui fa costante riferimento, Quintilia no è orientato verso
un'ottica epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa
è soprattutto la possi bilità di acquisire una conoscenza a partire da un
segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, inte
ressato ad argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami di
necessità che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica tra
segni necessari e se gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi
formali dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte ressato
alle reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu stificare, secondo una
gerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura
risulti 'persua sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa,
Quintilia no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune
con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le
grida o i livori non vengono esco gitati dali'arte deli'oratore, ma gli
vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significato
inequivocabile, scompare la possibilità di argomentazione; se, in vece, essi
sono ambigui, non sono delle prove ma necessita no essi stessi di prove (lnst.
or.). Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut to in
necessari e non necessari. I signa necessaria sono quelli che, come dice
Quintiliano, "aliter se habere non possunt" (lnst. or.), cioè sono
degli antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e
vengono messi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta
di segni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen
ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti bile . La furia
classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a
sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti
siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è
unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma re,
si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito
al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi,
sottoposti anche a un altro ti po di classificazione basata sul criterio di
reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive,
respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo
antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono
anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in
"Se cammina, si muove", "Se ha partori to, si è unita con un
uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la
messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una
cicatrice" (lnst. or., V, 9, 7). Quintilia no sembra sollevare qui il
problema della "conversazione" (antistréphein), che per Aristotele
(An. Pr., 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè
dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa". QUINTllANO
9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette
in corri spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei
fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40),
potendo essere altrettanto convincen ti di un segno necessario, dipendono dai
codici e dalle sce neggiature che una certa comunità registra come
"buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al
l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con seguente:
firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se
sono genitori, amano i propri fi gli"; propensius (molto probabile), come
"Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno
successivo"; non re pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante
con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è
stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un
grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos
sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in gran
numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or., V, 9, 8), poiché ricostruiscono una
tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali
Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum
senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e
vestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga
considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece denti (segni
necessari e verisimiglianze), come del resto av veniva nella fonte
aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda
ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa
Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione
vestigium e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire
l'uccisione, spinge a stabilire un parallelo con i vestigia facti delle
Partitiones oratoriae (39) cice roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si
tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria degli indizi materiali
(lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili
sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso cui si
comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9),
sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che
parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria
(quella dci signa non necessa ria == eik6ta) venivano classificati fatti o
proprictfi che forni vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile
dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente
sicuro che arriverà a domani); nella cate goria dei signa sono classificati
fatti che sono insicuri per ché ambigui (una macchia di sangue su una veste
può ri mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare
del sangue di una vitti1na durante un sacrifi cio). La classificazione,
allora, dovrebbe essere così formu lata: necessaria relazione necessaria tra
a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita
con un uomo· l ------- signa non necssaria verisimiglianze non
conva!idabili scienti ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà
fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se
macchia di sangue, allora omi cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega
anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di
verisimiglianza (e non si gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora
e che 9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma
non necessari, Er magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché
vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti liano ha una
certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto
deboli come elementi pro banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo
come se gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si
traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano
allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la
condizione tipica della semiotica giuridi ca, in perenne dialettica tra la
forza oggettivamente proba toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di
fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica
semiotica generale, non c'è al cun problema a considerare come segni
"tutte le conseguen ze che si traggono da un fatto". Le proprietà
che l'enciclo pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono
tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno
poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella
forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono
i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un
poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente
intuito dalla retori ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da
Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer
tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura
li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco mandando, nel
secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a
vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin guaggio
Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa
saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una
altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di
lin guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande
importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte
dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il
trattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principali
temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi pio che la conoscenza è,
in linea generale, conoscenza attra verso segni (Simone). Ma vari elementi
differenziano l'impostazione agostinia na da quella stoica. In primo luogo,
infatti, gli stoici, racco gliendo e formalizzando una lunga tradizione di
origine so prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni
(smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la
cicatrice che rinvia a una precedente feri ta. Agostino, invece, per primo
nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali
come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le
espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene rale segno tutto ciò
che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De
Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici
avevano individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione tra il
significante (semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che comun
que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua nella
singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento
in cui significante e signifi cato si fondono, e considera questa fusione un
segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda to che
le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che non può essere
segno ciò che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso
di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro
le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una
teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il
lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione.
Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere
psicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale
(passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo
semiotico e la stratificazione ter minologie& È del resto con l'analisi
della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed
è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche.
Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere
in corrispondenza con i moderni con cetti di significato, significante e
referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus)
della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene
pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal
punto di vista della trasposizio ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito
come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo
luo228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita come un og
getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op pure che
sfugge alla percezione (De dialect., cap. V). È così possibile ricostruire il
triangolo semiotico nei se guenti termini: dicibile vox articulata (o
sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere
di designazione, oltre che da quello della signifi cazione. Questo lo spinge a
elaborare un'ulteriore suddivi sione terminologica in corrispondenza dei due
aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve nire
che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica
nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora
prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co
me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una
cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio),
nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio
che, come ha osserva to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di
congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di
uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si gnificante
articolato, ma senza essere necessariamente por tatore di significato) ha
subìto nel corso degli studi lingui stici antichi. RELAZIONE
D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo
stesso significa to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano
i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis
come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici
graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e
l'enunciato, dall'al tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis
venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo sizione alle
lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione
all'enunciato che porta un sen so completo). Lo spostamento di fuoco dalla
centralità stoica dell'e nunciato alla centralità alessandrina della singola
parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti
solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino
definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica:
"La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può
essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito
come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi bile,
presenta anche qualche cosa alla percezione intellet tuale (animus)"
(ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im plicazione Ponendo
l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione
platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico,
prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag gio; per
Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è
direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa. Ma mentre nel
Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto
iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino
tale rapporto - configura subito come una rela zione di significazione: il
nomt "significa" una cosa (nozio230 10. AGOSTINO ne equivalente a
quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino
propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune
modificazio ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In
effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti no il rapporto
tra le espressioni linguistiche e i loro conte nuti era stato concepito come
una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere
epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamente sul
linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin
guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per
quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui
esso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui
il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti
tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra ti da
uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c m_E:! c
dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J
"implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione
tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare
in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic tio, che è rappresentabile
con il livello i, è costituita dali'u nione, o prodotto logico, di una vox
(significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di
qualcos'al tro (livello ii). 10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI
Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La prima conseguenza
dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco (1984: 33), è che la
lingua comincia a tro varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa
in fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per
sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi
e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni
della retorica greca e roma na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta
alla possibili tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e
di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel
De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di
segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante
primario",5 cioè tale che qualun que altro sistema semiotico può essere
tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti
con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga
genere: a poco a poco, il modello del segno lingui stico finirà per essere
senz'altro il modello semiotico per ec cellenza. Ma quando il processo
evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai
venuto a per dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri
stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto
tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o
definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione
agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia lettica e della
scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto ché il rapporto tra linguaggio
e oggetto del reale era conce pito nei termini dell'equivalenza, il primo non
appariva di rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel
momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni
linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e
a priori, la conoscenza delle co se di cui esse sono segno. Tutta la grande
tradizione serniotica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il
punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen za dell'oggetto di
riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere
una posizione rispetto alla questione se il linguag gio fornisca o meno, di
per se stesso, informazioni sulle co se che significa. Linguaggio e
informazione Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni
linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il
figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio:
in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemorare), sia propria sia
degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente informative e
comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del
destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del
dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella
informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le
parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza
che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del
dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua
prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in sieme
di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: il primo caso è
quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si
rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno
COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di un
vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude
invertendo il rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è
necessario co noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire
che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa sulla
presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente
platonica, e a es sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual
mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente
della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è
necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma
se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci
permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle
cose puramente intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino
individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla
rive lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia
tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con
questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio
è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno
rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi
mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci
spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte riore
In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da
un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel
De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo
interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. In
effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola
o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima
dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre
parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura
prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle
lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno di
essere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbo
interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una
conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è
determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza.
Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo
è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni
del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.
Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia rezza è il carattere
comunicativo della semiologia agostinia na, che è individuabile anche nello
schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza
potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore
pensato proferito sa pere 10.6 Le classificazioni È comunque
innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia
agostiniana presenta un aspet to "teologico", connesso al problema
del verbo divino, tut tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet
to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se
stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni,
alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina
Christiana, l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito
secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio nali secondo lo
statuto sociale: segni naturali/segni conven zionali secondo la natura del
rapporto simbolico: proprio/tra slato secondo la natura del designato:
segno/cosa LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche
in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque
tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se gno :
Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel lo che in realtà
avrebbe potuto articolare, in quanto gene ralmente queste opposizioni sono tra
di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De
Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni
aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica
zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber nardelli 1987), secondo
il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La
classificazione di Agostino non è totalmente a inclu sione, come tende a
essere quella porfiriana; e si può osser vare che se venissero sviluppati i
rami collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta, alcune
categorie elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a
metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a specie
quando definisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa che c'è
tra cavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in quella
più ampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME
-- segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma,
fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)
differenze ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti
nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba
militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo,
quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res
intelligibili ( virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES"
10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa"
La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo
sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce
tale distinzione co me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti
anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res
che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa
nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone
1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non
sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la
pietra, il bestiame" (De doctr. Christ.). Ma, immediatamente dopo,
cosciente del la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non
quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro
amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua
testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo
figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è
analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De
doctr. Christ., l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran sitive, come i
segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le cose di cui si
gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse
(Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le
cose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso segni:
significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime
possano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così articolato i
rapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione di segno nel
De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là
dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente
(in cogitationem) qualcos'altro". 238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni
verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui
re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia
verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di
Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De
doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari
tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui
ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;
ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei
segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del
linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale
carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.
I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazione
incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di
percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini
si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla
vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De
doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci
sono quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali,
come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi
dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con
l'udito, in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in
effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione
dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare"
(Dedoctr. Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i
cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban diere e
le insegne militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi
in considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi,
come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche
le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano,
inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti, Agostino
dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni
linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa
classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il
gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una
marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali
tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del
resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges).
I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel
Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben precisa
intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere
intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli
emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que sta
intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46),
porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico
generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o
meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi
in corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di
un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come
cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi
illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della
semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si
può stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat
tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione semantica che
si avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di Peirce. Come ha
rilevato anche Markus, il significato di un segno, per Agostino, può essere
stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi;
attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite
astensione (De Mag., III e VII). Questa concezione del significato si rende
possibile sol tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale
del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno.
La teoria semiologica ago stiniana si apre così, come ha messo in evidenza
Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se
ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad
Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe
relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni, dei
quali, appunto si cerca il significato. SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine
comincia da l si l, di cui si riconosce che espri me un significato di
"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato un
altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si
passa, poi, a lni hi/1, il cui significato viene individuato come
!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La
struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti
x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni
tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,
è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che
la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale
in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è ancora
possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice a
quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in
generale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamente
documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. A
esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno
implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi
eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in
cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di
Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.
la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona
(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri
cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che
"la scrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso
il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3
Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso
notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios
(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era
clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera
morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un
trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,
come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca
pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero
(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle
fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie
contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. Si potevano contare oltre cento oracoli per
tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti
tavolette. 244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario
dell'azione oracolare compiuta da Crahay
risulta che alcuni vocaboli presentano il testo della rivelazione come
un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione
verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè
"informare in anticipo con segni") e l'ag gettivo di origine verbale
pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio ne prima del fatto. 2 Ciò è
tanto più evidente se si opera un confronto con civiltà come quella
mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della vita pubblica
(Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti gli altri
ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr .
anche //., I I I, 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso del
l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4
Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the
oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica tes
it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad
Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio
è totale e simul tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole.
Tuttavia agli uo mini egli concede, invece, solo la frammentazione della
parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza
divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone
ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244
a-c) l'etimolo gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro
che la sapienza vista dal l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la
presenza di possibili procedi menti anche di cleromanzia (divinazione
attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi
fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca sualità ed essere
sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av veniva nel caso
dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del
vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il
tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un
gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per
una disamina generale e approfondita dei vari ti pi di divinazione i testi
basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8
"Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini
tecnici designanti par ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione
prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia
anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della
consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer to numero di iscrizioni
epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr.
Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla
nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come
vedremo NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del
dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine,
l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine "modo",
poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un unico meccanismo, ma
di una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei, che vanno dalla
banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di prospetti va
(metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa naturalmente
riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco. Pur troppo non
è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur avendo
molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per la
presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si gnificante e
significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi stenti ecc.) che
qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem brato appropriato
definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo
retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla Sibilla
cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen., VI): la sa cerdotessa di Apollo
scrive le varie parti del responso su delle foglie, se guendo l'ordine
sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo glie al vento, che
scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti
incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile
l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi
antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed
esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco,
quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome
suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è
sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue
frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per una
nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel mondo
antico, si veda Detienne. In particolare, sulla concezione di a/theia come
"sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al poeti
ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'ora
in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente,
per una documentazione completa sulla medicina gre ca, dovrebbero essere prese
in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste
ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente e attingendo a una tradizione
filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo
studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo
svolgendo . Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia
attribuzione dei trattati di medicina. NOTE 3 Si possono distinguere
all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto il gruppo di
trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter ne, il libro II delle
Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar caica del trattato
Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato di
arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della medicina
(Di Benedetto). In secondo luogo, un gruppo di trattati in cui appaiono
maggiormente approfonditi i principi teorici e me todologici della medicina.
Vegetti ha proposto di definire convenzionalmente "pensiero
ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri sulta (indipendentemente dal
fatto che essi siano attribuibili a molti autori e probabilmente tutti diversi
dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370 a.C.). Questi testi,
collocabili cronologicamente nella seconda metà del V secolo a.C., sono: Antica
medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s
Cfr. Vegetti; Vegetti. Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la
medicina ippocrati ca non arriverà mai a essere sperimentale in senso
compiuto. 7 Per le traduzioni ci atteniamo al criterio di usare versioni
correnti, tal volta apportandovi delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la
Scuola di Alessandria, sarà stabilita una distin zione fornaie tra anamnsis,
relativa ai fenomeni collocati nel passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc
dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè previsione deJJ'andamento futuro della
malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche
Grmek (tr. it.). Si deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il
prefisso pro-, unito ai verbi di "dire", con il significato di
"pubblicamente ", anziché con un si gnificato di
"anticipazione". a.C . a lppocrate avviene nell'ambito della
biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di Benedetto (1986: 81).
prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male sacro, Le epidemie l e
III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella testa, Le articola
zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.). 10 In certi casi, il
vocabolario usato per indicare la previsione medica ri calca queJJo della
divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si dice che è compito
del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi pro cessi
relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale la pena
sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica, animistica e
demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds (1951); Lloyd
(1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento magico e catartico
era già stata fornita dagli studi del Rohde (tr. it.). Diog. Laert., Vitae,
VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di sfug gita, che il carattere molto arcaico
della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame
coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana: c'è la rappresentazione di
una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile;
cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio assolutamente analogo a questo si trova
nel cap. 21 del = NOTE trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si
confuta, usando i1 modus tol /ens, la tesi secondo cui l'impotenza che
colpisce certuni degli Sciti sia do vuta a causa divina, in quanto colpisce i
ricchi (che vanno a cavallo, essen do questa, per l'autore, la causa della
malattia) e non i più poveri. Se fosse di origine divina, continua l'autore,
colpirebbe indifferentemente tutti. 1"' Si pensi a questo proposito
all'indebolimento dei sensi durante il son no di cui parla Platone nel Timeo e
a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria che rende possibile il sorgere dei
sogni secondo Aristotele (De di vinatione per somnum) . •s Per la nozione di
"omomaterico", Eco (1975:
295): per "omoma tericità" si intende il fenomeno per cui
"l'oggetto, visto come pura espres sione, è fatto della stessa materia
del suo possibile referente. anche
Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983). 17
Vegetti; Manuli. 18 Sull'abduzione si vedano Thagard; Proni (1981); Eco
(1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco. Di Benedetto (1986) ha messo
in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra i moduli espressivi di
presentazione della malattia nella medi cina greca e quelli dei trattati
mesopotamici ed egiziani; anche Di Be
nedetto-Lami . Campbell Thompson. 2 1 Per questa nozione, Conte.
Hjelmslev. Arist., An. Pr., Il,
70 a-b; Rhet., Arist., Rhet., l, 1358 a,
36 e sgg. 3 Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa
nozione Di Cesare. s Eco.
Heinimann. 7
Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto
nebulosamente, il tema della doppia articola zione del linguaggio umano, che
verrà poi sviluppato in epoca contempo ranea da André Martinet (1960). 9 Anche
se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica
(1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti mema come
sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici 248 NOTE
(Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi
smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel
secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente
"neces sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non
necessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la
stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12
Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote le così
commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi smo
che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu tabile
(ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta no come si
è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida
è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà
necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a,
34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha
un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le
proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è
tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la
proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie
ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé ras
Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia
segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di stinzione
tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi
termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza
distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un
terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; Le Blond. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Arist., An. Post. È del resto sulla base delle immagini prodotte nella
mente dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli
stoici chiamano ka talptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio di
verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose
esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) e
certe altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., Adversus
Mathematicos, VII, 29); Mi gnucci;
Sandbach; "The crite rion of truth" di Rist. anche Sext. Emp., A dv. Math. 1 Si deve
sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein. 6 Diog. Lart., Vitae; Long Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9
Diog. Lart., Vitae, Vll, NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che,
come sostiene Diogene Laerzio (Vitae), gli stoici distinguevano tra il
"proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei
suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da
significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; anche Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 80. Long
sostiene di preferire, per lekt6n, la traduzione "what is said"
rispetto a quella propo sta da Mates e dai Kneale, "what is meant",
in quanto la prima è più gene rale e permette al lekt6n di essere interpretato
come avente funzione tanto logica quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia
sottolineare che vi è una tradizione, risalente al Crati lo platonico, secondo
la quale nominare qualcuno equivale a dire "questo è il suo nome". In
questo caso anche l'esempio di Sesto dovrebbe essere compreso nei termini di
una proposizione implicita come "'Dione è il nome di costui" oppure
"Questo è Dione"; Long. ..s I
lekta venivano classificati dagli stoici in completi e incompleti; cia scuno
dei due tipi dava luogo a una sottoclassificazione, anche molto com plessa,
che non prenderemo qui in considerazione; si veda a questo proposito Mates. Mates:
Mates infatti concepisce i lekta come signi ficato delle parole e avvicina la
loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension di Carnap.
1 Zeller. 12 Bréhier. 13
Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la
fornisce Sesto (A dv. Math.): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che
alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe
altre sono false". Sul problema del criterio di verità, Rist; Sandbach; Mignucci anche Adv. Math.,
VIII, 245-257. 18 Diels-Kranz, 75, B 2.
19 Si veda, a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1 Platone, Th.; Soph. In effetti il discorso
interno, endiathetos /6gos, a differenza delle espressioni emesse materialment,
prophorikòs 16gos, è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo
dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math., VIII, 275-276): "(Gli
stoici) dicono che l'uomo differisce da gli animali irrazionali a causa del
discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi,
pappagalli e gazze pronunciano suoni arti colati"; anche Pohlenz trattazione di Conte, curatore dcll'edizione
italiana dei Kneale. 20 Sext. Emp., Hyp.
Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al genere
è, a quel che pa250 NOTE re, un segno";
anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione
inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp.
Pyrrh., Il, 97. lA Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2'
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp.
Pyrrh., Il, 98. 27 anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione
verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo
relativo. 29 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153.
30 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Sext.
Emp., Adv. Math. Al di là del carattere pole mico, l'osservazione di Sesto è
interessante perché, citando "medici" e "fi losofi", fissa
i due punti estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno:
l'introduzione di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di mostrano
anche i numerosi esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e
lo studio sistematico del segno da parte dei filosofi. 12 Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv.
Math., VIII, 245- 247 . 34 Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 245. 1' Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251.
11 Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107;
Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui
prenderemo in consi derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto
sembra avere un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv.
Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del
condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in considerazione.
Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale e di
Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione cronologica e
teo rica. "2 Phil., De signis,
XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del
testo greco, sono messi in correlazione con il segno " = " ai
capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276;
287. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.);
Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e
divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli
stoici il filosofo "est le médecin de cet organisme vivant qu'est le
monde; il est aussi une sorte de prophète, un de vin, un exégète, un
interprète des signes qu'il observe". 46 Cic., De
divinatione. 49 Sext. Emp., Adv.
Math., Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180:
"D'altronde anche la dimo strazione è, in linea generale, un segno,
giacché essa è considerata come di svelatrice della conclusione". 1 Il
testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora
disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi
citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il
prossimo capitolo. 2 Diog. Laert., Vitae,
X, 31; ancheEpic., EpistulaadHerodo tum
(d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi K.D.), XXIV. 3
Phil.,Designis,fr.l. " Diog.
Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat., fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960:
296-297). Long (1971 b: 1 14) sostiene che un simile rap porto tra linguaggio
e pro/essi è presupposto anche nella Ep. Hdt., 37-38. Diog. Laert., Vitae, Epic., Ep. Pyth., Epic., Ep. Hdt., Diog. Laert., Vitae,
Sext. Emp., Adv. Math., Diog.
Laert., Vitae, Diog. Laert., Vitae, Epic., Ep. Hdt., Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Sext. Emp., Adv. Math., Epic., K.D., XXIV.
16 Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal
verbo smeiolJ (Ep. Hdt., 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria
epicurea. Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato
negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. Sext.
Emp., Adv. Math., VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il
criterio della "non incompa tibilità" con i fatti conosciuti è
centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. ° Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut.,
Adversus Colo tem, 1119f. 22 Si
deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in
Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e
recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che
non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe252 NOTE cifico
del "significato" in termini intensionali. 23 Sedley; il testo di Sedley in parte si
discosta da quello di Arrighetti. Come veniva evitato, nel Crati/o platonico,
tanto da Cratilo quanto da Socrate.
capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Plat., Crat., 421 d, 435 c; Sedley. La data di composizione del trattato,
che è controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.; De Lacy. Il titolo greco, essendo il testo in
parte corrotto, è frutto della congetura di Gompers; altre congetture sono
state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina De
signis; De Lacy. Nella prima sezione
vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella
seconda viene esposta la versione di Bromio del l'enumerazione e confutazione
di Zenone degli argomenti contro l'inferen za empirica; nella terza viene
riportata l'enumerazione di Demetrio di La conia degli errori comuni degli
antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda
lista degli errori degli oppositori, è anoni ma, ma, con molta probabilità, è
anch'essa da attribuire a Demetrio. ..
Marquand; Deledalle. Phil.,
Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13). Il riferimentobi bliografico al trattato
di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il numero delle
righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo corrispondente
nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più riprese
ribadito anche nella terza sezione che riporta il pensiero di Demetrio; col. , 13-25 = cap. 45, e col. , 12-24=cap.
57. 7 col.,1-15=cap.18. 8 col. I, 1-12
9 col. I, 12-16=cap. 2. 1° col.. 11 In Peirce, del resto, c'è a
proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità
che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra
riproporre, in epoca contem poranea, una tematica simile a quella stoica ed
epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un
segno che si riferisce all'Og getto che essa denota semplicemente in virtù di
caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che
un tale Oggetto esista ef fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno
che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno". =
cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19. NOTE 12 Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del
presente lavoro. col. col. III, 4-8=
cap. 5. 1 col. = cap. 6. 16 coli., 35 -, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle
obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. , 4 · XVII, 28 =
capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. , 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18 col. , 3-7=cap. 24. 19 Una discussione
attribuita ai "dogmatici" sul problema della defini zione come
combinazione di attributi, a esempio "animale", "mortale",
"ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico,
Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. , 1 1-28 = cap.
24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A coli. , 37 -
XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll. , 13 - ,
8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col., 6-9=cap. 41. 29 La
tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda antichità le de finizioni
vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di Galeno: "animali
razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac. Hipp. et Plat., IX, 3); e
quella di Sesto Empirico: "animale razionale mortale, provvisto di intelli
genza e razionalità" (Adv. Math.). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr.
1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18 Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. , ,
13=Cfr.coli.,32-I,3= cap.35. coli., 35 - , 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.).
Groupe . col . col. col . col. col. , 5-7 = cap. 52., 11-15=cap. 52. XXI, 27-29
= c, 27-31 =, 23-29=. A questo proposito C. parla di "regolarità della
ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla "sorte"
(fortuna) (De div., I l, 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo
l'espressione significatio; a esempio in De Magistro. 2 Si deve notare che
Agostino adopera l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e
specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno
generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co me
"segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso
dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come
composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto
dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una
parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti
conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo
per mezzo della parola [di cibile]". La dictio, inoltre, "non
procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si
ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo sizionali,
come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et
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not so much for formulating individual philosophical arguments as for
expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy,
and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance
of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the
philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern
period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to
unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the
Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers
whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical
persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to
effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without
the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy.
This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls
humanitas a coinage whose enduring
influence is attested in later revivals of humanism and it alone provides the foundation for
constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad
training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In
philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education
encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an
ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal
disciplines is essential for citizens if their rational autonomy is to be
expressed in ways that are culturally and politically beneficial. A major aim
of Cicero’s earlier works is to appropriate for Roman high culture one of
Greece’s most distinctive products, philosophical theory, and to demonstrate
Roman superiority. He thus insists that Rome’s laws and political institutions
successfully embody the best in Grecian political theory, whereas the Grecians
themselves were inadequate to the crucial task of putting their theories into
practice. Taking over the Stoic conception of the universe as a rational whole,
governed by divine reason, he argues that human societies must be grounded in
natural law. For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal
code; in particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules
against which existing societal institutions can be measured. Indeed, since
they so closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions
furnish a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory,
if not its particular details, established a lasting framework for
anti-positivist theories of law and morality, including those of Aquinas,
Grotius, Suárez, and Locke. The final two years of his life saw the creation of
a series of dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of
Hellenistic philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of
Philo of Larissa and the New Academy. Holding that philosophy is a method and
not a set of dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However,
unlike Cartesian doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind
phenomena, since he does not envision the possibility of strict phenomenalism.
Nor does he believe that systematic doubt leads to radical skepticism about
knowledge. Although no infallible criterion for distinguishing true from false
impressions is available, some impressions, he argues, are more “persuasive”
probabile and can be relied on to guide action. In Academics he offers detailed
accounts of Hellenistic epistemological debates, steering a middle course
between dogmatism and radical skepticism. A similar strategy governs the rest
of his later writings. Cicero presents the views of the major schools, submits
them to criticism, and tentatively supports any positions he finds
“persuasive.” Three connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature
of the Gods, survey Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and
natural philosophy. Much of the treatment of religious thought and practice is
cool, witty, and skeptically detached
much in the manner of eighteenth-century philosophes who, along with
Hume, found much in Cicero to emulate. However, he concedes that Stoic
arguments for providence are “persuasive.” So too in ethics, he criticizes
Epicurean, Stoic, and Peripatetic doctrines in On Ends 45 and their views on
death, pain, irrational emotions, and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus
Tullius ness in Tusculan Disputations Yet, a final work, On Duties, offers a
practical ethical system based on Stoic principles. Although sometimes
dismissed as the eclecticism of an amateur, Cicero’s method of selectively choosing
from what had become authoritative professional systems often displays
considerable reflectiveness and originality.
“Cicero = Tully” Grice: “Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different
things! ‘Cicero’ is more of a description than a name!” La morte di C.. Cicero
proscribed by the triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of the three
‘vires’, along with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which he had
written the Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate. The
Romans never quite liked him because he was only a provincial nobility and
never displayed courage. C.
affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della
sua produzione teorica: le opere di argomento retorico; e le opere che parlano
dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambito
– le opera de argomento retorico --, possiamo osservare che l'interesse per il
concetto di segno non è ugualmente centrale in tutte queste opere. Infatti, da
una parte, ci sono il “De oratore”, I'”Orator”, il “Brutus”, il “De optimo
genere oratorum” -- che affrontano una problematica a carattere socio-politico,
volta a definire la figura dell’oratore perfetto, il suo ruolo nella società
romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo. In
queste opere tutto ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della
retorica -- e con esso anche la problematica sul concetto di segnio e di prova
indiziaria) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si
configura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo
sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore,
in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci
sono, poi, il “De inventione”, le “Partitiones oratoriae” e i “Topica”, opere
molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in
considerazione e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che compongono
l'apparato tecnico della retorica. Un limite di queste opere, in generale, è
rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che
raggiunge talvolta il parossismo, come nel “De inventione”, e che spesso non
trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio all'interno di
queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la
ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. Il “De inventione” condensa
l'ampia tradizione retorica che dal Liceo giunge fino a Ermagora -- è quindi
naturale che al suo interno si trovano riprodotti alcuni aspetti della
concezione del segno che in quell'ambito si sedimenta. In particolare, è
presente la concezione del segno in forma proposizionale, come antecedente p che
permette discoprire un conseguente q. Viene poi confermata l'attenzione verso il
segno involontario -- l'impallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato
-- come indizio di colpevolezza. Infine, compare la classica divisione del indizo
secondo la sua relazione temporale con il fatto criminoso -- anteriorità,
contemporaneità, posteriorità. Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma
bisogna anche dire che la classificazione del segno proposta da C. è in larga
misura diversa da quelle precedenti. Essa appare infatti all'interno della
teoria dell’ “argumentation”, cioè del procedimento attraverso il quale vengono
addotte delle prove per confermare una certa tesi. L'argomentazione sembra
essere qualche cosa che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra
cosa in maniera probabile – “probabiliter ostendens” -- ), o la dimostra
in un modo necessario – “necessarie demonstrans” -- De inv. Anche se non viene
usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è
proprio il meccanismo del segno. Infatti, qualcosa che è stato trovato (un
indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro.
Compare, a questo punto, la distinzione, già aristotelica, tra una forza
argomentativa debole – “probabiliter ostendens” -- e un'inferenza necessaria –
“necessarie demon strans”. Il segno necessario e così definite. "Viene
dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere provato
diversamente da come viene detto.” Ne sono esempi: "Se ha partorito, è
stata con un uomo.” “Se respira, è vivo” – “Se è giorno, c'è luce” -- De inv.,
l, 86. Come C. spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente
e il conseguente sono legati da una relazione inscindibile – “cum priore
necessario posterius cohaerere videtur” -- De inv., l. 86. Il rapporto di
rinvio *non* necessario viene poi cosi defini to: "Probabile è poi ciò
che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha
in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" --
De inv., l, 46. Con questa definizione, C. mette in evidenza due caratteri: quello
probabilistico e quello doxastico. Il primo di questi e da Aristotele
attribuito peculiarmente all'”eikos” -- verisimile. E infatti i primi due
esempi sono di un tipo che Aristotele classifica come “eikos”. “e è madre, ama
suo figlio” – “Se è avido, non fa gran caso del giuramento.” (De inv.). In essi compare anche il tipico
rapporto di generalizzazione che per Aristotele definine il verosimile -- Arist.,
Rhet.. C'è però un terzo esempio. "Se c'era molta polvere nei calzari, era
sicuramente reduce da un viaggio" -- De inv.- che non sembra dello stesso
tipo, ma è più vicino al semeion aristotelico. La categoria di “signum”, poi,
compare come una sottopartizione del segno non necessario, accanto al “credibile”
-all’ “iudicatum” e al “comparabile.” Se le ultime tre nozioni – credibile,
iudicatum, comparabile -- appaiono distinte in base a criteri estrinseci (e
scompariranno nelle trattazioni successive), il “signum” corrisponde a una
categoria di fenomeni abbastanza particolare. "Segno è ciò che cade sotto
qualcuno dei nostri sensi e indica (significa) un qualcosa che sembra derivato
dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il
fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una
conferma più sicura" -- De inv., I, 48. Ne sono esempi: "il
sangue", "il pallore", "la fuga", "la
poivere". Si tratta, come si vede, dell’indizio, inteso come fenomeno percepibile,
scarsamente codificato e generalmente non volontario. Qui sono presentati in
una forma non proposizionale. Ma niente vieta che venga sviluppato in
proposizio ni, come dimostra il caso dell’indizio "polvere":
"Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio". L’indizio, infine, venne suddiviso secondo la nota relazione
temporale con il fatto criminoso. Nelle “Partitiones oratoriae”a
classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità.
Innanzitutto la terminologia viene completa mente latinizzata. Dall’altre,
l’indizio -- qui chiamato “argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero
solet fiori élut quod in opi nione positum est") es.: ..
"pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaia come
sottopartizione di un'altra categoria. Il concetto asume un ruolo autonomo.
(·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se
ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et
quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue",
·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio---signum erodibile indicBtLm
comparabile / -- --. Infine, viene accettata la distinzione aristotelica tra
"luoghi estrinseci" -- corrispondenti alle "prove
extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' -- corrispondenti
alle "prove tecniche", éntechno1’ -- che venne criticata nel “De inventione”
(Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei “Topica”. È curioso notare come tra i
luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane,
anche quelle divine: gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di
sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è
sicuramente un residuo di una concezione ordalica e antichissima
deli'amministrazione della giustizia. Tuttavia è anche un indizio di un
continuo riaffiorare del paradigma divinatorio all'interno del fatto semiotico,
anche quando ormai il segno si e completamente “laicizzato”. Né questo è
un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura, si
ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si
esprime: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane
l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche
dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno
caratteristico. Il segno umano e invece trattato come un argomento intrinseco,
in particolare tra quello che riguarda lo stato di causa congetturale. La
congettura può essere tratta da due tipi di segni: il verisimilie e la nota propria
rei ( Il verisimile, come dice C., è "ciò che accade per lo più"
(Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo
particolare". Questo tipo di segno corrisponde all’”eikos” aristotelico,
di cui ha il carattere probabilistico e generalizzante. La “nota propria rei” e
definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una
cosa certa, come il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evidentemente,
del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso
dell'aggettivo “propria”, che rimanda alla nozione di fdion semeion -- segno
proprio. Per Aristotele, segno proprio e la caratteristica specifica di un
certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità,
segno del coraggio (An. Pr.). Il segno proprio ha puo carattere di necessità e
si define come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui
rimanda (Philod., De signis). Ci e, poi, il “vestigium facti,” dei
quali venneno dati questi esempi -- "un'arma, macchie di sangue,
grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor so
contraddittorio, tremore, gli indizi materiali della premeditazione, le
confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). C. non define QUf)tO tipo di segni, se non
dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratteristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, ed agli argumenta di Cornificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigium facti e più in relazione con
il segno necessario (nota propria rei) o con il verisimile) (Crapis 1986:
61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la
necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile
che essa corrisponda alla categoria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai
tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle “Partitiones oratoriae” (1
14), dove ricorrono esempi analoghi, il vestigium facti (chiamato lì anche signum)
vennne definiti come “consequentia”, cioè inferenze che si traggono dal
conseguente, caratteristica che define appunto, per Aristotele, il segno non
necessario. Ma mentre Aristotele condanna i smefa da un punto di vista epistemologico
per la sua insicurezza, C. è pronto a riconoscerne l'efficacia qualora si
presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Molte cose collegano la
retorica giudiziaria alla divinazione. Innanzitutto, il fatto che entrambe si
avvalgano del segno per arrivare alla conoscenza di un fatto non direttamente
accessibile alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una
distinzione tra aspetti che sono eminentemente congetturali e altri aspetti
che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue
- uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine · coniecturs
-verisimilie (quod plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam alrter frt
certumque declarat) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congetturali) e prova extratecnica
corrisponde la distinzione tra divinazione artificiale (basata sull'interpretazione
e sulla congettura) e divinazione naturale. Infine, come C. polemicamente
rileva (De div., II, 55), il segno della divinazione e talvolta interpretati in
maniera diametralmente opposta, proprio come avviene nel processo, in cui
l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni diverse
ed entrambe plausibili. Ma C. apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria,
mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della divinazione. In linea,
infatti, con un vasto gruppo di intellettuali della sua epoca, educati ai
metodi di indagine della filosofia a fondamento razionalistico, e contemporaneamente
impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra
religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La
religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai
fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello
stato stesso. La superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi
spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere
respinta, anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel
suo impegno di gestione della repubblica. C. affronta questi argomenti nel
De natura deorum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que
st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello
Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che
legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di C. contro
la teoria sostenuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché
costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e
contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. Secondo la
teoria di Quinto, gli dei si pongono come fonte dell'informazione e come
emittenti nei processi di comunicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono
i destinatari. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il processo
comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla “divinatio
artificialis”, in cui l'interpretazione del segno è legata a un'ars, ovvero a
una tecnica professionale di decrizione, demandata a specialisti, ciascuno
esperto in un settore: extispices -- esaminatori delle viscere --, interpretes
monstrorum et fu/gurum (interpreti dei fatti prodigiosi e dei fulmini),
augures -- interpreti del volo degli uccelli --, astrologi -- interpreti delle
stelle --, interpretes sortium -- interpreti delle combinazioni di tavolette
mescolate in un'urna ed estratte a caso. In tale divinazione, l'informazione
proveniente dal divino si materializza prima di tutto in una sostanza
espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto
semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo
sono dati dalla teoria, di origine del Portico secondo cui tutti i fenomeni
sono legati tra di loro in una catena di cause ed effetti, senza soluzione di
continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il logos divino e costituisce il fato (heimarméne),
non è conoscibile per intero da parte degl’uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza
di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una
gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre
quantoprimaèaccaduto"(De div.).Questofasìche gli uomini, attraverso
l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si ripetono e, pur
non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne
gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem).
Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle connessioni passate, si crea
un vero e proprio codice basato sul la iteratività. Si può schematizzare così
il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla
iterattività. Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in
quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto
da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un
segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivanti da
invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il
palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è
quello delle teorie del Liceo (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente nominati,
De div.), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale col divino, una
volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che
la legano al corpo, partecipa direttamente del divino. Il ruolo del codice è in
questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: emittente
divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano. Le obiezioni che C.
muove ai sostenitori della divinazione si basano su argomenti specificamente
semiotici. La tesi generale, mediante la quale C. nega valore alla divinazione,
è che essa non ha veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa
interpreta come segno non e tale, ovvero che non si comporta veramente come d’antecedente
rispetto a di conseguente. Per distinguere un segno vero rispetto a quello presunti
della divinazione, C. istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come
la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino
e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione
del futuro a partire da certi indizi. Ma, mentre le pratiche professionali
adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars),
ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De
div., II, 14), le prati che divinatorie si basano sul "capriccio della
sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue
prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade re" (De
div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice
(anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il
caso è del resto la stessa con cui i medici ippocratici tendevano a
distinguere la propria scienza professionale dalla divinazione e dalla
medicina magica (Antica medicina). C. poi si sbarazza in termini razionalistici
della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe
appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e
insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la
divinazione presenta dal punto di vista semiotico. Le interpretazioni di uno
stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., Il, 83). Si
verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente,
per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio
so, ma a ben diverse cause naturali (De div.). L'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni necessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div.). In certi casi l'interpretazione è motivata da ragioni
di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).Grice:
“Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb Classical Library,
a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since there are quite a few volumes
dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the revised pronounciation,
/kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually. His favourite target of
attack was Marcantonio, which paid him good, since Marcantonio sent someone to
cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote about me’). He accuses
Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s ideal of VIRTUS –
virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if you look for it in
keywords – or even better masculinities in the plural. The sexuality side to
the masculinity was of little importance to the Romans and Cicero – the
‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between ROMAN MEN and
future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated his first
beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not count since a
lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE becoming
free. So, even though, while becoming free they attained the rights of the
Roman man, they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE man is
a Roman male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure a ROMAN
man wanted to find he could rely on two very practical institutions – one was
that of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire. The ROMAN
man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that his
SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would not be
a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if this
‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s desire, it
was the job description of a job he never applied to. The other very useful
institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes lexically between
MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is some overlap here.
While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s no reason why he
should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into prostitution by a pimp –
so slave – nonliberus – and prostibulum were not exclusionary. Again, in the
case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the Roman man to pretend that the
desires of the PROSTIBULUM counted. They were there to please. Brothels – there
was one called Ganymede, in Ostia – quite popular, next to a latrine – had all
the amenities of bedrooms, locked doors, etc.. WHAT MATTERED to the ROMAN man
was that his REPUTATION OF VIRTUS – or masculinity as self-control – kept
untouched, so that the receptive role in the sexual act would have no witnesses
if it occurred at all. Cicero was well aware of all this. But it would be
idiotic to focus just on CICERO. The keyword should be ROMAN MASCULINITIES, and
Ancient Rome. In this way, we can cover the periods of the archaic regal
period, the republic – Cicero and Cesare – and the Empire. When it comes to
professional philosophers one has to be careful in that they were a breed
apart. They catered to the very elite, so their views did not represent
‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero mentions a law against
‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’ against any of the two sexes.
The evidence for the philosopher should include visual, and literary. Virgil
and his national epic count large – and the Hellenistic references he makes to
Ganymede and his Niso ed Eurialo being erastes and eromenos would be understood
to his audience. And so would Hadiran’s affair with this foreigner (a replica
of the Ganymede myth – and Cicero calls Marcantonio a ‘ganymede’ --. Like Zeus,
Adrian was the MASCULINE VIR VIRTUOUS, dominant and controlling. Like Ganymede,
Antinous was the foreigner subservient!” Manetti has explored the semiotics of
CICERO in some detail. In general, he approaches first CORNIFICIO, who is the
author of a treatise on rhetoric for long attributed to Cicero. The semiotic of
Cicero is lawyer-based. His idea is that if x, y. x is a sign of y. y is the cause of x. x is
the effect of y. He is interested in semiotics as part of the analytica – or
demonstration which is not necessary. It is interesting to compare Cicero’s
semiotics with one by this Spaniard, Quinitilian. Quintilian, possibly a
homosexual, had an obsession with what signs qualify as naturally meaning that
the person is a homosexual. He said there were none. It is in this discussion
that semiotics works. Grice: “Cicero was quoted twice at the Mostra augustea
della romanita – a sentence, and Svetonio’s description of the birth of
Augustus under his consulship.” A topic of analysis if ‘natura’. There are
natural tendencies in man. And some which are CONTRA NATURAM. Oddly,
semioticisans like Cicero and Quintilian refer a lot to these ‘contra-naturam’
conventions – or non-naturale. Grice: “Austin liked Cicero because he made
ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Il C. di Rensi. Spero enim homines
mtellecturos quanto sit omnibus odio crudelitas et quanto amori
probitas et clementia. C. Cassio in Cic., Ad farri. XV, 14 C.
Renisi . Vita parallele,li due filosofi 4 C.
era vicino ai sessantanni, quando lo Stato legale romano, che già
precedentemente aveva subito terribili scosse, ma che mediante una saggia
riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo stesso tronco senza frattura
o soluzione di continuità, riceveva da Cesare il colpo di
grazia... Non è più necessario rivendicare la grandezza di C.
contro le denigrazioni del Mommsen e di altri due o tre storici tedeschi
(I). Egli non era una ràbula e un politico superficiale. Bensì un
uomo di Stato dallo sguardo ampio e sicuro, nel cui animo si radicava e
viveva di vita vigorosissima tutta la grande tradizione politica
romana, Una bella e vivace confutazione del Mommsen si può leggere
nel saggio di A. Horncffer, Cicero und die Gegenwarl, contenuto nel
volume Das Klassische Ideal (Lipsia, Klinkhardt, 1909). L' Horneffer però
rivendica solo il valore di C. come epistolografo e oratore, non
come filosofo. e pur senza che
l’animo servilmente vi soggiacesse, ma, anzi, insieme, con la chiara
coscienza della nuova direzione che quella tradizione doveva prendere, e
della misura e forma in cui doveva prenderla, per svilupparsi fecondamente e
superarsi vivificandosi. Accanto a ciò, mente che s’era impadronita di tutta la
più alta cultura dell'epoca : Demostene e Platone insieme pel suo paese,
come riconosce Wilamowitz-Moellendorf Accanto a ciò, una
squisitissima sensibilità artistica e una passione vivacissima per le
cose d’arte ; basta vedere quanto “ vehementer , com’egli stesso dice,
attendeva che Attico gli mandasse sculture ed oggetti artistici greci: “genus
hoc est voluptatis rneæ (Ad Att.) ; e basta aver letto
attentamente le sue orazioni e aver scorto il perfetto senso d’arte con
cui sono costruite e che vi circola. Accanto a ciò, infine, una
sensibilità in generale per le cose, le persone, gli eventi, gli affetti,
così moderna, che in lui, nella sua pronta e multiforme
impressionabilità, ritroviamo interamente noi stessi : e il suo dolore
erompente e pieno di accenti passionali per la morte della figlia
Tullia, è il palpito d’un cuore dei nostri tempi. Uomo, in una parola;
assolutamente completo. Platon. Un filosofo di così sottile e sicuro buon
gusto e di cosi grande penetrazione storica (e particolarmente Il
rimprovero che gli si fa di debolezze e incertezze è uno dei soliti rimproveri
che gli eroi di poltrona hanno quasi sempre occasione di rivolgere al
grande che si è trovato a dover davvero vivere avvolto da un gigantesco turbine
di avvenimenti, e che nemmeno se fosse stato mille volte più grande
poteva abbracciarne tutte le fila, come è invece agevole a quelli che non
fanno se non pacificamente rileggerli nel loro tranquillo gabinetto
venti secoli dopo. Egli non fu debole ed incerto nè nella repressione
della congiura di Catilina, nè nella lotta per la salvezza della costituzione
contro il cesarismo rinvelenito da Antonio, lotta che chiuse cosi
gloriosamente la sua carriera mortale. Le sue incertezze di altri momenti
sono unicamente frutto della sua profonda moralità. Perché l’uomo
fondamentalmente morale e intelligente, in mezzo a cataclismi enormi che
travolgono gli individui come fuscelli, quali quelli in cui C. si
trovò, mentre non può operare contro coscienza, e per questa, che
pure sarebbe l’unica via possibile, salvarsi o tornare a grandeggiare, però
avverte anche i pencoli micidiali a cui espone sè ed 1 suoi operando
secondo coscienza : e la condotta risultante è necessariamente quella che
tracciano le fluttuazioni di tale angoscioso conflitto
interno. circa la storia romana) come Montesquieu ne dà questo
giudizio. Ciceron,
selon moi, est un des plus grands espnts qui aient jamais été (Pensées
diVerses), Ab illis est periculum si peccare, ab hoc si recte fecero, nec
ullum in his malis consilium periculo vacuimi inveniri potest {Ad Att, X, 8). Quando i frangenti in cui un uomo si trova
realmente a vivere sono davvero quelli così delineati, si può
domandarsi se sia umanamente possibile la rettilineità che esigono da lui
coloro che poi spulciano comodamente gli eventi della sua vita. Sicuro
e diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che non sente
scrupoli : il cinico ed elegante arrivista Celio Rufo, che a C. da questo
consiglio {Ad. Di'». Vili, 14): “ Suppongo che non ti sfugga come
nelle discordie politiche interne gli uomini debbano seguire, finché si
lotta senz’armi, la parie più onesta, ma la più forte quando vengono in
gioco guerre ed eserciti, e stabilire che è migliore ciò che è più
sicuro (Celio Rufo, del resto
ottimo scrittore, tanto che per molti umanisti ed altri dotti è ancor oggi il
miglior modello di stile). Ma C. era un uomo di coscienza. Questa
soltanto, non la sua incapacità mentale, la causa della sua rovina.
Egli era andato con Pompeo, non già sedotto dalla speranza della
vittoria, ma quando la causa di costui era ormai pressoché perduta e con
la piena nozione di tale condizione di cose, e mentre Cesare,
Antonio, Celio, per cercar di trattenerlo almeno neutrale, gli facevano
offerte larghissime : secuti non spem, sed officium {Ad Div.). Vi era andato essendo
consapevole, non solo dell’inettitudine e impreparazione di Pompeo e di
quelli che erano con lui, ma altresi del fatto che poco o nulla c era da
sperare da essi circa la restaurazione della legalità, animati come costoro
erano da propositi di persecuzione sillana (Ad Att.; Ad D/v.), e
chiaro ormai essendo che dai pompeiani non meno che dai cesariani
non si pensava che a far man bassa dello Stato: “ regnandi contendo est »
(Ad Att.), “ dominatio quaesita ab utroque est, non id actum beata
et honesta civitas ut esset. Vi era andato straziato dall’ idea d una
guerra civile e unicamente in obbedienza a considerazioni d ordine
morale. E’ la coscienza che ci costringe, scrive ad Attico (X,8), a
staccarci da Cesare più ancora se vincitore che se vinto, per non essere
solidali con ciò che seguirà alla sua vittoria, stragi, estorsioni,
violenze “ et turpissimorum honores, et regnum non modo Romano homini,
sed ne Persae quidem cuiquam tolerabile Era andato da Pompeo, senza
illusioni e speranze, unicamente per senso del dovere. Sed
valuit (scrive più tardi a Cecina) apud me plus pudor meus quam timor ;
veritus sum deesse Pompeii saluti, cum ille aliquando non defuisset
meae. ltaque vel officio, vel fama bonorum, vel pudore victus, ut in fabulis
Amphiaraus, sic ego prudens ac sciens, ad pestem ante oculos
positam sum profectus (Ad Div.). Egli sapeva cioè di andare alla
rovina e vi andò in obbedienza a yu principio d'onore (pudor) e di
gratitudine, per quel poco che Pompeo aveva fatto onde richiamarlo
dall’esilio. “ Pudori tamen malui famaeque cedere quam salutis meae rationem
ducere riconferma a M. Mario. E ritornando più tardi in una lettera
a Torquato, che aveva anch’egli seguito la parte pompeiana, su
quell’episodio a entrambi comune, sente di poter ricordare in cospetto al
correligionario politico nec nos victoriae praemiis ductos patriam olim et
liberos et fortunas reliquisse, sed quoddam nobis officium iustum et pium
et debitum reipublicae nostraeque dìgnitati videbamur sequi, nec cum
id faciebamur tam eramus amentes ut explorata nobis esset victoria.
Ne è questa un’opportunistica configurazione postuma della sua condotta di quel
tempo. Basta percorrere la sua corrispondenza con Attico (suo amico intimo e
suo editore, uomo consumato nell’ impresa di tener il piede in più
staffe e nella difficile arte di conservarsi amici i vincitori senza inimicarsi
i vinti) per constatare che tale veramente, cioè il senso del
dovere, era il nobile sentimento da cui fu mosso. Officu me deliberalo cruciat,
cruciavitque adhuc ; cautior certe est mansio ; honestior existimatur
traiectio (Ad Alt.). E quando Pompeo è pressoché spacciato e stretto da
tutte le parti, e C. è ritornato in Italia, egli si cruccia proprio
di questo suo atto da cui gli sarebbe derivato vantaggio e che poteva
quindi essere reputato abile, e si rammarica di non essere stato con
Pompeo sino alla fine; “ numquam enim illus victoriae socius esse volui ;
calamitatis mallem fuisse (Ad
Att.). Il principio, insomma, che in un’altra posteriore
circostanza, piena di pericoli mortali, nella sua lotta contro
Antonio, egli enuncia a Planco così : “ mihi maximae curae est, non de mea
quidem vita, cui satisfeci vel aetate vel factis vel gloria, sed me patria
sollicitat ( Jld Dio.), questo è il principio che domina costantemente nell’animo
di C., insieme con l’insormontabile ripugnanza, o meglio con 1’
impossibilità, di venir meno al rispetto verso se stesso. Allorché,
essendo Cesare incontrastato padrone, l’accomodante Attico gli dà
il consiglio di obbedire ai vincitori, “ non mihi quidem (egli risponde)
cui sunt multa potiora (Ad
Att.). Certo, un uomo mosso prevalentemente da sentimenti di tale natura,
nelle tragiche vicende pubbliche da cui si trovò avvolto C., va al fondo.
Resta a vedere se ciò sia un indice di inferiorità o se non lo sia
piuttosto quel successo che è raggiunto (e la cosa è facile) in grazia
dell’assenza di tali sentimenti, della mancanza d’ogni freno etico, dell
insensibilità ad ogni scrupolo di coscienza, della nessuna riluttanza a violare
cinicamente ogni principio di diritto e di morale. Nè r uomo che aveva
cominciato la sua carriera attaccando coraggiosamente nell’orazione prò
Roselo un favorito potentissimo di Siila, era un pavido. Dimostrò
ancora di non esserlo e nel suo consolato e nell’ultima fase della sua vita.
L’apparenza di timidità da lui talvolta offerta, deriva da ciò che
egli, come disse di sè, si preoccupava grandemente dei pericoli nella
rappresentazione e raffigurazione mentale anticipata di essi, non già che
titubasse poi ad affrontarli nella realtà. Quintiliano narra : “ Parum
fortis videtur quisbusdam : quibus optime respondit ipse, non se timidum
in suscipiendis, sed in providendis periculis. E’ press’a poco ciò che egli
scrive a Toranio: mi accusavano di essere timido, “ eram piane,
timebam enim, ne evenirent, quae acciderunt
; mi dicevano timido, “ quia dicebamus ea futura, quae facta
sunt (Ad Dio.). Nè è giusto accusarlo
di non aver saputo intuire con chiarezza le situazioni e di essersi per
questa deficienza di sguardo gettato a corpo perduto a combattere
per soluzioni che la realtà escludeva. È questa la solita iniqua condanna
che ì posteri, aggiungendosi ai contemporanei nell’incensare i vincitori
e nel dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano contro colui
che difese la causa rimasta storicamente soccombente. Quasiché il fatto che una
causa sia rimasta storicamente sconfitta dimostri anche che era giusto e
logico che essa lo fosse ; quasiché il mero fatto, il fatto del successo,
sia anche verdetto di giustizia e logicità ; quasiché assai spesso la
causa storicamente prostrata non sia quella che avrebbe dovuto
vincere. Che la cosa stia così nel caso di C., lo dimostra il fatto che
la causa da lui combattuta e che vinse costituì la rovina della vita
di Roma : basta per accertarsene constatare che nella stessa nostra
memoria di posteri la vita di Roma resta chiaramente presente e attira la
nostra appassionata attenzione appunto sino ad Augusto; ci
rimangono ancora come appendice già torbida i primi imperatori ; poi
tutto ci si confonde dinanzi in un lungo stato comatoso chiazzato di
continui sussulti sanguigni, in cui (se non siamo storici di professione) non
distinguiamo piu ne nomi, nè persone, nè eventi, di cui non ricordiamo,
nè c’importa ricordare, più nulla. Si rammenti come, per es., scorgeva
Roma Massimo d’Azeglio. “ Fra tutti gli Stati dell’antichità è Roma
quello che ho in maggior stima, fino all’epoca dei Gracchi, intendiamoci
! lo ammiro que’ tempi durante i quali dominò la legge ; durante i quali
le più bollenti passioni agitate dai più vitali interessi, non cercavano
altr armi nè altre vittorie che un voto ne’ Comizi . E poco prima :
Se è giusto e vero il principio fondamentale delle Società moderne,
essere la legalità di un governo dipendente dalla volontà del popolo che
vi è governato, vorrei sapere se 1’umanità consultata avrebbe ne’ tempi
dei Romani votato [Nemmeno i mezzi che egli aveva messo in opera per
sostenere la causa che soccombette, soo inadeguati. Tutto, invece, egli aveva
provvisto ; tutto quanto era necessario perchè essa vincesse: aveva
cercato di assicurare ad essa l’appoggio e la fedeltà dei maggiori
personaggi militari e politici ; aveva costituito e messo in campo
eserciti poderosi ; con la sua parola teneva altissimo il tono
morale del popolo all’ interno. Se la causa non vinse, lo si deve, non a
un fato storico, a condizioni incoercibili insite nella realtà e
sfuggite allo sguardo di C., o al logos immanente nella storia ; ma
unicamente a due o tre puri casi, che potevano accadere diversamente e in
tal modo rovesciare la situazione. Dice in qualche luogo Rosmini
che “ uno de’ mezzi, co’ quali 1’ uomo può sciogliere la propria mente da
molti pregiudizi e da’ legami delle consuetudini sensibili, si è
l’esercitarsi a considerare le cose non solo come sono, ma come
potrebbero essere. Se vogliamo applicare questo precetto al periodo di
storia in discorso (come Renouvier in Uchwnie l’ha applicato in modo
grandemente interessante a tutta la storia occidentale dagli Antonini in
poi), scorgeremo agevolmente che due o tre futili casi, per
l'impero (Miei Ricordi, Barbera). Antologia Pedagogica a cura di G.
Pusinieri, Rovereto, Mario] i quali fossero avvenuti diversamente,
sarebbero bastati a cambiare del tutto la faccia delle cose; se, p.
e., Lepido non avesse tradito, o se un giavellotto l’avesse ucciso quando egli
si mosse per portar soccorso ad Antonio ormai disfatto, se Planco
non avesse fatto il doppio giuoco, ciò sarebbe bastato per far di C. il capo
dello Stato romano, e perchè egli occupasse nella politica di Roma
d’allora, e nella storia, il posto d’Augusto. E quanto lo Stato romano e
la posterità sarebbero stati più fortunati se il potere fosse venuto in
mano ad un uomo di rettitudine profonda e di vivo senso del diritto e del
dovere, come C., anziché ad un uomo la cui bassezza d animo è provata
luminosamente dal fatto che, avendo cominciato ancora puer o adolescens,
come sempre C. lo chiama, (sed est piane puer n \Ad Att. XVI, 11), ad
essere qualcosa solo per 1 appoggio datogli appunto da C. e con lo strisciarsi
umilmente ai suoi piedi (“a me postulat primum ut clam conloquatur mecum
Capuae vel non longe a Capua ducem se profitetur nec nos sibi putat
deesse oportere ; binae uno die mihi
litterae ab Octaviano; “ deinde ab Octaviano cotidie litterae, ut
negotium susciperem, Capuani venirem, iterum rem publicam servarem » ;
mihi totus deditus; “ nobiscum hinc perhonorifice et amice
Octavius Ad Jltt. XVI, 8, 9, 11,
XIV, 11, 12), non si trattenne dal sacrificare ad una propria maggiore
ascesa la vita di colui che l’aveva sorretto nei suoi primi passi. Uomo
egli, si, veramente, pusillanime, che vinse le guerre solo per
mezzo dei suoi generali e specialmente di Agrippa , e non aveva il coraggio di
presentarsi nel campo se non dopo che Agrippa gli annunziava la vittoria
(Svet. Aug. 16). Fondamentalmente istrione e poseur come risulta dal
fatto, narrato da Svetonio (Aug. 84), che non comunica mai nemmeno con
sua moglie senza scrivere prima e leggere ciò che voleva dire, nonché
dall’altro, sempre narrato da Svetonio, che egli amava stilizzare a
particolare espressività e luminosità i suoi occhi, “ quibus etiam
existimari volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque
[Octave lui [a Sesto Pompeo) fit deux guerres laborieuses ; et
après bien de mauvais succès il le vainquit por i’habilité d’Agrippa... Je crois qu’ Octave est
le seul de tous les capitaines romains qui ait gagné 1 affection
des soldals en leuv donnant sans cesse des marques d’une làcheté
naturelle (Montesquieu, Grandeur et
Dócadence des Romains. Tanto
Cesare quanto Augusto avevano l’abitudine di citare dei versi delle
Fenicie di Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva
scelto è rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare amava
citare i versi 524-525 : “se c' è un caso in cui sia bello violare il
diritto, è quando lo si viola per conseguire la tirannide citazione
signifìcatiice dello spirito violento e illegale. Augusto amava citare il
verso 559: è meglio per un generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che
essere ardito (ihf aouc) ; citazione
significatrice della vigliaccheria (cfr. Cicer. De Off. Ili, 21, 82 e
Svetonio Aug.] si qui sibi acrius contuenti quasi ad fulgorem solis
vultum summiteret e infine in modo palmare dalle parole (“ ecquid iis
videretur mimum vitae commode transigisse ) e dalla citazione greca richiedente
1 applauso per la commedia ben riuscita, con cu; egli chiuse la sua
esistenza (ib. 99). Uomo che desta particolare antipatia precisamente
in grazia del suo proposito di moralizzare la vita romana ; perchè
niente è più ripugnante del dissoluto che si da il compito di costringere gli
altri alla virtù e posa a restauratore della morale pubblica ; e Augusto
aveva cambiato tre mogli prendendo 1 ultima al manto sotto ì suoi stessi
occhi, conducendola con sé in un altra stanza donde era ritornata
spettinata e con gli orecchi rossi, e poi introducendola in casa propria
incinta d’un altro; aveva commesso le oscenità che narra Svetonio,
irripetibili, tranne forse una : “ adultena quidem exercuisse ne amici
quidem negant; e dopo ciò faceva udire le parole ammonitrici di vita
austera e imprendeva a ricondurre i costumi alla prisca severità (I). La scandalosa condotta di sua
figlia e di sua nipote, che condusse [A cool head, an unfeeling
hcart, and a cowardly disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to
assume thè maske of hypocrisy, which he never afterwards laid
aside. With thè saine hand, and proba’bly with thè same temper, he signed
thè proscription of Cicero and thè pardon of Cinna. His virtues, and even his vices, were
artifìcial (Gibbon, Decime and Fall] all’esilio
di entrambe, e di Ovidio complice o pronubo, dimostra che nella sua famiglia
stessa si aveva il senso netto del come si poteva prendere sul
serio una riforma morale che pretendeva attuare un individuo di siffatta ìndole
e di siffatti precedenti. Non ostante che all’epoca del trionfo di
Cesare si avvicinasse alla sessantina, C. non. era uomo che non
sapesse comprendere i tempi. Li comprendeva benissimo, più profondamente
e sapientemente di Cesare e di Ottavio. La sua mente era in pieno vigore.
Subito dopo quell epoca egli poteva scrivere quei suoi libri di filosofia
che suscitarono l’ammirazione dei contemporanei e furono e saranno letti
con entusiasmo o rispetto da tutte Coglie veramente nel segno
Aurelio Vittore : Cum esset luxuriae serviens erat eiusdem vitii
severissimus ultor, more hominum, qui in ulciscendis vitiis, quibus ipsi
veliementer indulgent, acres sunt . (cap. 1). E s. può dire d. lui quel che il Boissier
dice di Domiziano : 1 ar malheur, ce prince si sevère pour les
defauts des autres, etait luimème très vicieux. 11 avait fait des lois
rigoureuses contre l’adultere et il vivait publiquement avec sa mèce, la
bile de Titus, qu’ il avait enlevée à son mari et dont il causa la
mort en essayant de la taire avorter. Ce contraste etait choquant, et il
n’ ignorait pas qu’on en etait indigne (Tacite] le generazioni successive (I). Poco più oltre egli svolgeva anzi la sua
azione politica più abile, più decisa, piu energica e più importante, e,
insieme, con le filippiche raggiungeva un’altezza da lui ancora non
tocca nella forma d’arte che gli era propria : “ divina chiama giustamente un giudice certo non
facile, Giovenale (X, 125), la seconda di esse. La sua idea di portare
alla luce del mondo politico, sotto la sua direzione, il pronipote e figlio
adottivo di Cesare, ancora ragazzo (aveva appena diciannove anni),
accordandogli anche onori che a molti parevano eccessivi, e di riuscire
così giovandosi del nome di Ottavio a far rientrare il ribollente partito
cesariano nell’ordine costituzionale e a dominare in tal modo una
siInazione difficilissima, era una idea geniale, abilissima, da politico
grandemente avveduto, l’unica (I) Sull immensa influenza
esercitata da C. sui a t“ di tutti ' tempi ' veg § asi
‘'furiente r “, Z r fe,v C f er, 0 o ™ Wandel dcr Jahrhunderte I
d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson nella sua Vita di C. ( Heroes
of thè Nations Series ) dice giustamente che se si dovesse decidere quale
degli scrittori antichi maggiormente influì sul mondo moderno, la
decisione sarebbe,n favore di Plutarco e C. hrasmo, scrivendo ad un
amico, diceva che, se da giovane aonr enVa rf matUra era andato
sempre più apprezzando C.. Ld è proprio giusto il noto giu d.
Z .o di Quintiliano : “ Ille se profecisse sciat, (e s. può aggiungere:
tanto gusto letterario, quanto in retti Jne etico-politica) cui Cicero
valde placebit. G. Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi ] idea
che in quel terribile cataclisma poteva dar buoni frutti. Non è sua colpa
se 1 idea non riuscì, e proprio sopratulto per la perfidia senza
scrupoli del futuro Augusto. Per quanto avveduto e grandemente
intelligente, un uomo di Stato fondamentalmente onesto come C., non fa
entrare nel suo giuoco la supposizione di una perfidia enorme, di
gran lunga travalicante la media nequizia umana, come fu quella di Augusto; nè
si può accusarlo di incapacità se non ve la fa entrare, e se essa
gli si rizza impensatamente dinanzi mandando a picco i suoi piani più
accortamente e sapientemente elaborati . Fra il 4 1 e il 40 a. C.,
cioè all’età di circa sessantaqualtro anni, C. assume risolutamente, nel
momento più pieno di vicissitudini e pericoli, la parte di leader del
Senato e del popolo romano, come egli stesso scrive a Cornificio, “ me
principem Senatui populoque romano professus sum (Ad Dio. Xll, 24 2)
; spiega un’attività prodigiosa, tanto verso gli eserciti quanto
rispetto alla situazione interna, per dirigere (I) Giustamente
Platone osserva (Rep.) che le persone oneste sono facili ad essere
ingannate dai malvagi perchè non hanno in sé il modulo dei
sentimenti di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv éaotoT; ^ 7
iapaos'y|J.axa óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però il malvagio,
abilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta ingannato quando tratta coi
buoni, perchè, giudicando da se, e ignorando le indoli onesti, vede
dappertutto inganni (àruaT&v Tiapà xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;)] la
lotta contro Antonio ; getta di nuovo, attesta scrivendo ancora a
Cornificio, 1 fondamenti dello Stato con la prima Filippica: “ fundamenta
ieci reipublicae (Ad D/v. XII,
XXV, 1); e al giocondo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto faccia e
come ritenga che se dovesse in tale sua azione perdere la vita l’avrebbe
spesa bene ; “ sic tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes mini
aliud agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi liberique sint :
nullum locum praetermitto monendi, agendi, providendi : hoc demque animo
sum, ut si in hac cura atque admistratione vita mihi ponenda sit,
praeclare actum mecum putem (Ad T)iv. IX, XXIV, 3). “ In questi primi
mesi del 43, C. fu veramente il princeps, ch’egli aveva idealizzato
nel De republica : consigliere, esortatore, ispiratore del Senato, dei
consoli, dei governatori delle provincie
. Non è questa la condotta d un uomo le cui facoltà spirituali
siano illanguidite. Ma, sopratutto, a prova della sua esatta
comprensione dei tempi, basta ricordare come la riforma che occorreva allo
Stato romano, pessimamente attuata, secondo attestò la susseguente vita
F, Amateli, C. (Bari, Laterza).
Jamais C. n a joue. un plus grande róle politique qu à ce moment ;
jamais il n’a mieux mérité ce nom d’homme d Etat que ces ennemis lui
refusent (Boissier, Crcéron et ses amis]
dell’Impero, da Cesare e da Augusto, fosse stata prospettata per primo da
C. nel De Repubblica. L’introduzione,
cioè, d’un nuovo e più fermo principio d’autorità sotto forma di un
rector rerumpublicarum d’un “ moderator reipublicae d’un “ princeps
civitatis » (De Ti,ep.). Senonchè C., con molto maggior senso della
necessaria continuità di sviluppo dello Stato romano e con molta maggior
disinteressata cura di esso, non intendeva che questa riforma dovesse
rivolgersi a distruzione della costituzione esistente, bensì che dovesse
ingranarsi in essa e formarne un naturale complemento e uno svolgimento
spontaneo e logico ; “ homines non tarai commutandarum quam
evertandarum rerum cupidos , egli giudica i cesariani .(De Off.), mentre
per lui la costituzione romana, come esattamente nota lo Zielinski,
è “ capace di ogni progresso in quanto questo conducesse all’accettazione
e allo sviluppo di idee feconde (fordeTnder), non di idee distruttive. La
differenza tra il modo con cui egli concepiva la riforma e il modo con
cui la attuarono Cesare ed Augusto è si può dire scolpito dalle seguenti
sue due proposizioni: “ me nunquam voluisse plus quemquam posse quam universam
rempublicam (jdd Div.); “ ego sum,
qui nullius vim plus valere volui, quam honestum otium. Ovvero: la differenza
tra la concezione ciceroniana del princeps e la pratica applicazione
fattane da Cesare è resa nel bell’ emistichio con cui Lucano descrive il
modo di operare di quest’ultimo : gaudens viam fecisse ruina. Basta riflettere
a tutto ciò per scorgere tosto che non solo la mente di C. era nel
suo pieno vigore, ma altresì la sua comprensione dei tempi (se per
questa s’intende, non già furbesca valutazione personalmente
opportunistica delle circostanze, ma avvertimento delle necessità
profonde che ad un dato momento si presentano nella vita sociale e
politica d’un paese) era perfetta. Il * ‘ sovversivismo di Cesare è provato dal dolore che per
la sua morte manifestarono sopratutto gli Ebrei (“ qui etiam noctibus
continuis bustum frequentabant Svet, Caes.), cioè precisamente coloro che
nel seno nello Stato romano, da essi violentemente odiato, costituivano
la catapulta diretta a farlo saltare, e che, sotto la veste del
Cristianesimo, a farlo saltare effettivamente riuscirono. Si può anzi con
sicurezza dire che l’impero romano si deve agli ebrei, perchè furono i
loro lunghi tetri lamenti intorno al cadavere di Cesare che suscitarono
nella plebaglia quella sommossa per e attorno al rogo del dittatore, la quale
fece prender nuova forza al cesarismo. “ É noto come per la commozione
popolare che lo straziante rito ebreo provocò colle sue lugubri
lamentazioni orientali, se ne ingenerò quel tumulto che doveva mutare la
faccia de! mondo, mandando in fumo i diplomatici accordi con Bruto
e Cassio, che dovettero fuggire in Illirio : sicché ne vennero le lunghe
guerre civili e l’Imperio di Augusto (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano]
Mente possente, senso politico sicuro, comprensione dei tempi piena. Non si può
dunque attribuire a deficienze intellettuali il modo con cui C. valutò
Cesare e il movimento da costui capeggiato. Egli non vide certamente
Cesare come la sua figura si è plasmata nella storia, che corona
con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha trovato in ogni presente la
consacrazione del bruto successo di (atto. Lo vide come glielo presentava
la realtà immediata. Lo vide come lo vide Catullo: Pulcre
convenit improbis cinaedis, Mainurrae pathicoque Caesarique ; E
questo Caesar era proprio Caio Giulio Cesare e quel Mamurra (da Catullo
soprannominato Mentula) il suo generale del genio. A permettere al quale
di “ mangiare (il verbo si usava anche
in latino con questo preciso significato) milioni su milioni, il
commovimento politico aveva principalmente servito. Doveva essere una cosa nota
a tutti, se Catullo la mette correntemente in versi: Cinaede
Romule, haec videbis et feres ? Es inipudicus et vorax et aleo. Eone
nomine, imperator unice, Fuisti in ultima occidentis insula.
Ut ista vostra diffutata Mentula Ducenties comesset aut trecenties
?] Cinaede Romule Romolo debosciato, impudico, vorace e giuocatore : cosi
Catullo vede Cesare. E press’a poco così lo vede C. Egli non scorge
Cesare, quale il fanatismo interessato dei seguaci e poi gli storici l’hanno
costruito: gli storici, i quali (in generale) non fanno mai altro se non
aggiungere, per supino servilismo postumo, la loro adulatrice
consacrazione al successo di fatto e di solito non osano mai, per la
paura di passar per “singolari,,, sviscerare il clamoroso successo di
fatto ottenuto da un “ grande nella età in cui visse, mettendone
coraggiosamente in luce le vere molle, spessissimo casuali, o
basse, o vili, ma sempre invece per essi è “ grande colui che
nella sua epoca le circostanze, o la perfidia, o i misfatti hanno portato
in alto. Si vous avez une vue nouvelle, une idée originale, si vous présentez !es
hommes et les choses sous un aspect inattendu, vous surprenez le lecteur.
Et le lecteur n’aime pas à ótre surpris. Il ne cherche jamais dans une
histoire que les sottises qu’ il sait dejà. Si vous essayez de
l’instruire, vous ne ferez que l’humilier et le fàcher. Ne tentez pas de
l’éclairer, il criera que vous insultez à ses croyances... Un historien
originai est 1 objet de la défiance, du mépris et du dégoùt
universels». Questo è
l’abituale comportarsi degli storici, secondo la satira, aggiustatissima,
che ne schizza A. France (L’ ile des Pingouins, préf.). Ci sarebbe solo
da aggiungere che spesso il servilismo degli storici verso i personaggi della
storia che scrivono serve al loro servilismo verso i personaggi della
storia che vivono. C. vede Cesare muoversi davanti ai suoi occhi,
nella vita vera, non nella luce abbagliante del mito. Esso gli appare
screditato, corrotto, senza senso di morale nè privata nè pubblica, uomo
la cui vita, i cui costumi danno la certezza che si condurrà male :
e sopratutto la danno la gente che lo circonda. “ O Dii, qui comitatus !
in qua erat area scelerum! scrive ad Attico, dopo uno dei suoi
abboccamenti con lui. Egli sa che Cesare aveva cominciato a costruirsi la
sua potenza accaparrandosi e tenendo alle proprie dipendenze i
manigoldi audaci e bisognosi. Egli scorge ( I ) Nell'
interessantissima antologia di pagine storiche di Chateaubriand, testé
pubblicata dall’editore Tallandier sotto il titolo Scénes et portrails historiques,
si legge. Tout
personnage qui doit vivre ne va point aux générations futures tei qu’ il
était en réalité : a quelque distance de lui, son epopèe commence : on
idéalise ce personnage, on le transfigure ; on lui attribue une
puissance, des vices et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange
les hasards de sa vie, on les violente, on les coordonne à un
système, Les biographes répètent ces mensonges ; les peintres fixent sur
la toile ces inventions et la posterité adopte le fantóme. Bien fou qui
croit à l’histoire. L’histoire est une pure tromperie . E Montesquieu,
dal canto suo aveva già osservato : “ Les places que la posterité donne
sont sujettes, corame les autres, aux caprices de la fortune (
Grandeur et décadence des Romains. Habebat hoc omnino Caesar: quem piane
perditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam hominem audacemque cognorat,
hunc in familiaritatem libentissime recipiebat
(Fi/. Il,] radunata attorno a Cesare tutta la gente
equivoca e sospetta, violenta e disperata, tutte le anime dannate, vexu
(<x (Ad Att.), “ omnes damnatos, omnes ignominia affectos, omnes
damnatione ignominiaque dignos, omnem fere inventutem, omnem illam
urbanam et perditam plebem (Ad Att.),
tutti i giovani circa i quali pensava che “maximas republicas ab adolescentibus
labefactas,, (De Seti. VI), tutti coloro ch’egli chiamava « perdita
iuventus » (Ad Att. VII, 7) e poc’anzi « barbatuli iuvenes, grex Catilinæ,
«feccia di Romolo, i precursori di quella che poi Giovenale denomina
«turba Remi; cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare è
raggruppato tutto il canagliume della penisola, « cave autem putes
quemquam hominem in Italia turpem esse, qui hinc absit; osservazione
identica a quella che è costretto a fare il cesariano Sallustio: “
occupandae reipublicae in spem adducti homines, quibus omnia probo ac
luxuria polluta erant, concorrere in castra tua,, (De Rep. Ord.). Come
Catullo, C. vede con disgusto i cesariani ormai dominatori darsi al
lusso ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre Balbo (altro
comandante del genio di Cesare e sua longa manus in Roma) si costruisce
dei palazzi, “quae coenae? quae deliciae? at Balbus aedificat (Ad
Att.), e Antonio scorrazza l’Italia confi) Val la pena di riportare tutto il
passo perchè esso ducendosi dietro in una lettiga aperta la sua
amante in un’altra sua moglie, septem praeterea coniunctæ lecticæ
amicarum sunt an amicorum ? l^/JJ
Att. X, IO) (I). Tutto ciò desta in C. una nausea invincibile: “ nosti
enim non modo stomachi mei, sed etiam oculorum, in hominum inso- contiene
un’osservazione di indole psicologica e morale eternamente vera e colta
da C. dalla vita stessa che lo circondava : “ At Balbus aedificat ; tl
yàp «ÒTfij péÀst ; Verum si quaeris, homini non recta sed vuluptaria
quaerenti nonne [kfifwTai ? Cioè: “
Balbo pensa a costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò ? E
in verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la coscienza, ma
solo il suo interesse, fa bene a far così : può dire ho vissuto La
ributtante figura d’Antonio risalta scolpita non solo nelle lettere di C.,
ma, più ancora nelle Filippiche (v. specialmente FU. He. 18 e s.). Pagine
che stanno a dimostrare una volta di più come, in una situazione politica
tirannica ed eslege, anche persone notoriamente turpi possano salire ai
più alti gradi, perchè il controllo dell opinione pubblica e la
possibilità di censure sono soppresse dalla forza e la gente costretta al
silenzio. Non ostante, in un primo
tempo C., usando l’avveduta prudenza dell’uomo politico, aveva cercato di
persuadere quasi amichevolmente Antonio a rimanere nell'orbita
della legge. Ciò con la Fil. I, di cui è il caso di citare le seguenti
righe : “ Sin consuetudinem meam, quam in republicam semper habui, tenuero, id est,
si libere, quae sentiam, de republica dixero; primum deprecor ne
irascatur, deinde, si haec non impetro, peto ut sic irascatur, ut civi]
lentium indignitate, fastidium™ (Ad T)iv.] Quanto a Cesare, egli è per C. “
hominem amentem et miserum che non ha mai conosciuta neppur l’ombra
dell'onestà, che considera la tirannide come il maggior dono degli Dei, (Ad
Alt. VII, 1 1 ), capace di ogni scelleraggine, “ omnia taeterrime
facturum, uomo del quale “ vita, mores, ante facta, ratio suscepti
negotii, sodi fanno ritenere che non
potrà comportarsi se non “perdite,, (ib. IX 2 A, alias 2, § 2 e s.) La
sua condotta sarà anche resa peggiore di quel che per l’indole di
lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella guerra civile deve pur
contro sua volontà operare ad arbitrio di coloro che l’hanno aiutato a
vincere. “ Omnia (scrive a Marcello) sunt misera in bellis
civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria : quae etiamsi ad
meliores venit, tamen eos feroLa stessa ripulsione, e per la stessa ragione,
Filippo destava in Demostene. È circondato (egli dice) da ladri, da
adulatori, da gente che si abbandona a immoralità che non oso neanche ripetere
(01. 11, 19). E Demostene si illudeva che anche perciò Filippo sarebbe caduto.
Geloso e ambizioso com' è (egli dice) allontana gli uomini di valore, che
gli danno ombra ; gli uomini assennati e morigerati, che sono rivoltati dalle
sue immoralità (àxpaafav xoO pioti -/.al xal xopSaxia|jioOs)
sono da lui cacciati e ridotti a nulla, TrapEwaHa'. xal sv Ò'jSevò;
s!va'. |ispei (ib. 18). Ma pur troppo i fatti hanno sempre provato che è
vana speranza contare che queste ragioni facciano cadere un uomo dal potere.
L’esigenza morale non trova sanzione nella storia e nella politica.]ciores
impotentioresque (più sfrenati) reddit ; ut etiamsi natura tales non
sint, necessitate esse cogantur ; multa enim victori eorum arbitrio per
quos vicit, etiam invito, facienda sunt (Ad Div. IV, 9). E su
questo stesso pensiero insiste anche con Cornificio (Ad ©iv. Xil, 18) : “ Bellorum
enim civilium hi semper exitus sunt, ut non ea soium fiant, quae velit
victor, sed etiam, ut iis mos gerendus sit, quibus adiutoribus sit parta
victoria . La situazione scaturita dalla vittoria di Cesare appare a C.
un mostruoso sfacelo dell’eticità pubblica. “ Tutto allora in Roma
precipitava a rovina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, popolo,
senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio d’ogni cosa umana e
divina, poneva i fondamenti sanguinari la tirannia degli imperatori . C. vede come non appena Cesare, annientati
i suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica, ha messo
violentemente le mani sullo Stato, e in Il modo genuinamente
italiano di considerare Cesare è quello che un veramente grande italiano,
il Carducci, ci presenta nei due sonetti II Cesarismo, che
cominciano con le parole, estremamente significanti e pregnanti,
Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto Svolge il diritto, e dal misfatto
il fatto. Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente letti,
con la nota al v. 14 del secondo, che li accompagna. BARZELOTTI (si veda),
DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE NEI LIBRI DI C.] seguito a ciò “ omnia delata ad
unum sunt (jdd Div. IV, 9) al
punto che Cesare redige in casa sua, a suo libito, quelli che devono
apparire come senatusconsulta (Ad Div.), si formi un’atmosfera di falsità,
di servilismo, di adulazione universale, tanto da parte di privati quanto di
enti pubblici, cosicché non si distingue più il sentimento sincero
dalla simulazione, “ signa perturbantur, quibus voluntas a simulatione
distingui posset « (Ad Att. Vili, 9);
quell’adulazione e quel servilismo, che, diventati poi a poco a
poco oramai di rito, Lucano, più tardi sotto Nerone, stigmatizza con magnifici
versi, facendone risalire 1' inizio appunto al dominio di Cesare :
V Cette abjection de la patrie releva I’ àme de C. par l’indignation et
par la honte. La victoire de Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna. Le
succès, qui est la raison du vulgaire, est le scandale des grandes
àmes (Lamartine, C., Calmati-Levy). È
un saggio, poco conosciuto, in cui Lamartine, in forma simpaticamente
piana e scevra da ogni erudizione, presenta, nella sua nobile luce, e con
accenti assai elevati, la figura di C.. Ne vogliamo, a conferma di
precedenti osservazioni, estrarre ancora due passi. “ Les ambitieux, les factieux, les
séditieux, les corrupteurs et les corrompus, la jeunesse, la populace et la
soldatesque, les barbares mèmes enrólés dans les Gaules, étaient
avec Cesar. “ Coriolan... n’avait rien fait de plus monstrueux...
et cependant l’histoire a flétri Coriolan et a déifié Cesar. Voilà la
justice des hommes irréfléchis, qui prennent le succès pour juge de la
moralité des événements (154).] Namque
omnes voces, per quas iam tempore tanto Mentimur dominis, haec primum
repperit aetas. Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar,
abesset, Ausonias voluit gladiis miscere secures,
Addidit et fasces aquilis et nomen inane Imperii rapiens signavit
tempore digna Maestà nota (I). C. vede come, appena risultò che Cesare era
saldamente stabilito al potere, non solo i “sovversivi ma anche gli “ ottimati
le vecchie figure V. 386, —Si avverte che la parola “ imperium
qui non significa il nostro “ impero
ma “ officio pubblico legale Lucano vuol dire che Cesare copri
l’usurpazione, assumendo falsamente il semplice nome d’un officio
pubblico legale. Come è noto, è sopratutto col nome di potestà tribunicia
che ( usurpazione si effettuò. Nel libro, ricco di dottrina e di acume,
di G. Niccolint, Il Tribunato della Plebe (Hoepli, 1932) si mostra che 1’impero
si costitui deformando e nell’ istesso tempo assorbendo la potestà
tribunicia. « L'impero non era, in ultima analisi, che il trionfo della
democrazia [più esatto sarebbe dire : demagogia], e se chi aveva fondato
il suo potere sul partito democratico, non poteva abolire la pericolosa
magistratura, non gli restava che appropiarsela nella sua sostanza,
se non nella forma esteriore... Cosi la temuta magistratura, nata
per difendere la libertà del popolo, che conteneva perciò elementi di
sovranità atti a svilupparsi in tirannide... costituiva ora l’essenza del
potere civile del monarca » (pag. 1 59). — 11 contegno adulatorio e
vilmente opportunistico comincia con gli uomini il cui prototipo è
Attico. “ C’est assurément ce qui nous répugne le plus dans sa vie
; il a mis un empressement fàcheux à s’accomoder au regime nouveau (Boissier, Cicéron et ses amis.] politiche,
abili a restar sempre a galla, “ huic se dent, se daturi sint , sia pure
perchè terrorizzati, sebbene essi ora dicano che lo erano quando
ossequiavano Pompeo (Ad Alt.); come essi se^ venditant a lui, mentre i'municipi fanno di lm
vero Deum (ib. Vili, 16), e il grosso
del pubblico sta inerte, passivo, indifferente, non pensa che alla
propria tranquillità (“ otium ), non rifiuta, come non ha mai rifiutato,
nemmeno la tirannide dummodo otiosi essent, non si occupa che dei
campi, delle ville, dei quattrini, nihil prorsus aliud curant nisi agros,
nisi villulas, msi nummolos suos
(ib. Vili, 13) ; atonia che si aggravo ancora più tardi quando
diventava po^ tenie Antonio : “ mihi stomachi et molestiae est
populum romanum manus suas non in defendenda YA/I own, "
plaudendo consumere (Ad Att. AV| . lU- Ma questa prosternazione e
adula (I) Anche qui si riscontra un parallelo nella potente e \
ibrante invettiva di Demostene per l’inerzia dei Greci del suo tempo. Non
e senza ragione (egli dice) che i Greci una volta avevano a cuore la
libertà e ora invece hanno a cuore la servitù. Gli è che allora
(prosegue) vi iTera^ C ° Sa 'vi
Persian ° e fece la Grecia def rarH mVlnC |! bl 6 “ T* ® “
mare : ed era la fermezza (Filla 36 C 37ìT 81 asciavano corrompere e
comprare uiterr di bene ** Gr “ j .',, 1 era un tempo
non avere fil ventre el’ ^ “7 qUa 'Ì la misura della felicità
e il ventre e 1 inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole V ' l0X °
tS Tr ' v £tJ °aqtovtav) l a libertà fu bevuta alla ] zione universale,
questo continuo panegirismo ormai diventato di prammatica, non è, per C.,
se non un’universale falsificazione di coscienza, quella stessa per cui
più tardi egli osservava che i cittadini gementi sotto l’oppressione
avevano dato a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della
patria il titolo di parens patriae : “ potest cuiquam esse utile
faedissimum et taeterrimum parricidium patriae, quamvis ìs, qui se eo
abstnnxerit, ab oppressi civibus parens nominaretur ?,, {De Ojf. Ili, 83)
. Questa situazione che fa fremere d’orrore C. (2), nella quale egli trova che
non c e salute di Filippo e di Alessandro. E, data questa
vostra viltà e servilità, (dice altrove) è mutile che speriate
nella malattia o nella morte di Filippo : anche se muore, vi
creerete tosto voi stessi un altro Filippo, "ay^Éu; upet; gxepov
OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil.). In questo stesso luogo, volendo C.
dimostrare che l'utile e il giusto non possono distinguersi, scrive
fra l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di Cesare di voler
dominare tirannicamente la patria] si honestam quis esse dicit, amens est
; probat enim legum et libertatem mteritum, earumque oppressionem taetram
et detestabilem glonosam putat ». Come, aggiunge, può essere ciò utile
all usurpatore? Anche i re legittimi hanno avversari ; « quanto plures ei
regi putas, qui exercitu popuh romani populum ipsum romanum oppressisset
? Ricco com’era d’un pathos etico affine a quello di Kant, si intuisce
chiaramente dalle sue lettere e dai suoi scritti che egli sentiva
profondamente, come il filosofo tedesco, che il “ dovere relativo alla
dignità dell umanità in noi, e che è per conseguenza un dovere verso
noi piu posto“ non modo pudori, probitati, virtuti, rectis studiis, bonis
artibus, sed omnino Iibertati ac Dh - V. 16), gli appare
sopraia!, basata sulla menzogna e sul falso, perchè sotto 1
adesione, 1 adulazione, l’apoteosi che l’atmosfera ufficiale orma,
impone, circola larghissimamente quel malcontento e quell’esecrazione
generale verso ì distruttori dello Stato legale, che egli
constatava già precedentemente quando essi avevano iniziata tale
loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium omnium hominum in eos qui
tenent omnia ; mutationis tamen spes nulla Ad Alt. Il, 22). Questa esecrazione
generale, sotto le parvenze dell’ossequio più profondo, s’è ora concentrata in
Cesare, il quale, dopo poco tempo di dominio, ormai in realta
persino “ egenti ac perditae multiludini in odium acerbissimum venerit.
Invero, Cesare stesso sapeva d’essere odiato e di dover esserlo, sopratutto
per la posizione di superiorità e distanza, così urtante al senso
cittadinesco romano, che egli aveva finito per prendere : dopo la sua
uccisione, Mazio racconta a C. che stess., può esprimersi in modo
più o meno chiaro nei seguent, precetti: non siate schiavi degli uomini:
non permettete che, vostri diritti siano impunemente calpestati (Dottr. della Virtù). Che è, del resto,
il precetto evangelico : \ii) r £veafre SotW.c- àv&pdmwv (1,
SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É Xptaxòs UylCWXw!]) ^ ”
4Xlv tu r» G. Reati . Vita parallele di due filosofi avendo
dovuto una volta Cesare far fare anticamera a quest ultimo, aveva detto : se un
uomo come C. deve attendere per essere introdotto da me e non può a
piacer suo parlarmi, “ ego dubitem quin summo in odio sim ? (Ad Att. XIV, 1 e 2) (I).
A proposito dell’uccisione di Cesare. Vi sono molti i quali
pensano che perchè Bruto era stato « perdonato » da Cesare e poi anzi «
beneficato », egli dirigendo « il tradimento e l’uccisione del suo
benefattore », abbia dato « perfido esempio di cuore ingrato e
irreverente » (Corradi). Questa opinione è la tipica prova della completa
mancanza d’ogni senso di ciò che è diritto. Proprio il fatto che Cesare
gli aveva * perdonato », doveva essere per Bruto una giusta ed onesta
ragione di più per abbonirlo. Bruto aveva preso le armi contro Cesare in
difesa dello Stato legale : dunque conforme al diritto. Decidere sul
suo caso, condannarlo od assolverlo, spettava alle autorità legali
(Senato), non a un individuo. Il solo fatto che non già le leggi o le
autorità legalmente costituite, ma l’individuo Cesare, potesse a suo
beneplacito interrompere o far proseguire i processi, ordinare condanne o
assoluzione, assolvere Bruto, « perdonare » a Bruto (quasiché
condannare od assolvere, e, peggio, « perdonare », supposto si
trattasse di delitto, fosse di competenza d’un individuo, e
quasiché questo stesso fatto non comprovasse lo sfasciamento dello
stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di più per avversare e
condannare legittimamente l’uomo e il sistema, e per ricorrere ad ogni
mezzo onde liberarsene. — Che, per citare un altro fatto, onde far
ritornane Marcello dall esilio ì senatori abbiano dovuto pregare un
individuo, gettarsi ai piedi d un individuo, dell' individuo Cesare,
è un fatto che doveva legittimamente suonar condanna per [Era,
insomma, la situazione che un filologo italiano contemporaneo descriveva di
recente crn tutta esattezza così : “ La crescente potenza di
Cesare, il quale, dopo la funesta giornata di Farsalo, erigendosi a signore
assoluto, e sopprimendo la libertà della vita politica di Roma, aveva,
per primo, inaugurato la lunga e mostruosa serie degli
questo individuo, che si sovrapponeva in tal guisa alle leggi : condanna,
anche quando « perdonava », perchè precisamente così dimostrava che
dipendeva, non più dalle leggi assolvere o condannare, ma da lui
perdonare o no. Piena ragione ha Seneca quando in un capitoletto
pieno di considerazioni interessanti circa l’atto di Bruto, dice
che egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare, perchè
questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se non violando il
diritto e perchè chi non uccide non arreca un beneficio, ma si astiene da
un maleficio : in ius dandi beneficii iniuria venerai; non enim servavit
is, qui non interficit, nec, beneficiun dedit, sed missionem » (De
Benef.). Del pari piena ragione ha C., il quale, ad Antonio, che gli
rinfacciava come un benefizio usatogli di non averlo ucciso al suo sbarco
a Brindisi, rispondeva : questo è lo stesso beneficio di cui potrebbe
vantarsi un assassino per non aver ucciso taluno : quod est aliud
beneficium latronum, nisi ut commemorare possint iis se dedisse vitam,
quibus non ademerint ? » (Fil. II, C. 111). E si noti ancora che Seneca e
Lucano, vivendo entrambi alla corte di Nerone, il quale, pure, era della
casa Giulia, poterono il primo dare a Bruto la massima delle lodi
facendo dire da Marcello a sè stesso : “ tu vive Bruto miratore contentus (Ad Helviam), il secondo dipingere nel
suo poema con smaglianti colori di grandezza morale “ magnanimi pectora
Bruti. ] imperatori romani ; la viltà degli adulatori, che
disertavano il partito dei vinti per quello più vantaggioso dei vincitori ; le
mene degli ambiziosi, che, r er trar partito dalle circostanze ad
accumular potenza e ricchezze, pullulavano su su dal fondo di quella
corrotta società, come marcida fungaia dal fondo d’un’ acqua stagnante ;
le crudeltà dei prepotenti, che volevano, anche a mezzo di violenze e di
sangue, aprirsi un varco nella folla dei concorrenti a quella specie
d’albero della cuccagna ch’erano le usurpazioni dei poteri dello
Stato con le loro mille seduzioni e promesse di dominio e di saccheggio
dei beni pubblici e privati ; il vivo cordoglio e l’abbandono sconsolato
in cui vivevano, nell’esilio volontario o non volontario, le anime dei virtuosi
e degli onesti, fautori del partito repubblicano ; tutto insomma
contribuiva a mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe...
Anziché assopirsi, cresce a dismisura nelle classi non mai dome nel loro
caratteristico orgoglio, il malcontento per il nuovo regime... La miseria
intanto cresce spaventosamente in Roma e nella provincia ; lo spettro della
fame s’aggira nelle campagne desolate e incolte dell’ Italia ; le
classi medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed alla
disperazione... Torme di miserabili si vedono per ogni dove languire
d’ozio e di fame (I) U.
Moricca, Introd. a C. De Finibus, Torino, Chiantore,. Ora, tanto
appare a C. falsa e menzognera la situazione che egli è certo che non può
durare. La maschera di clemenza di Cesare e le sue bugie circa la
restaurazione finanziaria (divitiarum in aerario ) sono cadute; è
impossibile che egli e i suoi, non d’altro capaci che di scialacquare,
riescano ad amministrare soddisfacentemente le provincie e lo Stato ; cadranno
da sè, per gli errori propri, “ per se, etiam languentibus nobis,,, “
aut per adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi est
adversarius unus acerrimus ; questa
tirannide non può reggere sei mesi, “ iam intelliges id regnimi vix
semenstre esse posse. Probabilmente, ciò di cui C. avrebbe
sopratutto incolpati i cesariani è che essi cadevano in quell’errore che il
Romagnosi descrive così : “ La temerità e l’intolleranza sono i vizi che
sogliono guastare questo procedimento [inventivo dell’ incivilimento). Si pecca
di temerità allorché si tentano innovazioni o rifiutate dalla natura o
non preparate sia nei fondamenti, sia dal tempo. Si pecca d’intolleranza
allorché si vuole seminare e raccogliere ad un sol tratto, e però si passa ad
infierire contro attriti che da se stessi vanno cessando in forza della
riforma fondamentale già praticata. Siate severi nel mantenere la giustizia, e
nel rimanente lasciate operare il tempo sul fondo ben disposto. 1 vostri
stimoli artificiali, le vostre correzioni minute, invece di giovare
nuociono, invece di affrettare ritardano; e se per caso avrete un
frutto precoce, ne avrete mille falliti » {Dell’ Indole e dei Fattori
dell’ Incivilimento, Avvertimento finale). Auree parole d’uno dei nostri
massimi pensatori politici, che andrebbero anche oggi meditate e tenute
presenti. Alle] Tale previsione di C. andò incontro ad nna smentita
colossale. Quella “ divinatio
dell’andamento degli eventi che egli, ricavatala dallo studio e
dalla pratica, aveva la coscienza di possedere ( 1 ), qui gli fallì del tutto.
E' vero che Cesare quali vanno accostate, sempre ad illustrazione del
sentimento politico, che, in quelle perturbate circostanze, si
sprigionava vivo in C., le seguenti: “ guai a quel popolo, nel quale,
spento il punto d’onore, non prevalgono che poteri individuali! (/,/. di Ciò. FU Giurispr. T e °
r \. P \ 1,1 C - 1V ): nonché la sua affermazione dei diritti dell uomo,
da lui chiamati originaria padronanza naturale di ogni individuo. Quelli che
vennero appellati diritti dell'uomo formano appunto il complesso di
questa originaria padronanza. L’indipendenza, la libertà 1 eguale
inviolabilità e il diritto di difesa e di farsi render ragione, sono
tutte condizioni di questa originaria padronanza (Lett. a G. Valeri). Cu, quidem
divinationi hoc plus confidimus, quod ea nos mhil in his tam obscuris
rebus tamque perturbatis umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae ante futura
dixissem, ni vererer ne ex eventis fìngere viderer. Ad Dio.Exitus, quem
ego tam video animo, quam ea quae ocuiis cemimus. Ad Dio.Tamquam ex
aliqua specula prospexi tempestatem futuram (Ib. IV, 3). Questa sicura previsione
degli eventi, questo sicuro presentimento, C. lo possedeva in effetto.
Anche nella circostanza suaccennata egli prevedeva giusto, preveveva cioè
quello che tutto faceva ritenere dover accadere. Se i fatti si
svolsero in senso del tutto opposto alla sua previsione, si può, in
un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non C. Cioè che la realtà è
irrazionale e casuale, e che mai vi tu un periodo di storia che sia stato
come quello irrazionale e casuale.] è ucciso poco dopo e probabilmente lo
fu quando e perchè divenne chiara a tutti l’impossibilità in cui
egli era di dominare la situazione, di riordinare cioè seriamente lo Stato e di
soddisfare insieme le brame dei suoi seguaci , cosicché Mazio — uno dei
pochi cesariani onesti, che, come risulta da una sua nobilissima lettera
(Ad T)iv. XI, 28), non aveva sfruttato Cesare vivo, e che gli
rimase fedele anche morto, e anche durante quel momento in cui, subito
dopo l’uccisione del dittatore, il cesarismo sembrava crollato e i
cesariani in pericolo diceva, deplorandone la morte: che catastrofe
! non c’è più rimedio ; se lui, con 1’ ingegno che aveva, non trovava la
via d’uscita, (exitum non reperiebat), chi la troverà ora ?,, (Ad Att.
XIV, I ). Ma dopo la morte di Cesare, come appunto prevedeva Mazio le
cose finirono per peggiorare rapidamente. Anche C. è costretto a
constatarlo. Il tiranno perì (egli dice) ma vive la tirannia (Ad
Att.); Va però tenuta presente anche la profondissima osservazione
di Montesquieu : « Il étoit bien difficile que Cesar pùt défendre sa vie
; la plupart des conjurés étoient de son parti ou avaient été par lui
comblés de bienfaits : et la raison en est bien naturelle. Ils avoient
trouvé de grands avantages dans sa victoire : mais plus leur
fortune devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part au
malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il importe peu à certains
égards en quel gouvernement il vive » (Grandeur et décadence cfr.
XI). ] d siamo liberali dal re dai regno (yìj Di,. ’ /aj' fi marzo non consolano più come
pnma (Ad AH.): " stolta L iZZ Martmrum consolano, animis usi sumus
virilibus cooubs puenbbus ; excisa est arbor, non avulsa i, fi ; e st . a
‘° Iasc,al ° vi vo in Antonio 1 erede del regno (ih. XIV, 21); si poteva
con piu libertà parlare contra illas nefarias partes
xiv r vivo che non ucci - tó ' X V ’ 1 : lnfine crebbe meglio
che Cesare vivesse ancora “ nonnumquam Caesar desiderandus.
Infatti, la situazione era diventata quale la descrive ad Attico così • “ S
ed vides magistrati ; si quidem illi magistratus'; vides tyranni
satellites m impems ; vides eiusdem exercniis ; vides in latere veteranos. In
conseguenza il sistema di governo che C. prevedeva non poter durare un
semestre, durò invece, continuamente aggravandosi o peggiorando per
quattordici secoli, cioè per quanto visse l’impero bizantino. Ma la
fallacia di questa previste la torio all. mente di C.. E' la
fallacia propria delle menti profondamente razionali, che hanno una
fede inconcussa nella ragione ; e la mente di C. era appunto secondo la
felice dennizione che ne dà Io Zielinski, un “ Aufkàrungsvers tand» (I).
A codeste menti è impossibile (I) O. c. P . 147. ammettere che la
mostruosità, l’irrazionalità, l’assurdo vengano a tradursi permanentemente nel
fatto, si facciano solida e stabile realtà. "Ciò è assurdo,
quindi è impossibile ; questo è per
siffatte menti un canone assolutamente insopprimibile, sradicando
il quale essa sentirebbero di strappar le proprie medesime radici. A
cagione della stessa forza della loro compagine razionale, è ad esse
impossibile riconoscere che il fatto che una cosa sia assurda non
impedisce menomamente che essa divenga realtà e che anzi quasi sempre
nella storia umana avviene che ciò che all’ inizio la mente
scorgeva come cosa “ assurda », “ pazzesca , implacabilmente ciò non
ostante si realizza. Come buon platonico C. non poteva a meno di
essere fermamente convinto che oòx eattv Sit àv xij |a£r;ov xoótotj
xaxòv TTaìfoi y) Xóyou? (juar^aag (Fed. 89 d.). Nel logos egli aveva
indefettibile fede. Egli scorgeva dietro a sè, fin dove 1 occhio della memoria
poteva giungere, soltanto governo di popolo. Questo era per lui una
conquista permanente» della civiltà, la civiltà stessa, la civiltà che non può
perire. Con tale forma di governo il suo spirito si era immedesimato ;
essa faceva parte essenziale della sua coscienza d uomo, formava il cardine su
cui poggiava tutta la sua vita spirituale. Pensare che tale [Che
tale stato d'animo fosse non solo “ ciceroniano
ma “romano,,, emerge anche da ciò che l’indignazione per la caduta di
quella forma di governo si formi potesse crollare e permanentemente
scomparire, era come pensare che potesse precipitare tutto ciò che si è
sempre visto stabile, la terra, il sistema solare, ciò che è
l’incarnazione di un’eterna legge della natura. Sempre gli uomini quano si sono
trovati in una fase di cangiamento analoga a quella in cui si trovò C. e
tanto più quanto più la loro mente era fortemente razionale hanno
emesso la medesima errata previsione di lui ; ciò è assurdo, quindi
impossibile, quindi non può durare. prolunga sino in S. Ambrogio, in cui,
da signore romano d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, “
Hic erat pulchemmus rerum status, nec insolescebat quisquam
perpetua potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Nemo audebat alium
servitio premere, cuius sibi successuri in honorem mutua forent subeunda
fastidia; nemini labor gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed
postquam dommandi libido vindicare coepit indebitas et ineptas nolle
deponere potestates... continua et diuturna potentia gignit msolentiam.
Quem invenias Hominem qui sponte deponat impenum et ducatus sui cedat
insigne, fiatqe volens numero postremus ex primo ? {Hexameron, XV). ... osa et nota : lo stesso errore, la
stessa illusione— nobilissimo errore ! — troviamo, come già
si e rilevato, in Demostene, il dramma della cui vita fa
esattamente riscontro a quello di C.. Anche Demoj. en e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca prevedeva
che la potenza di rilippo era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv
teXsut^v t« «payiiax aòttji (§ 5). E questa previsione era per lui
principalmente fondata appunto sul fatto che una potenza costrutta sulla
malvagità non può durare. Oò yàp gcmv, ] Il dramma, terribile dramma,
della vita di C., è appunto questo. II dramma dell’uomo oìjy.
laxiv, u> àvopEg ’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruopxoOvxa xa: ^£'joÓ|ìsvov
Sóvajuv j3ej3aiav XTiqaaad’at... xwv jrpà^ewv xàg àp%à<; xxl xàg
ÒTtofliaeig àX^S-sT; xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei (§ 10). E nemmeno
dieci anni dopo Filippo trionfava definitivamente a Cheronea. Ad
ogni momento troviamo questi pensieri nelle orazioni di Demostene, che
perciò sono cosi istruttive circa le illusioni in cui il « razionalismo »
induce gli uomini. Ma neppure la battaglia di Cheronea guarì Demostene
dal1 illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu assassinato,
Demostene comparve nell’assemblea, raggiante, tpatSpòg, splendidamente
vestito, incoronato : con la morte dell’uomo, secondo lui, la costruzione
improvvisata ed effimera doveva certo crollare. E quando Alessandro si
fece avanti a sorreggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille,
ndsioa xai |ia T txT)V (Plot., Dem. § 23). Ma la costruzione
fondata sulla perfidia, e che perciò, secondo Demostene, non poteva
reggersi, sboccò invece nel trionfo addirittura fantastico ottenuto
appunto da Alessandro. Gli uomini non possono rassegnarsi a credere che
una politica malvag-a possa ottenere un successo duraturo, che il male
trionfi permanentemente. Pur troppo, invece, è questa una pia
illusione; e le cose vanno precisamente cosi. E gli astrattisti, 1
« razionalisti », gli spiritualisti, non sanno ricavare dal male che
sotto ì loro occhi permanente trionfa, neppure quell unico bene che vi si
potrebbe ricavare : quello cioè di essere definitivamente istrutti dell
andamento assolutamente arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita.
Chiusi nel loro mondo dei meri concetti, è a quelli e alle deduzioni da
quelli che continuano a credere, anziché aprire gli occhi ai fatti. <
Sapiunt alieno ex ore petuntque res ex auditis potius quam sensibus ipsis
» (Lucr.). che con disperazione vede rovinare intorno a sè senza
possibilità di salvezza il mondo civile di cui la sua più intima vita
stessa era intessuta, il mondo razionale e trionfare
ineluttabilmente, in causa impia, victoria etiam foedior ( T)e Off. 11, c. Vili), l’ingiustizia
ed il male, una forma di mondo umano impensabile assurda,,. 11
dramma della coscienza eticamente desta che vede con orrore ciò che essa
giudica aberrazione morale e iniquità acquistare ufficialmente il
carattere di nobiltà, grandezza, elevazione, e avviarsi a restare
definitivamente sotto questo aspetto nella storia. Quando si fa a poco a
poco chiaro nella mente di C. 1 ineluttabilità dell’evento, quando
egli è ormai costretto a vedere che non c’è più speranza, a domandarsi: “
quae potest spes esse in ea republica, in qua hominis
impotentissimi (violento) atque intemperantissimi armis oppressa
sunt omnia ? (Ad Div. XI); quando deve
constatare che “ tot tantìsque rebus urgemur, nullam ut allevationem
quisquam non stultissimus sperare debeat
(Ad Div.), il suo strazio non ha confini- Ciò che già
precedentemente, quando tale condizione di cose si delineava, egli
cominciava a sentire, civem mehercule non puto esse qui temporibus his
ridere possit (Ad. Div.), diventa
ora il suo stato d’animo permanente. La vita non ha più sorriso : “
hilaritas illa nostra erepla mihi omnis est. Il suo grido è quello del
coro degli Spiriti nel Fausi. Du hast zerstòrt Die
schòne Welt Mit màchtiger Faust ; Sie stiirzt, sie
zerfàllt ! Ein Halbgott hat sie zerschlagen ! Wir tragen
Die Triimmern ins Nichts hinuber Und kiagen Uber
die verlorne Schòne. Questo
dramma strappa a C. espressioni di dolore profondamente dilacerante. E la
sua corrispondenza è forse la lettura più viva che l’antichità e
probabilmente la letteratura d’ogni tempo ci offra, appunto perchè, come
in nessun altro scritto, vi si scorge con l’immediata evidenza della vita
vissuta e quasi vedessimo la cosa svolgersi giorno per giorno sotto i
nostri occhi, come sotto quel dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo
anche la terribilità della sua rovina personale affligge gravemente C.: “
natus enim ad agendum semper aliquid dignum viro, nunc non modo
a gendi rationem nullam habeo, sed ne cogitandi quidem (Ad Div.) ; ed egli ha ragione di
deplorare di essere stato travolto proprio nel momento in cui avrebbe
potuto e dovuto, cogliendo il frutto dell’opera della sua vita, toccare
l’apice della sua carriera. Omnis me et industriae meae fructus et
fortunae perdidisse. “ Casu nescio quo in ea tempora aetas nostra
incidit, ut cum maxime florere nos oporteret, tum vivere edam
puderet. Certo anche la rovina che incombe sulla sua famiglia e
specialmente sulla sua figlia lo tortura. “ Quibus in miseriis una
est prò omnibus quod istam miseram patre, patrimonio, fortuna omni
spoliatam relinquam (Ad Att.). Ma ciò che forma il crepacuore di C.
non è la sua situazione personale, bensì il baratro in cui è precipitato
lo Stato.' “ Sed tamen ipsa republica nihil mihi est carius (Ad Dio.). Ego enim
is sum, qui nihil umquam mea potius, quam meorum civium causa fecerim. Ma
ora ? “ Ego vero, qui, si loquor de re publica, quod oportet,
insanus, si, quod opus est, servus existimor, si taceo, oppressus et
captus, quo dolore esse debeo ? (Ad Att.). Due sono sopratutto le note in
cui erompe 1 espressione di questo suo strazio. In primo luogo,
andarsene, andarsene dovunque, pur di non veder più simili cose: “
evolare cupio et aliquo pervenire ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta
audiam egli ripete con un tragico antico (Ad Att.); “ ac mihi
quidem iam pridem venit in mentem bellum esso aliquo exire, ut ea
quae agebantur hic, quaeque dicebantur, nec viderem nec audirem (Ad ‘Dio. ); longius etiam cogitabam ab urbe
discedere, cuius iam etiam nomen invitus audio. Tu mi sembravi pazzo
(scrive a Curio) quando abbandonasti Roma per la Grecia, ora veggo
che sei “ non solum sapiens, qui hinc absis, sed etiam beatus :
quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc esse beatus potest ? (Ad Db.). E’ il desiderio che si fa
strada persino nei suoi trattati, p. e. nelle Tusculane, dove parlando di
Damarato. Io giustifica cosi : num stulte anteposuit exilii libertatem
domesticae servituti ? O, se andarsene non si può, almeno ritirarsi
in solitudine : “ nunc fugientes conspectum sceleratorum, quibus omnia
redundant, abdimus nos, quamtum licet, et saepe soli sumus (De Off.). In secondo luogo,
morire. “ Perire satius est, quam hos videre (Jd Db.) < Mortem] quam etiam beati
contemnere debebamus, propterea quod nullum sensum esset habitura (I),
nunc [Che cosa pensi intimamente C. della vita futura, risulta, non
già dal quadro, avente scopi puramente estrinseci, che traccia nel
Somnium Scipionis. ma dalla sua corrispondenza Oltre il passo sopra
ricordato, e due altri, (Ad Dw.) ricordati più innanzi, basterà
citare: « Fraesertim cum impendeat, in quo non modo ^ or,*. verum finis
etiam doloris futurus sit » (ib. Vi, 4). E anche in altre opere di C.
questo suo vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane: Mors.
aeternum nihil sentienti receptaculum ». Cosi in Pro Marcello c Q uo d
(la fine) cum venit, omnis voluptas preterita prò mhilo est, quia postea
nulla est futura» Cosi in Pro Cluentio (cap. LXI § 171): «quid ei
tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ?] sic affecti, non modo contemnere debeamus,
sed etiam optare » ( ib. V. 21); la filosofia sembra <
exprobrare quod in ea vita maneam, in qua nihil insit, nisi propagatio
miserrimi temporis > ; non si sa < si aut hoc lucrum est aut
haec vita, superstitem reipublicae vivere >; « nam mori millies praestitit
quam haec pati > (Ad. AH.) ; « eis conficior curis, ut ipsum
quod maneam in vita, peccare me existimem > (Ad Div. IV. 13); « mortem cur
consciscerem causa non visa est, cur optarem, multae causae > (ib.
VII, 3). In uno spirito, così profondamente romano, cioè volto all’attività
pratica e civica, la desolazione dello Stato faceva spuntare questo
pensiero : « Ipsi enim quid sumus ? aut cum diu haec curaturi sumus ? »
(jdd Att. XII, li); * quid vanitatis in vita non dubito quin
cogites > (Ad Div.). Cosi, pur nell'atto che prevede la prossima
caduta del cesarismo, dice. Allo stesso modo la pensava Cesare, il quale nel
discorso, riferito da Sallustio, da lui tenuto in Senato circa la
pena da darsi ai complici di Catilina, si oppose alla pena di morte
appunto perchè con questa cessa la coscienza e quindi ogni male : « Eam
cuncta mortalia dissolvere ; ultra neque curae neque gaudio locum esse»
(Cat. LI). Va però notato che C. dà un’altra interpretazione a
questo punto del discorso di Cesare. Cesare cioè era contrario alla pena
di morte. Egli « intelligit, mortem a diis immortalibus non esse supplici
causa constitutam, sed aut necessitatem naturae, aut laborum ac
miseriarum quietem esse » (In S. Catilinam).] id spero vivis nobis fore ;
quamquam tempus est nos de illa perpetua iam, non de hac exigua
vita cogitare » (Ad. Att.). E il pensiero della morte come unico scampo e
rifugio viene a grandeggiargli dinanzi in modo, che bene spesso lo
vediamo insinuarsi anche nei suoi scritti teorici : così, p. e., nel
proemio del terzo libro del De Oratore: sed 11 tamen rei publicae casus
secuti sunt, ut mihi non erepta L. Crasso a dis immortalibus vita, sed
donata mors esse videatur > (IH, 2); e così nelle Tusculane : « multa
mihi ipsi ad mortem tempestiva fuerunt, quam utinam potuissem obire !
nihil enim iam acquirebatur, cumulata erant officia vitae, cum fortuna bella
restabant. Morte per sè, morte per coloro che amiamo ; questo soltanto è
ciò che lo « status ipse nostrae civitatis » ci costringe a desiderare
: « cum beatissimi sint qui liberi non susceperunt, minus autem
miseri qui his temporibus amiserunt, quam si eosdem, bona, aut denique
ahqua republica, perdidissent... non, mehercule, quemquam audivi
hoc gravissimo, pestilentissimo anno adolescentulum aut puerum mortuum,
qui mihi non a Diis immortalibus ereptus ex his miseriis atque ex
iniquissima conditione vitae videretur > (Ad Div.V. 16).
Ne solo nell animo di C. il trovarsi « in tantis tenebris et quasi
parietinis rei publicæ induce il desiderio di sfuggire a questo sfacelo
con la morte ; ma tale sentimento era certo diffuso. Nella bellissima
lettera con cui G. Renai • Vita parallele di due filosofi] Servio
Sulpicio cerca di consolare C. per la morte della figlia, 1 argomento
principale che egli fa valere e, nelle circostanze presenti, “ non
pessime cum iis esse actum, quibus sine dolore licitum est mortem cum
vita commutare e che Tullia visse
finché visse lo Stato, “una cum republica fuisse (Ad Dio.) ; al che C. dolorosamente
risponde che l’attività pubblica lo consolava dei dolori domestici,
l’affettuosa intimità con la famiglia delle traversie pubbliche, ma
ora “ nec eum dolorem quem a re publica capio domus iam consolari potest,
nec domesticum res publica. Ed anche in Catullo, il disgusto invincibile
suscitatogli dai “ turpissimorum honores , disgusto che faceva gemere dal
suo canto C., cosi ; “ o tempora ! fore cum dubitet Curtius consulatum
petere ? (Ad Att. XII, 49, e circa
Vatinio II, 9) suscita 1’ aspirazione alla morte (LII) : Quid
est, Catulle ? quid moraris emori ? Sella in curulei struma Nomus
sedet, Per consulatum peierat Vatinius ; Quid est,
Catulle ? Quid moraris emori ? Donde attinge C. qualche conforto in
questa immensa iattura ? Non dal foro che egli (interessante confessione)
dichiara di non aver mai amato e nel quale del resto oggi non c’è più
nulla da tare : “ quod me in forum vocas, eo vocas, unde, etiam
bonis meis rebus, fugiebam : quid enim mihi cum foro, sine iudiciis, sine
curia ? (Jld Jltt. XII, 21). Era
il momento in cui i vincitori della violenta lotta politica, giravano per
Roma baldanzosi ed allegri, e i sostenitori dello Stato legale,
battuti, erano melanconici : “ Mane salutarne domi et bonos viros multos sed
tristes, et hos laetos victores, qui me quidem perofficiose et
peramenter observant {Ad Div.).
Due di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano messi a prender
lezioni d’eloquenza da lui, o forse, con questo pretesto, lo
sorvegliavano per conto di Cesare. Anche queste lezioni recano a C. qualche
sollievo {yld Di\>. IX, 18). In maggior misura, egli ne ricava dal far
udire, quando e come era possibile, qualche parola di ammonimento.
Così, pur avendo risoluto di non più parlare in Senato, allorché
sulla universale istanza di questo, Cesare amnistia Marcello (che non
aveva fatto nessun passo per essere richiamato e sembrava non
desiderarlo e che fu, del resto,
assassinato da un suo impiegato nel momento in cui stava per partire alla
volta di Roma), C. prende la pa (0 La voce dei gaudenti sfruttatori di
situazioni immorali rinfaccia sempre a coloro che le condannano, come un
torto, di essere afflitti o melanconici. Cosi quella voce si fa udire,
secondo Seneca : c Istos tristes et superciliosos alienae vitae censores,
suae hostes, publicos paedagogos assis ne feceris » (Ep.). ] rola per
ringraziare il dittatore ; ma sa anche attraverso i ringraziamenti esporgli il
parere più libero e ^coraggioso che forse mai Cesare abbia sentito.
“ Quodsi rerum tuarum immortalium (egli ha 1 ardue di significargli) hic
exitus futurus fuit, ut devictis adversariis rem publicam in eo
statù relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne tua divina
virtus admirationis plus sit habitura quam glonae . (Pro Marc. Vili). Tu
devi, egli incalza, preoccuparti della vera gloria, del giudizio che
daranno i posteri sulle tue azioni, saper considerare ciò che tu fai, non
cogli occhi abbacinati dei contemporanei, ma con quelli di coloro che
giudicheranno le cose a distanza, nell’avvenire. Se tu non avrai
ristabilito la vera legalità nello Stato, tu sarai certo sempre ricordato, ma
non con giudizio concorde : “ erit inter eos etiam, qui nascentur,
sicut mter nos fuit, magna dissensio, cum alii laudibus ad caelum res tuas
gestas efferent, alii fortasse ahquid requirent, idque vel maximum, nisi
belli cmlis incendium salute patriae restinxeris, ut illud fati fuisse
videatur, hoc consilii. E questo un nobilissimo linguaggio da
cittadino onesto e d’animo forte ; linguaggio che, bisogna
riconoscerlo, Cesare sa ascoltare, come altri e ben più vivaci attacchi
contro di lui, con tolleranza ed equanimità, “civili animo,, (Svet,,
Caes., 75). Anche C. nella sua corrispondenza talvolta constata che
Cesare andava orientandosi a mitezza. P. e.:] L intolleranza, 1 oppressione, 1
uso del potere per far tacere censure al detentore di esso, e
persino per impedire di rispondere agli attacchi, comincia con
Augusto ; ed è ciò che fa uscire Asinio Pollione (lo stesso, alla nascita del
cui figlio il servile Virgilio, pronto a vendersi a tutti i potenti e
a prostituire poi il suo genio a colui che tra questi occupa nella
storia per bassezza e nequizia uno degli nam et ipse, qui plurimum potest,
quotidie mihi delabi ad acquitatem et ad rerum naturam videtur Ad Dio. VI, 10!, Che cosi fosse (ed è
la stessa cosa che accadde con Augusto) è naturale, perchè, se un uomo
non è straordinariamente perverso, il suo grande successo e trionfo
personale lo rende incline alla benevolenza verso gli altri, a diffondere
anche intorno il sentimento di felicità che il successo gli dà. Solo un
uomo dal cuore fondamentalmente malvagio nel suo più pieno e grandioso
trionfo, quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più duro
e crudele, e non è pago se non condisce quel trionfo col darsi la
sensazione di poter a suo beneplacito tormentare, perseguitare, far soffrire
altri uomini. Tale era Siila, secondo le parole che Sallustio mette in
bocca ad Emilio Lepido : Cuncta saevus iste Romulus, quasi ab externis
rapta, tenet, non tot exercituum clade neque consuhs et aliorum principum, quos
fortuna belli consumpserat, satiatus : sed tum crudelior, curri plerosque
secundae res in miserationem ex ira vertunt (Hist. Fragni.). Raramente, si, ma però
talvolta avviene che un uomo, favorito dalia più straordinaria fortuna, diventi
sempre più bramoso di far del male agli altri. “ Felicitas in tali
ingenio avaritiam, superbiam ceteraque occulta mala patefecit (Tac., Hist.] Itimi posti, Ottavio, dedica la
sconciamente cortigiana e piagg.atr.ee Egloga) nell’elegante
epigramma, riportato da Macrobio (Satura II 4) che non si può più
scrivere dove in risposti si può proscrivere : temporibus triumviralibus
PoIIio cuna fescenmnos,n eum Augustus scripsisset, ait: g
taceo ; non est emm facile in eum scribere qui potest proscribere
(2) Più ampio conforto ricavò C. dagli studi, bbene una volta
fuggevolmente accenni che forse senza la sua cultura sarebbe più atto a
resistale! exculto emm animo nihil agreste, nihil inhuma- Si vegga
nel libro diV. Alfieri D»/ p •, » I J1 '> e la dimostrazione che questa
viltà ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte divTna e ha per
base il vero robusto pensare e sentire tm-,1 niente manca in VIRGILIO (si
eda) (L.) “ V -esse avuto
nell’animo quella P napesco, assai maggiore sarebbe stato egli
stesso e quindi assai maggiore il suo libro (L. II C VI • vegga anche il C. Vili) E
il Canti 1 . Ci j ;•, C S ‘
uh. ed. I. 582 n 94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani, V l D VIRGILIO
(si veda) si lascia traricchire anche Boissier, Lopposition sous tes
Césars p. I3Ì” RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma ’ senza citare la
fonte il Les e Rom P - r0ba . b,,mente a memor ia, la seguente
versione: Les Komains disaient avec raison qu’ il est rare mi’ num est .
(Ad Alt.) ; e sopratutto dallo studio della filosofìa, la passione per la
eguale '’quotidie ita ingravescit, credo et aetatis maturitate ad
prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia levare animum
molestiis possit. (Ad Dio. IV, 4).
Le sue lettere di questo periodo sono piene delle sue attestazioni che
non vive se non negli studi filosofici e non trae conforto che da essi.
Ad aumentare questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero dalle
calamita dello Stato, s aggiunge la sua attività di scrittore. Sono questi gli
anni della sua intensa e feconda produzione filosofica. Nisi mihi
hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae, quo verterem me non
haberem (Jld Alt.) Equidem credibile non
est, quantum scribam die, quin etiam noctibus, nihil enim sommi. “ Nullo
enim alio modo a miseria quasi aberrare possum. Vero è che le
afflizioni e le ìnquietitudmi, I incertezza dell’avvenire, derivanti dal
pessimo andamento degli affari pubblici, non permettono piena pace
nemmeno nello studio : Utinam quietis temporibus, atque aliquo, si
non bono, at saltem certo statu civitatis, haec inter nos studia exercere
possemus ! Però, appunto in tali
circostanze, “ sine his cur vivere velimus ?
(Ad Dio. IX, 8). Così nascono i trattati di filosofia di C., circa i
quali si cita sempre per aiutare a deprezzarli la fuggevole frase “
sono copie cascatagli dalla penna
scrivendo al suo amico e certo come convenzionale espressioni
t Xlì Vf fr ° nte j 1Iammiraz ' on e di lui (Ad X ’ ’ ma 51
dimentica di affrontare tale fra e con le sue numerose e consuete
esternaziom dalle quali risulta che ben altra era la stima ch’egli
off" 3 de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “ Res difficiles (ib. XII 38) egli dice di star
scrivendo ; quanto alle Jìc G Q rto -5 C ° nVInt,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere
ne aVud, cos quidem simile quidquam
le chiama “ argutolos libros
^ XIli.Y 8,00^ XIII 19? ac n ra ? posset supra ”
r/4. ); 1 libri del De Oratore gli sono “ ve hementer probati (ib.)
e così il De Finibus ib ?AJ ÀI XvT i, soddisfa Attico
bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT L'P'a (M AA- ( eSpnme anehe,a sua Propria
soddisfazione per queste due opere ; » mihi vakle pbcent,
maHem tibi dice dei libri, perduti d! Giona (Ad Ali). In particolare, i|
e sua opere filosofiche le Tusculane, che facilmente si prendono
per un mero esercizio letterario, sono invece un libro profondamente
vissuto, rampollato da a tragica realtà di vita i cui C." si
dibatteva e che come tale, come idoneo cioè a fornir conforto e forza in quelle
circostanze doveva essere generalmente sentito, e certo da Attico
se C. gl, scrive : “ quod prima disputatio Tuscu ana te confirmat, sane
gaudeo : neque enim ndhim est perfugium aut melius aut paratius (XV, 2 e
v. anche XV, 4). Bel libro, che in ogni epoca, nelle medesime circostanze
da cui esso è nato, è servito allo scopo per cui era stato scritto
: “die Eroica der romischen Philosophie come con calzante espressione lo
definisce lo Zielinski. Ma il supremo conforto di C. è un
altro. Esso consiste non tanto nell’ immergersi nella filosofia come
un’occupazione mentale opportuna a distornare il pensiero da quello che
poi Lucano, il grande poeta anticesariano, definirà “ ius sceleri
datum, quanto nel rivivere in sè i concetti della filosofia come atti a fornire
forza d'animo per affrontare e sopportare le sciagure derivanti da una
situazione politica e sociale particolarmente triste : filosofia cioè non come
“ostentationem scientiae, sed legem vitae
( Tusc.). Anche in lui, per usare l’espressione di cui poi
si servì Marco Aurelio zi 5 óypaia. Giustissimamente Moricca. Saremmo
forse anche noi tentati di ritenere l’operetta tulliana un’amplificazione
rettorica, se non pensassimo che quelle parole... furono scritte per una
generazione d’uomini... nelle cui orecchie esse... andavano diritte al cuore
. Un libro di morale dell’epoca di C. è da considerarsi non come una
fredda e vuota argomentazione rettorica bensi come un’eco squillante
delle voci del passato, che sale dalle tombe e vince i secoli. Secondo il
testo di Trannoy, Les Belles Lettres. bisogno di vivere tali precetti A' i,•
. ventar succo e sangue e il f T l d ‘ faHl dl gere a ciò, C. Lnl
f" 0 S ° rZ ° per 8 iun ' maniera singola,«sima, scnVoSo^v"' 0
i'I “ na consolazione a se stesso “ D • Un ^ ro dl profecto anfe me
TeZ. ^Z 'T consolarer ; que m librum jf . me per i‘ tera s serint
librari; affirmo tibi^nuLm” 3 " 1 S ‘,^'P' esso talem ; totos die® U
c °nsolationem quid, sed t n^sper 1 C ;,b ° 5 T“ qU ° proflci
™ XII 14) p t,sper im P e dior, relaxor
(Ad 4tt 'a ll'Tlzr ™ di r'* d«e meditazioni morali!^
e8mam0 le Mslre '4«fr-r v lLStó et,r°d servire 4 stoicismo,
di cui poi in,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,, ° e d oppressivi, uomm Lme° Tm
"p" ^ tehi vid.o Prisco fornirono ° Peto ed EI ’
e che successivamente si anc ° Ta p ‘ù insigni, .1 hiosofo :z
:L: r, ai ^ cristiano, il sacerdnie • ’ p ° SCIa> n el
mondo ci i,Tat' e ' x:; a ” d f « molti tenevano
costantemente in d m ° nre ’ anZI rettoredi coscienza e confortatore,
iHoro ZofoOX. Plauto, fatto morire da Neron» • mi istanti assistito e
confortato dai “ / V ‘ ene " ei 3U0 ' u,tl Cerano e Musonio (Tac.,
Ann. XwTv)), Trlse^’’] O Socrates et socratici viri ! (esclama C., qui,
veramente riguardo a traversie di carattere privato). Numquam vobis gratiam
referam Un immortales quam m ihi ista prò nihilo,, (Ad Alt. XIV, 9).
Attico (egli scrive al suo liberto e segretario Tirone) mi vide agitato, crede
che sia sempre lo stesso, “nec videt quibus presidii philosophiae septus
sim (Ad Div.). La disperata e
rovinosa condizione dello Stato “ quidem ego non ferrem nisi me in
philosophiae portum contulissem (ib.
VII, 30). “ Equidem et haec et omnia quae homini accidere possunt sic
fero ut philosophiae magnam habeam gratiam, quae me non modo ab
sollecitudine abducit, sed etiam contra omnes fortunae impetus armat, tibique
idem censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quidquam m malis
numerandum (Ad Di\>.) E
noi vediamo veramente questo pensiero centrale dello stoicismo, cioè lo
sforzo di distornare il proprio interesse da ogni cosa esteriore per
concentrarlo unicamente nel nostro comportamento, e m ciò trovare
appagamento e pace (questo, come si può chiamare, ottimismo della
disperazione, che e il solo che resta nei momenti di maggiormente
infelici condizioni esterne, perchè vuole appunto, riconoscendo tale
inguaribile infelicità, trovare an Demetrio: e Seneca dice di Cano.
dato al supplizio da Caligola, “ prosequebatur illuni Losophus suus (De Tranq. An.). man phi- ] cora
una tavola di salvezza), vediamo questo pensiero centrale dello stoicismo
svelarsi sempre più chiaro agli occhi di C. e proprio come postogli
innanzi delle circostanze di fatto. “ Sic enim sentio, id demum, aut
potius id solum esse miserum quod turpe est
(Ad Att. Vili, 8 e v. anche X, 4). “ Video philosophis placuisse iis
qui mihi soli videntur vim virtutis tenere, nihil esse sapientis
praestare nisi culpam (Jld Dio. IX,
19). Cogliamo il procedere di questa appassionante tragedia, per cui un
uomo di indole ilare e disposto a gioire delle cose, degli spettacoli
naturali, delI arte, della letteratura, delle relazioni sociali, delI attività
pubblica e anche della ricchezza, è, a poco a poco, dal rovinio politico,
risospinto entro se stesso e costretto a vedere e cercare la felicita
soltanto nel proprio retto comportarsi. Le meditazioni filosofiche
(scrive a Varrone) ci recano ora maggior frutto “ sive quia nulla nunc in
re alia acquiescimus, sive quod gravitas morbi tacit, ut medicmae egeamus
eaque nunc appareat, cuius vim non sentiebamus cum valebamus (Ad r
i0 ’ IX> 3 \ Naturalmente con questo alto sentimento a cui C. è ora
pervenuto, il pensiero della morte, qui fonte anchesso di consolazione e forza,
viene a intrecciarsi. “ Nunc vero, eversis omnibus rebus, una ratio
videtur, quicquid e veni t ferre moderate praeserlim cum omnium
rerum mors sit extremum magna enim consolatio est cum recordere
etiamsi secus acciderit te tamen recta vereque sensisse (Ad Div.). “ Nec
enim dum ero angar alia re, cum omni vacem culpa ; et si non ero,
sensu omnino carebo (ib. VI, 3) Il
crollo dello Stato è cosa gravissima, “ tamen ita viximus et id aetatis
iam sumus, ut omnia quae non nostra culpa nobis accident, fortiter ferre
debeamus (Jld Div.). E tali
pensieri, tali alti ed austeri conforti ed incoraggiamenti, i grandi spiriti
di quel periodo si scambiavano tra di loro, prova, sia di quanto il
dolore per la catastrofe dello stato era largamente sentito, sia dell’estensione
che a lenimento di questo dolore siffatto ordine di pensieri allora
aveva preso. È la genuina visuale stoica a cui i nefasti avvenimenti
politici ha tutti guidati. Non aliundo pendere, nec extrinsecus aut bene aut
male vivendi suspensas habere rationes (Ad Div.). Se C. ad ogni momento ripete
di sè quidquid acciderit, a quo mea culpa absit, animo forti feram (Ad
Div.), nec esse ullum magnum malum praeter culpam. Sed tamen vacare culpa
magnum est solatium. Se per sè pensa -- fortunato, quam existimo levem et
imbecillam, animo firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo frangi
oportere. Se l’esperienza di quella dolorosissima fase lo fa approdare
alla definitiva conclusione che -- in omni vita sua quemque a recta
conscientia transversum unguem non oportet discedere (Ad Att.) — queste
sono amici, « a Lucccio humanas
contemnentem et opule Cont r 7 c g
vi {Ad0 7 casu, et
deiicto h Z,n non aP r l “ 1U,piludi ”' non veri (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una
commo Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° ; " “ÌJ digni et Ss
TstrrdublteTo; ea maxime conducant ! P ° SSimus) : e a Torquato ‘ ‘ f T
Tectl8s (A. praesertim quae
absit a ancora a Torauato “
P ) e delio Stato) vereor ne I ^ n 3 ' (,a rovina teperiri,
praete, i|| am q “ a TtaMa"e“ “ P °7 “r: e, atque
noTZIt,» questi sentimenti ogni IralToìtTd' !“l “ 7 ° a
anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e oh 7 ? scrive Sulpicio in morte di
Tullia) Cicerón 1 et eum aui a Ine ' '-',cer
°nem esse ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et dare conIli silium quae
alns praecipere soles, ea tute tibi subirne, atque apud animum propone;
vidimus aliquotiens secundam pulcherrime te ferre fortunam fac ahquando
intelligamus adversam quoque té aeque ferre posse. Dalle lettere di C. si
potrebbe così ricavare un antologia di massime di vita stoica da servire
efficacemente in ogni tempo al ripresenarsi di analoghe circostanze (e tale è
forse sopratutto la ragione per cui queste lettere suscitarono in ogni
tempo I ammirazione, anzi il culto di nobili animi), pm efficacemente ancora
che non i suoi trattati, come le Tusculane e il De Officiis, ove
egli dava sistemazione teorica alle medesime idee 1 qual, però appunto
perchè non contengono se’ non quelle dee morali che, suscitate in C.
dalle vicende di ogni giorno, riempiono la sua corrispondenza, ci si
ridimostrano, non mere esercitazioni letterarie, ma anzi libri cresciuti su
dalla vita vera e scritti col sangue che le ferite inferte da
questa facevano stillare dal suo cuore. « Herzenphilosophen > chiama
giustamente C. lo] Plutarco racconta (Oc 49) che un giorno OTTAVIANO
essendosi accorto che un suo nipote scorgendolo nascondeva impaurito un libro
sotto la oga, glielo prese, e visto che era di C. ne lesse un
tratto, poi lo reshtui al ragazzo, dicendo • uomo dotto e amante della
patria, Xó r,o : *vl' ?. «rat, io T,o £ *«l Tardo (come al so’
hto) riconoscimento del meriti di colui che egli aveva raggirato,
tradito, abbandonato al carnefice Ma C. e qualcosa di più. Spirito
altissimo e st'anzetn m n “'T'? 1 "” da »! le circoero \ j " 6 r 1 ' **' vivere, espres.
sero, m ragione di tale sua sensibilità, una soma d dolore
enorme, egli seppe da questa esperienza d, dolore trarre un-espenenza
morale di elevazione e di purificazione del dolore stesso nel fuoco
della filosofia intesa come via, di cui molti e b dTrendl' '
aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò che rende appassionatamente
attraente la sua grande figura alla quale veramenle-secondo un
penTero che trova eco sino m Giovenale (Vili, 243)-e
Roma' ltf !a " “ u la 8erva arl “lazione lo dava Sr p
a,t a, a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad Sed Roma parentem, Roma
patrem patriae C.m libera dixit. Platone Ultime pubblicazioni
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LIBRI QUATTRO DI T. GIOII
AD ERENNIO VOLGARIZZATI da GALLONI NAPOLI TIPOGRAFIA ITALIANA Liceo V. E. al Mere (e
Ilo LA RETORICA Avvegnaché, impedito d
agli affari domestici, a fatica io possa
dar tempo bastante allo stadio, o questo
medesimo tempo, che mi è concesso, più
volentieri io soglia nella filosofia impiegare, nondimeno la tua
volontà, o Gaio Erennio, mi ha mosso a scrivere dell’ arte del dire, acciocché
tu non islimassi o non aver io per amor
tuo voluto o sì veramente avere la
fatica fuggito. E tanto più studiosamente quest’opera ho presa, in quanto che sapeva che non senza un motivo volevi imparar
la Rettorica. Imperciocché non picciol
frutto ha in sè l’abbondanza del dire
congiunta alla facilità dell’orazione, se governata venga da una diritta
intelligenza, e da una ragionevole moderazione di animo. Laonde io ho lasciate
da parte quelle cose, che per una specie
di ostentazione gli scrittori Greci nei
loro libri raccolsero. Li quali per non parere
di saper poco andarono in cerca di cose al tutto Digitized by Googte 4
LA RLTTORICA ( estranee, a cagione che l’arte si
giudicasse cosa difficile ad
apprendersi: ed io per lo contrario non
ho tolto che quelle, che mi parevano dirittamente appartenere al suggello. Imperciocché io, non
già per la speranza del guadagno o da
una vana ambizione stimolato, mi sono posto a scrivere, siccome fanno molli ,
ma sì solamente per appagare , com’ io
poteva, i tuoi dcsiderii. Ora, per non proceder tropp’ oltre con vane parole,
comincerò a trattar l’argomento,
avvisandoli in prima che l’arte senza
l’assiduilà del dire non giova gran fatto; talché devi intendere che questa
ragione del precetto vuol essere
acconciala nell’esercizio. II. Il
dovere dell’oratore si è di poter parlare
di quelle cose, che all’ uso civile sono regolate dalle costumanze e dalle leggi,
conciliandosi, per quanto ei può,
l’approvazione di chi lo ascolta. Tre
sono i generi delle cause, che l’ oratore deve
prendere: il dimostrativo, il deliberativo, il giudiziale. 11
dimostrativo è quello, che si propone o
la lode o il biasimo di alcuna determinata persona. Il deliberativo è
quello che, proprio alla consultazione, ha perfine o il persuadere o il
dissuadere. Il giudiziale è quello che, proprio alla controversia, comprende in
sé accusa o dimandagione con difesa.
Dirò ora le condizioni, che aver deve un
oratore: poscia dimostrerò come debbono essere trattali questi tre generi di
cause. È neccssa Digitized by
Google rio adunque die un oratore
abbia invenzione, disposizione, elocuzione, memoria, e pronunciazionc.
L’invenzione è un pensamenlo di cose vere o
verisimili, che valgano a far degna di approvazione la causa. La
disposizione è un ordine c una
distribuzione delle cose, la quale c’insegna dove debbasi collocare ciascuna di esse cose.
L’elocuzione è alle cose trovate un adattamento di parole e sentenze idonee. La memoria è un fermo
comprendimento dell’animo delle cose o delle parole, c della disposizione loro. La pronunciazione
è un moderamento della voce del volto e
del gesto con • venustà. Tre cose
ciconduconoall'acquisto di tutte queste
doli; l’arte, l’imitazione, el’esercizio. L’arte è un insegnamento, che ci somministra una via
determinata c la maniera del dire. L’imitazione è quella, per la quale noi
siamo spinti con sollecita cura a voler
rassomigliare ad alcuno nel dire. L’esercizio è un assiduo uso, ed una
consuetudine del dire. III. Poiché
adunque abbiamo dimostralo quali cause
dee prendere l’oratore, e di quali doti essere
fornito, diremo ora come si possano queste proprietà dell’oratore
applicare alla composizione di un
discorso. L’invenzione compiesi tutta in sei
parti del discorso, cioè in esordio, narrazione, divisione,
confermazione, confutazione c confusione. L’ esordio è principio di orazione,
pel quale l’animo dell’ uditore si
dispone all’ attenzione. La (i LA
UETTOIUCA narrazione è l’esposizione di
cose avvenute, o che si danno come
avvenute. Ln divisione è quella, per cui
poniamo in chiaro ciò, che si ha per consentito, o che si adduce in
controversia; e per cui esponiamo le
cose di cui dobbiamo tratiare. La
confermazione è una esposizione dei nostri argomenti con affermazione.
La confutazione è un solvimenlo degli argomenti conlrarii. La conclusione è un artificioso termine del discorso. Ora,
poiché ad una colle doti proprie dell’
oratore, siamo ^ nuli, onde la cosa fosse
più facile a comprendersi, a far parola delle parti del discorso, attribuendole
all’ invenzione, sarà conveniente di parlare innanzi dell’ esordio. Posta la
causa, affinché l’esordio sia più acconcio al soggetto, bisogna esaminare qual
è il genere della causa. Quadro sono i
generi delle cause, l'onesto, il turpe, il dubbio, e l’umile. La causa è detta del genere
onesto, quando noi difendiamo ciò, che
sembra meritevole di essere difeso da tulli, od oppugnamo ciò, che sembra meritevole di essere oppugnato
da tutti, come se parliamo in favore
d’un uomo prode o contro un parricida.
Si chiama genere turpe, quando si
oppugna cosa onesta, o si difende quella,
che è disonesta. Dubbio genere è, quando la causa è in parte onesta e in parte disonesta. Umil
genere è, quando si mette innanzi cosa comunemente dispregiata. Stando le cose in questi
termini, converrà adattare la qualità
degli esordii al genere della causa. Due
sorti di esordii vi sono: l’esordio diretto, che i Greci chiamano proemio, c l’
esordio per insinuazione, detto da loro
efodo. L’ esordio diretto è quello, pel
quale senza più ci possiamo rendere 1*
animo dell’ uditore disposto ad udirci.
Esso si tratta in guisa da far per l’appunto attenti, docili, e benevoli gli uditori. Se noi avremo
il genere della causa dubbio, cominceremo dal dimandare benevolenza, onde non
ci riesca di danno quella parte, ch’ei conterrà, di bruttezza. Se il
genere della causa sarà umile,
ecciteremo l'attenzione. Ma se il genere
della causa sarà turpe, allora useremo
l’esordio per insiimazione (del quale parleremo più sotto), a meuo che non ci fosse avvenuto di
trovar cosa, per la quale, accusando
l’avversario, potessimo ottener benevolenza. Se poi il genere della causa sarà onesto, noi potremo a nostra
volontà usare o non usare I’ esordio
diretto. Se vorremo usarlo, o ci
bisognerà mostrare ciò, che fa onesta la
causa, od esporre brevemente il soggetto, che
prendiamo a trattare. Se non vorremo usarlo , ci bisognerà incominciare citando una legge, un
testo, o qualche altra cosa, che sia di fermo appoggio alla nostra causa. E
poiché noi vogliamo avere l’uditore
docile, benevolo, ed attento, farò aperto
in che modo si possa ciascuna di queste tre cose ottenere. Noi potremo
aver docili gli uditori, se esporremo
brevemente il punto principale della
causa, ed ecciteremo la loro attenzione; perocché è docile colui, che è disposto ad ascoltare
attentamente. Li avremo attenti, se noi prometteremo di aver a dire cose importanti, nuove,
straordinarie, o cose, che riguardino lo stato, o coloro stessi, che ci
ascoltano, o il culto degli Dei immortali;
e se pregheremo che ci ascoltino attentamente; e se esporremo con ordine le cose, che noi
prendiamo a trattare. V. Benevoli ci
possiamo rendere gli uditori per quattro
modi: parlando di noi medesimi, degli avversari^ degli uditori, e del soggetto
stesso. Noi riporteremo benevolenza
parlando di noi medesimi, se loderemo senz’arroganza l’uffìzio nostro, o ricorderemo ciò, che facemmo a prò della
repubblica, o dei parenti, o degli amici, o di quelli stessi, che ci ascoltano;
purché tutte queste cose si convengano
al soggetto, di cui si tratta. E parimente se andremo discorrendo le miserie
nostre, siccome povertà, carcerazione,
avversità; c se pregheremo che ci diano aiuto, e dimostreremo nello stesso tempo che non abbiamo voluto collocare
in estranei la nostra speranza. Noi
accatteremo benevolenza parlando degli avversari, se li addurremo nell’odio, nell’invidia, nel dispregio. Li
addurremo nell’ odio, se manifesteremo
di essi alcun fatto o 4 turpe o orgoglioso, o perfido o crudele, o
arrogante, o malizioso, o iniquo. Li trarremo nell’ invidia, se porremo innanzi
la loro forza, la potenza, la fazione,
le ricchezze, l’ambizione, la nobiltà, le
clientele, l’ospilalilà, le amicizie, le parentele: o dimoslremo ch’eglino più confidanoin queste
cose che nella verità. Li avvolgeremo nel
dispregio, se metteremo innanzi la loro
inerzia, la dappocaggine, la pigrizia, la lussuria. Noi raccoglieremo
benevolenza parlando degli uditori, se recheremo in mezzo i giudizi nei quali essi diedero prova
di coraggio, di sapietqp, di clemenza, di magnanimità; e se faremo aperto quale slima si abbia di
essi, c quale sia l’aspettazione del
presente giudizio. Parlando poi del soggetto medesimo ci renderemo benevolo l’uditore, se innalzeremo la nostra
causa lodandola, e deprimeremo quella
degli avversari dispregiandola. :
ì-m VI. Parleremo ora dell’esordio per
insinuazione. Tre sono le occasioni, in
cui non possiamo usare l’ esordio
diretto, le quali sono diligentemente da
considerare; o quando abbiamo una causa disonesta, voglio dire, quando
il soggetto medesimo ci fa contrario l’
animo dell’ uditore; o quando 1' animo dell’ uditore pare essere stato persuaso
da chi innanzi parlò contra noi; o
quando esso è già stanco delle parole di chi arringò prima. Se dunque la causa è del genere turpe, potremo per insinua 10
LA RETT0R1CA zione cominciare
con queste ragioni: essere d’uopo
riguardar la cosa, non la persona ; o la persona, non la cosa; non approvare neppur noi quelle
azioni che gli avversari nostri affermano essere stale fatte, e sì essere indegne e nefande.
Appresso, allorché avremo discorso a lungo della gravità del fatto, proveremo che nulla di simigliando è
stato da noi commesso; o metteremo
innauzi un giudizio pronunziato da altri
giudici intorno ad una causa simile, o
identica, o minore, o maggiore. Di poi a
poco a poco ci accosteremo al nostro soggetto, e verremo a confrontamenlo. Ottenerli pure lo
scopo, se dichiareremo di non voler dir nulla degli avversari o di alcun fatto toro, e nondimeno
copertamente ne parleremo lasciando sfuggir parole. Se 1’ uditore sarà stato persuaso, vale a
dire se il discorso degli avversari avrà
indotta la convinzione negli uditori (
il che non sarà diffìcile di conoscere, poiché ci sono noti i mezzi, con cui
possiamo indurre la convinzione ); se
noi, dico, giudicheremo indotta la convinzione, ecco quali saranno le diverse maniere ondeinsinuarci per entro alla
causa: prometteremo in prima di parlare di ciò, che l’avversario avrà messo innanzi come suo più
fermo sostegno; o cominceremo da uno de’suoi detti e soprattutto da uno degli ultimi; o useremo
la forma del dubbio, mostrandoci incerti
di ciò che dobbiamo dire o confutare in
prima con pieno nostro stupore. Se poi sarà di già stancala F attenzione dell’
uditore, noi cominceremo da qualche
cosa, che muover possa il riso, come sarebbe o da un apologo, o da una favola, o da un
contraffacimento, o da una storta interpretazione, o da una inversion di parole, o da un equivoco, o da
un indovinello, o da uno scherzo, o da una giulleria, o da una esagerazione, o da un acconciamento e
mutamento di lettere; e inoltre promovendo aspettazione, recando una similitudine,
una novità, un fallo accaduto, un verso;
o approfittandoci ad una
interpellazione, ad un sorriso di alcuno; o promettendo di lasciar da
parte molte cose, che avevamo in animo
di dire; e di non voler parlare in quella
forma, in cui sogliono gli altri, con esporre brevemente in questo caso
e il metodo altrui e il nostro. VII.
Ecco il divario, che passa tra F esordio per
insinuazione e F esordio diretto: l’esordio diretto deve esser tale, che subitamente, recali
innanzi gli argomenti già da noi detti,
ci rendiamo F uditore o benevolo, o
attento, o docile: ma l’esordio per
insinuazione deve esser tale, che copertamente per dissimulazione diveniamo al medesimo scopo
di ottenere l’esposto vantaggio
nell’esercizio del dire. Ma questi tre vantaggi benché si debbano aver di mira per tutto il corso dell’orazione,
voglio dire che gli uditori ci si
mostrino continuamente attenti, docili e benevoli; pure ciò debbesi soprattutto
cercar di conseguire a prò della causa per mezzo appunto dell’ esordio: Ora mostrerò quali
sono i difetti, che dobbiamo schivare
per non fare un esordio vizioso. Nel
cominciare il discorso conviene aver cura che il dire sia piano, e le parole
comunemente accettale nell' uso per non essere tacciati di affettazione. È un
esordio vizioso quello, che può
convenire a più cause; il quale esordio
chiamasi volgare. Parimente è vizioso quello, che si adatta così alla causa dell’ avversario
come alla nostra; il quale chiamasi
comune. È anco vizioso quello, onde l’
avversario può far uso contro di noi,
indottavi una leggiera mutazione. Medesimamente è vizioso quello, che è
composto di parole troppo studiate, o è
troppo lungo; e sì quello, che non par
nato naturalmente dal soggetto, di guisa
che si leghi senza stento alla narrazione ( il qual chiamasi esordio staccato, e in cui si
comprende anche l’esordio traslato); e
quello finalmente, che non rende nè
benevolo, nè docile, nè attento l’uditore.
Vili. Ma dell’ esordio basti il fin qui detto: passiamo ora alla
narrazione. Di narrazioni ci ha tre
generi. Il primo è quando esponiamo un fatto, e ne tiriamo ogni circostanza a nostro vantaggio
per ottenere vittoria; il qual genere appartiene appunto a quelle cause, che si espongono ad essere
giudicate. Il secondo genere di narrazione è quello, che alcuna volta interviene
nel mezzo della causa per motivo di prova, o di accusa, o di transizione, o di
ap-* pareccliiamento, o di lode . Il
terzo genere è quello, che è bensì
estraneo alla causa civile, ma nel quale
conviene nulladimeno esercitarsi per poter più acconciamente trattar
nelle cause quei due generi di
narrazione, che abbiamo detto di sopra. Di colesta narrazione ci ha due specie, 1’ una che
riguarda le cose, l’altra le persone. Quella specie, che riguarda le cose, ha
tre parli, la favola, la storia, la supposizione. La favola è quella, che
contiene cose, nè vere nè vcrisimili;
come quelle, che si hanno nelle
tragedie. La storia è un fatto accaduto, ma
lontano dalla memoria del tempo nostro. La supposizione è una cosa
finta, ma che nondimeno potè accadere,
come i fatti supposti delle commedie.
Quel genere di narrazione, che riguarda le persone, deve contenere le
grazie del dire, la diversità dei
caratteri, la gravità, la leggerezza, le speranze, i timori, i sospetti, i desiderii, la dissimulazione, la pietà, i variamenti delle cose, i
mutamenti della fortuna, gl’ inaspettati
mali, losubite allegrezze, i lieti fini.
Ma l’esercizio è maestro a siffatto genere
di narrazione. Discorriamo ora solamente di quel genere che è proprio di una causa vera. IX. È necessario che la narrazione abbia tre
qualità, che sia breve, chiara, e verisimile: le quali condizioni, poiché sappiamo essere
indispensabili, vediamo come si possano conseguire. La narrazio* ne sarà breve,
se cominceremo là donde è necessario incominciare; e se non risaliremo alle
prime origini delle cose; e se narreremo
sommariamente e non partilamente; e se
non discenderemo sino alle ultime
conseguenze, ma ci fermeremo là dove
basti ; e se non daremo luogo a digressioni; e se . non devieremo dal soggetto, che avremo
preso; e se in guisa esporremo gii esili
delle cose, che indovinar si possa ciò che è stalo fallo innanzi, benché noi lo
tacciamo; come se, per esempio, dirò: «
che io sono ritornalo dalla provincia », s’ intenderà ancora che io era andato
nella provincia. E al lutto sarà meglio
tacere non solo ciò che è contrario alla causa, ma anche ciò che non è ad essa
nè contrario nè favorevole. Ed è anco a
guardare di non ripetere due o tre volle
la cosa medesima; e di non ripigliare a
capo di ogni frase ciò che è stato dello
in finediognuna, come in questo esempio : « Simone arrivò la sera da Atene a
Megara; dappoi che fu arrivato a Megara,
lese insidie alla donzella; dappoi che
le ebbe tese insidie, lefe’ violenza nel luogo stesso ». La narrazione sarà
chiara, se noi esporremo prima ciò che è stalo fatto prima, e conserveremo l’ ordine delle cose e
dei tempi così come le cose saranno
state fatte, o come sarà verisimile che siano state falle. E qui sarà da vedere che noi evitiamo la confusione, gli
avviluppamenli, le ambiguità, i vocaboli nuovi, le digressioni estranee al
soggetto; clic non risalghiamo troppo ai principii; che non discendiamo troppo
alle ultime cose; che non ommelliamo nulla di
ciò che spetta al soggetto; e finalmente conseguiremo la chiarezza, se
osserveremo i precetti, che pure
riguardano la brevità; perciocché quanto più
la narrazione sarà breve, tanto più sarà chiara e facile ad intendersi. La narrazione sarà
verisimile, se noi diremo conformamente
al costume, all’opinione, alla natura; se ben converranno gli spazii de’ tempi, i caratteri delle persone, i
motivi delle deliberazioni, le
opportunità de’ luoghi, affinchè non ci
si possa opporre o che il tempo non è stato
bastevole, o che non eravi alcun motivo, o che il luogo non era conveniente, o che quelle
cotali persone non potevano essere o agenti o pazienti. Se il fatto, che si narra, è vero, pur
bisognerà, narrandolo, osservare tutte queste condizioni; perchè, se non si
osservino, la verità può sovente non
essere creduta. Se poi il fatto è supposto, tanto più bisognerà osservarle. Finalmente converrà
usare cautela nell’oppugnare quei falli,
che sapremo essere testificati o da uno scritto degno di fede, o dall’autorità rispettabile di taluno. Quanto
alle cose, die ho fin qui dette, credo di concordare con tutti gli altri scrittori dell’arte; se non
che ho detto alcun che di nuovo intorno
agli esordii PER INSIUNAZIONE, o perusare l’espressione di Grice, IMPLICATURA
–Holdcroft, Forms of indirect communication -- avendoli io solo, fra tanti
altri, distinti in tre classi, affinchè
una via al tutto certa avessimo, e una regola chiara in tal genere di
esordii. X. Ora, poiché mi rimane a parlare
di quella parte dell’ invenzione, in cui
principalmente consiste P arte dell’ Oratore, farò che non paia aver io nella trattazione di questa parte posto minor
cura di quello che P importanza del
soggetto richiede, quando avrò prima
dello alcun che intorno alla divisione delie cause. La divisione delle cause è
distribuita in due parti. Terminata la narrazione, noi dobbiamo primieramente mostrare in che
conveniamo cogli avversari, e poscia, se sono a noi vantaggiosi i punti, in cui
conveniamo, passare a ciò che è soggetto
di controversia. Per esempio: «Che da Oreste
sia stala uccisa la madre, convengo cogli
avversarli; che egli abbia ciò fatto a drillo, o che gli sia stato ciò lecito, ecco il punto che è
soggetto a controversia ». Ed egualmente
nella risposta : « Che Agamennone sia
stalo ucciso da Clilennestra, tutti Io affermano, ma benché ciò sia, pure pretendono che io non doveva vendicare mio
padre ». Fatta la divisione, noi dovremo ricorrere alla distribuzione, la quale pure ha due parti,
cioè l’enumerazione e la esposizione , L 1 enumerazione consiste nel dire il numero delle cose, di
cui prendiamo a parlare; e non bisogna che nel numero abbia più di tre parli; perchè il dirne più o
meno è cosa pericolosa, e può mettere nell’uditore il sospetto di meditazione e
di artifizio ; la qual cosa toglie fede
al discorso. L’esposizione poi consiste
nel mettere innanzi con brevità e senza ommissioni le cose, delle quali togliamo di
parlare. XI. Passiamo ora alla
confermazione, e alla confutazione. Tutta la speranza della vittoria, e tutto l’affare della persuasione sta nella
confermazione e nella confutazione;
imperciocché quando avremo esposte le
nostre prove, e distrutte quelle dell’avversario, noi avremo intieramente
adempiuto al1’ uffizio dell’ Oratore. Noi potremo adunque trattare egualmente
queste due parti della confermazione e della confutazione, se ci sarà aperto
(ostato della quistione. Quattro stati
di quislione statuirono gli altri retori; ma Ermete, mio maestro, non ne ammise che tre, non già perchè volesse
levar via qualche cosa di ciò che quelli
attribuirono alla parte dell’
invenzione, ma per mostrare che essi
separarono in due ciò che era d’ uopo presentare nella sua semplice ed indivisibile unità. Lo
stato della quistione è il primo
conflitto del difensore contro l’
imputazione dell’ accusatore. Tre sono
adunque, come ho detto, gii stati della quistione, il congetturale, il legale, il giurisdiziale.
Lo stato è congetturale, quando vi è
controversia di fatto, a cagione di
esempio: « Aiace, allorché conobbe ciò
che fatto avea durante il tempo del suo delirio, si trafisse con la
spada in un bosco. Vi capita Ulisse:
vede 1’ ucciso; gii leva dal corpo il ferro insanguinato. Sopravviene
Teucro; vedendo il fratello ucciso, ed il nemico del fratello con la spada in
mano tinta di sangue, accusa Ulisse di assassinio ». Qui, poiché si cerca la verità per
congettura, vi sarà controversia di
fatto, e da ciò chiamasi congetturale lo stato della quistione. XII. Si chiama stato di quistione legale,
quando sorge controversia intorno ad uno
scritto. Siffatto stalo ha sei parli,
lettera e spirilo, leggi contraddittorie, ambiguità, definizione, traslazioae,
analogia. Ci ha controversia intorno alla lettera e allo spirito quando l’ intenzione di chi ha
scritto sembra discordare dallo scritto medesimo, per esempio : « Suppongasi
che vi sia una. legge , la quale
disponga che coloro, i quali per cagione di burrasca abbandonino la
nave, debbano perdere la nave ' e ogni
cosa; e che, se la nave vada in salvo, tanto
essa quanto l’allre cose rimangano proprietà di chi è restalo nella nave. Ora, spaventali tutti
dalla grandezza della burrasca
abbandonarono la nave, e cercarono
salvamento sopra di un palischermo ,
eccetto un ammalalo, il quale per impotenza non uscì di nave c non si mise in salvo. La nave
per caso e per fortuna si ridusse in
porto sana e salva: 1’ ammalato si trova
possessore di essa : 1’ antico padrone
della nave ne fa dimanda in giudizio come di cosa sua ». Queslo si è stato di
quistion legate riguardante la lettera e lo spirito del lesto. La controversia ha origine da leggi
contraddittorie, quando una legge ordina o permette una cosa, e l’allra la proibisce, come : « Una legge
proibisce che un uomo condannato di concussione parli davanti alPassemblea del popolo. Un’ altra
legge ordina che P augure proponga all’
assemblea del popolo colui che domanda
di essere surrogato nel posto del
collega defunto. Ora, un augure, che fu
condannato di concussione, propose il successore del suo collega defunto. Si domanda che sia
punito ». Questo è stato di quistion legale, che ha le origini da due leggi contraddittorie. La
controversia nasce dall’ambiguità, quando una cosa scritta in un senso ne presenta due, o più; per
esempio: « Un padre di famiglia,
instituendo erede il proprio figlio, legò pure in testamento a sua moglie dei vasi d’argento in questi termini: «
Tullio, mio erede, darà a Terenzia, mia
moglie, trenta libbre di vasi d’argento,
a scelta sua ». Morto il testatore, la donna domanda i vasi preziosi , e
magnificamente cesellali. Tullio dice di dovere a lei dei vasi d’argento pel peso di trenta libbre,
ma a sua scelta ». Ecco uno stato di
quistion legale, che sorge
dall’ambiguità delle parole. La quistionc dipende dalla definizione quando c'è
discordanza intorno al nome, col quale si dee chiamare un’azione : ecco un
esempio: « Essendo Lucio Saturnino per
portar la legge frumentaria dei semiassi e dei
terzi di asse, Quinto Cepione, che era in allora questore urbano, avvisi il Senato, che
l’erario non poteva sopportare una
cotanta largizione. Il Senato decretò
che, se egli avesse recata quella legge al
popolo, sarebbe stato riguardato come autore di un fatto contro alla Repubblica. Saturnino si
provò a recarla. I suoi colleghi fecero
opposizione: egli nondimeno fece portare
innanzi la cassetta de’suffragi. Cepione, vedendo che , a malgrado del decreto
del Senato e della opposizione dei colleghi,
ei recava la legge in danno della cosa pubblica, si fa violentemente strada con alcuni
de’migliori cittadini, rompe i ponti, rovescia le cassette, ed impedisce che la
legge passi. Cepione viene accusato di.
lesa maestà ». Lo stato della quislione è legale, dipendente dalla definizione ; conciossiachè
non verrà bene determinalo che cosa sia
lesa maestà, se non sia ben definito il
vocabolo stesso. La controversia nasce da traslazione quando V accusalo domanda, o che la causa sia trasferita ad
altro tempo, o che sia cambialo l’ accusatore, o che sieno cambiati i giudici. Di questa parte di
costituzione se ne servono i Greci nelle
cause pubbliche, c noi per lo più nelle
cause private. In siffatta parte la
scienza del diritto civile ci sarà di gran giovamento. Nondimeno anche
nelle cause pubbliche noi qualclie volta ce ne serviamo, ed ecco in che modo: «
Se alcuno è accusalo di peculato, perchè è
voce che egli abbia portalo via da un luogo privato dei vasi d' argento di pubblica spettanza,
egli può rispondere, dopo di aver
defluito che cosa sia furto, e che cosa sia peculato, clic, rispetto a
lui, bassi a giudicarlo di furto e non
di peculato». Una siffatta parte di
costituzione legale è di rado invocata dinanzi ai nostri tribunali, perchè se
si tratta di azion privala, il pretore
giudica delle eccezioni, e perde la
causa colui che non si attiene alle forme prescritte; c se si tratta di causa
pubblica, le leggi provvedono che
antecedentemente, se l’accusato ciò crede di suo vantaggio, sia dato giudizio,
se quell'acusalore abbia o no il diritto di accusare. La controversia ha le
origini dalla analogia, quando si presenta in giudizio un fatto, intorno a cui
v'ha alcuna legge propria, la quale
decida, ma che nondimeno può riferirsi a qualche altra legge. Per esempio: Una legge dice: Se
uno è furioso, la persona e i beni di
lui saranno nella potestà de’ suoi
agnati e gentili: » Un'altra legge dice:
« Colui, che sarà giudicalo di avere ucciso
il padre o la madre, sia ravvolto e legalo in un sacco di cuoio, e gittalo in un fiume. » Ed
un’altra dice : Se un padre di famiglia ha per testamento disposto de’suoi beni
c de’suoi schiavi, sia rispettata la sua volontà. » Ed un’altra dice
finalmente: » Se un padre di famiglia muore senza testamento, i suoi schiavi ed
i suoi beni siano degli agnati e dei
gentili. » Orbene: Malleolo fu giudicato di avere ucciso la madre: appena
condannato gli fu ravvolto il capo in un
cuoio di lupo, gli fu* ron messi i ceppi
ai piedi, e fu condotto nel carcere. I suoi difensori portano delle tavolette
nella prigione; ricevono da lui, in
presenza di testimonii, giusta la legge, il suo testamento, c poco dopo è condotto al supplizio. Coloro, che per
testamento ne erano gli eredi, domandano
l’eredità. Il fratello minore di Malleolo,
che nel fatto di esso era stalo
l’accusatore, dichiara che per la legge di agnazione quella eredità è a
lui devoluta. Qui non può essere
prodotta alcuna legge speciale intorno a
questo caso, e ciò nonostante se ne producono molte, dalle quali si trae per analogia, che
Malleolo abbia o non abbia potuto di diritto far testamento. E. co qual è lo stato
di quistion legale fondalo sopra l’analogia.
XIV. Noi abbiamo dimostrato tutte le diverse specie di quistion legale: ora parliamo della
quistione giurisdiziale. Ci è lo stato di quistion giurisdiziale quando si
conviene del fatto, ma si domanda, se esso è o non è conforme al diritto.
Di tale stato di quistione ce n’ ha due
specie: l’una specie chiamasi assoluta,
el’ altra assuntiva. Ella è assoluta, quando noi sosteniamo che un’ azione è rettamente fatta, senza clic ricorriamo a
motivi estrinseci; per esempio: « Un
commediante rivolse la parola in pieno
teatro nominatamente al poeta Accio:
Accio lo accusa d’iugiuria: il commediante
non si fa altra difesa che questa: dice che è lecito nominare colui, sotto il cui nome è data a
rappresentare in teatro una commedia. » La quistionc è assunliva, quando, essendo per sè stessa
debole la difesa, si cerca di sostenerla
con alcuna cosa presa fuori dal
soggetto. Le parli assunlive sono
quattro: La confessione, la discolpa, la recriminazione, l'alternativa.
La confessione sta, allorquando l’accusato domanda che gli sia perdonato:
essa ha due parti: o la scusa, o la
preghiera. La scusa è, quando l’accusato
dichiara di non aver commesso il delitto con animo deliberato. Danno scusa la fortuna, l’ignoranza, la necessità. La
fortuna, « come Cepione avanti ai
tribuni della plebe intorno alla perdila della sua armala. » I.’
ignoranza, « come colui, che mise a
morte quello schiavo, che aveva
ammazzalo il proprio padrone, al quale
egli era fratello, avanti che avesse aperte le tavole del testamento in cui quello schiavo era
dichiarato libero. « La necessità, «
come quel soldato, che non tornò alle
insegne il giorno prefisso, perchè le
acque gli avevano impedito il ritorno. « La preghiera è, quando l’accusato
confessa di aver commesso il fallo, e di avere operalo deliberatamente, e nulladimeno dimanda che gli si usi
misericordia. Questo mezzo in giudicio
non si usa quasi mai, a meno che non si
parli in favore di un uomo conosciuto per molle belle azioni. Se il caso è
tale, noi 10 vestiremo della forma di
uno de’luoghi comuni proprii
aH’amplificazione, dicendo, per esempio :
« Se un tale misfatto avesse pur egli commesso, bisognerebbe nondimeno mandarlo perdonalo
in grazia delle sue belle azioni
passate; ma egli non implora alcun perdono.
» Questo mezzo adunque in giudicio non
si usa; ma ben può usarsi dinanzi al
senato, o ad un Generale di armata, ed al suo
consiglio di guerra. XV. La
causa ha sostegno nella recriminazione,
allorquando noi non neghiamo di aver commesso 11 fallo, ma diciamo di esservi stali spinti
dal fallo altrui: « Come Oreste, il
quale, per fare a sè difesa, gilta la cagion del delitto sopra la propria madre.
» La causa ha sostegno nella discolpa, allorquando noi cerchiamo di difenderci
non in quanto al fatto, ma in quanto
alla colpabilità, ghiandola o sopra di
alcun’ altra persona, o sopra di alcuna
cosa. Ella giltasi sopra di alcun’ altra persona, « come se è accusato uno, il quale confessi
di avere ucciso Publio Sulpicio, ma rechi a sua discolpa di avere ciò fatto per
comandamento dei consoli, ed affermi che essi non solo glielo comandarono, ma
gli fecero ancora conoscere il perchè
egli poteva ciò fare. » Si gitta sopra una cosa, « Come se alcuno sia impedito da una legge
statuita dal popolo di far ciò che un testamento gli ordina ». La causa ha sostegno nell’
alternativa, quando noi diciamo che non
si poteva a meno di non fare o Luna cosa
o T altra, o che fu miglior partito far
ciò che facemmo. Ecco un esempio di
questa specie: « Caio Popilio, essendo accerchiato dai Galli, nè polendo in alcuna maniera
scampare, venne a parlamento coi
capitani dei nemici e ottenne di andarne libero colla sua armata a condizione
ch’ei lasciasse le sue bagaglie; stimò miglior
partito perdere le bagaglie, che Tarmata: salvò Tarmata, lasciò le bagaglie: or viene
accusato di lesa maestà ». XVI. Io credo di avere bastantemente
dimostrato quali sieno i diversi stali
di quistione, e quali le loro parti. Ora
dimostrerò in qual maniera e con qual
ordine si dovranno da noi trattare, dopo che
avrò fatto ben conoscere quale convenga dirsi da una parte e dalfallra il punto essenziale
della causa, a cui debbesi riferire ogni ragionamento di tutto il discorso. Trovato adunque lo stato della
quistione, si deve tosto cercar la ragione: per ragione io intendo ciò che costituisce la causa, e che
comprende il punto fondamentale della difesa; c per continuare a farmi meglio intendere, farò
ciò'aper con un esempio: « Oreste nel confessare che ha uccisa la madre, se non desse una ragione
del fallo, toglierebbe via a sè ogni
difesa: nc dà adunque una, la quale se data non fosse, non avrebbe luogo pausa di sorte alcuna: Mia madre, dice
egli, ha ucciso mio padre: « Ecco che la
ragione che ne dà, è appunto quella, io
lo ripeto, che contiene il punto fondamentale della difesa, e-se vi mancasse
questa ragione, non vi rimarrebbe neppure
11 più piccolo dubbio che potesse venire ritardata la condannagione. — Trovata la ragione,
bisognerà cercare la replica dell’avversario; vale a dire, il punto principale dell’ accusa, ciò che
recasi in mezzo in opposizione di questa
ragione della difesa , di cui abbiamo detto. Ecco come questo punto verrà determinalo: quando Oreste avrà
detta la sua ragione così: « Io ho
ucciso a buon diritto mia madre perchè
ella ha ucciso mio padre »; l’accusatore replicherà in questo modo: « Ma ella
non doveva essere uccisa da le, nè
sostenere una pena senza essere stata
prima condannata. «Dalla ragione della difesa, e dalla replica dell’ accusa
ne sorge la quistione di giudizio, che
noi chiamiamo giudicazione, e i Greci
xp/vójuevov. Questa verrà costituita dal
concorso della ragione della difesa, e
della replica dell'accusa in questo modo: « Poiché Oreste dichiara di avere
ucciso la madre per vendicare il proprio
padre, era egli giusto o no che Clilenncslra venisse uccisa dal figliuolo
senza un giudizio ? » Ecco qual è il
modo di trovare il punto di
giudicazione: trovato il punto di giudicazione, converrà che a quello sia riferita
ogni ragione dell'inlero discorso. Il metodo adunque da seguirsi per trovare in
tutti gli stati di quislionc, c nelle diverse loro parli, il punto di giudicazione sarà questo ,
fuorché nello stalo di quistione congetturale. Imperciocché in esso nè si
domanda la ragione del fallo, perchè il
fatto è negalo, nè si cerca la replica dejl’avversario, perchè manca appunto la
ragione. Laonde in siffatto stato di
quislionc il punto di giudicazione viene
determinato dalla imputazione c dalla
negazione, in questo modo: Imputazione:
« Tu hai ucciso Aiace. » Negazione: « Io non 1’ ho ucciso. » Punto di giudicazione: « La ha egli
ucciso o no? » A questo punto si deve, come ho già detto, riferire ogni ragione delle due
aringhe. Se vi saranno più stali di
quistione, o più parli di quistioni in una medesima causa, ci saranno anche più punti di giudicazione, ma si troveranno
tutti nella maniera medesima. Io ho
posto diligente opera a parlare con
brevità e chiarezza di quelle cose che
dovevano essere fin qui discorse. Ora,
poiché abbastanza è cresciuto di mole il volume, è più conveniente esporre in un altro libro
il seguito del nostro soggetto, onde non venga la mente tua, per la moltitudine
degl’insegn amenti, oppressa da soverchia fatica. E se quest’ opera sarà compila più lardi di quello che tu desideri,
ne dovrai dare la colpa si all’ampiezza delle materie, e sì ancora alle occupazioni mie. Nulladimeno
io m’affretterò, e supplirò
coll’induslria alla scarsità del tempo,
a One di soddisfare al tuo desiderio
donandoti quest’ opera in coglraccàmbio de’ tuoi buoni uffizii verso di me, e come pegno della
mia affezione verso la tua persona. O
Erennio, io ho brevemente esposto quali
cause deve prender l’oratore, in quali
doveri dell’arte conviene ch’ei s’affatichi, e in quale. maniera può
facilissimamcnlc adempiere a siffatti doveri. Ma perchè non era possibile il
trattare tulle Icquistioni ad un tempo, e bisognava prima dilucidare le più
importanti, per farti poi più facilmente
intendere le altre, così io ho giudicato
conveniente di accostarmi di preferenza a quelle ehe erano le più difficili. Ci ha tre generi
di cause, il dimostrativo, il deliberativo, e il giudiziale: il giudiziale è il più difficile; tratterò
dunque di esso pel primo. Tanto ho pur
fallo nel libro precedente, toccando dei cinque doveri dell’oratore, dei quali il principale e il più difficile è
l’invenzione: or id darò in questo secondo libro presso a poco compimento a quanto concerne l’invenzione,
non «serbando che una piccola parte di
essa pel ler zo.Io ho comincialo primieramente a parlare delle sei parti proprie di un discorso: nel primo
libro ho detto dell’esordio, della
narrazione e della divisione, nè più a lungo di quello che bisognava, nè meno chiaramente che mi pareva essere da te
desideralo: di poi ho dovuto discorrere congiuntamente della confermazione c
della confulazione; per lo che ho fatto
conoscere gli stati diversi di
quistione, c le parti loro: di che venivasi a mostrare nel tempo
medesimo in qual modo, posta la causa,
sì può trovare lo stato della quistione, e le
parti sue: appresso ho insegnalo come bisognava cercare il punto di giudicazione; trovato il
quale', come è da curare che ogni
ragione dell’intero discorso si riferisca a quello: per ultimo ho
avvertilo che vi sono più cause, alle
quali possono adattarsi più stati di
quistione, o più parti di essa. II.
Rimane, penso io, a mostrare in qual maniera accomodar si possano le cose
dell’invenzione ir ciascuno stalo di
quistione, c a ciascuna parte di essa;
,e parimente quali siano gli argomenti delti
dai Greci £jri%£ip^P-ara , cui bisogna usare, e quali siano quelli, cui bisogna lasciar da parte;
le quali due cose riguardano appunto la
confermazione c la confutazione.
Insegnerò per ultimo in qual maniera dovrà farsi la conclusione oratoria, che è
appunto l’ultima delle sei parti di un discorso. Prima di tutto adunque noi cercheremo come convenga
di trattare ciascuna causa. Cominciamo dal considerare la causa congetturale,
che è la prima e la più diffeile. Nella
causa congetturale la narrazione dell’accusatore deve contenere dei sospetti
gettati c sparsi destramente qua c là in modo da far pensare che niun alto, niun dello, niuna
venuta, ninna partenza, niun fallo
insomma sia stato senza un motivo. I.a
narrazione del difensore deve prescolare una esposizione semplice e chiara,
acconcia a tor via ogni sospetto. Ciò che costituisce un tale stato di quistioue, è distribuito in sei
parti: in probabilità, in confronto, in
segno o indizio, in argomento, in
conseguenti, e in prova. Facciamo aperto
il valore di ciascuno di siffatti mezzi. La
probabilità è quella, per la quale si dimostra che il delitto fu vantaggioso all’accusato, e
ch’egli non fu mai uomo aborrente di una
tale turpitudine. Nella probabilità si
vogliono considerar due cose: la cagion
del delitto, e la condotta dell’ accusato.
La cagione, che può aver mosso al male, si è, o la speranza dell’utile, o Levitazione del danno:
come allorché si cerca, se mediante il
delitto ei pensò di avere qualche
vantaggio, per esempio onori, ricchezze,
potere, se volle soddisfare a qualche
sregolato amore o a qualche appetito di tale natura. 0 veramente se ebbe
in animo di evitar qualche danno, come inimicizie, infamia, dolore, supplizio. In quanto sia atla speranza dell’ utile,
l’accusatore verrà dimostrando la cupidità dell’animo del suo avversario, c in quanto sia
all’evilazion del danno ne andrà
esagerando le paure. 11 difensore,, al
contrario negherà, se potrà, che vi fosse una
cagione, o procurerà di attenuarla; quindi conchiuderà che è ingiusto
l’indur sospetto di malvagia azione in
tutti quelli, ai quali è derivato vantaggio
da alcuno lor fatto. Appresso si toglierà ad esaminare la condotta dell’
accusato dagli antecedenti. Nel che
l'accusatore andrà primieramente considerando, se al suo avversario abbia già a
rimprovc* rare qualche cosa di
somigliante; e ciò non trovando di lui, cercherà se egli potè mai essere
sospettato di una simile azione; e si adoprerà in questo di dimostrare che la condotta di lui ben
concorda con la cagione da esso
accusatore assegnata al delitto, di cui si tratta, come: Se affermerà che
la cagione del delitto è stato il danaro,
dimostrerà che colui è sempre stalo un
avaro; se l'onore, che ei fu sempre
ambizioso: così potrà congiungcrc il
vizio dell’ animo con la cagion del delitto. Se non potrà trovare in lui un vizio dell’animo, che
concordi con la cagione, ne cercherà uno di natura diversa. Se non Io potrà, per esempio,
dimostrare avaro, lo dimostri, se in
qualche modo il può, corrompitore e misleale: in fine per uno o più altri vizii farà lordo l’ animo del suo accusato; c
conchiude, clic non dee far meraviglia, che quello stesso uomo, che in addietro operò così male,
abbia ora commesso qucsl’altro misfatto. Se l’avversario godrà nome puro ed
intatto, dirà che bisogna tener conto dei fatti, non del nome; eh’ egli per lo passato seppe occultare le sue
turpitudini; ma che ora esso accusatore
farà aperto che colui è reo di misfatto.
Per quanto spetta al difensore, egli in
primo luogo verrà dimostrando, se potrà,
•che la vita dell’ incolpato è senza macchia; se ciò non potrà, piglierà difesa dalla
inconsideratezza, dalla stoltezza, dalla
giovinezza, dalla violenza, dalla
persuasione: con le quali scuse verrà ad allontanare da lui il biasimo delle
azioni anteriori all'accusa, di cui
presentemente si tratta. Ma se il
difensore si troverà forte imbarazzato dalle turpitudini e dalla mala
fama del suo accusato, prima , di tutto
darà opera a provare che si sono sparse
delle calunnie sopra un innocente; e farà uso di questo luogo comune, Che non bisogna
credere alle voci del volgo. Se nessuno
di questi sussidii potrà essere usato,
egli s’appiglierà all’ estrema difesa,
che è quella di dire, che non è suo obbligo di ragionare intorno ai costumi di
lui davanti a eensori, ma sì di
rispondere alle accuse degli avversari davanti a giudici. IV. Il confronto è, quando l’accusatore
dimostra che l’azione, ond’ è incolpalo
l’avversario, n-m è siala vantaggiosa a
nessun altro clic a quello; o clic non
la poteva altri eseguire che l’avversario;
o che il medesimo o non poteva compirla con altri mezzi diversi, o
almeno noi poteva tanto facilmente, o che, mosso dalla cupidigia, ha
trascurati altri mezzi più comodi. In
questo caso il difensore mostrerà che è d’ uopo che 1’ azione sia stata vantaggiosa ad altre persone, o che altre
persone eziandio abbiano potuto fare
ciò, di. cui è accusato il suo cliente.
Il segno è quello per coi si dimostra che P accusalo andò in cerca della
comodità di fare l’azione. Esso
comprende sei parti: Il luogo, il tempo, la durata, l’occasione, la
speranza della riuscita, la speranza di
non essere scoperti.Rispetto al luogo, si cerca, se era frequentato o deserto; se è sempre deserto, ovvero se fu
solamente quando si commise il fatto; se era sacro e profano, pubblico o privato; quali luoghi vi
sono allenenti; se colui, che fu
vittima, poteva essere veduto o udito. A
me non incrcscercbbe di descriver qui quale di tulle queste cose potesse
convenire all’accusato, e quale all’accusatore, se ciascuno non potesse
facilmente di per sè farne giudizio, posta che fosse la causa; perciocché
l’arte deve sì insegnare i principii
dell’invenzione; ma in quanto al .resto
è l’esercizio quello che celo fa
conseguire facilmente. Rispetto al tempo si cerca così: -In quale stagione dell’ anno; in qual
ora; se di giorno o di notte; c in qual ora del giorno o della notle dicesi avvenuto il falto,eperchè
in quel tal tempo. Rispetto alla durata
essa si considera così: Se fu
abbastanza, perchè il fatto potesse compiersi, e se l’accusato potè esser certo
che quella quantità di tempo era per
bastare a compirlo. Imperciocché poco monta che lo spazio del tempo sia stato bastante .a compire il fatto, se
non si è potuto ciò sapere c calcolare
innanzi. Rispetto all’occasione si va cercando, se essa sia stata opportuna ad
intraprendere il fatto, se ce ne sia stata
un’ altra migliore, che o siasi lasciata sfuggire, o non siasi aspettata. Quanto alla speranza
della riuscita si esaminerà essa in questo modo: Se i segni or ora delti concordino insieme: se inoltre
apparirà per una parte esservi stalo forza, danaro, consiglio, conoscimento,
precauzione; c per l’altra si mostrerà
esservi stato debolezza, povertà, sciocchezza, ignoranza, incuria: da ciò potrà
sapersi se l’accusato doveva aver
fidanza o non averla. Quanto alla
speranza del non essere scoperti, sarà fatta più o meno evidente secondo il numero de’
complici, de’testimoni, du’cooperalori,
o siano liberi o siano schiavi, e dogli
uni e degli altri insieme. V. L'
argomento è quello, per cui si mette in
chiaro il fatto con più certe prove, e con più fondati sospetti. Esso si
rapporta a tre tempi: All’antecedente, al presente, al conseguente. Rispetto al
tempo antecedente bisogna considerare dove l’accusato si trovò; dove e con chi
fu veduto; se fece qualche preparamento;
se andò a trovare alcuno; se disse
qualche cosa; se ebbe con sè alcuno dei
complici o de’ cooperatori; se fu in qualche luogo fuori della consuetudine sua, o in ora
inopportuna. Rispetto al tempo presente si cerca, se sia stalo coito flel fatto ; se si è udito qualche
strepilo, qualche grido, qualche romorc,
o finalmente se si è compreso alcun che
per mezzo di qualche senso, con la
vista, con 1’ udito, col tatto, coll’ odorato*
col gusto: perciocché il testimonio d’ alcuno di questi sensi può aggrandire il sospetto.
Quanto al tempo conseguente si
riguarderà, se dopo il fatto vie rimasta
alcuna traccia, cheindichi esservi stato
delitto, e chi nc possa essere 1’ autore. Che vi sia stato delitto si riconosce a questo modo: Se
il corpo del morto è gonfio e livido, è segno che vi è stato avvelenamento. Se ne scopre poi l’
autore a questo modo: Se un pugnale, se
una veste, se qualche altro oggetto di
questo genere sia stato lascialo, o
qualche vestigio si è rinvenuto; se vi
ebbe sangue nelle vesti dell’accusato; se fu preso o veduto, dopo il fatto, nel luogo dove
dicesi essere quello accaduto. I conseguenti son quelli, quando si cerca quali esser possono i segni,
che risultano, della colpabilità o della
innocenza. L’accusatore dirà, se potrà, clic il reo, quando fu arreslato, arrossì,
impallidì, vacillò, si contraddisse,
cadde ncirabballimenlo, feccdelle promesse; tutti segni, che manifestano la coscicuza. Se
l’accusato non fece nulla di tutto ciò,
l’accusatore dirà c!ie colui calcolò
prima così bene ciò che gli avrebbe a
tornar vantaggioso, che rispose con una sicurezza insuperabile; il clic è segno
di audacia e non d’innocenza. 11
difensore poi, se l’ accusalo lasciò
vedere dello sbigottimento, dirà che esso restò commosso non per la
coscienza d’un delitto, ma per la
grandezza del pericolo. Se non diè segni di sbigottimento, dirà che, forte
della sua innocenza, non poteva restare
commosso. VI. La prova confermativa è
quella, di cui facciamo uso all’ ultimo, quando il sospetto è bene stabilito. Essa ha dei luoghi proprii e dei
luoghi comuni. I proprii sono quelli ohe
non possono servire che all’ accusatore o al difensore. I comuni sono quelli che in una causa convengono all’
accusalo, e in un’ altra all’ accusatore. Nella causa congetturale il luogo proprio dell’ accusatore
è, quando dice che non bisogna aver
compassione dei malvagi, e quando
esagera 1’ atrocità del delitto. Il luogo proprio del difensore è, quando
eccita la compassione e si lagna di calunnie nell’accusatore. I luoghi comuni,
così dell’accusatore come del difensore, sono il parlare in favore o contro dei
leslimonii, in favore o contro della tortura, in favore o contro degli
argomenti, in favore o contro della voce pubblica. Noi diremo in favore
dei testimonii, se allegheremo la loro
buona fama e condotta di vita, non meno
che la immutabilità delle loro
testimonianze. Contro dei testimonii diremo, se allegheremo la turpitudine
della loro vita, la mutabilità delle loro testimonianze ; c se sosterremo o che
non poteva farsi, o che non è stalo
fatto ciò clic essi affermano, o clic noi potevano sapere, o clic nelle loro parole ed
argomentazioni havvi della parzialità:
questo sarà appunto il modo di biasimare
o di approvare i testimonii. Noi parleremo in favore della tortura se
dimostreremo che i nostri maggiori usarono aneli 'essi i tormenti c le durezze
per iscoprire il vero, e vollero che
coll’ eccesso del dolore fossero gli uomini forzati a dire ciò che sapevano. E
l’argomentazione nostra sarà più decisiva, se, ricorrendo alle medesime prove, clic furono adoperate in
tutta la quistione congetturale, daremo
alle confessioni fatte per questo modo
il carattere della vcrisimiglianza; il che pure converrà di fare anche
rispetto alle testimonianze. Ecco poi
come parleremo contro della tortura: Primieramente diremo che i nostri maggiori
non ne vollero far uso che in alcuni
casi speciali, quando con questo mezzo si potesse discoprire la verità ocombettcrc la falsità
delle parole, clic in una data quistione si proferissero, co ino sarebbe in questo caso: In qual luogo sia
stata messa una lai cosa; ovvero se si Iraf lasse di qualche fallo consimile,
che non potesse essere scoperto o riconosciute che con questo unico mezzo. In
secondo luogo diremo che non bisogna poi
prestar fede al dolore, perchè 1’ uno può essere più debole all' altro nel sopportarlo,
o più ingegnoso a trovar menzogne,
perchè finalmente può spesse Gate
conoscere o sospicare ciò che il giudice
desidera udir da lui^ed egli ben sa che,
ove dica ciò* viene ad esser messo Gne al suo dolore. Quest’
argomentazione sarà ancora più valida, se confuteremo le confessioni strappale
per mezzo della tortura con ragionamenti
appoggiati al probabile; c ciò bisognerà
fqrc coi modi già indicali per le cause congetturali. Se noi vorremo dar forza agli argomenti, ai segni, c agli
altri luoghi, che accrescono la sospizionc, converrà che parliamo in questa forma: Allorché un gran
numero di argomeiUi c segni concorrano, i quali s’accordino fra loro, è d’ uopo
che la cosa presa a dimostrare assuma il carattere non di sospetto, ma Il testo
dice, et si quid esset, quod videri , aut
aliquo similisig no iiercipi possct-, ma ([ucsUìeLÌonc non ha certamente un senso probabile. Le
correzioni proposte dai filologi sono molte c varie. Nella traduzione ho procurato di dare un senso probabile. Il
Trai. di certezza; e così è d’ uopo che
più si creda al segni e agli argomenti
che aPtcslimonii; perciocché i segni e gli argomenti sono i fedeli
espositori di ciò che veramente è
accaduto, ed i testimonii possono essere
corrotti per danaro, per favore, per
timore, per avversione. Volendo noi parlare contro agli argomenti, ai
segni, c agli altri sospicamcnti, dimostreremo che non vi ha nulla, di cui tion possiamo essere accusati in conseguenza
di sospetti; in appresso attenueremo ciascun sospetto in particolare, e daremo opera a mostrare che
esso può venire addossalo non tanto a
noi, quanto a qualunque altra persona; e
che è cosa indegna che una* congettura e
un sospetto debba, senza aiuto di*
testimonii, riguardarsi come una prova
bastante. Noi parleremo in favore della voce pubblica, se sosterremo che
l’opinione non si forma punto a caso senza verun fondamento; e se diremo che non è occorsa cagione, per la quale
taluno avesse interesse a mentire c ad
inventar favole; e proveremo con ragioni
che, quando pure fossero per solito
false tutte le altre voci, questa, di cui si
tratta, è però vera. Se vorremo parlare contro alla voce pubblica, mostreremo primieramente che
ce ne ha di molte clic sono false, c
citeremo esempi, dei quali sia stala
falsa la fama; e diremo che o sono
nostri nemici, o uomini di natura malevoli e maldicenti (fucili che inventarono
una siffatta favola, e addurremo qualche finto racconto contro ai nostri avversarli, il qual diremo essere
ripetuto da tutti; onde anche
allegheremo una voce vera di cui essi
abbiano ad arrossire, protestando però che
noi non prestiamo fede ad essa, perchè chiunque può metter fuori alcuna brutta voce contro di
chicchessia, e seminare qua e colà una calunnia. Ma se la voce parrà esser mollo probabile,
bisognerà che noi per forza di argomenti
togliamo via alla fama tutta la
credenza. Siccome la quislione congetturale è la più difleile a trattarsi, e
spessissimo si presenta nelle cause vere, così noi abbiamo esaminate tutte le sue parti con tanto più di
diligenza, affinchè arrestati non fossimo dal più piccolo vacillamento od
intoppo, se a questa ragione
dell’insegnamento volessimo un giorno accoppiare l'assiduità dell’ esercizio. IX. Ora passiamo alle parti della quistion
legale. Quando insorga dubbio che vi sia discordanza fra il lesto e l’intenzione di colui che ne
fu l’ autore, se noi difenderemo loscrillo, useremo dopo la narrazione i luoghi seguenti:
Primieramente faremo 1’ elogio del suo autore: poi leggeremo ad alta voce lo scritto: quindi domanderemo, se
per ventura gli avversari sappiano che
sia mai stato scritto in una legge o in
un testamento o in una stipulazione o in
qualunque altra scrittura cosa alcuna che aver possa attinenza al soggetto in
quislione. In appresso, istituito il confronto di ciò clic è scritto con ciò che gli avversarli
interpretano siccome vera intenzione,
domanderemo a che dovrà il giudice appigliarsi; se a cièche è positivamente
scritto, o a ciò che è sottilmente immaginato: in seguilo biasimeremo e confuteremo
il sentimento immaginato dagli avversarii ed attribuito allo scritto. Di poi domanderemo, se l’autore
aveva intenzione di scrivere nel modo
che s’interpreta, qual cosa lo impedì di
scrivere appunto così? Dopo ciò noi
faremo aperto qual sia il verosenso, e metteremo in luce la cagione, per cui lo
scrittore sentì appunto come scrisse, e
proveremo che quello scritto è chiaro,
conciso, naturale, compiuto, determinato. E qui noi produrremo esempi di
giudizìi pronunziati a favore dello scritto, avvegnaché gti avversarii adducessero nell’ autore di
quello e sentimento e intenzione
diversi. Finalmente mostreremo quanto sia pericoloso dipartirsi dallo scritto.
Havvi un luogo comune contro di colui, che,
pur confessando di avere operato contro a ciò che è dalle leggi ordinato o scritto in un
testamento, cerca di difendere il fatto
proprio. A favore dell’ intenzione noi parleremo così: Primamente loderemo l’aggiustatezza e la
concisione dello scrittore, perchè scrisse nè più nè meno di ciò che era necessario, e s’avvisò di non
essere temito a scrivere ciò clic, senza essere scritto, poteva venire inteso:
secondariamente diremo esser proprio
soltanto dell’ uomo di mala fede lo appigliarsi alla parola e alla lettera, e
non tener conto deirinlcnzione. In
appresso diremo clic ciò che c scritto,
o non può essere eseguilo, o veramente,
se può essere eseguilo, esso è contro alla legge, aU'uso, alla natura, all’equità, al buono; c
niuno dirà, che P autore non abbia
voluto clic lutto sia fallo secondo il
giusto: ora ciò clic noi abbiamo fatto,
egli ò interamente conforme alla giustizia.
Aggiungeremo poi che l’opinione contraria o è assurda, o è insensata, o
è ingiusta, o tale che non può avere
effetto, o che non è d’a.ocordo coi sentimenti clic precedono, e con quelli che
vengon dopo, o eh’ ò in opposizione col
diritto comune, o con le altre* leggi
comuni, o coi giudicati. Dopo ciò faremo
enumerazione degli esempi di giudicati
in favore dell’ intenzione e contro lo scritto; e finalmente produrremo
dei brevi estratti di leggi e di
stipulazioni, nelle quali possa essere compresa
dall’inlcllcllo c l’ intenzione e l’ esposizione degli scrittori. Ilavvi poi un luogo comune contro
di colui che reciti uno scritto, e non interpreti l’intenzione di chi ha fatto.
Allorché due leggi saranno discordanti
fra loro, bisognerà prima vedere, se vi
sia abrogazione o derogazione: appresso, sq
queste leggi dissentano cosi, che l’una comandi e l’altra proibisca; o
che l’uria obblighi e l’altra permetta. Imperciocché sarà debole la difesa di
colui,, che dirà, di non aver fatto ciò,
a cui da una legge è 'obbligato,
cssendovcne un’altra che permette;
perchè ha più forza una legge che obblighi, che una che permetta. Parimente è debole la
difesa, quando si mostra clic si è fatta
quella cosa che viene stabilita da
quella legge alla quale è stala fatta
abrogazione o derogazione; e se non si è tenuto conto di ciò, che viene
ordinato dalla legge posteriore.
Allorché si saranno bene considerate
queste cose, bisognerà subitamente addurre, leggere, commendare la legge
a noi favorevole. Appresso dichiareremo il senso della legge contraria, e quella trarremo al vantaggio della nostra
causa. All’ ultimo dalla quistione
giurisdiziale assoluta prenderemo la
ragione del diritto, e cercheremo quella
parte del diritto che stia a favor nostro :
della qual parte parleremo più sotto. Se lo scritto è ambiguo, vale a
dire che si presti a due o più
interpretazioni, noi lo tratteremo
aqueslomodo:Inprimo luogo cercheremo, se sia o no ambiguo; poi mostreremo come avrebbe
dovuto essere esposto, se lo scrittore
gli avesse voluto dare quel senso, che
gli avversari interpretano. In seguilo mostreremo che la nostra
interpretazione .non solo è da
preferirsi, ma è anche onesta, giusta, conforme alla legge, all’uso, alla natura,
al bene, all’ equità; clic quella degli avversarli è .il contrario; die infine uno scritto allora non
è ambiguo, quando si capisce quale dei due significati è il vero. Ci sono alcuni,! quali son di
parere che, a trattare siffatta causa,
bisogna mollo conoscere la scienza delle
anfibologie, che i dialettici insegnano; ma noi pensiamo cha essa non solo non
è di alcuno aiuto, ma che anzi è d’
impedimento; perciocché costoro tengono
dietro a tulle le amfibologic, anco a quelle, clic, prese al contrario, non presentano senso veruno. Laonde eglino
altro non sono che molesti
inlcrrompitori dell’ altrui parlare, e
interpreti odiosi cd oscuri di uno scritto;
e, mentre parlar vogliamo con cautela ed esattezza, riescon peggio che bimbi. Cosi mentre temono
di lasciarsi sfuggire una parola clic
abbia più di un senso, non osano
neppurpronunziarcil loro nome. Ma quando
tu vorrai, io confuterò le loro puerili
opinioni coi più solidi argomenti. Intanto non è stato inutile il dir qui per incidenza ciò che
ho detto, a fine di giltarcin discredito
questa garrula scuola di fanciulli. Quandouscrcmo la definizione, noi daremo prima una breve definizione della parola :
per esempio: « È colpevole di lesa
maestà chi fa violenza a quelle cose che costituiscono la grandezza dello Stalo, quali sono appunto i suffragi
del popolo, e le adunanze de’ magistrali. Or dunque tu, quando rovesciasli i
ponli, li oppoiiesli ai suffragi del
popolo, e all’ adunanza de’ magistrali. » L’accusato per contrario risponderà:
« E colpevole di lesa maestà chi porla
danno alla grandezza dello Sialo. Io non
le portai danno, anzi la difesi, perchè conservai P erario, mi opposi all’
avidità dei tristi, non permisi che la
maestà dello Stato perisse tutta intiera. » Prima adunque si spiegherà brevemente e acconciamente a vantaggio
della nostra causa il senso della
parola: poi si combinerà il fatto nostro con la definizione della parola; quindi si confuterà la ragione della
definizione contraria, se sia o falsa, o
inutile,, o sconcia, o ingiusta; e gli argomenti a ciò li piglieremo dalle parli del diritto che spelta alla quistionc
giurisdi* ziale assoluta, della quale
oramai terremo' parola. Per la
traslazione poi si cerca primieramente, se
alcuno, a cui non appartenga, possa nel fatto presente avere azione, per
dimandagione od istanza; o se gli possa
ciò spellare in altra maniera, in altro tempo, in altro luogo; o se per altra
legge, o con altro giudice, o con altro
accusatore. A tutte le quali cose sarà
fatta ragione secondo le leggi, l’uso,
l’equità, ed il bene: di clic tutto parleremo
nella quislione giurisdiziale assoluta. Nelle cause fondate sopra l'analogia cercheremo prima, se
in cose maggiori, o minori, o simili, è
stala fatta alcuna legge analoga, o data analoga decisione: poi se la cosa
addotta è simile o no alla cosa di cui si
traila; poi se è a disegno che nulla si è scritto intorno a quella cosa,
perchè non vi si è voluto provvedere, o perchè si è giudicalo che vi fosse
bastantemente provveduto con altre leggi analoghe. Noi abbiamo a bastanza
parlato delle parti della quislione legale; ora rechiamoci alla quislione
giurisdiziale. XIII. Noi faremo uso
della quislione giurisdiziale assoluta allorché, confessando di aver fatta un’azione, sosterremo di averla fatta a
diritto, sen- za aiutarci con veruna estrinseca difesa. In essa conviene cercare, se si è operalo a buon
diritto, del qual diritto noi potremo
discorrere, se conosceremo le parli costitutive di esso. Le quali parti sono sei: Natura, legge, uso, giudicalo,
equità, patto. Il diritto, che vicn
dalla natura, è quello che si osserva
per cugion di cognazione o di pietà;
quel diritto, pel quale spettano doveri reciproci così ai padri verso i figli, come ai figli
verso i padri. Il diritto, che vien dalla legge, è quello che è costituito dalla volontà del popolo; come è
quello che ci obbliga di presentarci in
giudizio quando vi siamo chiamati. Il
diritto, che vien dall’ uso, è quello,
clic, in mancanza di legge, è osservato comunemente, come se fosse stabilito da
una legge: per esempio: « Se tu avrai
fatto deposito del tuo avere presso un
banchiere, lo potrai giustamente ridomandare anche dal socio di esso ».
Iitliritlo, che viene da un giudicalo, è
quello intorno a cui è stata pronunziata
sentenza o interposto decreto. Ma
sovente i giudicati variano secondo il diverso
modo di pensare di un giudice, di un pretore, di un console, di un tribuno della plebe; e ne
avviene clic spesse fiale sopra la cosa medesima 1’ uno decreta e giudica ad un modo, e l’ altro ad
un altro; come sarebbé a dire: « Marco Druso, pretore urbano, profferì giudizio diesi potesse far
lite per cagion di mandato coll’ erede;
Sesto Giulio profferì giudizio contrario. Parimente Caio Celio giudice rimandò
assoluto per accusa d'ingiurie quel1* attore, che aveva offeso il poeta
Lucilio, nominandolo in iscena : Publio Muoio, al contrario, condannò quell’altorc che aveva nominato in
isccna il poeta Lucio Azzio ». Poiché adunque due cause simili possono essere stale giudicate
diversamente, bisognerà che noi, quando ciò sia accaduto, facciamo conoscere
cosi i giudici come le occasioni, non meno che il numero dei giudicati,
che furono in favore o in danno della
cosa. Dall’equità viene il diritto,
quand’ esso sembra fondato sulla verità
c sull’ utile comune; come: « Chi ha più di
sessanl’ anni, ed è impedito da malattia, può farsi rappresentare in giudizio per mezzo di
procuratore ». Per forza di questo principio può costituirsi anche un nuovo diritto secondo 1’ occasione c
la dignità della persona. Dal patto viene il diritto, quando due o più persone hanno fatto fra loro
una convenzione, un accordo. Ci son dei
patti che voglionsi osservare in forza di leggi, per esempio: « Potrassi far causa nel luogo dove si è
pattuito; se non si è pattuito, dovrassi
trattarla o nel comizio, o nel fóro prima del mezzogiorno a. Similmente vi sono
de’ patti, che senza intervento di leggi
si osservano in forza di convenzione, i quali
si dicono esecutorii per diritto. Ecco adunque quali sono le vie, per le quali conviene
trovare il torlo, o confermare il
diritto; e ciò deve farsi nella
quislione giurisdiziale assoluta. Nella quislione giurisdiziale
assentiva, allorché per l’ alternativa si domanderà quale delle due cose sia stato meglio di fare, o quella,
che l’accusato confessa di aver fallo, o
quella, che l’accusatore dice clic era d’uopo di farsi: si dovrà primieramente
esaminare quale delle due sia stata più
vantaggiosa in confronto, vale a dire più bella, più facile, più profittevole. Poi bisognerà
domandare, se spellava a lui il giudicare quale delle due era più vantaggiosa, o se apparteneva ad
altrui il dettare le condizioni. In
seguilo l’accusatore, giovandosi delia quislione congetturale, interporrà
il sospetto, che l’ accusalo non abbia
operato con questa ragione di anliporre
il meglio al peggio, ma che abbia
proceduto con mal dolo: ed anco domanderà in fine, se si poteva evitare di
venire in quel tal luogo. II difensore,
all’opposto, confuterà F argomentazione
congetturale con alcuna delle cagioni
probabili, di cui si è già parlato. L’accusatore, dopo aver messi in campo i
motivi detti di sopra, userà un luogo
comune contro all’ avversario, dicendo, che egli ha piuttosto preferito il
nocevole al vantaggioso, allorquando non era più in poter suo il dettare le condizioni. Il
difensore poi, contro di coloro, che
giudicano onorevole F antipode l’estrema rovina all’ utile, userà il luogo
comune per compianto; e nel medesimo tempo domanderà agli accusatori e ai
giudici stessi, checosa avrebbero fatto
se stati fossero in quel posto; e
metterà loro sotto gli occhi il tempo, il luogo, la cosa, e i motivi, che ebbe il suo
cliente. XV. La recriminazione si ha,
allorquando l’accusato va pretestando cagione al fatto proprio il fallo d’altrui. In tal caso l’accusatore
cercherà primieramente, se a ragione si possa trasferire la reità in altrui; secondariamente esaminerà, se il
fallo, che è imputalo ad altrui, è così
grave come quello che F accusalo
confessa di aver commesso egli medesimo:
di poi, se era d’uopo commetter fallo,
perchè altri ne ha commesso uno innanzi; di poi, se era d’uopo ctie di quel primo fallo fosse
avanti dato giudizio; di poi,
conciossiachè niun giudizio sia slato
pronunzialo del delitto imputato ad altrui, se l’accusalo abbia diritto di
costituir cosi sè medesimo giudice di un’azione, che non è ancora stata secondo le leggi giudicata. Qui cadrà
in acconcio quel luogo comune, per cui l’ accusatore farà rimprovero all’accusato, elfei mostri
così esser d’avviso, che s’abbia a preferire la violenza ai giudizii, e domanderà pur anche, che cosa
accadrebbe, se gli altri facessero altrettanto, cioè che pigliassero supplizio di coloro che non sono
per anco condannati, adducendoper
ragione, ch’eglino medesimi ne hanno prima dato l’esempio. Che si direbbe, se l’accusatore egli stesso
avesse voluto fare altrettanto ? Il
difensore, al contrario, porrà nel mezzo
1’ enormità del fallo di colui sopra del
quale verrà trasferita la reità ; e porrà sotto agli occhi il fatto, il luogo, il tempo per modo,
che gli udij^ri si persuadono, o clic
non era possibile, o che non era
giovevole, che l’ affare venisse recalo
dinanzi ai tribunali. XVI. La
concessione è quella, per la quale noi
domandiamo che ci sia perdonato. Essa si divide in due parti: in iscusa e in preghiera. La
scusa è, quando dichiariamo di avere
operato senza pensamento. Essa abbraccia tre parti: la necessità, la fortuna, l’ ignoranza. Parleremo prima di
queste tre parti, c poi diremo della
preghiera. Primieramente si dovrà considerare dall’accusatore, se noi fummo indotti a questa necessità per colpa
nostra, o se fu la neccssilà per sè stessa quella che ci indusse alla colpa. In
appresso si cercherà in qual modo si
poteva da noi evitare quella necessità od
attenuarla; e se colui, che si scusa con la necessità, ha tentalo tutto
quanto era in poter suo di fare o di
immaginare per resistere ad essa; e se trarre
si possano dalla quistione congetturale dei sospetti, che portino
indizio essere stato fatto pensatamente ciò che dicesi accaduto per necessità;
e finalmente, quando pure vi sia stata una qualche necessità se convenga tenere questa
necessità come una scusa bastante. Se
poi l’accusato dirà, essersi da lui
commesso il fallo per ignoranza, „
l’accusatore cercherà primieramente, se quegli
poteva sapere o non sapere; di poi, se ha fatto opera di sapere o no; c quindi, se ei non
seppe per puro caso, ovvero per sua
colpa: imperciocdiè chi si scusasse di
essere stato privo di ragione o per ubriachezza,
o per trasporto di amore o di collera,
egli parrebbe che avesse perduta la cognizione per un vizio dell’animo e non
per ignoranza: laonde non difenderebbe
sè colla ignoranza, ma si macchierebbe
di una colpa. Dopo ciò per mezzo della
quistione congetturale cercherà, se realmente sapeva o non sapeva; c
considererà, se l’ignoranza esser debba difesa bastante, quando pur consti che la. cosa sia stala fatta per
ignoranza. Quando se ne attribuisce la
cagione alla fortuna, c clic il
difensore dica, doversi per questo motivo
perdonare all’accusato, bisognerà che l’accusatore metta in campo tulle quelle considerazioni
medesime, che abbiamo poste là, dove parlammo della necessità. Imperciocché tutte queste tre
specie di scusa hanno allìuilà fra loro,
sì chea tutte si possono accomodare le considerazioni medesime. In siffatte cause tornano in acconcio i luoghi
comuni, rispetto all’ accusatore, contro
a colui, che, pur confessando di avere
peccato, trattiene inutilmente i giudici con parole, e, rispetto al difensore,
di implorare il perdono dall’umanilà e
dalla compassione, e di sostenere che, dovendosi io tutte cose aver riguardo all’attenzione, non v’ha
colpevolezza in quelle azioni clic sono
stale fatte senza un positivo consiglio. Noi useremo la preghiera, se,
confessando il fallo, e lasciata da parie la scusa dell’ ignoranza, o della
fortuna, o della necessità, domanderemo clic ci sia perdonalo. E qui il motivo
del perdono si trae dai luoghi seguenti:
Se parranno essere più, ovvero più grandi
i meriti che i torli; se alcuna virtù o
nobiltà sarà in colui che supplicherà; se alcuna speranza ci avrà che
perdonando al reo, abbia ciò ad essere
di universale giovamento; se si mostrerà che il supplicante medesimo fu clemente e compassionevole quando aveva in
sua mono il pplerc; se il fallo, ch’ei
commise, noi commise per odio o crudellà, ma spinto da obblighi e da retta
intenzione; se per una cagione si- ,
mile fu mai perdonato ad altro reo; se parrà non dovere a noi derivar danno mandandolo
perdonato; se per un tale perdono non ce ne verrà alcun biasimo dai nostri concittadini, o da qualche
altra cittadinanza. Si passerà quindi ai
luoghi comuni intorno airumanHà,allafortuna,allacompassione, alla mutazione
delle cose. L’ avversario poi rivolgerà
tutti questi luoghi contro l’accusalo aggiungendovi l’ amplificazione e l’ enumerazione di tutti
i falli, che gli vengono imputati.
Questa maniera di trattazione torno vana nelle cause pubbliche, siccome ho già detto nel primo libro; ma potendo esser giovevole davanti al senato, o ad un
consiglio militare, ho creduto bene di non doverla tacere. Quando noi vorremo rimuovere l’accusa per
mezzo della discolpa, getteremo la
cagione del nostro fallo o sopra di una
cosa, o sopra di una persona. Se si
getterà la causa sopra di una persona, primieramente si cercherà, se colui
sopra del quale sia gettata la causa,
potette tanto, quanto il reo dimostrerà,
e in qual maniera si poteva o con onore o senza pericolo resistere ad esso : c
quando pure si animella quello che il
reo dice, se nullameno sia ragionevole di scusare il reo dell’ avere operato per impulso altrui: e passando quindi
alla quistione congetturale si discuterà,
so. fu operalo con cognizione di causa o no. Se poi la cagione si getterà sopra di una cosa, si terrà la stessa
maniera di ricerche, e vi si unirà tutto ciò che abbiamo già detto intorno alla necessità. Poiché ci
pare di avere bastantemente dimostrato
di quali argomenti è d’uopo far uso in
ciascuna delle quislioni del genere giudiziale, ora verrò insegnando come abbellir si possano e
perfettamente trattare questi argomenti medesimi. Imperciocché egli non è mollo difficile
trovare ciò dhe serve di sostegno alla
nostra causa, ma, trovato che sia, si è difficilissimo pulirlo e
convenientemente esporlo. E quest’ arte è appunto quella, che fa che noi non ci fermiamo più a lungo
di quanto bisogna sopra le stesse cose,
e non ritorniamo più e più volle al punto medesimo, e non abbandoniamo il ragionamento incomincialo,
enon passiamo male a proposito ad un
altro. Mercè adunque quest’arte, e sarà
facile a noi di trovare nella memoria
tutto quanto avremo detto in ciascun luogo, e potrà l’uditore comprendere e
fermar nella mente la distribuzione cosi di tutta la causa come di ciascheduna prova. L’
argomentazione adunque più compiuta e più perfetta si è quella che comprende cinque parli: La
proposizione, la ragione, la confermazione della ragione, rornamento, e la recapitolazione. La
proposizione è l’esposizione compendiosa
di ciò che vogliamo provare. La ragione è il principio , che dimostra esser giuslo ciò, a cui miriamo ,
soggiungendolo brevemente. La
confermazion della ragione è quella, che fortifica con molle prove ciò che la
ragione ha brevemente esposto.
L’ornamento è quello, di cui facciamo
uso per abbellire ed arricchire la causa,
allorché le prove sono bene stabilite. La
ricapitolazione è quella che conchiude brevemente, raccogliendo le
diverse parti dell’ argomenta- . zione. XIX. Se vorremo adunque far uso di tutte
queste cinque parti, ecco come tratteremo l’argomentazione : « Noi abbiamo a
dimostrare che Ulisse aveva un motivo di
uccidcrcAiace; perciocché voleva torre di vita un nemico acerrimo, dal quale non a torlo temeva per sé sommo pericolo.
Vedeva che, vivente Aiace, egli non era sicuro della persona; colla morte di lui sperava di
procacciare salvezza a sé : era suo
costume, -in mancanza di mezzi
legittimi, di usar la frode per toglier via un
nemico; di clic è una prova convincente la non degna morte di Palamede.
Dunque e il timor di un pericolo
spingeva lui ad uccider quello, dal quale
temeva una punizione, c la consuetudine del delitto dilungava da esso
ogni dubbio di metter mano
all’assassinio. Imperciocché in generale gli uomini, i quali non
commettono mai senza un perchè i falli
più leggieri, sono da ultimo tirati a commet
Lifino il. tereiMclitli più
grandi, allora che certi sono di averne
accogliere un vantaggio. Or bene: se molli
spinti furono al male dalla speranza del guadagno, se una gran parte degli uomini gillossi nei
delitti per T ambizione del potere, se
altri pagarono un leggiero guadagno a
prezzo della più gronde iniquità, chi si meraviglierà clic costui,
tiranneggialo dal più vivo timore, non
siasi astenuto da un assassinio ? Un eroe pien di coraggio e d’integrità, che non perdonava ai nemici, oltraggiato,
irritato, non si potè partir vivo da un
rivale pieno di paura c di ribalderia,
che sapeva di esser colpevole, insidioso, nemico: a chi parrà strana cosa
cotesta ? Se noi vediamo le bestie
feroci levarsi pronte ed irose per
nuocere ad altro animale bruto, non è da
giudicarsi impossibile cheanche l’animo feroce,
crudele, ed inumano di costui siasi avidamente gittato a dar morte al suo nemico ; tanto più
se consideriamo, che nelle bestie non si
scorge vcrun motivo nè buono nè cattivo,
c che in costui sappiamo essere sempre stali assaissimi e grandissimi molivi. Se dunque io ho promesso di svelare
la cagione, dalla -quale indotto Ulisse commise l’assassinio, c se ho dirtiostrato
esserci intervenuta ragione potentissima d’ inimicizie e timor di
pericolo, non v’ha dubbio ch’ci non
confessi che tale è stata la cagione del
suo delitto. L’ argomentazione più
perfetta è adunque quella che si compone di cin que parli ; ma non è
sempre necessario di usare quesla
maniera di argomenlazione. Imperciocché
vuoisi, per esempio, lasciar da parie la recapitolazione, quando la cosa
è così limitala che facilmente si possa tenere a memoria; e vuoisi pur
pretermettere l'ornamento, quando il soggetto poco si presta di per sé stesso all’amplificazione e
adornamento. Se 1’ argomentazione è breve, e nello stesso tempo è modesto il soggetto e poco
fecondo, bisogna allora astenersi daU'ornamento e dalla recapitolazione. In ogni argomentazione,
rispetto all’uso delle due ultime parli,
è da tener conto di quello clic ora ho
defto.L'argomcnlazioue più perfetta Iva dunque cinque parli; la più breve ne
ha tre, la mediocre, tolto via da essa o
l’ornamento o la rccapilolazione, ne ha
quattro. XX. Due generi di argomentazioni viziose
ci sono: 1’ uno, che appartenendo
propriamente alla x causa può essere
confutato dall’avversario; l’altro, che,
essendo inconcludente, non ha bisogno di
venir confutato. Quali siano le argomentazioni che convenga di confutare, e quali quelle che
debbansi deprezzare e passar sotto silenzio senza confutarle, tu non potrai
chiaramente conoscere se non li porgerò
gli esempi. Questa cognizione delle
viziose argomentazioni li apporterà due vantaggi: il primo, di farli evitare i difetti nel
ragionamento, il secoudo , d’ insegnarli
a conoscer facilmente quelli clic
l’avversario non ha sapulo cvilare. Poicliè adunque noi abbiamo mostralo che la
perfetta e compiuta argomentazione si
compone di cinque parti, consideriamomi
ciascuna qualjsono i difetti da
evitarsi, acciocché e nei medesimi possiamo
guardarcene, e col metodo istesso attaccare le argomentazioni dogli
avversarli in lutto le parli loro, e
farle da alcuna parte cadere. L’esposizione è viziosa, quando, prendendo per
modello taluno, o la maggior parte degli
uomini, si appropria a lutti ciò che non
è conveniente necessariamente a tutti, come
se si dicesse così: « Tutti coloro clic sono
poveri, amano meglio di procacciarsi ricchezze con le ribalderie, clic conservare la povertà
seguendo il dovere. » So uno esponesse
così la sua argomentazione senza curarsi di cercare qua! ne fosse la ragione o la oonl'errpazion della ragione,
noi potremmo facilmente confutare la sua stessa esposizione, mostrando che è
falso ed ingiusto attribuire a lutti i
poveri ciò che può essere solo di qualche
povero malvagio. Parimenti è viziosa l’esposizione, quando si afferma
che ciò che accade di rado, non può
punto accadere, come: « Niuno d’una sola
occhiata, e in passando, può esser preso d’amore:» perciocché essendo pure accaduto che taluno
fa d’ un’ occhiala preso di amore, c
quegli affermando che ciò non è accaduto ad alcuno, poco importa che poi ciò
accada di rado, quando si sa che qualche volta accade od è possibile che
accada. Similmente è viziosa l’esposizione, quando noi mostriamo di avere enumerale tutte le
circostanze di un fatto, e ne ommeltiamo qualcheduna essenziale, per esempio: « Poiché adunque è
manifesto eh c stalo ucciso un uomo, è d’ uopoche sia stato ucciso o da malandrini, o da
nemici, o da te, cui egli ha per
testamento lasciato crede in parte. Di
malandrini in quel luogo non se pe sono
veduti mai, di nemici non ne aveva alcuno: non resta altro, che, se non è stato ucciso nè da
malandrini, che in quel luogo non ne furono mai, nè da nemici, cui egli non aveva, sia stalo
ucciso da le. » In siffatta esposizione
noi faremo uso della confutazione,
mostrando che altre persone, oltre a
quelle che l’oratore ha nominate, hanno potuto
commettere l’omicidio: come se nel citato esempio, allorché fu dello essere
d’ uopo che sia stato ucciso o da
malandrini, o da nemici, o da noi, risponderemo che egli potè essere ucciso o
dai proprii schiavi, o dai nostri coeredi. Distrutto in questo modo il
sillogismo dell’ avversario, ci verrà
aperto un più vasto campo di difesa. Bisogna adunque nella esposizione
evitare anche questo, di non tralasciare
alcuna parte essenziale, quando parer
possa essersi da noi raccolta Ogni cosa. Viziosa parimente è quella esposizione che si compone
d’una enumerazione falsa, come se, essendo più le idee, che si presentano, ne sponiamo meno,
come: « Due sono le cose, o giudici, che
spjngon tulli gli uomini al male, la
lussuria c l’ avarizia. Che? aggiungerà taluno; e l’ amore? e l’ambizione? e
la superbia? c la paura della morte? e
la cupidigia d’impero? tante altre
passioni in fine? » L’enumerazione ancora è falsa, quando, non essendovi campo che a poche idee, ne presentiamo
molle, come: « tre cose molestano gli
uomini: il timore,, il desiderio, e la
tristezza. » bastava dire il timore e il
desiderio, perchè la tristezza va necessariamente congiunta sì all’ una sì all’
altra delle due cose suddette. Ancora è viziosa quella esposizione che è pigliala troppo da lontano, per esempio: «
Madre di tulli i mali è la stoltezza la
quale più d’ogni altra cosa genera gl’insaziabili dcsidcrii; gl'insaziabili
desiderii non hanno nè fine nè misura; questi
generano l’ avarizia ; e l’avarizia spinge 1’ uomo a qualunque misfatto. Spinti dunque dall’
avarizia i nostri avversarti, sì
commisero un tale delitto. >; Qui
bastava esporre quest'ullima idea soltanto per
non imitare Ennio e gli altri poeti, ai quali è permesso di parlare in
questa maniera: « Oh avessero gli Dii
voluto che nella selva Pclia, dalle scuri taglialo, non fosse mai caduto a , terra il pino, e che con esso non si fosse
mai tolto di fabbricar la nave, clic or porla il nome di Argo; dalla quale trasportati gli eletti guerrieri
Argivi n' andarono a conquistare il
dorato vello di un montone in Colchidc
per Io perfido comandamento del re
Pelias ! Imperciocché giammai non avrebbe
la casa sua lasciala l’ errante mia padrona Medea, piena d’affanni il cuore, ferita di
uncrudcleamorc.» Qui sarebbe bastatoli
diro, (se il poeta si fesse dato
pensiero solo di-ciò clic era bastante):
« Oh avessero gli Dii voluto che giammai non avesse la casa sua lasciata I’ errante mia
padrona Medea, ferita d’ amore ! » Bisogna adunque ben guardarsineUo
esposizioni di questo genere di risalire a cose così lontane; perciocché non v’ ha bisogno che io mi perda
qui a biasimarne a parte a parte i
difetti, come di tante altre, quando è chiaro che sono viziosissime di per sé.
È poi viziosa quella ragione, clic non è
adattata alla esposizione, sia per la propria debolezza, sia per la sua
falsità. Pecca di debolezza quella
ragione, la quale non mostra che la cosa è
necessariamente tale quale è stata esposta, come in questo luogo di Plauto: « Castigare un amico, clic per colpa il
merita, è ingrato uffizio; m:r talora
utile e profittevole. » ' Questa è l’
esposizione : vediamo qual ragione ne è
addotta. Imperciocché oggi castigherò il mio amico per una colpa, per lo quale ei merita di
essere castigato. » Egli dimostra qual
sia 1’ utile da ciò che farà, non da ciò
che conviene di fare. È ragione falsa
quella, che consta di una ragione non vera, come in questo esempio: « L’ amore non è da
fuggirsi, perchè ei genera amicizia
verissima. )) 0 come in quesl’allro: « E
da fuggirsi la filosofia, perchè ella è
madre della indolenza c della pigrizia. » Se queste ragioni non fossero false,
noi dovremmo pure ammetter per vere le
esposizioni che le precedono. Ancora è debole quella ragione che non arreca una cagione necessaria della esposizione,
come in questo luogo di Pacuvio: « Alcuni filosofi dicono clic la fortuna è
stolta, cieca, e insensata ; e vanno
predicando che ella volubile si lien
diritta sopra un globo di pietra, e clic
cade da quella parte verso cui la sorte spinge
il globo. I.a dicono eieea, perchè non vede il luogo dov’ella deve fissarsi; stolta, perchè è
crudele, incerta, instabile; insensata, perchè non sa distinguere nè chi merita
nè chi demerita- Altri filosofi poi vi
sono, i quali negano esserci per cag.ion di
fortuna veruna miseria, ma tutte cose reggersi dal caso; opinione, dicono essi, più verisimile,
la quale in fatto è tuttodì dall’ esperienza
dimostrala ; ed Oreste ne è un esempio,
il quale prima fu re, e divenne poi mendico; il che gli accadde per cagione del
suo naufragio: dunque la colpa non fu della fortuna, j) Qui Pacuvió usa una ragione debole,
quando afferma, che più veramente lutto
si fa per caso c non per fortuna;
perciocché tanto nell’uno quanto nell’ altro sistèma dei filosofi pur potè
farsi che queirOrcstc, che era stato re,
divenisse mendico. È debole eziandio quella ragione, che non ha che l’ apparenza della ragione, ma
altro non dice che ciò che è stalo dello
nella esposizione, come: « Un gran male è l’avarizia per gli uomini, perchè gli
uomini per lo smodato desiderio delle
ricchezze vengono da molte e grandi incomodità travagliali. » Qui, se ben si
consideri, vicn data per ragione,
cambiale le parole, la cosa slessa, che fu detta nella esposizione. Ancora è
debole quella ragione, la quale
soggiunge alla esposizione una cagione meno idonea di quello che la cosa richiede, per esempio: « Utile è la sapienza,
perchè quelli che sono sapienti, hanno consuetudine di seguire la pietà. » Ovvero: « È utile aver
dei veri amici, perchè allora avrai con
chi scherzare. » Se noi adduciamo
siffatte ragioni, l’esposizione non
vieti confermala con una prova universale, assoluta, ma minima affatto. Ancora
è debole quella ragione, la quale si
possa appropriare anche ad un’altra
esposizione, come fa Pacuvio,chc arreca
la medesima ragione per provare tanto clic la fortuna è cicca, quanto
eh’ ella è insensata. Nella
confermazione della ragione vi sono molli difetti ^a evitarsi nel nostro ragionamento, e molli
altri da notarsi in quello degli
avversari!; c tanto più attentamente
vogliono essere considerati in quanto clic un’accurata confermazione della
ragione consolida mollo gagliardamente
tutta intera Ja nostra argomentazione. Appunto per ciò gli oratori diligenti nella eonfcrmazion della ragione
fanno uso della doppia conclusione, vale
a dire del dilemma, a questo modo: « 0
padre, voi mi colpite di una crudele ingiustizia. Imperciocché, se tenevate
Crcsfonlc per un malvagio, perchè me Io
concedevate a marito ? E se è un uomo
onesto, perchè, a malgrado mio e suo, mi
costringete a lasciarlo ? » Simili
conclusioni, ovvero dilemmi, o si rivolgeranno in contrario, osi confuteranno
in una delle due parti. Si rivolgeranno
in contrario così: « Io non commetto, o
figlia, contro di le veruna ingiustizia. Se egli è onesl’ uomc, rimarrà
tuo marito; ma se è malvagio, io por
mezzo del divorzio ti torrò a gravi mali. »
Si confuteranno in una delle due parti, se delle due proporzioni del dilemma si dissolverà ol’
una o l’ altra, come: Se stimavate
Crcsfontc un malvagio, perchè
concedermegli in isposa ? — Lo credetti un onesto uomo; m’ingannai; lo conobbi dappoi, c l’
odio adesso. « XXV. La confutazione adunque di un tale
dilemma si fa in due maniere: la prima maniera, mostrata di sopra, è più
ingegnosa; quest’altra è più facile a
trovarsi. Similmente è viziosa la conl'ermazion della ragione, quando malamente
usiamo come segno certo di una data cosa
un tal segno, che può significarne più
d’ una , per esempio : a Poiché colui è
pallido, fa d’ uopo clic sia stato
ammalalo. » Ovvero, « Fa d’uopo che colei abbia partorito, poiché tiene sulle braccia un
bambino.» Colesti segni non presentano
di per sé stessi una certezza, se non vi
•concorrano altri segni analoghi: che se vi concorrano, allora potremo più
facilmente avere la convinzione. È parimenti giudicalo diretto il dire contra
1’ avversario cosa , che. può convenire
o contra un altro, o conira quel medesimo clic parla, per esempio : « Miseri son quelli, che tolgono moglie; —
ma tu la togliesti due volle. » E ancora difetto usare una difesa, che sia
comune; per esempio: * Colui peccò per iracondia , o per inesperienza, o per amore. » Se
cosiffatte scuse si dovessero tenere per bpone, allora n’andrebbono impuniti i
più grandi delitti. Egli è parimente
Digitized by Google un altro
difetto il dare per cerio ciò che non è
generalmente ricevuto per tale, perchè è cosa pur sempre soggetta a controversia , per esempio
: « Olà, non sai tu che gli Dei, i quali
hanno il potere di muovere le còlesti cose e le terrestri, fanno tra loro pace, e manlengonsi in concordia?
» CosVEnnio introduce Cresfontc, che
porge quesf esempio in favore del suo diritto, quasiché avesse già dimostrato
con ragioni abbastanza certe che la cosa
è così. È parimente difettoso ciò che sembra dirsi oramai troppo lardi , c ad
affare finito, come: « Se io avessi ciò
preveduto, o Quiriti, non avrei permesso
che la cosa venisse ad un tal punto; io avrei fatto così e colà; ma in quel
momento questo espediente non mi venne
al pensiero. » E ancora riguardalo come
difetto il cercar di coprire con una
qualche ombra di difesa un’ azione, che
fu manifestamente colpevole, per esempio : « Io sì ti lasciai, quando lutti venivano a te,
signore di un fiorentissimo regno; ma ora essendo tu da tutti abbandonato, io sola con
grandissimo mio. pericolo mi accingo a
riporti sul tuo trono, a Medesimamente è
riguardato siccome difetto che si dica
una cosa in modo che possa esser presa in un senso diverso da quello clic si
è voluto significare. Di tal falla
sarebbe questa sentenza, che fosse pronunziala da alcuno potente e fazioso in pubblica adunanza : « E meglio
avere un re che cattive leggi. » Imperciocché sebbene questa cosa possa essere della senza un fine
malizioso, persola cagione dicrescerforza airargomento, pure, poi’ la potenza
di colui che parla, non è detta senza un
odioso sospetto. È pur male l’usare
definizioni false o volgari. False sono queste, come se alcuno dica: « Non sono ingiurie se non
quelle che risultano da percosse o da
oltraggi. » Volgari definizioni son
quelle, che possono senza più trasferirsi ad altra cosa; come se alcuno dica :
« Il delatore è, per descriverlo in
breve, un uomo degno di forca; perciocché è un cittadino perverso e pestilenziale. » Qui usasi una definizione,
che non si addice meno al delatore che
al ladro, al sicario, al traditore.
Similmente è difetto pigliar come prova
ciò che è posto in djsquisizione; come se alcuno accusi altrui di furto, c
dica: « Questo colale • è un uomo
cattivo, avaro, fraudolento , e di ciò è
una prova il furto di cui viene accusalo. » È ancora difetto risolvere la cosa
in deputazione con altra egualmente in
deputazione, per esempio: « Non
conviene, o Censori, che leniate costui per
isousato da ciò che dice, clic egli non ha potuto presentarsi a voi, come si era obbligato con
giuramento; perchè, se non avesse potuto ritornare all’esercito, farebbe egli una scusa eguale
al tribuno militare? » Questo argoménto è vizioso per ciò clic viene recata innanzi per esempio non
una cosa già spedita e giudicata, ma
una cosa ancora indecisa e posta
egualmente in controversia. Altro
difetto si è, quando non si rischiara abbastanza la cosa che forma il punto essenziale della
controversia, e la si lascia da parte, come se fosse di già consentita; per esempio: « L’oracolo, se pur
lo intendete, parla chiaro ; egli comanda, che, se vogliamo impadronirci di
Troia, si diano queste armi a tale
guerriero qual si fu colui che le portò: questo guerriero ecco son io: è giusto
che io possegga le armi fraterne, e che
vengano aggiudicate a me, o come a
congiunto di Achille, o come all’ emulo
del suo valore. » Un altro
difetto si è quello di non essere nel
proprio parlare d’accordo con sè medesimo, e di contraddire a ciò che prima si èdetto, per
esempio: « Io non posso, meco medesimo
pensando, spiegare perchè io accusi costui; imperciocché se egli ha verecondia, perchè mai accuso io un uomo
che è onesto? Se poi ha un animo, che
non sente verecondia, perchè mai accuso io un uomo che fa poco conto di quello che dico? In verità egli
dà assai buone ragioni per non accusare
quell’uomo. E perchè dunque soggiunge :
« Ora io sì li farò smascheralo rimontando al principio ? » È similmente da biasimare ogni discorso che
urli la volontà dei giudici o degli uditori, elio ferisca le parti ch’ei
seguitano o le persone che da loro sono
amate, o che , per qualche altro modo
consimile, offenda le opinioni loro. Ancora è vizio non sostenere nella confermazione le cose
che nella esposizione si è promesso di
sostenere. Ancora è da guardarsi dal parlare di una cosa, allorché se ne ha
un’altra in controversia, e per evitar
questo difetto vuoisi por mente o di non aggiunger nulla al soggetto, o
di nulla levargli, o di non far cambiar
natura alla causa trasformandola in
un’altra, come appresso Pacuvio fanno appunto Zelo ed Anfione; i quali, dopo di avere
introdotta questione intorno alla
musica, d’ altro poi non ragionano che della natura della sapienza, c
dell’utilità della virtù. Vuoisi ancora osservare che, se l’accusa rechi una cosa, la difesa non ne
confuti un’altra, come fanno sovente
molti avvocati imbarazzati da una causa difficile; come: « Se taluno, venendo accusato di avere per broglio cercala
una carica, risponda clic sovente in
campo ha ricevuto ricompense da’ suoi
capi. » Se noi nel discorso degli
avversar» porremo una grande attenzione a
ciò, sovente li coglieremo in difetto, e per siffatto modo cogliendoli mostreremo, che essi nulla
dir possono intorno a quel soggetto. È
parimente vizio dir male di un’ arte , o
di una scienza, o di uno sludio
qualsiasi a cagione de’ vizii di coloro clic quel colnlc studio professano:
come quelli clic biasimano la Rcttorioa
a cagione della vituperevole condotta di
qualche oratore. Similmente è errore il
pensare che, poiché si è dimostrato essere stalo commesso il delitto,, sia pur anche dimostralo
chi ne è stato T autore, come: « Egli è
manifesto che il cadavere era sfiguralo,
gonfio, livido: dunque quel tale fu
tolto di vita con veleno. » Conciossia^
che se ad imitazione di molli si ponga ogni cura a provare che quel tale Tu avvelenato, si
verrà a cadere in un difetto non
picciolo; perchè non si cerca già, se vi
è stalo delitto, ma bensì da chi è stalo
commesso. XXVIII. È pur da riguardare
comevizio, quando si paragonano due
cose, lo esaltarne una, e non dir parola
dell’altra, ovvero parlarne con alquanto
di negligenza; come, qualora faccndosrquislione, se sia meglio clic al popolo si dia grano o
no, tu ponga cura ad enumerare quali
siano i vantaggi dell’ uno di questi
avvisi, c trapassi come di niun valore
quali esser possano i disavvantaggi dell’avviso opposto, ovvero nc dica
solamente i più piccoli. Altro vizio si è ancora, quando si paragonano due cose, pensare che sia necessario di
biasimarne una, perchè lodasi l’altra, come sarebbe: Se facciasi quislionc a quale dei due popoli
debbasi concedere onor maggiore, se agli
Albani o ai Vestini, per cagione di servigi prestati alla Rcpubblica Romana ; c
colui, che parla in favore degli uni,
dica offesa contro agli altri; perchè none necessario che, se In dai la
preferenza agli uni, dica poi male degli
altri. Imperciocché tu ben potrai, dopo
di avere assai lodali gli uni, impartir qualche
lode anche agli altri, per non dar a credere che tu abbi alquanto appassionatamente combattuto
contro alla verità. Altro vizio pure si è quello di levar controversia intorno al nome e vocabolo di
quella cosa, di cui può esser giudice
supremo l’uso: come fece Sulpizio, il
quale dopo essersi opposto al richiamo degli esuli, ai quali non era stalo concesso di difendere la propria causa, più
tardi, mutalo avviso, nel mentre clic
proponeva la legge medesima da lui prima
combattuta, sosteneva che quella era una
legge diversa per un semplice cambiamento di nomi: perciocché egli diceva di
richiamare non, già degli esuli, ma dei cittadini cacciali per violenza; quasi che fossesi indotta
controversia con qual nome dovessero
quelli venir chiamali dal popolo Romano,
o come se non tulli coloro, ai quali era
stala interdetta l’acqua e il fuoco, si dovessero chiamar esuli. Nondimeno noi
possiamo perdonargli, s’ ei lo feGC con
un perchè: quanto a noi riconosciamo
essere vizio muovere controversia per un semplice cambiamento di nomi. Poiché
l’ornamento consta di similitudini, di esempi, di amplificazioni, di giudicali,
e MODO HI. cT allri luoghi oralorii, alti a sviluppare cd arricchire
rargomenlazione, esamineremo quali esser
possano i vizii nell’ uso di questi mezzi. È viziosa quella similitudine, la quale in qualche
parte è disacconcia, e non presenta
eguali rapporti fra i termini della
comparazione, o nuoce all’ oratore che
l’usa. È viziosa 1’ esempio, se può essere tacciato di falsità, o è indegno di
venire imitato, o è al di sopra o al
disotto del soggetto. Ci ha vizio, se si
adduca un giudicato, che riguardi una quistionc diversa, o tal cosa, sopra cui
non v’ha alcuna contestazione; oppure, se è ingiusto, o tale, che gli avversar» possano addurne a loro
favore o più altri analoghi, o più
idonei. Medesimamente è difetto,
allorché l’accusato confessa il fallo, l’argomentare sopra quello, e dimostrare
che ha avuto luogo, bastando in tal caso
solamente amplificarlo. Similmente è difetto amplificare ciò che prima ha bisoguo di essere dimostrato, come: « Se
alcuno accusi un tale di avere ucciso un uomo, e, avanti di avere bastantemente provata 1’
accusa, amplifichi il delitto, e dica,
che niente v’ha di più indegno che di
uccidere un uomo : » chè non si domanda
già, se l’ azione sia o no indegna, ma se
veramente sia stata commessa. Le
recapilolazione è viziosa, quando primieramente non ripete ogni cosa nell’
ordine col quale fu detta innanzi;
quando non riepiloga con BREVITA; quando nella sua enumerazione non
presenta un insieme ben determinato c
chiaro, che faccia ricordare qual fu
Mila prova la proposizione o
esposizione, c in appresso la ragione; e finalmente la confermazione della ragione; in somma,
qual si fu P argomentazione tutta
intera. XXX. Le conclusioni , le quali
vengon chiamate dai Greci epiloghi , hanno tre parli, componendosi esse della
enumerazione, dell’amplificazione, e della commiserazione (1). L' enumerazione
è quella, per cui noi raccogliamo e ripetiamo in pochi detti quelle cose, di
cui abbiamo par- ' lato, non per riprodurre interamente, ma per richiamare a
memoria il discorso, ripigliando per
ordine tutto ciò che sarà stalo, dello, di maniera che si risveglino nella mente dell’ uditore
le idee eh’ egli avrà potuto ritenere.
Bisogna altresì nella enumerazione por
mente a non rimontare sino all’esordio od anche solamente alla narrazione,
perchè il discorso si parrebbe lavorato e preparato con isludio speciale per fare o prova d'
arte, o spaccio d’ ingegno, o ostentazione
di memoria. Per la qual cosa converrà
cominciare P enumerazione dalla divisione, c quindi esporre per ordine Seguo il
parere di Scliutz, clic giudica intruse le
parole. In qualuor locis uli possumus, etc., c non le ammetto nella mia traduzione. brevemente le
cose che saranno state nella confermazione e nella confutazione trattate.
L’aroplilìcazione è quella, che ha per obbielto di eccitare gli uditori per mezzo de’luoghi comuni. Dieci
precetti facilissimi insegnano i luoghi comuni proprii ad amplificare l’accusa. Il primo luogo si
traedal1’ autorità , allorché noi rivochiamo alla mente quanto la cosa, onde trattasi', sia stala a
cuore agli Dei immortali, ai nostri
maggiori, ai re, alle città, alle
nazioui, agli uomini più sapienti, al senato; e
soprattutto in qual maniera speciale abbiano le leggi pronunziato intorno a siffatte cose. Il
secondo luogo è, quando noi esaminiamo a chi sono falle le azioni, onde noi accusiamo taluno ;
se all’universale degli uomini, il clic è il più grave delitto; se a superiori
(alla qual classe appartengono coloro, che noi abbiamo compresi nel luogo comune dell’ autorità) ; se ad eguali, vale a
dire ad uomini collocali nella stessa
condizione di ani- , mo, di corpo, e di
fortune; se ad inferiori, vale a dire ad
uomini, che rimangono da noi trapassati
in tutte coleste cose- Il terzo luogo consiste nel domandare che cosa ne interverrebbe , se a
ciascheduno si concedesse il simigliarne, cioè di fare quello che ha fatto l’ avversario ; e nel
mostrare quanti danni e mali seguir
possano dal lasciare impunito quel tale
delitto. Il quarto luogo consiste nel mostrare che, ove si mandi perdonato
il to reo, molli altri, che ancora sono
ritenuti dal timore di un giudizio, diverranno più pronti al misfare. Il quinto
luogo è , quando mostriamo che, se una
volta solo sia dato diverso giudizio, non vi
sarà più nulla che possa rimediare al male, o correggere F errore dei
giudici; nel qual luogo non sarà
disutile paragonare quel misfatto con altri,
per mostrare che alcuni possono venire o dal tempo tolti, o dalla
prudenza corretti; ma che cotesto da
niuna cosa umana può venire o tolto o corretto.
Il sesto luogo è, quando proviamo che fu opralo pensatamente, e diciamo che un atto
volontario non ammette veruna scusa, e
che F imprudenza sola può domandar
grazia. Il settimo luogo è , quando
mostriamo che F azione è abbominevolc,
crudele, nefando, tirannica: del qual genere sono gli oltraggi fatti ad una donna, o quelli che
cagionano le guerre, e fanno versare il sangue in battaglia. L’ottavo luogo è,
quando mostriamo che il delitto non è
comunale, ma singolare, sozzo, infame , senza esempio , affinchè venga punito
più prontamente e con maggiore severità.
11 nono luogo componesi della comparazione del delitti, quando si sostiene, per
esempio, che è un delitto più grande
recar violenza ad una donna libera , che
spogliare un tempio ; perchè a questa cosa può spingere il bisogno, a quella soltanto
intemperante burbanza.il decimo.luogo è
quello, pel quale lutto ciò che si è operato nel mandare a fine il fatto,
e tutto ciò che suol esserne
conseguenza, noi esponiamo con tratti così vivi, così accusanti, così distinti,
che si creda di vedere oprarsi e compiersi
il fatto stesso con tutte le sue ordinarie conseguenze. Per giungere
allo scopo di muovere la compassione.
nell’ animo dell’uditore noi dipingeremo le diverse mutazioni della fortuna ;
noi paragoneremo la nostra passata prosperità colla presente nostra disgrazia;
noi enumereremo e porremo sotto agli occhi le tristi conseguenze, che
deriverebbero per noi dalla perdila della nostra causa; noi supplicheremo i
nostri giudici, e raccomandandoci alla loro pietà ci commetteremo interamente
nel loro arbitrio; noi descriveremo i mali,
che per la calamità nostra cadrebbero sopra i nostri parenti, sopra i
nostri figli, sopra i nostri amici, dichiarando nel medesimo tempo che è il
loro abbandono e la loro miseria quella
clic più ci cuoce, e non già i nostri proprii mali ; noi ricorderemo la
clemenza, l’ umanità, la compassione , clic
abbiamo sempre usata verso gli altri ; noi dimostreremo che siamo stati
mai sempre o per lungo tempo nelle
avversità; noi lamenteremo il nostro
destino, la nostra sorte; noi finalmente prometteremo che in avvenire il
nostro animo sarà forte e paziente degli
avversi casi. Trattando la commiserazione converrà clic noi siamo brevi ;
perocché niente v’ ha clic più presto si
secchi quanto una lagrima. In questo
secondo libro noi abbiam trattate le quislioni presso a poco più oscure
deU’arte oratoria: laonde noi faremo qui
fine a questo libro. Kel terzo esamineremo gli altri precetti tanto quanto ci parrà conveniente. Se tu studierai
questo trattato con tanta accuratezza con quanta io ho procurato di comporlo, sì io raccoglierò
nella tua istruzione il frutto della mia
fatica, c sì tu stesso approverai nel medesimo tempo la mia diligenza e andrai
lieto del tuo progresso: le regole dell’arte adorneranno il tuo sapere, ed io
avrò maggior premura di dar compimento a ciò che resta. Son certo clic, in quanto a* le, accadrà ciò
che dico, perchè so quanto vali: noi intanto passiamo ad esaminare gli altri precetti per far paghi
i tuoi giusti desi lerii, la qual cosa è
per me la più cara diluite. Come ad ogni
causa del genere giudiziale convenisse
di applicare i precetti dell’invenzione,
abbastanza distesamente, io credo, fu dimostrato nei libri precedenti. In questo terzo libro
ora abbiamo riserbata la trattazione delle regole dell’invenzione spettanti
alle cause del genere deliberativo q dimostrativo per farti quanto più presto
conoscere tutta intera la teorica, che concerne l’ invenzione. Restano ancora
quattro parti della Rcttorica: tre verranno spiegate in questo libro, cioè la Disposizione, la Pronunciazionc, e la
Memoria: di quanto poi riguarda
l’Elocuzione, poiché essa richiede una
più ampia trattazione, abbiamo prescelto di parlarne in un quarto libro, il
quale finito ben presto, siccome spero, noi ti manderemo, affinchè veruna parte non ti manchi deH’arlc
oratoria. Infraliamo tu potrai ben apprendere queste prime parli e con noi, se li aggrada, e tal
fiata senza di noi, leggendole, acciocché nulla t’ impedisca di potere
avanzarli al pari di noi in quest'arte
del dire. Ora prestami tutta la tua attenzione: noi continueremo a camminare verso la prefissa
mela. II. Nelle deliberazioni o si
cerca quale di due partiti è il
migliore, o qual è in generale il partito
che si deve prendere. Quale di due parlili è il migliore, per esempio:
«Se abbiasi a distrugger Cartagine, o lasciarla sussistere ». Qual è in
generale il partilo che si deve
prendere, per esempio: « Come se Annibale, richiamalo dall’ Italia a Cartagine,
consulti se debba rimanere in Italia, o tornare
a casa, o andare in Egitto per impadronirsi di Alessandria». Alcune
volte la deliberazione cade sulla natura
stessa della quislione: «Come se il Senato
esamini, se debba o no riscattar dal nemico i prigionieri ». Altre volte
la deliberazione viene indotta da qualche cagione esterna: « Come se il Senato nell’occasione della guerra Punica
deliberi, se dispensi con Scipione, acciocché ei possa essere nominato consolo prima che abbia l’età
voluta dalla legge ». Altre volle la deliberazione e riguarda la natura stessa della quislione, e
di più viene indotta da qualche esterna
cagione: «Come se il Senato deliberi,
nella guerra Italica, se debba dare o no
il diritto di cittadinanza agli alleati ». Io
quelle cause, in cui la deliberazione riguarderà lo natura stessa della quislione, il discorso si
aggirerà sempre intorno al soggetto. In quelle cause poi, in cui la deliberazione verrà indotta da
esterna cagione, dovrassi questa stessa cagione o innalzare o deprimere. Ogni
discorso di colui, che in una
deliberazione dà il suo parere, conviene
che si proponga per fine 1’ utile, di modo che dovrà ogni mezzo oratorio
tendere a questo fine. In una
discussione politica l’ utile ha due parli, la
sicurezza e l’onestà. La sicurezza consiste nell’evitare con
qualsivoglia mezzo un pericolo presente
o futuro. Essa si appoggia o sopra la forza o sopra l’ inganno; e noi
potremo usare o separatamente ciascuno di questi mezzi, o lutti e due insieme.
La forza si spiega per gli eserciti, per le
flotte, per le armi, per le macchine di guerra, per le leve degli uomini, e per le altre cose di
questo genere. L’inganno si compie per
danaro, per promesse, per dissimulazione, per celerità, per mcnlimenlo, c per
altri spedienti, di cui parlerò a tempo più opportuno, se mai applicherò l’
animo a scrivere sopra l’ arte militare,
o sopra 1’ amministrazione della cosa pubblica (1). L’onestà si compone del
bene e del lodevole. Il bene è ciò che
risulta dalla virtù e dal dovere. Il bene comprende Questo è un altro
luogo, che induce a credere che Cantore
della Rettorica sia proprio Cicerone. Egli fa
menzione di due opere, le quali si sa essere state più tardi da lui composte. la prudenza, la
giustizia, la fortezza, la temperanza. La prudenza è una certa finezza d’
ingegno, che, dietro un certo calcolo,,
può scegliere tra i beni ed i mali:
chiamasi ancora prudenza la cognizione di un’ arte: parimente appellasi
prudenza una memoria ricca di molte cose
congiunta ad una esperienza grande negli
affari. La giustizia è l’ equilà, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto
secondo il suo merito. La fortezza è la bramosia delle grandi cose, il disprezzo delle volgari, e la
tolleranza della fatica in ragione della loro utilità. La temperanza è nell’ animo una facoltà
moderatrice, che contiene le
passioni. III. Il nostro parlare
appoggerassi alla prudenza, se, paragonando i vantaggi coi danni, consiglieremo
a cercare gli uni e ad evitare gli altri: o
se consiglieremo in alcuno frangente qualche misura da noi sperimentata
o conosciuta, c mostreremo in che modo e con quali mezzi noi possiamo conseguire lo intento; o se persuaderemo un
partito, del quale o abbiamo noi stessi veduto i vantaggi, o abbiamo udito a
raccontarli: nel qual caso ci sarà ognora
facile di tirare altrui nella persuasione di ciò che vorremo, recando l’
esempio. Noi faremo buon uso delle parti
della giustizia, se imploreremo la pietà in favore o degli innocenti v dei supplicanti; se mostreremo essere
conveniente di rendere il guiderdone ai
benemeriti; se proveremo essere d’uopo vendicarsi delle offese; se giudicheremo doversi ad ogni costo serbar la
fede; se diremo doversi scrupolosamente
rispettar le leggi e le costumanze sociali; se diremo doversi con amore coltivare le alleanze e le amicizie ;
se dimostreremo doversi religiosamente osservare i doveri, che la natura c’
impose verso i parenti, gli Dei, la
patria ; se diremo doversi inviolabilmente
guardare le ospitalità, le clientele, le consanguineità, i parentadi; se
mostreremo non doverci noi, nè per
guadagno, nè per favore, nè per pericolo,
nè per invidia, allontanare dal diritto cammino; se diremo dover noi in ogni nostra azione aver
di mira l’equità, la giustizia. Con
simili ed altri mezzi, che la giustizia ci offre, se nell’ assemblea popolare,
o nel consiglio avviseremo esser da fare
alcuna cosa, proveremo che è giusta; e coi mezzi conlrarii, che è ingiusta. Così i luoghi
medesimi ci gioveranno tanto al
persuadere quanto al dissuadere. Se diremo che vuoisi far cosa per fortezza
d’animo, proveremo che non solo bisogna cercare e volere le cose grandi ed
eccelse, ma ancora che gli animi forti
debbono disprezzare le cose umili e
basse, e riguardarle siccome inferiori alla
propria loro dignità. Parimente diremo che non bisogna mai lasciarsi allontanare da veruna
cosa onesta per grandezza di pericolo o
di fatica; che bisogna preferire la
morte all’ infamia ; che niun dolore ci dee costringere ad abbandonar la
virtù; che non dobbiamo temer le
inimicizie d’ alcuno per cagion del
vero; che per la patria, pei parenti, per gli ospiti, per gli amici, per tutto
ciò insomma, che la giustizia vuole da noi, bisogna affrontare qualunque
pericolo, e sottostare a qualunque
disagio. Noi ricorreremo alle parti della temperanza, se biasimeremo la
smodata avidità degli onori, dell’oro, e
d'altre cose siffatte; se racchiuderemo tulli i nostri desiderii nel giusto
limite delia natura ; se mostreremo a
ciascuno quanto può bastargli,
dissuadendolo dal passar quel punto, e statuendo la sua misura ad ogni cosa. Di
tal fatta sono le parti proprie della
virtù, le quali sono da amplificare, se
vuoisi persuadere, e sono da attenuare, se trattasi di dissuadere; e così saran
pure attenuali quei mezzi che ho indicati di sopra. Conciossiachè nessuno vi sarà, il quale stimi
di dover lasciar da parte la virtù; ma ò
noi presenteremo le parti, che confuteremo, siccome non offerenti alla virtù i
mezzi di prodursi, o mostreremo che la
virtù troverà meglio il suo posto nelle parti
contrarie. E così mostreremo, se ci sarà possibile, che quella cosa, che
all’ avversario nostro è piaciuto di chiamare giustizia, altro non è Che
dappocaggine, e infingardia e viziosa licenza ; che quella, ch’ei chiamò prudenza, altro non è
che una scienza inetta, garrula c
noiosa; che quella, eh’ egli appellò temperanza, altro non è che mera pigrizia e scioperata negligenza; che quella
finalmente, eh* ei disse fortezza, altro non è che gla' dialoria e spensierata
avventatezza. IV. Il lodevole è ciò che
ci procura, e pel presente e per l’ avvenire, un’ onorevole riputazione. Noi lo distinguiamo dal bene, non perchè
queste quattro parti, che comprendiamo
sotto alla parola bene, non ci procurino
per solito questa onorevole riputazione
; ma perchè quanlunque il lodevole nasca
dal bene, pure è necessario che nel discorso l’uno e l’altro siano
separatamente trattati. Infatti egli non si dee cercare il bene per amore della sola lode, ma se la lode ne deve poi
esser la mercede, la volontà del ben
fare raddoppierà di forza. Così, dopo di
aver dimostralo die 1’ azione è buona,
noi proveremo o eh’ ella otterrà le lodi
di giudici competenti ( comò se, biasimala da persone di basso ordine,
debba venire approvata da persone di più
elevalo ordine ); o eh’ ella sarà lodata da alcuno de’noslri compagni, o da
tutti i cittadini, dalle estere nazioni, e dalla posterità tutta. Essendosi di
già veduto come si dividano i luoghi concernenti le cause del genere
deliberativo, ora esporremo con tutta
brevità come debba essere distribuito
l’intero discorso. Si potrà adunque incominciareo dall’esordio diretto, o
dall’esordio per insinuazione, facendo
uso degli stessi mezzi che abbiamo irrdicati per le cause del genere
giudiziale. Se intervenga un Fatto da raccontare, si seguiranno le stesse
regole già date per la narrazione.
Poiché in questa sorte di cause il fine è 1’ utile, e quest’utile abbraccia la sicurezza e
l’onestà; se potremo servirci d’entrambe
le cose, imprenderemo nel nostro discorso a dimostrare che noi abbiamo per fine
e l’una e l’altra; c se saremo obbligali di ristringerci ad una sola, annunzieremo
qual è quella che vorremo far valere. Se
diremo di aver per iscopo la sicurezza,
la nostra divisione riguarderà la forza ed il consiglio; perocché ciò che. nel precetto, per esser più chiaro, io chiamai
inganno, nel nostro discorso sarà più
onesto chiamar consiglio. Se diremo di aver per fine l’onestà o sia il bene, e tutte le parti del bene converranno
al soggetto, allora lo divideremo in quattro parti;se tutte non potranno convenire, esporremo nel discorso sol quelle che ad esso soggetto converranno.
Nella confermazione e nella confutazione
ci serviremo dei luoghi, che abbiamo già
indicali, per ben convalidile i nostri mezzi, ed abbattere quelli degli avversari!. Per la maniera poi di trattare 1’
argomentazione artificiosa si consulterà il secondo libro.
V. Ma se accada, che nella consultazione il parere dell’uno si appoggi
sopra ragione di sicurezza, e il parere dell’ altro sopra ragione di onestà.
come nel caso di coloro, che, assediali dai Cartaginesi, deliberano intorno al
partilo da prèndersi; colui, che
consiglierà doversi preferire la sicurezza, farà uso de’luoghi seguenti: Che
nessuna cosa è più utile della propria
conservazione; che si rende impossibile l’uso della virtù a colui che non
ha provveduto innanzi alla propria
sicurezza;chc neppure gli Dei vengono in soccorso di coloro che si gettano sconsigliatamente nel pericolo; che
non s'ha da stimar cosa onorevole quella
che mette a repentaglio la nostra
salute. Colui, al contrario, che
consiglierà di preferire l’onore alla sicurezza, farà uso de’luoghi seguenti: Che in nessun
tempo si deve rinunziare alla virtù; che
il dolore (se è ciò che si teme), che la
morte (se è questa che si paventa), sono ben piccola cosa a petto al
disonore e all'infamia; che s ha da
considerare quale ignominia ne -verrebbe altramente; c che nondimeno noi non ne conseguiremmo nè vita immortale,
nè perpetua felicità; che niente ci
assicurerebbe che, sfuggito quel pericolo,
noi non cadessimo in alcun atiro; che
per la virtù è bello andare anche volontariamente a morte; che al coraggio è
solita venir pure in aiuto la fortuna;
che vive sicuro chi vive con onore, non
chi sol guarda alla sicurezza presente; e che chi vive nell’ignominia goder non
può di una perpetua felicità. Le
conclusioni nel genere deliberalivosono d’ordinario le medesime come nel genere
giudiziale, se non che in questagenere
torna utilissimo recare il più gran numero possix bile di esempi di
falli anteriori. VI. Passiamo ora al genere
dimostrativo. Poiché questo genere ha
per iscopo la lode od il biasimo, noi
con certi mezzi costituiremo la lode, e coi
mezzi contrarii trovar potremo il biasimo. La lode adunque può riguardare o le qualità
esteriori, o l'animo, oil corpo. Le
qualità esteriori sono quelle che ci
possono venire o dal caso, o dalla fortuna,
sì buona, si cattiva; come la nascita, l'educazione, le ricchezze, il potere, gli onori, la
patria, le amicizie, e tutti i vantaggi finalmente di questa specie; e per
l'opposto le cose tutte che a queste sono
contrarie. 1 vantaggi o disavvantaggi del corpo son quelli che la natura attribuì al corpo
stesso, come l’agilità, il vigore, la dignità, la sanità, e le cose a queste contrarie. 1 vantaggi o i
disavvantaggi dell’animo sono quelli che dipendono dalla nostra volontà e dal
nostro intendimento, come la prudenza, la giustizia, la fortezza, eia
temperanza, e quelle cose che sono contrarie a queste (l).In una orazione di
questo genere si piglierà (t) Nel testo
trovansi qui le seguenti parolè : Erit
igitur haec confirmatioet confutatio nobis; ma parendomi con lo Scliulz
che siano affatto fuor di luogo, io le
ricuso come inlegitlime, e non le traduco. l’esordio odalla nostra propria
persona, odalla persona di colui, del quale parliamo, ovvero da quella degli uditori, o dal soggello slesso. Dalla
nostra persona: Se loderemo alcuno, diremoche noi facciamo ciò o per dovere, perchè fra quello e noi
passa un vincolo di amicizia ; o per
propensione, perchè esso è dotato di
tanta virtù, che tutti deggiono volerlo celebrare; o infine perchè è diritta
cosa mostrare, lodando altrui, qual sia T animo nostro, o sia il nostro carattere. Se biasimeremo, noi
diremo che facciano questo o a buon
diritto, perchè anche noi fummo così
trattati; o per amor del bene, perchè noi riguardiamo come utile che da tutti
sia conosciuta una malizia e
scelleratezza unica; o finalmente perchè biasimando altrui amiamo di far conoscere ciò che a noi non piace. Dalla
persona, di cui noi parliamo: Se loderemo
alcuno, noi diremo che abbiam timore di non potere colle parole raggiungere l’altezza delle sue azioni; che è
d'uopo che tulle le lingue imprendano a celebrare le sue virtù ; che gli stessi suoi fatti passano
l’ eloquenza di tulli i panegiristi. Se biasimeremo, potremo due quelle cosè
che ci parranno contrarie a queste, cambiando
poche parole, come con l’esempio fu poco innanzi dimostrato. Dalla persona degli uditori : Se loderemo alcuno, diremo
che , parlando noi davanti a persone che
bene lo conoscono, spendiamo poche parole per sola cagione di avvertire; o se
non fosse a loro conosciuto, domanderemo che vogliano ben conoscere un tal uomo, perchè trovandosi nello stesso amore
della virtù coloro stessi dinanzi ai
quali lodiamo, nel quale amore è pure
stata od è la persona, clic da noi si
loda, speriamo che saranno più facilmente
per approvarci suoi fatti giusta il desiderio nostro. Il biasimo starà nei mezzi contrari: poiché,
se è conosciuta la persona, affermeremo che noi siamo per dire poche cose della scelleratezza sua; e se
non sarà conosciuta, domanderemo che
vogliamo ben conoscerla, affinchè
possano schivare la sua perversità; perchè essendo coloro, clic odono,
dissimili al tulio da colui che si biasima, noi speriamo che saranno per disapprovare altamente lasua
condotta. Dal soggetto stesso : diremo che siamo incerti qual cosa dobbiamo
principalmente lodare ; che abbiamo
timore che, anche dicendo molle cose in
favore del nostro soggetto, noi ne ommetliamo
ben molle di più; c continueremo con sentenze di questa forma ; alle quali sentenze
sostituiremo le contrarie, ove si tratti
di biasimare. VII. Trattato l’esordio
conformemente ad alcuna di quelle fonti,
di cui abbiamo parlato, non sarà
necessario elicne segua alcuna narrazione; ma se mai ne intervenga una, c che siamo obbligati
di, raccontare con lode a con biasimo
qualche azione della persoua di cui
togliamo a parlare, cercherò LIBRO
III. 9i mo le regole della narrazione nel primo
libro. La divisione verrà fatta così:
Primieramente esporremo le cose, che vorremo lodare o biasimare; poi diremo con ordine, come cd in qual tempo
ciascuna nazione ha avuto luogo, affinchè si sappia ciò che è stato fatto, e con quale sicurezza e
precauzione. Ma converrà render conto delle virtù o dei vizi dell’animo, e mostrar poscia come
l’animo abbia tratto partito dai vantaggi o disavvantaggi del corpo o delle qualità esteriori. Per
descrivere la vita terremo quest’ordine:Cominciando dalle qualità esteriori, parleremo della slirpe;a lode
della persona, diremo di quali maggiori sia nata; è di nobile stirpe, diremo ch’è stala pari o al disopra
della sua stirpe; se è di bassa origine,
diremo che essa ha trovato suo presidio
non nelle virtù degli avi, ma . nelle
sue. A biasimo; se sarà di nobile schiatta, diremo che è stala di disonore agli
antenati; se sarà di bassa estrazione,
che nondimeno ha pur loro recato scapito.Parlando poi dell’educazione, se si
tratti di lode, diremo che la persona, di cui si parla, è stata per tutta la puerizia bene ed
onestamente educata nelle v buone discipline; se si tratti di biasimo, diremo il contrario. Dopo ciò passeremo ai
vantaggi del corpo. Cominciando dalla
natura, se si tratti di lode, diremo
che, se quest’uomo ha in sè congiunta dignità e bellezza, ciò gli ha giovato ad
onore, non a danno e a vergogna, come a
tanti altri ; se ha forza ed agilità singolare, diremo che ciò è stato l’ctTeUo di onorevoli esercizii e industrie;
se gode di una costante sanità, che ciò
è il fruito delle sue cure, e della sua
temperanza nelle passioni. Se si tratti
di biasimo, se egli possegga questi vantaggi
corporali, diremo che ha fatto mal uso di questi doni, ch’ei deve, come qualsivoglia
gladiatore, al caso e alla natura ; se
non ne possegga alcuno , tranne la
bellezza, diremo che ne è stalo privato
per sua colpa ed intemperanza. Appresso noi ritorneremo alle cose
esteriori , e considereremo quanto
abbiano potuto sopra di esse le virtù o i .
vizii dell’animo: se egli sia ricco o povero; quali sono le sue cariche, le sue glorie, le sue
amicizie, le sue inimicizie; nel
sostenere le inimicizie, che ha mai
opralo di forte; per qual cagione s’ è egli
procaccialo inimicizie ; con qual fede, con quale . amore, con quale ossequio ha coltivate le
amicizie: qual si fu nelle ricchezze ; o
nella povertà come si è egli condotto ;
qual animo ha egli mostrato
nell’esercizio del potere ; se egli non è più, qual » è stata la sua morte; quali conseguenze ha
la sua morte prodotte ? Vili. Tutti poi gli atti, pei quali si
manifesta l’attività dello spirito umano, vogliono essere rapportati alle
quattro virtù dette più sopra; di maniera
che, se lodiamo, noi diremo che si oprò con giustizia, con fortezza, con
temperanza, con prudenza ; c se biasimiamo, noi diremo che si oprò con ingiustizia, con codardia, con intemperanza,
con istoltezza. Per questa disposizione
si vede ormai chiaro come si devono
trattare le tre parli della lode e del
biasimo ; solo avvertiremo clic non è
necessario che noi nella lode e nel biasimo facciamo entrare tulle
queste tre parti, perchè sovente non vi
tornano neppur tulle in acconcio, c sovente
vi hanno così poca importanza, che è inutile di parlarne: laonde farà d’ uopo sceglier di
queste tre parti quelle che parranno
offerire più solido argomento. Le
conclusioni dovranno esser brevi ; e si
faranno entrare nel corso stesso della causa
frequenti e brevi amplificazioni tolte a’ luoghi comuni. Nè, perchè
questo genere di causa si presenti di rado nella vita, si dee perciò meno
diligentementcconsiderarc; conciossinchè bisogna pur volere poter fare acconciamente ciò che può
accadere di dover fare alcuna volta. E ancorché meno spesso si tratti separatamente questo genere
dimostrativo, pure accade di sovente che nelle cause giudiziali e deliberative intervengano molte
parli di lode o di biasimo. Per la qual
cosa noi giudichiamo' doversi collocare qualche poco di studio anche in questo genere di causa. Ora, poiché
abbiamo terminata la parte più difficile della Rettorica, vale a dire, poiché
abbiamo illustrata l’ invenzione, e adattata questa ad ogni genere di causa, è
lempoche ci accostiamo alle altre parli. Prenderemo dunque a parlare della
disposizione. IX. Poiché la
disposizione è quella che c’ insegna a meltere in ordine le cose
somministrateci dairiuvcnzionc, sì che
ciascuna abbia il suo posto determinato
che le conviene ; facciamoci a mostrare qual modo debba tenersi in tale
operazione. Due sorte di disposizione ci
ha: P una, che dipende dalle regole dell’ arte, e 1’ altra, che si conforma
alle occasioni. Noi disporremo secondo le regole dell’ arte quando seguiremo i
precetti che nel primo libro abbiamo
dati; i quali sono di usare l’ esordio,
la narrazione, la divisione, la confermazione, la confutazione, la conclusione;
e di osservare nel discorso 1’ ordine di queste parli in quel modo che abbiamo innanzi prescritto.
Parimente sarà secondo le regole dell’
arte, quando noi distribuiremo non solo l’ insieme del discorso, ma aneora le diverse parti dell’ argomentazione,
spiegate net secondo libro, cioè l’ esposizione, la ragione, la confcrmazion
della ragione, gli ornamenti, e la recapilolazione. Due disposizioni
adunque ci ha : 1’ una di tutto il
discorso, e 1’ altra dell’ argomentazione, così l’una comel’altra fondale
sulle regole dell’ arte. Ma vi è un’
altra disposizione, la quale, lasciata al
giudizio dell’ oratore, allora che
bisogna allontanarsi dall’ ordine fìssalo dall’ arte, si conforma all’ occasione ; come se s’
incominci dalla narrazione, o da qualche argomento dei più solidi, o dalla lcllura di qualche testo ; o
se dopo 1' esordio si passi alla
confermazione, c poscia alla -
narrazione; o se invcrtasi nel modo stesso l’ordine regolare ; il che non bisogna mai fare, se
non quando la causa ciò richieda
assolutamente. Se, per esempio, ci
parranno assordale le orecchie degli uditori, e stracchi gli animi loro dai.
nostri avversarti per l’abbondanza delle parole, sarà bene lasciar 1’ esordio, e incominciare la causa o
dalla narrazione o da qualche robusto
argomento. Poscia, se sarà vantaggioso, perchè non è sempre necessario, ci sarà lecito di ritornare alle
idee proprie dell’ esordio. X. Se la
nostra causa parrà circondata da molta
difficoltà, sì che nessuno abbia I’ animo disposto ad udire favorevolmente l’ esordio, noi, dopo
aver dato cominciamenlo dalla narrazione,
potremo tornare indietro, esponendo le idee che sarebbero convenute all’esordio. Se la narrazione essa
stessa parrà poco probabile, daremo
cominciamenlo da qualche argomentazione
solida. È sovente necessario ricorrere a questi cambiamenti e a queste trasposizioni di parli quando lo stesso
soggetto ci obbliga a cambiare ad arte
la disposizione prescritta dall’ arie. Nella confermazione e nella confutazione
conviene altresì di seguire disposizioni
simili delle argomentazioni ; collocare nel principio e alla fine le
argomenlazioni più valide; c le
mediocri, c quelle clic non sono nè inutili alla causa, nè necessarie a convincere, che,
separatamente presenlalc, e ad una, ad una, sarebbero deboli, ma clic riunite
alle altre divengono forti e decisive, dovranno essere collocale e disposte
nel mezzo. Imperciocché, fatta la
narrazione, l’animo dell’uditore aspetta
subitamente gli argomenti che possono
confermare la causa. Bisogna adunque recare nel mezzo qualche solida prova. E
fioichèle cose dette in fine sono quelle
che più facilmente s’ imprimono nella
memoria, è utile, alla fine del
discorso, lasciare nell’animo degli uditori la fresca impressione di un molto solido
ragionamento. Questa disposizione di
mezzi, simile a buona' ordinanza di soldati, può facilissimamenleneldire,
siccome quella nel combattere, procacciar la vittoria. XI. Molli Retori riguardarono la
pronunciazionc siccome ciò clic v’ ha di
più utile all’ oratore, e di più
acconcio a generare la persuasione. Quanto a
me, non dirò tanto facilmente eh’ ella sia la più importante delle cinque parli della
Rettorica, ma sì non temerò di affermare
che nella pronunciali) Chi legge il libro II. De Oratore, capo 77, Si chiama articolo, o inciso la distinzione,
che si fa di ciascuna parola per pause,
tenendo sospesa la frase sino all’ ultimo :
per esempio: « Coll’impeto, colla voce, coll’ aspetto hai sbigottiti gli
avversar». » E parimente: « Tu coll’
invidia, coll’ ingiustizia, coll’ autorità, colla perfìdia hai tolto via i nemici. » Tra la veemenza di questa figura, e quella della precedente
ci ha questo divario, che quella fa
passi più tarpi e più radi, e questa s’
avanza più rapida e più pronta. In
quella mi pare di veder portare la spada al petto dell’ avversario da braccio allungato c pugno
slret lo, e in questa venirneferilo il petto da colpi spessi e rapidi . La continuazione o il periodo è
una stretta e non interrotta
concatenazione di parole in sino a senso
compiuto. Noi trarremo grandissimo
vantaggio da questa figòra , se l’ useremo in tre parti : nella sentenza, nel contrario, nella
conclusione. Nella sentenza, per esempio : « Non può la fortuna fare gran danno a colui che pose suo
presidio più fermamente nella virtù, che nel caso . » Nel contrario; per esempio : « Se alcuno non
locò molla speranza nel caso, qual danno
sì grande far gli potrà il caso? » Nella
conclusione; per esempio: « Se la
fortuna può moltissimo su di quelli , che
tutti i fatti loro lasciano in cura del caso, non bi* sogna adunque tulle cose commettere alla
fortuna, onde ella non piglia su di noi
troppo grande dominio. In queste tre ligure la concatenazione delle parole è così necessaria alla forza del
discorso, che poco valente sarebbe
tenuto un oratore, se non sapesse la
sentenza, il -contrario e la conclusione con ben congiunte locuzioni esporre.
Ci sono ancora altri casi, in cui la
continuazione può usarsi con vantaggio,
benché non sia proprio necessario 1’
usarla. XX. Si chiama Compar quella
figura, che ha in sè i membri, che già
dicemmo, della frase formali quasi del
medesimo numero di sillabe. Ciò non otteremo già col coniare le sillabe ( il
che sarebbe una puerililà ), ma bensì l’ uso c l’esercizio ci metteranno in
grado per un certo naturai senso di conformare ciaschedun membro a quello che
avrem posto di sopra; per esempio: « In
battaglia il padre succumbeva.a casa il
figlio s’ammogliava, ciò lutto un fatai
caso governava. » E parimente : « Alla
fortuna dee l’uno la felicità, all’ industria deo l’altro la virtù. »
Sovente però può intervenire in questa figura, che il numero delle sillabe non
sia affatto eguale, e nondimeno paia esserlo, se anche l’uno o l’ altro membro è più corto di una o
di due sillabe; ma neH’uno essendo più
le sillabe, nell’altro la sillaba o le sillabe siano più lunghe e più piene; talché la lunghezza o la pienezza di
queste sillabe compensi e pareggi il
maggior numerò delle sillabe dell’altro
membro. Si chiama SimiUter cadens una figura , quando nella medesima struttura delle parole se ne hanno due o più,
le quali per egual modo nei medesimi
casi si pronunziino, per esempio: « Hominem laudas egentem virtutis, abundaniem
fclicitutis. E parimente :’ « Cuius omnis in pecunia spes est, eius a sapienlia est animus remotus. Diligenlia
comparai divitias, negligentia corrumpit animum; Tu lodi un uomo povero di virtù, ricco di
felicità. unno ìv. - et tamen quurr* ita vivit, neminem prue se dadi hominem. La figura Similiter desinens si
haquandoleparole presentano una stessa desinenza, senza die i casi siano gli stessi; per esempio: « Ttirpiier
audes facere, nequiter sludes dicere. Vivis invidiose, delinquis studiose,
loqueris odiose. E parimente: « Audaeter lerritas , humiliter placas ».
Queste due figure, V una delle quali consiste nella simiglianza delle desinenze, e l’ altra nella
simiglianza dei casi, mollo bene si accordano fra loro; anzi i buoni scrittori per lo più le
collocano insieme nelle stesse parli del discorso. Ciò si farà nella seguente maniera: Perditissima ratio est
amorem petere, pudorem fugere, diligere
fonnam, negligere famam ». Qui le
parole, ebe hanno casi, Colui, che ita messo tutta la sua speranza nell’oro,
Ita l’animo ben lontano dalla saviezza. Acquista le ricchezze colla operosità, e corrompe il
proprio animo colla inlìngardaggiue; e nondimeno, vivendo in tal guisa, nessuno reputa uomo a confronto di sè.
Osi oprare disonestamente, e ti studii a parlare scelleratamente. Odiosa è la tua condotta,
ami il defitto, ed offensivo è il tuo parlare. Audace sci nel minacciare, umile
nel supplicare. Niente di più vergognoso può farsi quanto di finiscono con casi
simili, e quelle che non ne hanno, finiscono con la stessa desinenza. L’
annominazionè o paranomasia si ha ,
quando si ripete la stessa parola, o lo stesso nome cambiandovi una o due lettere, una o due
sillabe; o quando si applica la medesima
parola a due cose fra loro differenti.
Ella si forma per molle e varie maniere.
Colla diminuzione o contrazione della
stessa lettera, per esempio : « Hic qui se
magni fiee iactat , atque ostentai , veniit a te ante, quam Romam venit (1) ». 0, facendo il
contrario, per esempio: « Hicquos
homines alea vincil, eos ferro statini
vincit. Coll’ allungamento della
medesima lettera, per esempio: Hunc avium dulcedo ducil ad avium (3) ».
Coll’ abbreviazione della medesima
lettera, per esempio : « Hic torneisi videtur esse honoris cupidus , tamen
non tantum curiam diligit, quanlum
Curiam. abbandonarsi all’ amore, e di
rinunziare al pudore; di esser avidi
della bellezza e non curanti della fama. Costui, che spiega tanta giattanzac
ostentazione, fu da te venduto avanti che fosse a Roma venuto », (2) « Quelli, che costui in giuoco vince,
tosto di catene avvince. Il canto degli uccelli trae costui fuor di via ». « Benché costui paia ambizioso degli onori
pur non ama tanto la curia quanto Curia.
Curia è una cortigiana famosa. Aggiungendo delle lettere, per esempio « Hic
sibi posset temperare , nisi amori
piatici ottemperare ». Levando delle
lettere, per esempio: « Si lenones
vilasset tanquam leones , vilae se tradidisset. Trasponendo delle lettere, per
esempio: « Videte , iudices, utrum Uomini navo, au vano credere malilis. E parimente: Nolo esse laudator, ne videar adulator. 0 mutando
una lettera : per esempio : « Deligere oportet , quem velis diligere. Di tal fatta sono le
annominazioni o paronomasie, che fanno sostenere alle lettere un leggiero cambiamento, sia
allungandole, sia trasponendole, sia assettandole in altra maniera non molto diversa. Yi ha altre paronomasie, in cui le parole non hanno una cosi stretta rassomiglianza, ma
conservano però una certa analogia fra loro. Eccone una dì questo genere: « Quid veniam, qui
siiUj quare veniam, quem insimulem , cut
prosim, Egli poiria temperar se stesso, se non amasse meglio ottemperare alTamore. Se fuggiti
avesse i lenoni come i leoni, avrebbe
conservata la vita. Vedete, o
giudici, se amate piuttosto di prestar
fede a un uomo coraggioso o ad un uomo vano. Non voglio essere lodatore
per non parere -adulatore. Egli conviene
scegliere colui che tu vuoi amare. quem postulerà, brevi cognoscetis Qui
si trova in alcune parole una certa
analogia, che fa d’ uopo ricercar meno
che quelle degli esempi precedenti, ma
che pur vuol essere qualche volta usata.
Ecco un’altra forma della medesima figura:, Demus operaia , Quirites ne omnino
Paint Conscripli circumscripti pulentur.
Questa paranomasia si accosta alla
rassomiglianza perfetta un poco più che
la precedente, ma meno che quelle
riferite innanzi, perchè ad esse non solamente sono state aggiunte delle
lettere, ma ne sono state altresì levate
delle altre. Una terza forma di questa figura si è di presentare diversi
casi di uno o più nomi. Di un sol nome;
per esempio: Alexander Macedo summo labore anirnum ad virtulem a pueritiu confirmavit. Alexandri virtùtes per
orberà terme eum laude et gloria sunt
vervulgatae. Alexandro si
vita longior data esset , Oceanun manus M acedo num tran svola sset. Alexandrum omnes, ut maxime meluerunt,
ilem plurimum dilexerunt. Qui un solo
nome si è Voi conoscerete ben tosto la
cagione, che qui mi guida, chi io sia,
che cosa io mi proponga, chi io accusi,
chi io difenda, chi io citi in giudizio. Facciamo in modo, o Quiriti, che i
padri coscritti non vengano stimati affatto circoscritti. (3) « Alessandro Macedone dallasua infanzia
esercitò con grandissima costanza l’animo
suo' alla virtù. Le fallo successivamente passare in differenti casi. Ora vediamo una paronomasia, in cui più
nomi saranno usali in differenti casi
alla loro volta: Tiberiam Gracchum,
rempublicam administranlem, indigna prohilmit ìipx diutius in ea commorari.
Caio Graccho simdiler , occisio oblata est ,
quae vi rum reipublicae amanlissimum subilo de sinu eivilutis eripuil. Saturninum, fide
caplum malorum, perfidine scelus vitae
pricavit. Tuus, o Druse, sanguis
domeslicos parietes, et vultam parenlis
adspersit. Sulpicium, cui paullo aule
omnia concedebant, eum brevi spatio non modo vivere, sed eliam sepeliri prohibuevunl(l) ».
Quc virtù di Alessandro si conservano con lode e gloria nella ricordanza del mondo intiero. Se ad
Alessandro fosse stala consentita dagli
Dei una più lunga vita, un pugno di Macedoni
saria volato al di là dell’ Oceano. Se
tutti temettero grandissimamente Alessandro, lo
amarono pur anco di moltissimo amore. Una morte indegna tolse Tiberio
Gracco alla onorato incarico
d’amministrar la Repubblica, al quale
era tutto intento. Similmente a Caio Gracco fu tolta la vita da nemica mano, che alla città
improvvisamente rapi un uomo caldissimo
d'amore per la Repubblica. Saturnino,
che posto avea sua fede ne’ malvagi, spensero i perfidi amici medesimi. Il tuo
sangue, o Druso, bagnò le domestiche
pareli, e il volto della madre.
Sulpicio, al quale poco prima tutto concedevano, privaron ben tosto non
solo della vita, ma anche dello onor del
sepolcro. ste tre ultime figure Similiter cadens, Similiter desinens , e Annominazione o Paronomasia,
allorché avremo alle mani una causa vera, non le dovremo usare che mollo di
rado; perciocché non si possono trovare
senza sforzo e perdita di tempo. Siffatti giuochi dell’inlellelto sembrano avere per iscopo piuttosto il diletto che la
verità. Laonde l’uso frequente di queste
figure toglie all’eloquenza la sua autorità, la sua nobiltà, la sua severità. E non solo toglie alla parola tutta
la sua virtù, ma l’uditore rimane
disgustato da una tale maniera di dire,
perchè trova in queste figure fi' nezza
e giocondità, non mai bellezza e dignità. Il
bello ed il grandioso possono piacere a lungo, ma il giocondo c l’aggraziato generano ben tosto
sazietà allo sdegnante orecchio. Facendo noi dunque abuso di queste figure
mostreremo di compiacerci di una puerile elocuzione; ma se le frammetteremo nel
discorso con parsimonia, o ve le
spanderemo variamento qua e là, esse gioveranno a render più brillante il discorso stesso,
come se fossero altrettanti punti
luminosi. La soggiunzionc è quando noi
domandiamo- ai nostri avversari!, o in
generale agli uditori, che cosa può dirsi a favor di quelli, o contro di noi; c poscia
soggiungiamo ciò che bisogna veramente
dire o non dire, o ciò che può essere
favorevole olla nostra causa, o nocevolc
a quella degli avversari, per esempio: « Io doman (io adunque come questo uomo è divenuto sì
ricco. Gli e forse sialo lascialo un
ampio patrimonio? Ma i beni tulli di suo
padre furono venduti. Gli è forse toccala qualche eredità? No certamente;
anzi tulli i suoi parenti lo hanno
diseredato. Ha egli avulo guadagno da
lite o da giudizio? Non solo non ha
oltenuto nulla di ciò, ma anzi di più è stalo
condannato a pagare una grossa ammenda. Dunque se non deve la sua
ricchezza a veruna di queste cagioni, siccome voi tutti vedete, o bisogna dire che a costui nasce l’ oro in casa, o che
egli ha acquistato ricchezze con mezzi
illeciti. Eccone un altro esempio: « Io ho spesse volle osservato, o giudici, che molti
accusali possono trovar favore in qualche onorevole circostanza, la quale
neppur dagli accusatori può essere
impugnata; ma il nostro avversario nulla può fare di simigliarne. Imperciocché, invocherà egli
la virtù di suo padre? ma voi questo
padre nella coscienza vostra condannaste
alla pena di morte. Passerà egli in
rassegna il tempo della sua vita antecedente onestamente speso in alcun luogo?
ma voi tutti senza più sapete com'egli
ha vissuto sotto i vostri occhi
medesimi. Enumererà forse de’ parenti, al cui nome voi abbiale a rimanere
commossi? ma egli non ha parenti. Menerà
forse innanzi degli amici? ma niuno è,
che non riguardi siccome uno scorno
l’essere chiamalo amico di costui ». E similmente: « Il nemico, cui tii
riputavi colpevole, adducesti forse in
giudizio? no; perciocché tu Tue* chiesti
senza che fosse condannato. Avesti tu fimore delle leggi, che proibiscono di
ciò fare? ma tu neppure pensasti che ei
fossero leggi. Quando egli ti faceva
presente l’antica reciproca amicizia, ti
sentisti commosso? niente del tinto; anzi tu lo
uccidesti con più rabbia. E che? allorquando i suoi figliuoletti ti si gittarono ai piedi, fosti
tocco da compassione? anzi con sommissima
crudeltà volesti che rimanesse insepolto il padre loro ». ilavvi in questa figura mollo di veemenza e di
gravità, perciocché dopo che si è
domandalo che cosa bisognava fare, si soggiunge tosto che quella cosa non si è punto fatta. Di che nasce mollo
facilmente che s’ingrandisca l’indegnità
della cosa. Noi possiamo altresì riferire la soggiunzione alla nostra propria persona, per esempio: « Che doveva
io fare, allorché mi vidi soprappreso da
una sì grande moltitudine di .Galli? Forse combattere? ma, oltrecchè saremmo
usciti a battaglia con pochegentiavevamo pur anche una posizione mollo
sfavorevole. Star dentro agli alloggiamenti? ma noi non avevamo nè soccorsi da attendere, nè
vettovaglie per potere a lungo campare
la vita. Abbandonare gli alloggiamenti?
ma eravamo accerchiali. Contar per nulla
la vita de’soldati? ma mi pareva pure di
averli ricevuti con questa condizione di conscr varli incolumi, per
quanto potessi, alla patria c ai
parenti. Ricusare le condizioni del nemico? ma la salvezza de' soldati deve andare innanzi a
quella delle bagaglic ». Siffatte
soggiunzioni si pongono sovente l'una
dopo l’altra, acciocché da tutte appaia venir dimostrato che non v’ era niun
miglior partito a prendere che quello,
che appunto fu preso. La gradazione è
una figura per la quale non si discende
alla parola seguente prima che siasi
risaliti alPanteceddiite, per esempio: « Qual
altra speranza di libertà ci rimane, se ciò cli'ei vogliono, possono, e ciò che possono, osano,
e ciò che osano, fanno, e ciò che fanno,
a voi non è grave? >) E ancora: t lo ciò noli pensai senza che il consigliassi: nè il consigliai, senza che
intraprendessi tosto a farlo io stesso; oè intrapresi a farlo senza che lo recassi a compimento; nè lo
recai a compimento senza che lo
approvassi. » E ancora: AH’Affricano la industria procacciò virtù, la virtù
gloria, la gloria rivali. » E ancora: « Lo imperio della Grecia si fu appo gli Ateniesi: degli
Ateniesi si fecero signori gli Spartani;
gli Spartani furono superati dai Tcbani;
i Tebani vinti dai Macedoni; i quali
Macedoni in breve spazio di tempo allo imperio della Grecia aggiunsero l'Asia
soggiogata in guerra, » La successiva
ripetizione di ciascuna parola antecedente ha in sè una certa tal grazia; la
quale ripetizione costituisce appunto questa figura della gradazione. La definizione è quella
figura, che in poche parole e senza
nulla tralasciare abbraccia gli attributi proprii di una cosa, per esempio: «
La Maestà della Repubblica si è quella, in
cui si contiene la dignità e la grandezza della città. » E ancora: « Le
ingiurie sono quelle, che violano o con percosse il corpo, o con villaniegli
orecchi, o con altra turpitudine la vita di qualsivoglia uomo. » E parimente: « Questa non è
economia, ma avarizia; perciocché
l’dconomia si è un’ accurata conservazione delle cose proprie; c
l’avarizia si è un’ingiuriosa
appetizione delle cose altrui. » E
ancora: « Non è coraggio questo, ma temerità;
perciocché il coraggio è il disprezzo della fatica e del pericolo con ragione di utilità e
compensazione di comodi; e la temerità è
un gladiatorio intraprendimento di pericoli con inconsiderala sofferenza di fatica. « Questa figura è tenuta vantaggiosa
per ciò appunto che fa conoscere ed
intendere la forza ed il valere di
qualsivoglia cosa sì chiaramente e sì
brevemente che paia non aver avuto bisogno di
esser detta con più parole, nè si pensi essersi potuta dire con brevità
maggiore. Transazione chiamasi quella, la quale e con brevità pone sott’occhio ciò che è stato
detto, ed anco dichiara in poche parole
ciò che deve seguitare; per esempio: « Voi avete veduto come co stui si è
contenuto verso la patria; considerate ora
quale si è mostrato verso i parenti. » E parimente: « Voi conoscete i benefizii, ebe io ho fatti
a costui; ora udite in qual modo ei rn’hn ricompensato. » Questa figura è di
qualche utilità per due ragioni; prima perchè ci fa ricordare di ciò che è stalo dello, e prepara l’ uditore a ciò che
rimane da dire. La correzione è quella,
che toglie ciò che è stato detto, e
ripone in sua vece ciò che pare più
conveniente, per esempio: « Se costui avesse pregalo i suoi ospiti, anzi
avesse loro solamente fatto un segno,
avrebbe potuto facilmente ottenere lo
scopo. « E parimente » : Dopo che costoro rima-* sero vincitori, o piuttosto vinti; perciocché
come chiamerò io vittoria quella che è
stata più funesta, che vantaggiosa ai
vincitori? .0 invidia, compagna della
virtù, che per lo più vai dietro ai
buoni, o per meglio dire li perseguiti! Per questa figura t'animo dell’uditore rimane
colpito, perchè una cosa messa innanzi
con comunale parlare sembra solamente detta ; ma la stessa cosa profferita con correzione oratoria diventa
assai più notabile all’ uditore- Ma non
è meglio, dirà talu- , no, specialmente
allorché scrivi, impiegare fino da
principio il vocabolo migliore c più scelto? Può
essere che no, se il cambiamento del vocabolo faccia conoscere che la
cosa è tale, che, ove tu avessi usato il
vocabolo comunale, parrebbe essersi da te espressa troppo fiaccamente, e invece
la rendi più degna di osservazione col
venire poscia al vo ; caboto -più
scelto. Al quale se venuto fossi a bella
prima, non si sarebbe allora avvertilo nè il merito della cosa, nè quello della parola. La
preterizione è quella con la quale affermiamo, o che noi tacciamo, o che non
sappiamo, o che non vogliamo dire ciò che nel medesimo tempo specialmente diciamo, per esempio: «
Io per certo parlerei della tua
giovinezza, la quale tu dedicasti ad
ogni maniera d’intemperanza, se stimassi essere questo il tempo opportuno; ma
ciò tralascio avvisatamente. Ed anco non
voglio dire che i tribuni ti castigarono
siccome infrangilore della militar
disciplina: c reputo estraneo al soggetto l'aver tu dovuto dar soddisfazione
delle tue ingiurie a Lucio Labeone. Di
questi falli non dico nulla, e ritorno a
ciò che forma il soggetto del presente giudizio ». E parimente: « Io non dico
che tu ricevesti danaro dagli alleati;
non mi fermo a provare che espilasti le
città, i regni, le case di lutti; passo
sotto silenzio i furti, e tutte le rapine
tue. Questa figura è utile, se è nostro interesse di lasciar intendere una cosa, o che non è
espediente di mostrare per minuto, o che è lunga a dire, o che è ignobile, o
che non si può provare, o che è facile a
confutare; di maniera che sia meglio per noi l’aver fallo nascere copertamente
un sospetto, che l'aver preso a sviluppar cose che venir ci possano confutate.
La disgiunzione ha luogo, allorquando o l’una o l’altra delle proposizioni, che
si espongono, od anche ciascuna di esse
si conchiude con un verbo speciale, per esempio: « Il popolo Romano distrusse Numanzia,
abbattè Cartagine , disfece Corinto ,
rovesciò Fregelle. Niente ai Numantini
giovarono le forze del corpo; niente ai
Cartaginesi fu di profitto la scienza militare; niente ai Corinzi fu di
presidio la scaltrita politica; niente
ai Fregellani recò vantaggio la comunanza con essonoi de’ costumi e del
linguaggio ». E similmente: « Bellezza di corpo o per malattia perde suo fiore,
o per vecchiezza dileguasi;» In quest’
ultimo esempio e nell’altro antecedente
vediamo che ogni proposizione si conchiude con un verbo speciale. La congiunzione si ha,
quando per rinterposizione di un verbo
si legano insieme si le parti
antecedenti di una frase c si le conscguenti, per esempio; « Bellezza dì corpo
o per malattia perde suo fiore, o per
vecchiezza » L’aggiunzione si ha, quando il verbo, ondelegansi tra loro le parti, non è già posto tiel mezzo, ma
è collocalo o nel principio o nel fine. Nel principio, per esempio: « Perde suo flore bellezza di corpo
o per malattia o per vecchiezza. « Nel
fine, per esempio »: 0 per malattia o per vecchiezza bellezza di corpo perde suo fiore. La disgiunzionc sente
al quanlo della piacevolezza; eperciò conviene usarla di rado, onde non generi sazietà. La
congiunzione amando la brevità si può
usare più spesso. Queste tre figure procedono da un solo e medesimo genere. La conduplicazione è la
ripetizione della stessa parola o di più
parole allo scopo di amplificare o di
commovere, per esempio: Tumulti eccita C. Gracco, tumulti nelle famiglie, tumulti nello Stato»: E parimente: « Non
fosti tu commosso , allorquando tua
madre ti abbracciava le ginocchia, di’, non fosti tu commosso »? E' ancora: «
Osi tu oggi ancora presentarti al
cospetto di questa adunanza, o Iraditor della
patria, si, ripeto, o tradilor della patria, osi tu oggi ancora presentarti al cospetto di questa
adunanza »? La ripetizione della medesima parola scuote altamente l’uditore, e fa alla causa
contraria una più ampia ferita, come
spada, che a più riprese ferisca sempre
.nella medesima parte del corpo. V interpretazione
è quella che non ripete già la parola
stessa, ma ne sostituisce un’altra in suo luogo, avente il valore medesimo, per
esempio: Tu la Repubblica hai dalle
radici rovesciata, tu la città hai sino
dai fondamenti abbattuta ». E per egual
modo: « Tu empiamente hai battuto il padre, tu scelleratamente hai portato la mano contro
l’autor de’luoi giorni ». Egli è ben
necessario che l’animo dell’uditore rimanga scosso, quando colla interpretazion
de’vocaboli si viene a dare nuova forza al detto anteriore. Si ha la
commutazione quando due pensieri fra loro diversi si producono, per ragion di trasposizione, in maniera che il
secondo avente senso contrario al primo,
proceda appunto dal primo, per esempio:
« Bisogna mangiare per vivere, non
vivere per mangiare ». E parimente: «
Per questa cagione io non fo poemi, perchè,
come vorrei farli, non posso, e come posso farli, non voglio. E ancora: « le cose, che di
questo uomo si dicono, dir non si
possono, e quelle, che dir si possono,
non si dicono. » E ancora: Se un poema è
un quadro parlante, sì un quadro deve
essere un parlante poema. » E finalmente: • Perchè sei un ignorante, per
ciò appunto tu taci; c tuttavia, perchè tu taci, non sei per ciò un ignorante.
» Non si può dire abbastanza quanto sia conveniente questa trasposizione di due
sensi contrarii, in cui anche le parole si trovano trasmutale. Noi ne abbiamo qui posti più esempi, appunto
per chè, essendo diffìcile a trovarsi
questo genere, se ne avesse una chiara
idea, acciocché venendo esso ben inteso,
fosse più facile ad esser trovato all’occasione in un discorso. La permissione
si fa , allorquando nel dire noi
dichiariamo di dare e abbandonare appiedo alcun che all’arbitrio di alcuno, per
csem i pio: a Poiché tulio mi è stalo
tolto, e solo mi resta l’anima e il corpo, io a voi e al poter vostro dono ciò che sol mi rimane di tanti beni. Voi
fate di me quell’ uso, o buono o
cattivo, che meglio vi piace, giacché
tutto vi è permesso: contro di me
stabilite qual cosa voi volete: parlate, ed io ubbidirò. » Questa figura
è sommamente alta a muovere la compassione,' quantunque si possa alcuna volta eziandio in altri casi usare. La
dubitazione siha, allorquando l’Oratore
dà vista di cercare quale piuttosto di
due o più cose ei debba dire a
preferenza: per esempio: « Nocque in quel tempo assaissimo alla
Repubblica non so se dir bisogni o l’ignoranza o la perversità de’ Consoli, o
entrambe queste cose insieme. » E parimente: « Tu hai osato dir ciò? o uomo fra tutti i
mortali » in verità che io non so con
qual nome degno del tuo carattere io li
debba chiamare. « L’cspedizione si ha, allorquando, dopo avere enumerate
più ragioni dimostranti come una cosa
abbia potuto o non potuto addivenire,
tutte si rigettano ad eccezione di una sola, la quale appunto affermiamo:» per esempio: «Poiché consta che questo fondo
era mio, è necessario che tu provi o che
ne sei venuto in possesso per essere
stato un fondo abbandonato, o che è
divenuto tua proprietà per diritto di prescrizione, o che l’hai comperato a
danari, o che ti è pervenuto in eredità.
Tu non hai potuto fartene possessore per essere stato abbandonato, giacché io presentavami siccome padrone; tu non puoi
pur allegare in tuo favore la
prescrizione: tu non puoi presentare
verun titolo di compera: tu non potevi, me vivo, avere i miei beni in eredità.
Rimane adunque che tu per violenza sii
divenuto padrone del mio fondo. » Questa
Ggura è di grandissimo giovamento alle
argomentazioni congetturali; ma non
possiamo usarla a nostro piacimento, come
usiamo la più parte delle altre, non polendo noi ciò fare, se non quando la natura stessa del
soggetto ce ne dà facoltà. La dissoluzione è urta figura, che, sopprimendo le
congiunzioni, presenta i membri della
frase separati: per esempio: « Segui il voler del padre, ubbidisci alla famiglia, cedi agli
amici, ti sottometti alle leggi. » E
parimente: « Discendi ad una completa
giustificazione; non li voler sottrarre
a nulla; consegna i tuoi schiavi alla tortura; fa tulli gli sforzi perchè sia scoverlò il voro.
» Questa figura è piena di vivacità e di
forza, e si presta al parlare conciso.
La reticenza si ha, allorquando, dopo
a*er detto alcune parole, si lascia il rimanente dell’incominciato.discorso al
giudizio dell'tidilore: per esempio: « .Io non voglio incominciare a disputar lèco, perchè il popolo Romano mi
ha.... noi voglio dire per non parer
troppo vano: in quanto a te io so che
egli ti ha spesse fiale giudicalo degno di disprezzo. » E parimente: « Osi
tu, in questo tempo tenere siffatto
linguaggio? luche ultimamente
nell’altrui casa. . . non voglio proseguire per tema che, raccontando io cose
degne di te, non si creda che io tenga
propositi indegni della mia pesona. »
Qui è più funesto all’avversario il sospetto generalo dalla reticenza; che
una eloquente spiegazione.
La.conelusionc è quella figura, che per una breve argomentazione deduce da ciò, che prima è stalo detto o fatto, ciò
che deve necessariamente seguire: per
esempio: « Che se ai Greci aveva detto
l’oracolo che non si poteva premier
Troia senza le frecce di Filottete, e queste altro non fecero che colpir
Paride, ne segue che toglier di vita
costui si fu come prender Troia. Rimangono anegra dieci figure diparole, dette propriamente tropi, che noi non abbiamo
voluto variamente disseminare qua e colà; ma che abbiamo in vece separate da quelle che son
poste di sopra, per ciò appunto che
appartengono tutte al medesimo genere,
avendo esse la proprietà di allontanar
le parole dalia loro ordinaria significazione e farne loro assumere un’altra,
dando al discorso una certa quale adornatezza. Di queste figure la prima è
l’onomatopea, la quale, sé una cosa sia
senza nome, o non ne abbia uno abbastanza idoneo, c'insegna a chiamarla noi
stessi con vocabolo conveniente o per
ragion d’imitazione o per ragion di significazione. Per imitazione, i nostri
antichi coniarono questi verbi ragghiare, vagire, mugghiare, mormorare,
sibilare. Per significare la cosa abbiamo quest’ esejnpio: « Appena che costui fé’ impelo sopra Roma,
immantinente udissi lo scoppiettio della
città. » Bisogna di rado osare
l’onomatopea, acciocché la frequenza di
nuove parole non generi disgusto: ma se si usi a proposito e con parsimonia, non solo non
dispia' cerà per la novità, ma aggiungerà eziandio bellezza al discorso.
L’antonomasia è quella figura, ehe pef
una specie di soprannome tolto ad imprestilo
dà a conoscere ciò che non può essere chiamalo col proprio suo nome: per esempio volendo
parlar de’Gracchisi potrebbe dire: «
Tali non si mostrarono i nipoti dell’ Affricano. » E parimente, parlando di un avversario, dir si potrebbe: « Vedete
ora, o giudici, come mi La trattato
cotesto Plagiosippo?» Per questa figura
noi possiamo elegantemente, tanto nel lodare quanto nel biasimare, prendere o
dal corpo o dall'animo o da altre cose
esteriori una qualche maniera di
soprannome da collocare in cambio del nome
noto. LA METONIMIA è quélla, perla quale noi,
volendo significare una cosa, non la chiamiamo col suo proprio vocabolo, 'ma la facciamo
intendere col cercare un nome da altre
cose che abbiano affinità o correlazione con quella. Ciò si fa o ponente do
l’inventore per la eosa trovata, come se volendo alcuno significare il Campidoglio il
dicaTarpeo(t); o ponendo la cosa trovata
invece del suo inventore, come se
volendo alcuno significare Bacco nomini
il vino, e invece di Cerere dica le biade: o ponendo l’arma invece della
persona di cui è propria, come se
volendo alcuno significare i Macedoni,
dica: « Non cosi prestamente le sarisse s’impadronirono della Grecia: *
o, volendo quel tale signifi-. care i
Galli, dica: « Non tanto facilmente fu dall’Italia scacciata la matera
oltramontana: » o ponendo la causa per 1’ effetto, come se volendo «1cuno dar a
conoscere che altri abbia fatta un’azione in guerra, dica: « Marte ti spinse
per necessità a ciò fare: » o l’effetto
per la causa, come quando si dice oziosa
un’arte, perchè concede ozio a chi
l’esercita, e pigro il freddo, perchè rende pigri gli uomini; o il contenente pel contenuto, come:
«Non si può l’Italia superare nelle
armi, nè la Grecia nelle discipline. »
Qui invece de’ Greci e degli Italiani si son posti i paesi che li contengono: o
il contenuto pel contenente, come se,
volendo alcuno nominar le ricchezze, dica l’oro o l’ argento o Leggo con un antico manoscritto, citato nell'
edizione Panckoucke: ttf si quis Tarpeium, loquens de Capitolio, nominet; la qual lezione è la più
probabile di quante ne sono recate dagli
eruditi editori antichi e moderni sino
al Panckoucke. l’avorio. Di tulle queste differenti specie di metonimie 6 più
diffìcile lo esporre le tante regole, che
trovare gli esempi; perciocché non solamente i poeti e gli oratori son per solito pieni di
siffatte metonimie, mas’ incontrano
eziandionaturalmente nel nostro
quotidiano favellare. La Perifrasi è
quella, che per esprimere una cosa semplice va cercando una circonlocuzione: per esempio: «
La accortezza di Scipione abbattè la
potenza di Cartagine. » Qui, se non si fosse avuto in mira di abbellire il
discorso, si sarebbe potuto dir semplicemente Scipione e Cartagine. L’iperbato
è quello, che cambia l’ordine delle
parole rovesciandole o trasponendole.
Rovesciandole, per esempio: « Hoc vobis
Deos immortales arbilror dedisse pittale
prò veslra( 1). » Trasponendole, per esempio: «Instabilis in istum
plurimum fortuna valuit. E parimente:
Omnes invidiose eripuil libi bene
rivendi casus facultaies. Siffatte trasposizioni, se non rendono oscuro
il senso, giovano moltissimo alla continuazione, di cui abbiamo parlato più sopra; nella qual figura bisogna che le
parole Io mi penso che gl’immortali Dei vi abbian conceduto questo favore in
ricompensa della vostra pietà. L’ incostante fortuna ha esercitato sopra
costui tutto il suo potere. Il caso
iniquamente ti tolse tutti i mezzi di ben
vivere. Mi siano collocate con poetica armonia, affinché ella riesca in sommo grado abbellita c perfetta. L’IPERBOLE
–Grice: Every nice girl loves a sailor --è un parlare, clic trascende il vero, sia per aggrandire, sia per
impicciolire alcuna cosa. Essa si piglia
o separatamente o con comparazione.
Separatamente, come in questa frase: « Se noi rimarremo concordi, misureremo
la grandezza del nostro imperio dal
punto dove leva il sole a quello
dov’egli tramonta. » L’iperbole con
comparazione poi si prende o da assimiglianza
oda preminenza. Da assimiglianza, a questo modo: « Il corpo suo era bianco come la neve, c
gli oc- * chi brillavano come il fuoco.
Da preminenza, a questo modo: « Dalla
sua bocca scorrevano le partile dolci
più del mele. » Del medesimo genere è
quest’altra iperbole: « Sì grande era lo splendor delle sue armi che superavano in fulgidezza
il sole. « La sineddoche è quella figura che fa comprendere il tutto da una
parte, o una parte daltutto o dal
singolare il plurale, o dal plurale il singolare. Il tutto da una parte, così:
t Quelle nuziali tibie non ti facevano accorto di questi sponsali? » Qui tutta
la solennità delle nozze vien fatta
intendere sotto l’ unico simbolo delle tibie. Una parte dal tutto,
dicendo, per esempio, ad un uomo vestilo
con lusso c magnificamente ornato: « Tu
dispieghi a me dinanzi tutte le tue ricchezze, e spandi tutti i tuoi tesori. » Il plurale dal
singola re per esempio: Il Cartaginese
ebbe ad aiuto l’Ispano, ebbe il feroce Transalpino, c per sino l’Italo togato in parte parteggiò per lui.
Dal plurale il singolare , come : Un’ atroce calamità empieva di dolore il suo cuore (perfora) :
perciò dall’imo petto (ex imis
pulmonibus ) levavasi per lo travaglio
affannoso il respiro.» Nel primo esempio hanno ad intendersi più Ispani, più
Galli, più Italiani ; c nel secondo, un
solo cuore ed un sol petto per quei due
nomi latini posti al plurale : nel primo
luogo il singolare vi sparge una certa
grazia, e nel secondo il plurale vi aggiunge gravità. La catacresi è
quella figura, che, per una specie di abuso, in vece della parola giusta c propria, si serve di una parola analoga ed alfine; per
esempio: « Brevi sono le forze dell’ uomo, o ne è piccola ld statura, o esteso in lui l’intelletto, o
grande il discorso, o scarse le parole.» Qui è agevole a capire che per una specie di abuso si sono
ravvicinate fra loro di senso parole
appartenenti a cose dissimili. LA METAFORA (Grice: You’re the cream in my
coffee – TRANSLATIO) è, quando si trasporta il
vocabolo proprio di una cosa ad un’altra, il qual vocabolo sembri poterle convenire per una qualche simiglianza. Noi ci serviamo di essa per più
motivi, ed ecco per quali: Per mettere la cosa dinanzi agli occhi; a questo modo: « Cotesla
sollevazione svegliò Italia con
improvviso spavento. » Per cagione di concisione; a questo modo: cc II novello
arrivo di quelle truppe estinse in un subito la civile libertà. » Per evitare una parola oscena; a
questo modo: « La madre sua dilettasi di
quotidiane nozze » Per amplificare; a questo modo: « Non ci furon dolori e calamità d’uomo, che potessero
appartare gli sdegni di un mostro tale, e saziarne la iniqua crudeltà. » Per attenuare, a questo
modo: « Egli si millanta che ci è stato
di un grande aiuto, perchè in occorrenze
difficilissime ci ha sovvenuti di un
leggiero soffio. » Per ornare lo stile, a questo modo: « I traffichi dello
Stato, che per la malignità dei ribaldi inaridirono, un di per la virtù degli ottimati riverdeggeranno. » È
prescritto che la metafora sia modesta,
sì che passi con riguardo ad una cosa
consimile, onde non paia che alla cieca e avidamente ella sia trascorsa in una
cosa al tutto dissimile senza
distinzione veruna. L’ allegoria è un discorso, che altra cosa significa nelle
parole ed altra nel concetto. Essa trattasi per tre maniere: Per simiglianza,
per allusione, per anlifrasi. Trattasi
per simiglianza, quando si fanno seguitare
più metafore tolte ad una stessa idea; peresempio: « Se i cani fanno V uffizio dei lupi, a quali
guardiani confideremo noi il bestiame? » Per allusione, quando da una persona o da un luogo o da qualche
altra cosa si trae la simiglianza, sia per aggrandire, sia per diminuire
l’idea; come, se alcuno, parlando di
Druso, lo chiami « un vieto Numitore. Per antifrasi: a questo modo; come se
alcuno, volendo motteggiare sopra di uno
prodigo o sregolato, lo chiami « tegnente ed economo. In quest’ ultima specie
di allegoria, che trattasi per antifrasi, ed anco nella prima, che trattasi per
simiglianza potremo usare l’allusione metaforica. Eccone un esempio per
simiglianza: « Che cosa dice questo re
ed Agamennone nostro? » o meglio « perchè crudele egli è, colesto Atreo? »
Eccone un altro per antifrasi: « Se un empio, che battuto abbia il padre, lo diciamo un Enea; uno
intemperante e adultero diciamolo pure
un Ippolito. » Ecco presso a poco ciò che pensavamo dover dire intorno alle figure di parole. Ora l’ordine stesso
delle cose vuole che passiamo a dire delle figure di pensieri. Si ha la figura
di distribuzione, quando si partiscono
certi attributi fra più obbietti o più
persone: per esempio: « Quello di voi, o giudici, che caro ha il nome del senato, non può non
detestar costui; perciocché egli con insolenza estrema ha sempre fatto guerra
al senato. Quegli, il jquale brama che
nella Repubblica si mantenga
splendidissimo l’ordine equestre, dee pur volere che costui dato venga all’estremo supplizio,
acciocché egli colle turpitudini sue nort arrechi macchia e disonore ad un
ordine onorevolissimo. Voi, che avete un
padre, mostrate col castigo di costui che vi sono in.abbominio gli uomini
snaturati. Voi, che avete de’ figliuoli,
date a vedere con un esempio quanto terribili pene son riserbate in questa città agli uomini di questa fatta. » E
similmente: « Egli è dovere del senato
sovvenir di consigli la Repubblica; egli
è dovere de’ magistrati eseguire i
voleri del senato con zelo e fedeltà: egli è dovere del popolo scegliere ed
approvare co ! propri suffragi gli
uomini più abili, e le migliori deliberazioni. * E ancora: « Il dovere
dell’accusatore si è quello di
dinunziare i delitti; quello del difensore di purgarli e confutarli; quello del
testimonio è di dir ciò che sa od ha udito; quello del giudice è di contener ciascun d’essi nel
proprio dovere. Laonde, o Lucio Crasso,
se comporterai che un testimonio, oltre
a ciò che sa o udito ha, rechi in mezzo
argomentazioni e congetture, confonderai il diritto di accusatore con quello di
testimonio, darai favore alla cupidigia del tristo testimonio, e costringerai
l’accusato a una doppia difesa. » Questa figura è ampia: essa comprende molte cose in poche parole, e forma tra più
obbietti delle divisioni assai distinte, assegnando a ciascuno le sue attribuzioni. Si ha la figura
di licenza, allorché parlando a persone, che noi dobbiamo rispettare o temere,
le rimproveriamo con ragione di alcun fallo
in cui siano cadute, senza però offender quelle o Digitized by Google gli amici di quelle. Eccone un esempio: «
Voi vi maravigliale, o Quiriti, clic le
parli vostre sienoabbandonate da tutti? Che nessuno abbracci la vostra causa?
Che nessuno si dichiari vostro difensore? Attribuite ciò a colpa vostra, e
cessate una volta di rimanere stupidi.
Imperciocché come mai non dovranno tutti
fuggire ed evitare di darvi aiuto? Ricordatevi un poco di quelli, che aveste
per difensori; ponetevi dinanzi agli
occhi le sollecitudini loro per voi; e considerate quale compenso indi n’ebbero tutti. Allora si # verrà in
mente, se ciò confessar vogliate, che
voi per negligenza o piuttosto per
villàJi lasciaste trucidare sotto gli occhi vostri, e che co’ vostri suffragi
inalzaste ai più distinti onori i nemici
loro. » E parimente: « Che cosa mai fu,
o giudici, che dubitar vi fece di pronunciar sentenza? o che cosa mai v’indusse
ad indugiar la condanna a questo ribaldo? Non era stata forse l’accusa appoggiala alle prove più
manifeste? E (poesie prove non erano,
forse state tutte confermate per leslimonii? E le confutazioni degli avversarli
non furono tulle puerilità e baie? Forse voi
temeste che, condannandolo tosto alla prima adunanza, poteste essere
tacciati di crudeltà? Ma voi nel voler
evitare una simile taccia, la quale certo
era lungi da voi, andaste incontro all’altra di essere giudicali timidi
e dappoco. Voi intanto avete lasciato
luogo a privale e pubbliche calamità senza fine; e allorché v’ è apparenza che
altre maggiori venganvi sul capo, voi ve
ne state tranquilli e colle mani a
cintola. Nel giorno voi aspettate la notte, e
nella notte il giorno. Ad ogni momento voi ricevete qualche infausta e dolorosa nuova, e voi
conservale più a lungo in vita colui, che è l’autore di tutti i mali; e, fino a tanto che potete,
ritenete nella Repubblica il flagello
della patria. Se una tale maniera di licenza parrà aver troppo di veemenza, son molti correttivi
per addolcirla. Imperciopchè vi si
potranno incontanente introdurre siffatti modi: « Indarno io cerco qui la vostra virtù; io sto nel desiderio
della vostra conosciuta sapienza; io non trovo più l’antica vostra maniera di operare, ccc. ; » affinchè
quel movimento di sdegno, che là licenza
avrebbe potuto eccitare, rimanga per la lode compresso; di maniera che l’una cosa dilunghi dalla collera
e dal disgusto, e l’altra distorni
dall’errore. Siffatta cautela usata a
tempoj come nell’amicizia così nelle
pubbliche aringhe, ha questo vantaggio, che
rattiene dal fallo coloro che ci odono, e dà a conoscere che noi, i quali
palliamo, amiamo non meno essi che il vero. Havvi poi un’altra specie di licenza oratoria, la quale consta di una
maniera più fina; ed è allorquando o noi
riprendiamo i nostri uditori in quel modo, in cui vogliono pur essere ripresi,
o, sapendo noi che eglino ascolteranno volentieri i nostri rimproveri,
protestiamo di temere non forse li ricevano con mal cuore, ma che tuttavia la
verilà ci spinge sì che non vogliamo pur
pure tacere. Sottoporremo qui esempi di queste due sorte di licenza. Eccone uno della prima
sorta: « Troppo, o Quiriti, avete gli animi semplici e •buoni; troppo prestale fede a chicchessia.
Voi pensate che ognuno si sforzi di fare ciò che vi ha promesso. V’ingannate a
partito, e già da lungo tempo rimanete vittime di questa falsa speranza.
Stolli voi, che amaste meglio cercare
agli altri ciò che era in poter vostro,
che pigliarlo voi stessi di mano propria
». Della seconda maniera di licenza ecco
qual sarà F esempio: ((Furono, o giudici, fra me e quest’ uomo vincoli di amicizia, ma questa
amicizia, sebbene io tema che ciò udiate mal volentieri, il voglio pur dire con
franchezza, foste voi che me la
toglieste. E in qual modo? Perchè per
conservare il favor vostro, io ho amato meglio aver per nemico che per amico colui, che a yoì
dava travaglio». Dunque questa figura,
chiamata licenza jjsi può, come abbiamo mostralo, trattare in due modi: con veemenza, la quale fia mitigala da
lode, se parrà aspra troppo; o con finzione, come dicemmoln ultimo luogo, la quale non ha
bisogno di correttivo, perchè, sebbene
abbia colore di licenza, essa nondimeno per propria natura s’insinua nell’animo
dell’uditore. La diminuzione si usa, allorquando ci bisogna lodare in noi stessi o nei nostri
clienti il carattere, la bellezza,
l’ingegno; ed allora, per non parere
arroganti troppo, scemiamo e impiccioliamo con parole siffatti pregi: per
esempio: « Io dico, o giudici, giacché
dir lo posso, che ho procurato con tutta fatica ed industria di non
essere^ degli ultimi nella scienza
militare. » Qui, se chi parla avesse
detto: « ho procuralo di esser dei primi, » avrebbe avuto aria di arrogante,
benché ciò fosse universalmente
riconosciuto per vero: così egli ha
dello quanto era a bastanza e per far tacere l’invidia, e per far conoscere il
merito proprio. E ancora: « È egli forse l’avarizia o il bisogno che spinse
questo uomo al delitto? L’avarizia? Ma egli fu prodigo inverso gli amici; il
che è segno di liberalità, cosa
contraria all’ avarizia. Il bisogno? Ma
senza dubbio il padre suo gli lasciò
(non voglio esagerare) un non piccolo patrimonio. » Qui pure l’oratore
ha evitato di dire un patrimonio grande o grandissimo. Nel parlare adunque de’
pregi nostri o di quelli de’ nostri clienti noi osserveremo una siffatta riservatezza;
perciocché pigliando a lodar noi stessi inconsideratamente, nella civile
società suscitiamo l’invidia, e in un
pubblico ragionamento l’avversione. Laonde
in quella guisa che il buon contegno nella società ci sottrae
all'Invidia, così la riservatezza in un pubblico discorso cijsalva dall'odio. Chiamasi
descrizione quella, che per mezzo di
parole chiare e manifeste e nobili insieme, dipinge tutti i conseguenti di un
fatto, che sia avvenuto o che possa
avvenire: per esempio: *Se i vostri
voti, o giudici, restituiranno alla libertà costui, voi lo vedrete subito a
guisa di leone, a cui fu aperto suo
carcere, o a guisa d’altra feroce bestia, da catene sciolta, giltarsi nel foro,
e correre qua e là aguzzando i denti
contro alle sostanze altrui, avventandosi contra tutti, amici o nemici,
conosciuti e sconosciuti, togliendo l’onore agli uni, minacciando la vita agli altri, usando
violenze alle abitazioni, alle famiglie
d’ognuno, abbattendo insomma dai fondamenti lo Stato. Per la qual cosa, o giudici, discacciate costui dalla patria,
liberate dal terrore i cittadini ,
provvedete in fine alla vostra medesima salvezza ; perchè se lo rimandate impunito, contro a voi stessi, crediatelmi
pure, voi avrete scatenata una feroce e
sanguinaria bestia. » Eccone un altro esempio: « Se voi, ò giudici, pronunziale
contro a quest'uomo una funesta
sentenza, con un giudizio solo vi fate net tempd medesimo à cogliere di molte vite. Un padre
carico d’anni, che fondava tutte le speranze
della vecchiezza sua nella gioventù di questo sventurato, più nulla avrà, ond’abbia ad aver cara
lavila; te neri figliuoletti, privati del sostegno paterno, saranno esposti
alle beffe e agli scherni de’ nemici del
lora padre; tutta una famiglia in fine sarà inabissata in una indegna calamità:
e frattanto i persecutori, portando una palma sanguinosa in mano, padroni di una crudele vittoria ,
insulteranno alla miseria di costoro, e
superbi inveiranno contrassi con fatti e
con parole. » E parimente: « Niuno di
voi ignora, o Quiriti, quali siano i mali orribili, che piombar sogliano sopra una citlà presa
d’assalto. Chiunque ha portalo le armi ad offesa, è incontanente senza pietà
trucidato: gli altri, che per l’età e
per le forze tollerar possono la fatica, tratti
sono in servitù : flue’, che non possono, son privati di vita : e per
ultimo in un solo e medesimo tempo
l'abitazion loro è messa in fiamme da nemico incendio; e coloro, cui la natura
o la volontà per parentadi o per amore
congiunse insieme, sono violentemente
separati; i figliuoli parte strappali
dalle braccia de’ genitori, parte scannali in seno ad essi, e parte contaminati dinanzi ai loro
occhi. Nessuno vi è, o giudici, che
possa con parole degnamente mostrar la cosa, e col discorso dipingere i’enormezza di una siffatta calamità. » Con
questa figura si può muovere o lo sdegno
o la compassione, quando tutte le conseguenze di un fatto unite insieme vengono con evidenti parole
concisamente esposte. La divisione è una figura, la quale separando due
proposizioni le sviluppa entrambe con
soggiungere a ciascuna la sua ragione: per esempio: « E pcrchè^dovrò io
farti de’ rimproveri? Se sci un uomo
onesto, non li bai meritati; sesci un
tristo, non li sentirai punto. » E similmente: « Che bisogno ho io di parlarvi de’ miei servigi?
Se voi ne conservale memoria, io non
farei che stancarvi gli orecchi; c se ve
ne siete dimenticati, quando coi fatti
io non abbia acquistato il favor vostro, come potrò ora acquistarlo con le mie
parole? » E ancora: « Vi son due cose,
che trascinar possono gli uomini a un
sozzo guadagno, la miseria e l’avarizia. Nella divisione fraterna noi ti
conoscemmo per avaro: or li vediamo
povero e bisognoso. Come proverai che non avevi motivo di commettere una mala azione? » Fra questa divisione e
quella, che è la terza delle parli
oratorie, di cui parlammo nel primo libro dopo la narrazione, ci ha questo
divario: quella divide per enumerazione o per
esposizione le cose, di cui si dee tener deputazione in tutto il
discorso ; e questa disbrigasi subitamente, e, soggiungendo in poche parole a
ciascuna delle due o più parli le singole ragioni, reca ornamento al discorso. L’accumulazione è
quella, che riunisce in un sol cumulo
certe cose sparse in tutta la causa ,
affinchè il discorso riesca più grave, più veemente, più nocevòle alP accusato:
per esempio: « Da qual vizio mai è libero costui ? E per qual motivo, o giudici, volete voi
assolverlo? Egli è largitore della
pudicizia sua e insidiatore dell’altrui;
cupido, intemperante, sfacciato, superbo, empio verso i genitori, ingrato,
verso gli amici, ostile verso i
congiunti, disubbidiente verso i
superiori, adiroso cogli eguali c coi simili, crudele verso gl'inferiori,
finalmente insopportabile a tutti.
Appartiene allo stesso genere quell’accumulazione, che è di un grande aiuto
nelle cause congetturali, quando de’sospetti, che, separatamente presi, erano deboli e leggieri, riuniti in
uno conducono, nonché alla probabilità, alla certezza: per esempio: « Non vogliate adunque, non
vogliate, o giudici, considerare
separatamente le cose, che io ho dette;
ma raccoglietele tutte, c assembratele
in uno. Se veniva comodo a costui dalla morte di quell’ uomo, e vituperosissima è la sua vita,
avarissimo l’animo, affondatissima la fortuna domestica, c un tale misfatto a
niuno era vantaggioso che a lui; e niun
altro poteva sì facilmente eseguirlo, ed egli non poteva scegliere mezzi
migliori; e inoltre non ha costui nulla ommesso di ciò che poteva assicurarne il successo, e nulla
ha fatto, che non bisognava fare; e poiché il luogo era il più proprio ad un’aggressione, e
l’occasion favorevole, e opportunissimo il momento dello in traprendere; ed
egli calcolato aveva tutto il tempo
necessario del venirne a fine, e contar poteva sulle tenebre e sull’ evento del misfatto; e
inoltre, poiché innanzi che l’ uomo fosse ucciso, costui è stato veduto tutto solo nel luogo dove l’assassinio
è avvenuto; e poco appresso, nel momento, in cui succedeva il misfatto, è stala udita la voce
di colui che veniva ucciso; e quindi dopo l’omicidio è provato che egli non è tornato a casa che a
notte molto avanzata; e all’indomani,
interrogato della morte di quest’uomo,
ha balbettato, s’è contraddetto; e tulli questi fatti sono in parte per
testimonii, in parte per esaminazioni ed indizii dimostrati, ed anco per la
voce pubblica, la quale appoggiata a questi indizii, deve necessariamente esser
conforme al vero; spelta a voi dunque, o giudici, di trarre, da tutte queste
prove unite insieme, non che la probabilità, la certezza della colpa.
Imperciocché può ben essere che per caso si
levino contro di costui una o due di siffatte presunzioni, ma esser non
può che tutte dalla prima all’ ultima
s’accordino insieme per un semplice effetto del caso. » Questa figura è
veemente, e nelle cause congetturali
quasi sempre necessaria, ma puossi
eziandio qualche volta adoperare negli altri
generi di cause, e 'finalmente in ogni maniera di orazione.
XLII. I/espolizionc è, allorquando noi ci fcrmiamo in un medesimo
pensiero, o sia ci arrestiamo ad una proposizione unica, e tuttavia sembriamo
aggiungervi sempre alcuna cosa. Essa è di due
maniere: o noi ripetiamo appieno la cosa medesima, ovvero discorriamo
sopra la cosa medesima. Noi ripeteremo
la cosa medesima non nella stessa
maniera di prima, perchè ciò sarebbe un annoiar P uditore, non un abbellire la cosa, ma bensì
con dei cambiamenti. Questi cambiamenti
si fanno in tre modi, o rispetto alle
parole, o rispetto alla pronunciazione,
o rispetto alla forma. Si farà cambiamento rispetto alle parole, quando,
esposta una volta la proposizione, la
torneremo a dir di nuovo o più volte con
altre parole significanti lo stesso: per
esempio: « Non vi ha pericolo sì grande, che
il savio, ove si tratti della salute della patria, pensi di dover fuggire. Allorché ne deve andar di
mezzo il durevole ben essere dello
Stato, un buon cittadino esporrà certo la sua vita a lutti i pericoli per la difesa della pubblica fortuna, e sarà
fermo in questo sentimento, che per la
patria ei debba gitlarsi coraggiosamente in qualsivoglia pericolo, per quanto grande ei sia. » Si farà cambiamento
rispetto alla pronunciazione, se, passando dal tuono semplice al veemente c a tutte le altre
modificazioni della voce e del gesto, nell’ allo stesso che noi diversificheremo per mezzo delle parole
il medesimo unico pensieroso accompagneremo eziandio con una varia ed. energica
azione. Per mezzo di precetto non è
molto facile spiegare la cosa, ma colla
pratica è facile ad apprenderla, talché non
v’ò bisogno di dare esempi in iscritto. Il terzo genere di cambiamento
sta nella forma, che si fa prendere al
pensiero; sccondochè o vogliamo
trattarlo per dialogismo o per emozione. Il dialogismo (del quale parleremo a
suo luogo più largamente tra non molto,
toccandone ora quel tanto che basta all’uopo)
è una figura, che pone nella bocca di
alcuna persona un discorso conveniente
alla dignità sua; e acciocché meglio
s’intenda la cosa, noi non ci dipartiremo dal nostro primo esempio, trattandolo per dialogismo: «
Il savio, che giudicherà di dover
affrontare tutti i pericoli per difesa
della patria, dirà sovente a sé stesso:
Io non sono nato solamente per me, ma
eziandio e mollo più per la patria: questa vita, ch’io non potrei
ricusare al destino, sia soprattutto spesa a salvezza della patria. Essa
fu quella che mi nudrì, che mi assicurò
infino a questo dì un’esistenza
tranquilla ed onorata, che protesse la
mia vita con buone leggi, con ottime costumanze, con una liberale educazione. Per quali servigi potrò io pagare i benefizii
ch’ella mi ha fatti? Per questo
linguaggio, che il savio tiene a sé
stesso, io appunto nei rischi della repubblica non ho mai esitato di affrontare
qualunque pericolo. » Similmente si fa cambiamento della cosa rispetto alla forma, se essa cosa si
tratti per emozione, allorché, vivamente
commossi noi stessi, cerchiano pur di commovcre gli animi di coloro che ci ascoltano: per esempio: a Chi è mai
qui di sì piccola mente dotato, il cui
cuore avvolto sia nelle miserie
dell’invidia, il quale abborrisca di
lodare altamente c di giudicare come il più savio degli uomini colui, che per la salute della
patria, pel ben essere dello Stato, per
la conservazione della pubblica fortuna
affronti ogni più grande, ogni più
atroce pericolo, c vi si getti dentro con
lutto l’ardore? Per verità, che, in quanto a me, io sento nel mio cuore piuttosto il desiderio
che il potere di lodar degnamente un tal
uomo, e sono certo che anche voi tutti
provate in voi il sentimento medesimo. » Una medesima cosa adunque si può nel discorso variare in tre maniere,
cioè rispetto alle parole, rispetto alla pronunciazione, rispetto alla forma; c
iu quanto a quest’ullima maniera si sceglierà o la forma del dialogismo o
quella dell’emozione. XLIV. Ma se si tratti non già di ripetere la
cosa medesima, ma di discorrere sopra
la medesima cosa, noi avremo dei mezzi
più numerosi di variare il discorso. Imperciocché- dopo che noi avremo semplicemente enunciata la cosa, vi polrem
tosto aggiungere una prova, poi
profferire in due ma nicre una sentenza, la quale potrà essere o senza prove, o con prove: in appresso potremo far
uso del contrario, delle quali cose tutte
noi abbiamo parlato nelle figure di
parole; poi passeremo alla similitudine
c all’ esempio, di cui parleremo ampiamente a suo luogo; all’ ultimo
termineremo colla conclusione, della
quale noi dicemmo quanto era necessario
nel secondo libro, allorché esponemmo .
la maniera di eonchiuderc l’ argomentazione. In questo stesso libro noi facemmo pur
conoscere qual sia la figura di parole,
che porta il nome di conclusione. Una
espolizione adunque di questo genere
potrà piacere mollissimo, quando si componga di un gran numero di figure di
parole e di pensieri. Affinchè sia tale
deve avere sette parti. Noi non ci
allontaneremo dall’esempio già dato per
mostrarli con quale facilità, mercè le regole dell’arte, un’unica
proposizione trattar si possa in diverse maniere: « Il savio per difesa della
patria non fuggirà verun pericolo,
perchè sovente accade che colui, il qual
non vuole per la patria morire,
necessariamente perisca insieme con la patria. E poiché dalla patria noi abbiamo ricevuto
lutti i comodi clic godiamo, così non dobbiamo per la patria riputar grave
veruno incomodo. Coloro adunque che fuggono quel pericolo, che per la
patria abbiamo obbligo d’incontrare, opcrauo
da stolli; perocché nò sottrarre si
possono ai mali pubblici, ed anco n’hanno voce d’ ingrati verso la patria.
Ma quelli, che con loro incomodo pigliano
sopra di sè i pericoli della patria,
sono da aversi in conto di savii, perchè
e mostrano di rendere alla patria
quell’onore che le è dovuto, ed aman meglio perire pei molli che coi
molli. Infatti sarebbe ingiustissima cosa restituire alla natura, quand’clla
il vuole, quella vita che noi ricevemmo
da lei, ma che pur ci fu conservata con
grandi benefizii dalla patria, e non
darla alla patria, quand’ella ce la
domanda; e, potendo noi con grande virtù e gloria morir per la patria, preferir di vivere
nell’infamia e nella viltà; ed essendo
noi pronti ad affrontar pericoli per gli
amici, pei parenti, e per tutti gli
altri congiunti, non voler mettere la nostra vita a vantaggio della repubblica, la quale, non che
tutte queste cose, il santissimo nome di
patria in sè racchiude. Pertanto come è da biasimare colui, che , in una burrasca cerchi di salvar sè
unicamente piuttosto che tutta la nave,
così è da condannare colui, che nel
pericolo delia repubblica antepone la
salute sua alla salute comune. Imperciocché,
rotta per ventura la nave, molti pure scampar possono sani e salvi, ma
nel naufragio della patria non ci ha
veruno, che possa scamparne. Il che mi pare
aver Decio assai bene inteso, il quale, dicono, votò sè medesimo, c per
salvar le legioni si precipitò in mezzo
a’nemici; nel qual fatto ben lasciò la vita, ma non giltolla indarno; perchè
con una cosa labilissima ne riscattò una durevole, e dandone una di poco prezzo n’ebbe una assai preziosa.
Donò la vita, e ne ricevette la patria,
lasciò lo spirito, ed acquistò la
gloria; la quale perpetuandosi nell’ ammirazione dei secoli , coll’ invecchiare
diviene ognora più splendida. Che se
colla ragione è dimostralo, e confermato coll’esempio, che affrontar si debbono i pericoli per amor della cosa
pubblica, egli è adunque d’uopo avere in
conto di savii coloro che per salute della patria non si sottraggono a pericolo alcuno. » Tali sono le diverse
maniere di espolizione; intorno alla
quale figura noi ci siamo trattenuti a lungo, non solamente perchè dà forza ed ornamento al discorso, quando noi
trattiamo una causa, ma soprattutto perchè essa presenta il miglior mezzo di
esercizio nella facoltà del ben dire.
Bisogna adunque che nella trattazione di
una causa non vera noi ci esercitiamo nelle diverse maniere della espolizione,
e che ce ne serviamo pure nei pubblici ragionamenti, quando abbellir vorremo
l’argomentazione, di cui parlammo nel
secondo libro. La commorazione è quella, per la quale noi ci fermiamo a lungo e ritorniamo sovente
sopra il punto più solido della causa, quello al quale tutta intera la causa si riferisce. È
vantaggiosissimo il far uso di questa figura, c ai buoni oratori è molto
famigliare; perciocché per essa non si permeile all’ uditore di allontanarl’
attenzione dal punto più importante. Non mi è possibile il dar qui un esempio abbastanza idoneo, perchè questo
punto non è mai separato da tutta la causa
intera, come membro distinto dagli
altri, ma egli è come sangue che circola in tutto il corpo del discorso. L’antitesi
è quella figura, per cui oppongonsi contrarii
a contrarii. Essa è nel numero delle figure di parole, come vedemmo più
sopra conquell’ esempio. « Ai nemici
placabile, agli amici implacabile ti mostri; » ma appartiene altresì alle
figure di pensieri, come si vede in
questo esempio: « Voi piangete le
disgrazie di costui, c costui gioisce dei mali della repubblica. Voi vi diffidale delia fortuna
vostra, costui solo si gonfia tanto maggiormente della sua. » Fra queste due sorte d’antitesi ci ha questo
divario, che la prima consta di due parole immediatamente opposte, e qui
bisogna ciré si presentino due pensieri
contrarii messi a confronto. La similitudine è una figura, che applica ad una
cosa alcun che di somigliante tolto da una cosa diversa. Si fa uso di essa o per abbellire, o per
provare, o per dilucidare una cosa, o
per metterla dinanzi agli occhi; e
siccome se ne fa uso per quattro motivi, così essa si tratta per quattro
maniere: per contrario, per negazione,
per laconismo, per confronto. Noi verremo mostrando come a ciascuna di queste
quattro maniere corrisponda uno dei
quattro motivi, che usar ci fanno la similitudine. Quando la
similitudine ha per fine rabbellire, si prende per contrario così: «Egli non
si deve giù pensare che, come 1’ atleta,
che riceve l’ardente fiaccola, meglio
sostiene nella palestra la celerità del
suo corso, che rallcla,il quale gliela
trasmette, così abbia ad esser migliore un nuovo generale, che viene a prendere il comando
dell’esercilo, di quello al quale succede; perciocché là è un cursore affaticato, che ad un cursore
fresco di forze consegna la fiaccola,
equi è un generale sperimentato, che
consegna l’esercito a un generale ancora inesperto ». Anche senza una tale
similitudine potevasi dire con bastante chiarezza, evidenza e verità in questo modo: « Che i
meno abili generali succeder sogliono
nel comando delle armate ai generali più
esperti »: ma la similitudine fu presa per abbellire, onde il discorso
risplendesse di una certa quale dignità. Essa fu poi trattata per contrario; c
prendesi appunto per contrario, quando noi neghiamo che una cosa sia simile a
quella che noi rechiamo nel mezzo , in
quella maniera che qui abbiam veduto in parlando degli atleti che corrono. Quando la
similitudine ha per fine il provare, si
fa per negazione a questo modo: « Nè un
cavallo indomito, quantunque sia ben
conformalo dalla natura, esser può idoneo a que’ servigi che da un cavallo si
vogliono, nè un uomo indòtto , benché
abbia naturale ingegno , può pervenire
alla virtù». Ciò che prova questa
sentenza, si è, che diviene più vcrisimilc che senza dottrina non si può
giungere alla virtù, quando siasi
riconosciuto che un cavallo indomito non potrebbe esser alto al bisogno. Dunque
la similitudine è stata presa a fine di provare, e si è trattata per negazione; il che chiaramente si
manifesta sin dalla prima parola della
similitudine. XLVII. Quando la
similitudine avrà per fine di render più
chiara la cosa, si prenderà per laconismo, come: « Nei doveri dell’amicizia non
bisogna, come nelle corse del circo,
limitare i proprii sforzi al punto di
toccare la mela, ma sì usare tanto di
zelo c di forze da oltrepassarla agevolmente ». Il fine di questa similitudine è quello di far
conoscere più' chiaramente che sarebbe cosa indegna rimproverar coloro, che,
per modo d’esempio, dopo la morte di un
amico, pigliassero cura de’suoi figliuoli, perciocché un atleta, che corra,
basta che abbia tanto di velocità da
toccar primo la meta, ma un amico deve aver
tanto di benevolenza da pervenire, nella devozion dell’ amicizia, più in là
di quello, che sentir possa l’amico.
Questa similitudine è esposta per laconismo: imperciocché i due termini di attinenza non si presentano già
separati, come negli altri esempi, ma bensì congiunti ed incarnati l’uno
nell’altro. Quando la similitudine avrà
per fine di metter la cosa sotto agli occhi, si
farà per confronto: per esempio: « Come un citaredo, il quale ne venga
innanzi magnificamente vestito, coperto
di un mantello dorato, trascinante una
clamide di porpora di varii colori tessuta, ornalo il capo di una corona d’oro
di grosse scintillanti gemme tempestata, avente tra le mani una elegantissima celerà fregiala d’oro e
d’avorio; e sia inoltre egli stesso
ammirabile per fattezze, beltà, e statura conveniente alla dignità; se dopo
avere per tutte coleste cose mossa nel
popolo una grande aspettazione, fattosi di repente silenzio, mandi fuori una voce spiacevolissima, accompagnata
da sgarbati movimenti di persona, quanto
più avrà sfoggiato di ornamenti, ed
eccitala l’aspettazione, tanto più fra
derisioni e fischi sarà via cacciato;
non altrimenti un uomo, il quale, collocato in alto grado di nobiltà c pieno d’agi e ricchezze,
abbondi di tutti i favori della fortuna,
c di tutti i vantaggi della natura, se
manchi di virtù, c di scienza, la quale
di virtù è artefice, quanto più sarà di tulle
le altre cose ricco, c per quelle chiaro-ed invidiato, tanto
maggiormente fra derisione e disprezzo
sarà cacciato da ogni usanza de’buoni ». Questa similitudine, dipingendo con vivi colori le
due parli della comparazione, c facendo
eguale confronto dell’ imperizia d’arte dell’uno e dell’ignoranza dell’auro,
molle la cosa dinanzi agli ocelli. Essa
fu qui trattala per confronto, perchè, stabilita l’attinenza di similitudine, tutte le parti
corrispondono fra loro. Nellesimililuilini converrà diligentemente osservare di
sceglier parole acconce a significar con
giusto rapporto le idee clic voglionsi esprimere nei due termini della
comparazione. Se noi, per esempio,
avremo detto: «Come le rondinelle se ne
abitano jn mezzo a noi nel tempo estivo, e da
noi si partono cacciate dal freddo »; converrà che noi dalla stessa similitudine prendiamo
parole traslate, dicendo: « Così i falsi amici restano con noi nel tempo sereno di nostra vita, ma appena
‘veggono spuntare il verno della fortuna, se ne volano via tutti ». Egli ci sarà facile trovare
rapporti siffatti, se polrcm porci dinanzi agli occhi tutti gli esseri animati
o inanimati, parlanti o muti, feroci o
mansueti, terrestri o celesti o marittimi, o dall’arte creali o dal caso o dalla natura, ordinarli o
straordinarii, c scoprire in essi similitudini che contribuir possano o ad
abbellire o a rischiarare la cosa, o a
porla dinanzi agli occhi. Non è però necessario
che le.due cose fra loro paragonate siano interamente simili: basta che
abbiano in parte fra loro una tal quale
analogia. L’esempio è allegazion di un fatto o di un detto con nominazione del suo autor.e. Questa
fi gara si usa per gli stessi molivi della similitudine. Essa rende più abbellita la cosa, quando noi
non 1* usiamo die per cagione di
abbellimento; la rende più chiara, se non ha altro scopo che quello di rischiarare ciò che è oscuro; la rende più
probabile, quando presenta la verisimiglianza; la pone dinanzi agli occhi,
quando esprime tutto con tale evidenza
clic si possa, direi quasi, toccarconmano
la cosa. Io avrei qui aggiunti gli esempi di ciascuna specie, se non
avessi già fallo conoscere nella
espolizionc il carattere di questa figura, e non avessi nella
similitudine falli aperti i motivi di doverla
usare. Ecco il perchè io nè ho qui voluto limitarmi a dir poche parole, onde non mi avvenisse di
non essere inteso, nò dirne di troppe
nel mentre che la cosa era già
bastantemente intesa. L’immagine è
paragone di forma con forma, fra cui sia una
certa simiglianza. Essa si usa o per motivo di lode, o di biasimo. Per motivo di lode si dirà, per
esempio: « Egli andava a battaglia simile per membra al più vigoroso toro, per impelo al più
terribile leone. « Per motivo di biasimo
l’immagine deve addurre o nell’odio, o
nell’invidia, oneldisprczzo. Nell’odio,
così: « Questo mostro striscia tutto il dì
in mezzo al foro come un crestuto drago con adunchi denti, con infocato
sguardo, con mortifero alito, girando qua c là gli occhi per iscoprirc una vittima da avvelenar col respiro, da lacerar
coi denli, da coprir coll’ immonda sua bava. » Per addurre nell’ invidia, così:
« Costui che vanta le sue ricchezze,
curvalo ed oppresso dal peso del suo
oro, grida e giura, siccome un sacerdote di Cibele, od alcun altro
indovino. » Per addurre in disprezzo, così: « Costui è simile a lumaca, che
nascondendosi e rannicchiandosi in se stessa silenziosa,^ tutta quanta portata
via con la propria casa per venire
mangiata». L. Il ritratto, o la
prosopografia, è quella figura, che per mezzo di parole esprime e rappresenta
Testerno di una persona tanto fedelmente che basti a farla riconoscere: per
esempio, così: « Io parlo, o giudici, di
quest’uomo rosso in viso, piccolo,
storto, a capelli bianchi e alquanto
ricciuti, con gli occhi azzurri, che ha una grande cicatrice sul mento, se pure in qualche modo
ei può larvisi presente alla memoria. »
Questa Ggura torna utile, quando si vuol
far riconoscere alcuno; ed è pure
graziosa, quando sia fatta conbrevilà e
chiarezza. L’etopea è quella, che descrive il carattere di alcuno,
presentando certi tratti, che ne
mostrino esso carattere. Se tu vuoi, per esempio, descrivere non già un uomo ricco, ma chi si
vuol dar l’aria d’ esser ricco, dirai
così: « Osservate, o giudici,
quest’uomo, che trova sì bello di passar
per ricco; osservate in prima con qual occhio ci guardi. Non sembra egli dirvi: Io vi farei un
presente, se ve ne credessi degni? E allorché con la mano sinistra egli sollevasi il mento, crede
di abbagliare la vista di tutti con lo splendor de’ diamanti e il luccicore
degli anelli che porla nelle dila. E allorché si volge indietro a chiamare il
suo unico servo, che io ben conosco, c
che non è, credo, da voi conosciuto, ei lo chiama ora con un nome, ora con un
altro, e poi con un altro ancora. Olà,
grida egli, vieni qui tu, o Saninone, chè io
non vorrei che colesti zoticoni facessero le cose a rovescio: di maniera che coloro, che odono
gridare e altro non sanno, si pensano eh’ egli ne preferii sca uno tra i molti suoi schiavi. E che cosa
dice a Sannione di fare? Gli dice piano
all’orecchio o di mettere in assetto i
lctticciuoli per la mensa, o di andar a
prendere da suo zio uno schiavo Etiope,
che lo conduca ai bagni, o di approntar dinanzi alla sua*porla un cavallo delle Asturie, o di
apparecchiare qualche altro fragileornamcrvtodellasua falsa gloria. Di poi grida sì che lutti
l’odano: Bada che la somma sia per
intero pagala, se è possibile, avanti
notte. Il servo che già da tempo conosce il
debole del suo padrone, risponde: Bisogna che voi mandiate più d’un servo, se volete che la
somma sia per intero contala c portata a
casa. Ebbene, dice l’uomo, conduci con le Libano c Sosia. Padron sì, risponde l’altro. In appresso vengono a
trovare per caso il nostro vanitosa
alcuni ospiti, i quali nell’occasione di un viaggio, ch’egli fece, lo avevano
accollo in loro casa e trattato splendidamente.
Senza dubbio a tal vista ei rimane turbato, ma pure non gli dà l’animo di tradire il proprio
carattere; e, Ben faceste, dice, di
venirmi a trovar qui ; ma avreste fatto
meglio, se foste andati dirittamente a
casa mia. L’avremmo fatto, rispondono essi, seavessimo saputa la vostra
abitazione. — Ma era pur facile di
saperla, domandandone a chiunque; tuttavia venite con me. Quelli lo seguono:
Intanto, strada facendo, ogni discorso
va a terminare in ostentazioni. Domanda
qua e colà come si presentino le messi nei campi: dice che non può recarsi a visitar le sue terre perchè le sue case di
campagna gli sono stale incendiate, e che non s’attenta ancora di riedificarle; però, aggiunge egli,
ho cominciato ne’ miei fondi del Toscolo a spendere e spandere, e a costruire sui medesimi fondamenti. LI. Infraliamo ch’egli parla così, giunge ad
una casa, dove il giorno stesso doveva
aver luogo un banchetto di amici, e
dove, conoscendone egli il padrone,
entra insieme cogli ospiti. Ecco, dice,
dove abito. Va osservando minutamente le argenterie disposte sulla
tavola, e i Ire letti preparati: approva
ogni cosa. Gli si avvicina un piccolo schiavo, che gli dice piano all’orecchio
che il suo padrone sta per venire, e ch’egli s’accontenti di uscire. Oh! è ben
vera la nuova, esclama egli? Andiamo, o miei ospiti; il frale! mio arrivada
Salerno: 10 voglio andargli incontro:
voi ritornate costà alle dieci ore. Gli
ospiti partono: costui di soppiatto
cacciasi dentro alla sua casa. Alle dieci ore, sccondocliè egli aveva
fissato, tornano gli ospiti: domandano di lui: allora vengono a conoscere chi
sia 11 padrone della casa, e pieni di
vergogna si ritirano ad un albergo. All’indomani trovano l’uomo, narrano l’avvenuto, si querelano,
glidiconolemale parole. La
rassomiglianza de’luoghi, risponde egli,
vi ha ingannati: voi avete preso abbaglio di tutto un viottolo; io vi ho aspettati ad ora assai
larda, il che è contrario alla mia salute.
Egli aveva già innanzi dato incumbenza a Saninone di andar a cercero in
prestito vasellami,. arazzi, servidori. Il piccolo schiavo, destro non poco,
adempie con bravura e prontezza al comando: costui introduce m sua casa gli ospiti. Afferma di aver prestato
i suoi grandi appartamenti ad un amico
per celebrarvi le nozze- Tutto ad un
tratto il scrvidorctto gli viene a dire,
che si ridomandano le argenterie (peroc _chè chi le aveva prestate non istava
scnzasospelli). Levali via di qua, grida
il padrone; io ho prestato i miei
appartamenti, ho dati i miei schiavi, e si vogliono anco le argenterie? Ma
benché io abbia degli ospiti, alla
buon’ora, se ne giovino pure; noi ci
contenteremo dei vaselli di Sarao. — Dirò io
tutti i fatti di costui? Tale è il carattere di questo uomo, che tulli i
tratti di vanità e di ostentazione, clic
ogni di gli sfuggono, non potrebbero essere
da mq raccontali in un anno intero. » Siffatte elopee, clic dipingono al
naturale il carattere di un uomo,
porgono un grandissimo diletto. Conciossiacliè esse pongono dinanzi agli occhi
l’animo e i costumi di chiunquc,o di un
vanitoso, come nel precedente esempio, o di un invidioso, o di un pusillanime,
o di un avaro, o di un innamoralo, o di un
dissoluto, o di un truffatore, o di uno spione; insomma non v’ha
tendenza dell'animo che per mezzo di questa figura non possa venire al vivo
dipinta. LIl. Il dialogismo è, quando
si attribuisce un discorso a qualche
persona esponendolo nella maniera che conviene alla dignità sua, per esempio: Allorché la città era inondata da soldati, c
gli abitanti, tutti presi da spavento,
si stavano chiusi nelle loro case, si
presentò costui vestito alla militare, con la spada al fianco, e un giavellotto
In mano. Cinque giovani armali come lui lo seguivano. Tutto ad un tratto si precipita nella casa, c
grida ad atta voce: Dov’ è il fortunato
padrone di questa abitazione? perchè non
viene innanzi? ond’è questo silenzio? Immobili per lo spavento, gli altri tulli non osano aprir bocca. Sola la moglie
di questo infelicissimo sciogliendosi in lagrime giltasi ai piedi di costui, e. Grazia, dice ella,
grazia; in nome di ciò, che liai di più caro al mondo, abbi pietà di noi; non-
voler uccidere chi non ha più vita: sii
temperante nella fortuna; anche noi fummo felici; pensa che sei uomo. Ma egli continua a gridare: diesiate aspettando per darlo nelle mie mani? Cessate di assordarmi coi vostri lamenti.
Egli non isfuggirà. Frattanto si
annunzia al misero che il suo nemico è
in casa, e che con g'rande schiamazzo minaccia morte. A questa nuova esclama:
Old mio Gorgia, oh! fedel custode de’
miei figliuoli, nascondili a questo
barbaro, difendili, fa di potermeli condurre sani e salvi alla adolescenza.
Appena ha egli profferite siffatte parole, che in un momento si avanza questo
assassino, e grida: Tu dunque stai nascosto, o temerario? La mia voce non
fi ha già levata la vita? Appaga
l'inimicizia mia, c nel tuo sangue
s’acquieti la mia collera. Allora coraggioso il cittadino rispondevo pensava di
non esser vinto appieno; ma ben veggo che
sì: tu non vuoi terminar meco la contesa
dinanzi ai tribunali, dove la disfatta è
vergognosa e la vittoria onorevole; tu
vuoi uccidermi. Ebbene, io perirò assassinalo, ma non vinto.
Costui allora: Come! anche nell’ora
estrema del tuo vivere vuoi dir sentenze, e abborri di supplicare chi ti tiene in suo potere? —
Allora la donna: Anzi ei prega, ei
supplica. Ma deh! tu non essere
inesorabile; e tu, mio caro marito, in
nome degli Dei, stringi supplicante le sue ginocchia. Egli è padrone di
te; egli li ha vinto; sappi or tu vincere te stesso. Perchè non cossi, o donna,
dice il marito, di parlarmi cose affatto indegne di me? Taci, e pensa solo ai tuoi doveri. E
tu, a che tardi di togliermi la vita, e
di levare a te medesimo colla mia morte
ogni speranza di onorato vivere?
L’assassino respinge da sè la donna piangente, eal misero, che apriva
bocca per profferire non so quali parole
degne del suo coraggio, pianla d’un
colpo la spada nel fianco. » Io credo di avere in questo esempio dato a ciascuno il linguaggio
che conveniva alla sua dignità, il che è
la cosa più imporlanlQ.in questa figura. Vi sono, ancora dei dialogismi, che si
porgono come conseguenze: per csempio: « Che si dirà mai se voi darete una
tale sentenza? Non parleranno forse
tutti gli uomini in questa maniera? » E
qui si soggiungeranno le parole acconce al dialogismo. LUI. La prosopopea è uua
figura, per la qualeuna persona assente è presentala come se fosse dinanzi a noi; una figura, che attribuisce ad
un essere muto o immateriale un
linguaggio, e una forma, e lo fa operare
c parlare secondo la propria natura: per
esempio: « Se ora questa nostra invittissima città avesse lingua per parlare,
non vi farebbe ella questi rimproveri?
Io, la quale adorna sono dei più belli
trofei, e ricca dei più gloriosi
trionfi, e accresciuta delle più luminose vittorie, sarò ora, o cittadini, dalle sedizioni vostre
lacera unno iv. tu? Quella Roma, cui nè le astuzie della perfida Cartagine, nè le forze della formidabile
Nnmanzia, nè i trovati della dotta
Corinto fiatino potuto rovesciare, soffrirete voi che or venga dai più tristi
omicialloli disfatta e conculcata? » E parimente: « Se ora vivo tornasse quel Lucio Bruto, e
qui dinanzi al cospetto vostro venisse, non vi parlerebbe egli in questa guisa? lo ho i re
discacciali;' voi i tiranni introducete:
io la libertà, la quale non era, ho
recata; voi, che quella avete, non la volete serbare: io con pericolo della
vita ho la patria liberato; voi, polendo esser liberi senza pericolo, ciò non curate? Questa figura pedo più
personificando le cose mule e inanimale», è di una utilità grandissima nelle
parli diverse dell’ amplificazione, e
nell’ eccitare la commiserazione. La significazione, , della anche enfasi, è quella figura, che
lascia più a immaginare di quello che
non esprimano le parole. Essa si tratta per esagerazione, per ambiguità, per
conseguenza, per reticenza, per similitudine. Per esagerazione, allorché si
dice più di quello che la verità non
permette, allo scopo di aumentare la sospizionc:
per esempio: « Costui di tanto
patrimonio in sì corto spazio di tempo non
ha salvato pur un coccio-con cui recarsi a limosinare un po’ di fuoco. »
Si tratta per ambiguità, quando una
parola può riceversi in due o~più significati, ma si riceve in quello che vuol
dargli l’o latore; come se volendo tu parlare di un uomo, che è ilo buscacciando di molle eredità,
dicessi: « Osserva bene tu, che hai cosi buona vista. » I.IV. Quanto però sono da evitarsi le
ambiguità, che fanno oscuro il discorso, altrettanto sono da cercare quelle che
generano significazioni di questa guisa. Noi le troveremo facilmente, se
conosceremo e ben considereremo i
dubbiosi o molteplici significali delle parole. La significazione si fa per conseguenza,
allorché non si nomina che ciò che può
essere conseguente di una cosa a fine di
far nascere l’idea della cosa stessa, come se tu dica al figlio di un
pizzicagnolo: « Statti cheto, o tu, il cui padre solca forbirsi il naso col
gomito. » Si tratta per reticenza, allorché, dopo avere incominciato un
discorso, lo tronchiamo, c da ciò che abbiamo detto, lasciamo bastantemente
conghietturare ciò che manca: per
esempio: « Questi, il quale si bello, si
giovane poco fa in estranea casa io non vo’dire di più. » Si tratta per similitudine,
allorché, raccontalo un fallo analogo, non aggiungiamo altra osservazione, ma
da quello lasciamo intendere ciò che pensiamo: per esempio: « Non voler troppo fidarli, o Saturnino, di questa
moltitudine di popolo. I Gracchi sono caduti, c la loro morte è invendicata. » Questa figura unisce
qualche volta molta piacevolezza a molta dignità; perocchè lascia indovinare
all’ uditore ciò che l’ oratore punto non dice. 11 laconismo è quello che non usa che le parole necessarie ad esprimere
la cosa: per esempio: Prese Lenno in
passando; quindi lasciò un presidio a
Taso; poi atterrò una città in Bitinia;
di là cacciatosi nell’ Ellesponto,
subitamente s’impadronì di Abido. » E similmente: « Testò consolo, prima
tribuno, divenne poi capo della
repubblica. » E ancora: Parte per l’Asia, si dichiara esule e nemico, appresso
si fa comandante, c finalmente consolo. » Il laconismo racchiude in poche parole assai cose; e fa
d’uopo usarlo di sovente, quando o le
cose non hanno bisogno di un lungo discorso, o il tempo non permette
d’interienervisi attorno. LY.
L’ipotiposi è quella figura che presenta un
fatto con tanta verità che si crede di averlo sotto gli occhi. Si ottiene questo effetto, se si
riunisca in un sol quadro ciò che ha
preceduto, seguito, e accompagnalo
l’azione; o, in altri termini, se non si
trascurino nè le circostanze, nè le conseguenze; per esempio: « Appena Gracco vide che il
popolo fluttuava c dava segno di temere
non forse egli medesimo spinto fosse
dall’ autori là del senato a rinunciare
al suo progetto, fece tosto bandire il
parlamento. In questo mezzo costui, non agitando in sua mente che delitto e mali pensieri,
corre giù a volo dal tempio di Giove, e
grondante di sudore, con gli occhi ardenti, coi capelli rabbuffati, con la toga raccolta, seguito da molti altri
congiurali precipito il suo corso. In questo momento il banditore domandava silenzio per Gracco:
arriva costui, e premendo col calcagno uno de’ sedili, ne rompe colla destra
mano un piede, ed ordina agli altri di imitarlo. Nel mentre che Gracco comincia a dire la solila preghiera agli Dei,
questi congiurati correndo si slanciano sopra di lui; da ogni parte concorrono altri volando:
allora uno del popolo grida: Fuggi, o
Tiberio, fuggi: non vedi tu? risguarda,
dico. Ben tosto la incostante
moltitudine presaga subitaneo spavento dassi alla fuga. Costui, spumante la bocca di scellerata
rabbia, e respirante crudeltà dall’ imo petto distende il braccio, e a Gracco, che ancor dubita di
ciò che è, e pur non abbandona il preso
posto, pianta il pugnale in una tempia.
Egli non Smentendo punto neppure con una
parola la solita sua costanza cade in
silenzio. Costui coperto del sangue, da deplorarsi pur sempre, di quest’uom
generoso, volgendo intorno gli occhi, come se compito avesse la più gloriosa aziono, e allegro porgendo la
sacrilega mano ai gratulanti, se ne ritorna al tempio di Giove. » Questa figura in siffatti racconti è
di un gran vantaggio, sia per
amplificare, sia per eccitare la compassione: essa mette l’azione in iscena, e
la pone, per così dire, sotto ai nostri occhi. Abbiamo con molta cura raccolti
tutti gl’insegnamenti atti a render adorna l’elocuzione. Se tu, o Erennio, vi aggiungerai un assiduo
esercizio, potrai nel dire aver gravità,
dignità e soavità, per parlare da vero
oratore qnon presentare un’invenzione nuda c disadorna in linguggio triviale.
Ora noi, per un comune scopo, metteremo
in comune i nostri sforzi; cercheremo
cioè di raggiungere con lo studio e
l'esercizio continuo tutta la perfezione
dell’arte; il che agli altri non è agevole fare, per tre ragioni principalmente: o perchè non
hanno con chi possano di buon grado
esèrcilarsi, o perchè di sè stessi diffidano, o perchè ignorano il metodo da
tenersi. Queste difficoltà sono tutte da noi
lungi, chè e volentieri ci esercitiamo insieme per l’amicizia nostra, cui il parentado originò e
l'uniformità degli studi filosofici rese più salda; e non disperiamo di noi poiché qualche progresso
facemmo e ad un più nobile scopo accesamente aneliamo; talché se non perverremo
nell’oratorio aringo dove è pur nostro
intento, poco ci mancherà per conseguire
nella vita sociale un grado onorevolissimo; e sì conosciamo la via da battere,
perchè in questi libri niun precetto
rcttorico abbiamo intralascialo. Infatti si è mostrato come trovar si possano
le cose proprie a ciascun genere di causa; si è
detto in q ual modo abbiansi a disporre; con quali regole si debbano
pronunziare; con quai mezzi ce ne possiamo ricordare; si è finalmente spiegalo
come acquistarsi possa una perfetta
elocuzione.I quali insegnamenti tutti se porremo in uso, la nostra invenzione
sarà ingegnosa e pronta, la nostra disposizione
distinta e chiara, la nostra pronunciazionc nobile c non priva di venustà, la nostra memoria
fedele e tenace, la nostra elocuzione adorna e piacevole.Ecco quanto nell’arte rettorica si comprende.
Tutte queste condizioni conseguiremo, se agli insegnamenti deli’ arte
aggiungeremo un diligente esercizio. UN E DELLA RETTORICA AD ERENNIO LE OPERE
TUTTE CON LE VERSIONI A FRONTE:
DELLA RETTORICA AD.., Galloni IP DELLA BETTORICA AD ERENNIO CALLOSI
LA RETTORIA unito PRIMO ESrSSSE aess
\UI. M.i ik-N'n.iiiil^ Li, li il lìn Hi:
LA RETTOBULl 'I un uni
i|!iii],| U .r luminili mi nlilili.lcrii iieniiv.ni '.al
':,ii.,. eia, quacIMguéo ,- i .,1 i
imi. Hiilnria e,( re* piM.i. ..'.! al, iu l„li, inijir.i. min I ii'lili.in. in. un, lui,, emi In™ in eiccrcnilii Ican-iìieiiln frinii, ni 1 h ,1 t .[lloiiio.l.i ueneri.II primoèi|uaiuln espnniamu un
faUO.C ne liii,i neni Lii.:,i-MriM j
iic-lm \ / 1 1 |n:r ulIrncre villnrillil
l|,l„l |lilli,T(: Il 1 1 fu r I lei 1 1; il |||>|I[II,I J ig, che ni r,i, n ti, no ai! i-s^-cr
gi-iJirali' li -.--fi-ii.Lo ei-ni-Ti- tii narrazioni i qni'lln, dio il.olla
iillcriieii.' nei m.vz.i ,],:llr r.nih. per inolilo ili |iroia. o iti accusa, n
ili irunsitnuie. « ili ani:iclii.inieiil.,.u ili lr,.lc.ll Icrzo e.,:n tu è
(]ijrllu, (i lic-n.l «li.ncu alla eau.a
ci ri In, mi nel quale imiti™'
niill.i.liriieii.i ccrciucsi |"r |,til,-r jiiii leccai ci ani crii e
Irallic ncllii cause rjuci duo iwnciidi
narratine, clic iililii.nim .Inno ili -'i|ir.i.l>i cnlosu niritóoiio ci In il ih' specie, l'uni die
numerili lg chip, Pulirà Ir i-prsonn.
guniti >pi..ic, cli« i itjiKirda le .ose. ha Ire ciurli, la involo, la
hlocia, la molli.- il ione. Lo limici è , india, clic eoiilicne cose. cu o mi
|i.'si/n è imi l'i.-.i liiila.ma die iiii,,liini-|m [une. nrcadccc. eulm: i r.i'.l, mi-,|i,isIÌ .Ielle
c.jiinic.lie. Onci funere ili narrai
mie. l ini riguarda le perso„,'. il.'u- coni, mere In orarie ,l.'l .Inc. 1,1
rtiiersiL.'. in ni. II. i lai laici
III, .Ielle alia Ii'Iii|ih|. rum.
pcrsonnrum ll'(lin , alos,roasili,,| 1,111 riiliiu,,'.. : n-MIi [Wa
ll. ni s-eepa vcrila-, ciii linci- serrala siili. IìiImii f,.rcro non pelosi: sin crii fida, e m.cis
mini iil.-.TVIirirla.II.' iis rollìi,
ranle aliala.;. -minili i'sl, .il,,.
.inVIalnr i h US. nini qnae de il ili rms Ipraelfr crlcr(*| in Iria lui., alimi. i:n:i - |-i.:i-. | -i
nulli..;. |i -H.l.iHl, a.i.i. t.-ril
i"-. I.:i.|...ir -in in ilil.i cìclieenus Sfiorirà, ipiiil niil'is
..ni.'aiil al nielli. r|l]iil in r.nil nsia i rli',|.i.1iir L II. ni
iii.i.|..; Ini. rleilani al. dr. :
l nu:,: -| . . i 1.1 1:1 coalraior-ia. 1 1 rr-. 0 cannarlo, Aaaaa'in. linncm esse a Civile Ira inni- .',,11
Nielline; i| Il ili ila sii. Ilio
ulain'i p;n. ni l'in a»!;.!!! (i|.nr
l-rii.i-.r.i !:>. ur in dun
parie), enumeralo lupriamcnli. le
arnia. ,1,1.1. i il. .il...;i i.n.,^ I.: ,li;.ro5.aiiu e.-li a;:ee al saintetin
; olir min riìal K lii,i. 1 1. glie
ulllme co»*; a i no nuli i i li.- i lio S||..':IJ ni mi-l,:IIii ; 1:
linai al.: luasaaii la oliiareiia. se
in-a-i.oi'aine i preeelli. clia l'Uro
'ij; Lari'. 1,1 l.i.-lilii: |i,|riiia.lic .pillilo ;i a ilolilicraniiiiii, le iipniirtiniilà il.-'
lucili, allia.lic nau 01 si ["-ssa
a^iiiirri' 11 ili., il l.-iii| 11 a s.l,il.i
Illudo non ora cyaMTiiiali.'.n cllWnf.i..^o. ii C .iini.«irn'ieilij -l-'n; t il Ci l- f -ti . |iff. hi il ,1 r^c
f j i mcrj tenti pctieulj». e pud muore
nell'udliott ilioi[Hlu ili mriNi.iiiiiif c ili nnili/iD ; tj quii cosi Ir^l.p f-'ilc al lis:^ii. I.V-r,m i*iinn' irni'ivi' m i j
iv mimici i'iiii liri ilià ^ >ev;.i iiniim*-ijiii ri», .|iii Rullici- liTii|icslalriii naiim
irliil>:c[i:]l. murila \>i-vìm ;
curimi ii.nim «liTflr|i]r r-'.i-, >i
r.fi.iMTNMjnfHa sii, imi ri- n-i-riiH in n.vi, Mv ,'rihi.lirt- : t n i ;i ( L i r r.iii:,.-,
[Vrknili liniin ili-,;iOiiU.I tli.I
•lilfn, i liliali UT c.liiiiair di lumaca aM.an Inaino Ij navi-, ilHilurm
prr.kiu la n.mC oglil cojn; ( clic, JC la naie vada in aai>u, laulu LA
RETTORICA I :h!jiu o n j I- w 111L.. IS lom imi "Mio it-o, t fin rnnoiiom f rr
fi..ì.ir.,.i LA RKTTORICA DlJtiZ'XI t.
Ci LA RETTORICA iimm gssssssssasses wmm
ri'S".' n «"diS.; Lm di
ÌISÌIfÌɧ sssdfasr'- LA
RETTOHICA ir.rr-l.iri iipmliTC;
illuni iirrlt ucr oliassi- Ila ilia;sn ni. mini tjtlii™ni r iio .(> ni a Ir
[ir in ni miri ulici*c. DcftBSOf prlaiu ni domomuobil illim lotcprsm, si
pnlcrit: ili fi non pnlcril. cniinjgk-t sii
in.nrnilF.nliam, slullilioni , eilol^i'lilioili , vim, giui «Ira Ilì f piincri turni, timi ilc-bcal
abiuri, n.n itlimicnlrr iinuiizii:
liirpili.ilinr i.nr...;i|.]-.ir .1
infamia, prins iloliil op-rram, ili Msos runinrrs .liiiipaliii r..c uicul .Ir ÌMinccn'1' : pi
ulclur loco u uni ni uni, minori bus mali
unii Sin niliil horuin fieri polon),
ulular .-Uruiiu virltfnjiiitie ; iiicot,
muli ino li bui risa o|iud censore), ied
ut iiiiiii.iil.us ailicr:a iuruui "l'in: iiiikirs Juiirc. nvoro. lo
dimostri --e in qtliilr.hc rn.jiln il può, corrompilo» e misleale ; in Don per
uno o più litri villi lui lordo i' .mimo
del suo acculalo ; e cunchlndmt, elio non dH far menilnlh, che quello sic.so uomo, cuc in oiUielro operò tosi male,
abliia. ora commisio quell'idra nvsfjilo. Se I oberarlo gt idri nome puro ed
Intinti, dirà che bho. gna li? ncr conio
dei foni, n»n del nome; ch'rnli per lo
posino srnrc orcullirc lo sue lurpilutiim;
ini clic ora esso acouijlore (ari aperto che colui i reo ili ini.f.ilto. IVr quello spella il
.lilsniore, ili ni prillili Illudo vena
u.mOilrando, se polra, che lo vila dell'
incolpilo è iena macchio; se ciò
ili.'lo prrsnnsiniir: „.-i lcin.ili scuse .erri ad allonlinaro ila liti
il bn.iiiio .l. lk- mitmi .interiori
oll'occiisj, di cui presente meni e si Irolla. Mo se il iliti'nsari: si Isinerii t.irte imbaulalo
dalle lurpi IV, Collallu
cst.quurnacruiiilor id,ip , oc.ll
s'appiglierò iti' Mira tomo ni coslumi
di lui d»i rin.ili ci 3 clic * u" unr-n clic l oiinnc sia alata ilsgcms.-i ad dire perdine, r> che allrc
persimi' unirò .ihttjnn rinvilii tare ni
ili cui f arresalo un clicnle. Il segno
t rjur-llo |ior cui ni Jimtj fari; l'azione. l;-=o r.nni|ir In nei pirli: 11
Ino lili; quo dici, qua Docili
hors «P'iii'iui II» c unsi li cu li il
ii r : -aliw liingum [unii i", poili
che riuso II «UH; pe ittdiitodnian
atcìlìil i-.i m;Tr.inii:i qllml qo l'i lliiinn |ni"ii i[ln[llii=
1.ir|i.'rrl .In i|uulilicl rumoreio proferì' ,[ cul:licu!]l Libuhni ili*
iip.ro. \>tu mi rumor i.mmnenu-r pnilni fisi- vi.lcljhur. areumcnlandu
farti) s li il ero ^olecimus abrogure. !
dillkilliina Irai-lalu ,.-1 concimilo
couicrliir.ilii , ci in icris caussis
-.ilal'i ne, i[iiiJ icri|-::irii 11;, ini'! ictaa dicaul, quid Indiali ssqui in M .[un.] riihiRrnler pcrscripluni iilrr.i-nciici'il':, ii^r.uo. ...vlj rimi
raim-it. Ili" In ennupla
[nfirelilur, niut- re., quuni uli iola, « addurremo rimici» unto racconto conno ai insili nrrrrsani, || ,|u,| dir Emo estero
rir.elnlu ila tulli ; 01I anche,
allculiercroo uria vu ce vera, di cui
CHI abbiano ld arri» il re, ino li sia 11 'lo perielio 11. i inni |irc'>, m Mi.luiti, dell' cui 12. dia paliamo a I Quando ini 1 parli della qnUllon lc-g. ' inlmiimic ili colui eli olitole
allo scrina Ili |i "i domanderò,
inlcniinu? di si.ri.cri' nel minio dio n'inlcrpreu •|iial COKI lo impedì di Krlnre eppunlocusì?
Dopi ciò noi faremo apcrlo qoal s'i il
itro senso, e nielleremo in luce la cagione, par cui io ieri Ilare semi Ippolito c.injo scrisje, e proveremo che
quello senno è ciliari), mutili],
mimale, compililo, delerminiiio, E qui n.iì produrremo esempi di giudilll
pronuuiiali 1 favore dello aerino, aneguacliS
«li aTversarii aiiiiuccMero utll' aulire di quello 0 mm-m a-SSSSSsS
SS assaai ,,,,ir, ; ., ì .,.i,»i.,r
Ss il. -r[ua« [i'|jilii:s
ijlifiTtjoJj siinl, dui: niuilii, n li pa«U iucio Ani» i LA BETTOMCA
nn'tiiii, bi suburra clic no
jc in sbollila iurldiciuli 'm-ìciiIihii li cioni, non mtno rn i: !i'im?:o ilei fi :iJ
itali, chn furono in livore- a in LÌjimn
1VII1 .twi. !>j!l"c-r|inlj
ipmbti fonde lo ! olla tir Dille
comune; corno: : Clii fia più di ed è
impellila di maialila, può fini in
^iiuliji.j pur mozzo di procuraloa ili i|o.'S|.i principio può coslllulriì il incKosiornu i. Stallerà I ioLCrVCEllO
Ùi i di con'emiune, I quali Liuno ir. i ilmini nominili veneri!. I. I:sli rrf hit l .liu.Tn;;
iri:ni;'..iiM':ii:j] :i-.'or:i.ii;:iii il" più mi ni ['tura c |i i -j pnlcsu si
i il I::
in ri Ji.:= li; Li | r. : ;
.1 i 1 rruiiiliiljiiuii;. I n |ini;i.>.iji.iin' iii;.li:Mìii-ii ili ciò l'Nc tnjlLirrm OH'! ri il |iririr. : [lio, riic
iliirmilm , 1 fui Mulinimi, s.i;ij
niij;-,J-.!n
unr.Tin.iildii.ì-lliHEjii.jiirèfiirrl1)11 mcillr n : □ fili . li;
linsioai silos». I.' unni iiiciiln {
[udii. Ji o per aliUcllire ed am.'.-liirc
Li XLV. S.- iciromn n 'in:|ul' pjrli, co l'Olii: li;.i:, r..|:l,i
l'in -nrn.?nninne: ir Noi aUiiamn a itn cu ni parare; Hiiuui-ttMI, Fi iure litui | ral. riinvii inimi i ì:iìjjiì.;.j
riiiiiini ulaelii iijii. ' li rei unii - iin-i-"i;i l'i! ili*
le^liiiKiniiuu dal. Urini ri radili
perniili liurlitialur, cum inlcrirnere. a ino ii|iplir i iini icnhilur, i'1
condurli] ! ll rr_ i il L-
i\irlisii'iiuin , hl-vnrr li, iiMiiii.:i1inrnin p-'.->i-
i|ii-i.!i-.il 1 ininii.i laie..:ln;il.ir:i ei-'l-tililrnii levo torre iti Ha.-i-.,a:r>. [inp; rei.
indo ^'tncl^ll» a'ml i f.illi'iiù 1.
^..Ti.'JrmTiihimo^ I-re i.kli.n nf,
grandi, allora die r.-rri f0 : 10 ,!i spirili
r°rrao!,"m,7 s .ÌX°^",»u deteold»™»!
' ' arai! l'Irte di-eli iinrnirii n'Iln-.i nei delilli li'a-- : .'ro [|nail.i_'-io a pr.nn della
pin gronda inibiti, rlii ^imera.i^li.rj l |,eeo=lui,li:;,i,rif.. c iaM ilrm I..,-. mini ni l.ilin :. , ijiil rj i
Ij..>Ii.k lideainui aliirn's l'I
era-lai inliif, li e allcii Li ' :
"' I' 1 '"- min m.i-ì a, renalo da un ni 'tre "mi p:'i,lai,Hia
a' iremiri. nlLraggiiio, trrilalo.'
mala™ rslionem videi mua, in ilio più rimai ti pei «eie |.r«- sl.ili
.-ji.iirlii E grandissimi I do, l>
sogna allora aslener.i .1 ill'eiiiar I
rccopìlolllìono. In orjni arjomenlaii
oifliiizM T.juatllic ti .u-i.:oiii>L-iiMf.' aiKlic qumo, di udii iMk,™..- atrofia iiiirkM-umal,.. ,|i,aiL»,
'" '» »"r apparai,? CI, paura
,1 la in ala; a la auui.lijia a r 1 , a
l.'raa ^Xi"™"q««l•»S" lqU,11^, "' iz,tr™.",r rm """ 1
"'-'™ l ìi Irti •unii s [mirili.]
in a[.|iic ilisi.Miini. Nani Iidln.lioiins r:i>i fal..ae r'.i'iit,
«niishicnr-s ijiiiii|uc taluni versi esse conflli'ri'uiur. Ili-m inlirma
ralle ni, quae non nceesaariam caussam
aCcrl ciposi I '.i:ui.-]r, ini.iri.iiji e-ie li.i. Li tlii'niio rii. a. pi u
lif min ledi, il lungn iliiv'rll.i ilr-vn
ii-*ar,i; Molla, |:cr.Ni- e rrudcl?, hi..Ila, imluliilr- iii-.in.alii,
|iit.Iii> nijii.ii .li,liii-uiTE ni' ilii iii.tìIii ni' rln il.'inriilii.
A'.Ni lito".li imi li sono, i
i|iiali ncgiiii» e-si'rrl |nt tngjun ili
n-rluna veruni miseria, un Milli- En.E rcg.-erM ibi a, t.;j i
: r 1 1 luminili j -f -
cala il il a ben tur. Itera viliusum csl. quum iJ pio litio - 'lur.
ji=- -ci li.ln iur.es nuli causi
11 , quin Clio In, idi, t/luliu.s ttt
pulprfiM nulli.' hj«h(i,l alrjue
(nftrSm, |>rlccin inlersisè cucili,
Hit, r-ou/.- rmir .on. or li: ni Hji
jitii snu iure lice i.'i:ui[.|n usuri; 1 j'.'^.'iiiil Imi Km, in. iuilnrl. ignu-i i.im -tnij crii,
riilitnii ani i|ii.i!.i M-fi) alfine urlìi iirruliu ilici iiuV llir. imil
lll.illiH III HICIllClll lllilli fi ll lli^rl. tjllili iol| nnm hoc uni hoc
[eduen ; "o^raMiiroìiim mliu Ujgil.
Uriti liliosnm est, quinti iil, i|imi1 in
Inr iliTcìi-inne, lice modo:
Smani Ir. pj-iKidttBI omnej, /Icrrmlusiino l'^norpltyiii; ni.» [iisiTliim oc
omnlolis miii.nii, jìl'j iti.) sol'i ni
rolli iiuiii pira. IH Li ti r1i,..l |„||,.. :
È ari roti mr.uo n.atc uni ilif, ; n, clic sin comuni'; pei rsruiiiiiK Colui jiivri'i por irnrunilia, o tu r inrspcr.cii iti, tv jilt ciuuc..-ir ,1
uoiui ij M |bui(lprsliT.ì"i" I ' liminoti;! ..iiifrrriiiiiiiiir il;0ln r.i.'iorp ; in
tornii», qir: n.'iiliu, Hill ,1 narrai ieri! Ivj.M r nuli,) [ ni- ,: l'ori! ili 1 mirili' .i.liiniriii,. :;ll;i
narr.uinn,'. |,rr rlii- li inserirai
^i ii.inr'l.lin Inv.irjm c |irr|nir,l,> ri n-;1. T'n.'j.r. r :i! il min
riniri'i Hill -, tnrr:i:i f'iT In inni
ri-n r.vi\rr;:'i l'i.ml-n-nrr' I' rm]ine:.> ili]in a ili, Mone : ilmn.lr: eriiinc brevi
Icr ci |ili • in lall.T lini-inni', i!
i[il,is : rtn :id iiiTi ìni r-, ! r ,iioTivÌ
;mj imi lini ,1 eli |i'l>rii
r; indirne ni im't, ri r '. NÉÉ liti «a;
noi .l:|,|.|.'Ìi:-:uiiu i il .,!ri ijiuui.'i. c ria siri l'iri'iiSi, i.ipji, i no. ni . i ii,,,1i
k, : i,ì ri. ,IHikiri,,iil.. nel
m-.-Ji^n.u U-Jn|io clja fi 11 [..ni t.-,
etimi t'i .in Rinfili 'nuli; noi ritonl.T,'
:,.'"\ vSSH LA RETTORICA
unno l'Enzo ,1, ,Jn,iii.,I.T.IL,.|i^ rcip.iLI-..,- ::nì,l.c H.k'iiiNi.
liGcii. Usa uppollolur pruiiciilia rerum mulurum po più opportuno, se ni... ;|i r ,:i..-ii t
'rù l'iubm L ciiln^uc. Forliluilo csl return nuoniruin oppeii imùj 1 : J :hi;ili],! ( li.l,ì.,v.,-.III l
r,iLT prendo siisi grurnli coso, il
disprelr.0 delle miglili, e la lolleroma dello lutici in ragiono della loro
ulllilb. Li le,uporon« 6 nell'ani.™ uno
r.,r,:-l, innJmlMoe, r.jii:irni! lo
passioni. SS2SS a&ssssrass iiim.lr.Tnw. ikm™ r.-liyiw
nc^ili: o.-==.?rvarp .ln lil.rl |.ro patria, i>jrcnl:lnn.
lio-|iiIil>n., nuiim d '™. s.i
iin.-rrn,., r : , •umilila aiiilEkì tinnii
nuoji, dell'irò, ù .. J:, OpII «n
mo. c moniti cosci eomelorumo io «ci
[•;. -i -iti"-..u> : Ji.l.Jf Ji. p. iK'U>'u«n.eln»ic ,j;.-.o .U . >] f. 'il.. i.. r >J f.
r-M Fs lirlÙ 0 1 sono lo sue concilo, le
tuo Rlonr. le toc OOJ.tbrif, ?BEE :
.5ss ced ™:;,r~::i!;.::i:r= ii(ii|i-r..1ioik'ri] lran=fcrro, |ir.
].[; rei |u..J irpo ulqO, n n i:. n,n, rr:|.LT ir-, |,jr' >rpn ri.i-n Ir.. ].c minriiM:,,,!
,l„wiiiim c.-.cr lirici ; S3SÉ
!:*[il£r]]fiir->rni M - l lt:irL'; 1 ;ni;.-ii.,s.i;nli.:]jiifj C ii;,
|„, t SSES&SSS filiti r., «Hit «i-S;»i. « o.ifioj tvqlrMm
M MMoiMti iwnpoattu o ioMMm;aM
alcuni EEÌéllHEE luco piullo pus
dlonnos. iilllÉ sssbsmksss
uW.ri-ww:. in. fine del di«w..7^^™^'*». 'e™w nò eh. e, i.gisiio ni. (.mi r,„] ( i s rj r
tl..m-(iir. .ci ..fnruir. r incidi.,,*;
il, in in lo™ ri r,,dir, e ..ll.r.l»
iveislmo datimi a s ii «u n un ii-m ili noltim, cui pr> rumili' il
sii llcriiiui ; ili iinli: facili; e' il
.le ilici siniik'? nel!' 'pillilo 'ineiiiiHnca ccl 1,1 iaculi'; pi'M'Iit le iiiimjgirv, siccome
le Ii-IIitc, miri riirruJiitic usn, si
rjricolloon; ini i Ir.nglli, lincine
lor.iiolclli'. dclilinnn semine i-immuni,
li aodocehS li jcunta quBTlUll do' luoglii non ot Piccia cidere in l'irurc. Mirri [imi! fili!
ceni rjuirilu Ini)"!] icnja
ciiiilrc.i'vnrilo : p.'r esempli], ss nel
.|niiifri Iiiiim li nillni fiiiiim ima mano d'orn, e. Dn locìi s=Ii> «limi'" csl: mine ai]
inchinimi riliormm nausearmi'. Oumiiom cto.0 veruni binili) m.J^inc^ n|"'flcl, er lii,
i.nliis linb-i silllllililillili's i lince ijcl.cmus, ilu [.lice-
siiiiiìiliiJini-s e; se ilclicin. iinas rerum, alleai i diramili. 11.-;iiiti
i-irnililnililic-. i'i|iiir.iioii1ur r
lode-li por rapprese ni are le cose, e clip per rifliiaiiiarrijlla in e
il mi i,i ie parole si'r K lior ilclil.cinin
.kilt sinii(lijwc roiin -filili; , '-i ilclil'niui ml'incni il 1 II
ss SII Sigili
Di^.ii:o"J !;. Ci l inni'
m. GHItili leiioiinceoinindOBUq LA
RETTORICA Èsili :•==£££= sssssls =§Ii
.la alimi serrano come ili lullmor il-, «Miri.» ,.ir>,„.'Ua gnisni situi clic una
lalimoniu», è i.imni iv. a luce
ornili! inizigli eiinonei mi.toiefli'i.iui
omna. inori! [maiioic] scribenoi, redi ali In sin vcrcciui-, no cui salii sii ni e muraria in
raiumcni prnlmml'iu. 'l'i'lil ab en
[-une. interini ii. qui et iuioiilurcs
Julius arlilicii liirinnl, i l «instilo iaiu
siili!, omnibus probali silnl.ljnoiìsi. illniulii aititi» i ii. ìlio,n:,i „li - ili li.. .°.i,.-l.
esse iri.i,;nil.,ii. IL Olire ili
cita. l'a'uUHU iltsa degli «illclil noi)
fina din ili un grill valore I La i|iialu ila min uiiiu;i,ire apurmiiinne al!,, ro-o, ,en/
Google V. bitumi; itili.r. cui quiini
lituo, j : l- 1 iilicnn
llll H III. .:„: r-p-.-rir« non pOIUCrK. Alla i Sd|.i , ('. ,[[,.,,
P„r,ii lliai-n, Allibir, ree :.b.
mulinili pulì..-,; un , uno 1L1 |»>
-alia lubcLil ; omnia, quia orano' Imbuerinl, n!.im ImL-'ic >c tk.ìm'
ilillUìcl. Ergo Inutile eil ci 1 jitur
nciiic- in lene inciil/rct Cì'ii.i.iik'in, si :L uro prozio, l'ali™ un si:™, [iiipcrcii'ixlii se
t u.li siiacquisii re il nitrito ili
lutti ; nu iìi .-ii> iivri disponuil, In
ponile patii .!i l l'in 1. ti l'iiT.-iliT.ì. pnrcliòa quelle, ilari coolciilo ; ni suri da meravigliarsene,
quintali O.oTunuun .1 redini» esempi lohl da Caloi -, .Li . :vl ilnjii nnn Cil, 1 Ijn .li: lllml.
ijlii'i! .InNiini I, ni jnl ililni ri-
1 1 1 jniìsil. :ml i 1 1 j I : i ilKli :
llinr . MiTiliniinnnliiinis iipsWIaliir re. kciiliv :j i- ilfiiwi ulin infili lira oralii'iii-
riripilur. line, moil.ir Kl ini mini
pTodivas. H cstuiinul quoil appclliilur mcnilirniii; ili'imli' lini: fu ip'.ilur
ri-nirlrl ab illcro: Kl amici™
laf.ifli.i'. Ki iliinbu- mcni-i rripublicac consululsli, nee ; tersi iiilemllli dliUnguunU qui (pel non
mulinili q II Oli fi miglili opere
ca .Insinuo. bM poclo: Qu :| .||-.
lrCr|i;eiHili:i. lIT.TJI «'filli Subii
ssa con frasi conciso e lime unilc.Hc csia pucc ircccliio pur la sui ropiililà e per la sua
hrm nifi, nd tempo mC'le-iiiio |i ;
ulfrr.n ilei finIo prova con editarla clli clic r oratiirc In bini ili
[iroiBi-r ; c dj una virili riLfiitisciiilr, fu
ippire min velili clir è iluMiiri. si cti-ella non ossi t iiifiiì.-.r. . o lo si iwsìl ni:il:n
ililSri! Inppilo, cosi Ila liiroe.no
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brinile"; mimi mia nr.viasiiior-L-.clic si rlimrni mei:] bro; likii-n clic rm.i.lo membro sii legalo
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olla Repubblica provi ecics'.i, ni apli amici piovasi!, ni ai nemici rfsi.K-sli. i Si ridami
articolo, 0 inciso la divini ione, clic si fa di ciascuna parola por piusc, Lenendo sospeso la fraso sino air
ultimo : per esempio: i: Culi' impelo,
cui la race , coll'a^irlI, li.,.. Ili.-.-. Il, li -li ai/.erssrii. l f.
parimene: r. Tu cull'iiKiilia , Hill'
tngiii ~'.ijiii. coli' autorità, colla
peritola hai lolto vii i nemici, i Tri li vecmcnio ili qiresla fipurn, fi i[uclla .Iella
prcci'tlenle ci In ipifhla .liv.arin.
f.'io .|jel]j P.i pa's- piti Unii e |iù
più rapida e più proli" :o
il pe no uà colpi spessi cale nazioni]
di paiole in il Irarrcmo
Brandissimo limila vL-iinn ri 1
c:i..i, (j.inl iNtiii.j si (.vallile I .:
eli potrà il caso? • nella conclusione; per esempio: : Se la fortuna puil mutlissiuw su di (| nel
11, clic LIU1I0 IV. iuj[iu.ili: IJiiiil
veiilam, igui sin], nuaro \i«HMilok',su as,L'HiiiHlnlfÌNalL:a miwii'ra n-y.i multa ditoni. XXII. Vi ha a Uro |H rari Olii Mio, in cui
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uni ri in ni volili alala, liuiluinmn.lo
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prona atialiinte. .Nim i-iiiir salini «sci, dicci di E parimcnlc ; i Dopo clic costoro rimasero
linciloh. u ramimi!) viali; pcrcioecliè cani,,
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clic jier lo pili vii dil'lro ai buoni, o por meglio dire li perseguili Per
questa Agora 1' animo del]' militi..' rimane ai^ll. >, principio 11 locatolo migliore e più
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ed, '|ii:iiii curimi, 'le |'ii!ii|i difiiii'H, ani Dir |Ue ani imam i|iioi!-pic cerio
conclmlilur Karl lag incni silslnlil,
i^ii-i. ini in il. I laris adiumcnto full; niliil Cormllnii cimlila calliilUni
jirjesiilii irli".- nLliLI [- r.-j.i il ani- nicriun ri iernionis sociclos
opilulaia ci: irem Koirn.f -.li _r 1 1 - 1
ani umilio, ilillo-e-cil ani \ iUj^:,i1i- iTlinimiliit-, lue. i Ducila tipnra a mila, se a na«irri
iiil-.'reisc ili lasciar iulaiidare una
cosa. 0 che nan È espodicalo ili mainare par mintili], a alle e- lunga a dire,
o elio è Ignobili), o die non si può prorare , o die e fonile 3 caidnlire ; ili maniera clic
sia meglio per noi 1' nver follo nascere copi' ri a meo Le un sojp'.'llo, clic l'jfar pTcsn a sviluppar
cesa clic ve. uir ri [insilino
cannila!,'. La ili. gin ai hi ne li: luogo, allorquando o l'una o l'olirà delle
uruposinnfi, flie -i e-poiia/irie , mi lineile niisamn ili e.ii f i concinnile r.o-i un icrlio .-:i.-. :ala.
pi-r .;.citipi.i; que rein cerio verbo
cucinili viilcruus. Coiiimn-lin esl,
ijuum inlf [posinone, varili ci super orli ani lindo: 1-ormac liisnilus aul
morbo ikHorr-n-I nnne Cariatine , di,
lece Cornila , rovescili r'rescllc.
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ililare; nien'C ai Corinzi In di presidio la scallrila pnlilica ; nienle.iì Kregellani recò
carnaggio la «i LA RETTOIIC.l raralim
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delirimi? [k.iniliimini, i|uns lialmcrilh dcrerrsorr?; SI ni] in torum udii* ai, le trulli- |irr.|nniiU'; il rimla
1-1ÌI115 omnium tonai .Ir «le. Timi
vouis vcnicE in niciileni. ul vere
iJk-artl, ri t liliali li ;i i.slm «iic i t maii.i inilins ill'j. ojuncs arile nculu» vulriis Iruciiljìos «,
iriiniieoj cornai vralrii suflriipii; in nmulisiim ini Inediti [ir tu: ni ni. [lem ; .Nani ijukl Inil.
indiaci, i|Uare in .-.! ili ijuilti, rhc
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dimiiiri rifili urtili [r hollt-i-ìtndilli Imo [ter voi ; c .nn,iil«r;le i[nale
tiini|, tristi indi irrlib.ro inni
Allora ti tetri in mcnlò, sa ero
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ninnalo |.rr lill.ì li lairiHle Irimdrir.' .olii, ali o, 'Ni mslri, a rl.c rn'voiiri ?iilTrn.qi
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Gtri.i.i, clic ''ir dubiln ili ciò i lir
i, e pur non nlibunkiu il preso posto , pianla il i ìiLlTimia Ali
MIKKMU. DELLA aoi, INVENZIONE RETTORICA TRADOTTI DALL’ AD.
TOMMASINI NAPOLI Presso MORELLI Editore Strida S. Sebastiano
n. SI. Asserisce Tullio ( De Orai. , sul line) che nei tempi anteriori a lui
nessun buono oratore si era trovato per islagione lunghissima, e solo di
tollerabili appena uno per ugni gran periodo di tempo. Eppure si nella
Grecia e si in Roma per insino dalla fondazione di quello repubbliche le
concioni e il diritto parlamentare a lutti concesso davano agio e
opportunità agl'ingegni di mettere in azione quanto aveano dalla natura e dallo
studio, e di salire con l'esercizio e la pratica all'eccellenza nell'arte del
dire. 1 fatti stupendi e vnrii di cui essi erano attori, le congiunture
di malagevole scioglimento nate dagli attriti della politica, dalle
tentazioni dell'orgoglio, dai pericoli delle guerre continue, domandavano dalla
parola pubblica i provvedimenti clic ai nostri tempi son la più parte il
còmpito esclusivo della misteriosa burocrazia. Gli uomini che pei grandi
talenti politici aveano primaria autorità di parere, nelle concioni volevano
necessariamente essere oratori. Era questo un dovere della loro eccellenza, c
d’altra parte un bisogno dello Stato. Gli effetti anzi dimostrano che
essi sapevano in qualche modo ottenere i fini oralorii, e che erano
stiflìcienti alle circostanze, e a quel grado d'inlciligcnza c di civiltà in
cui s'attrovavano gli uditori. Laonde l’osservazione che fa Tullio non viene
altro a dire, se non che la natura andò sempre molto ristretta in formare
ingegni di tanta potenza, che fossero capaci di mettere nel più grande
rilievo i dettami o i suggerimenti di lei, c scolpirli, dirò cosi, nella
straordinarietà degli effetti prodotti dalla loro parola, tanto che i venuti
dappoi avessero modo di convertire quei dettami e quei suggerimenti della
natura in altrettante regole di effetto indubitato. In una parola, non
vuol dir Tullio se non che furono rarissimi gli oratori clic sapessero
mostrare nei loro ragionari una cosi magistrale disposizione di pensieri e di
parole da servire di sicura guida a chi avesse poi voluto raggiungere il vero
scopo dell'oratoria. Non fu dunque causa di tanta scarsezza di veri oratori là
mancanza di precetti elementari, poiché questi si sono compilali a poco a poco,
riducendo a norma e canone i modi di certo effetto seguili dai migliori,
i quali modi separali in ispecie, formarono quel corpo d'insegnamenti che
costituisce l'arte di fare un'orazione. Anche dell'oratoria avvenne ciò
che di tulle le altre arti : le regole furono posteriori ; si son nobili
gli effetti, e si ridusse a precotto la causa che li produsse: la prima maestra
fu sempre la natura, e i mezzi con che essa porse i suoi insegnamenti
furono gl’ingegni modelli ed esemplari ch'cssa ha crealo di tempo in
tempo. Giova qui a maggiore chiarezza c conferma di ciò che ò detlo allegare
quel luogo di Quintiliano che si Irovn nel lib. V. cap. 10, verso il
line: « Non è già che dall’essersi date le regole ne sia venuto che si
trovassero gli argomenti; ma si usò anzi ogni maniera di argomenti prima
che se ne desser le regole : dipoi gli scrittori ne fecero le
osservazioni, ic misero insieme, e le pubblicarono. Una prora di ciò che
io dico si è, che gii esempii che recano son ludi presi dagli oratori
antichi: essi non ne adducono veruno di nuovo, e che non fosse adoperalo
prima di loro. Laonde gli autori dell'arle sono stati gli oratori.
Dubbimnu però saper grado altresì a quelli che ci hanno diminuita la fatica.
Perocché ciò che i primi, mercè il loro ingegno, inventarono a poco a
poco, noi non l'abbiamo più a ricercare, essendoci oggimai conosciuto. Questo
però non basta ancora, come non basta per esser atleta l'aver apparala la
ginnastica, se il corpo non sari aiutalo daH'cscrcizio, dalla continenza,
da un buon nutrimento, e soprattutto dalla natura ; siccome dall’altro
canto neppur questi vantaggi gioveranno gran fatto senza l’aiuto
dell'arto, n Non si vuol perciò credere clic i soli precetti abbiano la
forza di condurre alla debita perfezione un oratore. Ogni arte ha i suoi
priucipii elementari, le sue regole da dover seguire, chi vuole in essa
acquistar attitudine a .maneggiarla; ma non lutti quelli che ad essa si
applicano vi acquistan lo stesso grado di desterilii. Le regole in un’arto sono
come altrettante fila gettate qua e là nelle diverse sue parli ; ma gl'ingegni
comuni non arrivano a impadronirsi di tulio il complesso c la collezione di
queste fila : so l’arte è di specie un po’rilevala bisognano ingegni superiori
ai comuni per venire a quell'inlicro possesso. La ragione adunque perchè, a
dello di Tullio, furono rari i veri oratori anche dopo la collezione dei
precetti, si è perchè nel trattarli, nell'applicarli, v'ha di bisogno una
capacità riservata unicamente all'ingegno umano, il quale dee saper discernere
non solo la forza enlrinseca di ciascun precetto, ma il modo e la varietà
con che ne dee far uso. perchè le circostanze diverse domandano una diversa
applicazione del precetto istesso ; e l'effetio non dipende dalla materiale
collocazione di una regola, ma dalia opportunità di tale collocazione: anzi
farebbe danno al suo ragionare chi non facesse apparire che la propria
servilità alle regole, mentre l'arte ci dee stare nascosta e sfuggire,
per cosi esprimere, fin anche all’indagine dell'uditore. Senza dubbio
l’arte è un aiuto, ma l’arte sola non farà mai un oratore. Ci bisogna
un’nttiludino naturale, una visiva acuta per vedere le vie che menano al vero
effetto, una ferliliià di espedienti per sopperire ai casi in cui l’arte
è monca o inetta, una, sto per dire, inesauribile sorgente di concetti e
d’idee da adoperare all'uopo, una profonda conoscenza dell’indole di ogni
circostanza per commisurarvi il ragionamento e rendervelo adatto, e soprattutto
una vasta cognizione del cuore umano, di tutti i suoi penetrali e
latibuli, di tutte le fonti delle sue affezioni, e di quegli intrighi ed
inganni onde il cuore sfugge sovente al contatto di chi lo tocca e lo lenta.
Certo una voce così vittoriosa che pieghi a sè la renitenza delle opinioni
contrarie e lo assimili alla propria; che tragga irresistibilmente altri
alla convinzione di avere stortamente pensato; che svegli idee nuove e troppo
più salutari di quelle che s’erano concepite in generale; clic conduca ad
assolvere o a condannare a dispetto delle presunzioni contrarie; che
svegli l’ainmirazione per un individuo stimato fino allora abbietto, o la
compassione per chi ha il dosso curvo dal gran fascio delle sue
scelleraggini; che induca un popolo intiero a intraprendere una guerra che
domanda lo sue sostanze e la sua vita; che faccia alle parti aspiranti a
una indulgenza o a un privilegio applaudire la parola che toglie loro
ogni speranza, ed opera anzi la loro sconfitta, cosi leggo in Plutarco
esser avvenuto, per l'orazione di Tullio, ai tigli dei proscritli; che insomma
abbia in suo potere il maraviglioso secreto di dominare gli animi , come la
legge domina sullo masse . come il signore padroneggia sullo schiavo; questa
voce 6 come un miracolo che non si può sentire se non sommamente di raro. Che
se tanto pochi, come accenna Tullio, furono gli oratori nei tempi in cui
si può dire che l'interpretazione delle leggi c le misuro di governo
risiedevano nella parola degli oratori, e ch’essi erano la molla più
ordinaria del congegno politico, non è maraviglia che neppure ai tempi
nostri non v’abbia oratori, quando l'uflìcio della parola è rivolto a ben
altri usi. Infatti quell'oratoria che è rimasta in retaggio ai causidici
odierni è inceppata da'molli rilegni impostile dalla nalura e dalla
costituzione dei governi assoluti (1), per cui n’è messa mai sempre in
cesso la parte amplissima che riguarda il sindacato degli stessi atti
governativi e le immense complicazioni della politica; parte clic negli
stati liberi, come erano le repubbliche antiche colle loro concioni ed
assemblee, offeriva infiniti temi all'arte oratoria, poiché il negozio
pubblico era per ciascuno come un negozio di casa, e per ogni capacità
una continua occasiono d'incremento e di maggiore sviluppo. Di più Ut
molliplicilà delle leggi, per cui ogni azione ha, si può dire, un precetto che
la previene, e una sentenza anticipatamente pronunziata, non permettono
all’oratore di condurre con la potenza del proprio ingegno nè uditori nò
giudici a cavar dal proprio cuore quelle miserevoli transazioni, quelle
indulgenze eccezionali che l'umanità le tante volle facca sostituire alla
severità dello leggi : e per verità poleano le leggi meno parlicolarizzale essere L'
Autore di questa Prefazione scrive a Venezia, sodo il regime Austriaco.
meno inflessibili. S'arrogc il manco della pubblicità, salvo in argomenti
criminali presso alcuni Stati, la quale è il più potente incentivo allo studio
e alla diligenza del dicitore che sa d'avere in ogni ascoltante un
giudice che non sentenzia sulla causa, ma sulle sue stesse parole; e in One un
esercizio di professione clic aspira a lucro, non ad clogii, non a discorsi
ricisi e percntorii, ma a stancheggi c lungherie per tranghiollire più a
dilungo le propine e le strenne dei clienti ; son tutte cose che
s'oppongono allo sviluppo, agl'incrementi, alla perfezione deU'ufflcio
oratorio. Ci sono, è vero, dei governi che hanno assemblee parlamentari
: ma gli oratori che più vi splendono son uomini di circostanza, non
addetti esclusivamente all'oratoria, lalorn obbligati dal Umore o dalla
adulazione a falseggiare per insino i proprii convincimenti, e andare alle
seconde del potere o geloso di piaccnleria o troppo sensibile nel sentirsi
urlare ; talora scuorati dalla certezza che le loro parole non sono tenute se
non per un assaggio di prevenzioni individuali, e non come seniori e parli
compendiose della opinione pubblica c dei reclami mossi dai bisogni comuni.
Insomma nello stato presente delle società, nel moto meccanico e
puramente macchinale delle aziende govemaUve, nella passività delle forti
passioni che non hanno nessun campo in che poter agire, gii oratori, nun dirò i
sommi, ma neppure i mediocri non sono generalmente possibili. Non parlo
dell'oratoria sacra, perchè essa ha delle specialità, che non si vogliono
confondere colle forme delle trattazioni civili, benché sieno le stesso
fonU degli argomenti e le partizioni generali in che vuol esser diviso un
discorso; quantunque dai Padri in fuori, se si eccettuano pochi ingegni
brillanti della Francia nell'andato secolo, non ha troppo di che lodarsi questa
specie di oratoria nella nostra Italia. Dico bensì, che qualunque ne sia la
causa, che già facilmente si trova giustificabile, se il detto di Tullio era
una verità rispetto ai suoi tempi c a quelli che lo precessero, non lo è
meno rispetto ai tempi moderni. Ma per tornare agli antichi, molli, fino
dalle età dei Greci, trovando troppo arduo il poter venire perfetti oratori, si
gettavano nella via più facile, lasciando l'opera del sentimento e della
immaginazione per abbracciar una speculativa più materiale, e si fecero a
compilare ed apprendere altrui i precetti c le regole, sfiorate dalle orazioni
dei migliori. Questi precetti, per quanto avviso, non furono sin da principio
che masse informi di regole, senza una certa distinzione di quelle che
spettano all’oratoria da quelle che si riferiscono alla trattazione degli
argomenti filosofici. E tuttoché Aristotele, con quella sovrana maestria
con che svolse tanta parte dello scibile, sia stato forse il primo che divise e
fissò con una cotale ragionevolezza le leggi dell'oratoria, pure non potè
fare che cavasse di ogni pastoia quel suu sistema, e clic i posteri non
mettessero in questione le varie specie dei precetti spettanti
quest'arte, volendo ciascuno, come addiviene in lutto, che la propria maniera
di vedere le cose dovesse divenire il modello al vedere di ogni altro.
Tullio per non lasciare l’Italia sprovvista di questo genere di
disciplina, mentre la Grecia ne aveva già abbondanza, e perchè l'azione
continua del Foro bisognava di questi sussidii artiflziali, c forse ancora
perchè vedesse non ben chiarita dai più antichi di lui si fatta trattazione,
pigliò a farne pur esso questo opuscolo ; e certo con più ragione di ogni altro
si mise a riprendere certe distinzioni fatte dagli antichi, come si pare
dal primo libro, cap. 6, dove scardassa bene Ennagoni circa il suo
dividere la materia oratoria, dopo di aver già disapprovato la estensione
quasi infinita clic attribuisce Gorgia Lconlino a questa materia. Nella
presente operetta non tanto intende Tullio di svolgere le norme, dietro cui
dee una orazione esser condotta, e di metter quasi sottocchio l'ossatura
e il tessuto intrinseco del lavoro, quanto di facilitare la invenzione
degli argomenti necessarii ad ogni genere di causa. Ei tocca di passo la
prima bozza della tela , o macchia , come dicono i pittori , ma il più
che si occupa è dello impasto de’ colori per andar su col pennello allo
sgrossato, c di rilevarne le tinte, e il vaneggiar della pannalura,
finché si venga a compimento la dipintura intiera. Avvegnaché però ei si
frammetta specialmente delle orazioni spettanti al Foro, non lascia pur
di essere a un tratto maestro d‘ invenzione per ogni genere di diceria
privata ; poiché siccome i fini generali di ogni ragionamento deono essere,
persuadere , commuovere, dilettare, cosi tutti i ragionamenti cho si
riferiscono alfintellello perchè pieghi a convinzione, al cuore perchè metta in
attività i suoi affetti, al sentimento perchè riceva sensazioni dilettevoli c
soavizzate, polcano fornirsi, mediante le regole di questa invenzione oratoria,
di argomenti che avessero identità o che tenessero analogia con quelli
che son qui porli specialmente a materia delle orazioni forensi. Non si
vuol però lasciar ili ammonire clic questi due libri non son un trattalo
formate clic nulla ci lasci a desiderare, mentre anzi è meno perfetta e
lucubrala che altre opere di Tnl iogle lio in quello genere.
Egli non fece clic un Commentario nella sua prima gioventù , come usava
fare di alcune sue orazioni e brani di esse, cioè dire un compendio, in cui
scrivacchiava le cose che prime gli venivano in mente, senza porvi troppa
pulitura , o per usufrultare qualche ora di scioperio, o per avere in serbo ciò
che a tempo più opportuno avrebbe disteso e ordinalo pensatamente c con
accuratezza. In prova piace recar qui le testimonianze di Quintiliano, il quale
per essere un devoto passionalo di Tullio non può dar sospetto di esagerare a
carico di esso. Dice questo autore nel lib. ni, cap. S, delle Istituzioni : 6
Cicerone pretende che la lesi non s’appartenga punto all'oratore, e assegna ai
filosofi questa specie di questione. Ma egli mi ha risparmiato il rossore
di confutarlo, disapprovando egli stesso i libri ove parla cosi (ciò sono
questi due della Invenzione retorica ), e raccomandandoci nell'Oratore e
nella Topica che allontaniamo la disputa dalle particola riti delle
persone c dei tempi ». E nei cap. 6: « M. Tullio non ebbe difficoltà di
condannare egli stesso alcuni suoi libri già pubblicati, come il suo
Catulo, il suo Lucullo, e questi stessi libri Retorici... con iscriverne altri
dappoi. Infatti sarebbe superfluo affaticarsi tanto negli sludii, se non fosse
permesso d'inventar cose migliori delle inventate prima ». Ma ciò che dà
a divedere più lucidamente la vera qualità di questa operetta è ciò che
aggiunge lo stesso autore nel citato cap. fi. « Non ine ignoto che da
Cicerone nel primo libro della sua Itetorica s’interpreta in altra
maniera il punto negoziale, trovandovisi scritto cosi : La specie negoziale ò
quella che concerne le questioni di diritto che si decidono secondo l'usanza
civile e l'equità : al qual impiego presso di noi, come si stima, presiedono i
giureconsulti. Ma qual giudicio abbia fatto egli stesso di questo libro l’ho
detto di sopra. Perciocché sono come una specie di Commcnlurii, in cui
registrato avea tutto ciò che in sua giovinezza venitegli appreso nelle scuole
; e però se vi ha qualche errore, hassi ad imputare al maestro ; o il movesse a
così scrivere il vedere che Erntagora a questo proposito citò in primo
luogo osempii tratti dalle questioni di diritto ; o il vedere che i Greci
chiamano grammatici gl'interpreti della legge. Ma nondimeno Cicerone a
questi sostituì i bellissimi libri dell'Oratore ; e però non può essere
accusato di avere dati falsi precetti ». Nelle edizioni questa operetta
è comunemente intitolata De Arie Rhetoriea, eccello alcuna che ha queste sole
parole, De Invenzione, tenute anche dalla edizione di Venezia. Nò mancò
da chi fosse appellala Ars velus. 11 titolo da noi qui apposto è il più vero,
perchò ò indubitato che qui son porli precetti retorici, ma che in ispeciattà
son tocchi quelli che risguardano la Invenzione, cioè dire il trovar il vero
aspetto sotto cui vuoisi riguardare ogni causa, perchè non si pigli
errore nel dare o negar importanza ai punti che ne sono o non ne sono i
precipui ; il trovare gli argomenti opportuni dalle fonti che li somministrano
; l’cscogilare i varii arliflzii che si vogliono porre in opera perchè resti
più energicamente convalidata la ragione dell’oratore, o sia tratto il torlo
islesso ad avere apparenza di ragiono, c di verità : il trarre dalle
circostanze del fallo che si agita la forza necessaria per dipingerne con
adatti colori o l'atrocità, se si accusa, o le mitigazioni clic lo rendano
giustificabile, se mai se ne piglia la difesa; infine ('amplificare i
motivi clic possano trarre gli ascoltanti c i giudici a severa sentenza o
a indulgente compassione. Conviene però osservare che in questi due libri non c
fatto mai molto nè della collocazione delle parti costituenti l’intiera aringa,
nè dell'ordine che debbono tenere le unc rispetto nllu altre, nè della
pronunzia, nè di altre cose che bisognano a una trattazione completa : il
che lascia supporre che questi due libri non sieno propriamente il quanto
scrisse Tullio sulla Invenzione retorica, ma solo una parte di
trattazione più estesa. Queste osservazioni stesse indussero i dotti a
sospettare che i libri di quest'opera potessero esser quattro, se si
considcran dalle materie trattate quelle altre che reslerieno da
trattare. Fra gli altri difende questo asserto il Yossio (de Nat. lthel.
cap. 13). Nè punto è da dire che sia questa una congettura avventata, poiché
Tullio stesso le somministra in favore un argomento di gran forza. Egli
infatti chiude il libro 11 con queste parole: Quare, quoniam et una pars ad
exilnm hunc ab superiore libro perducla est, et liic liber non panini
conlinel litterarum, qua e restarli in reliquie dicemus. E siccome nelle
altre opere appartenenti alla oratoria Tullio non traila exprofesso della
Invenzione, cosi ciò ch'egli accenna restar da dire sopra la stessa materia, si
dee necessariamente credere che esistesse in altri libri susseguenti a questi,
ma che il tempo ha lasciali perire. Per antico quasi tutti i dotti
clic trattarono di queste opere attribuirono costantemente a Tullio i
libri dal loro autore dedicati ad Erennio, i quali trattano la stessa materia.
(Hu oggi per ragioni solidissime si disdice questo possesso a Tullio. Gli
antichi furono senza dubbio traili in errore dal vedere una grande
uniformità nei precetti e negli esempii citali dall'uno e dall'altro
autore, c ncITnccordarsi elio fanno presso che in ogni cosa, ila non fu
osservato che si Comincio come Cicerone si tennero strettamente ad Erinagom, e
che la comunanza dcU’anlico maestro fece dir all uno ciò che disse anche
l’altro. Sarebbe assurdo attribuire a Tullio un’altra opera dello stesso
genere, in cui non avesse fatto atiro clic ripetere quello che avea già dello
prima. Se poi si riguarda quest' opera dal lato della utilità ch’essa
può prestare all’oratoria dei nostri tempi, convien confessare che quanto
essa può recarci buon servigio nell’insieme e nella generaldà delle
regole, altrettanto ò poco acconcia a certi casi clic pigliano la loro
qualità dai costumi c dalle leggi dei nostri secoli 11 Crisliane-imo, che con
la sua spiritualità, ignota agli antichi, si è l’alto guida invariabile a lutti
i sentimenti deU'uomo, ha lasciato trapelare le sue ispirazioni in tutte le
leggi, ha impresso nei rapporti sociali principii inconcussi di sapienza
o di verità, lui spiegalo agli uomini il segreto dei loro destini, c lo
scopo verace della lor vita, la quale i gentili credevano gcitala dal caso nel
mondo delle esistenze perchè passasse come quegli allori leatrici che si
lascian vedere al pubblico traversare la scena per non più comparire, o perchè
risorgesse a una immortalità fantastica, suggerita dalla non dubbia
convenienza ili un'ultra vita. Ha impresso il suo marchio divino nella
religione, ncll’oiiorc, nella pietà, in tulle insomma le virtù clic erano
sanzionate dalla convenzione e dalla esperienza dei secoli. Di che è
venuto un cssenzial mutamento in quel giure comune clic istituisce le
relazioni più necessarie fra nazione c nazione, come in quei giure
privato che lega fra loro i rapporti che passano tra individuo c individuo. È
dunque incompatibile con le idee dei tempi nostri lo ascrivere Tullio (lib li,
cap. 22) la vendetta, come ascrive la religione c la pietà, fra i diritti
naturali, mentre la giurisprudenza presente come per amore del Crisi ancsimo
trova meglio dominante nella pietà c nella religione il diritto divino,
che imprime alle azioni una ben diversa gravità da quella clic imprimeva
loro questo diritto medesimo consideralo per naturale, attesoché rispetto
alla religione c alla pietà avevano i gentili idee assai ristrette; troia
essa giurisprudenza anche dominante il diritto fraterno che riprova la
vendetta come contraria a quei precetto della natura, che comanda il fare
o il non fare ciò che a noi stessi vorremmo fatto o non fatto, perchè t’individuo
non è un essere solitario o spiccato dalla società, ma un fratello, un
membro, una parte della grande famiglia umana. Nò questo è da dire di ciò solo,
ma di quanto altro ha ricevuto dal Cristianesimo una impronta diversa da
quella che gli aveva stampata l'antichità. È perciò quest' opera uno di
que’ monumenti antichi, a cui s’inchinano per riverenza le età clic gli passano
innanzi, e da cui ricopiano le singole parti come bellezze confacenti
ancora al loro gusto, ma il cui insieme non risponderebbe appunto al
genio e al costume che le domina. Inoltre l'antico diritto civile mollo diverso
dal presente, perchè diversa la costituzione politica degli Stati: la forma del
governo libero troppo lontana dal governo assoluto dei nostri secoli ; le
formalità dei tribunali c ilei giudici clic hanno ricevuto dal tempo
essenziali mutazioni, son cose che non rendono in lutto acconcia alle
nostre cause questa Ciceroniana trattazione, quantunque, siccome è dello di qui
a dietro, non lasci di presentar un certo utile nelle parli del suo insieme e
nella generatila dei precedi che vi si trovano abbondantemente radunali.
Anche qucslo, come gli altri testi Lalini, andò soggetto a varietà nella
lezione : il clic non dee far maraviglia mentre al tempo di Tullio stesso
e viverne lui avvenivano nc' suoi scribi, non altrimenti clic in quelli
degli altri, delle non piccole mutaz oni: di che si lagna Tullio nel terzo
delle lettere in una diretta a Quinto suo fratello, che è di quel libro la
5." Pietro Vittori esaminò attentamente i codici Fiorentini , c
riuscì a dar questa operetta più emendata che non lo fu da due secoli
addietro: talché il Grevio parlando ili lui , nella Prof. alle Epistole
di Tullio, ilice che Cicerone dee più al solo Vittori clic a tulli gli
altri clic si occuparono di emendarlo, poiché gli al ri gli guarirono qualche
piaga . ma il Vittori lo ridonò a buona salute. Paolo Manuzio aiutato da
codici , ili Venezia specialmente, fece anch’ egli qualche prò a questa
opcrctla dopo il Vittori, ma non con plauso eguale, perchè non fu fedele
come quello. Ed eziandio che dica il Muralo esser dubbio se sia più
debilorc il Manuzio a Cicerone, o se Cicerone al Manuzio, tuliavin non
mancano parecchie fra gli altri Enrico Stefano, Psc udne. p 59, che lo accusano
ili audacia troppo pericolosa l'iù audace è nondimeno Dionisio bambino, il
quale stampò Cicerone trentanni dopo il Vittori, aiutato dai copiosissimi lesti
delle biblioteche Parigine: ma ebbe spesso la pecca di preferire il
proprio giudici» alla autorità e al consenso di quei testi rinomatissimi.
Laonde dice di lui il Muralo, Var. Lcz. xvm, 7, clcrgli non correggeva
già gli errori de' librai, ma correggeva Cicerone stesso, quando gli sembrava
che avesse piu'.kazium: ({ualclie uscurilù. Tuttavia aveva il Lambino somma
acutezza (l'ingegno, talché scopriva o subodorava ciò che era sfuggilo
agli altri; ina il suo stesso acume lo portava talvolta ad essere audace.
Finalmente Ciano Crutcro avule alle mani quante copie di opere
Ciceroniane si trovavano nelle biblioteche Belgiche, e poi oltre a
dugcnlo manoscritti della Palatina, sudando fra lami codici fino
all'eccesso, pubblicò le onere Ciceroniane in modo, come attesta egli slcsso
nella Prefazione, da contar più di mille luoghi illustrali, corretti, accresciuti.
li vero clic questa asserzione perde mollo in bocca del Crutcro, ma non si può
negare che ne sia insigne il suo inerito. Corre il dello fra i critici, che
mollo maggior bene saria venuto a Cicerone se il Lambino avesse avuto
alle mani alquanti dei codici clic ebbe il Crulcro, poiché il Lambino
sarebbe stato più divolo alle membrane antiche, c Crutcro lo sarebbe
stato queU'uii po’ meno clic gli bisognava, tn quanto alla presente versione
io non mi sono che di raro valuto delle varianti, avendo fallo uso di una
edizione di Lipsia, pubblicala nel 1831 con piena c curala
esattezza. Discorre Tullio dello utilità dello eloquenza, del suo
principio, progresso, abuso, aladio, e dell' orlo die h.; j suoi precetti
proprii. Quale sio l’unicio della eloquenza, il fine, la materia, le
porli. Della Invenzione che n è la parte più precipua, c quale debba
essere In ogni cosliluzionc di causa si congetturale, si definitiva, si
generale. Dell’esordio, narrazione, partizione, confermazione,
confutazione, e delle varie specie di tulle queste partì dell’ orazione, delle
parti secondarie, dell’efficacia c dei diletti loro. Seppe et mulliim
liocinccum cogitavi, bolline i,n inali plus altulcril hominibus el
drilalilius copia dicendi ac sumimim cloquenliac sludium. Nani quum et
noslrac rei piiblicuc delrimcnla considero, et nuiiimarum civituium velercs
animo calamilales colligo, non minimam video per discrllssimos liomines
invecbtm parlcm incommodorunt ; quum autem res ab nostra memoria propler
vcluslalem rcmolas ex lillerarum monumenlis repeterc insilino, rnullas urbes
consliluias, plurima bella rcslincla, (irmissimas socictales,
sanclissimas amicilias inlelligo quum animi ralioiic tum facilius eloqucntia
comparalas. Ac me quidem diu cogitanIcm su pioti tinnì sinc cloquentia parimi
prodessp civilatibus,eloquenliam vero ainesapienlia nimium obesse
pleriimque, prodesso numquam. Quare si quis, omissis rcctissimis atquc
lioncstissimis sludiis raiionis et ollicii, consumi! omnem operato in
eicrcilalionc dicendi, is inulilis sibi, pcrnicinsns palrioc civis alilur
; qui vero ila sete armateloquenlia ut non oppugnare conimnda palriae,
sed prò bis propugnare possil, is milii tir et suis et publicis
raliouibus utiussimus atquc amicissimus civis Ture vidclur.Ntc si volumus huius
rei, quac vocalur cloquentia, site arlis, sivc sludii, sire
cicrcilalionis cuiusdam, sivc facultatis ab natura profcclac considerare
principitim,repcricmus Spesso edi vantaggio andai meco esaminando se
un saper fare molle parole, c uno studio assai grande dell - eloquenza
recasse più di bene ovvero di male agli uoiu ni ed alle città. Quando io
considero la nostra repubblica venula in peggio, e richiamo al "disierò le
ani che miserie di cillà cospicue, io vi troru già inlrndotla non piccola parlo
di pregiudizio c di danno appunto da uomini della più alla capacitò di
ragionare. Che se per conira io piglio a esaminare i monumenti lellerarii
della amichila, e vi riandò i falli lontani dalla nostra memoria,
io ci ravtiso non solo per disposizione di animo, ma mollo più col mezzo
della eloquenza fondale molle cillà, cslintc assai guerre, slrelle
società saldissime, c amicizie le più sacre c inviolale. E già mentre io buona
pezza me no sio sopra pensiero, mi (rovo condono dalla ragione stessa
a giudicare clic la sapienza scompagnala da cloquenle linguaggio poco
profilta alle cillà, laddove il linguaggio eloquente scompagnalo dalla
sapienza può nuocer loro le più volle, giovare non mai. Il perebì
quando bene alcuno, lascialo slarc lo studio sommamente buono e onoralo della
dirittura c del dovere, consumasse lulla l'opera sua in esercitarsi a
perorare, coslui diverr. hbc un cittadino siccome inutile a sè slesso,
cosi offendetele c funesto alla patria; mentre olii si orma della cloqucn
ili ex honcstissiniis causi: naliim, alque optimi: ralionibus
profcclum. Nani tuli quoddain tempii:, quiim in agris lioinincs
passim bcslmrum more vagabsntur, el sibi victu toro vilamprnpagabanl.ncc
ralionc animi quidquam, seti pleraque viribus corporis adirimislrabanl ;
nominili divinac rcligionis, non Immani oflicii raiio colebatnr, nomo
nuptias viileral leghimas; nouccrlosquisquom inspcieral libcros;non, ius
acquabilc quid utililatis haberct, accepcrat. Ila proplcr errorem alque
inscientiam cacca oc temeraria dorninalris animi cupidità» ad se
czplcndam viribus corporis abulcbatur, perniciosissimis s ite! litibus.
Quo tempore quidam, magnus vidclicel vir et sapiens, cognovit quae
matcries et quanta ad maximas res opportunità: in animi: incsset homimmi,
si quis cani posse! elicere et praecipiendo mcliorem redderc; qui
dispersos hominos in agris t in tectis silveslribus abdilos ralione
quadarn compulit unum in locum et congregavi!, el cos in imam
qnamque rem inducens ulilem alque lioncslam, primo propler insolcntiom
reclamantcs.deinsa eloquenza ridondano a uno stato di molli beni, purché la si
accompagni con la sapienza che modera ogni rosa; da essa deriva a quelli
clic lo possedono c lode, c onore, c dignità; da essa gli amici
altresì di chi n'ha Tatto acquisto guadagnano giovamento il più certo c il più
sicuro. E tuttoché per più versi gli uomini sieno mollo degradali per debolezza
c viltà, pure più che per altro per la dote ch’essi hanno della parola
vanno at di sopra delle bestie. Ondechè mi pare aver fatto un
acquisto assai ragguardevole edui clic per la stessa cosa onde sopra le bestie
si vantaggia, per quella si vantaggia sopra gli stessi uomini. Ora, se
ciò non pure si Ta col mezzo della natura e dell'esercitazione, ma
eziandio si ottiene con un colale artifizio. non i fuor di proposito che ci
mettiamo a sapere clic uc dicano quelli, i quali di artifizio sifTaito ci
hanno lasciati dei precetti. Però innanzi clic tocchiamo i precetti
dell'oratoria, s'ha a dire della essenza di qucsl’arle, dcll’uflb.io, del
fine, della materia, delle parti. Conosciute queste cose, potrà ognuno
più agevolmente c con più speditezza porsi a considerare il magistero e
l’andamento dell’arte stessa. V'ha una scienza civile che si compone di
elementi molti e di mollo rilievo, lino ben grande c vasto è l’eloquenza
artificiale, che si noma retorica. Io non mi consento insieme con
coloro clic stimano la scienza civile non aver uopo di eloquenza, ma sono
altresì assai lungi dal pensare come quegli altri che fanno essa scienza
consistere tutta nella potenza e nell' artifizio del retore, lo fo
ragione essere la facobà oratoria di tal genere, da doverla dire una parte
della scienza c vile, n politica. Quanto è all’ufllcio di essa facol liane,
lnter olìlcium el linoni hoc inlercsl, quoti in oOlcio, quid Iteri, in
line, quid ofllcio convcnial, considcralur. Ut medici offlcium dicinius
esse curare ad sanandum apposite, lìnem sanare curalione ; ilein oratori:
quid ofltcium et quid linem esse dicamus, ìnlclligcmus, quum id, quod
Tacere debet, ofltcium esse dicemus ; illud cuius causa Tacere
debel, lìnem apoellabimus. ilaleriam arlis cam dicitnus, in qua omnis ars
et ea Tacultas, quac conflcitur ex arte, vcrsalur. Ut si medicinac
malcriam dicamus morbos ac vulnera, quod in bis omnis medicina versclur; item,
quibus in rebus versatur arse! Tacultas oratoria, casres materiam arlis
rhetoricacnominamus. Has aulem res alii piures, alii pauciores eiistimarunt.Nam
Gorgia: Leonlious, anliquissimus Tcrc rhetor, omnibus de rebus oratorem oplime
posse dicerc existimavit. llic inlìnitam ctimmensam huip artificio
materiam subiicerc tidelur. Arislolcles autem, qui Imic arti plurima
adiumenta alque ornamenta subininislravil, tribù: in generibus rcrum versari
rhetoris offteium putavil, demonstratito, deliberativo, iudi. ciati.
Itcmouslrativum est, quod Iribuilur in ali* cuius ceilae personae laudem
aut vituperalioncm; deliberalivum, quod posilum in disceplatione citili
habet in se senlenliac diciionem ; iudiciale, quod posilum in iudicio
habet in se acctisalionem cl dcTensionem, aut pclilionem et
recusalionem. El quemadmodum nostra t|uidem Tori opini», oratori» ars et
Tacultas in hac materia tripartita versori existimamla est. Vani
Ilcrmagoras quidcui nccquid dica! attendere, noe quid polliceatur inlctligere
videlur, qui oratori: materiam in causani eliti quacstioncni
dividal. Causam esse dicil rem, quac balieat in se eon! roveri iam
indicendo posilamcum personarnm ccrlarum inlerpositione; quatti nos
quoque oratori dicimus esse altribiitam. Matn tresci parles, quas
ante diximiis, supponimus, iudicialcm, deliberativam, demonstrativam.
Quacstioncni autem cani appellai, quae habeal in se controversiam in
dicendo posilam sinc cerlarum personarum inlerpositione , ad butte modum :
Ecquid sit bonum praeter honestalem. Verme sinl scnsus? Quac sit
mundi Torma ? Quac sit solis magnitudo ? Quas qtiacslione5 pronti ali
oratori: olticio remota: Tacile timnos inlelligerc eiisliiuamus. Mani
quibus in rebus stimma ingcnia philosoplioruni plurimo cum labore
consumpla intelligimus, cas sicul alì lè, queslo a mio avviso
consiste nel discorrere in guisa adalla a persuadere, come it (ine
consiste nel persuadere col mezzo del discorrere. Dall’uT flcio al
fine v'ì queslo divario, clic nell' ufficio si considera ciò che sia da
Tirsi, e nel line ciò che all'ufficio convenga Tare. A quel tnodu che noi
d damo esser ufficio del medico Tar cura di modo approprialo a risanare,
c il fine essere il risanare col mezzo della cura; allo stesso modo
intenderemo che sia l'ufficio c clic il line dell'oratore, quando si dirà 1*
ufficio dell' oratore essere il Tare ciò che dee, c il line essere ciò
per che dee Tare, materia dell' arte io appello quella , intorno a
clic l'arte tutta s’aggira, come ancora la facoltà che dall'arte si
deriva. Diciamo maleria della medicina le malattie e le Tcrilc, però che la
medicina si volge tutta intorno a queste: ebbene, allo slessn modo
diciamo materia dell' arte retorica quelle lutte cose, intorno a cui si
volge l'arte c la faco’tà oratoria. Or queslo cose chi le Ta molte, c
citi le riduce a podio. Gorgia l.contino, clic dei relori Tu uno
de'più antichi, pensava che l’oratore può ragionar oli imamente di ogni
cosa; ond'egli assegna a questo artifizio una materia smisurala e senza
termine. Per contra, secondo Aristotele, il quale a qucst'arlc somministri di
molti ornamenti ed approvecci, l'ufficio del retore si avvolge
intorno a tre maniere di trattazione, alla dimostrativa, alla
deliberativa, alla giudiciale. La dimostrativa si adopera al lodare
^biasimarsi di una determinala persona; la deliberativa risiede nella
deputazione civile, e consiste nell’ esporre i deliberanti il loto
parere; la giudiciale sia nel Tare il giudicio, c comprende l’accusa e la
difesa, o la petizione e la replica incontro. Or l'arte e la facoltà
dell’oratore, secondo che io penso, si aggira intorno a questa maleria cosi
tripartita. VI. Ermagora dà due parli alla materia dell'oratore, ciò è
dire la causa c la quislionc; ma ei mostra di non avvisar bene quello
ch’ci dice, nò intendere ciò che propone Ei dice causa una trattala clic
ammette contrasto di parole coll' intervento di determinale persoue; la qual
trattola ho dello io slcsso esser dovuta all' oratore, pcrchft gli
reputo le tre specie toccate qui addiclro, la giudiciale, la
deliberativa, la dimostrativa. Egli poi nomina questione quella die
ammette il controvertere di parole, ma senza intervento di determinale persone,
come sarebbe il cercare, Che altro v'ha di buono oltre l'onestà. Se sieito
veraci i sensi, Quale sia la Torma del mondo, Quale la grandezza
del sole. Le quali quislioni credo che ognuno agevolmente intenda essere
di lunga mano estranee all’ufficio dell' oratore. Attribuire inTalli
ali'oralore come cosa di poco momenlo una quas parvas res oratori
otlribuere magna amcntia ridelur. Quotisi magnam in his Hermagoras
habuissel facullolem studio cldisciplinacomparatam, vidcrclur frclus sua
scicntia falsimi quiddam constiluissc de oratoria otDcio, et non quid ars,
sed quid ipsc possel, czposuisse. Nunc vero ca vis est in lioininc,
ut ci multo rheloricam cilius quia ademeril, quam philosopliiam concesscril:
ncque co, quod cius ars, quam cdidil, mihi mendosissimo scripla
lidealur ; nam salis in ea videtur ex antiquis arlibus ingcniose et diligcnter
eleclas res collocasse, et nonniliil ipse quoque novi protulisse ; vcrum
oratori minimum est de arte loqui, quod lue fedi ; multo maximum ex arte
dicerc, quod eum minime potuisse omnes videmus. Quare materia quidem
nobis rlictoricae videtur ca, quam Aristoteli visam esse diximus; partes outem
lise, quas pleriquc dixerunl, inventio, dispositio, eloculio, memoria,
pronuncialio. Invcnlio est excogitalio rerum verarum aul veri similium, quae
causam probabilem reddant; disposino est rerum inventarum in ordinem
disltibulio; eloculio csl idoncorum verbotum ad sentenliarum
invenlionem accommodatio ; memoria est firma animi rerum ac verborum ad
invenlionem peree. ptio; pronuncialio csl ex rerum et verborum dignilalc
vocis et corporis moderatio. Nune his rebus breviler eonstitulis, eas raliones,
quibus estendere possimus geiius et ofllcium et llncm buius arlis, aliud
in tempus difTcremus. Nam et multorum verborum indigeni, et non tanlopcre ad
arlis descriptionem et praecepla Iradcuda pertinenl. Eum outem, qui
arimi rliclorieam scriba!, de duabus nliquis rebus, de materia arlis ac
parlibus scribere oporlcreexislimamus. Ac ndlii quidem videtur coniunctc
agendum de materia ae parlibus. Quare inventio, quae princeps est omnium
partium, potissimum in omni eau-arum genere, qualis debeat esse,
considcretur. Umnis res, quae liabct in se positam in dictionc ac
disceplalionc aliquam controvcrsiam, aut facli, aul nomiuis. ani generis,
aut actionis comincili quacslionem. Eam igitur quaeslionem, ex qua causa nascitur,
constitulionem oppcllamus. materia, a cui trattare
logorarono l'ingegno con assai di fatica i filosofi, codesto è ben una
folle forscnnalezta. Che se Ermagora avesse pure con lo studio c le
apprese dottrine acquistata una grande perizia di tali cose, ci mostrerebbe
d'aver messa in piedi sull' appoggio della scienza sua propria una falsità
circa all'ulllcio dell'oratore, e fatto vedere non ciò die l’arte, ma ben ciò
eh’ egli stesso sapesse fare. Egli è poi da natura si condizionato, clic
molto più tosto altri gli negherebbe sufficienza in fallo di retorica,
clic non gli concederebbe sufficienza in fallo di filosofia. Nò questo io
dico perclii Ermagora nel trattar che fece l'arte retorica sparnicciassc qui e
qua di sbardellati errori, quando anzi vi Ita posto cose qua e là
Irascelte con abbastanza d'ingegno c diligenza dagli antichi trattali di
retorica, c parie v'aggiunse egli stesso un po' di nuovo: ma parlare
dell' arte, come fece Ermagora, per un oratore i cosa da nulla; il
malagevole è ragionare secondo le leggi dcll'arlc; ciò che ognun vede non
aver Ermagora saputo fare. Il perchè io sono d'avviso la materia
della retorica esser quella che, come io dissi, fu indicala da
Aristotele; c le parli di essa, secondo che molti hanno scritto,
l'invenzione, la disposizione, la locuzione, la memoria, la
pronunciazione Invenzione è trovar col pensiero le cose vere o verisimili che
rendati la causa probabile; disposizione è distribuire ordinatamente le cose
trovale; locuzione è adattar le parole, rhc sono acconce, al
Irovamenlo dc'concelti; memoria è percezione fermata nella mrnle delle
cose c delle parole che servono alla invenzione; pronunciazione è reggere
la voce c la persona secondo che s’avviene alti digitila delle cose e
dello parole. Dcfinile cosi alla breve queste parli della rclorica,
rimandiamo ad altro tempo le ragioni con che si possa dimnslrare
l’essenza, ruttici» c il fine di essa, poiché domandano esse parli assai di
parole, c d'altronde non hanno uno stretto rapporto col metter in
trattalo quest’arte e somministrarne prccclli. Chiunque volesse compilare una
Irallaziotie compiuta dell' arte retorica, dovrebbe scrivere, io
penso, della materia dell’arte divisamente dalle parli di essa: io
però c della materia e delle parti non debbo trattare clic a un tempo
stesso. E poiché di tulle qucsle parli la invenzione è la più principale,
si vuol considerare quale in ogni genere di cause ella si debba essere.
Vili. Ogni affare clic Involge qualche controversia in genere esornativo
o giudichile, conlienc qucslionc o di fallo, o di nome, o circa il
genere del fatto, o circa le persone a cui compelc agire. La
questione, da cui nasce la causa, io l'appello utino i. Conslilulio
c>l prima confliclio catisarum ex dcpulsione intcnlionis profocla, hoc modo
: Fecisli. Non feci, aul: Iure feci. Quum farli conlrovcrsia est,
quoniam coniccluris causa (ìrmalur, cnnsliiulio roniccluralis appcllalur. Quum
aulem nomini*, quia iis vocahuli dclinienda verbis esl, conslilulio
definitiva nominalur. Quum vero, quali» rcs sii, quacriiur, quia cl de vi
et de genere ncgnlii conIroversia est , conslilulio generali» tocalur. Al
quum causa ex co pendei, quod non aul is agere vidclur, quelli oporlct.
cui non cum co, quicum nporlct, aul non apud quo», quo tempore, qua
lege, quo crimine, qua poemi operici, Iranslaliva dicilur conslilulio,
quod aclio trauslalionis el commulaiionis indigere vidclur. Alque haruin
aliquam in omne causar gcnus incidere necesse esl. Ram in quam rein
non inridrril, in ea niliil esse polcril controversine; quarc cam ne
cansarn quid“in conventi pulari. Ac facli qiiidcm controversia in omnia tempora
polesl distribuì. Nam quid factum sii, polcsl quaeri, hoc modo:
Oeciderilnc Aiaccm Uli ics. El quid dal, hoc nonio : llononc animo siili
erga popolimi ilnmauum Fregollani. El quid fuluruin sii, hoc modo : Si
Cnrlliugìnem roliquerimus incoiumcin, num quid sii iucnnmiodi ad rem
putdicam perveuturum. Nomiuis est controversia, quum de farlo conventi, et quacriiur, id
quod factum est quo nomine appcllelur. Quo in genere neccssc est ideo nomini» e. se con!rover.-iam,
quod de re ipsa non convenial ; non quod de facto non conslcl, seri
quod id, quod factum sii, aliud alii videa tur esse, ri idcirco aliti»
alio nomine id appellel. Quare in eiusmodi gcnerihus definicnda res eril
verbi», el brevih r dose ribellila: ut, si quis sacrum ex privalo
surripueril, ulrum fur an sarrilegus s.l iudieamlus. Ram id quum quacriiur,
necesse eril dcOnirc ulriimque, quid sii fur, quid sacriirgus, el sua
dcsmplione cisterniere alio no mine iilam reni, de qua agilur, appellari
oporlere, ulque adversarii dicunl. IX. Generis esl
conlrovcrsia. quum cl, quid factum sii, convelli!, cl, quo id factum nomine ap
pellari oporteal, constai; et (amen, quanlum cl I cuiusmodi el omiiinn
quale sii, quaentur, hoc modo: Jusluin an iriiusl uni, utile au inutile,
et costituzione. La costituzione è la prima contesa delle cause,
derivante dalla replica die si fa conIru l'accusa, come sarebbe: Hai fallo Non
Un fallo, oppure: ilo fallo a buona ragione. Quando è controversia circa
un fallo, poiché la causa si fiancheggia di eongdiure, la costituzione si
domanda enng' Ituralc. Quando è circa un nome, siccome si dee definire
a parole l'essenza del vocabolo, la co-tiluzionc si appella definitiva.
Qualora j' investiga di clic qualità sia una cosa, giacché si controverto sull'
essenza e sul genere di essa, la costituzione si appella generale. Sia quando
la causo dipende da questo, che o non è odore chi dee, o non è contro chi
lo dee essere, o non presso dì quelli clic si conviene, non in quel
tempo, o secondo quella legge, o per quel dcbllo, o per quella pena che il
dovrebbe essere, la costituzione diccsi traviatila, poiché la trattala
abbisogna di eccezione dedicatoria e di permuta. Di lati questioni è
inevitabile clic una o un'allra vi abbia in ogni genere di causa,
perocché l'altare che non ne involgesse alcuna , non può ammollerò
controversia ; non può quindi aver natura di causa. I.a conlrovcrsia di
Tallo puossi riferire a tulli i tempi. Si può inqtiircrc su ciò che fu
fallo, di qiuslo modo: Se Ulisse uccise o no Aiace. E su ciò clic
si fa, a questa maniera: Se quei di Fregellc sieoo o no ben volli verso i
Romani. E su ciò clic è fulcro, come se si chiedesse: Se noi Irsecreto in
buon essere Cartagine, ne verri egli alcun detrimento alla repubblica? È
conlrovcrsia di nome, quando essendo ludi d'accordo sul fallo, si
cerca di clic nome il fallo s'abbia a domandare. Nel qual caso non può
non esserci conlrovcrsia di nome, però clic le persone non sono in
accordo sulla materia stessa clic si traila; non perchè non consti il
fallo, ma perché questo fatto a chi Ira paruta d’essere d'uno qualità, a
chi di un'allra; e però da alcuni è appellalo con un nome, da alcuni con
un nome diverso. Laonde in casi di falla simile si vuol la cosa definire
a parole con alquanla poca di descrizione, acciocché se alcuno avesse, a mo’ d'
esempio, privalamcnlc rapilo un oggetto sacro, si vegga se e’sia da giudicare
per ladro, o per sacrilego. Quando dunque sia tale il punto della causa,
converrà defluire clic si voglia intender per ladro, e clic per
sacrilego, e con una acconcia sposizionc dar a conoscere come il
fallo che si ag la è da appellar d'un nome diverso da quell",
onde dagli avversari! i appellalo. IX. b conlrovcrsia circa al genere,'
quando le parli sono belisi d'accordo sul fallo, e sul nome con che
il fallo si convien designare, ma lulljii.i si cerea di clic gravezza
esso sia, di clic specie, di clic qualità, a questa guisa: Se il fallo è
giu. lo o umilia, in quibus, quale sii i'I, quud factum esl, quaerilur
sine ulla nominis controversia Iluic generi Hermagoras parlcs qualuor
supposuil, deliberalivam, dcmonslraliram, luridicialcm, negolialem. Quod eius,
ut nos putamus, non mediocre pcccalum reprehendendum vidclur, vcrum
lirevi, ne aul, si laci-i pradericrimus, sino causa non se culi
ctim pulemur ; aul, si diulius in hoc constilerimus, moram alque impi-dimentum
reliquia praeceplis intulissc videamur. Si deliberano el
demoiistralio genera sunl causarunv, non possimi recle parles alicuius
generis causac polari. Eadem cium res alii gcnus esse, alii pars polesl ; cidem gcnus
esse et pars non polesl. Dclilieralio aulem ci demonstralio genera sunl
causarono. Nani aul nnllum causae gcnus esl , ani iudiciale solino,
aul cl iudiciale cl demouslralivuin et doliboralivum. .Nu I Inni diccrc causae
esse gcnus, quum causas esse mullas ilical, el in ca9 praecepla del, amenlia
esl; unum iudiciale aotem solmn esse qui polesl, quum deliberali» et
demonslraliu ncque ipsae similes inler se sinl, et ali iudiciali
genere plurimum dissidi-ani, cl suum quaeqiie linem liabeanl, quo referri
debeanl? Rclinquilur ergo, ili omnia iria genero sin! causarum.
Deliberano imitar el demonstralio non possimi recle parlcs alicuius generis
causae pulari. Male igilur cas generai'* conslilulioilis parles esse
divii. Quodsi generis causae parles non possimi recle pulaii, multo
minus recle partls causae parics putabunlur. Pars oulcui causac est
conslilutio omnis. Non enim causa ad constilutimiem , sed
constilullo ad causam arcommodalur. Sed demonslralio el dclihcralio generis
causac parles non possimi recle pulari, quod ipsa sunl genera; mullo
igilur minus rccte parlis eius, quod liic dici!, pnrles putabunlur. Dciiidc si
conslilutio cl ipsa cl pars eius quaclibel inlcntionis depulsio est, quae
inleulionis depulsio non esl, ea ncc conslilulio ncc pars conslilulioilis
esl. Al si, quae inlentionis depulsio non esl, ea ncc conslilulio nec
pars constilutionis esl, demonstralio cl deliberali!) neqnc
conslilulio nec pars conslilulionis est. Si igilur conslilulio el
ipsa cl pars eius inlcntionis depulsio esl, deliberali» cl demonslratio ncque conslilutio
neque pars conslilulionis est. Placet autem ipsi consti lutionem inlcntionis esse depulsioiicm;
placcai igilur oportei dcmonslralioncm cl deliberalionein non esse
ingiusto, se proficuo u inutile, c ogni altro simile, in cui si
inquerisce di clic qualità sia il fallo senza veruna controversia circa al
nome. Alla controversia circa al genere Ermagnra attribuiva quattro
parli, la delibcraliva, la ditnoslraliva, la giurldiciolc, la negoziale. Non
credo di dover cessarmi dal riprendere questo di lui non mezzano
errore, perchè se io me ne passassi in silenzio non si credesse clic io
mi scostassi da questo autore senza motivo; avvegnaché il farò cosi di
passo c alia brc;ualc ii sostegno della difesa: le quali tulle cose debbono
partire dalla costituzione. La questione è quella conlroversia clic nasce
dal conllillo delle rausc, come a dire: Non facesti a buona equità. Ilo
fallo a buona equità. Il conflitto delle cause è quello in cui consiste
la cos iluzione. I)a questa dunque nasce quella colai controversia clic
io appello queslione, come se si diccsso:llacg!i fallo o no a buona
equità? Ragione è quella clic cornicile il motivo: lollo esso, non resta
nella causa punto di conlroversia, come se si dicesse, per servirmi di un
esempio facile e a (ulti conosciuto: Poslu che sia accusalo Oreste
di aver moria la madre, se egli non si esprimesse cosl:L’lio moria a
tulio «tirino, perdio ella mi ho ucciso il padre; ci non avrebbe difesa, c
lolla la difesi, è lolla eziandio ogni conlroversia. Laonde la ragione
ovvero motivo ili quesla causa sla in ciò che la donna aveva ucciso
Agammenone. La giudicazione è la conlroversia che nasce dall’ infermar che fa
l'accusatore, c dall' avvalorar che fa l’accusalo la ragione, ossia il
motivo. Insidiamo nella ragione qui sopra esposta. .Mia madre, dica
Orcslc, mi ha ucciso il padre. Ma non era dicevo I le, risponde
l'accusaiore, clic lo uccidessi la ma i die, lu clic le eri figlio,
poiché poteva quel fallo Ei tuie ileducliiinc ralifìnis illa somma
mi scilur controversia, qoam juilicatioiicm appella mus. Ea esl
huiusmodi: Reclutimi: fueril ab Oreale tnalrcm occidi, quum illa Orcslis patron
occidissi l. Fiimamcntum est (irmissinta argumcntalio defensoris, el
appoailissima ad itidicalioncni: ul si volil Orestes dircre cjusmodi
aiiimum malris suao fuisse io palrcni suum, in se ipsuni ac sororca,
in regnimi, in famain generis el rainiliac, ul ab ea poenas liberi
sui polissimuin pelare debucruil. Et in ceb ria quidenieonsliltilioiiilius
ad lume modum judicalioncs reperieulur ; in conjeelurali auleti)
conslilulione, quia ralin non esl ((aduni cnim nnn conccdilur), non
polesl ci dcduclionc ralinnis nasci judicali». Quare neccssc esl camdem
esse quacslioncni el judiealionem: Facilini esl. Non est factum .
Faelunine sii ? Quol anioni in causa consliluliones ani earum parles eruul,
lolidein neccssc erti qnacslioncs, raiiones, judicalioncs, firmauiciila
reperir! Ilis omnibus in causa reperlis, luni denique singulau parles
lolius causae considerandac sunl. Nani non ul quidquc eli endum prillili
ni, ita primuni anim i hcrlenduin lulelur; ideo quod illa, quac
prima dicaulur, si u liemenlcr velis rongrtiere el cdiacrcrc cum causa, ex bis
ducas operici, quac post direnila sunl. Quare quum judicalio, et ea, quac ad
judiealionem oportel argenteal i iineiiiri, diligcnlcr eruul arlificio repcrla,
cura cl cogitalioue pi-rtraclala, Inm denique ordinalidac sunl cctcrac
parles oralionis. Eac parles sei ose umilino nobis videnlur: exordium,
narralio, parlilio, conili malio.repreliensio, conci u-io. Nuiic
qtioniam exordium princeps omnium esse debel, I uos quoque primum in
ralionem cxordicndi praeccpla dabinius. Evnrdiuni esl orali» animum audiloris
ido nec eomparans od reliquam diclioriem: quo I eveilici, si cum
benctuluni, altcnlum, duodeni con(eeeril. Quare qui bene exordiri caosam
volel, rum necesse esl genus suao causae diligenler aule cognoscere.
Genera cau.-arum qiiinquc sunl : lioneslnm, admirabilc, Immite, anccps,
obscurum. Henesliim causae genus esl, cui slatini sino oral ione nostra
audiloris farei animus; admirabilc, a quo esl ahvualns animus cerimi, qui
autliluri sunl; esser puuilo sema elle lu li gallassi in unascelleragginc. Dal
torre all'accusato questa ragione o difesa nc tien la controversia sul gran
punto da decidere, che io appello giudicationfi. Essa sla in questi
termini: Se fu giusto che Oreste uccidesse la madre perchè ella ad Oreste
ateva ucciso il padre. Il sostegno della difesa è la più furie argomentatone
del di felli ire, c la più propria a determinare i giudici; e sarebbe se Oreste
de cise, tale essere stalo il inai talento di sua madre si conilo il
padre, sì contro lui slesso, e le sorelle, c il regno, e la ripiilaxione
della stirpe o della famiglia, che i suoi llgli stessi avrian dovuto
chiedere ch'ella fosse ponila. Cosi in tulle le altre costituzioni si
Irorcranno allo slesso modo i punii da giudicare: perù nella cosliluiione
congetturale, siccome non v'ha ragione (perchè il fallo non si concede), cosi
essendo sottraila la ragione, non può uscirne il punto da decidere. Il
perchè è mestieri ! he sia la stessa e la queslione e la cosa da
decidere, come in questo caso: Fu follo. Non fu fallo. Quel che s'ha a
vedere è, se veramenle fu fallo o no. Oliatile poi saranno nella causa le
costituzioni u le parli loro, allrellaulc dovranno essere le questioni, i
punii di difesa, i capi da decidere, i sostegni, di clic te parli
litigami s'avvalorano. Trovalo tulio questo, allora Cmatmcnle si debbono
ciiusidcrarc le singole parli di luna la causa; perocché non è già clic s'abbia
prima a ben avvertire quello che ha da dirsi prima dì tutto, perchè le
cose clic si dicono in prima, se vorrai che si coufaeciano bene e si
leghino con la causa, le dei derivare da quelle che si vogliono dir
poscia, bionde quando bene col mezzo dell'arte si sarà csattamenle
rinvenuto, c poi pensalo e ripensalo con diligenza qua'e sia il punto
decisivo che dee essere giudicalo, e insieme gli argomenti che sono
il caso, allora dovranuosi disporre per ordine le albe parli
dcll'oraziooe. Queste parli io penso essere al postullo sei: esordio,
narrazione, divisione, confermazione, confutazione, conclusione. E poiché
l'esordio dee essere la prima fra le parli deil'orazione, anch'io darò per
primi i preeellì che all'esordio si riferiscono. L’esordio è un discorso
che dispone convenevolmente l'animo dcll’ud ture a tulio il rcslo
dell'orazione: Il clic addiverrà -e si faccia di renderlo bcnvoglienle,
allento, e disposto a lasciarsi istruire. Oudcchè chi vorrà ben iniziare
la causa è incinero ch'egli conosca a fondo che specie di causa c'
prende a Irallarc Le cause sono di cinque specie: oncsla, disonorevole,
abielta, ambigua, o-cura. Causa onesta è quella, a cui gli udi i tori si
mostrano ben volli pur innanzi che noi co unno i. il liumilc,
quoti negligilur ab auditore, et non mag impero altcndcndum videlur; nnceps, in
quo aut judicalio dubia est, aut causa et honcslalisel turpitudini
particcps, ut et benevolenti pariat et offensionem: obscurum, In qun aut tardi
auditorcs sunt, aut ditBcilioribus ad cognoscendum negotiis causa
implicala est. Quarc quoniam lam diversa sunt genera causarum, eiordiri
quoque dispari Tallone in uno quoque genere necc3sc est. Igitur eiordium
in duas pnrtcs dividitur, ili principinm et insinualionem. Principinm est
omiìo perspicue et proiiuus contJciens audilorem benevolum, aut
docilem, aut allentum. Insinualo est oraio qua.lam dissiniulatione et circuilione obscurc
subicns audiloris animino. In admirab li genere eausac, si non oinnino
infesti audilores crunl, principio ticnevoleiilium comparare licebiUSinerunl
vetiementer abalienali, confugerc uecesse crii ad itisinuationem. barn ab
iralis si perspicue pai et benevolenti petilur, imn modo ea unii invenilur,
seri augetur alque infialimi, ilur odium. In Immiti autem genere causae contcmplionis
tollemic cau-a nccesse eril allentum cfllcere audilorem. Anceps genus causae si
dubiam judicalionem babebil, ab ipsajudicalioiiecxordicndum est. Sin
antem partem turpitudiuis, parlcm boneslalis babebit, beneiolenliam
captare nport. bil, ut in gcnus li'.nesiitm causa transita lidealur.
Omini autem crii lumeslum causae genus, vel prueleriri principinm poleril, rei,
si comniodum lucrit, aul a uarralione incipicmus, aut a lego, aut ab
aliqua (imissima rationc nostrae diclionis; sin uti principio
placebil, benevolcnliae partibus ulcmlum est, ut id, quod est,
angcalur. XV). io obscuro causae genere per
principimi! doi-ites audilores clllccre oportcbil. Nunc, quoniam quas res
esordio conficerc nporteat dietimi est, reliquum est, ut oslendalur,
quibusquaeque raliombus res confici possit. Benevolenti quatuor i l
locis comparatur: ab nostra ab adversariorum, ab iudicuin persona, ab
ipsa causa. Ab nostra, si de noslris factis et nfllciis sinc arroganti
diceiiius; si criniina illai et aliquas minus honcslas suspiciones
inieclas ililuemus; si, quac incornino da acciderint, aul quae instcnt
dilliculiatcs, profcreuius; si prece et obsecralionc humili ac supplici utemur.
Ab advcrsariorum autem, si cos aut mincimo di parlare;
disonorevole diccsi quella che è contro l'opinione di coloro clic sono
per ascollare; abietta si dice perchè è sprezzata dall'uditore, siccome quella
clic ha un oggetto da non farne conto gran fatto; ambigua 6 quella, in
cui o è dubbio il punto da giudicare, o v'è mescolato l'onesto e il
turpe, da cccilarc a un tempo c bcncvoglienza c sdegno: oscura dicesi quella,
cui gli uditori hanno le fatiche a ben comprendere, o clic è
intralciata di soggetti molto difficili a esser co. mischili. Per esser
dunque cosi diverso le specie delle cause, vuole essere ciascuna in
diversa maniera cominciala a parlare. I.' esordio perciò ha due parlile,
ii principio c l'Insinuazione. Per prin • cipio s’ intende quel discorso
che all’aperta e Gn dalle prime renile l’uditore ben volto, o
attento, o disposto a lasciarsi istruire. Insinuazione è quel
parlare clic mostrando altro, con certe svolte di parete
impercettibilmente si intromette iiclt'animo dell' uditore. Nella causa
straordinaria se gli uditori non saranno al postutto di animo avverso, si
potrà fare nel principio di renderli benvoglienli. Ctie se fossero
contrarli troppo forte, converrà aver ricorso all’insinuazione. Perocché
se vuoisi rappaciar all'aperta c render benevolo chi è sdegnato, non pure non
se oc verrà a capo, ma si aumenterà e si rinfocolerà vie più lo sdegno. Nella
causa abietta, a voler rilevarla dallo sprezzo, si conviene rendere attento
l'uditore. L'ambigua Ita essa dubbio il punto da giudicare ? si vorrà da questa
punto far esordire l'orazione. Clic se sarà mista di turpezza e di onestà,
donassi accattar la he • nevoglietiza parlando di tal maniera clic paia
essere la causa diventata in ispecic solamente onesta. Quando poi sarà
davvero di specie onesta la causa, si potrà cessarsi dall'esordio, ovvero, se
verrà in concio, dorassi principio dalla narrazione, o da discorso
sopra la legge, o da qualcuna delle più sode difese della nostra
orazione. Clic se abbonasse all'oratore porci l'esordio, il farà ad
acquisto di benevolenza, acciocché quella che gli è già avuta si possa
vie piò accrescere. XVI. Nella causa oscura converrà con l'esordio
rendergli uditori inscgncvuli. Ora, giacché s'è dello a quali effetti l’esordio
dee over la mira, rosta che si dimostri per quali vie ciascuno di questi
effetti si possa raggiungere. La benvogl enza si procaccia per quatlro mezzi,
per mezzo di noi, per mezzo degli avversarti, dei giudici, della
causa stessa. Per mezzo di noi, se parleremo de' i.oslii fatti c
mansioni senza millanteria; se ci purgheremo da colpe che ci sicno imputale, o
da altre meno oneste sospieioni; se porremo innanzi le molestie che ne
accalcarono, o ic malagevolezze ila cui siamo premuti; se condiremo i
preghi e le sup ili odium, aul in invidiam, aul in conlcmplionem
adducemus. In odium duccntur, si quod forum spurcf , superbo, crudcliler,
maliliosc faclum proferclur; in invidiati), si vis eorum, polcnlia, divitiac,
rognatio, pocuniac profercnlur, alqtic eorum usus arrogans cl inlulerabilis,
ul bis rebus niagis vidcanturquam rausae suae confidcre; in
contcmplioneni addueeulur, si eorum inerba, negligendo, ignavia, desidinsum
sludium et huuriosum otium prufcrclur. Ab audilorum persona benevolentia
caplabilur, si res ab bis forlilcr, sapienlcr, mansuete gestae
proferenlur, ut ne qua adsenlalio nimia signiflcclur, ri si de bis, quain
bonesla ciistimatio quantaque coruin indici! et auctorilalis esspeclalio
sit, oslcndelur; ab ipsis rebus, si nosiram cau-am laudando cvlollcmus,
advcrsarlorum rausam per conlemptionem deprimeinus. Altenlus aulem Taciemus, si
demonstrabimus ca, quae dicturi crimuv , magna nova , incredibitia
esse , aul ad omnes , aut ad eos, qui audienl, aul ad aliquos illuslrcs
homincs , aul ad deos immorlales, aul ad summam rem publicam prrlinerc ;
et si poUiccbimur nos brevi noslram causam dcmonslraluros , alque eiponemus
iudicalionem, aut iudicalioncs, si plures ciunt. Doiilcs audilorcs
faciemus; si aperte et breviler summam causac eiponeinus, hoc est, in quo
consistili con Iroversia. Nani et quum docilem velis lacere, simili
altcntum facias nportet. Piam is est mavirne dncilis, qui allcntissime est
paratus audirc. filine insinualiones qnemadmodnm baciari conveuiant,
deinceps dicendum vidclur. Insiuualione igitur ulendum est, quum
admirabile gcnus causae esl, hoc est, ut anle diximus, quum animus
auditoris infcslus est. Id aulem tribus ex causis fll maxime; si aut
inest in ipsa causa quacdam turpitudo; aut si ab iis, qui ante dixerunt,
iam quiddam auditori persuasum vidclur; aul co Icmpurc Incus dicendi
datur, quum iam illi, quos audire oporlet, defessi sunl ambendo. Nani ex
liac quoque re non minus, quam ex primis duabus, in oralore
nonnumquam animus audiloiis oflenditur. Si causac lurpiludo conlrahel
oflensìnnem, aul pliche di riverenza ed iimillà. Per mezzo degli avversari, se li faremo venire
in odio altrui, o in inaIcvoglicnza, o in disprezzo. Verranno in odio, se
si spiattellerà qualche lor trailo di turpezza, di superbia, di crudeltà, di
malizia: in malevoglienza, se si darà a conoscere cli’ei son forli,
polenti, doviziosi, addanaiali, pieni di parentele, ma clic usano questi mezzi
per modi arrogami c incomportabili, da far apparire eh' essi troppo più che
nella propria causa hanno confidanza o si tengono furti di questi
lor mezzi. Verranno in disprezzo, se si farà nota la inerzia loro, la
negghieoza, la oziosaggine, l'amore alla infingardia, lo scioperarsi a
lascivire. Si accatterà bcnvuglirnza dagli uditori, se si pronunzieranno
falli di forza, di saviezza, di mansuetudine da essi operati, cosi perù
clic non vi Iraluca troppo di piaggenleria; se si mostrerà quanto
essi splendano per onorala estimazione, e quanto si debba fare
assegnamento sul loro giudi ciò ed autorità; In fino si cattiverà
henvoglienza per mezzo della causa stessa, se noi lodandola porremo in
sul grande la parie nostra, e faremo n -l tempo stesso di screditare a forza di
spregio la parie degli avversarli. Ridurremo allento l'uditorio, se
renderemo dimostro che sono di grande rilievo, clic son nuove c maggiori
della credenza le cose clic siamo per esporre, ovvero se faremo conoscere
clic esse riguardano o tulli quanti, o quelli clic ne ascollano, o alcuni
uomini insigni, o gli dei immortali, ovveramenle i negizii più importanti
della repubblica ; e se prometteremo clic siamo per dimostrare di rorlo la
giustizia della nnsira causa, e porremo in veduta il punto da dover
giudicare, o i punii, so saranno più. Faremo inscgncroli gli uditori se sporremo
chiaro c in brevi parole il sunto della causa , voglio dire in clic
consista la controversia. Pcrocrhè quando lu voglia far 1' uditore
inscgnevole , è mestiere clic insieme lu lo Taccia atteso , poiché
quegli ò il più disposto a lasciarsi istruire , che è anche disposto ad
ascollare con la massima attenzione. XVII. Ora si vuol dire per Io
seguilo come si convengano ballare In insinuaz : oni. Dcesi usare
insinuazione quando la causa è di specie straordinaria, clic vien a dire, come
toccai innanzi, quando 1'udilore i di animo avverso. Questo uso si fa
spccialmcnlc per Ire ragioni; o perchè nella slessa causa s' involge alcun che
di lurpe; o perché pare clic da quelli, i quali hanno ballalo
prima, F uditore siasi lascialo qualche cosa persuadere; o perchè ì
data copia di parlare a un'ora, in cui quelli che ascollar debbono hanno
già tanto ascoltalo ch’ei ne sono lassi e ristucchi. E diretto anche da
questa cosa ultima, non meno clic dalle due prò eo liomine, in quo
olTemlilur, alluni liomincm, qui diiigilur, interponi oporlcl; aut prò
re. in qua offenditur, aliato rem, quac probàlur ; aut prò re
liomincm, aut prò liomine rem, ut ab eo, quod odit, ad id, quod diligil,
auditori» animus traducami", et dissimulare id te defensurum, quod
evistimeris defensurus. Di-inde, quum iam mitior factus erit auditor, ingredi
pcdelenlim in defensionem, et diecre ca, quac indignenlur adversarii,
libi quoque indigna videri: deinde, quum lenieris eum, qui audiet, demonslrarc,
nilul coroni ad te pertinere, et negare le quidquam de adversariis
esse diclurum, ncque boc, ncque illud: ut ncque aperte laedas cos, qui
diliguniur, et lanicn id obscurc faciens, quosd possis, alicnes ab eis
nuditorum toluntalem ; et aliquorunt iudicium simili de re aut
auctorilalem proferre imilalione dignam; deinde camdem, aut consmiilem,
aut maiorent, aut minorem agi rem in praescmia demonslrarc. Sin
oratio adversariorum fidi-m videbitur onditoribus fecissc (idque ei, qui
intelligel, quibus rebus fides fiat, Tacile erit cognito), uporb-l aul de
eo, quod adversarii sibi firmissimum putariut, et maxime n, qui audicnl,
probarinl, primiiui te diclurum polliceri; aul ab adversarii dirlo
esordir!, et ab co polissimum, quod illc tiiipcrriine divori!; aul
dubilationc uli, quid primum dicas, aul cui polissimum loco rospo mica- ,
eum ndmiralionc. Nani auditor quum eum, quem adversarii pcrlurbatum pula!
oralionc, videi animo firnii-simo coti tra diccrc parai urn , pleruinquc se
polius temere adsensissc, quum illuni sine causa confiderò arivitratur.
Sin audiloris sludiuni dcTaligalio abalii-navil a causa, le brevius quam
paralus fueris, esse diclurum commodum est polliceri; non iniilaturum
arlvcrsarium. Sin rcs daini, non inutile est ab aliqua re nova aul
ridicula incipcrc ; aul ev tempore quac nata sii, qund getius, strepitìi,
ticclamalionc ; aul iam parala, quac sci apnlogum, vel Tabulant, vel
aliquam conlincal irrisionem; aul si rei dìgnilas adimct iocandi
Tarullatem, aliquid triste, novurn, liorribile statini non incoinmodum.
est iniicerc. Nam, ut cibi saliclas et Taslidium aul subamura aliqua re
relcvalur, aul dulci miligalur, sic auiinus defessus audicudo aut
admiralionc integralur aut risu novatur. prime, rascollonte lai fiala
piglia motivo di esser mal tolto verso l'oratore. Se il turpe che v'ha
nella causa è motivo di malevogl inula nell'uditore, allora si
conviene per la persona elicsi odia iniromeltere un'altra persona che sia
amata; o per la cosa, di cui l'uditore si otTcnde, un'altra cosa clic sia
degna di approvazione; o per la cosa una persona, o per la persona
una cosa, acciocché l'animo dell'udilore sia richiamato da ciò elio odia
a ciò che. ama; « conviene ancora clic tu l'infinga di non tolcr
difendere ciò clic si crede già clic tu difenderai. Dipoi, quando
l'uditore sarà cosi addolcilo, vorrai cnlrarc a passo a passo alla difesa, e
dire clic le cose, le quali muovono a sdegno gli avversarli paiono
a le pure da doversi avere a schivo: poi, insieme che avrai mitigalo
l'udilorr, verrai dimostrando che di colali cose niente si aspetta alla
tua orazione, c atTermei'ai che intorno agli avversarli non sci per dir
nulla, nè questo, nè quello; affinché non mostri di offendere apodamente
coloro che so» benvoluti, c nondimeno facendo questo in maniera
palliala, fino a che il possa, allunghi da loro il buon volere degli
uditori; c cilcrai, qual esemplo degno di servire per regola, il g
udirlo c la testimonianza di taluni sopra affare di fatta
consimile: dipoi mostrerai che al presente si tratta un alTar eguale, o
simigliarne, o di piò, c di meno rilievo. Che se il discorso degli
avversarli panà avci fatto clic gli uditori gli aggiustassero fede
( c facilmente si conoscerà, chi sa con che meni ella si aggiusti), ti
conviene promettere che per prima cosa tu parlerai intorno a ciò che
gli avversarli hanno credulo il loro sostegno piò principale, e che gli
uditori hanno soprattutto approvalo; o pigliar l’esordio da quanto fu dello
dall'avversario, c massime da ciò ch’egli ha dello da sezzo; o mostrare
di esser in penderne circa a quello da che dei cominciare, o al punto a
cui particolarmente dei rispondere, incUcnda altrui alquanto di
stupore. Poiché l'ascoltante quando vede esser disposto a replicare
ardimentosamente quello stesso ch'ci crede sconcertalo dal discorso
dell'avversario, fa ragione le piò volte di aver egli aggiustato fede con
poca considerazione, anzi che quegli si confidi senza motivo. Clic se l'
uditore per islaneliez/a non si inoslra più interessato nella
causa, fi) al fatto che In prometta di essere per spacciarti più di breve
che non eri disposto a fare, e di non volere imitar le lungherie
dell'avversario. Non sarà anche inutile, se oflrirassono l'occos.one, far
principio da qualche cosa nuova o ridevole; owero da qualcuna naia
d'improvviso, come sarebbe qualche strepilo, qualche allo gridore; o da
alcuna già preparala, che rnnicnca vi un apologo, o una favolosità, o
alcun rive ili bui Ac scparalim quidcm, quac «te principio r-l Jc
insinuatioiic dicenda vidclianlur, lisce fere soni. Nane quiddam brevi
cominunitcrdc utroque praciipieiidum tidolur. Erordium
scnlcnliariim cl gravitali* plnrimum delie) liabcrc, cl umilino
omnia, quac pcrlincnt ad dignitalcm, in se continere, proplcrca quod id iqilìmc
racicndum c-l, quod oratorcin auili lori minime commendai: splcndoris cl
fcslivilalis cl concinni ttnlinis minimum, proplcrca quod ex bis susp ciò
quacdani lipparalionis alquc arliliciosac diligcnliae nascilur ; quac
maxime nrationi (Idem, oralori odimi) auclorilalcm. V'ilia vero baco sunl
ccrlissima cxoriliurum, quac summopcrc vitari oporlebil : rullare, communc,
commulabilc, longum, separatimi, Iranslatum, conira pracccpla. Volgare
cs!> quod in plurcs catisas potcst accominodari , ul convenire
videalur. Commune, quod nibilo minus in hauc, quam io conlrariam parimi
causar, poIcsl convenire. Commulabilc, quod ab adversariu polcsl leviler
mutalum ex conlraria parie dici. Longuni, quod pluribus verbis aul
seutcnlHs ullra quam satis est producilur. Scparalum, quod non ex
ipsa causa duclum est, noe sicul aliquod mcinbrum adnexum oralioni. Translalum
est, quod aliud confici), quam causau gcnus postulai ; ul si qui docilcrn
facial audilorem quum benevolcntiam causa desidero, aul si principio
ulalur, quum insinualioiicm rcs postulo. C.onlra pracccpla est, quod nihil
corum efiicit, quorum causa de cxordiis pracccpla Iradunlur; hoc usi, quod eum,
qui audii, ncque bcncvolum, ncque alteiilum, ncque docilem cfiicil,
aul, quo ndiil profeclo peius est, ul conira sii, facil. Ac de esordio
qnidem salis dicium est. XIX Narralio csl gcslarum rcrum,
aul ul gcslarum csposiliu. Narraliouum genera Iria sunl. Unum gcnus csl,
in quo ipsa causa et omnis ralio conlrovcrsiac conliiiclur; allcrum, in
quo digrcs' 1 aliqna extra cau-am aul criminalionis, aul si Icvolc;
oppure, se la gravili dcH'afiarc non lasccrà tempo allo scherzo, si può far
principio con l’introdurre alla prima qualche cosa di serio, di
nuovo, o che metta orrore. Poiché come la nausea del cibo e la sazietà si
rileva con qualcho amarognolo, o si alleggerisce con un po'di dolce, così
l’animo slanco di ascoltare o si rinforza con la maraviglia, o col riso si
rimane in essere. XVIII. Queste a un di presso son le cose clic mi
parve dover dire del principio e della insinuazione spnrtatamcnlc. Ora si vuole
cosi olla breve dir qualche nonnulla di ambedue insieme. L’esordio dee
tener mollo del scntimcnloso e del grave, e comprendere in sé tulio quanto si
appartiene alla dignità, poiché si dee raffazzonare il meglio possibile, siccome
quello che più di ogni altra cosa raccomandal' oratore all’ udilorio. Non
dee avere però clic appena un menomo di splendore, di piacevolezza e di
acconcialura, perchè di qua si viene a dar sospetto di apparecchio e
di una diligenza consigliala dall’ arto; le quali snn cose clic
troppo lolgono il buon concedo all' orazione, e il credilo all’oratore. I
difetti die incontrano il piò snvcnlc negli esordii, e che si vorranno con
somma cura schifare, seno questi : esser volgare, che può servire a prò e
contro, mutabile, lungo, improprio della ca usa, fuori di
proposito, contrario alle regole. È volgare quello che può
accomodarsi ad ogni specie di causa, si che le paia star bene. Può
servire a prò e contro quello clic conviene alla parte In favore non meno
che alla parte contraria. È imitabile quello che con alquanta poca
di varietà può anzi che da noi esser recitato dal nostro avversario. È
lungo, quando si disfi ode in assai parole e concedi più che non è
mestieri. É improprio della causa, quando non é trailo da essa, e non
come un membro unito al resto della orazione. E fuori di proposito, se
conchiudc altro da quello che domanda la specie della causa; come sarebbe se
tendesse a render insegncvole l'uditore, mentre la causa il ionia benvoglienlc
anzi che no, o se adoperasse il principio quando l'affare esigerebbe anzi
la insinuazione. É contrario alle regole quando non raggiunge
nessuno di quei Din, per cui si danno precetti circa all’ esordio; come a dire,
quando non rende ben volto l'uditore, né allento, né bisognevole,
o, ciò che al postutto è troppo peggio, quando lo rende affililo
mal volto ed avverso. Quanto è all’esordio, abbastanza detto è. La narrazione è
un esposto di cose avvenute, o come se avvenute. La narrazione é di tre
specie. La prima è quella, in cui é compresa la causa stessa e lutto il
cardine della controversia: la seconda é quando si frammette una
qualcho tiiìliludinis, aul «Iclcclalionis non alienar ab co negolio,
quo '' e agitar, aut amplificatioiiis causa interponimi-. Tcrlium genus
est remoliim a civilibus causis, quoti tlcleclationis causa non inutili
cum ezetcilalinnc dicilur et scribìlur. Eius parles suoi duac, quaruin
altera in ncgotiis, altera in persona ma lime versatur. Ea quac, in nrgntiorum
cipositionc posila est, trcs habel parles, fabulam, liistoriain,
argumentum. Fabula est, in qua ncc vera e uec veri similes res
continentur, cuiusmodi est : « Angues ingcnlcs alitcs, iuncti iugo...
a llistoria est gesta res, ab actatis nustrac memoria remota; quod
genus: Appius indisi! Cartliaginiensibtis bellum. Argumentum est lieta res,
quac tamen fieri poluit lluiusnmdi apud Terentium; Hoc in genere
narralionis multa debet incsse féslivitas, conicela cs rorum varietale,
animorum dissimilitudinc, gravitale, lenitale, spc, mclu, suspicione,
desiderio, dissirnulationc, errore, misericordia, forlunac eommutalione,
insperato incommodo, subita laetilia. iucundu esitu rerum. Venmi bacc ex
iis, quac postea de clocutionc praecipicntur, ornamenta sumcntur. Nunc de narralionc
ca, quae causae cominci csposilioncm , diccndum
videtur. Oporlcl igilur eam trcs habere res: ut brevis, ut aperta, ut
probabili» sit. Brevis crii, ss unde Decesse est, inde inilium sumetur,
et non ab ultimo repetetur, et si, cuius rei satis crii summam
dixisso, eius parles non diccntur, (nani saepe satis est, quid factum sii,
diccrc, non ut cuarrcs, que madniodum sii faclutu); et si non lougius,
qtiam quod scilo opus est, in narrando proecdetur; et si tiullain
in rem aliam lransibitur ; et si ila dicctur, ut nonnumqtiam ex co, quod dicium
sii, id, quod nuli sit dicium, inleltigalur; et si nuli modo id,
quod obesi, veruni ctiain id, quod lice ubi si uec adunai, praeteiibilur;
et si Semel unum quid ili digressione che s'allunghi
dalla causa, o di querela, o di similitudine, o di diletto, elio non sia
straniero all'afTare di che si tratta, o che si faccia a (Ine di
amplificazione. La terza specie è
estranea alle cause civili, la quale con cs crc zio non inutile si
scrive e si recita per amore di dar piacere. Ila due parli la narrazione,
di cui la prima versa specialmente sui fatti, l'altra piuttosto sulle
persone. Quella clic consiste licita sposizione dei falli, ha
(reparti, la favola, la storia, l' argomento. Favola è quella clic conlicnc
cose nò vere, nè veri simili, come sarebbe : La narrazione clic versa
intorno a personaggi è fatta di modo clic insieme con i falli si possali
conoscere le parole o l'animo dei personaggi stessi. Tale i la seguente ;
( Ei viene spesso a me, mille tragedie Facendomi nel capo : o
Milione, Grida, che fai ? a clic ci perdi il figlio ? A clic gli
amori, e il vino ? a clic di queslo Gli dai le spese ? tu di troppe
gale Gli lasci far, e troppo esci dei termini. Troppo egli è
austero, oltre l’onesto c il retto • In questa specie di narrazione
bisogna molta piacevolezza, la quale si vuol trarre dalla varietà delle cose,
dalla dissomiglianza degli animi, dalla gravitò delle persone, dalla loro
mansuetudine, dada speranza, dal Umore, dal sospetto, dal desiderio,
dalla dissimulazione, dall'errore, dalla misericordia, dalla cambiatila di
fortuna, dalla disgrazia improvvisa, dalla subita allegrezza, dalla lieta
riuscita delle cose. Però questi ornali della narrazione si piglieranno
dietro i precetti clic ilano dati quando della locuzione verrà da
parlare. Ora s'ha a dire di quella specie di narrazione clic
comprende la sposizione della causa. XX. E necessario di’ essa sia
breve, clic aperta, che probabile. Sarà breve, se piglicrasscnc il
principio da ciò clic preme, c non si comincerù da qualche punto che sia
lontano di troppo, e se bastando clic si esponga la somma dell' alTare,
si lascerà di divisarne le parli individuale (perocché spesso è
sufficiente che si dica ciò clic fu fatto, senza clic si racconti come fu
fatto); c se nel fare la racconlazinnc si schiverà di andar più là di
quel clic fa d'uopo perchè si sappia ciò clic imporla sapere; c se si
eviteranno i passaggi io altre cose diverso; e se si |>arlcrà in guisa
che qualche volta da quel clic fu detto s'intenda ciò clic fu taciuto;
e que dicelur; cl si non ab co, in quo proiimc desimin crii, deinccps
ineipiclur. Ac mulo: imilalio brcvilatis decipil, ul, quuin se breves
pulentc-sc, longissiml siisi; quuin detti operarli, ul rcs mullas
brevi dicaul, non ut omnino paucas rcs dicant, et non plures, qnnm
necessc sii. Nani plerisquc breviler videtur il cere, qui ila ilicil : Accessi
ad aedcs. Pucru.'U evocavi, liespondil. Quacsivi dominuin. Domi negavi! esse.
Ilio torneisi lot res brevius non poluil diccrc, lamen, quia salis fui! dixissc
: Domi negai it esse, IU rerum mulliludine longus. Oliare, Ime quoque in
genere vitanda est brevilatis imilalio, et non niinus rcrum non
neccssariarum , quam «erborimi mullltudiue supersedenduin esl. Aperta autern
narrati» poteri! esse, si, ut quidquc primum gcslum crii, ita
printum opoueliir, et rerum ac temporum ordo sorvabimr, ut ila
uarrcnlur, ut gcslac rcs erunl, sul ut potuissc gerì vid' buniur. lire crii
considerandum, nc quid perturbale, ne quid contorte dicalur, ne
quam in aliam rem Iransealur, ne ab ultimo repelalur, ne ad cvlrenium
prodealur, ne quid, quod ad rem pertinenti, praelereatur ; et omnia»,
quae praccepta de brevilate sunt, hoc quoque in genere sunl conservando.
Nani saepe res parum est intellccta longitudine magis, quam obscurilate
narralionis Ac verbis quoque drluridis uicndum esl; quo de genere
diccndum est in praeccplis clocu liullii. Probabilis erit narrilio,
si in ea videbuulur inesse ea, quae seleni apparerò in vcritale ; si personarum
digiiilalcs servabunlur ; si causae fadorimi cislabunl ; si fuissc faeullales
radunili viilebrintur ; si Irmpus idoncum, si spalli salis, si bicus
opporluuos ad camdetn rem, qua de re narrabitur, fuisse oslendclur; si rcs et
ad corum, qui agoni, uaturam, et ad vulgi morena, et ad eorum, qui
aiidicnt, opinionem accuininodabilur. Ac veri quidem similis cvliis
ralionibus esse polerit. Illusi aulem praetcrca considerare oporlcbil,
nc, aul quum olisi! narrati», aut quuin nihil prosatameli intarponatur;
aut non luco, aut non, qiicraaduioriunì causa postulai, narrctur. Obest lum,
quum ipsius rei gcslae evpositio magnam eveipit olfcnsiouem, quam
argiimciilando et catisam agendo Icniri oporlcbil. Quoti quum ucciderli,
membra- j tini opurlebil parlcs rei gcslac dispergere ili cau- i
sani, clad imam quaiuque coulestim ralionem ac- j cotnuicdarc, ul vulneri
praeslu mcdicamcnluin sii, | se si Iralasccrà non pure ciò
che nuoce, ma eziandio ciò clic nè nuoce, uè giova; e se ogni cosa si
dirò solo una fiala; c se si causerà di ricominciar da quello, da cui si
sarà finito. Molti allucinano nel seguire la brevità, sicché quando hanno
fantasia di esser brevi, sono per coulra lunghissimi, perché danno opera
a dir molte cose alla breve, nou ai dirne al postutto poche, e non piò
che non bisogna. E infal li credono molli che saria breve chi
parlasse cosi: Fui alla casa. Chiamai il servo. Rispose. Chiesi del
padrone. Mi disse che era ruori. Costui, eziandio che lame cose non polea
dire piò brevemente di cosi, lunaria, perchè bastava aver dello;
Rispose che era fuori, diventa lungo per le troppe cose. Laonde anche in
questa parie si vuol evitare d’i.-nitar una falsa brevità, c si dee
astenersi non meno dalle cose non necessarie, che dalia moltitudine
eziandio delle parole. Aperta potrà essere la narrazione, se sarà esposto
prima ciò clic prima addivenne, e ai manterrà l'ordine delle cose e
dei tempi cosi che le coso sien narrale come cltellivamenlc sono addiv enute, o
come pare che lo potessero essere. E qui s'ha a veder bene clic
uiciilc sia dello alla confusa, niente c»n istiracchiatura; clic non si
sdruccioli in co«c estranee, clic non si ripigli il dello prima, clic non
si vada innanzi fino allo stremo, qualora sia inol io alla causa;
elio non si trapassi nulla di quanto s’atlicue al fullo:in somma ciò che sopra
alla brevità si è prima insegnalo, anche in questa parie si dee ritenere
del lutto. Perocché avviene di frequente che una cosa é poco inlcsa più
per la sua lunghezza che per la oscurità della narrazione. Anche si vorrà
far uso di parole ciliare; ma di questo in' incontrerà di dire nei
precelli clic darò sopra l'elocuzione. Sarà probabile la narrazione, se si
troveranno in essa quei seguali che sogiiuno manifestarsi nella verità; se si
conserteranno i caratteri delle persone; se sussisteranno le cause dei
falli; se si parrà cho l'agente avesse copia di agire; se si
mostrerà clic al fallo che si narra il tempo fu acconcio, lo spazio
sufficiente, opportuno il luogo; se la cosa sarà relativa alla natura di
quelli clic vi avranno parie, c al reslanle del volgo, e
aU'opinionc degli uditori. Per queste ragioni potrà il racconto esser anche
verisimile. Conterrà inoltre considerare pur questo, che non s'ha a far
narrazione si quando nuoce, c si quando non giova, o clic non s'ha a farla
fuori di luogo, o diversamente da quel che la causa richiede. Nuoce, allorché
la dipintura del fallo é esposta a qualche grate contrarietà, clic
argomentando c trillando la causa sarà necessario di miligarc. Quando
avverrà il caso che nuoca la narrazione, si dovrà il fallo distribuire a
parie a parie nell' orazione, e et odium stallar, detonilo miligct. Nihil
prodcsl ilari alio lutti, quum aut ab advcrsariis re cvposita, nostra
nihil interest itcrum, aut alio modo narrare ; ani quum ab iis, qui audìunt,
ita tcnctur uegoliuni, ut nostra niliil intersit cos alio paolo do. cere.
Quod quum accideril, ninnino narratione supcrsedcndum est. Non loco
dicitur, quum non in ca parte orationis collocalur, in qua res postulai ;
quo de genere agcmus lum, quum de dispostone diccmns; iijiii hoc ad
disposiliimem pcrtinet. Non quemadnindiim caus i postulai, narratur, quum
aut id, quod adversario prodesl, dilucidc et ornate cvponilur, aut id,
quod ipsum adiuvat, oliscure dieilur et ncgligcnter. Quare, ut hoc litium
vitetur, omnia turquenda sunt ad commodum suae causac, contraria, quae
praclcriri poterunt, praclercundo, quac illius eruut, leviter attingendo,
sua diligcnler et cnodalc narrando. Ac de narratone quidem salis dicium ìidclur
; dcìnccps ad parliiioncin Irauseamus. Rrcle habila in causa
parlilio illustrerò et pcrspicuam totani cllìcil oralioncin.
Parlcscius sunt duae, quarum ulraqoc magno opere ad apericndam caosam, et
constitucndam pertinct controversiani. l'na pars est, quae quid cimi ad
versa riis convelli, il, el quid in controversia rclinqualur,
oslendil; et qua certum quiddam deslinalur auditori. in quo animimi dclical
bobere oceiipalum. Altera est, in qua reruni carimi, de quilius
crimus dicltiri, brciilcr eiposiiio poniliir dislribula ; ci qua
connciiur, ut ceri -s animo rcs tcncai auditor, quibus diclis inleliigal roro
peroratimi. Nunc ulroquc genere parlilionis quemadmodum convcnlat uti,
brevitcr dicemlum videtur. Quae partilio, quid convenial, ani quid non
convcnial , oslendil, dace debel itimi, quod convenil, inclinare ad suae
causac commodum, hoc modo : Inlerfeclam malrcin esse a lilio convenil mihi
cum advcrsariis. lem conica : iiiierfeclom esse a Olytaenineslra
Againemnonem convenil. Nam liic ulerque et id posuil, quod convcniebat, cl
laincn suae causac commodo consuluit. Deinde, quid controvertiae sii,
ponendum est in imlicalionis esposilione ; quao quemadmodum invenirelur, ante
dicium est. Quae aulcin parlilio rcrum dislribularum conlinet ciposilioncin ,
haec Iutiere dolici brevitaicui, absoliitioiiem , paacilalcni.
Itrciilas esl, quum uisi neccSsarium imi lum adsumilur ver
soggiunger loslu a ciascuna parie la sua ragione giiislilicaliva,
acciocché alla ferita sia subito in pronto In medicina, e ciò che olleude
sia miligaIn dalla ragione che tosto lo giuslillca. Non giova la
narrazione, quando essendo csposlo il fallo dagli avversarli, non è di nessun
momento il ripeter noi la slessa cesa, ancora clic in altro modo; o
quando quelli che ascoltano si conoscon dell'alfa, re co.) bene, che
importa nulla che noi lo porgiamo loro a sapere con olire parole. Allorché
dunque imballerà questo caso, s> dovrà affittii omettere la narrazione. È
essa fuori di luogo quando si colloca in ultra parie della orazione da
quella che il fatto esige; ma di ciò tratteremo quando si parlerà
della disposizione, a cui questo caso si riferisce È falla la narrazione
diversamente da quel che richiede la causa, quando o si espone con
chiarezza c adornalo ciò che prolilla all'avversario, o diciamo oscuramente c
alla spensierata ciò che dee far prò a noi slcssi. Il perchè, a voler che
questo difello non intervenga, si dee pie gare ogni cosa al vantaggio
della noslra causa, causando delle cose sfavorevoli le più clic si possa,
e facendo di attinger alla rieisa ciò che fa all'avversario, e narrare ciò che
fa a noi con diligenza e lucidità. Della narrazione mi pare aver dello
abbastanza; ora facciamoci alla partizione. La partizione, quando sia ben
falla, dà lustro e chiarezza a tutta la diceria. Issa ha due parli,
di cui ciasc 1 1.1 conferisce troppo bene a chiarir la ragione dell i
causa c (issare la conlrovcrsia. La prima di qiieslc parli dimostra i punii,
in cui si è in concerto con gli avversari, e i punii che si
lasciano alle parli da dover d-ballcre; nel che ci si licite come ad
assegnare all'uditore la parte di che la sua attenzione si dee
frammettere. L'altra è quella, io cui cun brevi parole si spnngonn
divisalamentc le cose, di cui siamo per ragionare; di che viene, che l’uditore
coirà a conoscere quelle date cose, ragionale le quali sa che l'orazione
dee esser finita. Ora, come si convenga far uso di quesle due parlile,
verrò dicendo sotto brevità. La partizione moslru quello in cui le
parli accordano, e quello in cui no. L'oralorc dee però acconciare
l'accordo al taniaggio della propria causa; «ciò egli farà, dicendo: Che
la madre sia siala uccisa dal (iglio, io accordo con gli avversari!. E
cosi per conira: Accordo io già che Agamennone sia sialo morto ila
Clilcnneatra. In questo dire l'uno c l' altro avversario toccò un pillilo
di comune accordo, c nondimeno provvide al prò della propria causa.
Dipoi, quanto v’è di coulro verso dee collocarsi là dove si spone il
punto da giudicare; c del controverso come venga a rilevarsi, si è già
delio di qui addiclro. La seconda parie, lium. Ilare in hoc genero ideirco
est utilis, quod rebus ipsis cl parlibns causac, non verbis ncque
cilrancis ornamenlis animus auditnris tencndus est. Absolulio csl, per
quain omnia, quac ioeidunl in causam, genera, de quibus diccudum csl,
arapleclimur. In qua parli Mone lidendum csl, ne aut aliquod gcnus utile
rclinqualur, aul sero dira parlilioncu),id quod viliusissiinum
aclurpissiinum csl, inferalur. Paucilas in partilione scrvalur, si
genera ipsa rerum pnnunlur, ncque periuiilc cum parlibus implicaniur. Nam
genus csl, quod plurcs partes ampleclitur, ul animai, l’ars est, quac
subosl generi, ul cquus. Sed saepe eadem res alii gcnus, alii pars est.
Nam homo animalis pars csl, Thebani aul Troiani gcnus. liaee ideo
diligcntius ìnducilur pracscriplio, ul aperte in'cllecla generali partilione,
paucilas gcucrum in partilione scrvari possil. Nam, qui ila parlilur;
Oslendain propler cupidilalcm cl audaciam et avariliam adveisariorum
omnia iocommodu ad rem publicam pervenisse; is non inIcllcxil in parlilione,
«posilo genere, parlem se generis admiscuisse. Nam genus est omnium
niinirmn l.bidinuin cupidilas ; eius autein generis sine dubio pars est
avaritia. Hoc igitur vilanduin csl, ne, cuius genus posucris, eius siculi
aliquam diversam ac dissimilem parlem ponas in eadem parlilione. Quod
si quod in gcnus plurcs incident partes, id quuin in prima causac
parlilione eri! simplioilcr expositum , dlslribucliir lemporc co
rommodissime, quuin ad ipsum venlum crii oiplieandum in causae diclionc post
parlilioncm. Alquc illud quoque pcrlincl ad paucilalem, ne aul
plura, qoain salis csl, demouslraluros nos diranius, li io modo : Oslendain
adversarios, quod arguimus, et potuissc faeere, el v*duissc, el
fccìs* se; nam fecisse salis csl osleuderc : ani, quum in causa
parlilio nulla sii, et quum simplex quiddam agalur, tamen ulamur
dislribuliouc; id quod perraro polesl aceidere. Ac suoi alia quoque pracccpia
parlilionum, quae ad hunc usum oralorium non laido opere perlincant, quae
vcrsanlur in pliilosophia, ex qmbus liacc ipsa Iranslulimus, qiuc
convenire videbanlur, ipioruin niliil in ceteris arlibns invciiicbamus Alquc
bis de parlilione praeceplis, in omni diclionc meminisse oporlebil, ul cl
prima qiiaequc pars, ul espusila esl in parlinone, sic ordine iran-igatur; cl
omnibus esplicali* peroratimi s i hoc modo , ul ne quid
posteriu» cioè dire quella che conlicno la sposiiione delle cose
divisale, dee esser breve, intiera, parca. È. breve, quando non si
pongano parole olire le necessarie. Questa qualità della partizione è
utile per ciò, clic l'addizione deU'uditore bassi a fermare per mezzo
delle cose stesse c delle parli della rausa, non per mezzo delle parole nè di
ornali estranei. È iutiera quando abbracciamo tulli i punii che
cadono nella causa, e de'quali bassi a ragionare. In questa dote della
partizione deesi aver l'occhio che o non si ommetta qualche punto
vantaggioso, o non si introduca troppo lardi fuori della partizione, il
elio è difello molto vizioso e da vergognarsene. È parca la partizione,
se vi si toccano I soli generi delle cose senza impigliargli e intrigare
delle loro specie. È genere quello che conlicno in sè più specie, come
animale. È specie quella che è soggetta al genere , come cavallo.
Ma sovente la stessa cosa da dii è adoperala per genere, da chi per
ispecie. E infatti uomo è specie di animale, è genero di Tcbano o Troiano.
Questa regola si vuole perciò inculcar bene, perchè inlesa clic siasi
chiaramente la partizione generale, si potrà serbare in essa la parsimonia
delle parli. Poiché chi facesse la parlilione cosi: Mostrerò clic, colpa
la cupidigia, l'audacia c l’avarizia degli avversarli, vennero addosso
alla repubblica tulli i malanni: costui non si avviserebbe che dopo
esposto il genere ei mescolò nella partizione una specie di esso genere.
Perocché la cupidigia è un geuere che abbraccia tutti i desideri i
sfrenali, c l'avarizia è senza dubbio una specie di qucslo genere. Si dee
dunque guardarsi che quando è posto il genero non si ponga nella slessa
partizione la sua specie, come se fosse una cosa diversa, che non avesse alcuna
somiglianza col genere. Clic se nel genere cadranno molte specie; poi
clic si sarà esposto il solo genere nella prima partizione della causa,
si potrà a ludo agio scompartirlo nelle sue spcc c allora che si verrà a
(rattare di esso nel corpo della causa dopo la partizione. Inoltro si spella
anello questo alla parsimonia, voglio dire, che non promettiamo di dimostrare
più di quello clic basta, coinè sarebbe: Mostrerò che gli avversarii e poterono
fare, o vollero, c fecero quello, di elio io li accuso; poiché il
mostrare elio fecero è quanto fu: ovvero che qualvolta la causa non
patisce partizione, e si traila un alTur semplice, non dobbiamo divisarlo
in partile; ma queslo caso non può occorrere che assai di rado. Ci
sono altri precetti circa la partizione, uia che non si roiifamio gran
fallo con questo uso oratorio, porcili spellano alle cose di filosofia, lo uè
ho qui recali quelli che mi parte fossero il raso, e clic noli
(rovai in nessun altro trattalo di retorica. praclcr conclusionem
inferatur. l’artilur apud Tercnlium brevi ter et commode scnci in Andria,
qua e cognoscere libertum veli! :t Eo paolo et gnati vilam, et consilium meum
Cognosces, et quid Tacere in hac re te velim. a Itaquc quemadmodum in
parlionc proposuit, ita narrai, priimim guati vitam : a Nam is
pnslquam exccssil ci cpbcb ; s, Sosia... a Delude simin ennsilium
: Dipoi ciò eli’ egli pensa : o E di presente a questo io penso In
line ciò ch’ei vuol fatto da Sosia, il che dice da ultimo perchè l’espose
in ultimo nella partizione: « Or egli è ufficio tuo Come dunque
esso vecchio trattò per prima in parie che pose prima nella partizione, e
finito di ragionarle tutte, fece line, cosi sta bene a noi pigliar per
mano secondo ordine i membri della partizione, e solo dopo svoltili
lutti, farsi a conchiudcrc. Ora è da venire ai precetti circa la confermazione,
secondo clic richiede l'ordine finora tenuto. La confermazione è quella,
per la quale la orazione col mezzo dcH’argomcnlarc aggiunge fede e autorità c
fermezza alla nostra causa. Iti questa parte della orazione v'ha alcune
regole determinalo, le quali saranno sparlile c applicate alle
singole specie di causa, quando se ne Irallcià. Nuli di manco non torna
qui inopportuno mettere innanzi una certa selva, ro'dirc un ammasso
sfolgoralo di tulle le forme ili argomentazione, clic finora non erano altro
clic un miscuglio, clic un disordine, e poscia insegnare come sia da
farsi la confermazione in ogni maniera di causa con tutte quelle
formo di argomentare clic fra queste si saranno pigliale. Ogni asserto si
conferma con le argomentazioni clic si traggono o dalie circostanze clic
si riferiscono alle persone, o da quelle cheai falli. Alle persone si riferisce
il nome, la ualura, il vivere, la condizione, la dispostezza, l'affczi iuic,
gli sludii, i disegni o intenzioni, i falli, gli accidenli, il discorso.
Il nome è quella appellazione clic si dà ad ogni uomo, pen ile sia chiamalo con
proprio c dclcrminalo vocabolo- La naluia è cosa forte a definire: più
facile è annoverare quelle patii di essa ilio a porgere questi
nostri prerclli soli di bisogno. Parli siffatte son proprie, alcune
della specie divina, alcune della specie nius ; cognatione, quibus malori
bus, quibus consanguineis: actate, pucr an adolesccns, nalu grandior an sene*.
Praelerca commoda et incommoda considerantur ab natura dala animo aul
torpori, hoc modo: valens an imbccillus; longus an brevis; fon ’osus an
deformisi telox an lardus sii; aculus an licbctior ; memor au oblis io^us ;
comis, oIRciosus, pudens, paliens, an conlra. Et omnino, qnao a natura
danlur animo et corpori, considerabunlur in natura. Nam quac
industria comparantur, ad habitum perllncnt, de quo poslcrius est
dicendum. In vielu considerare oporlel, apud quos, et quo more, et
cuius arbitrali! sit cducalus, quos habuerit arliuni liberalium
magislros, quos livcndi pracceptores, quibus amicis ulalur, quo in ticgolio,
quacslu, artifìcio sii oecupatus, quo modo rem familiarem adminislret,
qua consuetudine domestica sit. In fortuna quaeritur, scrvus sii an liber,
pecuniosusan Icnuis, privalus an cum polestalc : si cum poleslaie, iure
in iniuria; Mix, eiarus, an conlra ; qualcs libcros liabcal. Ac si
de non vivo quaerctur, cliarn quali morte sit adfcclus. crii
considcrandum. Habitum autem appellamus animi aul corporis constanlem el
absolutam aliqua in re pcrfcclioncm, ut virlulis aut arlis ali cuius
pcrci ptionem, aut quamvis scicntiam , et item corporis aliquam
eominodilalem non natura dalam, sed studio el industria parlarli.
Adfcclio est animi aul corporis l-i tempore aliqua de causa commutal
o, ut taclilia, cupidilas, rnctus, molestia, morbus, debililas, et alia, quac
genere in codem rcpcriunlur. Studium est aulem animi adsidua el vcliemcns ad
aliquam rem applicata magna cum lolunlale occupatili, ut philosopliiac,
poèlicao, geometriae, littcrarum. Consilium est aliquid facicudi, non
faciendivc escogitala ratio. Farla alilem et casus et orationes iribus e*
temporibus considerabunlur : quid fcccril, aut quid ipsi acci'
derit, aut quid diserit ; et quid facial, quid ipsi acridi!, aut quid
faelurus sit; quid ipsi casurum sii, qua sit usurus oralionc. Ac personis
quidem bore vidcnlur esse attribula. umana. Quelle
della specie umana, altre si coniano nell'uomo, altre nelle bestie. Quelle clic
nclFuorno, sono il sesso, o virile o muliebre, la nazione, la patria , la
parentela, l'età: la nazione, se è greco o barbaro; la pairia, se
Ateniese o Sparlano; la parentela, cioè dire quali ha antenati ,
quali consanguinei; la clà, se è fanciullo o adolescente, se adulto
o vecchio. Si riguardano oltracciò i comodi o le incomodità che son date, dalla
natura all' animo o al corpo, quali sono l'csscr l'uomo possente 0
debole; lungo o orlo; bello o brullo; veloce o lardo; acuto o ottuso;
memore o smemorato; dolce, obbligante, verecondo, pazicnlc, o
all'opposto. In somma quelle qualità che son date dalla natura all' animo o al
corpo si vorranno considerare per palli di essa natura: giacché le
qualità che si acquistano coll'Industria sospettano alla vlisposlezza, di
cui s'ita da dire dappoi poco. XXV. Nel vivere ò uopo osservare presso
cui l'uomo fu educato, a quali coslumi, ad arbdrio di chi, quali
maestri abbia avuti delle arti liberali, quali precettori della maniera
di vivere, con quali amici egli usi, di quali faccende, di quali guadagliene,
di quale prie si frammetta, come amministri il patrimonio domestico, quali
usanze c modi ci tenga in casa. Quanto è alla condizione, s'ha a vedere
se l'uomo è servo o se libero, se bene o se male accivilo di danaro, se
privalo o in uIHcio pubblico; e dato clic in ulllcio, se vi fu eletto, 0
se vi s'intruse; se felice, se nominato, n all'opposto, se i suoi Agli sono di
buona o di malvagia qualità. E se si parlasse di un trapassato, si
dovrà vedere di qual morto c’iiniva. Dispostezza o abito si appella
una cosiamo e assoluta perfezione dcll'aiiimo o del corpo in una cosa, come
sarebbe la conoscenza pratica di una virtù o di un'arte, ovvero una
scienza qualunque, e similmente una qualche dote del corpo, non impartita
dalla natura, ma acquisita con lo studio e l'industria. Affezione è ogni
mnlanza che succede improvviso o nell'animo o nel corpo, originala da
qualche causa, come allegrezza, desiderio, paura, moleslia, malattia,
debolezza, 0 altrettale. Studio è un'assidua e forte occupazione dcll'ouinio
intorno a qualche cosa, accompagnata con grande inclinazione di volontà,
come sarebbe intorno a filosofia, a poesia, a geometria, a erudizione.
Disegno n inb-nzioiic diccsi un avviso pensato di fare o non fare
alcuna cosa. I fatti la ultimo, gli accidenti, 1 parlari vogliono
considerarsi relativamente ai Ire tempi, cioè attendere clic cosa altri
abbia già fatto, che gli sia intervenuto, che abbia detto; che cosa
faccia, che gl'inlcrvenga, che dica; clic sarà per fare, che per
avvenirgli, che discorso sarà per lenere. Tutto questo si riferisce alle
persone. Negotiis aulem quae sunl atlributa, partim sunl contincnlia rum
ipso ncgolio, pari irn in gestione negotii consideranlur , parlim
adiuncia negolio sunl, parlim gcstuni ncgotiiim consequunlur. Conlinenlia
cum ipso negolio sunl ea, quae semper adlìxa esse vidcnlur ad rem, neque
ab ea possunl separari. Ei bis prima est brevi compieaio totius negolii,
quae summam cominci facli, hoc modo: Pareniis occisio, palriae prodiiio;
dein de causa cius summae, per quam el quam ob rem et cuius rei
causa factum sii quaerilur; deinde ante geslam rem quae farla sinl,
conlinenlcr usque ad ipsum negolium; deinde, in ipso gerendo ncgolio quid
aclum sii ; deinde, quid pò- le a factum sii. In gestione autem negolii, qui
locus sccundus eral de iis, quae negnliis atlributa sunl, quacrctur
locus, lempus, occasio, modus, facullalcs Locus considcralur, in quo res gesta
sii, et opporluuifalc , quam videatur liabuissc ad negolium
adminislrandum. Ea autem opporluuilas quaerilur ei magnitudine, immollo,
longinquilalc, propinquilale, solitudine, cclcbrilale, natura ipsius loci
el «icinilate lotius regionis ; ex bis etiam allribulionibus : sacer an
profanus, publicus an privalus, alicnus an ipsius, de quo agilur, locus
sii aut fueril. Tcmpus est autem id, quo Dune ulinaur ( uam ipsum quidem
generallter defluire difllcile est ), pars quaedam aelernilalis cum
ulicuius annui, mensurni, diurni, noclurnirc spalii certa signiflcatione.
In hoc et quae praclcrierinl consideranlur; el eorum ipsorum, quae
propter velustalem obsolcterinl, ut incredibilia tidcanlur, et iam
in fabularum numerum reponanlur;cl quae iam diu gesla et a memoria nostra
remota, lamen faciant (idem «ere tradita esse, quod eorum monumenla certa
in lilteris exslent ; et quae nupcr gesla sint, quae scire plerique
possinl ; el ilem quae instenl in praesentia, et quae quum maxime
flant, et quae consequanlur. In quibus polest considerari, quid ocius et quid
serius fulurum sii. El ilem communiler in tempore perspicicndo
longinquilas cius est considerando. Nam saepe oportel commctiri cum tempore
negolium, el «Mere, potueritne aut magnitudo negolii aut mullitudo
rerum in co transigi tempore. Considcralur aulem lempus et anni et mensìs el dici
et noclis et vigiline el borac et in aliqua parie alicuius borimi. Quanto poi alle circostanze che si riferiscono
ai falli, parte di esse son congiunte col fallo stesso, parie si riconoscono
nella gestione del fallo, olire sono come una aggiunta, altre vengono in
conseguenza del fallo. Congiunte con esso sono quelle che se nc stanno
costantemente appiccale al fallo, senza che le si possano da esso
dispiccare. Fra queste la prima i il breve sunto che contiene la somma
del fallo, per esempio: La uccisione del padre, il tradimento contro la
patria: la seconda è la causa di quella somma, per la quale si cerca
quale sia il movente, e quale lo scopo del fallo: la terza è il cercare
quali sicno gli antecedenti che avvennero sino all' istante del
fallo: la quarla £ il vedere clic si fucessc nell'ano stesso di trascinar
quell’azione; in One il cercare che si facesse dappoi. Circa alla
gestione del fallo, clic è la seconda tra le specie di circostanze che si
riferiscono alle cose, si cercherà quale ne fosse il luogo, il tempo, la
occasione, il modo, la attitudine di citi lo trascinò. Per luogo s'
intende il dove fu operalo, rclalivamenlc alla opportunità che
offerse di poterlo maneggiare. Questa opportunità si cerea di trovarla nell'
ampiezza del silo, neU'intervallo, nella lunghezza, nella
prossimità, nella solitudine, nel bazzicarvi la genie, nella natura del
luogo slesso, nel suo vicinare col rcslo della contrada. Ccrcherassi
l'opportunità eziandio in questi altri caratteri del luogo; ac esso £
ovvero fu sacro o profano, se pubblico o privato, se d’altrui o di quello
stesso, di clic si traila. Il tempo quale £ quello che noi usiamo oggi
(poiché il definirlo in generale £ malagevole), £ una parie deli’clernilà, che
porla seco la speciale significazione dello spazio annuo, del mensile, del
diurno o notturno. Quanto al tempo si dovrà considerare le cose
passale; e fra queste si daranno a credere per false c da ripor Ira le
favole quelle clic per vecchiezza sono andate In disuso; e quelle
altresì che furono operate pezza fa, c che son venule a quasi non
si sapere; le quali però si mostrerà che son vere, e che la tradizione
che le rapporta è giustificala da monumcnli non dubliii che restano
tuttavia nelle storie; e quelle inoltre che furono fatte di fresco, e che
possano per ciò essere a molti sconosciiilc; e similmente quelle che
addivengono in presente, c quelle che il più spesso, c quelle che
poscia seguiranno. Tra queste ultime si può far attenzione quali più
tosto, e quali saranno più tardi per accadere. Arrogo, clic quando bassi
ad argomentare dal tempo, convien d' ordinario por mente alla
lunghezza di esso; poiché incontra sovente che si debba coinmisu rar con esso
la cosa, e vedere se in un dato andare di esso polessc essere dalo
spaccio a un affar di rilevanza o a molte Occasio aulcm est pars lemporis
Imbens in se alicuius rei idoneam faciendi aul non faciendi
opporlunilaiem. Quarc cum tempore hoc differì : nam genere quidem ulrumque idem
esse iiitelligitur ; vcrum in lemporc spalium (|uodam modo
deelaralur, quod in anni», aul in anno, aul iu aliqua anni parie
spcrlalur , in occasione ad spalium lemporis faciendi quacdain
opporlunilas inlelligilur adiuncla. Quare quum genere idem sii, fit
aliud, quod parie quadam cl specie, ul dixiinus, ditterai. Haec disi ributtar
in Iria genera, publicum, communo, singolare. Puhlicum esl, quod
clritas universa aliqua de musa frequentai, ul ludi, dies feslus,
belluin. ('.orninone, quod accidil omnibus codcm fere lemporc, ul messis,
sindemia, calor, frigus. Singolare aulcm est, quod aliqua de causa
privatilo alicui solcl accidere, ul uupllac, sacrillcium, funus,
convivium, somnus. Modus aulcm est, iu quo quemadmodnm cl quo animo
factum sii, quaerilur. Kius parics sunl prudenlia cl imprudenlia. Prudenliae
aulcm ratio quaerilur ex iis, quae ciani, palam, vi, persuasione feceril.
Imprudenlia aulcm in purgationem ronferlur, cuius parics sunl Inseienlia,
casus, neeessilas, cl in adfeelionem animi. Ime esl, tnulcstiam, iracundiam,
amorem, cl celerà, quae' in simili genere vcrsanlur. Facullalcs sunl, aul quibus
facilius fit, aul siile quibus aliquid ronfici non potosl. Adiunclum
negolio aulem jd inlelligilur, quod majus, el quod iniiius, el quod
sìmile, eril ei negolio, quo ile agitur, el quod aeque inagnum, el quod contrarimi),
cl quod disparalum, el genus et pars cl ciculus. Majus el minus el acque
magnum ex vi el ex numero et ex figura ncgolii, sicul ex sialura corporis,
consideratur. Simile aulem ex
specie comparabili : comparabile aulem ex conferenda aique adsimilanda
natura judicolur. Conlrarium esl, quod positum in genere diverso, ab
codcm cui conlrarium esse dicilur, plurimutn disiai, ul frigus calori,
vilae mors. Disparatuni nnlcm evi id, quod ah aliqua re per oppatilioncm
negalionis separalur, hoc modo: sapere, el non sapere. Genus esl, qund parles
ali quasampleclilur, ul cupidilas. Para osi, quae subesl generi, ul amor,
ovaritia. Kvenlus esl exilus cose insieme. Si fa aitarsi allenzionc al
tempo ri spello all'anno, al mese, al giorno, alla notle, allo
vigilia militare, all'ora, e ai ritagli di ciascuno di questi periodi.
Occasione è una parlila di tempo clic contiene in sè l'opportunità o
l'adatta congiuntura di fare o non fare alcuna cosa. Quindi da occasione a
tempo v’ha questo divario, clic sebbeoe c questo e quella son compresi
nello slesso genere, puro nel tempo si vieti a significare solo un
qualche spazio che si trova o in più anni, o in uno, o in qualche parie
di esso; laddove nell'occasione s'intende allo spazio dei letnpo aggi
mila una colale opporlunllà di fare. Epperò, tuttoché eguali nel genere,
diventano pure due cose differenti; perchè, come dello è, si
differenziano in una parie, ossia nella specie, che è l'opportunilà.
L'occasione si divide in tre, cd è o pubblica, o comune, o particolare. E
pubblica quella che si presenta bene spesso alla città intiera per
qualche ragione, come sono i giuochi, i giorni festivi, la guerra.
È comune quella che dà a tulli quasi nel tempo medesimo, come è la messe,
la vendemmia, il calore, il freddo. É particolare quando si presenta
privatamente ad alcuno per qualche causa, come sono le nozze, il sacrifizio, il
funerale, il convito, il sonno. Modo è quello, nel quale si cerca come
e con che intendimento è falla una cosa. Ila esso due parli,
prudenza c imprudenza. S'indaga inumilo alla prima badando a ciò che altri fece
di nascosta, in palese, con la forza, con la persuasione. La imprudenza
si risguarda come ragione giustiflconlc. e si divide in ignoranza, caso,
necessità; o si risguarda come affezione dell'animo, e si dipari le in
moleslia, iracondia, amore, e negli altri inoli interni dello slesso
genere. Attitudine è quella facoltà, per cui si fa con molta agevolezza alcun
che, o senza coi niente si può fare. È circostanza aggiunta al fallo ciò
che è di maggior importare o di minore, o simile al caso di clic si
Iratta, e ciò che £ egualmente grande, e ciò che conlrario, c ciò che disparata,
e il genere del fallo, e la specie, e l'avvenimento di esso; cose
tulio che per avere attinenza col fallo oifrono materia di
argomentazione. Come dalla sta tura si deduce la grandezza di un corpo, così
dal nerbo, dai punii, dalla forma dui fallo si conosce la
circostanza clic gli è maggiore, o che da meno, o che lo pareggia. Il
simile si rileva da specie che possono ira loro paragonarsi; e si può
paragonare ciò clic Ita natura suscettiva di confronto e di essere
rassomigliata. Conlrario è ciò che balle in genere diverso, e clic va
mollo di lungUla quello a cui si dire conlrario, come il freddo va lungi
dal calore, la morie dalla vita. Disparate dieonsi dite LI litio
I. alicujus negotii, in quo quocri solfi, quii) pi quoque re cveneril,
evenirli, cvrnlurum sii. Quarc hoc jn genere, ut commodius,quid eventurum
sii, aule animo colligi possi!, quid quaque ei re solcai evenire,
considerandum est, hoc modo: Ex adroganlia odium ex insoleoiia
adrogaqlia. Quarta aulem pars esl ei iis, quas negotiis dicchamus esse
allrihutns, consentilo. In Irne rae rcs quaerunlur, quae gcslum negotium
conscquuntur: primum, quod factum esl, quo id nomine appellar! coni miai;
delude ejus facti qui sin! prtneipes et invenlores, qui denique
aucluriialis ejus cl invcnlionis comprohalorcs alqoe aemuli; deinde ccquae de
ea re aul cjnsrci sii lev, consuclmlo, urlio, judicitim, scintila,
arliOcium; deinde natura cius evenire vulgo solcai au insolcntcr cl raro;
poslea lioinines id sua auclorilalc cnmproharc, an offendi re in iis
consueriol; et celerà, quae fariuin aliquod simililer confeslim, aul ex
intervallo solent Consequi. Deinde proscenio allendcudum esl, cium quae res
ci iis rebus, quae positae sunl in parlihus honcslalìs aul ulililalis,
consequanlur; de quibus in delheralivo genere causae distinclius crii
diccndum. Ac ncgoliis quidem fere res cae, quas commemoravimus, sunl
altribulac. Oninis auleta arguii» ulali", quae ex iis locis,
quos commetnoraviinus, sttnielur, aul probahilis, aul necessaria debt-bii esse.
Elcnini, ut breviler describamus, argumenlalio vidclur esse
Intenlum aliquo ex genere, rem aliquam aul pròbabiliter oslcndens, aut
necessarie demonstrans. Necessarie dcmnnslranlur ea, quae aliler ac
dicunlur noe fieri ncc probari possuul, hoo modo : Si pepcril, cum viro
concubuit. line gcnus argumentandi, quod in necessaria dcmonslralioncvcrsatur,
maxime Iraclal tir in dicendo atti per compleiionem, aul per enumerahoneni. aul
per simplicem eonclusionem. Coitiplcxiu esl, iti qua, uIrunt concesseris,
rcprchendilur.ad liunc modum: Si intprobus esl, c.ur uteri» ? si probus,
cur accusas ? Enumcralio esl, in qua pluribus rebus exposilis et ccleris
inlirmatis, una rcliqua necessario conlirntalur, hoc pacto: Neces.sc esl
aui iniiiiicitiarum cuu-a ab Itoc esse occialini, aul inclus, aut o più
cose die si separano l'ulta dall'altra per nte-: 10 di negativa, come
sarebbe: sapere, e non sapere. È genere ciò che abbraccia alcune specie,
come cupidigia. È specie quella clic è soggetta al genere, come amore,
avarizia. Avvenimento del fallo significa la sua riuscita, nella quale si
cerca ciò che sia avvenuto, ciò che avvenga, ciò che sia per
avvenire da una cosa qualsiasi. Epperfi, quanto a questo, perchè si possa prima
agevolmente comprendere dò che sia per avvenire, o die soglia avvenire da
una cosa qualsiasi, bassi a far deduzione a questo modo: Dall' arroganza nasce
l’odio, dalla superbia l'arroganza. Delle circostanze che, cotn'i dello,
s'appropriano ai falli, la quarla parte comprendo quelle clic al fallo
tengono dietro. Qui dunque si ccica lituo clic seguila poi clic 11 fallo
è venuto a compimento; c prima, di clic nome il fallo sia da appellasi;
di poi chi simo gii autori di esso c gli agenti precipui, e in fine
quali sieno quelli che approvarono e seguirouu l’ordinamento del fatto:
poscia si ceri Iterò qual sia la legge, sotto cui cade il fallo, quale la
usanza clic gli si oppone, quale l'azione giudiciaria, fi giudiciò, la
scienza, l'arte; poi se per sua natura ci suole accascare comunemente, o per
islraordinario c di raro; indi se le persone Itati costume di
auloriz. zarlo con l’approvazione loro, ovvero se esse di cose di
lai falla si olTmviono; e cosi si cercano vki via le altre cose che a
modo simile sogliono seguire o immantinente, o dopo qualche intervallo.
In fine decsi badare se consegnano di quelle cose che t si
riferiscono all" onesto c all’ ulile; ma di qucsle verrà di
discorrere più dislinlamcnlc, quando si tratterà della causa
deliberativa. Or queste clic si sun delle sono a un di presso le
circostanze proprie dei falli. Ogni argomculaziunc che piglierassi dalle fottìi
di qui addietro ricordale dovrà essere o necessaria, o probabile.
Perocché l'argomentazione è, per dirlo in breve, un trovalo di qualche
sorte, che dimostra con ragioni probabili o con necessarie una qualche
cosa. Si dimostra con ra gioni necessarie ciò che non può nè essere nè provarsi
divcrsamcnle da quello elle si dice, come sarebbe: Se partorì, dunque giacque
con un uomo. Questo modo di argomentare die versa nella dimoslrazionc
necessaria , si licite specialmente quando si parla o per dilemma, o per
enumerazione, o per sola conclusione. Dilemma è quello, in cui si ribalte
o l'un pittilo o labro che lu conceda; per esempio: S'egli è un malvagio,
perchè li vali di lui? se uomo probo, perchè lo accusi? Kniimerazione è
quella, in cui esposte più cuse, se uc conferma necessariamente una, dopo
aver mandale a nulla tulle le altre; ionie sarebbe : h no spei, 3ut
alicujus amici grafia; aul, si tiorum nihil esl, ab hoc non esse orcisum; nani
sine causa malelicium susceplum non polest esse. Sed ncque inimici) ac
ruerunt, ncc melus ullus, nccspcs ex morie illius alicujus commodi, ncque
ad amirum liuius aliqucm mors illius perlinrbal. Rolinquilur igitur, u) ab boc
non sii occisus. Simplex auiem conclusio ex neerssoria conscculione confi
cilur, hoc modo: Si vos me islud co tempore ferisse dicilis , ego aulem eo ipso
tempore trans mare fui, relinquitur, ut id, quod diritis, non modo non
fecerim, sed ne polucrim quidem Tacere. Alque hoc diligonlcr oporlebil
xidere, nc quo pa. cto genus hoc refelli possi!, ut ne conlirmalio modum
in se argumentaliouis solum habeat et quamdam simililudinem neccssariae
conclusionis, rerum ipsa argumenlalio ex necessaria ralionc consista).
Probabile aulem est id, quod fere sole! (ieri, aul quod iu opinione posilum
est, aul quod habcl in se ad lisce qtiamdam simililudinem, site id
falsum est, sivc veruni. In co genere, quod fere (ieri solel, probabile
buiusmodi est: Si mater esl, diligi! fllium: si avorus est, negligi! ius
iurandum. In co autem, quod in opinione posilum esl, buiusmodi sunl
probabili: Impiis apud inferos pocuas esse paratas; eos, qui philosopbiae
doni operali!, non arbitrari dcos esse. XXX.
Similitudo aulem iu coulrariiset paribus et ni iis rebus, quae sub camdrm
rationem cadimi, maxime speclatur. In conlrariis, hoc modo: Nani si iis ,
qui imprudciites laeserunl, ignosci ronvenil, iis, qui necessario
profucriml, liaberi gratiam non oportcl. Ex pari sir: Nani ut locus
in mari sine porlu naxibus esse non potrsl tulus. sic animus sine fide
stabills aniicis non polest esse. In iis rebus, quae sub eanulem rationem
caduul, boc modo probabile considcralur: Nani si Ilodiis turpe non esl
porlorium locare, nc llcrmarrconli quidem turpe est ronducere. llaec Ioni
vera sunl, hoc pacto: Quoniam cicalrix esl, fuit vulnus; tum veri similia
boc modo: Si mullus ei al iu calceis pulvis, ex ilinrre cum venire oporlebal.
Omnc autem ( ut certas qtiasdant in partes disiribuamus) probabile, quod
sumilur ad argumentalionem, aul signum esl, aut credibile, aut
indicatimi, aul comparabile. Signum esl, quod sub scusimi aliqucm cadil
et quiddam significai, quod ex ipso profectum tidclor, quod aul aule.
, Inerii, aut in ipso nrg u tio, aut posi sii eonsecu- ; lum, et
lame» iudigrt lestimouii et gravioris ron ressario ch’ei sia sialo
morto da costui o per motivo di nimicizia, o per motivo di timore, o di
sperarne, o per far piacere a un amico; o se non fu nessuno di questi
motivi, non fu dunque morto da costui; da che senza motivo non può esser
commesso un misfatto. Ma non vi fu nimicizia, non timore alcuno, non isperanza
chea quella morte rispondesse vantaggio, nò profittava essa a nessun
amico dell' uccisore. Resta dunque che e' non fu ucciso da costui. La
conclusione schietta si forma dalla conseguenza necessaria, a questo
modo: Se voi dito che io feci questo in quel tempo, e io in quel
tempo era oltremare, resta clic questo clic voi dite, non solo io noi
feci, ma neppur il poteva fare. Vorrassi altresì ben attendere che una
tatù conclusione sia fatta in modo clic per nessun verso non possa essere
ributtala, affinchè la confermazione non solamente abbia forma di
argomentazione, c come una scmbiauza di conclusione necessaria, ma si faccia in
effetto per ragioni clic necessariamente concludano. Probabile è ciò che
le più volle suol essere, o ciò che si opina che sia, o ciò che lia
in se qualche somiglianza col vero che determina la nostra opinione, sia
esso vero effettivamente, o sia falso. Quanto a ciò che suol essere, ecco un
esempio del probabile: se ella è madre, ella ama il figlio: se costui è avaro,
non si cura del giuramento. Quanto a ciò clic si opina die sia , il
probabile è questo : Agli empi nt-1l' inferno sta preparala la pena ; coloro
clic metlon opera alla filosofia non pensano che ci siano gli dei. La
similitudine si ravvisa specialmente licite coso contrarie, c nelle pari,
e in quelle clic cadono sotto una stessa qualità. Nele cose contrarie, a
questo modo : Se a quelli che offcscro senza avvertire , si conviene dar
perdonatila, a quelli che giovarono perchè non poterono a meno, non è
necessario aver obbligazione. Nelle pari, di questa maniera: Come nel mare un
silo che manchi di porlo non può prestar sicurezza alle navi, cosi
un cuore clic mauclii di fede non può esser costante in amar le persone.
Nelle cose clic cadono sotto una stessa qualità il probabile si deduce
cosi: Se i Rodiani non commettono disonestà a dar in affitto il pedaggio, neppure
Ermacreuntc noti commette disonestà a prenderlo in affilio. Il probabile
poi passa a verità quando si enuncia a questo modo: Poiché rimane
cicatrice, c'ci fu ferita: o a verisìmile, quan to si enuncia cosi : Se te
scarpe tencano di molla polvere, essa volea esser lolla sii nel viaggio.
Ogni I probabile ( per volerlo dividere in alcune parti determinate
) , clic si adopera per argoineiila; rione, o consiste in un segno , o in una
cosa firmaliouis, ut cruor,
Tuga, pallor, pulvis, et quae li js sunt similia. Credibile est, quod
sine ullu leste auditoris opinione firmalur, hoc modo: Memo est, qui non
liberos suos ìncolumes et beatos esse cupial. Judicalum est resadsensione, aut
aucloritalc, aut iudicio alicuius, aut aliquorum comprobala. Id trìbus in
generibus spectaiur, religioso, commu ni, approbato. Heligiosum est, quod
turati legibua iudicarunt. Coinmunc est, quod omnes vulgo probarunt
etsecuti sunt, huiusmodi: ut maioribus natu adsurgalur, utsupplicum
miserealur. Approbatum est, quod homincs, quum dubiurn essel, quale
haberi oporteret, sua constitucrunl aucloritate: rei ut lloratii factum a
popolo approbalum, quod occìdd sororem, quum illa deviclum Curiatium
hostem deflerel; vel ut Gracchi patria factum, quem populus Romanus ob id
faclum, quod insciente collega in censura nihil egissel, post
censuram consulem feci!. Comparabile autem esl, quod in rebus diversis similem
aliquam rationem contine!. Eius parles sunt Ires: imago, collatio,
eiemplnm. Imago esl oratio demonslrans corporum aut naturarum
simililudinem. Collatio est oratio rem cum re ex similitudine
conrerens. Esempi um est, quod rem aucloritate, aut casu alicuius
hominis, aut negotii confirmai aut infirmai. Ilorum esempla et descriptiones in
praeccptis clocutionis cognoscenlur. Ac fonsquidem confirmationis, ut facullas
tulit, apertus esl, nec minus di lucide, quam rei natura fercbal, demonstratus
est: quemadmodum aulem quaeque conslilulio et pars conslilutionis et omnis
controversia, sire in ralione site in scriplo versabitur, traeteli
debeai, et quae in quamque argumenlationes convenianl, singillalim in secundo
libro de uno quoquo genere diccmus. In praesenli lantummodo numcros et modos et
parles argumenlandi confuse et pernii Miro dispersimus; post descriple et
electe in geiius quodque causae, quid cuiquc convenia 1, ci liac
copia digeremus. Alque inveniri quidem omnis es bis locis argunienlalio
poterli: inventaro ciornari et certas in parles distingui et suavissirnum
esl, et suinroe necessarium, et ab artis scriplnribus maiimc negleclum. Quarc
et de ea praeceptioue nobis et in hoc loco dieendum visum esl, sii ad
inventionem arguincnli absolulio quoque argumcnlandi adiungerelur. Li magna cum cura et diligenfia locus
file omnis considerando esl, quod rei non solum magna ulilitas esl, sed
praecipiendi quoque summa difllcullas. credibile, o in una giudicala , o
iu una paragonabile. É segno ciò che cade soilo qualche senso e significa un
che, il quale par derivato da esso segno, c fu prima del fatto, o nella
gestione, o vrnne iu conseguenza di esso, ma che nondimeno ha uopo
di testimonio e di esser meglio confermalo, come è il sangue, la fuga, il
pallore, la polvere, e cose altrettali. E cosa credibile quella, cui l'
uditore si rappresela per si falla senza esservi indotto da alcun testimonio,
come sarebbe : Non *' ha nessuno che non brami sani, salti e felici
i suoi figliuoli. Il giudicalo i una cosa che vien renduta ferma e
immutabile o dall' assenso, o dalla autorità, o dal giudicio di una o più
persone. Questa specie di probabile è di tre maniere, religioso, comune,
approvato. Religioso ò quello che tiene stabilito da un giudicio fallo secondo
le leggi da persone giurale. Comune è quello che da lutti è
generalmente commendalo e seguila, coma sarebbe: clic si dee levarsi al
sopraggiungere di uomo attempalo; clic si dee aver pietà dei supplichevoli.
Approvalo i quello che, scndo dubbio se si dovesse aver in conio di bene
o di mal fallo, gli uomini stessi con la loro autorità hanno
stabilito in che conio si dovesse avere; per esempio: Fu approvato dal
popolo il fallo di Orazio che uccise la sorella, mentre essa andava in
pianto perchè era slato vinto il Curiazio nemica dei Romani; oppure fu
approvalo il fallo di Gracco il padre, tanto , clie il popolo Romano per
rimeritarlo di esso, cioè dire di aver nella censura operala ogni
cosa di ron-erlo col collega, dopo la censura lo fece entrar consolo.
Paragonabile è quello che in cose diverse pur contiene alcun che di
simile. Ila Ire parli: imagine, confronto, esempio. Imaginc è un
discorso che dimostra la somiglianza dei corpi o delle nature. Confronlo è un
parlare che conpara una cosa con un'altra per ragione del loro
assomigliorsi. Esempio è ciò clic conferma o abbaile una rosa con l’autorità, o
con l'accidente avvenuto a una persona, o col successo di qualche altare.
Di qucsle specie di paragonabile si vedranno gli esempi e una sposizionc piu
distesa là dove si daranno 1 precetti della elocuzione. Fin qui si
son messi in manifeslo i principii della conferma- • zinne, secondo che
io ho saputo fare, e illustrato con quella chiarezza elle domandala la
natura dell'argomento che trotini. Come poi debba maucg giarsi ogni
costituzione ed ogni parie di esia, e cosi ancora ogni conlrotcrsia, sia
die essa versi circa la mente dello scrillore, sia che circa le parole
stesse dello scrino, e quali argomentazioni calzino bene a ciascuno di
questi articoli, si vorrà dire sparliiamenlc nel secondo libro. Finora io
ho posto qua e là soltanto in ammasso c alla confusa Omnis igilur
argomentalo! aul per induclioneni (racla mia est , aul per
raliocinaliouem. Induclio est oratio. quae rebus non dubiis captai
adseusiones eìus, quicum inslituta est; quibusadsensionibus facil, ut illi
dulia quaedain res propter similitudincm carum rerum, quibus adscnsil,
probetur; velili apud Socralicum Aeschinem dcmonslrat Socralcs min
Xenopliuntis uxorc cl cum ipso Xcnnplionte Aspasiam locutam: Die milii,
quaesn, Xcnopliomis uxor, si vicina tua melius habeat aururn. quani tu
habes, utrum iltiusnc an luutu malis? Illius, inquii. Quid, si vestem et
cetiTuin oruatum mulicbrcin preti! maioris habeat, quain tu habes, luumnc
an illius, melisi Itespondil: Illius vero. Agcsis, inquii, si virum itla
indiorem habeat, quam tu habes, ulrunine luum virum malis, an illius? Hic
inulier erubuit. Aspasia autem sermonom cum ipso Xenophqule instiluil.
Quaeso, inquii, Xcnophon, si vicinus tuus equuin meliorem habeat, quain
tuus est, luumnc equuin malis, an illius? Illius, iuquil. Quid, si
luminili meliorem luibeal, quam tu habes, utrum tandem fondimi
Iutiere malis? illuni, impili, meliorem scilircl. Quid, si uxorcin
meliorem liabeal, quam tu habes, iilriim illius malis? Alque Ine
Xenoplion quoque ìp-e lacuil Posi Aspasia : Quoniam ulerque vestrùin,
inqud, id nnhi solum non respondil, quod ego sobilli uudire volucram, egomel
dicam, quid ulerque cogilel. ,\am el lu, uiulicr, oplimum virum vis balere, cl
tu, Xcnophon, uxoretn liaberc loclissimatn maxime vis. Quare, nisi hoc
perrecerilis, ul ncque vir mclior ncque femina liclior in lerris sii, profeo.lo
semper id, quod oplimuin potabili! esse, imillo maxime pcquirelis, ul cl
lo marilus sis quam oplimae , el lisce quain optimi) viro mipla sii. die
quum rebus non dubiis ossei ad*cn : um, factum esl proplcr simi li
numero delle argomentazioni, e i modi di farle, e le parli di esse: verrò
poi da dover (ulta questa materia disporre con ordine e sceltezza
rispetto a ciascun genere di causa c a ciò che a ciascuna causa si
conviene. Dal dello finora si potrà rinvenir ogni argomentazione clic fa d’
uopo; ornarla poi che si ì rinvenuta, c distinguerla uclle sue
parli, è cosa assai piacente a fare; senzachè è al sommo necessaria,
eziandio clic dagli scrittori di retorica affano niente curata. E per
questo Ionio ch'io trovo di dover qui dare alcuni preconi eziandio sopra
ciò, perciò dopo la invenzione dell’ argomento si venisse anche a sapere in
quali modi ci si debba pur adoperare. E questa parie vuoisi
svolgere tutta con mollo di attenzione c di esattezza, non pure perciò essa è
di grande utilità, ma ancora perchè è diOicilc assai il darne i precetti
relativi. Ogni argomentazione bassi a fare ri per induzione, o per
raziocinio. Induzione 6 un discorso, ii quale alle cose non dubbie accatta
l'assenso di colui con cui si parla; c la che per (aie assenso egli
approva una cosa dubbia per la somiglianza die passa tra questa e quelle, a cui
altre volte egli ha già dato il suo assenso. No dà un esempio Socrate
presso Eschinc, clic tu della sua scuola , là dove dice che Aspasia tenne
questo ragionamento con la moglie di Senofonte e con Senofonte istesso:
Diurni, di grazia, o moglie di Senofonte, se la tua vicina avesse più
bello fornimento d'oro che tu non hai, ameresti meglio il tuo, o
qucllu di colei? oh! quello di colei, rispose. E se porlasse il vestire c
l’altro ornalo muliebre di prezzo più vantaggialo che non porli lu,
vorresti le robe tue, o non più preslo quelle dì lei? Affò, rispose,
quelle di lei. Dimmi ancora, soggiunse, se ella avesse marito migliore
del tuo, vorresti il tuo, ovvero quello di lei? Qui la donna
arrossì. Aspasia poi rivolse la parola a Senofonte istesso, e gli disse;
Di grazia, Senofonte, se il tuo vicino possedesse un cavallo più
prestante die non è il tuo, vorresti anzi ii tuo, clic avere quello di
lui? Quello di lui, rispose. E se possedesse un fondo che avesse miglior
essere che il tuo non ha, vorresti piuttosto quello di costui? Si
certo, rispose, qucllu di costui. E se aresse moglie mi; gliure
della tua, quale brameresti delle due ? E qui lo stesso Senofonte si
tacque. Allora Aspasia: Giacché l'uno e l’altro di voi, disse, ciò solo
non mi rispose clic anzi era il solo elle io voleva udire, dirò io ciò
che voi due pensale. Tu, o moglie, vuoi avere il miglior di lutti i
mariti: e tu. Senofonie, la moglie di tutte migliore. Laoude, se voi non
giungerete a fare che non ci sia al mondo nò un uomo migliore degli
altri, nè una donna delle liludinem, ut etiam illud, quoti dubium
videbatur, si quis stqiaralim quacrercl, id proptcr rationcm rogandi conccderetur.
Hoc modo sermonis plorimum Socralcs usus est, propterca quod nihil ipsc
adrerrc ad perSuadcndum volcbal , sed ci co, quod sibi ilio dederat,
quiciim dispulabat, aliquid coufìcere malcbal, quod iJlejci co,
quod iam concessissel, necessario approb. ro debercl. Hoc in genere
praacipiendum nobis vi delur primum, ut illud, quod inducemus per
simillludinem, ciusmodi sii, ut sit necesse concedi. Nani ex quo
poslulabiimis nobis illud, quod dubiuin sit, concedi, dubium esse ìd ipsum non
oportebit. Deinde illud, cuius coniìrmandi causa Gel induetio, tidendum
est, ut simile iis rebus sit, quas rcs quosi non dubias ante induxerimus
(nam aliquid ante concessum nobis esse nihil proderit, si ei
dissimile crii id, cnius causa illud concedi primum xoluerimus) ; deinde
non inteltigal, quo sperlcnt illae primac induclionrs, et ad quem
sin! cxiluni porventurae. Nam qui vìdei, si ei rei, quam primo
rogetur,rectc adsensciil, illain quoque rem, tjuae Sibi displice.it, esse
necessario conccdcndam, plerumquc aut non respondendo, aut male
respondendo, longins rogalioncm procedere non siml. Quare rationc
rogationis imprudens ab eo, quod concessi), ad id, quod non sull
concedere, deduccndus esl. Evlremum autein aut taccalur oporlcl,
aut conccdatur, aut urgetur. Si negabilur, aut ostcndenda similitudo est carum
rerum, quae ante conccssae sunt, ani alia utendum induellane. Si
concedctur, concludonda est argumenlatio. Si tuccbilur, aut clicieuda responsio
esl, aut, quoniani lacitumilas imilatur confcssioncm, prò eo, ac si
concessum sit, concludere oporlebit argunienlationcm. Ha fu hoc gentis
argumentandi Iripertilum: prima pars ex similitudine constai una
pluribusvc; altera ci co, quod concedi volumus, cuius causa simililudincs
adhibilac sunt ; tcrtia ex conclusione, quae aut conGrmal
concessionem, aut quid ex ca conOciatur oslcndit. altre più egregia,
per fermo voi sempre agognerete ciò die slimìatc essere il migliore, voglio
dire che tu vorrai esser marilo della più prestante, e che costei vorrà
avere il più prestante per suo marilo. Qui dunque fu dato assenso a cose
non dubbie, cppcrò per ragione delia somiglianza avvenne che anche
quello, die saria partito dubbio a chi I* avesse cerco separatamente, fu
conceduto per certo per la somiglianza delle interrogazioni. Usò
più volte Socrate questo modo di ragionare, siccome colui che non volea da sè
proferir nulla clic conducesse a persuasione, ma amava meglio da
quello che gli porgeva la persona con cui dispulaia, trame una illazione
tale, che quella persona, appunto per causa di quanto avea concesso, dovesse
necessariaoienle approvare. Circa alla induzione, il pruno precetto che
io fo ragione di dover dare.'ù questo; clic li induzione che si fa per
similitudine sia (ale elicsi debba di necessità concedere. Non dovrà
punto esser dubbia la cosa, merci di cui domanderemo che sia dato
assenso a quella che è dubbia Inoltre c da ba dar bene che quello, in conferma
di clic si farà la induzione, sia simile alle cose clic avremo
innanzi rappresentale per quasi non dubbie ( giacchi non ei gioverà punto che
qualche cosa ne sia stala innanzi concessa, se a questa Ila
dissimile quella, per cui cagione avremo voluto che ne sia conceduta' la
prima ) ; dipoi s’ ha da provvedere che l'avversario non possa addarsi
dove vadano a batter le prime induzioni, c a quale uscita sieho per
venire. Conciossiacbi chi si accorgesse clic se darà assenso olla prima cosa
di elle è interrogato, dovrà necessariamente darlo altresì a quella
che gli ripugna, costui o col non rispondere, o col risponder male, non
lasccràebc la interrogazione se ne vada molto alla lunga. Laonde s'
ha da teucre una lai guisa d’interrogare, che l'avversario, senza clic vi
faccia pensiero, sia condotto da quello clic concesse a concedere
anche quello che non vorrebbe. Però I' ultimo punto della interrogazione
dee esser taciuto , o concesso, o negalo. Se lia negalo, allora o
deesi mostrare la similitudine che t’ha tra esso e gli altri punti clic
prima furono conceduti, ovveramentc deesi lar uso di nu'allra induzione. Se il
punto ultimo Ga concesso, si dee chiudere l'argomentazione. Se in Gne
sarà taciuto, o si dee fare di prò vocaruc come die sia la risposta,
ovvero, siccome il silenzio rassomiglia in ccr o modo alla confessione. si
dovrà venire alla chiusa dcll’argomcnlazionc appunto come se l’avversario
avesse risposto affermatitainenlo. Cosi questa maniera di argomentare viene ad
aver tre parti; la prima con- l.i di una o più similitudini, la seconda
consta di Seti quia non salis alicui videbilttr dilucitle demonstralum,
nisi quid ei chili causarum genere esempli subiccerimus, videlur eiusmodi
quoque Sitcndbm t^cVnpió' noti quo' pweceplio dilTeral, aul aiitcr hoc in
sermone atque in dicendo sii ulendum, se'd ut eorum volunlaii aqtis
Dal, qui, quoti allrjuo in loco viderunl, alio in t ‘ loco, Risi
mpnatratum.mequeSnt cognoscerc. Ergo in hac causa, qaoe aputTGraeeos
eaLpgnagala, quod Epaminondas, Thebanorum imperaler, ei, qui sibi
ci lege praclor successcrat, eiercilum non Iradidit, cl, quum paucos ipsc
dics conira legem oneri inni) lenuisset, Lacedaemonios funditus vici!,
poleril occupato* argumenlatione uli per inly^clioncm, quum scr : ptum legis
conira senlenliam defendat, jd hunc modum: Si, iudiccs, id, quod Epaminondas
ail legis scriplorem sensissc, as ribat ad legem, et addai Itane
ezceplionem: exira guani si quia rei publicae causa exercìlum non
tradideril, paliemini ? Non opinor. Quod ai vosmel ipsi, quod a vostra
religione cl sapienlia remolissimum est, islius honoris causa liane
eamdem eiceplionem iniussu populi ad legem ascribi iubealis, populus
Tliebanus id patieturne Aeri ? Profcclo non palietur. Qu«t, ergo ascribi
ad legem nefas est, id sequi, quasi aseriplum sii, recium vobis videalur ? Novi
veslram inlclligenliam; non polcsl ila voleri, iudices. Quod si lillcris
corrigi neque ab ilio neque a tobis scriploris voluntas polest, videle ne multo
intlignius ail, id re et iudicio vestro mulari, quoti ne verbo quidem
comrrttibiri polest. ,tc de inductionc quidem salis in prac^|tia dictuin
videlur. Nunc deinceps ratiocìnalionteyim et naluram considercmus. Ratiocinalio
est oralio ei ipsa re probabile aliquid eliciens, quod eiposilum el per
se cognilum sua se vi cl ralione conflrmel. Hoc de genere qui diligenlius
cousitlerandum pulaverunl quello che vogliamo ne sia
concesso, e per cui le similitudini si sono adoperate ; la terza contien
la chiusa, la quale o conferma la concessione o mostra che conseguenza se
ne può trarre. Ma poichi poiria sembrare a taluno che tulio questo non
fosse dimostralo con chiaroaza, ai ^ansassi dall' apparvi qualche poco
‘•d'csernjift trailo dalle cause di qualità civile, io vorrò pur addurle
un esempio adatto alla matc> ria, non perchè belle cause, sia diversa la
regola, di farej' induzione o nel linguaggio oratorio sia da farne
altro uso da quello che si fa nel filosofico, ma per àStjàr a' versi di quelli
che ciò che hanno veduto in un luogo non sanno ravvisar in un
altro, se loro non sia dimostro e fatto conoscere. Or bene, togliamo l'esempio
da quella causa che presso i Greti caper le bocche. Epaminonda comandante de*
Tebani non volle consegnar l'esercito, come era di legge, al pretore che
veiùvqgli "àufrogalo, e tenutolo cosi illegalmente alquanti giorni,
in questo mezzo ruppe di santa •ragione i Lacedemoni. Qui potrà
l'arcusalorc argomentar per induzione , difendendo quanto è scritto nella
legge ad onta del senso che vi si volesse sottintendere. Procederà dunque cosi
: Se Epaminonda, o giudici, aggiungesse alia legge ciò eh' egli
dice aver avuto in intenzione il legislatore , e vi affibbiasse questa
eccezione, che non è espressa: salvo il caso che tui capitano trovasse
esser d' utilità alla repubblica il non consegnare l'esercito a chi si spella,
ve lo comportereste voi? No, mi do a credere. Che se voi stessi ( il clic
troppo si dilungherebbe dalla vostra co scienza e saviezza) comandaste
che per onorare Epaminonda si dovesse aggiungere alla legge la
eccezione stessa, che della è, se ne starebbe forse contento questo popolo
di Tebe? Non se ne starebbe egli per certo. Ciò dunque che non si può
aggiungere alla legge vi par ben fallo che si metta in pratica come se aggiunto
già fosse ? So che voi siete persone d'intelligenza, e per questo
io credo che ben fatto, o giudici, codesto non vi debba parere. Che se
Epaminonda nè voi altri non potete per veruno scritto correggere la
volontà del legislatore, badale che saria cosa troppo più indegna
che voi con l'opera e giudicio vostro veniste a mutare quella volontà che
neppure con lo scritto non si può ni anehe correggere. Ma della
induzione mi pare aver detto abbastanza per ora. Entriamo a far parola
stilla forza e sulla natura del raziocinio. Raziocinio è un discorso che
dalla cosa probabile trae fuori qualche nuota proposizione, la quale
esposta che sia, siccome è nota per si, è confermata dalla slessa sua
forza e carattere, Digitized by Google
unno i. quum idem usu direnili scquerenlur, paullulum
in praccipicndi ralione disscnscrunt. Nani par litri quinque cjus partes
erse dixerunt, panini non plus quam in Ircs parici posse distribuì
putaverunt. Eorum conlrovcrsiam non incommodum vidclur cum ulrorumque ralione
ciponere. ft'ain cl brevis est, cl non ejusmodì, ut alteri prorsus nihil
diccre pulcntur, et locus hic n -bis in dicendo minime negligendo videtur. Qui
pulanl in quinque distribuì parles opurlcrc, nj uni primum
convenire cxponcrc summam argumcntalionis.ad liunc modum : Melina
accuranlur, quae consilio gcrunlur, quam ipjae siile consilio adininistranlur.
liane primam parlcm numeranl ; cain dedico ps ralionibus variis cl quam
copiosissimi! verbis approbari pulant oporlcre, boc modo : Humus ca, quae
ralione regilur, omnibus est inslructior rebus et apparalior, quam ea,
quae temere et nullo consilio administralur. Esercitila is , cui
praepositus est sapiens cl callido impcrntor, omnibus partibns commodius
regilur , quam is , qui slullilia et Icmcrilalc alicujus
adminislralur. Eadem navigli rollo est. Nam navis oplimc cursum
coniìcil ea, quae scientissimo gubcrnatorc ulilur. Quum proposilio sii
boc paclo approbala, et dnac parles Iransierinl raliocinationis, Icrlia
in parie ajunl, quod oslenderc velis, id ex vi proposilio* nis
oporlcre adsumcrc, hoc paclo : Niliil aulem omoium rerum melius, quam
omnis mundus, ad* minislraiur. Ilujus adsumplionis quarto in loco
aliam porro inducunl approbationem, hoc modo : Nam cl signorum ortus cl
obilus delinitum quemdara ordinem serrani, cl annuac commulalioncs non
modo quadam ex necessiludinc semprr eodem modo Qunl, veruni ad ulililalcs
quoque rerum omnium sunt accomodarne, et diurnao nocturnaeque vicissiludines
nulla in re umquam mutalae quidquam nocuerunl; quae sigilo sunl omnia non
mediocri qundam consilio naluram mundi adminislrari. Quinto inducunl loco
complcxionem cam, quae aul id inferi solimi, quod ex omnibus partibns cogitur,
boc modo : Consilio igilur mundus adminislralur: aul unum in locum
quum conduxeril breviler propositionem el adsumplio* nem, adjungil,
quid ex bis conlìcialur, ad lume modum: Quodsi melius gcrunlur ca, quae
consilio, quam quae sine consilio adminislranlur, nitrii aulem omnium rcrum
melius adminislralur, quam omnis mundus ; consilio igilur mundus
adminislraiur. Quinquopertilam igilur Ime paclo pulsiti esse argumentationem. Quelli
clic hanno posto più di csaltczza nel trattare su questa specie di
argomentazione, benché si attenessero nel discorso alla sostanza slessa,
si allungarono perù alquanto gli uni dagli altri nel sottoporla a regolo.
Alcuni dissero avere il raz n cinio cinque parli, altri non gliene
diedero più clic tre. i\on è dunque fuori di proposito clic io
venga discorrendo la costoro conlrovcrsia c le ragioni di clic e gli uni
e gli altri si avralorano, tanto più ch’cssa è breve, e uon di lai sorla,
clic non vi si trovi della cosa di qualche mollicelo; e d'allro
lato è una argomeutazionc elio ncll'arringarc non si vuol mcllorc in cesso.
Quelli clic stimano doversi il raziocinio dividere in cinque parli,
dicono che si conviene per primo pronunziare la somma dell'argomentazione, come
sarebbe: Meglio si procurano le cose elio si fanno dietro considerazione, di
quelle clic si fanno senza di essa. Que-un mi Mono in conto di prima
parte, e credono clic la si debba ili mano in innno comprovare tra con
ragioni varie c incisi assai abbondanti di parole. Foniamone questi
esempli : l.a casa clic ù diretta giudiziosamente è mollo più fornita
ili bisogni o di apparalurc clic non è quella , la quale è diretta
a capriccio e senza fior di buon senno. L'esercito che ha per capo un
uomo savio e sagace è regolalo per ogni verso più con vcncvolmcntc che
quello non è, il quale ha per sopracciò un midollonaccio temerario.
Dicasi lo stesso della nave; poiché la nave fa ottimamente il suo
corso, se 6 guidata da un pilota clic si cono sca bene dell'ano sua.
Comprovala clic sia ili que sio modo la proposizione, e toccale cosi due
parli del raziocinio, dicono clic nella terza parte si dee pigliare dal
forte ridia proposizione ciò che lu vorrai dimostrare, come sarebbe: Ma
di tulle cose nessuna è meglio governala elio il mondo universo. Di
qucsla nuova proposizione aggiungono pure la sua prova, a questo modo. Foicliè
il nascere c il tramontare, degli astri serba un ordine inalterato, e le
stagioni dell'anno noe solo succedono sempre allo stesso modo per quella
certa necessitò che loro ha imposta la natura, ma son altresì
accomodale all'ulile andamento di tulle cose, c le vicissitudini diurne e
nolturnc in nessuna parie mai minale non recarono mai di nocumrn 10 nè un
menomo che; le quali cose danno sicurtà che il mondo è governalo da
provvidenza non lieve. Danno il quinto luogo alla chiuso dcll'argoincnto,
la quale o ciò solo concliiude, che da tulle le parli si viene a
conchiuderc, siccome sarebbe : 11 mondo è dunque governalo con
provvidenza: ovvero allora quando e la prima e la secooda proposizione
saranno brevemente condoltc n far capo c conchiuderc, aggiunge la
illazione che da queliti Qui aulem Iripcrlilam esse dicunt , li non
aliler Iraclari puljiit oporlere argumenlationcin, srd parlitionem borimi
rcprchendimt. Ncganl cnim ncque a proposiliouc ncque ab adsumplionc
approbaiioncs caruin separar! oporlere, neque propnsilioncm absolulam ,
ncque adsumplionem sibi pcrfcctam vldcri, quac approbalionc coufirniala
ncn sii. Quare quas illi duas partes numcreDt, prnposilioncm cl
apprubalioncm, sibi unam partem vidcri, proposi lionem ; quae si
apprettala non sii, proposìlio non sii arguincutalionis. Item. quae ab illis
adsuinptio el adsumptionis approbalio diralur, eamdcin sibi adsumptionem solam
vidori. Ila (ir, ni cadeni raliouo argumentatio Iraelala aliis Iriperlila,
aliis qoinqiicpcr lila tidealur. Quare evcnit, ul res non lam ad
Usiim diccndi pei lineai, quain ad ralionem praeceplionis. .Nobis aulein
cormnodior illa parlilio vidclur esse, quae in quinque parlcs dislribula
est, quain omnes ab Aristotele el Tlieopbraslo profecli ma lime
seculi suiti. Nani queinadinuduni illud superius gcnus argumcntandi,
quoti per inducilonem sumilur, inastine Socralcs cl Socratici Iraclamnl, sic
hoc, quoti per raliocinalionem espolitur, stiniute est ali Arislolelc
alque a l’cripalclicis el Tlieopbraslo frequenlalum, deinde a
rlieloribus iii, qui cleganlissinii alqun arliliciosissimi pulali
sunl. Quare aulem nobis dia ruagis parlilio probetur, dicendum vidclur, nc
Icmere seculi pulemur; cl bretiler dicendum, nc in liujusmodi rebus diulius ,
quain ralio praecipiendi postulai, emumoremur. Si quadam in
argumcnlutione salis esl uli proposiljonc, el non nporlet adjungcre
apprabalionem propositioni, quadam aulem in argumcnlaiinne infirma esl
proposito, nisi adjuncla sii npprobalio, separnlum esl quiddam a
proposiliono approbalio. Quod enim el adjungi et separali ab aliquo
potasi, id non polcst idem esse, quod esl id, ad quod adjungilur cl a quo
separalur; est aulem qunedam argumenlalio, in qua proposìlio non
indigel approbationis, et quaedam , in qua le si Irac,
siccome sarebbe: Che se meglio vanno le cose che son governale da
provvidenza di quelle clic noi sono, e se di lune la meglio governala
è il mondo universo; il mondo adunque si governa per provvidenza.
Per queste ragioni erodono che il raziocinio sia divisalo in cinque
parli. Quegli altri poi che dicono esser il raziocinio di Ire parli, non
credono già che s'abbia da variare l'argomentazione: disapprovano le
cinque parli solo perchè non credono clic si debba dalle due proposizioni
sceverare le due prove, e trovano nè intiera la proposizione prima, nè
ben compiuta la seconda, so E una c l'altra non porla seco la prova
clic la conferma. Laonde mentre i faulori delle cinque parli fan due
parli distinte la proposizione e la prova, i faulori delle Ire riducono
queste due a ima sola, c la dicono ricisamente proposizione ; la quale se
non ha unita la sua prava, non è punto la proposta dell’argomentazione.
Similmente la seconda e la prova di essa , clic i primi dicono esser due
parli, i secondi ristringono a una parie sola. Da ciò deriva che un’argo
lucidazione per raziocinio, comechè (rullata nello slesso modo, da altri
è tenuta perdi tre, da altri per di cinque parti ; il che non lanlo
risgu8rda I' uso clic ne dee far l'oratore, quanto riguarda la
maniera di stabilire i precelli circa a questa malerio. Se ho a dir ciò clic io
senio, io trovo esser più acconcia la dislribuzione del raziocinili in
cinque parli, la quale fu seguila da quanti vennero dopo Aristotele
c Teofraslo. E elio quesli nomi perchè come l'argomcnlar che si fa per
induzione, di rhe è dello, fu seguilo da Soerate c da quelli della
sua sella, cosi questo argomentar clic si fa per raziocinio fu mollo di
frequente usalo da Arislolelc c dai Peripatetici c da Teofraslo, 0 poscia
da quei relori che furono de’ piò nominali per eleganza ed artifizio.
Quale sia poi l'itnpcrcliè, onde 10 approvo la partizione in cinque, fo
ragione di doverlo dire, a causi che non si credesse che io m’avventassi
in questa opinione senza pensarci sopra. Il farò uundimeno alla breve,
per non di morar in queste cose troppo piò che non richieda 11 mio
assillilo di sporre i precelli dell' arie che ho per mano. Se v' ha di
quelle argomentazioni in cui basta la proposizione sola, c non v’ è
mestieri soggiungerne la prova, c se per conira v’ ha di quelle che
ini Illudono una proposizione clic vacilla, c non regge, ove non le sia
aggiunta la sua prova, nc segue che la prova è un che di separalo dalla
proposizione. Perocché una cosa clic s'aggiungo a un' ultra, o che si separa da
essa, non può esser la slessa con quella a cui si aggiunge, o da
cui si separa. Ma c vi sono argomentazioni , mini valel sino approbalioue,
ul oslcndemus. Separala igilurcsla proposilione approbalio Ostendctur autem
iti, quod pollicili surcus, hoc modo: Quae proposilio in se quiddam
conlinct perspicuum, el quod slarc inler onmes nccessc est, liane velie
approbarc el Ormare nihil allinei. Ka est hujusmodi : Si, quo die isla cacdcs
ltouiac racla est, ego Allienis eo die fui, iu cacdc interesse non
po lui. Hoc quia perspicue veruni est , nihil allinei opprobari.
Quarc adsunii slatim oportcl, hoc modo: Fui auleni Allienis eo die. lloc si non
constai, indiget approbalionis ; qua iuduela, complctio coDsequeltir. Esl
igilur quaedam proposilio, quae non indiget approbalioue. Sani esse
quideiu quumdaui, quae indigeni, quid allinei oslendcrc, quod
cuivis facile perspicuum est? Quod si ita est, ex hoc, el ex co, quod
proposueranms, hoc coiiflcitur, separatum esse quiddam a propostone
approbalionem. Sin autem ila esl, falsum esl non esse plus quam
Iripcrlilain argumcnlalionem. Simili modo liquet allcram quoque
approbalio nem separalam esse ab adsumplionc. Si quadani io
argumenlalione salis esl uti adsumplionc, el non oporlct adjungcrc
approbalionem adsumptioni; quadam autem in argumenlalione infirma esl adsumptio,
nisi adjuncla sii approbalio: scpnralum quiddam exira adsumptiooem est
approbalio. Est autem argumculalio quaedam, in qua adsumplio non indiget
approbalionis; quaedam autem, in qua nihil vaici sino approbalionc, ul
ostendemus. Separala igilur est ib adsumplionc approbalio. Oslendcmus autem,
quod pollicili sumus, hoc modo : Quae perspicuam omnibus vcriialem
cominci adsumptio, nihil indiget approbalionis. Ea est hujusmodi : Si
oporlct velie sapere, dare operaci philosophiae convenil. Hacc proposilio
iudigel approbalionis ; non rnim perspicua esl, neque constai inler
omnes, proplerea quod multi nihil produsse philosophiani, plcrique ctiam
ohesse arbilranlur. Adsumptio perspicua osi; est cnim baco: Oporlct aulem
vello sapere. Hoc quia ipsum ex se perspicilur, el vergai esse
inlcliigilur, nihil allinei approbari. Quare slatim concludenda est
argumculalio. Est ergo adsumptio quaedam, quae approbalionis non indiget ; nain
quamdam indigere perspicuum esl. Separala est igilur ab adsumplionc
approbalio. Falsuin ergo est non esse plus quam Iripcrlitam
argumcnlalionem. in cui la proposilione non ha necessaria la prova,
e v’ ha di quelle, in cui la proposizione senza la prova non ha nessun
valore, come si dimostrerà. È dunque la prova una cosa separala dalla
proposizione. Or io dico, secondo clic ho qui promesso di dimostrare, che
una proposizione , la quale contiene iu se qualche verità evidente, c che
non può clic non sia da tulli tenuta per ferma, non ha necessità di
esser provata e ribadita. Jio sia questo un esempio : Se io era in Alene il
giorno in cui fu fallo a Roma questo gran taglio di gente, è cerio
che iu non mi vi poteva trovare iu mezzo. Quella proposizione che è
evidente, non ha bisogno di prova. So dee perciò porre in mezzo la seconda
proposizione, cioè : Ma in quel giorno io fui in Alene. Se questo non
consta, se ne dee dar la prova, e datala ne seguirà la conclusione.
V’ha dunque una specie di proposizioni che non hanno uopo di prova
: esservene poi di quelle clic ne hanno uopo, non imporla dimoslrarlo,
perché non c’è chi non se lo sappia. Che se cosi è, si per questo e sì
per quello che ho dimostralo, ne consegue che la prova è un che di separalo
dalla proposizione. E se questo é vero, dunque è falso che
rargomcnlazione per raziocinio non abbia piò che Ire parli. Per cgual
modo ì chiaro clic anche la seconda prova è separata dalla seconda
proposizione. Se in qualche argomentazione basta toccar la proposizione
seconda di per sè, c non è mesliero di aggiungervi la prova ; c in qualche
altra la proposizione seconda è debole, se la prova non le sia
aggiunta, ne segue che la prova seconda è audio essa un clic di separalo
dalla seconda proposizione. Mn v'ha argomentazioni iu cui la della
proposizione non abbisogna di prova, c ve »’ ha altre, in cui essa
proposizione non tal punto, se non sia provala, come si dimostrerà. È
dunque la seconda prova separala dalla seconda proposizione. Or io dico,
per dimostrare ciò clic qui ho promesso, che la seconda proposizione che
contenesse una verità a tulli evidente, non abbisogna di prova. Eccone un
esempio: Se preme di voler venire in sapere, e' si dee metter opera alla
filosofia. Questa proposizione ha bisogno di prova, perchè non è
evidente, nè tenuta da lutti per vera, essendo che molli sou di credere che la
filosofia non giova, c molli piò che anzi ella nuoce. Bensì è evidente la
seconda proposizione , cioè : Ma dee premere il voler venire in sapere. E
questa, perchè è una verità per sè patente e da lutti ritenuta per tale,
non abbisogna di essere comprovata. Si vuol quindi venir subito alla
chiusa dell' argomentazione. V ha dunque una specie di
proposizioni, parlando delle seconde , che non hanno mestieri di prova, c
ve n’ ha dì quelle che si »ede chiaro »eme mestieri. Dunque la proposizione
seconda è cosa separala dalla sua prora. Epperò è falso non potersi l’
argomentazione per raziocinio dividere in più che tre parti. Alque ex his
iltud jam pcrspicuum Da tutto questo si par chiaro che si est, esse
qnamdam argumcnlationem, in qua nc- dà una specie di argomentaiione, nella
quale ni i|uc propositio ncque adsumptio imligcat appro- 13 prima ni la
seconda proposizione ha bisogno hationis, hujusmodi, ut crrtum quiddam et
breve jj prora. Ne reco qui un esempio, brere, e che esempli causa ponamus:
Si summo opere sapien- sta garante di quanto io dico : Se si dee cercare
lia pe tenda est: summo opere stultitia vitanda di gran maniera la sapienza, si
dee di gran mais! : Summo aulem opere sapicntia pctcnda est : uiera guardarsi
dalla stoltezza : ma la sapienza si tummo igitur opere stultitia vitanda
est. tlic et dee cercare di gran maniera; si dee dunque guar udsumptio et
propositio perspicua est ; quare darsi di gran maniera dalla stoltezza. Qui si
la neutra quoque indiget approbatinne. Ex bisce prima che la seconda
proposizione £ una verità , omnibus illusi pcrspicuum est , approbationem
non abbisogna dunque di prora nè l'una nè l'altra, min adjungi, lom non
adjungi. Ex quo cogno. Di qua apparisce a chi che siasi che la prora ora
scilur ncque iu propositionc neque in adsum- si aggiunge, ed ora no; onde è
chiaro altresì quepliono contineri approbationem , sed utramque sto, che nè
nello proposizione maggiore, nè nella suo beo poiitam vim suoni tamquam
certam et minore non si contiene la prova lor propria, ma propriam
oblinerc. Quod siila est, eommodc che ciascuna di esse proposizioni posta a suo
luopartili sunt illi, qui in quinque partes distribuc- go ha una forza sua, che
ì come una determinata runt argumcnlationem. Quinque suoi igitur par-
proprietà. Clic s'ella è cosi, ben fecero coloro che Ics ejus
argumcnlationis, quac per raliocinatio- hanno divisa in cinque parli siffatto
argomcntaiieui tractatur; propositio, per quam locus is bre-_.zioue. Cinque son
dunque le parli della argoviter eiponitur, ex quo vis omnis oporlct cmanel
mcnlazionc che si conduce per via di raziocinio, ratiocinalionis:
proposilionis approbatio, per quam voglio dire: la proposizione maggiore, per
la id, quod breviter exposilum est, rationìbus adlir- quale si spone
brevemente il punto che contiene matum, probabilius et apertius IH ;
adsumptio, tutto il forte del raziocinio : la prova di questa per quam
id, quod ex propositionc ad ostenden- propositionc, per la quale ciò che
brevemente è dum perline!, adsumilur; adsumptionis approba- cspo-lo, e
ribadito con le ragioni , si rendo più tio, per quam id, quod adsumptum
est, rationi- probabile c più manifesto : la proposizione minobus firinalur;
corapiciio, per quam id, quod con- re, per la quale si pronunzia ciò che dietro
la fiuitur ex ornili argumcntalione, breviter esponi- maggiore bassi a
dimostrare: la prova di questa tur. Quac plurima» habcl argumcntalio
partes, ea minore, per cui si conferma con ragioni ciò che constai ex his
quinque parlibus ; secunda est qua- fu pronunziato : la conclusione, con cho di
corlu dripcrlita; lerlia Diportila ; deiu bipartita; quod si espone ciò
che risulta dall’ argomentazione inni controversia est. De una quoque parte
potcst fiera. Ogni argomentazione ha più parti : la più ulicui vidcri
posse consistere. numerosa conta le cinque prelato ; altre ne hanno
quattro, altre solo tre, c ve n' ha che non ne conta più clic due, ma
quest'ullima è in controversia. V ha chi crede che anche ci siano
argomentazioni di una parte sola Eorum igitur, quac Constant, esempla
Pertanto parlando dello parli del raponemus lioruin, quac dubia sunt, ralioncs
adfe- ziocinio da tulli adollalo, io ne verrò adduccndo remus.
Quinqucpcrtila argumcntalio est buiusmo- gli esempli; c di quelle che son
coiilroversc ne di : Omncs leges, iudices, ad commodum rei pu- porrò in
campo le ragioni. Il raziocinio di cinque blicac referre oporlct, et eas
ex militate communi, parli ò qui: Tullcquante le leggi, 0 giudici, si vonon ex
scriplionc, quac iu littcris est, inlerprclari. gliono riferire al bene della
repubblica, e intorba chini tirtulc et sapicntia maiorcs nostri lue- pretore
secondo il vantaggio comune, non seconrunt, ut in legibus scribcndis niliil
sibi aliud, ubi do che suonati le parole presentate dallo scritto,
salulem alque utililatcm reipublicac.proponcrcnl. Erano i nostri anhpassati di
tale sapienza c virtù, Neque eoim ipsi, quod ohcsscl, scribcre volcbant;
che nello scriver le leggi non si proponcano altro et, si scripsisscnt,
quum ossei intcllectum, repu- clic la salvezza cd il vantaggio della
repubblica, dialum iri legein iiilclligcbanl. Nomo enim leges Nuli
vulcano scriver cosa elio avesse potuto nuoIcgum causa salvas esse vull, sed
rei publicac. cere; esc pure l'avessero scrilla, conosccano come quod et
lcgibus omnes rem publicam oplime puiant administrari. Quam ob rem igitur Icges
servar! oporlal, ad eam causam scripta omnia inter prctari convenit: boc est,
quoniam rei publicac servimus, e* rei publicae commodo atqoe
utiiilate interpretemur. Narri ut ci medicina nihii oportet putire
proflcisci, disi quod ad corporis utilitatcm spectet, quoniam cius causa
est insliluta, sic a legibus niliil convcnil arbitrari, Disi quod rei publicae
conducat, proflcisci , quoniam eius causa suol comparane. Ergo in hoc
quoque iudicio desinile litteras legis perscrutari, et legem, ut aequum est, ei
utililate rei publicae considerate. Quid magis utile fuil Thebanis quam
Lacedaemonios opprimi r Cui rei magia Epaminondam The banorum
imperalorcm, quam vicloriae Thebanorum consulere dccuit? Quid hunc tanta
Tbebanorum gloria, taro darò atque cromato tropaeo carius atque antiquius
habere convenit? Scripto videlicel legis omisso, scriptoris sentenliam
consi dorare debebat. At hoc quidem salis consideralum est, nullam
esse legem nisi rei publicae causa scriptam. Summam igitur amentiam esse
eiistimabat, quod scriptum esscl rei publicae salutis causa, id non ei
rei publicae salute interpretari. Quod si leges omnes ad utilitatcm rei
publicae referri convenit, bicautem saluti rei publicae profuit, prorecto
non potest codcm faclo et comuiunibus fortunis consuluissc, et lcgibus non
oblemperasse. Qualuor auletn parlibus constai argumentatio, qtitint aut proponimus, aut
adsumimus sino approbatioue. M Tacere oportet, quum aut propositio
ex se inlelligitur, aut adsumplio perspicua est, et nullius approbatiunis
indiget. l’ropositionis approbatioue praetcrìta, qualuor ci partibus
argumcntalio tractatur, ad liunc tnodutn : ludiccs, qui ex lege turati
iudicalis, obtemperare legibus dibetis. Oblemporare aulem lcgibus
non potestis, nisi id, quod scriptum est in lege, acquattimi. Quodenini
ccrtius legis scriptor teslltnonium volunlatis suae relinqucrc
poluit, quatti quod i|»»c insieme clic ciò si Tosse inteso, la legge
sarebbe siala abolita. Nessuno
inTalli vuole conservalo le leggi perchè son leggi, ma perchè
conferiscono al bene dello Sialo, giacché luti! sono d'avviso ebe
per governare il meglio la repubblica fan di bisogno le leggi. Quale adunque £
il One per cui le leggi si deono mantenere, tale dee esser il One a
cui si vogliono interpretare tutti gli scrìtti che son di regola allo
Stato: voglio dire, che siccome noi ci adoperiamo in servigio della
repubblica, cosi dobbiam vedere d' inlerprelar le leggi secondo il
vantaggio e rutilili di essa. A quella guisa ette si dee credere non
altro venire dalla medicina, se non ciò che aspetta al ben essere del
corpo, perchè essa è per ciò appunto islituita; alla guisa slessa
si vuol credere che altro servigio non ne venga dalle leggi, se non
quello che concorre a mellcr In buon essere io Stalo, perchè per ciò
appunto osse furono stabilite. Laonde anche in quoslo giudicio lasciate, o
giudici, di ragguardar pel sonile le parole della legge; e voi Tjrctc cosa
più giusta e dicevole, se voi applicherete la legge secondo che profitta
alla repubblica. Qual piè vantaggio pei Tcbani, che quello di stremar la
potenza dei Lacedemoni? Quale altra cosa s’addiceva meglio a Epaminonda
comandante dei Tcbani, clic di arrabattarsi per la vittoria de'suoi? Che
altro potea quest’ uomo aver tanto caro ed accetto, quanto si sfolgorala
gloria dei Tcbani, e si cospicuo trofeo e si magnifico ? Certo a ciò
ottenere ei non polca che lasciare dall' un de’ (ali il testo della
legge, e por meole all’ inlcozione del legislatore. E per vero ei facea ragione
ebo non v’ Ita legge che non sia scrìtta per lo vantaggio della
repubblica. Slimava dunque essere un* avventata pazzia che quello scritto
medesimo, Il quale era fallo a vantaggio dello Sialo, s’ interpretasse a
diservigio di esso. Che se tulle le leggi si vogliono riferire al
vantaggio della repubblica, e se quest' uomo alla salute della repubblica bene
contribuì, cerio non è da inpulargli che ei disobbedissc alle leggi con quel
fallo stesso con cui provvido al ben essere dello Sialo intiero. Ha
quattro parli il raziocinio, quando è senza prova la proposizione
maggiore, o la minore, il che addivieneo come la maggiore s'intende di per sé,
o come la minore è si evidente che non ha necessaria alcuna prova. Quando
dunque la maggiore fa senza di prova, il raziocinio Ita quadro parli, e
si svolge in questo modo : Voi altri, o giudici, clic giuraste di giudicare
secondo la legge, dovete fare la felicità c il comandamento di essa. Ma
farlo voi non potete, se voi liuti se guitc ciò clic nella legge è già
scrino; poiché qual testimonio piè certo della sua volontà potea la magna
curii cura alquc diligcntia scripsit ? Quod si liucrai» non ezstarent,
magno opere eas requireremtis, ut ex iis scriptoris rolunlas cognoscerctur ;
nee tamcn Epaminondae pernii tleremus, ne si extra itnlieintn quidem
esset, ut is notiis sentenliam legis inlerprelaretur, netlum nune istum
patiamur, quuiii praeslo lex sii, non ex eo, quod apertissime scriptum
est, sed ci co, quod suae causar convenit, scriptoris roluntalem
intcrprelari. Quod si vos, ìudiccs, legibus olilemperare debelis, et id fanere
non potcslis, nisi id, quod scriptum est in lego, scquamìni, quid causaci est,
quin islum cuntra legnili fecisse iudicelis ? Adsumptionis aulenti
npprobalionc praeterita, quadripertila sic (ini argunicnlalio : Qui
saepcnuincro nos per Qilem f-fei I ir un t , eoruni uraliani ruleni
liabere non debemus. Si quid enim perfidia illorum detrimenti
accepcrinius, ricino erit praetcr nosmet ipsos, quem iure accusare
possimus. Ac primo quidem decipi incommodum esl; ilerunr, stullum;
terlio, turpe. Cartbaginenses aulem persaepe iam nos fcrellcrunt. Somma
igitur amentia est in eorum fide spem liabere, quorum pciQdia lotiens
deceptus sis. (Jtraquc approbatione praeterita, Iripertita (il, hoc parto: Aut
mcluamus Carlbaginienses oportet, si incolumcs cos reliquerimus; aut
corum urbem diruamus. Ac meluere quidem non oportet. Ueslat igdur, ut urbem
diruamus. Suiil onte in qui putant uounumquam posse complexione et
oportere supersederi, quum, id perspicuum sii, quod conficialur ex
ratiocinatione; quod si fiat, biperlilam quoque bari argumenlalionem,
Irne modo : Si pcperil, virgo non est: pcpcrit autom. Ilic salis esse dicunt
proponere et adsumerc, quoniam perspicuum sii, quod confici, itur ex
ratiocinalione ; quod si fiat, compleiionis rem non indigere. Nobis aulem
vidclur et omnis ratioeinatio concludenda esse, et illud vilium quod
illis displiccl, magno opere vilandum, ne, quod perspicuum sit, id in
complciiunem inferamus. Hoc autem
fieri poteri!, si comptexionum genera inteliigenlur. Nani aut ita
complccteuiur, ut in unum conducamus propositionem et ndsumptionem, huc
modo: Quod si leges omnea ad ufilitalem rei publicac referri convenil, hic
autem sciare il legislatore, se non quello di aver
egli scritta la legge con tutta la diligenza e la cura? Che se il
lesto della legge non si avesse alle mani, noi faremmo ogni potere di trovarlo,
per conoscere indi qual fosse la volontà del legislatore. E se noi non
pcrmclleremmo od Epaminonda che, ni eziandio nel caso che questo giudizio
non gli riguardasse, prclendcsse di voler inlerpretare il
sentimento della legge; mollo meno dobbiam permettere nel caso presente, in cui
la leggo è qui in pronto, eh' ei ci venga interpretando la volontà del
legislatore non già secondo quello che manifestamente è scritto, ma secondo
quello che risponde meglio alla sua causa. Che se voi, o giudici, dovete Tare
il comandamento delle leggi, e tuttavia noi potete, se voi non vi
atteneste a ciò clic nella legge è scrino, con quale appoggio voi
giudicherete che quest’ uomo non fece contro la legge? Quando poi la
proposizione minore fa senza di prova, il raziocinio è di quattro parli,
e si fa a questa maniera: Coloro che ne hanno piò volle rotta fede
non son degni che noi delle loro parole facciamo a fidanza con essi; poiché se
dalia perfidia loro noi abbiamo rilevalo alcun che di danneggioso,
non nè potremo giustamente corre cagione ad altri che a noi stessi.
Lasciarsi garabullarc una volta £ cosa incomoda; lasciarsi un’altra, è
sciocchezza; una terza, £ vergogna. Ma i Cartaginesi ne hanno gabbato delle
volle assai, e non tenutisi alla fedeltà. K dunque una matlezza avventala
Tare a sicurtà con quella fede loro, clic tenie volte nc ha perfidamente
IrufTati. Qualvolta si lascia i'una prova e l'altra, il raziocinio £ di
tre parli, come sarebbe: 0 cl conviene slar in timore dei
Cartaginesi, se concederemo loro incolumità, o ci conviene dar a terra la
città loro. Ma star in timore e' non ci conviene. Resta dunque che
ci convieuc darne a terra la città. XL. Ci son tali, che stimano
potersi talora, ed anzi dover fare a meno della conclusione, quando
sia di per sé evidente quale del raziocinio debba esser la uscita : e in
questo caso dicono di due parli il razionioio, che si enuncia cosi: Se
infantò, essa non è vergine: ma infantò già. Qui dicono esser baslevoli
le due proposizioni, perchè è chiaro a che devenga il raziocinio ; e in
questo caso non y’esser uopo di concludere. Quanto è a me, io son
di credere che qualsisbi raziocinio debba avere la sua conclusione; con
questa avvertenza però, che s'abbia attentamente da evitare il difetto
che dispiace pur a que’ tali, di introdurre nella chiusa ciò che £
evidente per s£. Si potrà evitare questo difetto, se si conosceranno bene
le varie specie di conclusione. Perocché ovvero si conchiuderà in
modo da abbracciar nella chiusa sì Cuna che l' al saluti rei pubbeae profuil,
profecto non polesl cotieni paclo et saluti communi consuluisse, et lcgibus non
oblempcrasse : aut ila, ut ci contrario couliciatur senlcnlia, hoc modo :
Summa igilur amentio est corutn in fide spem liabere, quorum
perfidia toliens deceplus sis: aut ila, ut id solimi, quoti conficitur,
infcratur, ad liunc niodum : Urbem igilur diruamus : aut, ut id, quod cam
rem, quac conficitur, sequalur necesse est. Id est Ini immolli : Si
pcperit, cuni tiro concubini : pcpcril aulem. Conficitur hoc: Concubuil
igitur cum viro. Hoc si nolis inferro, et inferas id, quod
sequilur: Kecil igitur incestimi ; et concluseris argumenlationem et
perspicuam fugeris complexiuncm. Quare in longis argumentalionibus aut et
conduclionibus, aut ex contrario, complecli oporlel: in bretibus id soluin,
quod coniicitur, exponcre, in iis, in quibus exitus perspicuus est,
consecutinnc uti. Si qui aulem ex una quoque parte putabuul constare
argumunlationcm, potermi! dicere saepe sali» esso hoc modo argumcntationcm
Tacere : Quoniatn peperit, rum tiro concubuil: nam hoc nullius iici|iic
approbationis ncque contplexionis indigere. Sed nobis ambignilale nominis
videnlur errare. Nam argumentatio nomine uno res duas significai,
ideo quod et iiiventum aliquam in rem probabile aut nccessarioni
argumentalio tocalur, eteius inventi artificiosa cxpolitio. Quando
igitur proferent aliquid huiusmodi: Quoniam pcpcril, cum tiro
concubuil, invcnlum proferent, non cipolitionem ; nos aulem de expolilionis
parlibus loquimur. xt.l. piiliil igilur ad liane rem
ratio illa pcrtineliit; otque hac distinclionc alta quoque, quac vi»
debuntur olilcere buie partitioni, propuUabimus, si qui aut adsumplonem
aliquandn tolti posse pulci, ani proposilinnem. Quac si quid habd
probabile aulnecessarium, quoquo modo eommoveat audiiorcm necesse est.
Quoti si soluni spcctarrinr, ac nihil, quo pacto Iraclorclur id, quoti
cs«ct excogitatum, referret nequaquani lanlum inlcr summos oratore» et
mcdiocrcs interesse oxislimaretur. Variare autem oralionem magno opere
oporlebil ; nam omnibus in rebus similitudo est salietalis ma
fia proposizione, come in questo esempio: Che se sia bene diesi
riferiscano le leggi tutte al ben essere della repubblica, e costui alla salute
della repubblica ita giovalo, certo ci non polca per la stessa
guisa e provvedere alla saiote comune, e farsi disobbcdienle alle leggi:
ovvero si conchiuderà in modo da trarne la chiusa dai contrario, come in
quest' altro esempio: fi dunque una maltcxza avventata porre speranza di
fedeltà in coloro, dalla cui perfìdia tante volle fosti raggirato :
oppure in modo da pronunciare ciò solo che si vien a concludere, come:
convicn dunque clic no diamo a terra la città: o in maniera da enunciare
ciò che segue necessariamente a ciò clic s'ò concluso; corno ili
questo esempio: Se quella tal donna partorì, certo ella giacque con un uomo :
ma partorì già. La conclusione i : Dunque giacque con un uomo. Cile
se non vuoi dir questa conclusione, e vuoi piuttosto enunciare ciò che ad
essa consegue, dirai: Commise dunque un incesto ; e così avrai
bensì concliiuso il raziocìnio, ma avrai schifalo la chiusa già evidente
da sè. Per lo clic nei raziocini! lunghi la chiusa si dee trarre o
dall'aggregato delle due proposizioni, ovvero dai contrario: nelle
brevi s'ha ad esporre solo ciò clic si conchiude ; e in quelle, in cui la
conclusione ì evidente, si dee pronunciare ciò che dal raziocin io ne
consegue. Se v’ Ita poi di quelli, che credano esservi raziocino anche di
sola una parte, costoro potranno dire clic basta sovente fare II
raziocinio a questa maniera : Ella ha partorito; questo è segno che giacque con
un uomo; poiché qui non v'ha bisogno nè di prova, nè di chiusa. Ma io fo
pensiero elle costoro sien tratti in errore dall'ambiguiià del nome,
poiché raziocinio è un nome solo, ma significa due cose. E infatti appellasi
raziocinio e il trovato probabile, o necessario, a favore o contro uu
che, c f artificioso raffazzonamento e pulitura di esso trovato. Quando
dunque enuncieranno a questo moiio: Poiché ella partorì, certo conobbe
qual» che uomo ; essi spolmono il trovalo, ma non la pulitura di
esso: in invece parlo delle parli della pulitura medesima. Non pcrliene
dunque ni tema eh’ io svolgo quella loro opinione ; anzi se mai ci sarà
ehi ctede-se potersi talora omettere la proposizione minore, o la maggiore, io
farò di confutarlo con la distinzione testé annunziala, e dissipare ogni
altro argomento che si combattesse con la partizione che ho
seguila. Dico intanto che se il raziocinio lidio sue proposizioni
contiene uu probabile o un necessario, ileo per uno o per altro modo
commuovere inevitabilmente l'uditore. Nondimeno, se si mirasse al solo
necessario o ai probabile, t non si facesse alcun caso del come si
tratlassc la ma Icr. Id Iteri palerii, ti non similiter scmper Ingrediainur in
argumcnlaiioncm. Nam primum oraninni gcneribus ipsis distinguere convcnit
oralioncm, hoc est, tura indnclioric uti, tura raliocinalionc. Deinde in ipsa
arguraenlatiunc nuli scraper a proposilione inciperc, ncc scraper quinquc
parlibus abuti, ncque cadcm ratione parliliones cxpolirc ; scd tura ah
adsumptiunc inciperc licci, lum ab approbationc alterutra, Iran utraquc,
tura hnc, lum ilio genere complexionis uli. Id ut perspicialur, aut
seribamus, ani in quolibct «empio de iis, quac propesila sunl, hoc idem
cicrceamus; ut quam Tacile facili sii Ac de partibus quidem
argunicnlalionis salis nubis dirlura videtur. Illud aulcm volumus
inlclligi , nos probe tenere aliis quoque rationibus Iraclari
argumentalioncs in pliipisnphia mullis el ubscuris, de quibus ccrtum est
arlilicmni conslitulura. Veruni illa nobis abhorrcrc ab usu oratorio visa
sunt. Quao pertincre aulem ad diccndum pillarmi*, ca nos coniraodius,
quam celeros, allendissc non adlìrmamus ; perquisilius et
diligcnlius conscripsisso pulliccmur. Nane, ut iiistiluimus, prollcisci
ordine ad rcliqua pergemus. Ucprchensio csl, per quam argumenlando
adversariorum coullrmatio diluilur, aut infirmatur, aut cteiolur. Ilare
Tonte invcnlionis codcm utelur, quo utitur confìrmatio, proplerea quod,
quibus ex locis aliqua res confirmari potcst, iisdem polcsl ex
locis infirmari. Nibil cnim considerandum est in bis omnibus
invenlionibus, nisi id, quod personis aut negotiis attributura est. Quare
invenlioucm et argumentalionum expolitioncm ex itlis, quac snlc
praecepta sunt, liane quoque in parlem orationis IransTcrri oportebil.
Verumtamen, ut quacdaui praeccplio detur liuius quoque partii, cipouenius modos
reprehensionis ; quos qui obscnabuut, facilius ca, quac conira dicenlur,
dilucre aut infirmare potcrunl. Omnis argunienlatio repreliendilur, si
aut ex iis, quac sinopia sunt, non concedilur aliquod unum plurale, aut, his
concessi!, complexio ci iis conGci ncgalur, aut si gcnus ip s uni
argumcnlatiunis «itiosum oslendilur, aut si contro firmam argumcnlaliunem
alia aeque firma tcria che s' ha in mento, non si crederebbe
che passasse quella si grande distanza che pur passa dai sommi ai
mediocri oratori. È poi di troppa necessità variare il discorso, poiché
in tulle cosa la somiglianza d madre di stucchevolezza. Detrassi variare,
se entreremo nell’ argomentazione ora d' uno, ora di un altro modo : perchè
innanzi a lutto conviene aver l' occhio di ornare il discorso con
la varietà delle argomentazioni, voglio dire, Tar uso ora della
induzione, ora del raziocinio. Inoltre nella argomentazione istessa non
va bene cominciar sempre dalla proposizione, nè sempre Tare, sto
per dir abuso, delle cinque parti, nè rafTazzonar alla stessa guisa i membri
deU’argomcnlaxiunc ; ma ora giova cominciar dalla proposizione minore, ora
dalla prova dell' una, o da ambe le prove delle due proposizioni, ora da
questa, ora da quella specie di chiosa. Perchè questo si possa ben
ullncìare e scorgere, Tacciamone prima una bozza di scrittura, cd
esercitiamoci in qualche csempio relativo alla materia che dobbiamo trattare :
Tatto questo, la varianza nel discorso ne verrà più agevole a introdurre.
Mi pare di aver detto a bastanza sopra le parti dell'argomentazione.
Voglio però che s’ intenda come io so bene che in filosofia le
argomentazioni si maneggiano per altri modi, che paiono oscuri, intorno ai
quali v’ha un sistema proprio di trattazione. Ma io credo che quei modi
non si conTacciano punto con gli usi oralorii. I modi che si debbono
seguire nelle orazioni io non dirò d'avcrli avvertiti meglio degli altri
; ben Tu Tede d'avcrli cerchi con più diligenza, e scritti con più
precisione. Ora, come ho proposto, passerò alle altre cose che sono
ordinatamente da dire. ConTulazionc è quella parie del discorso,
per la quale col mezzo degli argomenti si ribalte, o s'indebolisce, o si
scema la contermazionc degli avversarii. La cunTutazione dee attingere
allo stesso Tonte d'iiivcnlive, a cui attingono le prove, poiché per gli stessi
modi onde una cosa comprovasi, la si può altresì confidare. I’erò in queste
inventile si dee aver mira di non far uso se non di quello che può esser
appropriato alle persone o aile cose. Ond’è die anche in questa parte
dell'orazione si dee ripetere quanto s’è insegnalo prima circa al trovare
le argomentazioni e all’ a frazionarle come conviene. Nondimeno perchè anche
questa parte abbia in proprio qualcosa di regole, metterò innanzi i modi
onde si può fare la confutazione: i quali daranno all' oratore di polcrc
più leggermente ribattere e indebolire le obbiezioni che gli
fossero poste in mezzo. Si confula ogni specie di argomentazione col
ricusar di concedere uno o più puuli di quelli diedra pigliati per aut
flrmior ponilur. Ex iis, quae sumuntur, ali. quid non concedilur, quum
aut id, quod credibile dicunt, ncgatur esse oiusmodi, aul, quod comparabile
putanl, dissimile ostenditur, aul iudicalum aliam in partcm traducilur, aut
omnino iudicitim improbnlur, aul, quod signum esse adversarii dixerunl,
id eiusmodi ncgatur esse, aut si complexio aut una, aul ulraque ex parte
reprehendilur, aut si enumeratio falsa ostenditur, aut si simplex
conclusio falsi aliquid conlinere ilemooslratur. Nani omne, quod sumitur ad
argumenlandum site prò probabili sire prò necessario, neccsse est sumaturex bis
locis,ulante ostendimus. Quod prò credibili sumplum crii, id inflrmabilur,
si aut perspicue falsum eril, hoc modo: Remo est, quin pecuniam, quam
sapirnliam mali! ; aut ex contrario quoque credibile aliquid habebil, hoc modo:
Quis est, qui noti oflicii cupidior, quam pecuniacsil? aut erit omnino
incredibile, ut si aliquis, quem consto! esse avarum, dica! alieni)»
mediocris oflicii causa se maximani pecuniam neglexisse;aut si, quod in
quibusdam rebus ant hominibus accidit, id omnibus dicitur usu venire, hoc
paclo: Qui pauperes surit, iis anliquior officio pecunia est. Qui locus desertus est, in
eo cacdctn factam esse oporlet. In loco celebri homo occidi qui poluit ? aut si id, quod raro flt,
Aeri omnino negatur, ut Curio prò Fulvio: > Nemo potest uno
aspectu ncque praetericns in amorem incidere. > Quod autem prò signo
sumetur, id ex iisdem locis, quibus eoofirmatnr , inlirmabilur. Nam
in signo primum verum esse oslcndi oporlet; deinde esse eius rei signum
proprium, qua de agitar, ut cruorem caedis ; deinde factum esse quod non
oportuerit, aut non factum quod oportuerit; postremo scisse eum, de quo
quaerilur eius rei iegcm et consuetudinem. Nam eae res sunt signo
altributae ; quas diligenlius aperiemus, quum separatim de ipsaconieclurali
constilulione dicemus. Ergo liorum unum quidquc in reprehensione,
aul non esse signo, aut parum magno esse, aut a se potius.qusm ab
adversariis stare, aut omnino falso dici, aut in aliam quoque suspicionem
duci posse demonstrabilur. mano, o col negare, quando pur si
concedano, che si possa Irar da essi la pretesa illazione, o col
far apparire viziosa quella tale argomentazione dell’avversario, o se ad una
argomentazione forte se ne contrapponga un'altra egualmente forte, o più
forte di quella. Dei detti punti si ricu-a di concederne uno o più,
quando si oppone non esser credibile ciò che ci vien dato per tale, o
si mostra essere di specie diverse le cose che ci si vorricno dare
per paragonabili, o si devia il giudichi da un punto per fermarlo sopra un
punto secondario, o il giudicio stesso si riprova in lutto; o se si
nega essere indizio o segno quello che dagli avversarii si caratterizza per
tale, o se si ribatte la conclusione del raziocinio come non corrispondente ad
una o ad ambedue le premesse, o si mostra falsa la enumerazione, o si
dimostra che almeno la chiusa contiene alcun che di falso. Poiché
ogni punto che si adopera per fare l'argomentazione, sia rispetto al probabile
e sia al necessario, non può che non sia preso di qui, siccome addietro io
dimostrai. XUII. Ciò che ci sarà dato per credibile, si abballerà, o clic
evidentemente sia falso, come sarebbe il dire : Nessuno è che non ami meglio
il danaro che la sapienza; o che abbia qualcosa di credibile in
confronto del contrario, come se si dicesse: Chi v’ha che non abbia più voglia
di una carica,che di danaro? o che sia affatto incredibile, come
sarebbe se alcuno, clic si sa essere un gretto, una pillacchera, dicesse
d’avere un ufficio mediocre anteposto a una cospicua somma di danaro: o
se ciò che abbatte solo a certi uomini o cose si dicesse esser solilo
abbattere a lutti, come sarebbe il dire: Chi è povero ha più a caro il
soldo che non un ufficio pubblico. In luogo solitario dee certo
essersi commessa l’uccisione. In luogo frequentalo come potè un uomo
essere tolto di vita? o se quello che accasca di raro si dicesse che non
accasca mai, come disse Curio in quella a prò di Fulvio: a Nessuno può
lasciarsi andare in amore al veder di passaggio e a prima giunta una
persona. » Quando qualche incidente verrà preso per indicio e segno, esso
si abbatterà con quegli stessi argomenti, con che si avvalora. Perocché, la
prima cosa.deo mostrarsi ch’esso è segno vero; dipoi che i un segno
proprio della cosa di che si (ratta, come il sangue è segno di uccisione;
inoltre, che fu fallo ciò che punto non si doveva, o non fatto ciò
che pur dovevasi; da ultimo, che l’ accusato sapea troppo bene a che
legge quel tal fatto e a die consuetudine si opponeva. Queste son le
cose che si riferiscono al segno, delle quali darò più distinta
spiegazione quando mi verrà da parlare separatamente delle cause
congetturali. Or dico Quum autcm prò comparabili nliquld in ducetur,
quoniam iti per simililudincm maxime Iraclalur, in rcprehendcndo
convellici simile id negare esse, quod conferelur, ei, qnicum confcrelur.
Id Ceri poteri!, si demonstrabilur diversum esso genere, natura, vi,
magnitudine, tempore, loco, persona, opinione ; ac si, quo in numero
illud, quod per simililudincm adfcrelur, et quo in loco hoc, cuius causa
adferetur, haberi conveniat, ostcndclur. Deinde, quid res cum re
ditterai, demonstrabimus: ex quo doccbimusaliudde co, quod
eoniparabilur,et de eo,quicum comparab itur, exislimari oporlere. liuius
facullalis maxime indigemtis, qtium ea ipsa argumcnlatio, quac per indùclionem
Iraclalur, eril reprehendenda. Sin iudicalum aliquod inferelur, quoniam id ex
bis locis maxime firmalur: laude corum, qui iudicaruut;
similitudine eius rei, qua de agiiur, ad cam rem, qua de iudicatum est;
et commemorando non modo non esse reprebensum iudicium, sed ab omnibus
approbalum ; et dcmonslrando difilcilius et maius fuissc id iudicatum
quod adleralur, quam id, quod inslet : contrari» locis, si res aut
vera, aut veri similis permittet, inCrmari oporlebil. Alque crii
observandum diligentcr, ne niliil ad id, quo de agalur, perlincal id,
quod iudicatum sii ; et videndum, ne ea res proferalur, in qua sii
offensum, ut de ipso, qui iudicaril, iudicium (ieri videatur. Oportet
aulem animadverlere, ne, quum aliler sint multa iudicata, solitarium
aliquod aut ramni iudicatum adleralur. Nani bis rebus auctorilas ìudicali
maxime potesl inCrmari. Alque ea quidem, quae quasi probabilia sumentur,
ad Iiudc modum tentari oporlebil. Quae vero siculi necessaria
induccnlur, ca si Forte imilabuntur modo necessariam argumenlationem,
neque crunt eiusmodi, sic reprehendentur. Primum complexio, quae, ulrum
con adunque che nella conFutatione s’ha a dimostrare qualcuno
di questi punti, ciò sono, o quel tale non esser segno del Fallo, o
esserlo troppo lieve, o star a vantaggio dell' oratore più che degli
avversarli, o esser dolio segno Falsamente, o poter esso dar sospetto che
l atrare sia ben d' altra maniera. XLIV. Allorché vten posto in campo
alcun che siccome paragonabile, essendo che questo sì tratta per mezzo
della similitudine il più delle volte, converrà nella confutazione
asserire clic il paragonalo manca di somiglianza con quello a cui si
paragona. Il che si potrà fare, dimostrando che Fra l'uno e l'altro v’ha
diversità nel genere, nella natura, nella Forza, nella grandezza, nel
tempo, nel luogo, nella persona, nell' opinione; o dimostrando in qual
conio c pregio s'Im da tenere il punto che si reca per istituire la
somiglianza, in quale quello con die esso si vuol ragguagliare.
Dipoi si dimoslrcrà in che risieda la diOcrcnza da cosa a cosa; e di qui
si verrà significando altra essere l'idea che s'ha da avere di ciò che
paragonasi, altra l’idea di ciò con che quello si paragona. I)i questa qualità
d’argomentazione abbiam mestieri massime allora che saran da confutare
gli stesa! argomenti della induzione. Se verrà esposto qualche
punto già passala in giudicio, siccome esso si rafTerma c consolida o con
la lode di quelli clic giudicarono, o col mostrare la somigliania
che v'ha Ira la cosa giudicala c quella che trattasi attualmente, o col
rammentare che il giudicio non pure non ebbe biasimo, ma che anzi tulli
se no sono lodali, o col mettere a vedere che il punto giudicalo
era più rilevante c più difficile del paolo che non ancora ha subito il giudicio;
se verri esposto, dico, questo tal punto, converrà confutarlo col mezzo
de’ luoghi contrarli, secondo che il fallo o vero o vcrisimile lo
permetterà. Sarà altresì da attendere con diligenza che ciò che trattasi abbia
relazione a ciò die Fu giudicato, ma vedere che non si ripeta cosa in die il
giudice abbia posto il piede in Fallo e incespicalo, a causa che
non paia che si voglia Fare il giudicio delio stesso giudicatore.
Conviene anche osservare clic se molli punti furono diversamente giudicati, non
si alleghi qualche punta isolalo c non troppo solilo n venire in
giudicio; poiché per questa via si può addcbolirc l'autorità dd giudicio
che Tu fatto. A questo modo adunque converrà che sien maneggiati gli
argomenti che si allegheranno siccome probabili. XLV. Quelli poi
che si allegassero siccome necessarli, se per avventura imiteranno
l’argomentazione necessaria, senza però esser necessari), si confuleranno
di qucsla maniera. Innanzi a tutto cesserò, Betel lollerc, si «era esl,
numquam reprchendelur ; sin falsa, duobus moilis, ani conversione, aul alterius
parlis inflrroalione. Conversione, hoc modo: «Nani si vcri'lur,quid cum
accuies, qui est probus? Sin inverecundum animi ingenium possidet,
Quid eum accuscs, qui id parvi audilu acslimd?» llic, sive vereri diieris,
conccdcndum hoc pillai, ul neges esse accusandum. Quod conversione
sic reprehendetur : linmo vero accusandus esl. Nam si vcrclur,
accuses ; non cnim parvi audilu acslimabit. Si inverecundum animi ingenium
possidet, la me n accuscs; non cnim probus esl. Allcrius autem parlis
infirmaliono hoc modo rcprcheiidclur: Verum si vcrclur, accusalionc lua
corrcclus ab erralo recedei. Enumcralio vinosa intelligilur, si aul
praeterilum quiddam dicemus, quod velimus concedere, aut infirmimi
aliquid adnumcralum quod aul conira dici possi!, aul causa non sii quarc
non honeslc possimus concedere. Praclcrilur quiddam in ciusmodi
cnumeralionibus : Quoniam habes islum equum, aul cnicris oporlct, oul
hcreditale possidcas, aul muncre accepcris, aul domi libi ualus sii, aul,
si horum nihil est, surripueris neccssc est : sed neque enusli, neque
hcrcdilale venil, ncque doualus est, neque domi nalus esl ; Decesse
esl ergo surripueris. Hoc commode reprehendilur, si dici possil ex hoslibus
equus esse captus, cuiua predac seclio non venierii ; quo iliato,
infirmelur enumcralio ; quoniam id sii induelum, quod praeterilum sii in
enumeralione. Altero autem modo rcprchendilur, si aul conira aliquid
dicelur, hoc est , si esempli causa ut in eodem versemur, poteri! oslendi
hcrcdilale venisse; aul si illud estremimi non crii turpe concedere, ut
si qui, quum diserint adversarii : Aut insidias faccre voluisli, sul
amico morem gessisi!, aut cupfdilale clalus cs, amico se morem
gessisse faleaiur. Simplex aulem conclusio reprehenditur, si hoc,
quod sequilur, non videalur necessario cnm eo, quod anleccssit,
cohacrere. Nani hoc quidem ; Si spirilum ducil, vivil : Si dics esl, lucei
! ciusmodi esl, ut cum priore necessario posterius cohacrere
videalur. Hoc aulem: si maler est, diligi! : Si aliquando peccavi!, numquam
corrigelur ! tic convellici reprehendi, ul demonslrolur non ne
non si confuterà mai il dilemma, il quale da sè dee togliere o
l'uno o l'altro dei punii conceduti, se è dilemma vero; o se falso, si
confuterà in due modi, o invertendo, o abbattendo l'ima o l'altra
proposizione. Si inverle cosi: a S’cgli sente rossor, perchè l’accusi,
Mentre è da por fra i buoni ? Se affolli inverecondi in seno ha
chiusi, Perchè ne lo incagioni, Mentre d'aver infamia ei non si
cura?! Qui, sia che lu dica esser verecondo costui, sia che
inverecondo, l'avversario le lo concede, affinchè lu dica clic e' non si dee
accusare, àia lu confuterai cosi per inversione: Anzi ei dee pur
accusarsi, giacché se è verecondo, si dee, perchè non porrà a non calere
la infamia; e se nulre affolli inverecondi, si dee dot pari, poiché non è
punto persona proba. Se poi lu vorrai addebolire l’una delle due
proposizioni, dirai cosi: che s'egii è pur verecondo, venendosi per la
tua accusa a emendare, si cesserà dal suo fallo. La enumerazionc si parrà
difettosa, o se riporteremo qualche punto già omesso, il quale vogliamo
concedere, o se nell’enumerazione si sarà inserita qualche cosa mal
fondala, la quale o possa essere contraddetta, o non offra ragione perchè
onestamente la si possa concedere. Un esempio di punto omesso si ha
nella seguente enumerazione: Poiché lu hai questo cavallo, è inevitabile
elio tu o lo abbi compero, o acquistato in eredità, o avuto in dono,o che
li sia nato in casa: che se nessuna è vera di queste eose.lu lo del cerio
aver rubalo. Ma nè l'hai compero, nè acquistalo in eredità, nè avuto in dono,
nè ti è nato in casa; è necessario dunque che lu l'abbi rubato. La
confutazione qui viene a taglio, se si può dire che il cavallo fu (olio
ai nemici, ma clic non era compreso nella parte di preda che fu venduta.
Aggiunto che sia questo, la enumerazione verrà riballula per difettosa,
poiché s'é posto in campo un punto che v’era stalo pretermesso.
XLVI. Si fa la confutazione in secondo modo, se si contraddirà un qualche
punto, voglio dire, per attenermi all'esempio testé citato, se si
potrà mostrare che colui ebbe quel cavallo per eredità: ovvero se
un tal punto si potrà ultimamente concedere senza vergogno, come se, dicendo
gliavversarii: 0 tu hai voluto tender insidie, o fare a fantasia dell'amico, o
li se'lasciato vincere alla cupid già, si rispondesse: si, ha fallo a fantasia
dell'aulico. Si confuta la conclusione sola, se Cièche segue non sembra
legarsi necessariamente con ciò die precesse. Queste conclusioni: Se
respira, dunque vive; se è giorno, dunque è chiaro; son tali clic
il detto poi si lega necessariamente col detto prima: laddove queste: Se è
madre, dunque ella Cessarlo cum priore posterius cobaerere. Hoc genita cl
celerà necessaria, et omnino onmis arguinenlalio, el eius reprcliensio maiorem
quamdam vini cornine!, el lalius palei, quam hic esponilur; seti
eius arlilicii cognilio ciusmodi esl, ni non ad buius arlis parlem aliquam
adiungi possil, sed ipsa separatine longi lemporis et magnae alque arduac
cognilionis indigeni. Onore illa nobis alio tempore alque ad aliud
instilulom, si facullas crii, explicabuntur; nunc bis pracceplionibus
rbelorum ad usum oralorium conlcnlos non esse oporlcbil. Quum
igilur et iis, quac sumunlur, aliquid non concedilur, sic
iulirmabllur. Quum aulem, liis concessis, complciio ei bis non
conOcilur, hacc erunl considerauda : mi in aliud conficialur, aliud
dicalur hoc modo : Si, quum aliquis dical se profeetum esse ad exerrilum,
contro eunt quis tclil bac uli argumcnlalionc: Si venisses ad excrcitum, a
tribunis mililaribus visus esses ; non es aulem ab bis visus; non cs
igilur ad exercilum profcclus. llic quum concesseris proposilioncm ut
adsumplioncm, coinplexio est inlirmamla. Aliud enim, quam cogebalur,
illulum est. Ac nunc quidem, quo facilius res cognosccrelur, perspicuo el
grandi vitio pracdilum posuiwus ciemplum; sed saepc obscutius
posilum vilium prò vero probalur, quum aul parum meniiucris, quid concesseris,
aut ambiguum aliquid prò certo conccsseris. Ambiguum si concesseris
cs ea parte, quam ipse intcllexeris, eam parlem si adversarius ad aliam
parlem per complciioncm veli! accommodare, demonslrare oporlcbil non
ci eo, quod ipse concesseris, sed ex eo, quod ilio sumpseril,
confici complexionem, ad liunc mollimi : Si indigelis pecuniac, pccuniam non
babetis ; si pccuniam noti habetis, pauperes eslis : indigelis autem pccuniae :
mcrcalurae enim, ni ila cssel, operano non darelis : pauperes igilur
eslis. Hoc si rcpreheqdilur: Quum diccbas : Si indigelis pccuniae,
pccuniam non habetis ; hoc inlclligcbam : Si propler inopiam in egcslatc eslis,
pecuniam non habetis ; et idcirco concedebam : quum aulem hoc sumebas :
Indigelis autem pecuniac ; illusi accipicbam; Vullis aulem pecuniac plus
ha bere. Exquibus conccssionibus non coulìcilur hoc: I auperes igilur
eslis ; eonilcerelur aulem, si libi primo quoque bue conccssissem, qui
pccuniam maioreui velici babere, cum pccuniam non habcrc.
ama: Se una volta ha fallalo, dunque dal suo fallo non si
correggerà più mai ; converrà vengano confutate in modo che si dimostri
il detto poi non collegarsi col dello innanxi. Queste e le altre
argoinenlaiioni necessarie, ansi al tulio ogni argomentazione con le relative
risposte coufulaloric hanno una forza maggiore, e pigliano più del largo
clic qui non è dello; ma il conoscerne l'arlifizio è cosa che non si può
trattare in unione con veruna di queste parti della retorica,
perchè vorrebbe per se sola una trattala assai lunga, cd esigerebbe
di grandi c difficili cognizioni. A tema sifTallo io darò mano, se pure io ne
avrò il potere, quando me ne verrà acconcia altra occupazione: per ora
conviene ch'io mi stia contento a porger questi precetti retorici relativamente
all'uso che n’ ha da far l'oratore. Cosi dunque, come detto è, si
ribalteranno i punti clic non si vuol concedere. Qualora poi, concessi
che sieno i punii, non ne vien traila una cnnclusione che quadri,
si dovrà osservare se sia stato conchiuso diversamente da quello che
comportano le premesse; come in quesla argomentazione, dalo che un tale
volesse opporre a un lai altro che dicesse d’essersi mosso in via per
l'esercito: Se tu fossi venuto all'esercito, saresti stato veduto da'lribuni
militari; ma non sci stalo da loro veduto: tu dunque non ti
se'mcsso in via per aU'esercilo. Qui tu concederai la maggiore e la minore, ma
dovrai confutar ta illazione. Per dire il vero, a causa che si intendesse
meglio quello che io dico, ho qui allegalo un esempio che ha un difetto
grave o facile ad esser conosciuto; ma avviene di sovente che per essere il
difetlo poco riconoscibile, si piglia per vero quello che non lo é ; e
ciò avvidi quando o non avrai bene a memoria quali punii lisi conceduti,
o avrai conceduto per cerio quello che non era che ambiguo. Se
avrai concesso l'ambiguo in quella premessa che li era noia, conterrà che
l'avversario, se vorrà connettere quella premessa con un' altra per
mezzo d' una conclusione, dimostri che non dal punto che tu bai conceduto,
ma da quello elio egli ha introdotto si trae la conclusione. Per esempio
: Se bisognate di danaro, dunque voi non ne avete : se non nc avete,
dunque siete poveri: ma di danaro voi bisognale, poiché so ciò non
fosse non vi sareste dati alla mercatura : dunque sicle poveri.
Questa argomentazione si confuta cosi : Quando dicevi : Se bisognale di
danaro, dunque voi non nc avete, io ci capiva : Se per sostenere
inopia siete in bisogno, dunque non avete danaro; eper questo io
concedeva. Quando poi lu aggiungevi : àia voi bisognate di danaro; io invece
trovo clic dovevi soggiungere : Ha volete venir iu più Saepe autem
oblilum pulanl, quid concesseris, et idcirco id, quod non conficitur,
qnasi conficialur, in conclusione infertur, lioc modo: Si ad illum
hercdilas vcniebat, veri simile est ab ilio necalum. Deinde hoc approbant
plurimis terbis. Tosi adsmnunt: Ad illum autem hcredilas vcniebat. Deinde
inrertur: lite igilur occidil; id quod ex iis, quae sumpserant, non
conficitur. Quare
observare diligenlcr oportcl, et quid sumatur, et quid ex his
conficialur. Ipsum autem genus argumentalionis vitiosum his de causis
ostendelur, si aul in ipso viliuni crii, aut si non ad id, quod
inslituit, accommodatiilur. Atque
in ipso vitium crii, si omnino totum falsum erit, sì commune, si vulgare,
si leve, si remolum, si mala dellnitio, si controversum, si perspicuum, si non
concessimi, si turpe, si offensum, si conlrarium, si inconstans, si
adversum. Falsum est. in quo perspicue mcndacium est, hoc modo: Non polesl esse
sapiens, qui pccuniam negligi!. Socrates autem pecuniam negligebal:
non igilur sapiens crai. Commune est, quod pillilo magis ab adversariis,
quam a nobis fucil, hoc modo: Idcirco, iudices, quia vcram causam
habebam, brevi peroravi. Vulgarc est, quod in aliam quoque rem non
probabilem, si none concessum sii, transferri possi!, ut hoc: Si
causam vcram non haberet, vobis se, iudices, non eommisissct. Leve est,
quod aut post tempus dicilur, hoc modo: Si in menlem venisset, non
commisissetiaut perspicue lurpem rem levi legere vult defensionc, hoc
modo : a Quurn le expetcbanl omnes, fiorentissimo Regno rcliqui :
nunc dcserlum ab omnibus Summo pcriclo, solu' ut restituam paro.
> XI Remotum est, quod ultra quam satis est,
petitur, huiusmodi : Quod si non P. Scipio Corneliam filiam Ti. Giaccho
collocasset, atque ex ea duos Gracchos procreasse), tanlae seditiones
natae non essenl ; quare hoc incommodum Scipioni ascribendum videtur. ltuiusmodi
est illa quoque conquestio : « t'iinam ne in nemore Pelio
securibus a Coesa accidissct abiegna ad terroni Irabcs I copioso danaro.
Dalle quali concessioni non s' inferisce già: Voi dunque siete poveri.
Inferirebbcsi bensì, se io t’ avessi prima concedutoianchc questo. che
chi vuol venire in più copioso danaro, ei non ha donaro. Spesse volte
credono gli avversarli che tu li sii smcniicato ciò che bai conceduto,
epperò mcltono nella conclusione come inferito ciò che non lo fu,
per esempio: se toccava o lui l’eredità, è verisimilc che da lui l’ infelice
sia sialo ucciso ; e a provar questa illaiione si distendono in
parole. Indi vengono alla proposizione minore: Ma l’ erodila toccava a
lui. In fine conchiudono: È egli dunque l’ uccisore : il che dalla delta
premessa non si può inferire. Il perchè si vuole avvisar con
attenzione c ciò che vien aggiunto alla minore, e ciò che giustamente sia
da conchiuderne. Questa specie di argomenlazionc si mostrerà esser
viziosa o per l'uno o per Patirò de’ seguenti capi, cioè se il
difetto risederà in essa, e se essa non sarà acconcia al punto che si trossina.
Risiede il difetto nella argomenlaxione, se essa è al latto falsa, se
comune, se volgare, se leggera, se rimota, se inchiude una definizione
errala, se ì questionevolc, se perspicua, se inopportuna, se turpe, se
offensiva, se rontraria, se inconsunto, se avversa. E falsa quando vi si
avvista chiara la menzogna, come sarebbe: Non può esser sapiente chi fa
nessun conto dei danari: ma Socrale di danari non facea conto veruno: non
era dunqne sapiente. Comune è quando non giova n enie più a noi che agli
avversarli, come a dire : Per ciò, giudici, io mi spacciai di corto, perchè
avea per le mani una causa giusta. Volgare è quando essa può accomodarsi, se ne
venga il concio, anche a un' altra cosa non probabile, come il dire: Se
non avesso dai suo lato la giustizia della causargli, o giudici, non si
sarebbe affidalo a voi. È leggera, so si diresse dopo il suo tempo,
per esempio: Pur che se ne fosse ricordalo, non avrebbe commesso il lai
fallo: o se volesse con lieve difesa giustificare un'azione aperta mente
turpe, come qui: « Quando avevi amicizie e in fior il regno, Olii
poco io l' essendo, ito ne sono. Or die perigli, e t' han già tulli a
sdegno, Peno so! io di ritornarti in trono, a E rimota
l'argomentazione, quando si pianta da punti più ionlanichcnon bisogna,
come la seguente : che se P. Scipione non avesse collocala la
figlia Cornelia in matrimonio a Tiberio Gracco, o non avesse da lei avuti
nipoti i due Gracchi, non sarebbero addivenutesi gravi sedizioni: il perchè
questo infortunio s'ha da riputare a Scipione. Di fatta simile ì altresì
quel lagno che siiegge in Ennio : iDngius cnim reputila est, quam rcs
postulibal. Mala (leQnilio est, qiium aut communia deseribit, hoc
modo: Scdiliosus cstis, qui inalos atque inulilis est civis (nam hoc non magis
seditiosi, quam anibiliosi, quam calumniatoris, quam alicuins hominia
improbi vini deseribit); aut falsum quiddam dicil, hoc pacto : Sapientia
est pecuniae quaerendno inlclligentia ; aut aliquid non grave ncc magnum
conlinens, sic: Stullilia est immensa gloriae cupiditas. Est liaec quidem
stullilia, sed ex parte quadnm, non ex omni genere definita. Controvcrsum
est, in quo ad dubium demoustrandum dubia causa adferlur, hoc. modo : x
Elio tu, di, quibus est polestas motus superùm atque inferòm, l’accm
iulcr scse conciliant, confermi! concordino]. a l’erspicuttm est, de quo
non est controversia, ut si qui, quum Orcstcn accuset, planimi
facialab co malrem esse ocrisam. Non concessum est , quum id, quod
augetur, in controversia csl, ut si qui, quum Ulixen accuse!, in hoc
maxime commorclur : Indignimi esse ab liomine ignavissimo virum
fortissiinum Aiacem necalum. Turpe est, quod aut co loco, in quo dir-ilur, aut
co Domine, qui dicil, aut co tempore, quo dicilur, aut iis, qui
audiunt, aut ea re, qua de agitur, indignum propter inhonestam rem videtur.
OlTensum csl, quod corum qui audiunt, voluntatem laedit: ut, si qui
apud cquilcs Homnnos, cupidos iudicandi, Caepionis legem iudiciariam
laudcl. Conlrarium est, quod contra dicilur atque li, qui audiunt,
fccerunl: ut si qui apud Alcxandrum Maccdonem conira aliquem urbis
expngnalorem dicerct uiliil esse crudelius, quam urbes diruerc,
quum ipsc Alexander Tlicbasdiruissel. Inconslans est, quod ab codem de
eadem re diverse uicilur : ut si qui, quum dixeril, qui lirlutcm
Italica!, cum nultius rei ad bene vivrndum indigere, neget postea sinc
bona valetudine posse bene vivi : atti, se amico adesse proplcr
benevolentiam, sperare tamen aliquid commodi ad se pervenlurum. Advcrsum csl,
quod ipsi causac aliqua ex parte oIDcil, ut si qui hoslium vini et copias
et felicitatoli au gcat, quum ad pugtiandum mililcs adhortetur. Si non ad id, quod insliluilur,
accommodubilur aliqua pars argumenlalinnis, borimi aliquo in vitio
reperielun si plura pollicilus pauciora dcmonslra poiché è ripetuto
da più lontano che la circostanxa non richiedeva. Incltiude definizione
errata, quando o spiega cose comuni, a questo modo ; Sedizioso è colui che fa
da cattivo c inutile cittadino (poiché questo spiega il carattere del
sedizioso né più nè meno che del calunniatore, del rollo alla
ambixione, e di altri malvagi); o dice alcun che di falso, a questo modo:
È sapicnxa I’ essere esperto a cercare danaro; o contiene alcun che di
non graie nè grande, come : È stoltezza un' immensa brama di
gloria. Anche questa, 6 vero, è una specie di stoltezza, ma non è
definita che per parte, e non nella sua generatili. Qucslionevolc è I'
argomentazione, quando per dimostrare una cosa dubbia si reca un' altra
cosa o un esempio dùbbio, come il seguente; « Con me far cruccio ?
ve’ gli dei contenti D'csser concordi e consigliarsi a pace: E sì
che a scombuiar ci son possenti Quanto v’ ha in cielo, e quanto in terra
giace. Perspicua è l' argomentazione, quando contendo sopra un
punto chiaro e confessato ; come chi volendo accusare Oreste, dimostrasse
ch'egli ha uccisa sua madre. Inopportuna è quando ciò che si
amplifica è il punto stesso della controversia, come allora che alcuno,
accusando Ulisse, si fermasse specialmente in questo: È cosa indegna cito
il fortissimo Aiace sia stato morto da uu uomo così vile come se mai
alcuno. Turpe, è quando per la vituperevole cosa eh' essa tratta riesce
indegna o del luogo in che la si dice, o della persona che la
espone, o del tempo in che viene esposta, o di quelli che l’ascoltano, o
della causa stessa che si trassina. Offensiva è, se si urlano le voglie
degli uditori, come se alcuno alla presenza dei cavalieri Romani, vogliosi
d'esser soli in fare i giudicii, lodasse la legge giudiciaria di Cepionc.
L. Contraria è quando si parla contro a ciò che fecero quelli clic
stanno ad udire, come se alcuno in presenza di Alessandro Magno, movendo
rampognosc parole coui ro alcuno che avesse espugnata una terra, si dicesse non
v’ esser fallo più crudele che il dare a terra una città, mentre lo
stesso Alessandro avea dato a terra la città di Tebe. È incostante se lo stesso
oratore, dopo aver parlalo a un modo di una cosa, ne parli poi a modo
diverso; come chi avendo prima asserito che chi possedè la virtù non
difetta di nulla al ben vivere, dicesse poscia che senza prospera salute
non si può viver bene;o se dicesseche ei favoreggia l'amico per sola
bonevoglicnza,ma che tuttavia spera sia per venirgliene qualche buon
servigio. Avversa è, quando in qualche parte nuoce alla stessa causa,
come se chi è suii’csortare i soldati a coni bit; aut si, qmim tolum
debebit ostcndcrc, de parte aliqua loquatur, hoc modo: Mulicrum
gcnus avarimi est ; nam Eriphjla auro viri vitam vendidii : aut si non
id, quod accusabilur, defcndcl, ut si qui, quum ambitila accusabilur,
manu se forlem esse defcndcl; ut Ampbion apud Euripidcm (ilem apud
Pacuvium ), qui vituperala musica, sapicntiam laudai ; aut si rcs ex hominis
vilio vituperabilur, ut, si qui doctrinam ex aiicuius docli vilio
reprebendat ; aut si qui, quum aliquem volet laudare, de felicitate cius, non
de «inule dica! ; aut si qui rem cum re ita comparabit, ut alleram
se non pulci laudare, nisi alleram vituperanti aut si alleram ita
laude!, ut alterius non faciat mcntiotieni ; aut si, quum de certa re
quacrelur, de communi iiisliluctur oralio, ut, si qui, quum aliqui dcliberenl,
bellum gerani an non, pacem laude! crollino, non illud bellum inutile esse
demonstret ; aut si ratio aiicuius rei reddetur falsa, hoc modo :
Pecunia bonum est, proplerca quod ea maxime vitam bealam cflicial ; aut
si infirma, ut Plautus : • Amicura castigare obmerilam noxìam.
Immune est facinus ; veruni in aelatc utile Et conducibile ; nam ego
amicum hodic incum Coneastigabo prò commerita noxia, Invitus , ni
me id invitcl ut faciam fldes : a aut eadem hoc modo : Maximum malum est
avarino; mullos cnim magnis iucommodis adfccit pecunie cupidilas ; aut parum
idonea, hoc modo : Maximum bonum est amicitia; plurimae enim sunt '
deleclalioncs in amicitia. Quartus modus era! reprehensionis, per
quem conira Ormam irgumcnlationem aeque firma aut firmior poncbalur. Hoc genus
in delibcratìonibus maxime versabilur, quum aliquid, quod conira dicatur,
aeqtium esse concedimus, sed id, quod nos defendimus, neccssarium esse
demonstramus ; aut quum id, quod illi defendant, utile
battere, esaltasse la fortezza dei nemici, il numero, la feliciti delie
altre lor pugne. Quando alcuna parte dell’ argomentazione non s'
acconciasse' bene con ciò che si venne a proporre, sarà difettosa per una
o per un'altra di queste ragioni, cioè se l'oratore dimostrerò meno punti
di quei molti che aveva promesso; o se, quando avrà a mostrare un lutto,
parlerà solo di alcuna parte, come se dicesse: Le donne sono avaro;
poiché Enfila vendette per oro la vita di suo marito; o se nel difendere non
adatterà la difesa a ciò che è posto in accusa, come se colui che fosse
incagionato di broglio si difendesse con dire di esser forte di mano;
come Allibine appo Euripide (e similmente appo Pacuvio), Il quale
parlando a biasimamenlo della musica finisce col lodare la sapienxa;
oppure se sviluperassc una cosa per cagione del difetto d'una persona,
come se alcuno improverasse una dottrina per aver qualche magagna colui che la
possedè; oppure se volendo commendar altrui nc lodasse la felicità, non la
virtù; o quando si facesse paraggio di una cosa con un' altra, e si
credesse di non lodarne questa se non se sriluperando quella; o
quando se ne facesse l' elogio dell' una senta far motto dell'altra;
ovvero se si facesse un discorso applicabile ad ogni questione, mentre
non si tratta che di una questione determinata, come sarebbe se
altri, essendo in deliberare se abbia a farsi la guerra, ovveramente no,
venisse lodando la pace, senta dimostrare se quella guerra sia utile, o
non sia; o quando d'uria cosa si renderà una ragione falsa, come sarebbe
il dire: Il danaro é un bene, perocché esso più clic altro fa felice la
vita; o quando se ne renderà una ragione debole, come in quella di
Plauto: a L'amico improverar del suo malfatto É forte si che ad
un amico incrcscc; Ma se 'I rimproccio in suo momento è fatto, A
laudabile prò pur gli riesce: Ond' io rabbufieronne oggi l'amico.
Ma dirò per amor quello eli' io dico; a oppure in quest' altro esempio:
Gravissimo male è l’avarizia, poiché I' agonia di danaro trasse di
molli a gran mal essere: o se si renderà una ragione poco idonea, come a dire:
Un sommo bene è l'amicizia, poiché in essa si trovano piacimenti
pure assai. LI. S'è detto il quarto modo di confutare esser quello, per
cui a un'argomentazione solida se nc mette incontro una egualmente
solida, opiù solida di quella. Argomentazione si fatta sarà da
usare specialmente nelle deliberazioni , quando concediamo esser retto c
giusto ciò che no vien replicato, ma dimostriamo come quello che
per esse fateamur; quod nos dicamus, honeslum esse demonslremus. Ac
de reprehensione quidem hacc existimavimus esse diccnda. Deinceps mine
de conclusione ponemus. Ilermagoras digressiotiem deinde, lum
poslremani conelusionum pomi. In hac auleni digressione illc pulal
oportere quatndam inferri oralionem a causa alque a iudicalionc ipsa
remolam, quae ani sui laodem, aut adversarii vitupcralioncm conlineat, aut in
aliam causam deduca l, ex qua confidai aliquid confirmalionis aut
repreliensionis, non argomentando, sed augendo per quamdam amplilìcationem.
liane si qui partimi pularii esse orationis, sequatur Ermagoram liccbil.
Nam et augendi et laudandi et vituperandi praccepta a nobis parlim data sunt,
partito suo loco dabuntur. Nobis aulem non placuit batic parlcm in
nutnerum reponi, quod de causa digredì, nisi per locum cominunem, displicet :
quo de genere poslerius est dicendum. Laudes aulem et
vitiiperalioncs non scparalim placet tractari, sed in ipsis
argumcntalionibus esse implicalas. Nunc de conclusione
dicctnus. Conclusio est eiitus et determinano totius orationis.
llaec habel parles tres, cntimeralionem, indignationem, conqueslionem.
Enumeratio est, per quam res disperse et diffuse diclae unum in
locum cogunlur, et reminiscendi causa unum sub aspcctum subjieiuntur.
llaec si semper eodem modolraclabilur, perspicue ab omnibus artificio quodam
tractari intclligetur; sin varie flct, et hanc suspicionem et salictatem sitare
poteri!. Quarc lum oporlcbit ita Tacere, ut plcrique faciunt
propter facildalcm, singillatim unam quamque rem attingere et ita omnes
transire breviter argumentationes; tum aulem, id quod diOlcilius est,
dicere quas partes exposucris iu partitone, de quibus te pollicilus
sis diclurum, et reducere in memoriam quibus rationibus unatn quamque
parlcm confirmaris; tum ab iis, qui audiunt, quaerere quid sii, quod sibi
velie debeant demonstrari, hoc modo ud docnimus, illud planum fccimus. Ita
simul et in memoriam redibit auditor, et pntabit nihil esse
praelerea, quod debeat desiderare. Atque in bis gencribus, ut ante dictum
est, tum tuas argumcutaliones transire scparalim, tum, id quod artiliciosius
est, cum luis contrarias conjungerc; et quum tuam dixeris
argumenlationem, tuum, con no! si difende, è necessario; o quando
confessiamo esser vantaggioso ciò che gli avtcrsarii sostengono, ma esser
onesto ciò che sosteniamo noi. Questo è quel tanto che della confulaxione ho creduto si dovesse dire.
Da qui innanzi tratteremo della conclusione. Ermagora prima di trattar
della conclusione tratta del digresso. In questo ci fa fantasia che
s'abbia da porre un discorso che sia spiccalo dalla causa e dal punto che
ì a giudicare, e clic in tal discorso debba l’oratore far un elogio a sè stesso
o metter in biasimo gli avversarli; ovvero toccar un'altra causa, da ritrarne
alcun che di conferma a suo prò; o di confutazione a donno degli
avversarli, non coll'argomcnlare, ma coll’anncrvar la difesa per mezzo
d'una cotale amplificazione. Chi amasse tener il digrosso per una parte
del discorso oratorio, il tenga pure a suo grado con psso Ermagora; già
dei precetti circa all' amplificare, al dar lode, al muover
biasimo, parte io ne bo dati, e parte a luogo acconcio ne porgerò.
Che se io non pongo il digrosso nel novero delle altre parli, noi pongo perchè
non mi abbclla che si faccia digressione dalla causa se non per
mezzo di qualche luogo comune, spettante a vizio o virtù; ma di questo ò già a
parlare da poscia. Delle lodi e de' biasimi quel che mi resta a
dire non lo tratterò separalamcnlc, perchè io considero e questi c quelle
come innestate nelle argomentazioni stesse. Ora veniamo alla perorazione
o conclusione. La perorazione, o conclusione, è la uscila e il termine
del discorso intiero. Ila tre parli, enumerazione, indignazione,
commiserazione. Enumerazione è quella, per cui si raccozzano in un luogo
solo le cose che si son dette sparsamente qua c là, e si mettono come in
un quadro davanti agli occhi per potersene rammentare. Se 1' enumerazione
si maneggiasse mai sempre di un modo, ognuno verrebbe agevolmente a sospirare
esser essa maneggiala per un cotale artifizio; ma se sia fatta con
qualche varianza, potrassi rimuovere da chi ascolta tanto questo sospetto,
quanto la sazievolezza ingenerala dalla uniformità. Laonde ora
converrà farla, come la fanno di molli alla foggia più facile, voglio dire,
toccar le cose ad una ad una, c cosi passar di volo sopra ogni
argomentazione; ora invece, il che è più forte a fare, ricordar i punti della
partizione di che hai promesso che ti verrebbe da discorrere, e rider alla
memoria le ragioni con che ogni parte bai confermata; e talora chiedere agli
uditori che altro possono volere che loro sia dimostrato, come sarebbe
il dire: Che volete di vantaggio 7 questo io ho fatto vedere, di
quest'auro ho già la evidenza rilevala. Per iti modo e l' uditore potrà
risovvenire che ira eam quoti adTcrcbatur, quemndmodum dilueris,
oslendcre. Ila per tircvcm comparalioncm audiloria memoria «1 de confirmalionc
el de reprchensioue redinlcgrabilur. Atquc liaec aliis aclionis quoque modis
variare oporlebit. Nam luin ex tua persona enumerare possis, ut, quid et
quo quidque loco dixeris, admoncas; tum vero personam aut rem aliqnam
inducere, et cnutneraiionem ei totani atlnbuere. Pcrsonam boc modo : Nam
si legis scriplor exsislal, et quaerat a vobis, quid dubitetis; quid
possilis dicere, quum vobis boc el boc sii demonslralum? Alque hic, ilem
ut in nostra persona, licebit alias siugdlalim transire omnes
argumenlationes, alias ad partilioncs singula genera relerre, alias ab
auditore, quid desidercl, quaerere, alias haec Tacere per cnmparationetn 9
uarum et conlrariaruin argumenlatioiium. Res autem inducetur, si alicui
rei huiusinodi, legi, loco, urbi, monumento oratio allribueliir per
enumerationem, boc modo: Quid, si leges loqui possenl ? Nonne baec apud
vos quaercri nlur ? Quidnam amplius desideralis, judices, quum vobis boc
et hoc planurn factum sii? In hoc quoque genere omnibus iisdem modis uti
licebit. Commune autem praeceptum boc datur ad cnumeralionem, ut ex una quoque
argumentatione, quoniam lotaiterum dici non polesl,id eligalur, quod eiil
gravissimum, et unum quidque quam brevissirne transealur, ut memoria, non
oratio rcnovala videa tur. Indignalio est oratio, per quam
conficilur, ut in aliqurm hominem magnino odium aut in rem gravis
olTensio cnncitcllir. In hoc genere illud primum intelligi volumus, posse
omnibus ex locis iis, qoos In conlirniandi pracceptis posilimus, trattari
iiidignalionetn. Nam ci iis rebus, quac persomi, et quac ncgoliis
ullribulac suol, quaevis ampMficaliones el iiidigualioncs nasci possuiti;
sed lamon ea,quac separalim de indignalio ne praeripi possimi,
consideremus l'rinus locus questo o quello fu dello, e insieme si
persuaderà non v'csserc cosa ch'egli debba di vantaggio desiderare. E
seguendo a dire dei modi con clic si può variare la enumerazione, tu
dovrai, come ho dello innanzi, ora toccar di passo e a parte a parte le
tue argomentazioni; ora, ciò clic domanda più arte, metter vicine delle
tue le argomentazioni dell' avversario; c poscia che avrai tocche le tue,
mostrare come abbi confutale le repliche di quello. Cosi per questo breve
raffronto l'uditore potrà farsi ricorrere alla memoria e la
conferma dei punti ricordati e la confutazione clic se ne fece. E queste
cose medesime si dovranno esporre in modi differenziali, secondo clic
comporterà la specie di orazione: poiché ora potrai enumerare in
persona tua, ricordando quali cose bai dette e a quali propositi; ora
introdurre altra pcr-ona o cosa, e farne far da essa tutta la
enumerazione. S'introduce una persona a questa maniera : Poiché se
esistesse lo scrittore stesso della legge, e vi chiedesse di clic siete
dubitasi, che potreste rispondere ora che vi fu dimostro c questo c
questo? E qui similmente, come iu nostra persona, potremo toccare ad una
ad una le argomentazioni tulle; c alle volle scorrer i singoli capi
secondo le divisioni che si son fatte; alle volle chiedere all' uditore che
altro egli amerebbe, c late altra volle invitarlo a dire se volesse pur
altro dopo avergli messe le nostre argomentazioni a raffronto con
quelle della parte contraria. Si ottiene la enumerazione mercé una cosa, se si
attribuisce il parlare dc'sunmii capi o a una legge, o a un luogo, a
ima città, a un monumento, eccetera. Per esempio: Or clic sarebbe,
se le leggi potessero parlare? non si lagnercbber esse appo voi di cose
s) falle? Che volete di vantaggio, o giudici, mentre vi fu mostralo
a evidenza e questo e questo ? Ne' quali casi si potrà egualmente far uso
de' modi sopra indiroli. Però il precetto sempre applicabile ad
ogni specie di enumerazione é questo, sfiorato anche sopra, che, siccome non si
può ogni argomentazione di bel nuovo ripetere, si dee scegliere da :
ciascuna il punto clic più rileva, e toccarlo alla succinta, tanto che
sia richiamata la memoria del| le cose, non già rifatta la orazione,
LUI. Indignazione é un discorso, per cui si vieti a capo clic sia colto
addossa a qualche persona un odio acerbo, o a qualche cosa una forte c
dura avversione. E qui innanzi a tutto voglio che si sappia come della
indignazione si può trattare con 1’ appoggio di tutti quei lunghi elio ho
svolli nel dar i precetti sopra la confermazione: poiché lutto
quello che s’appropria alle persone c ai Tatti é una Tonte copiosissima,
da cui si può torre quanto bisogna per Tare qualsiasi amplificazione, e per in
121 .'ili siiniilur ab auclorilalc, i|uum commomoranius ,
quanlac dirne rcs ca Inerii, nc per indignationcin oslendilur, ani ad
omnes ani ad majorem parlem, quod alrorissimum esl, ao ad superiorcs,
qitalcs suoi ii, quorum ex attclorllalc indignano sumitur, quod
indignissimunt esl, an ad pnros animo, fortuna, corpore, quod
iniquissinittm esl, an ad iitleriores, quod superbis stimmi esl. Terlius
Incus esl, per quom quoeri tnus qiiidtiam sii evcntiiruni, si idem celeri
fa ciani; el simili oslendinius, buie si concessimi sii, inulliis
aemttlos ejusdem audiciac fuluros; ex quo quid mali sii cvcnluruni,
dciuoiislmbiinus. QuarI its locus esl. per qttem dcniuiislramus mullus alacrcs
«spedare, quid slalualur, iti ex eo, quod otti conecssuni sii, sibi
quoque (ali de re quid li* c.eal, inlelligcrc possinl. Quitilus locus
esl, per quem oslentliinus cclcras res perperatn conslilulas, inlellecla
fCrilale, conimulalas corrigi posse; Itane esse rem, quac si sii semel
judicala, ncque alio ronimulari itidicio, ncque ulla poluslale corrigi
possil. Sexlus locus esl, per quem eonsullo ri de industria faclum
demonstralur, cl illuci ad itingilur, toluulario maleficio vcuiam ilari
non o porlere, imprudenliae concedi iionnuniqtiam convenire. Seplimus
locus est, per quem iudignamur, quod lelrum. crudele, nefariurn,
Ijraimicuni facilini esse dicanola, per vini, matium, opulenllam, quac
res ab legibus el ab aeqtiabili iure rcmolissiinae siili. Octavus locus
est, |>cr quelli demonslratnus non vulgnre ncque faclilalum esse ne ab
audacissimi* qiiidem liomnibiis id malelicinm, de quo agilur; al. pie id
a feris quoque liuminibus cl a barbaris gcntibiis el immanibus bcsliis
esse reinolimi. Dace crunl, quac in parcnles, libcros, conj tgcs,
consanguincos, supplice., erudclilcr far generarci lo sdegno. Ora
perù dubbiamo trattar i preconi clic riguardano la indignazione in
particolare. Il primo luogo oratorio, ovvero sorgente, donde essa si fa
derivare, 6 l'autorità, il credilo; per esempio se ricordiamo quanto la
lai cosa fu a cura degli dei immortali, o di quelle persone, il cui
credilo e l'autorità dee esser avuta perdi gran peso. E qui se ne caverà
argomento o prova dalle . sorti, dagli oracoli, dai vali, dagli eventi
moslruo! si, dai prodigii, dai responsi, e da cose altrettali; ; c per
islesso modo dai nostri maggiori, dai re, dalle ciilà, dalle genti,
dagli'uomini più satii, dal senato, dal popolo, dai legislatori. Il
secondo è i quello, per cui si mostra a quali persone fece dati1 no il
lai fallo, eccitando lo sdeguo con quanto si i può di amplificazione; o
se lo fece a tulle, ovvero alla piò parie, il clic è estrema atrocità; o
se a* superiori, ebe à cosa indegnissima; c qui si farà nascere
Tudiu dalla ragguardevolezza clic in loro fu offesa; o se danneggiò altri
che siano eguali per qualità di animo, di fortuna, di corpo, il
cito è somma iniquità; o se gl'inferiori, clic è callivez] za piena di
superbia. Il Icrzu luogo è quello, per | cui si cerca che ne avverrebbe,
se tulli facessero ; a quel modo, c insieme si mostra clic se si
desse pus-ala a quel tale, si Accrebbero molli altri an1 dare alla stessa
audacia; c qui si mostrerà quanto gran danno incontrerebbe per ciò. Il
quarto 6 quello, per cui diamo a conoscere che molli a orccclii lesi
espellano che venga deciso, per sapere da quanto s'indulge all'accusato
quanto essi possano assicurarsi in caso simile. Il quinto luogo è, quando
mostriamo che si può bene ogni altra decisione, appoggiala a cadivi dati, mutar
e correggere, insieme elio se no conosca la verità ; ma il I fallo
presente essere di lai sorla, che giudicalo i una volta, ili si può
mutare per altro giudicio, ni per veruna podestà se ne può alterare la
decisione. Il sosto tende a dimostrare clic il fallo fu commesso da seuuo e a
bella posta ; e qui si aggiungerà altresì clic a un misfallu lolouiario non si
coui viene perdono: convenirsi solo alcuna volta indulgere alla
inconsideratezza. Il settimo i quello, per cui facciamo cruccio per
essere il fallo orrendo, crudele, nefando, tirannico, condodo con la vioi
lenza, di mano del tale, con lo spreco di contanti, le quali cose sono di
troppo aborrenti dalle leggi C d >lla nin i. -razione. L'ollavo luogo,
o sorgente d'indignazione, I ì quello per cui mezzo dimostriamo che il
delitto di clic si traila non è nò proprio del volgo, uè praticalo
eziandio dagli uomini più audaci; anzi esser nuovo agli stessi barbari,
ai selvaggi, alle fiere piò immani. Tali sono le sevizie con le quali
diremo essersi albi incrudito coirli o i genitori, i figli. la
diccntur, cl doinceps si qua prolcranlur in majores ualu, ili liospilcs, in
vicino*, in amicos, in eos, quitiuscum vitaio lineria, in cos, apud
quos educai us sis, in eos, a quibus erudilus, in morluos, in miscros el
misericordia dignos, in liomine-s claros, nobile* el lionore usos, in eos, qui
ncque laedere alium noe se defendcrc poluerint, ut in pucros, scncs,
inulieres ; quibus et omnibus acrilcr cucitala indignatio suiumuin in
cum, qui violarii horum aiiquid, odiuni comnioverc polcrit. Nonus locus
est, per quem cumaliispeccalis, quac Constant esse peccata, hoc, quo de
quaestio est, comparatur, et ita per conlcnlioneni, quanto atrocius
et indignius sit iilud, de quo ogitur, ostenditur. Dccinius locus est,
per quem omnia, quae in negotio gerendo acta aulii, quaeque post
uegolium consecula sunl, cum uniuscujusqucindignalione et criminalionc
colligiinus, cl rem verbis quam maxime ante oculos ejus, apud quem dicilur,
ponimus, ut id, quod iudignum est, pcrinde illi videalur iudignum, ac si ipse
inlerfucril et praesens videril. Undccimuslocus est, per quem
ostendimus ab eo factum, a quo minime oporluerit, et a quo, si alius Tacerei,
proliiberi convenire!. Duodccimus locus est, per quem indignamur, quod
nobis hoc primis accideril, ncque alicui umquam usu venerit. Tcrtius
dccinius locus est. si cum injuria contumelia juncla dcmonsiralur,
per quem iocum in superbiam el adrogantiam odium concilatur. Quarlus
dccinius locus est, per quem pelimus ab iis, qui audiuut, ut ad suas
res noslras iujurias referant: si ad pueros perliiicbil, de libcris
suis coglioni; si ad muliercs, do uxori. bus;si ad scncs, de patribusaut
pareulibus. Quinlus dccinius locus est, per quem dicimus, inimicis quoque et
lioslibus ea, quac nobis accideriul indigna vidcri solere. El indignatio
quidem bis fere de locis gravissime sunielur. Conqucstionis anioni
liujtismodi de rebus parles pelcrc oporlcbil. Coi uj in sti o est oratio audiloruni miscricordiam
caplaus. In liac. priuium animum audiloris milem cl misericoidein
conli' cere o porle!, quo facilius cnnqueslione commoveri possi!, ld
locis communibus eflicere nporlebiti per quos fortunae vis io omnes, el
lioniinum inGrmilas ostenditur; qua oratiune ballila graviler el
scnlenliose, maxime dimiilitur animus liomiuum, el ad miscricordiam
comparalur, quum in alieno malo sua in infirmila toni consideralo! .
Delude priuius locus est miscricordiae, per quem quibus in ài il
inarilo, la moglie, i parenti, i domandami mercè; c cosi via via, i
debili cunlru i maggiori di elà, gli ospiti, i vicini, gli amici, quelli
con elle vivesti . 0 presso cui fosti educalo, o da cui istruito, i
morii, i miseri e degni di piulft, gli uomini illustri, i nobili, c
quelli clic liaiuiu sostenute onoranze pubbliche, quelli clic non poterono né
offendere altrui, uè difender sè slessi, come sono i fanciulli, 1
vecchi, le femmine. Per (ulti questi molivi eccitandosi forte la indignazione,
potrà fare che ognuno venga in grossezza e ira con chi avesse adontala 0
luna o l'ultra di queste persone. i*el nono luogo si mene a riscontro la
colpa, onde si controverte, di altre colpe da tulli confessale per tali,
c si dimostra argomentando esser di tulle quelle più atruce c più infame questa,
di che si traila. Cui decimo razzoliamo tulle le circostanze chcaccunr
[lagnarono il fallo e le conseguenze che ne soli poi venule con isdeguo c
querela d’ognuno, c nielliamo il fallo davanti agli ocelli dell' uditore
per Tarma che ne ravvisi la indegnità come s'egli stesso ci fosse staio
in mezzo e avesselo di presenza veduto. Coll' undecimo meniamo a vedere
essersi fornito il fallo da chi meno il dovea, da ehi anzi avria
dovuto far rimanere qualunque altro l'avesse Imlaio. Il duodecimo è quello,
per cui ci scorrubliiamo della mala ventura di aver dovuto esser 1 primi
a trattar un fallo, clic mai a nessun altro avvenne di dover Irailare. Il
licdicesimo è, se si dimostra all' offesa esser anche aggiunto lo scherno e la
villania ; e in questo caso I' odio se la piglierà ancora con la superbia c l'
alterigia degli offensori. Il quarlodecimo luogo è quello, per cui
preghiamo gli uditori che vogliano immaginare di aver ricevuto essi I'
offesa che abbiamo ingozzalo noi ; e se essa sarà caduta sopra fanciulli,
ripensino essi ai Agli proprii ; se sopra femmine, pensino alle lor mogli ; se
sopra vecchi, ai genitori o parenti loro. Il quindccimo è quello, per cui
diciamo clic quanto occorse a noi è cosa clic si tiene per indegna pur dai nemici
c dalle persane più ostili. Ua tulli questi luoghi e sorgenti si farà
nascer gravissima la indignazione. l.Y. Converrà ora vedere cumc dal fin
qui dello si traggano i mezzi e le fonti della commiscraziuue. È questa
un discorso clic accada la compassione degli uditori, l'or accanarla prima cosa
è render inde e benigno l'animo di chi ascolla, colalcliè possa dalle
querimonie esser ageminicele commosso. Questo sì potrà conseguile per
mezzo dei luoghi e fonti comuni, pei quali si dj a vedere la forza
che esercita su tulli la fortuna, e la fralezza che fa declinar l’uomo ai male;
c con questo discorso fallo con parole gravi e senlcnziosc, si
viene ad ammollir furie il cuore degli uomini fi8 bonis fuerint, et nunc
qnibus in malis sinl, ostcnditur. Sccundus, qui in tempora Irìbuilur, per
quelli, quibus in malis fucrint, et bini, et futuri sinl,
demoustralur.Tertius, per i|uem unum quodque deploralur incoromodum, ut in
morte Dlii pueriiiae dcleclatio, amor, spes, solatium, cducalio, et, si
qua simili in genere quolibcldc incommodo per conqueslioncm dici
poterunl. Quartus, per quem res turpes et bumiles et illiberalcs
profercntur et indignac aelatc, genere, fortuna, pristino honore,
bcncficiis; quae passi perpessurive sinl Quinlus, per quem omnia ante oculos
singillatim incommoda ponunlur, ut vidcatur is, qui audit, siilere,
et re quoque ipsa, quasi adsit, non terbis solurn ad miscricordiam
ducalur. Seilus, per quem practcr spem in miseriis dcmonslralur
esse, et, qumn aliquid eispeclarel, non modo id non adeplum esse,
sed in summas miserias incidisse. Seplimus, per quem ad ipsos, qui
audiunt, similem casum converlimus, et petinrus, utdesuis libcris aul
parentibus aut aliquo, qui illis carus debeat esse, nos quum videanl,
rccordentur. Oclar us, por quem aliquid dicilur esse factum, quod non
oporlueril, aut non factum, quod oportueril, hoc modo: Non adfui, non
ridi, non posircmam vorem ejus nudivi, non estremum spirilum ejus
eicepi. Itcm: Inimicorum in manibus mortuus est, lioslili in terra
lurpiler jacuit insepultus, a feria diu vcialus, eommuni quoque lionorc in
morie caruit. Nonus, per quem oralio ad mutas et crpertes animi res
refcrclur, ut, si ad equum, dutnum , tcslem , sermnnem alicujus accomodes
, quibus animus corum, qui audiunt et aliquem dicierunl, vehementer
commovclur. Decimus, per quem inopia, iulirmi tas, soliludo
dcmonslralur. Endccimus, per quem aut liherorum, aul parentimi , aut sui
corporis sepeliendi , aut alicujus ejusmodi rei commendano lìl.
Duodeeimus, per quem disjunctio deploralur ab aliquo, quoti) diducaris ab
eo, quicum libenllssime vlzeris, ul a parente, (ìlio, fratre, familiari.
Terlius decimus, per quem cum indignationc conqucrimur, quod ab
iis, a quibus minime convcnial, male traclc mur, propinquis, amicis, quibus benigne
feceri mus, qnos adjulores furo pularimus, aut a quibus indignum sii, ut
servis, liberili, ebentibus, supplicibus. disporlo a esser
misericordcrole, siccome quello che nel fallo altrui riconosce la propria
debolciza. La prima fonte di compassione è il mostrare di quali
beni si borano forniti, e da che mali si trovano essi sbattuti gl'infelici. La
seconda si diride per tempi, c viene a descrivere le calamità dreni
ban sostenute, che sostengono in presente, e che sono per sostenere
appresso. La lena lagna di qualsiasi crepacuore: cosi nella morie di un
figlio compiangesi la gioia che ne recava la sua puerizia, l’amore,
la speranza, il conforto, l'educazione, c quanl' altro di simile potrà
esser motivo di commiserazione. La quarta è quella, per cui si fa vedere che
turpezze, che umiliazioni, che incivilii ha dovuto e dovrà trangugiar l'
infelice, indegne della sua età, della sua slirpc, della sua condizione,
dell' antico splendore, dei bencllzii da lui imparlili. La quinta è quella, per
cui si schierano dinanzi agli occhi dell'uditore ad una ad una le disavventure
deli’ infelice , affinchè ascoltando le possa quasi clic vedere, e siane
condotto a compassiono non pur dalle parole dell' oratore, ma dal
figurarsi d’essere quasi presente ai fatti stestiLa sesta è quando si dimostra
esser un tale irretito nelle disgrazie senza speranza di poterne uscire.e
mentre se u’atlcndcva qualche allcviazione, non solo non esserne venuto a
capo, ma precipitato anzi nelle miserie più dure. La settima ì quando imaginìamo
in quelli che neascollano un infortunio simile al nostro, e ii preghiamo che
nel veder noi rammentino i loro figli, i genitori, o qualche altro
che lor debba esser caro. L’ ottava, quando si dice essersi fatto ciò die
non bisognava, o lasciato di fare ciò che si dovea, come a dire : Non fui
presente, non vidi, non ho udite le ultime di lui parole, non ne ho
raccolto il respiro eslrcroo; oppure : E morto in potere dei nemici,
giacque indcccnlcmcnle insepolto in terra ostile, mislratlato a lungo
dalle fiere, senza avere nè in morie i comuni onori. La nona è quella,
per cui s'appropria il discorso ad esseri muti e privi di ragione, come
se lu facessi parlare per altri un cavallo, lina casa, una veste; c questo è
caso in cui quelli die ascoltano e che hanno portato amore a qualcuno,
restano vivamenlc commossi. La decima è quando si dimostra l'altrui
miscrlà, la debolezza, l'abbandono di tulli. La undecima è quella,
con che si raccomanda che non manchino di sepoltura i figli, i genitori,
il proprio corpo, o clic sia foritila qualche altra cosa consimile. La
duodecima deplora la separazione che dei sostenere da qualche tuo
amorevole, con cui menasti vita della migliore tua voglia, come sarebbe dal
padre, dal figliuolo, dal fratello, dall'amico. La tcrzadccima è quella,
per cui alle querele accoppiamo altresì (joartus decimus, qui per
obsecralionem sumilur; in quo oraninr modo illi, qui audiunl,
humili el supplici oralionc, ut miscreanlur. Quintus decimus, per quem non
nostras, scd corum, qui cari nobis dcbcnl esse, forlunas conqueri
nos demonstramus. Sextus decimus, per quem animum nostrum in olios
misericordem esse ostendimus, et tamen amplum et escelsum et patienlem
incommodorum esse, et futurum esse, si quid acciderit, demonstramus. Nam sacpe
virlus et magniCcenlia, in quo gravilas et auctoritas est, plus proOcit
ad misericordiam commorendam quam liumililas el obsccralio. Commotis
aulcin animis, dlutius in conqucslione morarì non oportebit.
Qucmadmodum enim dilli rbctor Apolionius, lacrima nihil citius aroscil. Sed
quoniem et satis, ut (idemur, dcomnibuspartibusoralionis diiimus,
el hujus «nluminis magnitudo longius processil, quac scquuntur dciriceps,
in sccundo libro diccmus. SS) 10 sdegno di esser duramente
tribolati da chi noi dovca, come a dire dai parenti, dagli amici,
da quelli che hanno da noi ricevuto del bene, i quali ci snidavamo
dovessero esserci aiutatori , o da quelli che non ci potevano mislratlare
se non con la più nera indegnità, come sono i servi, i liberti, i
clienti, e quelli che altre volte sono ricorsi a noi supplichevoli. Il
quartodecimo luogo o fonte di compassione £ la preghiera, con clic facciamo
forza al cuore di quelli che ascoltano, per discorso reumiliato c che va
alla mercede loro, perchè ne facciano misericordia. Col decimoquinto
mostriamo di compiangere non le nostre disavventure, ma quelle di
coloro che ne debbono esser amati e cari. Col seslodccimo dimostriamo che il
nostro cuore è pietoso verso altrui, ma che tuttavia nelle presenti
disgrazie è magnanimo, elevalo o sofferente, quale altresì sarebbe, se altro
gli fosse per incontrare. Ed è un fatto, che sovente la virtù e 11
portamento di grand'animo in uomo autorevole e grave fa più al muover la
compassione che non farebbe rumiliamcnlo e la preghiera. Commossi
gli animi, non si vuole esser lungo nella querimonia, poiché, a detto del
retore Apollonio, niente si asciuga più presto che le lagrime. Or,
poiché ho dello a bastanza, per mio avviso, circa le parti tutte
dell'orazione, e questo libro m’è anche venuto un po' troppo allungalo, dirò a
mano a mano nel secondo libro le cose che mi restano da cs porre. Tullio
culla eoo una elegante narrativa, e poi passa a trattare del genere gludic
iato, e della costituitone congetturale, e deferiti a che per agitare si
fatte cause dee ricorrere e ruttore c l'accusato. Della costituitone
definitiva,' indi della traslativa. Della costituitone generate, di cui
spiega Tullio le due parti in che essa ai divide,
eiósonolinegotialcelagioridiciilc. Delle controversie circa lo scritto.
Del genere deliberativo, e delToncslo e deU'utile. In Due, del
genere dimostrativo. Crolortialac quondam, quum llorcrent omnibus copiis,
et in Italia cum primis beati numcrarcnlur, lemplum Junonis, quod
religiosissime colebaul, egregiis picturis locupletare toluerunl. Ilaque
ileracleolem Zeuxiu, qui lum longe ccteris ciceilere pirloribus csislimabalur,
magno prelio conductum adhibucrunl. Is et cclcras contplurrs fabulas pinxil,
quarum nonnulla pars usque ad nostrani memoriam propter funi religloncm
retnansil, el, ut exccllcnlem muliebris formac pulcritudinein muta in scse
imago contiueret, Ilelenac pingcrc se simulammo velie diiil; quod Crotonialac,
qui eum muliebri in corporc pingendo plurimum aliis pracstarc saepe
acccpisscnt, libcnler audicrunl. rulavcrunt enim, si, quo in genere
plurimum posscl, in co magno opere elaborasscl, egregium sibi opus ilio
in fatto rcliclurum. Ncque tum cos ilia opinio fefeliil. Nani Zeuiis
illico quacsivil ab cis, quasnain virgines forntosas liabcrcnt. Illi
aulem statini hominem dcduicrunt in palestram, atquc ci pucros ostcndcrunt
multos, magna praedilos dignilalc. Elenim quodam tempore Crolonialac
mullum omnibus corportim viribus et dignitalibus anlcstclcrunt, alquo
lioncslissitnas ci g vinilico ce riamine viclurias domum cum laude
maxima rclulcrunt. Quum pucrorum igiiur formas Croloniesi, allorché erano
in florido e di ogni bene rinfusi, c in Italia coniali Ira i popoli
più felici, fecero su pensiero di voler arricchire di dipinli i più
squisili il (empio di Giunone elio veneravano a grande rispello ed onore.
A ciò insilarono Zelisi di Eraclea, che di quei tempi avea nome di
eccellente in pittura sopra ogni altro, c a gran contante patlovirono con
esso il lavoro. Costui vi condusse parecchie dipinture, delle quali
alquanto poca parte si conservò lino ad oggi per la venerazione in che il
tempio fu sempre avuto; c per comporre una imaginc clic nella sua mutezza
esprimesse quanto può avervi di sfolgorala belili in fattezze muliebri, si
profferse di voler fare il ritratto di Elena. 1 Croloniesi udirono questo
del miglior grado, siccome quelli ebe spesso arcano udito come in
dipinger sembianze di donna ci lasciavasi in dietro ogni altro di lunga mano.
Faceano ragiona che se egli, il quale in dipinger donne era al postutto
vaiente. Tosse stato attorno a quel lavoro con proposito di farne ogni
suo potere, avrebbe lasciato nel tempio un’opera di somma eccellenza, Mési
apposero in fallo. Zcusi chiese tosto quali avessero donzelle di più
bellezza. Esssi lo condussero inconluuculc nella palestra, e gli
fecero vedere molli garzoni di maestosa av CI et corpora magno liic
opero mlrarelur: llorum, inquilini illi, sorores suol apuli nos virgines
Oliare, qua siili illac ilignilalc, polcs ex his suspicari. Pracbetc
igilur milii, quaeso, inquit, ex istis virginibus formosissimas, dum pingo id,
quod pollicilus suiti vobis, ul mutui» in simulacrum ex animali esemplo vcrilas
Iransferatur. Tum Crotoniatae publico de concilio virgincs unum in locum
coiiduxcrunl, cl pictori quam velici eligendi potèslatcm dedcrunl.Ille aulein
quiuquedelcgit; quarum nomina multi poiitac mcmoriac prodiderunt, quod
ejus csscnt judicio probalac, qui pulcriludinis habere verissimum judicium
dcbuissel, Ncque cnini putavil omnia, quac quaercret ad i cuti slalom,
uno se in rorporc reperire posse, ideo quod niliil siuiplici in genere
omnibus cv partibus perfeclum naluru expolivit. Ilaquc, tamquam ccleris
non sii habilura quod largialur, si uni cuncla enncesseril, alimi olii
commodi aliquo adjuucto iurommodo muneralur. Quod quoniam nobis
quoque toluulatis acridi!, ut urlcui diccildi pcrscribcremus, non unum
aliquod proposuimuscxeinplum,cujusonines parics, quoenmqnc esscnl io genere,
exprNneodac nobis necessario viderenlur; sed, omnibus unum iu locum
coaclis scriploribus, quod quisque commodissime pracripere videbalur,
cxcerpsimus, et ex variis ingcniis excelleulissima quaeque libaviinus. Ex
iis Chini, qui nomine et memoria digiti sunl, ncc mini optiine, nec omnia
pracclarissimc quisquam diccre nobis videbalor. Quaproplcr stultitia visa
csl aul a bene inventis ulicujus recedere, si quo in vitto
cjusoITemJerctnur, aul ad vilia quoque cjus accedere, cujus aliquo bene
pracccplo duccremur. Quodsi in ccteris quoque sludiis a umili,
cligere boni ncsconnnodissimuin quodque, quam sesc uni slicui
eerto/cllcnl addiccrc, minus in adrogantiam oOenderent; non tanto opere
in viliis perseverami! ; aliquanto levius ex inscienlia laborarcnl.
.Ve si par in uobis liujus arlis atquc in ilio picluruc scienlia fuisscl,
fonasse magis Ime in suo genere opus nuslruin, quam ilio in sua pictura
nobilis enilercl. Ex majore cium copia uobis quam iili fuil eiempiorum
eligendi poleslas. lite una ci urbe et cv co numero virginum, quac
tum eranl, cligere poluìl: nobis omnium, quicumque fueruut ab
ultimo principio liuj-is pracceplionis veneroleixa. E
infatti una volta I Crotonicsl andavano innanxi a ogni altro popolo per corpi
fatticci e di nobile appariscenza, c negli agoni ginnastici vernano
riportando con ispantc lor lodi vittorie onoratissime. Or mentre Zcusi si
dava attorno ad ammirare i corpi c le fattezze di quei garzoni; Son
qui fra noi, dissero i Croloulesi, le vergini sorelle di colesloro, le
quali quanto sieno di bellezza vantaggiale, da questi loro fratelli ne puoi far
saggio. Ed egli: di grazia, me ne date le meglio leggiadre finché io travagli
il dipinto clic vi ho profferito, c annesti nella mula effigie la verità
dell'animato esemplare. Altura i Crotonicsi di comune conserto ragimarono
insieme le loro donzelle, c fecero copia al dipintore di scerre delle
tante quella ch'egli volca. Egli ne fece eletta di cinque, i cui
nomi dappoi per molli poeti furono messi in celebrità per esser esse in
conto di belle nel giudichi di quell'imo, clic della bellezza dovea essere
giustissimo estimatore. Ne volle cinque, perchè non andava capace di trovar in
solo un corpo quanto ei cercava di venustà, però clic non v' ha
individuo di veruna specie, in cui la natura alftzzunassc e rendesse perfetta
ogni sua parte; tanto che essa, come se non avesse più die dare agli
altri se concedesse lutto ad uno, alle doli clic dispensa a questo o a quello
mette sempre allato una qualche imperfezione. II. Or poiché avvenne
pur a me ch'io fossi d’animo di scrivere sopra l' arte di parlare, non mi
proposi io già mi qualche modello speciale, da dover di necessitò
ritrarre in tutte le sue parli, di qualunque ragione esse si fossero; ma
mi raccolsi innanzi quanti di tale materia hanno già scritto, e ne presi
da ciascuno i precetti clic uh parvero il caso, sdorando dai v arii
ingegni quanto di più eccellente ti Iruvai. Perocché di lutti gii
autori die son degni di esser nominali c tenutane memoria io m'avvisai
die ognuno dice belisi quatdie cosa di gran rilievo c peso, ma clic noti
ogni sua cosa è della stessa qualità. Oud' è dio io repulai non
essere da buon senno clic io rifiutassi ciò die alcuno ha ritrovalo di
buono, solo perchè io mi fussi imbattuto ili quulelic suo difetto, che mi
spiacesse, ovvero che io ne andassi dietro fin anche alle pecche, se di
qualche suo buon precetto avessi preso piacere. Che se anche negli altri
studii amassero gli uomini scerre da molli il lior delie cose più
presto clic attenersi agl'insegnamenti di uno svio, saiieno meno
presontuosi, itoti islarcbbero nei difetti cotanto alla dura, ed anche s'
uvrebbero d’ignoranza alquanto meno, E se io dell'arlc retorica avessi una
scienza clic stesse iu ragguaglio con quella clic avea Zeusi della
pittura, forse clic quest'opera risponderebbe nei suo gc li usquo od
hoc tempus, eiposills copiis, quodcum quc placerct, eligendi poteslas
fuil. Ac vcleres qui dem scriplorcs artis usque a principe ilio
alque inventore Tisia rcpelilos unum in Incum condoli! Aristolelcs,
et nominalint cujusquc praccepla magna conquisila cura perspicue conscripsil,
alque enodala diligentcr ciposuil; ac tantum invenlorilius ipsis
suavilale et bretitale diccndi praestitil, ut nemo illorum praccepla ex
ipsorum libris cognoscat, sed omnes, qui quod illi praecipiant vclint
intelligcre, od liunc quasi ad qucmdam multo commodiorcm eiplicalorcin
revertanlur. Atquc hie quidem ipse et so ipsum nobìs, et ens, qui ante
se fucrant, in medio posuit, ut celeros et se ipsum per se
eognosccrrmus : ab hoc aulem qui profccli stilli, quamquam in maximis
philosophiac partibus operae plurimum consumpserunt, S'cul et ipse,
cuius instiluta sequebanlur, beerai, tamen permulla nohis praccepla dicendi
reliquerunt. Alque alii quoque alio ex fonte praeceplores dicendi
emanavcrunl, qui ilem permullum ad dicendum. si quid ars prolicit,
opilulati sunt. Nani fuit tempore endem. quo Aristutcles, magnilo et
nobili* rhclor isocrales; cuius ipsius quam conslet esse arimi, non
invenimus. Discipulorum aulem, ali|ue eorum, qui prolinus ab hac suoi
disciplina prufccli, multa de arte praccepla repcrimus. Ex bis duabus
diversi* siculi ramiliis, quartini allora quum vcrsarelur in philosophia,
nonnullam rhcloricae quoque arlis sibi curam adsumebal, altera vero omnis in
dicendi crai studio el pracceptione occupala, unum quoddam est connatum
genus a poslerioribus, qui ab ulrisque ea, quae commode dici vidcbanlur,
in suas arles conlulerunl, quos ipsos simul alque illos supcriores nos
nobis omnes, quoad facullas lulit, proposuimus, et ex nostro quoque noniiibil
in commune coiiluliinus. Quud si ea, quao in bis libris expotiuiilur,
laido opere eligenda fuerunl, quanto studio ciccia suut, prorecto ncque nos
ncque alios iuduslriae noslrac poenitebit. Sin autem temere aliquid
alicuius praclcriisse, aul non salis degan nere più che nella
pittura ci non fece; poiché io a potere far scella ho maggior abbondanza
di modelli ch’ei non ebbe polulo avere. Egli raccolse il meglio in 3ola
una cillà e fra quel numero di donzelle che vi Bveano allora: io per contra
ebbi innanzi agli occhi tulio il gran capitale che hanno ammassalo quanti
furono lino da quando si cominciò di ridur quest' arte a precedi, e vi
potei scegliere ciò che meglio mi abbellava e piaceva. Quanti v'ebbero
scrittori di retorica per insino da Tisia che ne fu l' inventore, e primo
ne scrisse, tutti gli raccolse insieme Aristotele, e i precedi che
con molla cura rauuò da questo e da quello, citandone anche il nome, pose
con tutta chiarezza in iscritto, e sviluppò e svolse con precisione; e
tanto seppe eccellere gli stessi primi inventori per piacevolezza e
brevità di dedalo, che nessuno sa conoscere esser quei loro precetti
tolti dai libri loro, ma conviene che qualunque, il quale voglia sapere che si
dicessero con quei loro precedi gli antichi, ricorra a lui come ad
esplicalorc molto più frullcvolc e più giudizioso di ogni altro. Anche
più, che questo autore ne pose innanzi sé steso oltre quelli che erano stali
prima di lui, acciocché per mezzo suo conoscessimo e gli altri e lui
medesimo. Quelli poi che lo secondarono oppresso, eziandio che mollo
spendessero ili fatica piai disio nella trattazione delle parli
cssenzialPdclla filosofia, come avea fallo quell'esso, di cui seguivano
le dottrine, tuttavia ne lasciarono un buon dato di precetti pur sopra
l'arte del dire. Prece dori di quest' arte nc uscirono fuori anche da
altro fonte, i quali similmenle recarono assai soccorsi al dire, se
pur l' arie si lascia alcuna cosa soccorrere. E infatti a’ tempi stessi di Aristotele
fu un grande ed eccellente retore, Isocra'e voglio dire ; ma quali
leggi ci seguisse dell' arte sua, non ho trovalo chi il sappia. Bensì i
suoi discepoli, e quegli altri che vennero da questa sella troviamo aver
lascialo ben molti precetti di retorica. HI. Da queste due dirò cosi
diverse famiglie, l’uno, avvegnaché di professione trattasse
filosofia, pur facea qualche sludio anche dell’orle relorica, e
quella d’ Isocrate era tutta iu faccende solo nel far l'esame e dar
leregple del ragionare. Or queste due famiglie furono ridotte a una sola dai
posteriori, i quali introdussero nell' arte che insegnavano quaulo han trovato
di buono c di meglio negli uni e negli altri ; c son questi medesimi
e quelli più antichi che io mi proposi di seguire quanto lio
potuto, e coi quali ho messo in comune pur qualche poco di mio. thè
selccosc che ho esposto in questi miei libri io le ho Irascelte con
quella colatila cura che una scella cosi rilevante pur domandava, corto della
mia industria né io posso, né ler scemi viilcbimur, dodi ab aliquo Tacile
cl libenler commutabimur sen'cnliam. Non enim panini cognossc, sed in parum
cngnilo stililo et din perseverasse turpe est, proplerea quoti
nllcruni eommutii linminum iuflrmitali, allcrum singolari unius
cuiusque litio est atliihulum. Quarc nos quidem sinc ulta adfirmalione
simut quacrcntes dubilanter unum quidquc dicemus, ne, riunì parvulum Ime
eonsequinmr, ut salis linee rommnde perscripsisse videamur, i limi amitlamus,
quod maximum est, ut ne cui rei temere alque adroganter adscnserimus.
Verum Ime quidem nos cl in hoc tempore et in onini vita studiose, qnoad
Tacullas lerci, consequeniur. None autem. ne longius oralio progresso
ndcalur, de reliquia, quae praeeipicnda videntur esse, dicemus. Igilur primus
liber, ciposito genere liuiusarlis el olllein, et (Ine, et materia,
et partibus , genera controversiarum et inventiones el eonslitutiones et
iudieationes eontinebal, deinde parles oralionis et in eas omnes omnia praecepla
Quarc quum in co ccloris de rebus dislinctius dicium sii, disperse autem de
con llrmalione el do reprchensione, nunc cerlos confirniandi cl
repreliendendi in singula caiisarum genera locos tradendos arbiiramur. El
quia, quo pacto traclari convenirci argumentaliones, in libro primo non
indiligcnlcr espositum est, hic tantum ipsa inventa unam quantque in rem
exponentur simplieiler sinc ulta eiornalionc, ut ex hoc inventa ipsa, ex
superiore autem eipoldio invenlorum pelalur. Quarc liacc, quac mine
prnccipicntur, ad confirmationis et reprchensionis parles rcferre
oporlcbil. Omnis cl demonstraliva cl deliberativa cl iudicialis
causa necesse est in aliqno carimi, quac ante exposila sunl,
eonstilulionls genere, uno piu ribusve, verselur. Hoc quamquam ila est, lumen
quum communilrr quaedam de omnibus praeripi possi»!, separatilo quoque
aliac sunl cuiusque generis diversac pracccptiones. Alimi enim laus ani vituperano, aliud sente.nlian
dictio, alimi accusatili aut rccusalio conflecrc debet. In iudiriis, può
andare scontento chi che sia. Se poi dì qualche autore io avessi senxa
avvisarmene prelermesso alcun che, o trascrillo con meno di pulitezza !e
cose clic mi pareano da dover adottare, quando io ne sia fallo accorto da
qualcheduno, io son presto a far di leggieri c della miglior voglia le
necessarie mulaiioni. Non è vergogna aver delle cose una conoscenza
rislrellu, ma bene è do vergognare a dii durasse scioccamente c alta
lungo in cono scema si fatta : poiché la primo è propria della
pochezza umana, c l’altra non è chorgrossn difetto di colui elle se ne
accontentasse. Laonde io laserrù nel loro dubbio le ricerche die sono per
fare, c delle cose clic dirò mi vorrò cessare da ogni affermazione,
acciocché mentre io vengo a capo ili scrivere questa materia
sufficientemente bene, die pur t cosa menoma, io non perda ciò che più
rileva, voglio dire il merito di non aver acconsenlilo a cosa veruna da
arrogante c inavveduto- Il che mi servirà di regola, per quanto potrò, si
nella circostanza presente, e si ancora in ogni altra occasione della mia
vita. Ma perché il mio discorso non si distenda troppo in parole, vengo
agli altri precetti die restano da insegnare. Or il primo libro, dopo di
aver detto che specie di orte sia la relntica, c quale sìa il suo
ufficio, il (ine, la materia, In parli, lia ragionalo de'tarii generi di
controversia, dc'modi di trovare gli argomenti, delle costituzioni delle
cause, dei punti da giudicare, dipoi delle porli dell’ orazione, e di
lutti i precedi clic a lune codeste parli si riferiscono. Il perchè ,
siccome delle altre cose si è parlalo in quello alquanto distintamente,
ma della confermazione C della confutazione non altrimenti clic a spizzico, io
Iroro da dover ora insegnare i luoghi ovvero le fonti acconce a fare la
confermai ione c la confutazione In ciascuna specie di causa. E giacché
nel primo libro lio dimostro non senza esali- zza come sian ila svolgere
c maneggiare le argomentazioni , qui si esporranno nudamente c senza
alcuna politura le invenzioni acconce per ogni bisogno, affinchè da
questo I bro si allindano solo le argomentazioni trovale, mentre dal
primo se nc attinge anche l'ornamento e la politura. I precetti adunque che
vengo ora a porgere si vogliono riferire olla confermazione c alla conlu
lozione. IV. Ogni causa, sia duno-lrativa, sia deliberativa, sia
gìudiciale, dee necessariamente aggirarsi in uno o in un altro genere di
cosliluzione, sia uno, o sic o più, dei tanti clic sonosi per
addietro dimostrati. Tuttoché non possa essere altramente, pure
siccome V ha precetti applicabili in comune a tulli i generi di cause,
cosi ve n‘ ha altri diversi che di ciascun genere sono propri! e
speciali. Perocché altro dee avere per Isropo la lode o la dif tn quello,
aitine di far apparire quanto gli sia possibile che P accusalo fu
indotto a misfarc da una ragiono che Iroppo gli cattava bene. Se
questa ragione era la gloria, ciduvrò far vedere quanto di gloria colui
imaginava gliene sarebbe seguilo; e cosi se la ragione, se lo scopo
era o dominio, o danaro, o incontrar amicixia, o romper nimisiò , insomma
qualunque ragione colui avesse di far ciò clic fece, egli dovrò aniptiQcarla
quanto piò sappia. Anche dovrò attesamente speculare, non pure se fosse
ragion vera che mosse l'accusato, ma eziandio, c mollo piò, quale
fosse la opinione clic esso n'avea: poiché nulla molila clic non ci fosse
o elle non ei sia nella ragione del fallo un vantaggio o un dissutile, se
può provarsi che l’ accusalo tenevo realmente che questo o quello
ci fosse. L'opinione fa allucinare gli uomini per due modi, o quando una
cosa è d’altra maniera ch'essi non credono, o quando un successo
riesce diversamente da quello ch'essi hanno pensato- La cosa è d'altra maniera
quando essi credono un male ciò che è un bene, o per centra un bene
ciò che ò un male, ovvero credono male o bene ciò che non è bene nè male,
ovvero credono nè male nè bene ciò che è bene o male, inteso questo, se
l'accusalo dirò non v' esser somma di danaro che gli sia più accetta c più
cara clic la vita del fratello o dell'amico, o ancora del proprio
dovere, non dovrò l'accusatore negargliene; poiché ci si trarrebbe addosso una
pecca, un odio acerbo, negando una asserzione clic può esser vera nel
tempo stesso che è pia. Solo potrò dire l'accusatore che colui non pare
essere di questo avviso, e darò rincalzo al suo dello con gli argomenti
elio si traggono dalie persone , dei quali fla dello più sotto.
VII. Il successo inganna quando esso riesce allramenlc da quello che gli accusati
o altri qualunque si promettevano; come se si dicesse clic un tale ha
moria altra persona da quella che avria voluto, perchè trailo in errore o
dalla somiglianza, o dal sospclto, o da una appariscenxa fallace; n che
l’ha uccisa perchè fu di credere ch’essa nel testamento lo avesse
nominalo suo crede, mentre secondo il testamento l'crcdilò non era
legala a lui. Non si dee desumere la intenzio tasti utalur, ad rem
pcrlincre. In hoc attieni loco caput illud erit accusatori, si
dcmonslrarc polerit alti neniini causam fuisse faciendi;
secundarium, si tanlam aul tam idoneam nomini. Sin fuisse aliis
quoque causa faciendi xidebitur, aut poteslas defunse aliis demoiislranda est,
aut farullas, aul voluntas. Polestas, si aul nescissc, aut non adfuissc,
aul enndeere aliqtt'd non poluisse dicelur. Eacultas, si ratio, adiutore»,
aditi menta celcraquc, quae ad rem pertinebunl, deruisse alicui
deni'tusirabun tur. Voluntas, si animus a talibus faclis vacilli» et
integre esse dicelur. Pnslrcmo, quas ad defensionem rationes reo dab mos, iis
accusalor ad alins ex culpa eximendos abutelur. Veruni M breii faciendtim
est, et in unum multa sunlconducenda, ut ne alterius defendendi causa
huuc accusare, sed huius accusandi causa defcndcrc altcrura
videalur. Atque accusatori
quidem hacc fere sunt in causa faciendi consideranda. Defensor autem
ci contrario primum impul9Ìonem aut nullam fuisse dicet, aut, si
fuisse concedei, exlenuabit, et porvultm quamdam fuisse demonstrabil, aut non
ei ea solere huiusmodi facta nasci docebit. Quo erit in loco demonstrandum,
quae vis et natura sii eius adfcclionis, qua impulsusaliquid rcus
commisissc dicclur; in quo et exempla et similitudincs crunl
profercndae, et ipsa diliirenler natura eiusadfeclionis quam lenissime
quielissimam ad parlcni eiplicanda, ut et res ipsa a facto crudeli et
lurbulcnlo ad quiddam mitius et tranquillius traducalur, et oratio
Inmcn ad animum eius, qui audicl, et ad animi qucmdam inlitnum sensum
accommodetur. Ratiocinationis autem suspicione.» infirmabil, si aut
commodum nnllum fuisse, aut parvuin, aut aliis magis fuisse, aut niliilo
sibi magis, quam aliis, aut incommodum sibi maius, quam commodum
dicci; ut nequaquam fticril illius. cominodi, qund expelilum dicalur,
magnitudo aut rum co incommodo, quod accidcrit, aut cttm ilio periculo,
qund subcatur, comporti tela: qui omnes loci simdiler in iucommodi quoque
vitatione traclabunlur. Sin accusalor dixerit cum id esso scculum, quod ei usi
m sii commodum, aut id fugisse, quod putarit esse ne
dal successo, ma bensì badare quale Tu proprio l'intensione c la speranza
con che l'animo si è accinto a malfare: perocché quel clic fa al
caso si è il vedere la intenzione con la quale altri fa un fallo,
non la uscita a che il fatto stesso è venuto. E qui il punto primario per
l'accusatore sta in questo, che possa dimostrare come verun altro,
dall'accusato in Tuori, non ebbe la ragione ch’ebbe egli di venir a quel
fatto: il punto secondario è prmarc che nessun altro polca avere unti
ragione di si gran peso ed opportunità. Che se potrà pur essere clic
altri avesse la stessa ragione di fare, si dimostrerà che nondimeno gliene
mancava o il potere, o il destro, o la volontà; il potere, se dirassi ch’egli
non se ne seppe, n che non fu presente, o clic non ebbe i mezzi per
fare; il destro, se si rnoslrerà clic non ebbe nè modo, nè nppnggialori,
nè aiuti, nè quant'allro saria stalo di bisogno; la volontà, se
dirassi che egli ha un animo scevro c intatto da opere dì si falla
maniera. Da ultimo, le ragioni che daremo all’accusato per la propria
difesa son le stesse che tirerò al suo vantaggio I’ accusatore per
purgare da colpa qualunque altro che invece di quello fosse accusato.
Questo però si vuol fare alla breve, ammassicciando in uno piò
cose, tanto clic si paia non clic s’accusi questo per difender
quello, ma che si difende l'uno per anzi accusar l'altro. Vili.
Tali sono le considerazioni clic dee far l'accusatore rispetto alla
ragione che mosse l'accusato a far quel clic fece. Il difensore in quel
cambio dee tenere diversa via. l a prima cosa c! dirà clic quel fallo non
venne da impulso d'animo, o se concederà elle un impulso ci sia pure
stato, farà di stremarlo e mostrare che fu assai lieve, ovvero farà
vedere clic falli di quella maniera per l'ordinario non procedono da
impulso interno. E qui ci verrà dispiegando la forza c la natura di
quella affezione, da cui si dice essere stato impulso l’accusato a
commetter I’ azione imputatagli: porgerà a difesa esempii e similitudini,
c svolgerà accuratamente quel molo dell’animo dal suo lato più calmo e più
tranquillo; talché il fatto stesso, che è cagione di accusa, di
crudele e turbolento pas-i ad aver sembianza di mite e pacato, e il
discorso sia nondimeno acconcio a svegliar nell'animo di chi ascolta un sentire
accostante alta sembianza elle si vuol dare al fallo. Il difensore anche
addebotirà i sospetti appoggiali a raziocinio, se dirà che dal fallo non
venne vantaggio di sorta, o che ne venne pochissimo, o che esso profittò agli
altri mollo piò, o che niente piò all'accusato che agli altri rftin fece,
o anzi gli tornò più a danno che a utile; di forma ti incommodum,
quamquam in falsa fucril opinione, dcmonslrandum crii ilcfcnsori ncniinem
Ionia esse slullilia, qui tali in re possil verilatem ignorare.
Quod si id conccdnlur, illud min ronccssum ili, ne dubitasse quiilem
lume, quid u-rius ossei, sed id. quod falsimi Inerii, sino olla
duliilalione prò vero protrasse. Quod si duliiliirit, smuntile
Inisse amctilioedtibias|ie inipulsiiin eerlurn in periculiini se
conunillere. Qiieniadniodum anioni areu-alnry quum ab aliis culpam
deiuovebil, defensoris Ineis ulclur, sic iis locis, qui a-cusatori doli
soni, utelur rem, quum in ilios ab se crimcn vote! Iran s Terre. Et
persona uulem eonicclura capielur, si rac res, rpiae personis atlriliulae
soni, diligenler eonsidcrabuntur, qnas omnes in primo libro ovposuimus.
N.un el tic nomine nonmunqunin aliquid suspiciouis nascilur. Nomen ameni
1 poco scaltra, che possano essere ribattuti evoltali a utile della parte contraria;
della qual fatta sono i Ire clic ultimamente ho toccati. Quanto (• alta querela
gravissima, con che si dimostra che seguirebbe scompiglio in
tutliquonli i giudicii, ove l' accusatore avesse licenza d' infligger la
pena a chi non fu condannalo, l'accusatore addebolirà essa querela primamente
se farà vedere esser il fatto una ingiustizia cosi acerba, ila non
poterla portare un uomo dabbene, e molto ancho meno un uomo libero; dipoi
se farà conoscere esser essa cosi evidente, ria non poterla mettere in
dubbio neppure colui medesimo elio la commise; poscia esser di tanta
gravità, che colui clic n’ha fatto punizione l’ha senza altro unno
n. communis accusatori in cum, qn>, quum id.qnnd argnilur, negare
non possi!, lamen al quii! sibi spai compn et ex iudlciorum pcrln» boli,
no ,\ ! quc hic ulilitalis iudiciorum ocmonslrnliu et de co
conquesti» , qui supplicium dederil indi miinlus ; in eius autem, qui
sumpseril, audacia!» pi crudrlilalcm indignali». Ah defensorp. In eius ,
quem ullus sii, audacia!» sui conquesti» : rrm non ex nomine ipsius
negolii, sed ex consilio eius, qui fe ccril, et causa et tempore
consideraci nporlerc ; quid mali fulurom sii ani ex iniuria aut ex
seriore alicuius, nisi tanta et Ioni perspicua audac a ab eo, ad cuius
famam, aut ad parentes, aut ad li beros perlinuerit, ani ad aliquam rem,
quani caram esse omnibus aut ncccssc est, aut oportel esse, fueril
«indicata. Remolio criminis est, quum eius inleidio f ieli, quod ab
adversario inferinr, in atium aut in aliud dem >velur. Id IH bipcrlito
; nam tum causa, lum res ipsa removetur. Causae remotionis hoc
nobis esemplo sit: Rhodii quosd.im legarunl Ailienas. Legatis quacstorcs
sumplum, quem oporlcbal dari, non dcderunl. Legali profedi non stud Accusantur.
Intenti» est : Profieisci oportuit, Dipoi sio est: Non oportuit. Quaestio est:
Opertucrilnc? Ratio est: Sumptus enim, qui de publico dari sole!, is ab
quacstore non est datus. Inflrmalio est: Vos tamen id, quod publice vobis
erat negotii datum, conflccrc oporlcbal ludicatio est: Quum iis, qui
legali eranl, sumptus, qui debebatur de publico, non daretur, oporlueritnc eos
conlieere nihilo minus legalioncm ? Hoc
in genere primum, sicut in coieria, si quid aut ex conieclurali aut
ex alia constilulionc sumi possi! , viderì oporlcbil. Deinde pleraquc et ex
comparatione et ex rclaiione criminis in liane quoque causam convenire
poterunt. Accusalor autem illum,
cuius culpa id factum reus dice!, primum dcfendel, si polcrii ;
dovuta fare di necessario; di modo clic se Tu cn-a giu-la,
se fu onesta clic quella ingiustizia veni.se portata in giudici», motto
più fu onesta e giusta rosa die si punisse a quel modo c da quello,
ila cui fu cosi punita; indi esser essa cosi manifesta, da non esser
mestieri die neppure se uè tenesse giudici». E qui con ragioni e
circoslanrc simili si dee dimostrare come si danno di molte altre cose
egualmente atroci ed egualmente chiare, le quali non solo non è necessario, ma
ni eziandio utile aspettar di punire quando ne sarà fallo il
giudicio. A questo punto toma acconcio un lungo comune: a carico
dell'accusatore, mostrando la parte arveisa clic non potendo egli negare
il fallo, movente c causa del fatto cli'cssa difende, va tuttavia a
mendicare nello scompiglio dei giudici qualche speranza di buona uscita.
E qui s' ha a dimostrare l'utilità dei giudicii, e menar doglianza
sull'Infelice che doveltc soggiacere a pena senza previa condanna, e far
cruccio contro l'audacia e la crudclvzza di colui che impose la pena. A
carico del difensore, dolendosi l’accu sante dell'arroganza di colui
ch'egli ha punii». Dirò, doversi riguardare il delitto non dal nome
dell' a ITa re totale, ma dalla intenzione di colui clic il fece, dal
motivo, dalle circostanze del tempo; c badar bene al male che ridonderebbe
dalle ingiustizie c dalle scellcranzc dei malvagi, se cosi grande e
cosi Dolente audacia non fosse punita dall'uomo clic se ne vede
mistratiala la fama, o i genitori, o i figli, o qualche atiro oggetto
che necessità o convenienza domanda clic da ognuno sia avuto a
caro. È retnoziune del distillo allora che un Iole riversa sopra un'allra
persona o un'altra cosa il fallo che l'avversario imputa contro a lui.
Ciù si fa per due modi, poiché ora si riversa sopra altrui la causa
del fallo, ora il fatto stesso. Quanto alla causa, abbiamone il seguente
esempio: I Rodiani vollero mandare certi loro ambasciadori in Alene, àia
siccome i questori non diedero loro le spese, come era dovere, gli ambasciadori
per ciù non partirono. Sono accusati. Dice l’attore: Si doveva partire. Replica
colui che difende: Non si doveva. La questione è: Sì doveva o no? La
ragione, ovvero difesa: Poiché ii questore non forni il danaro del
comune, che si fornisce per consueto agli ambasciadori. La confutazione è: Voi
non di meno dovevate spedir la bisogna che a nome del pubblico vi era
commessa. Il punto da decidere si i : Non essendo date agli ambasciadori
le spese di quello del comune, come pur bisognava, dovevano essi non ostante
ciò andare in ambasceria? In quesia causa, come in lolle le altre, é da vedere
se si possa (or qualche punto che profili! o dalla con si minus
poteri!, ncgabil ad hoc iudicium illius, scd liuius, qucm ipsc accuse!,
culpam pei linere. Poslca dicci suo quemquc officio consolerò oportcre ;
ncc, si illc peccasse!, hunc oporluisse peccare : deinde, si ille deliquerit,
separabili illum sicut hunc accusari oporlere,ct non cum huius
dcfensioneilliusaccusalionem. Defensoraulom quum celerà, si qua ex aliis
incidenl conslilulionibus, pertractaril, de ipsa rcmolionc sic argumenlabilur.
Primum , cuius acciderit culpa , demonstrabil ; deinde, quum id aliena
culpa accidisscl, ostcndel se aut non poluisse aut non debuissc id
tacere, quod accusator dica! oportuisse. Quod non polueril, ex ulililalis
partibus, in quibus csl necessiludinis vis implicata, demonstrabitur; quod non
dcbuerit, ex honeslate considerabilur. De ulroque distinctius in
deliberativo genere dicelur. Deinde omnia racla esse ab reo, quac in
ipsius Tuonili potestalc; quod minus, quatn convencrit, faclum sii, culpa
id allerius accidisse. Deinde in allcrius culpa cxponcnda dcmonslrandum esl,
quanlum volunlatis elstudii fuori! in ipso; et id signis confirmandum huiusmodi
; ex celerà diligenlia, ex ante factis aut diclis; alque hoc ipsi utile
fuissc Tacere, inutile autem non facere, et cum celerà vita fuisse
hoc magia conscntaneum, quain quod proplcr alterius culpam non feceril. Si
autem non in hominem certum, sed in rem aliquam causa demovebilur, ut in
hac eadem re, si quaestor mortuus esse!, et idcirco legalis pecunia
data non essel accusatone allcrius el culpae depulsione dempta, ccleris
similitcr uli locis oporlebit, et ex conccssionis partibus, quae
convenienl, adsumere ; de quibus post nobis diccndum erit. Loci autem communes
idem ulrisque fere, qui superioribus adsumplivis, incidenl ; hi
tamen certissime : accusaloris , facli indignato, defensoris, quum in
alio culpa sii, aut in ipso non sii, supplicio se adOci non oporterc.
Ipsius autem gcllurjle, o da qualche altra costituzione. Dipoi
potranno anche in questa causa risponder bene molti capi della
comparazione c del lrasfc, a cui era interdetto sacrificar vitelli. Giunti i
naviganti a terra, c ignorando la legge, sacrificarono il vitello votato. Il
padrone della nave £ tradotto al tribunale. L'accusa che gli si dà
£ questa: Hai sacrificato un vitello a quella divinità, a cui non si poteva La
replica non fa che eoncedcrc. Il motivo, o difesa, si £: lo non sapeva
clic non si potesse. La confutazione 6: Però, quando fu fallo ciò clic
non era permesso, sci merilevolc del casligo voluto dalla legge. Il
punto da dover giudicare sarà così: Poichò coslui ha fallo ciò clic
non era permesso, ma ignorava clic permesso non fosse, £ egli merilevolc o no
di casligo? Il caso si rapporterà alla concessione allorch£ mosirerassi che
qualche ostacolo e impiglio fortuito ovviasse che l'uomo non facesse a sua
volontà, come in questo fatto: Era legge in Fsparta che colui, il quale
aveva l'appalto di somministrare le vidimo, fosso punito di morte se non
le avesse apprestate per un dato sacrifizio. Cominciò adunque si fallo
appaltatore di condurre dalla campagna le villimc alla volta della
città, praeslo non lucrimi. Dcpulsio esl: Concessio. Ratio: Fluraen cnim
subito accrcvil, et ra re traduci non poluerunl. Inlìrmalio est : Tamcn,
quoniam, quod lei iubct, factum non est, supplicio digitus es.
Iudicalio est : Quum in ea re contro Irgern redemptor ali.quid fecerit, qua in
re studio eius subita flutninis obstitcrit magnitudo, supplicio dignusne sit
? Necessitudo autcm infcrlur, quum li quadam reus LI, quod feccrit,
fruisse defeudilur, hoc modo : Lei est apud Rhodios, ut, si qua rostrata
in porlu navis deprrhensa sit poblicetur. Quum magna in alto tcmpestas
esse), vis vcntoruin invilis nautis in Khodiorum portum navem
cocgil. Quaestor navem populi vocat. Navis dominus negai oportrre
publicari. Intenlio est: Rostrata navis in porlu dcprchensa est. Dcpulsio
est: Concessio. Ratio: Vi ol necessario sunius in portum c acti.
Inlirmatio est : Navem ex lego tamcn populi esse operici. Judicalio est:
Quum roslralam navem in poi tu deprehensam L-s publicaril, quumque
liacc navis invilis nautis vi lempcstatis in pollimi conicela sit,
oporleatne cam publicari? Ilorum tiium gencrum idcirco in unum locum
contuliuius esempla, quod siniilis in ra praeccptia orgumeiibrum
traditur. Nani in bis omnibus primum, si quid res ipsa dabit fdculiatis,
cnniecluram induci ab accusatore oporlcbit, ut id, quod volunlulc factum
oc gabilur, consulto faclum suspicione aliqua demonslrelur ; deinde
iuducere dclinitionem nccessitudinis, sul casus, aut imprudenliae, et esempla
ad eam dclinitionem adiungere, in quibus iinprudcnlia foisse vidcalur,
aut casus, aut necessitudo, et ab bis id, quod reus infoiai, separare, id
esl, estendere dissimile, quod levius, facilius, non ignorabile, non forinitum,
non neccssarium fueril. rosica dcmonslrare poluissc vilari ; et hac
radono provideri poluissc; si Ime aut illud fecissct, aut, perchè
avvicinava già il gioruo del sacriGxio. Avvenne però caso che essendosi messa
una fiera procella, il (lume Eurola che scorre rasente a Sparla
ingrossò di tanto c prese un andare si impetuoso, che per nessun modo vi
si poterono far passare le vittime. L' appaltatore per dar a
conoscere com'egli era d’animo di voler far il dovere, appostò tutte le
vittime sulla spiaggia per amore che le potessero vedere quelli eh’
erano dall' altra parte del fiume, Avvegnaché tutti sapessero die al
desiderio di passare gii avea fatto ostacolo la si tosta piena del fiume,
nondimeno ci fu chi gl' intentò lite in fatto capitale. Ecco
l'accusa: Non furono in pronto lo vittime che tu dovevi somministrare pel
sacrifizio. La replica i: Vi si concede La ragione giustificante :
Giacché il Guuie fatto grosso d' improvviso mi vietò dal tragittare
le vittime alla città. La confutazione: Tuttavia, siccome non hai fallo
ciò clic comanda la legge, sei degno che le ne sia inflitta la pena.
Il punto che vuol esser giudicato è tale : Poiché ('appallatole non
apprestando le vittime ha mancato alla legge, ma non le apprestò perchè
gliene pose ostacolo la subita piena del fiume, è egli meritevole o
no di supplicio? La ncccssilà Ira luogo nella concessione quando I'
accusato deduce che a far ciò che egli fece fu spinto da una cotale
prepotenza delle circostanze. Per esempio: Vi ha legge presso i Rodiani che in
evento che sia sorpresa nel porlo loro una nave rostrata di qualsiasi
forestiere, essa diventa proprietà del comune. Or essendosi gettato il
mare a burrasca fierissima, avvenne che la furia dei venti, nondimeno che
i naviganti volesseio tener l'alto, spinse la nave loro malgrado, nel
porlu dei Rodiani. Il questore vanta per la legge clic la nave è
proprietà del comune. Il padrone sostenta che non dee al postutto essere.
Si viene alla petizione: Fu presa una nave rostrata dentro dal porto. La
rcplicu è la concessione del fatto. Il motivo di difesa : Fu la forza dei
venti cito necessarianiente u' ha avventalo addentro il porlo. La confutazione
: Tuttavia la nave a richiesta dc!la legge dee cadere in proprietà del
comune. Il punto da decidere: Essendo la riave rostrata, che fu
presa nel porto, fatta dalla legge di ragion del comune, ed essendo
questa nave avventata nel porto dulia furia delta procella a malissimo grado
dei naviganti, si dee essa o non si dee aggiudicar al comune coinè sua
proprietà? Ilo unito di seguilo gli esempli di queste tre parli della
scusa, perché son simili i precetti che si danno circa agli
argomenti proprii di tutte o tre. Difatti in tulle c tre converrà
primamente che l'accusatore, se il fallo stesso gliene olTrirà qualche
appiglio, ricorra alio parti della 9i ni sic ferisscl, praccaveri ;
el dcfinilionihns ostendere non tianc imprmlentiam, aut casum, aul
ncccssitudiricm, sed inertiam, ncgligonliam, faluilalem noininari oporlere. Ac
si qua nccessiludo lurpitodinem videbilur liabcre, oportebit per locorum
communium implicationem redargucnlcm dcmonstrarc quidvis perpeti, mori
denique salius fuisse.quam ciusmodi nccessitudini obtemperare.
Alquc lum ei iis locìs, de quibus in negoliali parie dictom esl, iuris et
aequilalis naluram oportobit quaererc, el, quasi in obsoleta iuridiciali,
per se, hoc ipsutn ab rebus omnibus separatim considerare. Atque hoc in
loco, si facullas crii, riempii* liti oportebit, quibus in s'mili
eicu«alione non sii ignotum, et contenlione, mauis il Iis ignosrendiim
fuissc , el delibcralionis parlibus turpe ani inutile esse concedi eam
rem, quac oh aihcrsario commis»a sit ; permagnuin esse, cl magno
fulurum detrimenln, si ea res ab iis, qui pntest ilern habenl viodieandi,
neglecla sii. ltiTensor aulein conversi! omnibus bis parlibus
poterit oli. Hhivime aulein ili vidimiate defeiidenda commnridiilur. el
in ea re adaugenda, quae vnluntati fiieril impedimento; el se plus,
qnam feeerit. tacere non poluisse ; el in omnibus rebus «oliintalem
speelari oporlere; el se convinci non posse, quod alis i a culpa: et et suo
nomine eomtnunem Immillimi inlirntilalem posse doni nari. Deinde n ini
esse indignius, qoam cuni, qui culpa careni, supplicio non rarere. Loci
aulein commuiies accussaioris, in contcssionem, el quanta pntestas
peccandi rclinqualur, si semel iuslilu questione
congetturale, per potere quando l’accusalo dicesse aver tatto contro sua voglia
ciò che egli fece, dimostrare col melterc in rilievo qualche
sospetto eh' egli anzi ha tallo a sciente c a bello studio ; dipoi si
dovrò porgere la definizione della necessità, o del ca-o, o della
ignoranza, e aggiustar a quella definizione esempii si falli che dimostrino
etTetlivomente o ignoranza, o caso, o necessità, c separare da questi il fatto
presente, voglio dire farlo conoscere ben diverso da quelli, asseverando
che qui il fallo era di meno importanza , più agevole, non ignoto, non
forlunevole, non necessario. Dipoi si vorrà dimostrare che l’accusalo
poteva schivarsene, e darsi attorno facendo questo o quello, perchè nulla
avvenisse, o almeno prevedere dò che sarebbe seguilo se nè questo nè quello
avesse fallo; e col mezzo delle definizioni mettere in chiaro che il fallo
presente non dee nominarsi o tratto d'ignoranza, o caso, o necessità, ma
più presto dipendere da inerzia, negligenza, stolidezza. Che se nella necessilà
fosse impigliala qualche azione ignominiosa, converrà all'accusatore col
mezzo ili varii luoghi comuni mostrare che saria sialo meglio patire
qualunque stremo, e fin anche la morte, che obbedire a necessità di
quella fatta. Inoltre converrà ilielio la guida di quei luoghi, di che si
è dello parlando dello stato negoziale, cercare quale sia la natura ilei giure
e dell'equità. c. come si Tu nella causa assoluta di genere giuridici.de,
considerar ciò medesimo di per sè, separatamente da ogni altra rosa. E
qui, se pure se n'avrà in pronto, dovrassi addurre esempii di falli,
che quantunque giustificali per mezzo di scusa simile, pure non hanno
ottenuto perdono, c mostrare por via di confronto che quelli allato
a questo erano perdonabili mollo più di vantaggio, ed entrando a ragionare
dietro le regole dello s'ato deliberativo, far vedere essereosa turpe o
inutile clic del suo delillo il reo se la passi liscia: esser cosa di
troppo momento, c elio ridonderà a gran male, tc di lai delitto si
volessero trascuratamente passare coloro che hanno l'autorità di esigerne
la pena. XXXIII II difensore all'opposto potrà valersi di tulli
questi argomenti, ma in verso contrario. Egli però si fermerà il più a
difendere il buon volere (l' Il'aecu-ato, e ad esagerare ciò che
gli intervenne inciampo e di ostacolo: sosterrà ch'egli non ha potuto fare
più di quello che fece; e clic in ogni azione deesi aver in mira
l'intendimento, e la volon'à: e che egli non può esser convinto
perchè da colpa è ben lontano; e che se si condannasse per questa sua causa, si
potrebbe egualmente condannare la debolezza comune a lutti gli uomini.
Dirà poscia, non v'esser cosa più crudele lum sii, ut non de facto, sed de
facti causa quaeratur : defcnsoris conquestio est calamilatis cins, quae
non culpa, sed si malore quadam accideril, et de forlunac polestalc, et
hominum iulirmitalc, et, uti suiim animum, non cvrntum considerent.
In quibus omnibus conquestioncm suarum acrumnarum, et crudelilalis
adversariorum indignalionem inesse oportebit. Ac neminem mirari convcniet, si
aut in his aut in aliis exemplis scripti quoque conlroversiam adiunctam
videbit. Quo de genere posteritnobisscparalim dicendum, propterca quod
quaedam genera causarum simpliciter ex sua vi considerantur, quaedam
aulem sibi aliud quoque aliquod controvcrsiac gcnus adsumunt. Quarc
omnibus cognilis, non erit difficile in unam quamque causam transferre,
quod ex eo quoque genere convenict; ut in bis exemplis conccssionis
inest omnibus scripli controversia ea , quae ex scripto et sentenlia
nominatur ; sed, quia de concessione loquebamur, in eam praecepla
dedimus. Rune in alleram concessioni; partem consideralionem
intcndemus. Deprecatio est, in qua non defensio faeli, sed ignoscendi
postulatio continetur. Hoc Bonus vix in iudicio probari polest, ideo quod
concesso peccato difficile est ab co, qui peccalorum rindex esse debet,
ut ignnscat, impetrare. Quarc parte eius generis, quum causam non in eo
constitueris, uti licebit. Uti si prò aliquo claro aut forti viro, cuius
in rem publicam multa suoi beneficia, dixeris, possis, quum videaris non uli deprecalionc,
uti tamen, ad hunc modum : Quodsi. iudices, hic prò suis bencflciis, prò
suo studio, quod in vos semper habuit, tali suo tempore multorum suorum
recte factorum causa uni deliclo ut ignosceretis postulare!, tamen dignum
veslra mansuetudine, dignum virtute huius csscl, iudices, a vobis hanc
rem hoc postulante impctrari. Deinde angere beneficia licebit , et
iudices per Iocum communem ad ignoscendi volunlatem deducerc. Quaro
hoc genus. quamquam in iudiciis non ver di quella, che soggiaccia a pena
quell'esso, che di male fallo non è punto reo. I luoghi comuni che
gli tornano a prò li piglierà l’accusatore, l’uno da ciò che confessa il
reo di aver fatto, l’altro dal far osservare che si lasccrohbe a tulli un
pieno arbitrio di venire a nequizie, se una volta si autorizzasse l'abuso
di far il processo non del fatto, ma della causa del fatto. I luoghi a
prò del difensore sono: il deplorare quella disavventura che occorse non
per colpa dell'accusato, ma per una forza maggiore, cui egli non fu
poderoso a ribattere; il lamentare sopra la gran possanza della fortuna e la
debolezza degli uomini, c clic si voglia alle intenzioni di lui
attribuire una pravità, anzi che cercar la cattiveria del fatto nelle
circostanze che lo accompagnarono. In tutti questi punti dovrà il
difensore mostrar doglianza delle disgrazie del suo protetto, c sdegno
della crudeltà degli avtcr sarii. Nè dee prender maraviglia chi che sia,
se in questi esempi, come in ogni altro, vedesse involta controversia
altresì di scritto. Di questo però ho da parlare distintamente più sotto,
poiché alcuni generi di causa si riguardano puramente in sè e nel
solo punto controverso in cui s'aggirano, ed alcuni altri associano alla
propria qualche altra I specie di controversia. Quando adunque sieno
ben conosciuti i capi precipui di ogni causa, non sarà malagevole
introdurre in ciascuna quel tanto della controversia di scritto che l'è
occoncio o che vi calza: ed anzi in questi medesimi esempi della
concessione è inchiusa la controversia clic si domanda di scritto e di senso;
ma siccome si parlava della concessione sola, non ho dato altro clic i
precetti che erano relativi ad essa. Dello scritto e del senso parlerò
altrove. Ora passiamo a considerare la seconda parte della concessione. Preghiera
è quel discorso, in cui consiste non la difesa del fallo, ma la istanza che
gli sia dato perdono. La preghiera di questa specie è troppo
difficile che in giudirio possa essere poderosa, perchè quando il delitto è
confessalo, appena può darsi che lo perdoni colui che ne dee anzi essere
il punitore. Laonde, qualvolta la tua causa non sia così spallala, che tu
non le possa dar altro per appoggio che la preghiera, dovrai usarne
con parsimonia solo qualche parte. Per esempio se Iti arringassi a
prò di un personaggio di gran levatura o valore, il quale avesse recali di
molli benefizii alla repubblica, potrai, facendo partila di non dar punto
in preghiere, darvi non di meno a questa guisa: che se quest'uomo, o giudici,
clic sa di aver fatti imporlanti bcnclìzii, e preso per voi tulli
molto impegno e premuraci facesse istanza che in si grave sua disgrazia
voi altri a riguardo di latito buone e belle sue azioni gli aveste a
perdonare il satur, nisi quadam ex parie, lamen, quia el pars ' haec
ipsa ìnducenda nonnumquam osi, el iq se- nalu, aut in consilio saepe omrii in
generp, tractanda, in id quoque praceepla pnnemus. Nani in senalu el in
consilio de Syphacc diu deliberatimi | esl ; el de Q. Numilorio Pullo
apud L. Opimium | et eius consilium diu diclum est. Et magia in Ime
quidem ignoscendi quam cognoscendi poslulatio Tatui!. Nani semper animo
liono se in popolimi Romanum fuisse non lam Tacile probabili, quurn
coniccturali conslitutionc uleretur, quam ut propterpostcrius bcneDcium sibi
ignoseerclur, quum deprecationis partes adiungerct. Oporlebit igitur
eum, qui sibi ut ignoscatur , postulabit , commemorare , si qua sua
poteri! beneficia, et si polcrit ostendere ea malora esse, quam haec, quae
deliquerit, ut plus ab eo boni quam mali proTcclum esse videatur ;
deinde maiorum suorum beneficia, si qua cxstabuoi, proTcrre; deinde ostendere
non odio ncque crudclilate fecisse , quod fecerit , sed aut atuUilia, aut
impulsu alicuius, aut aliqua boneala, aul probabili causa ; poslea polimeri el
confirmarc se et hoc peccalo doclum, el beneficio eorum, qui sibi
ignoverint, confirmalum , ornili tempore a lati radono afuturum ; dcinilc
spem ostendere aliquo se in loco magno iis, qui sibi concessemi,
usui fulurum. Poslea, si facullas eril, se aul consanguincum, aul iam a
maioribus in primis amicum esse demonstrahit, el ampliludinem suac voluntalis ,
nobili latem generis eorum, qui scsalvum velini, el dignilalem estendere,
el celerà ea, quae personis ad honestalem et amplitudinem sunt allribula,
cum couqueslionc, aìne adrogantia, in se esse demonstrahit, ut bonere
polius aliquo, quam ulto supplicio digiius esse videatur ; deinde celeros
proTerrc, quibus moiora solo delitto ch’egli ha commesso,
sarebbe pure un tratto degno della clemenza vostra, o giudici, e
degno della virtù di tanto uomo clic voi scendeste a indulgenza si fatta
per essere si Tallo il personaggio clic la vi ehiede. Dipoi si potrò mettere
in sul grande i delti lienefizii, e col maneggio del luogo comune
clic è calzante ed alto a ciò, piegare il cuore dei gindici a volere pur
perdonare. Il perchè, sebbene dilla preghiera non si dee far uso ne’
giudicii se non che per qualche poco, lunaria perchè quesla porle
medesima si dee pur qualche rolla interporre, ed ami incontra
sovcnle che o in senato o in consulta si debba trattar la preghiera
per ogni sua parte, così verrò qui dando i precetti che a questo capo si
riferiscono. Certo è clic sull’ aliare di Si Tace cosi in senato come in
consulta si deliberò molto a dilungo se gli si dovesso perdonare, ed
altresì sopra Q. Numilorio Pullo fu parlato lunga pezza davanti L. Opimio
e ga sua consulta; c massime nella causa di Numitorio Tu senz'altro piò
valevole il fare istanza clic gli fosse perdonalo, elio non l'insistere
perchè ne seguisse il processo. Non era infatti troppo facile per lui,
essendo la sua causa basala sul congellurale, far vedere manifestamente
ed in prova ch’egli fosse stato sempre di buone intenzioni e voleri verso
il popolo Romano; ben per contrario gli fu facile ottenere che gli fosse
perdonato, Ira in vista del beneficio che da ultimo avea fallo, c mollo
piò per avere al suo ragionamenlo aggiunta la fona dello preghiere.
XXXV. Converrà dunque che colui il quale facesse istanza perchè gli
fosse perdonalo, vada ricordando i benefizii che potesse aver fallo, e
mostrando, se il caso gliene pcrtnclterà.ch’cssi in confronto sono mollo piò
rilevanti clic non le mancanze ch'egli lia commesse, tanto che si paia
che ha fallo del bene troppo più che del mole; dipoi dovrà recare
in mezzo, se polrà vantarne, i benefizii dei suoi maggiori; indi dar a divedere
come a ciò che egli fece non fu indolto nè da odio nè da
crudelezza, ma o dalla scioccaggine o dalle istigazioni di alcuno,
ogipure perch'egli n'ebbe una causa onesta o lodevole; dappoi dar parola
e far ad ogni modo fede eh’ egli ammaestrato dalla esperienza presa nella
prcscnlc sua colpa, e reso raffermo e savio dal beneficio di quelli che di
quel fallo gli perdonarono, non vorrà piò in nessun tempo adoperarsi mai
di quella maniera; inoltre mostrare anche speranza che in qualche occasione
ei polii pur fare avvantaggio mnlloe servigio a quelli die avranno
indulto con lui. Dipoi, se avrà ragioni da polerlo fare, dimostrerà aver egli
parentezza con quelli a che rivolge le suo preghiere, oppure
coltivala sempre l' amicizia che verso loro gli fu concessa dclicta sinl.
Ac mullum profìcicl, si se miscricordem, in polestalc propcnsum ad
ignosccndum fuissc oslendcl. Alque ipsuin illnd peccalum crii cxtcnuandum, ut
quam minimum obfuisse videatur, etani turpe aul inutile demonstrandum tali de
liominc supplicium sumere. Deindc loda communibus miscrieoMiam captare
oportebit ex iis praeceptis, quae in primo libro sunt
eiposila. Advcrsarius aulem malefacta augcbil: nibil imprudentcr,
sed omnia ci crudelitale et malitia fa da dicet; ipsum misericordcm,
superbum fuissc, et, si poteri!, ostendet semper immicum fuisse et amicum fieri
nullo modo posse. Si beneficia proferel, autaliqua decausa facla,
non proplcr bcncvolenliam dcmonstrabil, aut poslea odium esse acre
susccplum, aul illa omnia maleficiis esse deleta, aut levìora beneficia quam
maleficia, aut, quum bencficiis bonos habitus sii, prò maleficio pocnam
sumi oportere. Deinde turpe esse aut inutile ignosci. Deinde, de quo ut
polestas esse! saopé optarint, in eum polestate non uti summamesse
stulliliam; cogitare oportere, quem animum in cum et quale odium
habuerint. Locus aulem communis erit, indignano maleficii.et alter,
eorum misereri oportere, qui proplcr fortunam, non proplcr maliliam in
miseriis sinl. Quoniam ergo in generali conslilutione lamdiu
proplereius parlium mulliludinem commoramur, ne forte varietale et
dissimililudine rerum diduclus alicuius animus in qucmdam errorem
deferatur, quid etiam nobis ex eo genere resici, et quare resici, admonendum
videtur. Iuridicialcm causam esse dicebamus, in qua acqui et iniqui natura et
praemii aul pocnae ratio quaererelur. Eas causas, in quibus de acquo et
iniquo quaerilur, exposuimus. trasmessa dai maggiori, c farà conoscere il
grande suo buon volere, come altresì la nobiltà della stirpe e la
grandetta degli ufllcii tenuti da quanti il bramano salvo o risparmialo:
dimostrerà avere in sé, pure clic il faccia con parole dimesse e in tuono
presso ette lamentevole, tulli quei caratteri che son proprii delle
persone clic per grandetta c onestà ranno dagli altri distinte, sicché faccia
in certo modo apparire esser egli meritevole piullosto di qualche onore
ebe di un castigo: inoltre nominerà tulli gli altri, quanti ne sappia, a cui
furono perdonati delitti vie più gravi del suo. Mollo anche gioverà
alla sua causa, se mostri com'egli fu sem. pre compassionevole, e come
sempre che ebbe csercitio di autorità fu inchino ad usar perdonanti ed
indulto. Anche dovrà il difensore appicciolir la colpa dell' accusalo, e
mostrare che il danno indi venutone é da nulla, ed esser o cosa vana o da
far disonore il soggettare a castigo una persona tale. Dipoi si
vorrà con l'uso de' luoghi comuni accattargli compassione secondo i precetti
che nel primo libro se ne son dati. L'avversario per contro amplificherà
il delitto: dirà che niente vi fu fallo per ioconsiderama, ma lutto ami
per malizia e crudelezia: che egli fu superbo e senza pietà; c dove il
possa, farà vedere ch’egli fu sempre porlalo alle nimicizie, e che
amicarlo mai per nessun modo è possibile. Se toccherà i benefizii da lui
fatti, dimostrerà che essi ebbero origioe da qualche ragione di suo
vantaggio, non da animo proclive a ben volere, oppure eh’ egli poi ti attossicò
con l' odio acerbo in che colse i beneficali, o che i benefizi! furono
distrutti da altrettanti diservigii e male cose, o che il ben eh’ egli
fece fu da meno che il tanto male, ovvero che deesi oggimai, poiché hanno
avuto la debita mercede i suoi benefizii, volere il castigo delle
sue malvagità. Poscia verrà dicendo che il perdonare sarebbe una
inutilità, o un tratto vituperevole: essere un troppo scioccheggiare il
non volere punto far uso i giudici sopra costui di quella autorità che
sopra di esso hanno tante volte ambito di avere: dover essi riandar seco quanto
mal animo e qual odio a quel tristo hanno già portato. E qui il
luogo comune che fa al proposito è in prima lo andar in parole piene di
sdegno contro il delitto dell'accusato, secondamente mostrare che
si dee aver pietà s) bene, ma solo di quelli che sono flagellali dalla
fortuna, non di quelli che sono nelle miserie per loro propria malvagità.
Ma posciachè io mi trattengo cosi alla lunga circa la costituzione
generalo per la moltitudine delle parti eh’ essa comprende, voglio
ammonire che altro mi resti ancora di questa trattazione, e perchè mi
resti; e il vo' fare perchè qualcuno per ar Restai nunc, ul de praemio, et
de poena explieemus. Sun! cnim mullae causae, quae ex pracmii alicuius
pctilione Constant. Nametapud itidices de praemio saepe accusalorum
quaerilur, et a senaiu aul a Consilio aliquod pracmium saepe
pelilur. Ae neminem conxeniet arbitrari nos, quum aliquod exemptum
ponainus, quod in senatu agatur, ab iudiciali genere exemplornm recedere.
Quidquid cnim de homine probando aut improbando dicitur, quum ad cam diciioncm
scntentiarum quoque ratio accommodetur, id non, si per senleiiliae
diciioncm agilur, dcliberativum est; sed quia de homine staluitur,
iudicialc est habendum. Omnino autem qui diligcnter omnium causarum
vim et naturam cognoverit, genere et prima conformationc eas inlelliget
dissidere. Ccleris autem partibus aptas inter se omnes et aliam in alia
implicatalo videbit. Nunc de pracmiis consideremus. L. Licinius Crassus
consul quosdam in citeriore Gallia nullo illustri neque certo duce, ncque
eo nomine, ncque numero praeditos, ut digni cssent, qui hoslcs
pnpuli Romani esse dicerentur, qui lune cxcursionibus et latrociniis
infestam provinciam reddercrit, consectatus est et confecit. Romani rcilil :
triumphum ab senatu postulai, llic, ut et in deprccatione, niliil ad nos
allinei rationibus et inflrmationibus rationum supponendis ad
iudicationem pervenire, propterea quod, nisi alia quoque incidcl
conslitutio, aul pars constilulionis, simplex erit iudicalio, et in
quacslione ipsa contincbitur. In deprccatione, huiusmodi : Oporteatne
pocna adfici? In hac, huiusmodi: Oporteatne dari pracmium ? Nunc ad
praemii quacstionein appositos locos exponemus. Ratio igilur praemii
qoatuor est in partes distributa : in bcnelicia, in hominem, in
praemii gcnus, in facultates. Beneficia ex sua ri. ventura non pigliasse
le cose a rovescio, tratto in errore dalla varietà e dissomiglianza di esse,
lo già diceva, quella essere causa giuridiciale, in cui si cerca la
natura del giusto e dell' ingiusto, e la ragione del premio e della pena;
ed anche ho csposlo le cause, nelle quali del giusto e dell'ingiusto si la la
debita investigazione. Resta dunque adesso che si venga a parlare del
premio e delia pena. Ci sono di molle cause, le quali consistono nella
domanda di qualche premio. E infatti si controverte spesso davanti ai
giudici del premio da dover dare agli accusatori c cosi ancora molle delle
volte si domanda premio dalla consulta o dal senato. Nessun però creda che
quando io reco alcun esempio di causa che si agili in senato, io mi
diparta dagli esempii di genere giudiciale; conciossiachè ciò che si dice
o a lode o a biasimo di una persona, quantunque eziandio a questo
genere di dicitura vada spesso unita la pronunzia della sentenza, non si
vuole però per la ragione della sentenza ascriver al genere deliberativo
la causa di lode o di biasimo: nondimeno, siccome si tratta di persona da
prosciogliere o da condannare, la causa è per questo da agitarsi
con le forme del genere giudiciale. Del resto, chi conoscerà a fondo la
forza e la natura di ciascuna causa, intenderà che tutte hanno bensì una
differenza si nel genere primario e si ancora nella forma, ma che però
nelle rimanenti lor parti son tutte collegate fra loro, c come a dire l' una
impigliata nell' altra. Ora dunque entriamo a far parola circa 1 premii.
Il console L. Licinio Crasso nella Gallia citeriore s' avvenne in una
banda di armali che avea per capo una persona oscura, o a meglio
dire non avea nessun capo stabile, e ni pel nome con che veniva
designata, ni per lo numero dei combattenti, non meritava esser della al popolo
Romano nemica ; e solo con i ladroneggi e l'andare in corso molestava la
provincia. Il console non di meno le diede addosso, e la pose in rolla e
sgominio. Tornato a Roma, chiede che ii senato gli decreti il trionfo.
Qui, come anche nella causa che si fonda sulla preghiera, non ci i
mestieri di metter innanzi nè le ragioni giustiDcanti, nè le repliche incontro,
per venire al punto da giudicare, poiché se non interviene un' altra
costituzione, o una sua parte, il punto da giudicarsi è uno solo,
quello che si contien nella questione. Nello stato di preghiera questo
punto è, Se si debba o no infligger la pena: nel presente, Se si debba o
no dare il premio richiesto. Ora sporremo i luoghi acconci alla
questione di premio. La ragione del premio è di quattro maniere, secondo
che si riguardano o i benefizi!, o la persona che li fa, o la qualità del
premio, o ex tempore. Gì animo eius, qui feci!, ex casu consideranlur. Ex
sua vi quaercntur lioc modo : magna an parva, facilia an dilBcilia, singnlaria
sinl an vulgaria, vera, an falsa, quanam cxornalione honeslcnlur.
Ex tempore aulem, si lum, quum indigcremus ; quum celeri non possent aul
nollcnt opitulari ; si lum, quum spes deseruissct. Ex animo, si non sui
commodi causa, si co consilio fccil omnia, ut hoc conlicere posso! ; ex
casu, si non fortuna, sed industria faclum videbitur, aul si induslriae
fortuna obslitisse. In hominem aulem, quibus raliunibus viieril, quid
sumplus in eam rem aul laboris insumpserit ; cequid aliquando tale
fcceril ; num alieni laboris aut deorum bonitatis praemium sibi postulel ; num
aliquando ipse lalem ob causam aliquem praemio adOci negarli
oportere; aut num iam salis prò co, quod feccril, honos habitus sii; aul
num necesso fueril ei tacere id, quod feceril ; aul num ciusmodi sii
faclum, ul, nisi fecisset, supplicio dignus esse!, non, quia
fecerit, praemio ; aul num ante tempus praemium petat, et spem incertam
certo vendilet predo: aut num, quod supplicium aliquod vile), eo
praemium postulet, uti de se praciudicium factum esse videalur. In
praemii autem genere , quid et quantum et quamobrcm postuletur, el quo
et quanto quaeque rcs praemio digna sii, considerabitur; deinde apud
maiores quibus hominibus et quibus de causis lalis honos habitus sii,
quaeretur ; deinde, ne is bonos nimium pervagclur. Alque bic eius, qui conira
aliquem praemium postulameli) dicet, locus eril communis: praemia virtulis et
oRìcii sancta et casta esse oporlere, ncque ea aut cum improbis
communicari, aul in mediocribus hominibus pervulgari ; el alter : Minus homines
virlutis cupidos forc, virtulis praemio pervulgato; quae enim rara et ardua
sinl, ea ex praemio pulcra et iucunda hominibus v ideri; et tertius: le
sostante dal benemerente possedute. I bcnelìiii si vogliono considerare
in quanto al peso che hanno in sì, in quanto al tempo, nH'inleniione di
chi li fa.all'accidcnte da cui forse dipendono. Rispetto il peso
che hanno in sì, si cercherà se siano grandi o piccoli, se fatti con
travaglio o senta, se siano slraordinarii o comuni, se veri o se falsi, c
da quali speciose parole siano onestali. Rispetto il tempo, si
cercherà se ci furono falli quando ci andavano a bisogno; se quando gli
altri non potevano o non ri voleano aiutare ; se quando ogni speranza
ne facevamo già andata. Rispetto alla intenzione, se altri fece il
benefizio senza nessun disegno di proprio interesse, se operò tutto con l’
intento di poter elTeiluare quel bene : rispetto all'accidente, se il
beneficio ha vista di esser fallo non a fortuna, ma piuttosto a belio
studio, ovvero se fu il caso che oppose ostacolo alla premura e al buon
volere. Si vogliono considerare i benefizii relativamente alla persona che li
fa, badando quali furono i modi del trarre costui la vita, quali spese
abbia sostenute o quali fatiche per acquistarsi quel merito : se altre
volle abbia fallo azioni altrettali : se domandi un premio dovuto alle
altrui fatiche, o che non è largito che dalla sola bontà degli dei
; se abbia mai detto che per una tale ragione quel premio non dee
esser dato a nessuno ; o se per quello che ha fatto n'abbia già avuto una
sufficiente mercede ; o se egli fece niente altro che quello che non
poteva a meno di fare ; o se l' azione fosse di tale necessità, che se non
l’avesse fatta saria stato degno di supplizio, piuttosto clic esser
degno di premio per averla falla ; o se voglia esser premialo quando il
tempo non ì da ciò, non si sapendo ancora I* appunto del suo merito , e vender
per un prezzo certo una cosa ancora incerta e dubbia ; o se chieda un
rimerito con la mira astuta di cessarsi da qualche punizione, facendo quasi
apparire che si fosse già fatta un’ ordinanza a suo favore prima che l'alTare
n’andasse al giudicio. Quanto è alia qualità del premio, bassi a
vedere quale e quanto grande sia la cosa eh’ è domandata, e per qual
motivo, e poi di quale e di quanto premio ciascuna azione sia degna :
indi si verrà esaminando a quali persone fra gli antichi e per
quali cause siasi conceduta una tale mercede; dipoi si baderà che mercede
si fatta non abbia a divenire troppo comunale. E qui ecco il luogo comune
da dover usare chi arringherà contro il postulante: i premii dovuti alla virtù
c a qualche rilevante mansione volersi avere in luogo di cosa santa e di
pura, nè doversene far partecipe la gente malvagia, o farsi tener a vile
col lasciarsi andare alle mani di uomini mediocri e volgari; ed ecco
un Si exsislanl, qui apud maiores noslros ob oprepiani virliilem lati
lionorc (tignali smit, nonne de sua gloria, quum pari praemio loles
liomines alitici vulcani, dilibari pulenl ? cl coruin enuineralio Ct rum
eis, quns conira ilicas, comparano. Eius autem. qui pracmiiim pelei,
tarli sui amplificano, eorum, qui praemio adfccli sunl. cum suis
taclis conlenlio Deindc celeros a virlulis studio rcpulsum iri, si ipse
praemio non sii adfeclus. Facullales aulem considcranlur, quum aliquod
pecuniarum pracmium poslulalur ; in quo, ulrum co piane sii agri
vectigalium, pccuniae, an penuria, consideralur. Loci communes: Ka rullo
Ics augerc, non minuerc oporlere.cl : Impudcntcm e<se, qui prò
beneficio non graliam, verum merredem postulo! ; conira aulem de pecunia
raliocinari sordidum esse, quum de gralia reterenda dclibcrclur ; el, se
prclium non prò tarlo, sed honorem ila, uli faclilatum sii, prò beneficio
postulare. Ac dcronstilulionibus quidem salis dicium esl : nunc de iis
conlroversiis, quac in scriplo rersanlur, dicendum videlur. In scriplo
vcrsalnr controversia, quum cv scriplionis ralione aliquid dubii
nascilur. Id lì l ex ambiguo, ex scriplo cl scnlenlia, ex conlrariis
Icgibus, ex raliocinationc, ex definilionc. Ex ambiguo autem nascilur
conlruvcrsia, quum, quid setiscrii scriplor, obsrurum esl, quod scriptum
duas plurcsvc res significai, ad huno modum : Palerfamilias, quum lilium
hcredem tacerei, vasorum argenleorum contimi pondo uxori suae sic legavi! :
lleres meut uxori mene iiasorum argenieorum pondo cenlum, quae rotei,
dato. Posi mortem eius vasa magnifica ct pretiose cadala pelil a (Ilio
maicr. lite se. quae ipse velici, debere dici!. Primum, si fieri poteri!,
demonstrandum est non esse ambigue scriptum, proplcrca quod omnes in
consucludine scrmonis sic uti solenl eo verbo uno pluribusve io eam seatealiam,
in quam is, qui dice!. altro : Rendersi chi che sia meno bramoso
della virtù, se vedesse il premio ad essa dovuto divenire quasi che
una trivialità ; rhè le cose rare c mala, geroli a conseguire sono
appunto quelle che gli uomini, ore le ottengano in premio, hanno in
conto di gioconde c di belle; e tenamente : Se v' ha tra i nostri
antichi di quelli ebe per la sfolgorata loro virtù furono giudicati di
tal premio meritevoli, non crederebbero essi forse che la gloria loro se
ne andrebbe scemala, se vedessero un premio eguale cader nelle mani
a persone che non ne son degne? c qui viene in concio che tu venga
noverando quei tali amichi, e li metta a confronto con quelli, contro ai
quali tu arringhi. Quanto a colui che chieda il premio, ei maneggerà il
seguente luogo comune; darà Importanza al fallo ch'egli operò, e farà
comparazione di quanto operarono quelli che furono premiali con quanto ha
operato egli stesso. Dipoi farà vedere elicsi obbligherebbe ogni altro a
rompersi dall’ amore alla virtù, dove egli del suo ben fare non fosse
rimeritato. Alle sostanze si dee aver riguardo allorché é domandato
qualche premio in danaro ; e rispetto a questo caso si esamina se
il petente è bene avvantaggialo di campagne, di entrate, di dauaro, o se
per contrario ne patisce difetto. I luoghi comuni sono questi : Le sostante
si deono accrescere, non mica scemare, c : Voler avcre una fronte
invetriata colui che per un benefizio chiede una paga, anzi clic un alto di
riconoscenza ; per contra si dirà essere una grettezza che mentre si
consultano consigli intorno a grazie da riferire, sì faccia computi sul
danaro da dover numerare ; c, chieder egli non già il prezzo della
sua azione, ma un premio del suo beneficio in quel modo o misura clic
altre assai volle fu praticato. Or questo tanto potrà bastare ad essersi
detto delle costituzioni: adesso è da dire di quelle controversie che si
aggirano sopra lo scritto. XL. È controversia circa allo scritto,
allorché dal modo con che lo scritto fu espresso ne viene qualche
dubbielà. Nasce essa controversia dalla espressione ambigua , dallo
scritto e dal senso, dalle leggi che si fan contro, dal raziocinio,
dalla definizione. Nasce controversia dalla espressione ambigua
quando é oscuro c non si può compren* dere che volesse dir lo scrittore,
però che la sua espressione significa due o più cose. Per esempio;
Dii padre nell' istiluiro suo erede il figlio legò alla moglie de' vasi
d'argenlo per lo peso di cento libbre, e acrisse cosi: Il mio erede dia a mia
moglie, per lo peso di cento libbre, de’ vasi di argento quelli che
vorrà. Poi che il marito si mori, la madre domanda dal figlio de’ vasi magnifici,
che aveano gran lautezza d' intagliature. Costui risponde che le dovea quelli
eh' egli volesse. Or la pri aecipiendum esse demonstrabit. Deinde ex
superiore el et inferiore scriptum docciulum iti, quoti quaeralur, (Ieri
perspicuum. Quare si ipsa srparatim ei se verba considcrenlur, omnia aul
plcraque ambigua visiim iti ; quac auleni ex omni considerata scriptum
perspicua Kant, baec ambigua non oporlcre eiislimari. Deinde, qua in
sentenlia scriplor fueril, ci celerà eius scriplis et ex faclis, dittila, animo
alque fila eius stimi oporlebil, el cam ipsam scriplurnm, in qua inerii
illud antbiguum, de quo quaerctur, totani omnibus ex partibus pericolare,
si quid aul ad id appositum sii, quod nos interprclcmur, aut ei, quoti
adversarius inlelligat, Qdvcrsetur. Nani facile, quid verosimile sii
eum voluisac, qui scripsit, ex orniti scriptum , et ex persona
scriploris, alque iis rebus, quae personis attributac sunt,
considerabilur. Deinde erit dcmonstrandum, si quid ex re ipsa dabilur
factillalis, id, quod adversarius inlelligat, multo minus commode Aeri
posse, quam id, quod nos accipimus, quod illius rei ncque adminislratio
neque exitus ulius ciste! ; nos quod dicamus, facile et commodc
iransigi posse. Ut in hac lege (nibil enim prohibel (iclam «empii loco ponere,
quo facilius res Intelligalur) : «eretrix coronarti ne habclo; si
habueril , pubitea erto, conira eum, qui merctricem pubi icari dical ex lege
oportere, possi! dici neque adminislralionem esse ullam publicac
meretricis, neque exilum legis in meretrice publicanda; at in auro publicando
et adminislralionem et exilum facilem esse, cUncommodi nibil
incsse. Ac diligentcr illud quoque allenderc oportebit, anni, ilio
probato, quod adversarius inlelligat, res utilior, aul honcstior, aul magis
necessaria a scriptorc ncglecta videalur. Id fìct, si id, quod nos
demonslrabimus, bonestum, aul utile, aut necessariitm demonslrabimus ; et
si id, quod ab adversariis dicclur, minime eiusmodi esse dicemus. Deinde,
si in lege erit ex ambiguo conlroversia, dare operam oporlebil, ut de co, quod
adversarius inlelligat, alia in lego caulum esse do ma cosa, in
evento cito si possa, decsi dimoslrare non essere punto ambigua la
scrittura, conciossiacbè tutti nell’ uso comune del parlare cosi sogliono
adoperar quell' una o ptù voci per esprimere quel senso, nel quale citi
parla dimostra esse voci dover essere intese. Dipoi è da ammonire clic
ciò clic si cerca è già reso evidente dal contesto che precede c da
quello che segue. Se si volesse attenersi a questa o a quella parola presa
separalamente c di per sé, tulle le parole, o almeno la più parte,
potranno aver aspetto di esser ambigue; ma non si dcono tenere per tali
quelle che son già messe in evidenza dall'esame del contesto e complesso
dello scritto. Dipoi, a voler conoscere qua; fosse la mente dello
scrittore, si vorrà roviglior e razzolare tutti gli altri di lui scrini,
i falli, i detti, il modo di pensare, il modo di vivere, e scrutar
In ogni sua parte tutto lo scritto che porla la della ambiguità,
per conoscere se alla espressione ambigua che interpretiamo ne sia soggiunta
qualche altra che ne la chiarisca, o che stia contro a quel senso
che l' avversario crede di dover inferire: perocché sarà anzi facile trovare ciò
che verisimilmente abbia voluto lo scrittore, quando si voglia por mente
a lutto lo scrino, e alla persona che scrisse, e a quelle altre cose clic
alle persone si riferiscono. Dipoi sarà da dimostrare, se la cosa
slessa ne porgesse qualche appicco, che ciò che intende l'avversario si
può fare molto meno utilmenlc che ciò clic intendiamo noi, poiché quello
non è conduccnlc a vcrun vantaggio, a vcrun successo ; mentre ciò clic diciamo
noi può leggermente c con vantaggio comporre ogni cosa. Citiamo per esempio
questa legge ( che niente vieta il pigliar ad esempio una legge
immaginaria, purché s' intenda la cosa più di facile) : Nessuna meretrice
porterà corona : se una la portasse, sarà incamerata. Contro colui che dicesse
doversi iti for za della legge por nel fisco la meretrice, si potrà
rispondere non avere il comune alcun provcnlo da una donna pubblica, nè
v' essere nel recarla al fisco alcuno scopo della legge : bensì »' essere
e provcnlo al comune e scopa della legge incamerando l’oro di che è composta
la corona, senza che ne emerga un menomo clic di svantaggio. Si vorrà
eziandio ben attendere, se nel caso che fosse adottato il seoso voluto
dall’ avversario, possa parere che lo scrittore abbia trascurala qualche
cosa piò utile, o più onesta, o più necessaria. E questo si farà, se
porremo a vedere che ciò cito adontatilo noi è onesto, od utile, o
necessario ; e che ciò che dicono gli avversarli non porta nessuna di
queste qualità. Dipoi, se la controversia sarà circa I' ambiguo che si
trovasse in una legge, si vorrà meller opera a dimoslrare che all'
inconve ccalur. Pcrmullum aulem prodcict illud demonslrare, qucmadmodum
scripsisset, si id, quod advcrsarius accipial, Acri aut inlclligi voluissct :
ut In hoc causa, in qua do vasis argenteis quaerìtur, possi! mulier
dicere, nihii allinuisse ascribi, quae volef, si heredis collimati
permitleret. Eo enim non adscriplo niliil esse dubilalionis, quin
hcres, quae ipse vcllet, daret. Amenliam igitur fuissc, quum hercdi
velici caverò, id adscribere, quo non adscriplo nihilominus hcredi
cavcrctur. Quare hoc genere magno opere talibits in causis uti oporlcbit
: si hoc modo scripsisset, Isto verbo usus non csset, non isto loco
verbum istud collocasse!. Nani ex bis scnlcntia srriploris maxime
pcrspicitur. Deinde quo tempore scriptum sii, quacrendum est, ut,
quid cum voluisse in ciusmodi tempore veri simile sit, intelligatur. Post ex
deliberationis parlibus : quid ulilius, et quid honeslius et illi
ad scribendum, et bis ad comprobandum sii, demonstrandum ; et ex his, si
quid amplificationis (labitur, communibus utriuque locis uti oportebit. Ex
scriplo et sententia controversia consistil. quum alter verbis ipsis, quae
scripla sunt, utilur, allcrad id, quod scriplorem scnsisse dicci,
omnem adiungit diclionem. Scriploris autem sentcntia ab eo, qui sententia se
dcfendel, lum scmper ad idem spoetare et idem ielle demonslrabitur ; lum ex
farlo ani ex evento aliquo ad Icmpus id, quod insliiuil, accommodatur.
Semper ad idem spedare hoc modo: Palerfamilias quum liberorum Imberci
niliil, uxorem aulem haberel, in testamento ita srripsit : Si mihi filivs
genitur unni pluresve, is mi hi heres calo. Deinde quae ad-oicnt. Poslea : Si Mita ante morilur,
quam in tutela m sumn venerii, lum inibì lite sccundus heres eslo. Fillus natus
non est. Ambigunt agnati cum eo, qui est hcrcs, si fllius ante quam in
suam tutelam venia!, morluus sit. In hoc genere non potest hoc
dici, ad tempus et ad eventum aliquem scnlenliam scriploris oporlere
accommodari, pròpterea quod ea sola esse demonslratur, qua fretus ilio,
qui conira scriptum dicit, suam esse heredi nienza messa in campo
dall'avversario fu gii provveduto con altra legge. Gioverà poi gran fatto
il mostrare come si saria espresso io scrittore, ove avesse voluto
che si facesse o s'intendesse ciò che l'avversario crede d'aver inteso.
Per esempio, nella causa, in cui s' ioquerisce sopra le vasa di
argento, potrebbe dire la donna, che se il testatore avesse voluto
lasciar l' arbitrio all' erede, non era di bisogno che aggiungesse quelle
vasa che vorrà. E infatti, se non ci fosse quella giunta, non ci sarebbe
neppure dubbio che l'erede non avesse date alla madre le vasa eh' egli
avesse creduto. Essere dunque stata una mattezza che lo scrittore,
volendo lasciar si fatto arbitrio all’erede, facesse una giunta di tal
sorta, che se anche non ci fosse, lo lascerebbe niente di meno
nell'arbilrio stesso. Eppcrò in cause di questa fatta sarà mollo
importante far uso dell'argomento che segue: se lo scrittore avesse avuto
un tale intendimento nello scrivere, ei non avrebbe adoperata quella tal
voce, non avrebbe allogato quella parola in questo tal silo;
conciossiachò son questi, più che ogni altro, gl’indizii da cui si viene
a riconoscere la mente dello scrittore. Dipoi si dee esaminare in
qual tempo fu messo giù lo scritto, per mettersi a sapere ciò che
vcrisimilmente in quelle tali circostanze lo scrittore volesse. Poi si
dimostrerà, dietro le parti del genere deliberativo, quale delle due cose
dibattute sia la più utile c la più onesta che l'autore dovesse scrivere,
e che gli avversari! debbano voler sostenere ; a dote alcuno di
questi punti sia da trattare col mezzo della amplificazione, dovrà l'una
parte e l'altra valersi de' luoghi comuni che sono da ciò. Sorge controversia
di scritto c di senso allora che l'uno de' litiganti s'attiene alle
parole stesse che sono scritte, c l'altro converte c piega tutto lo
scritto al senso ch'ei crede avere avulo in mente lo scrittore. Quegli
che sostiene il senso, mostrerà come con quel tale concetto Io
scrittore mira sempremai al senso stesso e ad esprimere la stessa
coso ; oppure che esso concetto è acconciato in tal senso a questa tale
circostanza per amore di qualche avvenimento, di qualche fatto, e via
via. Dcll'avcr sempre un concetto il senso medesimo ecco un esempio è qui: Gn
padre che non avea figliuoli, sì bene avea moglie, nel suo testamento
lasciò scritto cosi: Se mi nascesse un figlio, uno o più, voglio che sia
mio erede. E qui segue il testo secondo che è uso. Indi dice: Se il figlio
morisse innanzi che fosse giunto alla pubertà, allora quello che è secondo sarà
l'erede. Non nacque nessun figlio. I consanguinei del padre entrano
in litigio sul diritto di eredità con quello che pretende clic il padre
lo istituisse crede in talcm dcfendit. Allerum autem genus est eorum
qui senlenliam inducunt ; in quo non simplex volunlas scriptoris ostemJilur,
quae in omne tempus, et in omne factum idem valeat ; sed ex quodam
facto aut erenlu ad tempus interprctanda dicitur. Ea parlibus iuridicialis
adsumplivac maxime suslinetur. Nana tum inducitur comparatio, ut in eo,
qui, quum lex aperiri portas noctu «darei, aperuit quodam in bello, et
auxilia quaedam in oppidum recepii, ne ab hostibus opprimercnlur, si
foris essent, quod propc muros bostcs castra habercnl ; tum relatio
criminis, ut iu eo milile, qui quum communis lei omnium hominem occidcre
velare!, tribunum suum, qui «im sibi adferre conarctur, occidit;
tum remolio criminis, ut in eo, qui quum lex, quibus diebus in legationem
proflcisceretur, praeslitueral, quia sumptum quaeslor non dedit,
profeclus non est; tum conccssio per purgatiouem et per imprudenliam, ut
in viluli immolalionc, et per vim, ut in nave rostrata, et per casum, ul
in Eurotae magnitudine. Quarc aut ila sentcntia inducelur, ut unum
quiddam voluisse scriptor demonstretur; aut sic, ul io ciusmodi ra, et
tempore boc voluisse doceatur. Ergo is, qui scriptum defendet, bis
locis plerumquc omnibus, maiore aulem parte semper poteri! uli :
primum scriptoris collaudatone et loco communi nihil eos, qui ìudiccnl,
nisi id, quod scriptum sit, spedare oporlere; et boc eo magia, si
legitimum scriptum proferelur, id est, aut lex ipsa, aut aliquìd ex lege.
Postea, quod vehemenlissimum est, facli aut intenlionis adversariorum cum
ipso scripto contenlione, quid scriptum sii, quid factum, quid iuratus
index ; quem locum mullis modis variare oportebit, lum ipsum secum
admirantem, quidnam centra dici possi!, tum ad iudicis ofOcium
reverlentem et ab eo quaereotem, evento die il figlio morisse innanzi alla
pubertà. In questa causa non si può dire che debbasi accomodare il dello
dallo scrittore al tempo c ad un avvenimento di qualche sorla , poiché si
dimostra senza contrasto essere quel detto non altro che il senso,
di che si fa forte il litigante che parla contro lo scritto per difendere che è
sua l'eredità. La seconda specied'interpretazione ammessa da quelli che
s'attengono al senso, si ò il dimostrare non essere la volontà dello
scrittore così semplice e condizionala, da avere in ogni tempo e per
ogni caso l'intento medesimo, ma doversi interpretare secondo la
circostanza, secondo che richiede quel tale avvenimento o quel tal fatto.
Questa specie di trattata appartiene specialmente a quella costituzione
giuridiciate che si domanda assunliva. E infatti egli avviene che ora si dee
istituire la comparazione, come rispetto a colui clic, vietando la legge
dall’aprire lo porle sempre clic dura la not•e, le aperse in tempo di guerra, e
mise dentro in città uno sforzo di aiuti, perchè stando fuori non
fossero oppressali dai nemici clic stavano a campo soltesso le mura ; ora
si dee riversare la colpa sopra un altro, come farebbe quel soldato che,
interdicendo la legge a tutti comune di levarla vita a chi che sia, la
levò al suo tribuno clic si lasciava andare a fargli le forze addosso ; ora si
dee venire alla remozionc della colpa, come farebbe colui che, avendo la legge
posti i giorni in cui si dovesse partire in ambasceria, non parti altrimenti
però che il questore non gli diede le spese ; talora si dee venire alla
concessione coll’addurreo la scusa o la ignoranza della legge, come nel
sacrifizio del vitello; o la forza maggiore, come nel fatto della
navcroslrata ; ol'accidente, come nella escrescenza detl’Eurota. Laonde il
senso di uno scritto si dee difendere per due modi, o mostrando che
lo scrittore con quel tale concetto ha sempre voluto esprimere una cosa stessa,
o facendo vedere che in questo tal fallo e in questo tal tempo ha voluto
esprimere nel suo scritto questa tale sua volontà. Il litigante per contro che
difenderà lo scritto quale esso è, potrà far uso le più volte anche di
tutti i seguenti luoghi, ma sempre perù della più parte: primamente si loderà
dello scrittore, ed uscirà in questo luogo comune: dover quelli che
hanno in mano il giudicio por mente solo a ciò che è scritto; il che egli
affermerà di più forza , se si trattasse di uno scritto legittimo , corno
sarebbe o la stessa legge, o qualche cosa che dalla legge fosse cavata. Poi
verrà al punto che ingagliardisce della maggiore veemenza , voglio dire
al far agguaglio dallo scritto al fatto o all' accusa degli avversarli,
mostrando ciò che fu scritto, ciò iOi quid praetcrca audire aul exspcctare
debeai; tum jpsum adversarium, quasi intentanti loco producendo, hoc est,
interrogando, utrum scriptum ncgel esse co modo, an ab se conira ractum
esse, aut contra contendi neget; utrum negare ausus sit se dicere
desilurum. Si neulrum neget, et contra tamen dical nihil esse, quod
hominem impudentiorem quisquam se visurum arbilrctur. In hoc ita
commorari conveniet, quasi nihil praeterea di- j ccndum sit, et quasi
contra dici nihil possi!, saepe Id, quod scriptum est, recitando saepe
cum scripto factum adversarii confluendo, atquc inlerdum acritcr ad
iudicem ipsum reverteudo. Quo in loco iudici demonstrandum est, quid
iuratus sit, quid sequi debeat : duabus de causis iudicem dubitare
oportere, si aut scriptum sii obscure, aul neget aliquid adversarius. Quum
et scriptum aperte sit, et adversarius omnia conflteBtur, tnm iudicem legi
parere, non intcrprelari Icgem oportere. Hoc loco conflrmato, tum diluere
ea, quae contra dici poterunl, oportebit. Contra autem dicetur, si aut
prorsus aliud scnsisse scriplor et scripsisse aliud drmonslabitur: ut in illa
de testamento, quam posuimus, controversia; aut causa adsumptiva
inferetur, quamobrem scripto non potuerit aut non oporluoril obtemperari.
Si aliud seusisse scriplor, aliud seripsisse dicetur, is qui scriplo utclur,
haec dice! : non oportere de cius voluntate nos argomentavi, qui,
ne id lacere possemus, indicium nobis reliquerit suae voluntalis ; multa
incomrnoda consequi, si instiluatur, ut ab scriplo rccedatur. Nato et
cos, qui aliquid scribant, non eiistimaluros id, quod scripserint,
rallini futurum; et cos, qui iudicenl, cerlurn, quod sequantur, nihil
habituros, si semel ab scripto recedere consueverinl. Quod si
voluntas scriptoris conscrvanda sit, se, non adversarios, a voluntate cius
stare. Nam multo propius accedere ad scriptoris voluutatem cum, qui ci
ipsius cam lilteris Inlcrprclctur, quam illum, qui sententiam scriptoris
non ci ipsius scripto special, quod illae suae voluntalis quasi imaginem
reliquerit, sed domcsticis suspicionibus pcrscrutclur. Sin che fatto, ciò
che sia di dovere al giudice che ha giurato di osservare la legge; e
questo luogo dovrà il litigante variare per molti modi , ora mostrandosi
ammirato che si trovi cosa da voler opporre; ora tornando sopra alfuDlcio del
giudice, c chiedendogli clic altro di vantaggio ei possa ascollar
cd attendere; ora con cerl'aria come di minaccia appellandosi
all'avversario, inlerroganI dolo cioè se mai po«sa dire o che lo scritto
non sia alTallo a quel modo, o ch'egli non faccia con| irò allo scritto c
contenda Dior di dovere; e soggiungendo che ove abbia il coraggio di dire o
l'uno o l’altro, ci si rimarrà dal più avanti discorrere. Se non
dicesse nè questo nè quello, e non di meno durasse a dir contro, aggiungerà il
difensore dello scritto, nessuno dover credere di poter mai vedere
un uomo più impudente di quello. In questo proposito si dovrà dimorare un po’ a
lungo , come se più altro non restasse da dire, c come se non
potesse colui aver più che rispondere incontro : si reciterà più volle lo
scritto, si combatterà spesso con lo scritto lo adoperarsi
dcll’atvcrsario, e qualche fiata con parole ardite si farà appello
allo stesso giudice. E qui si vorrà al giudice anche dimostrare che s’intenda
per giurato, e quale sia il partito eh' ci dee seguire , c come per
due capi è necessario che il giudice sia in dubbio, vale a dire, se lo
scritto Tosse oscuro, o se l'avversario negasse qualche punto dello scritto.
Qualvolta lo scrino è chiaro, c l'avversario stesso nc confessa di ogni punto
la chiarezza, devsi ammonire il giudice che suo dovere è obbedire alla
legge, non già farsene il turcimanno e lo sposilorc. Raffermato questo
asserto con le prove addotte, converrà ribattere ogni obbietlo
elicvi potesse esser mosso. Sarà obbietlo, se il nostro avversario
dimostrerà che lo scrittore intese esprimere ben altra cosa da quella che porla
lo scritto, siccome nella controversia circa il testamento, cho qui
sopra Ito toccala; ovvero se avrà ricorso a costituzione di genere assuntilo
per mostrar la causa onde non si potè o non si dovette obbedire allo
scritto. Se il nostro avversario dicesse aver lo scrittore inteso d'esprimere
ben altra cosa da quella clic dimoslra, risponderà quegli clic allo
scritto si attiene: non esser mestieri che noi discutiamo circa
alla intenzione dello scrittore, il quale appunto perchè non ci fosse di che
discutere ne ha lasciato della sua intenzione un indicio non dubbio;
venirne in conseguenza molli mali cQctli, se i *’ introducesse l'abuso di
allontanarsi dallo scril< lo: imperocché quelli che scrivono faranno
ragione j che non si starà punto allo scritto loro ; e quelli che
deono giudicare non avranno nessun dato cer| to c sicuro da dover seguire, ove
avessero una causam adfcret is, qui a scntcnlia stobil, primum crii
conira dicendum ; quam absurdum non negare conira legem ferisse, seri quarc
fcccril, causam aliquam Rivenire ; di-inde, conversa esse omnia ; ante solilos
esse accusatorcs iudicibus persuadere, adlìnem esse alicnius culpac eum,
qui accusarclur; causaui prorerre, quae curii ad pcccandum impulisscl:
mine ipsuin rcum causam adferro, quare deliqucril. Deinde liane inducere
parlilionem, cuius in singulas parles mullac comeuieul argumentalionrs :
primum, nulla in lege ullam causam «mira scriptum accipi convenire ;
deinde, si in celeris logilnis «invernai, liane esse eiusmodi legem, ut
in ca non oporleal; postremo, si in hac quoque lege oporleal, liane
quidem causato accipi minime oporlcre. Prima pars bis fere locis
conBrmabilur: scriplori ncque ingcnium, ncque operam, ncque ullam
facullatem defuisse, quo minus aperte posse! perscribere Id, quod cogitarci ;
non fuisse ci grave nec difficile cani causam excipcrc, quam
adversarii proferant , si quidquam cvcipicndum putassct ; consuesse eos,
qui leges scribanl, ciccplionibus uli. Deinde opor'.et recilare leges cum
ciccptionibus scriplas, et maxime ridere, ccquae in ca ipsa lege, qua de
agalur, sii «copilo aliquo in capile, aut apud eumdem legis scriptorem,
quo magis probclur cum fuisse exceplurum, si quid evcipicndum
putarel ; et ostendcrc causam accipere niliil aliud esse itisi legem tollere;
ideo quod, quum semel causa considerclur, nihil allineai cain ex
lege considerare, quippc quae in lege scripta non sii. Quod si sii
institulum, omnibus dari causam et polcstalcm pcccandi, quum
intcllexcrinl vosex ingcnio cius, qui conira legem fcccril, non ex
lego, in quam iurali silis, rem iudicare; deinde et ipsis iudicibus
iudicamli et cctcris civibus vivendi ralioncs pcrlurbolum iri, si semel ab
legibus recessum sii ; nam cl iudices ncque quid sequan volla
piglialo l' uso di non si allenerò allo'scrillo. Dirà inoltre clic se
s’ba da conservare la intenzinne dello scrittore, è anzi egli, c non mica
gli avversarli, clic Iroppo meglio la conserva; perocché a questa
intenzione avvicinasi assai più colui clic la desume dalla scriltura
slessa, clic non qucll' altro clic indaga il sentimento avuto in animo
dallo scrittore diclro i suoi calcoli e congetture private , anzi clic
volerlo riconoscere per mezzo dello scrino stesso, clic 1' autore lasciò
come un ritrailo visibile della sua intenzione. Se poi quegli clic
s'attiene al senso a Idurrà il motivo perché si debba allonlanarsi dallo
scrino, so gli dovrà in prima così rispondere: esser assurdo, non
negare egli di aver fallo contro la legge, e nondimeno volere trovar un
qualche motivo perché cosi facesse; dipoi dirassi clic oggi si conduce il
giudicio ludo a riverso; per prima erano gli accusatori che meticano a
vedere ai giudici come l’accusalo era reo di qualche colpa, e poncan loro
innanzi la causa che in quella colpa lo fece cadere : ora è il reo
stesso che manifesta la causa della sua reità. Indi si dovrà discorrere queste
Ire parli, ciascuna delle quali olfrirà parecchie argomentazioni , voglio
dire: primamente non doversi per veruna leggo ammettere alcun molivo che si
oppooga allo scrino; in secondo luogo, se anche tulle le altre
leggi comporlassero tale ammessione , la legge presente essere di tale
natura che aliano non la comporla; in line, se anche la legge presente
ammetlcssc un molivo, non essere però tale il molivo addotto, che ommellere
punto si possa. La prima di qucsle parli comprovasi a un di presso cosi;
lo scrittore non mancava né di industria, nè di mezzi, nè di parole c facilità
per esprimcrc chiaro ciò eh’ egli pensasse; nè incontrava difficoltà o pena a
fare una eccezione in favore del molivo che meltono in campo gli
avversarli, so avesse credulo esserci cosa da dover eccelluare;
anco più che quelli che scrivono le leggi ne scrivono eziandio lo necessarie
eccezioni. Dipoi si dee citare il lesto delle leggi che recano le loro
eccettuazioni scritte, c soprattutto osservare se v’ ha e quale v’ ha
eccezione in qoalche articolo della legge questionala, o in altre dello
stesso scrittore perché si possa comprovar con più evidenza che
egli, ove una eccezione fosse siala necessaria, l'avrebbe s-'iiz' altro opposta
alla legge, di che si traila; e insieme deesi mostrare clic ammettere
la eccettuativa non posla dallo scrittore è nienle meno che distrugger la
legge, perù clic una volta che si abbia riguardo ad essa, non è più
bisogno di considerarla relativamente alla legge , siccome quella
che nella legge non è punto inserita. Che se si cominciasse di avere un
Iole riguardo, ognu tur babiluros, si ab co, quoti scriptum sii, recodatti
; ncque, quo paolo alios improbare possinl, quod conira legem iudicarinl
; cl cclcros civcs, quid agalli, iguoraluros, si ei suo quisque cotisilio
e! ex ca rationc, quac in mcnleoi aul in libidinetti vencril, non ex communi
pracscriplo civilalis unam quamque rem adminislrarit. Rosica quacrerc ab
iudicibus ipsis, quarc in alienis dclineanlur negoliis ; cur rei publicae
munere iinpedianlur, quo seriis suis rebus et commodis servire possinl;
cur in cena verba iurent ; cur certo tempore conveniant, cerio discedanl, nibil
quisquam adferat causac, quo minus frequenter operam rei publicae
det, nisi quae causa in lege cxccpla sii; an se legibus obslriclos in lanlis
molesliis esse acquutn censeanl, adversarios nostros leges negligere
concedati); deinde ilem quaerere ab iudicibus, si eius rei, propler quam
screus conira legem fecisse dica!, cxceplionem ipse in lege ascribal,
passurinc aint;poslca boc, quod facial, indigniusel impudcnlius esse, quam
si ascribal; ago porro, quidsi ipsi velico! iudices ascribcrc, passurusnc sii
populus? alqttc hoc esse indignius, quam rem verbo et litlcris mulare non
possinl, eam re ipsa et iudicio maxime commutare. Deinde indignimi esse
de lege aliquid dcrogari, aul legem abrugari, aul aliqua ex parie
commutari, quum populo cognoscendi et probandi aut improbandi poleslas nulla
fiat; hoc ipsis iudicibus invidiosissimum fulurum; non hunc locura
esse, ncque hoc tempus legum corrigendarum ; apud populum haec el per popolimi
agi convenire : quod si nunc id agant, velie se scirc, qui lalor sii, qui
sin! accepturi; se captioncs videro, el dissuadere velie : quod si bacc
quum summe inutilia lum mullo turpissima sint; legem, cuicuimodi
sii, in praesenlia conservai ab iudiribus, post, si displiceal, a populo
corrigi convenire ; deinde, si scriptum non extarct, magno opere
quaereremus; ncque isti, nc si extra pcriculum quidem ossei, crelercmus.
Nunc quum scriplum sii, amcnliam esse eius, qui peccarli, polius
quam legis ipsius verba cognoscerc. llis et huiusmodi ralionibus
ostenditur causam exira scriplum accipi non oporlere. no
avrà licenza e buona presa di fallire, perchè si avviserà che voi
giudicale dcll'alTare secondo che lalenta a colui che contravvenne alla
legge, non secondo la legge stessa, a cui avete giuralo di altenervi nel
giudicare: dipoi mostrerà che gli stes! si giudici avranno tutta in iscompiglio
la condotta del giudicio, c gli altri cittadini lutto in disordine
l’andamento delia vita, se si piglierà una volta ad andar a ritroso della
legge; conciossiacbè nè i giudici avranno una regola da seguire, se si
divertissero da ciò che è scritto, ni potranno convincere i contravventori di
aver fallilo, quando essi medesimi abbiano giudicato ad onta della
legge c gli altri cittadini non sapranno che far si debbano, se ognuno si
governerà in ogni caso non dietro i generali statuti della città, ma a
talento proprio, c dietro quella ragione che gli passerà per la
metile, o che andrà a seconda delle sue voglie. Poscia ci verrà
inlerrogando gli stessi giudici, perchè si frammettano di altari alimi,
che loro non si perlengono; perchè dall'ulllcio cltesostengon nella
repubblica si lascino impedire di attender alle gravi loro faccende e
provvedere ai propri! interessi; perchè giurino dietro una formola
prescritta; perchè a un posto tempo si raccolgano insieme, c ad una data ora se
ne vadano, senza che alcuno molla innanzi altra ragione che lo autorizzi
a prestarsi meno di spesso al servigio deila repubblica, eccetto quella
che è indicala nella legge: che? slimeranno giusto e ben fatto tenersi
essi obbligati alle leggi in mezzo a si gravi lor cure, o comportare clic
i nostri avversarli si gellino quello leggi medesime dopo le spalle?
Dipoi verrà similmente chiedendo ai giudici, se mai essi patirebbero che
I’ accusalo aggiungesse egli stesso nella legge la eccezione in favore
del molivo, da cui si dichiara indotlo a far contro alla legge, c
aggiungerà, ciò che fa l’avversario esser una sfrontatezza più indegna
che se apponesse alla legge quella eccezione : di più, dato anche il caso
che i giudici stessi la volessero apporre in proprio, forse che il popolo
se la porterebbe in pace? eppcrò esser cosa ben troppo riprovevole
che una legge eh' essi nè per parole nè per iscriltura non possono mutare,
vogliano invece mutarla più che più col giudicio e sentenza loro. Di. rà
appresso, essere uno scoocio indegno o detrarre alquanto alla legge, o
abrogarla a pieno, o cambiarne qualche parte, senza che siane data copia
al popolo di giudicarne i moliti, c di approvarli o riprovare: questo non
poter che riuscire di odio acerbo contro gli stessi giudici; non esser
questo nè luogo nè tempo da farsi a corregger le leggi; questo
esser un aliare da trascinarsi col popolo e per mezzo del popolo: che se
ora volessero Ira unno li. Seconda pars est, in qua est oslendendum,
si in celeris legibus oporleat, in hac non oporlcrc. Hoc dcmonslrabilur, si lei
aulad res maximas, ulilissimas, honeslissimas, religiosissimas ridebilur
pcrlinere ; aut inutile , aut turpe, aut nefas esse tali in re non
diligentissime legi obtcrnperare ; aut ila lev dlligenler pcrscripta
dcmonslrabilur, ila cautum una quoque de re, ila.quod oporluerit,
eiceplum, ut minime convcniat quidquam in tam diligenti scriptum praelerilum
arbitrari. Tcrlius est Incus ci, qui prò scriplo dicci, maxime
necessarius, per quem oporlet ostcndal, si convcniat causam contro
scriptum accipi, cam lamen minime oportere, quae ab adiersariis
adferatur. Qui locus idcirco est buie necessarius, quod semper is, qui
conira scriptum dicet, aequitalis aiiquid odierai oporlet. Nani summa
impudentia sii cum, qui conira quam scriptum sii, aiiquid probare
rclil, non aequilatis pracsidio id Tacere conari. Si quid igitur et hac ipsa
quippiam accusator deroget, omnibus partibus iustius et probabillus accusare
videatur. Nani superior oralio
hoc omnisfaciebat, uti iudices cliamsi noi leni, necessc esse! ;
baco aulern, eliamsi ncccsse non esset, ut yellent conira iudicare. Id
aulem (iet, si, quibus ex locis culpa dcmonslrabilur esse in eo, qui
comparationc, aut remolione, aut relatione criminis, aut concessionis
partibus se duTcndil ( de quibus ante, ut poluimus, diligenter
perscripsimus ), si de iis locis, quae res poslulabit, ad causam
adversariorum itnprobandam IransTeremus, aut causac et raliones
adferentur, quare et r|uo consilio ita sit in lego, aut in testamento
scriptum, ut sentenza quoque et voluulalc scriploris, non ipsa solum
scriptura causa con&rmata esse, videatur: aut aliis quoque constitutionibus
factum coarguetur. stillarlo essi, or chi n* è il
proponente, e citi son quelli clic approveranno? sé non vederci che
calappi e trullerie, c volere lor giù altrui dal lasciarsi cogliere: che se
ogni disegno di mutazione olire clic al lutto è inutile, ancora £ cosa
sommamente sconcia, dcono per ora i giudici mantenere intatta la
legge, di qualunque sorte ella sia; ove non piaccia, si vorrà più tardi
emendare dal popolo. Dirà inoltre; se lo scritto non ci Tosse qui
presente, noi faremmo ogni potere per averlo a rinvenire, n£
porremmo fede iu costui neppure s' ei trattasse con noi sicuro da ogni
pericolo. Ma siccome è qui presente Io scritto, è dare iu pazzia senza
più, voler essere inTormali delle parole di uno clic falli, anzi che di
quelle della legge medesima. Per questi adunque e per simili altri argomenti si
dimostra cotue una eccezione, che non è nello scritto, non si dee per
nulla ammettere. XLVI. La seconda parte £ quella, nella quale
deesi dimostrare che se anche tutte le altre leggi dovessero ammettere
una eccezione, la legge presente non la dee per veruna guisa. Questo si
proverà, mostrando clic la legge rfsguarda cose di grande rilevanza, di
sommo vantaggio, onoratissime e della maggiore santità; ed essere o vana,
o turpe, o illecita azione non obbedire puntatamente alla legge in
circostanza si fatta: ovvero si porrà a vedere essere scrina la legge con tale
esattezza, si ben provveduto a ogni cosa, cosi eccelle le circostanze che
volcauo eccettuazione da non si dover credere che in una scrittura cosi
condot la fosse intralascialo n£ un menomo clic. Il terzo luogo £
di tutta necessità per lo contendente che sostiene lo scritto. Ei dee
mostrare che se anche la legge ammettesse un motivo eccezionabile,
non £ però di tale qualità il motivo addotto dagli avversarti, che si
debba per esso seguire un senso non indicato dallo scritto. Dissi esser
necessario questo luogo, perch£ siccome chi ragiona contro lo
scritto dee sempre mettere innanzi qualche punto che risguarda l'equità, c
saria grave sfacciatezza, chi volesse provar qualche punto che è in pugna con
lo scritto, non far quanto potesse per aiutarsi di quella; così l'accusatore,
se farà di detrarre e mostrar qualche parte non consentanea alla equità,
sarà in casa di far credere la sua accusa da lutti i laii più giusta e
più probabile. E infatti le regole esposte più sopra circa al non
doversi ammettere ragione contraria allo scrino riuscivano tulle a fare
clic i giudici dovessero di necessità, ancora che non volessero, portar
giudicio contro al motivo ccccziouabile: le regole presenti per conira
parano a fare che i giudici vogliano dar giudiciu conira quello slesso
motivo, eziandio se loro non fosse necessario di cosi fare. Or ciò
si Conira scriptum autcm qui dicol, primum induco! cum lorum, perquom
aoquilas causae demonstrclur ; aut oslcndel, quo animo, quo consilio, qua
de causa fccoril ; cl, quamcumque causani adsumcl, adsumplionis parli bus
se defcndel, de quilius anlc dicium esl. Alquc in hoc loco quum diulius
commoratus sui Cacti ralionem cl equitatem cansac cxornavcril, lum ex
liis locis foro conira adversarios dicci oporlcrc causas accipi.
Dcmonslrabil nullam esse leeoni, quae aliquam rem inuldcm aut iniquam
Acri «clil; omnia sttpplicia, <1 ime ab lcgibus profìciscanlur, cuipae
ac malitiac «indicandac causa conslilula esse ; scriplorcin ipsum, si
cvsislat, factum hoc prohalurum, cl idem ipsum, si ei lalis res
accidissel, faclurum fuisse ; ca re legis scriplorcm certo et ordine
iudices certa aelate prandi tos consliluisse, ut essont, nun qui scriptum
suoni rccilarcnl, quod quivis pucr Tacere posse!, sed qui cogilalionc
adsequi posscnl cl volunlatcm interpretar! ; deinde illum
scriptorem, si scripla sua slultis liominihus et barbaris iudicibus
coinmilleret, omnia somma ddigentia pcrscriplurom fuisse ; nun - vero, quod
inlelligeret, quales viri res iudicaturi essenl, idcirco cum, quae
perspicua videro! esse, non ascripsissc; ncque cnim vos scripli sni recitatore],
sed volutilatis interprcles foro putavil. Poslea quaerere ab adversariis
: Quid, si hoc fccisscm ? Quid, si hoc accidissel ? Eorum aliquid, in
quibus aut causa sii honcstissima, aut neccssitudo certissima,
tumnc accusarclis ? Atqui hoc lei nusquam excepil; non ergo omnia
scriplis, sed quaedam, quae perspicua sint, lacilis cxccpliouihus cascri
; deinde nullam rem ncque legibus ncque scriptura ulta, denique ne
in sermone quidem quotidiano atque impcriis domeslicis recto posse administrari,
si unus quisque vclit verba spedare, et non ad voluolalcm eius, qui ea
verba habuerit, accedere. otterrà, se di que - luoghi, con
che rooslrerassi esserci colpa in colui che si accolla difesa o dalla
comparatone, o dalla remozi one del delitto, o dal rivcr.-arlo in allra
cosa v persona, o dalle parli della concessione (di che per addietro ho
trattato con quella diligenza migliore che ho sapulo), se di que'
luoghi, dico, si farà uso secondo il bisogno dell'aHare, per ribattere la eccezione
ammessa dalla parie contraria, o se si pareranno dinanzi le cause e le
ragioni comprovanti e perchè e con quale disegno sia stato cosi scritto
in quella tal legge o in quel testamento; con che si verrà a capa di
ralTorzarc la causa non pure col solo mezzo della scrittura, ma eziandio
col mostrar in nostro vantaggio il sentimento e la volontà dello
scrittore', oppure si aumenterà l'accusa contro il fatto facendo uso
altresì di altre costituzioni. XLVII. Quegli che parlerà contro Io
scritto, primamente si varrà di quel luogo con che si dimostra la giustizia
della causa, oppure farà vedere con che mente, con che disegno, per qual
motivo ha fatto cosi piuttosto che no; e qualunque sia il motivo
con che si parerà, dee pigliare a sua difesa le parli
dell'assunzione che furono di qui addietro vedute. E qui, appresso ch'egli
abbia un po’ alla difesa raffazzonalo di belle esortazioni i molivi di
ciò ch'egli ha fallo e la giustizia della causa; sosterrà contro
gii avversarli doversi animaliere quei suoi molivi a un bel circa con gli
orgomcnli che seguono. Dimostrerà non v' esser legge al mondo che comandi
cosa inutile ovvero iniqua; tulli i castighi che sono inflitti dalle leggi
essere stabiliii per punire la colpa c la malignità: lo scrittore
medesimo, se esistesse, approverebbe il fallo, anzi egli stesso sarebbesi
adoperalo di eguale maniera, se si fosse abbattuto in tale affare: per
questo lo scrittore della legge aver designato a giudici persone
appartenenti a una data classe, e giunti a un' età prestabilita, volendo
che tenessero i giudicii persone che sapessero non già recitare il testo
della legge, che da lauto è un fanciullo qualsiasi, ma raggiungere
col raziocinio e inlerpelrarc la sua volontà. Dipoi, se quello scrittore
avesse fatto ragione che il suo lesto saria venuto alle mani di gente
sciocca e di giudici selvaggi da ogni civiltà, avrebbe esposto ogni cosa
Alo per Alo e con la maggiore accuratezza; ma siccome ei s'
avvedeva troppo bene quali personaggi avrebbero avuto il maneggio dei
giudicii, non inserì nella legge ceni punti che vedeva essere da sì di
facile intelligenza: non vi tenne egli dunque per recitatori del suo
scritto, ma per interpetri della sua volontà. Poscia dovrà chiedere agli
avversari: Or che sarebbe, se io avessi fallo questo f che, so quest'
altro fosse mai acca scalo? V' Ita cose prodotte da un motivo MURO
Doindcei ulilitatis cthonestatis partibus ostenderc, quam inutile aut
quam lurpe sit id, quod adversarii dicant fieri oporluisse aut oportere;
et id quod nos feccrimus aut postulemus, quam utile aut quam honestum
sii; deinde leges nobis caras esse non proptcr lilteras, quac
tcnues etobscurae nolae sint voluntatis, sed propler carum rerum, quibus
de scriptum est, utililalcin, et corum, qui scripscrint, sapicntiam et
diligentiam, postea, quid sii lei, describerc, ut ea tidealur in
scnlentiis, non in vcrbis consistere; et iudci is vi* dealur iegi
obtcmperare, qui scntentiam eius, non qui scripluram sequatur; deinde,
quam indignum sit, eodem adfici supplicio eum, qui proptcr aliquod scelus
et audaciam contra leges fccerit, et eum, qui honcsta aut necessaria de
causa non ab scntcntia, sed ab litteris legis reccsserit ; atquc
bis et buiusmodi rationibus et accipi causam, et in hac lege accipi, et
cam causam, quam ipse odierai, oporlerc accipi demonstrabit. Et qucmadmodum ei
diccbamus, qui ab scripto dicerei, hoc Tore utilissimum, si quid de
acquitele ea, quac cum advcrsario starei, derogasse!, sic huic, qui
contra scriptum dicci, plurimum proderii, ci ipsa scriplura aliquid ad
suam causam converlere, aut ambigue aliquid scriptum oslendere ; deinde
ei ilio ambiguo cam partem, quae sibi prosit, defendere, aut verbi
definilionem inducerc, et illius verbi vim, quo urgeri videatur, ad suae
causae commodum traducerc ; aut ex scripto non scriptum aliquod inducerc
per ratiocinalioncm, de qua post dicemus. Quacumquc autcm in re,
quamvis levitar probabili, scriplo ipso se dcfendcrit, etiam quum
acquitalc causa abundabil, necessario multimi proDciet, ideo quod, si id, quo
nililur adrersariorum causa, subduxeril, omncm eius illain vim et acri
moniam lenierit ac dilucrit. Loci autcm communes celeris ci adsumptionis
partibus in utramque partem convcnient. Praetcrea eius, qui a scripto dicci: leges es se,
non ex eius, qui contra commiscri!, ulilìlutc spcclari oportere, et In
tanto onesto quanto nessun altro mai, o da una necessità
indeclinabile: or di queste cose ne accusereste voi alcuna? Ma questa cotale
non è dalla legge in nessuno de' suoi articoli eccettualo: dunque non a
tulle cose si provvede con Io scritto, ma solo si provvedo con tacile
eccezioni ad alcune, clic sono lucide c appariscenti a chi clic sia:
dipoi, nessun affare si potrebbe reggere con dirittura nè per magistero di
leggi, nè di scritto qualsiasi, anzi nè eziandio nel discorso della
giornata e nei comandi domestici, se volesse ognuno starsi affitto
alle parole, c non piuttosto adocchiar bene la volontà di colui che
quelle (ali parole Ita cspresse. Dipoi aiutandosi con le parti dell'
utile e dell’onesto, dimostrerà quanto saria danneggioso o quanto lurpe
ciò che gli avversarli dicono essersi dovulo o doversi fare; e a riverso quanto
sia utile o quanto onesto ciò che noi abbiamo fatto, o ciò che
veniamo chiedendo; poscia, esserci a grato le leggi non per le parole, che son
segni inconcludenti ed oscuri dell'altrui volontà, ma per lo profitto che
ne viene a lutti dai provvedimenti delle leggi , e per la sapienza c
sceltezza dei precetti che vi hanno posto quelli che le scrissero ; indi
si dovrà definire clic sia legge per modo tale clic si paia
manifestamente consister essa nei concetti, e non nelle parole, c far
vedere che solo quel giudice mostra di obbedire alla legge, il quale si
attiene al sentimento di essa, non alla materiale scrittura ; dipoi
quanto sia cosa danncvolc e da riprovare che sia mollato della
stessa pena colui che con sua scellcrmiza c lemeritè si fece ribelle alla
legge, c si quegli che per una ragione onesta o necessaria si è dilungalo
non dal sentimento della legge, ma dalle parole di essa; e con questi e
altrettali argomenti dimostrerà ed esser ammissibile il motivo clic induce
eccezione, ed esserlo in questa legge stessa ed esso motivo esser tale
che affatto si debba ammettere. E come io diceva esser di giovamento
assai a quello che sostenta lo scritto, se avesse spizzicato e detrattone
alquanto delle ragioni di equità che avvantaggiano I’ avversario, così a
costui clic discorre contro lo scritto profitterà a gran misura il
convertire in suo prò qualche punto dello scritto medesimo, ovvero dimostrarne
di qualche tratto il doppio senso e 1' ambiguità: di vantaggio, difendere de'
due sensi quello che gli torna utile, o recar la definizione della parola
ambigua, c guadagnar un argomento in favore della sua causa dal
significato di quella parola stessa, che pareva gli dovesse tornar al
contrario; oppure per mezzo di sillogismo, di che mi verrà da dire più sotto,
ricavar c dedurre dallo scritto qualHO wm gibus anliquius haberi niliil
oporterc. Conira scriplum: logos in consilio scriploris et ulilllalc communi,
non in verbi* consistere ; quasi indignimi sii, aoquitatom litleris
urgori, quac volunlalc eius qui scripscril defendatur. Ex con Ira ri
is aulem logibus conlrovcrsia nasedur, qiium inlor se Jii.'ys vidcnlur logos
aul pluros discrepare lioc modo: Lcx: Qui (yrunnum (inciderti, Olympionicarum
proemia capilo, ni quatti cole! libi rem a muqisltolu doposcì lo,
cl magislralus ci concedilo. El altera lei: T gratino occiso, quinque ejul
jiroximos coqtiuliotie inayislratus ficcato. Alexandrum, qui apud
Pheraeos in Tliessalia lyrannldcm occuperai, uxor sua, cui Thcbc
nomen fiiil, nocl’u, quum simul cubarei uccidi!. Ilare (ilium suum, quom
ex lyranno habebal, sibi in praemii loco doposcil. Sunl, qui ci lego
occidi pucruin dicant oporlere. Rcs in iudicio osi. In hoc genere
utramque in parlcm lidcm loci alque cadem praecepla comcnicnt, ideo quod
uterque suam legein conlirinare, contrariam infirmare debcbil. Primum igilur
leges oportet contendere considerando, ulra lcx ad maiorcs, hoc est, ad
uliliores, ad honcsliorcs ac magis nocessarias res perlincal; ex quo
conlìcilur, ut, si leges duac, aul si plures erunl, aul quolquot erunt,
conservaci non possint, quia discrepeut inter se, ca maxime conservando
pulclur, quac ad maximas rcs pcrlinere vìdoatur; deinde, ulra lcx
poslcrius lata sii; nani postrema quaeque gravissima est ; deinde,
utra lei iubeal aliquid, ulra permillal; nam id , quod imperatur ,
nccessarium , illud, quod pcrmiltilur , volunlarium est ; deinde ,
in ulra lege, si non obtcmpcratum sii, pocna odliciatur, aut in ulra
raaior poena slalualur ; nam maxime conscrvanda est ea, quae
diligentissime che corollario che non vi è espresso. Qualunque sia
il punto, tuttoché tampoco verisimile, in cui questi potrà piegare u
propria difesa lo scritto medesimo, anche quando la causa si
fiancheggiasse di molle ragioni di equità, ei sarà condotto senza manco nessuno
a giovar di molto la causa propria, perocché se giunga ad abbattere e tor
di mezzo le ragioni che sono di appoggio agli avversarli, egli avrà bella
e distrutta, non che addoglila, tutta la forza e veemenza della causa
loro. Quanto è ai luoghi comuni che si traggono dalle altre parli
dello stalo assunlivo, questi cadranno bene in taglio all’ uno e all'altro
avversario. Di più, quegli che s'altienc allo scrìtto avrà dalla
sai questo argomento: le leggi doversi riguardare in sé, non mica
secondo il vantaggio clic dal violarle uomo ne trac, e doversi esse aver
a cuore e a capitale più clic ogni altra cosa. Quegli clicslà contro lo scritto
si gioverà di quest’ altro: avere le leggi il loro fondamento e sostegno
non nelle parole, ma nella intenzione dello scrittore; esser cosa indegna far
forza con le parole contro quella equità, che ha in sua difesa il volere
e l'intendimento dello stesso legislatore. Nasce controversia per leggi contrarie
allora che due o più leggi non vanno di piena concordia fra loro, come in
questo esempio : Dice l'una : Chi darà morie a un tiranno si abbia
il premio che si dà ai vincitori di Olimpia, e chieda al magistrato ciò
che meglio gli aggrada, chè il magistrato gliene dovrà concedere.
Dice un’altra legge: Insieme che sia ucciso il tiranno, dovrà il
magistrato menar a morie cinque altri che siano a quello legali di parcnlaggio.
Tebe, moglie di quell'Alessandro che s’era fallo tiranno Ira i
Ferei nella Tessaglia, nottetempo, essendo ella nello stesso letto con
lui, lo pose a morte. Per premio chiede costei la vita del lì glio di'
essa dal tiranno aveva avuto. Insorge altri a dire dover il
fanciullo per legge esser ucciso. L' aliare é messo in giudicio. Or in
causa si falla all'uno c all'altro avversario verranno a taglio I luoghi
stessi, gli stessi precetti, perchè dovranno lutti e due tener
ferma la legge che lor giova, e battere molto di vena la contraria. La
prima cosa adunque, si dee far il pareggio e confronto delle due leggi,
esaminando bene quale delle duo vada a battere a mag. glori cose, voglio
dire quale provveda a cose più utili, a più oneste, a più necessarie ; e
di qua conchiudere che se due leggi, o se saranno più, o quante potranno
essere, non si possono ritenere per essere disconsenzienti Ira loro,
abbiadi tutte a ritenersi quella che provvede alla maggiore utilità
delle cose ; poscia è da vedere quale delle due fu fatta poi giacché
l'ultima ha più forza ed autorità; IH sancta est; deinde, utra lei
iubcat,utra vetel; nam saepeea, quae velai, quasi exceptione quadam
corrìgere videlur illam, quae iubel; deinde, utra lei de genere omni,
utra de parie quadam; utra communiler in plurcs, utra in aiiquam cerlam
rem scripla vidcalur; nam quae in partem aiiquam el quae in cerlam
quamdam rem scripta est, propius ad causam accedere videlur, et ad
iudicium magia perlinerc; deinde, ci lege ulrum statini fieri nccesse
sii; ulrum habeal aiiquam moram et suslentationem; nam id, qund stalim
faciendum sii, parlici prius oportel; deinde operam dare, ut sua
lei ipso scriplo vidcalur niti, contraria anioni aul per ambiguum, aul per
raliocinalionem, sul per detinilionem induci, uli sanclius el firmius id
videalur esse, quod apcrtius scriptum sii ; deinde suac legis ad scriptum
ipsam senlentiam quoque adiungere, contrariam legein ilem ad aliam
senIcntiam Iransducere, ut, si fieri poteri!, ne discrepare quidem videantur
inter se; postremo Tacere, si causa Tacultalem dabil, ut nostra ralione
utraque lei conservar! vidcalur, adversariorum ralione altera sii necessario
ncgligenda. Locos autem communcs, et, quos ipsa causa del, ridere
oportcbil, el ex utilità tis et ex honcslalis amplissimi partibus sumere
demonstrantem per ampliGcalionem, ad utram potius legem accedere oporteal. Ex
raliocinatione nascitur controversia, qunm ex eo, quod uspiam est, ad id,
quod nusquam scriptum est, venilur; hoc paclo: Lei: Si furiosus
ejcif, agnalum genliliumqve in eo pecuniaquc cius potestà! etto. Et lei:
Palerfamilias uli super [umilia pecuniaquc sua legassi t, ila ius esto.
Et indi quale mena obbligo intorno a un che, quale non lo metta,
conciossiachè il Tare, quando ci ha obbligo è atto di necessità, quando
non ci ha, è atto volontario senza più; inoltre, qual legge soggetti a
pena chi non le obbedisce, o quale soggetti a pena più grave che non le
altre, poiché deesi in paragone ritener quella che guarentisce meglio
la propria inviolabilità col multare di più gravi ammende quello che ad
essa contrarrà; poscia, quale di esse leggi prescriva una azione, quale
invece la interdica, poiché spesso quella che la interdice dà vista
di correggere quasi che per mezzo di eccezione quella che la prescrive : quindi
, quale delle leggi si riferisca a lutto un genere, quale a sola
una qualche specie ; quale sia scritta in comune per molti oggetti, quale
lo sia per un solo oggetto determinalo^ poiché quella che si riferisce a
una specie, come anche quella che é scritta per un oggetto solo, si
applica meglio ai bisogni della causa e meglio serve a determinarne il
giudicio : oltracciò, se la legge imponga la necessità che si
Taccia di presente ciò che é da Tare, o se conceda qualche soprastanza e
indugio, poiché ciò che di presente è da Tare si c^invien compiere per
primo e innanzi a lutto; dipoi metter opera che la legge, a che noi
ci atteniamo, mostri di aver la sua Tona nelle sue stesse parole : e per
conira quella dello avversario si farà veder che non tiene, o
citandone l'ambiguità, 0 deducendo per sillogismo o per definizione
qualche corollario che le tolga la forza c il valore, in maniera che si
venga a conchiuder di netto, come ciò che é scritto con più
chiarezza é appunto cièche si dee tenere vie più per Termo e
giustamente ordinato. In seguito, alla legge da noi difesa applicheremo
il senso che ne pare, e vedremo per lo simile di accomodar alla
legge contraria un senso cosi fatto, che lasci apparire a misura
del possibile, non esser poi le due leggi cosi discordanti Tra loro come
si crede: in ultimo, dovremo travagliarci, se la causa ne darà il
poterlo, di dar a divedere che il nostro ragionamento concilia e ritiene
ambe le leggi, laddove per lo ragionar degli avversarli o l'una o l'altra ne
dee necessariamente essere rigettata. Converrà altresì vedere quali
luoghi comuni la causa offra da sé, e pigliarne anche dalle molle e varie
parti deli' utilc e dell' onesto per dimostrare col mezzo della amplificazione
a quale delle due leggi sia più presto da attenersi. L. Nasce
controversia dal raziocinio, quando da ciò che è scritto in una legge si
viene a trattare ciò che in nessuna è scritto, per esempio: V'è una
legge che dice: Se alcuno vien pazzo furioso, gli agnati e gli offri
della stessa famiglia acquisteranno padronanza sopra di lui c sopra if sito
Ics.- Si palcrfamitias intestalo maritar, familia pccuniaque eit a
agnatumgentiliumijne està. Quidam iudicatus est parcnlem occidisse. Ei
slatini, quoti cffngicndi potcslas non fuit, ligneac soleac in
pedes induclac suol; os anioni obtolulum osi folliculo el pracligatum;
deinde osi in carcerem deduciti*, ul ibi ossei tarilisper, dum coleus,
in ijuein coniceli!* in proflucnlem doferrelur, compararelur. lnlcrea quidam
ojus familiares in carccrem labulas adrerunl cl loslcs adducimi; beredes, quos
ipsis libel, seribunt; labulao obsignanlur. De ilio posi snpplicium sumilur.
Inler eos, qui herodes in labulis scripli sunl, el inler agnalos de
licrcdilale conlrovorsia esl. Ilio corta lei, quac testamenti faciemli
iis, qui in co loco siot, adimal polcslalem, nulla prorerlur. Ex ccleris
Icgibus, el quae liunc ipsum supplicò)' liuiusmodi adliciunt, el quac ad
testamenti lacicndi potestàlem pertinenl, per raliocinationcm vcnicndum
est ad eiusmodi rationem, ut quacralur, habucritne testamenti
faciendi poleslntem. Locos aulem communcs in Irne genere argumenlandi lios et
liuidsinodi quosdam esse arbilramur; primum cius seripii, quod proli-ras,
laudalioncm cl coniirmalionem; deinde cius rei, qua de quacralur cum co,
de quo constcl, collationem eiusmodi, ut iti, de quo quacritur, rei, de
qua constcl, simile esse videatur; postea admiratioocm perconlationc, qui
fieri possit, ut, qui hoc acquum esse conccdal, illud ncgel, quod aul aequius
aul eodem sii in genere; deinde idcirco de hac re niliil esse scriptum
quod, quum de illa cssel scriptum, de hac is, qui scribebat, dubitalurum
nomi noni arbitratila sit; postea mullis in legibus multo practenla esse,
quac idcirco practenla nemo arbitrclur, quod ci ccleris, de quibus
scriptum sit, inlelligi possint ; deinde acquitas rei dcmonslranda est,
ul in iuridiciali absolula. Contro autem qui dicet, simililudinem infirmare
dcbcbil: quod facicl, si demonslrabit illud, quod conlcralur, ab co, cui
confcralur, divcrsuni esse genere, natura, vi, magnitudine, tempore, loco,
persona, opinione; si quo in numero illud, quod per similitudincm
adfertur, el quo in loco illud, cuius causa adfertur, liaberi
conrcnial, ostendetur; deinde, quid res cum re ditterai, dcmonslrabitur,
ut non idem videalur de utraque exislimari oporterc. Ac, si ipse
quoque polerit raliocinalionibus uli iisdem rationibus, quibus ante
dicium esl, utclur; si non poteri!, negabit oporterc quidquam, itisi quod
scriptum sii, considerare; pcriclitari omnia iura, si similitudincs
accipiantur; niliil esse pacnc quod non alteri simile esse videatur:
mnllas de similibus rebus et in unam quamque rem tantum singulas esse
leges omnia posse inler se rei similla tei dissimilia do
danaro. Un’ altra dico : Se un padre testamento rapporto a' suoi
schiavi c ai suo danaro, sieno ferme e rate le sue disposizioni. Dice una
teria : Se un padre se ne muore intestato, i suoi schiavi e il suo
danaro divengono proprietà degli agnati e degli altri della siesta
famiglia. Un tale fu giu: dirato reo d’ aver ucciso suo padre. Siccome
non potò trovar modo di prender la fuga, gli furono I calzale le
piante di piedi che di legno a nifi di scar' pc, c imbavagliato il volto in un
baccuceo stretto alla gola ; poi fu dato alla carcere perché vi I stesse
prigione tanto solamente che fosse ammannala la saccaia di cuoio, io clic si
dovea chiù1 dere c gettare in fiume. In quel mezzo tempo al| cuni suoi amici
recan nella carcere uno stromenlo testamentario c insieme alcuni
testimoni; nomano eredi di esso quelli che lor pare c piace, c mettono
allo slromcnlo il suggello dovuto. Poscia si prendo il supplizio del
delinquente. Nasco litigio circa l' eredità fra gli agnati c quelli che
sou nomali eredi nello scritto. Qui non si rena in mezzo nessuna leggo
positiva che tolga il dirillo di far 1 testamento a quello che ha poco
andare ad esser morlo. Si dee dunque dalle altre leggi, si da quel| le
clic a lai delinquente infliggono un tale supplì! ciò, si da quelle clic si
riferiscono al dirillo di far 1 testamento, venire per la via del
raziocinio a una trattazione clic versi sulla ricerca, se quel
parricida | avesse o no diritto di testare. I luoghi comuni clic |
son proprii a questo modo di argomentare sono i seguenti senza clic ve
n'ha certi altri di falla simile ; primamente dello scritto clic metterai
innanzi I dei fare la lode, c raffermarne l'autenticità: dipoi !
deesi fare della cosa che si cerca con quella che è manifesta un
confronto di tal maniera, che appari j sca esser simile alla manifesta la
cosa che cercasi; poscia eccitar la maraviglia coll'intcrrogarc,
come 1 possa mai darsi che olii concede esser questa casa : ben
giusta, dica non lo essere quella, che giosta è molto più, o almeno in
eguale misura ; indi, se della cosa che cercasi non »’ è nulla di
espresso nello scritto, nop v'èa motivo che P autore, allora che
scriveva, lacca ragione che nessuno ne moi «crebbe già dubbio; io altre leggi
esser trasandate ; di molte cose, le quali nessuno crederà mal che
- P autore le Irasandassc perchè non le volesse , ma solo perchè le non
iscritte si possono raccogliere da ben altre, che scritte già sono; di
vantaggio, deesi dimostrare la equità della cosa, come nella costituzione
giuridicialo di specie assoluta. Quegli che terrà il contrario dovrà lor
forza alla somiglianza mostrata dalla parte avversa; c il farà
dando a vedere esser la cosa messa a paragone di genere diverso da quella
con che s' è messa, cd altresì esser di diversa natura, fona,
grandezza, Limtu il. inonslrari. Loci communes: a raliocinalionc,
oporIcre conieclura ci co, quoti scriptum sii, ad iti, quod non sii
scriptum, pervenire; et neminern posse omnes rcs per scripturam
amplccli.sed eunt commodissimc scribcre, qui curel, ut qoacdam ex
quibusdam inlclligantur. ('.mitra ratiocinalioncm, huiusmodi :
coniccluram divinalionem esse , et stulli scriptum esse non posse omnibus
de rebus caverò, quibus velil. Dcllnilio est, quum in scripto verbum
aliquod est positum, cuius de vi quaerilur, hoc modo; Lei: Qui in aduna
tempestale nocem reliquerinl, omnia amiilunto; forum nauta et onera sunto
qui innave remanserint.Duo quidam, quum iam in allo navigarcnl, et quum
eorum allerius navis, allerius onus esset, nautragum qucmdnm
nalaolcm et manus ad se tcndcnlcm animum advcrlerunt; misericordia commuti
navem ad rum : applicarunl, hominem ad se suslulcrunt. Postea
aliquanlo ipsos quoque tempesta» vehcmenliiis lodare coepit, u*que adeo,
ut dominus navis, quum idem gubernator esset, in scapliam confugcrel, et
inde funicolo, qui a poppi religalus scapham adneiam Irahobat, navi, quoad
possel, nioderarclur; ilio aulem, cuius merces crani, in gladiuin ignave ibidem
incumbcrct. Ilic
ille naufragus ad gubernaculum accessit, et navi, quoad po luil, est
opiluluios. Sedatis aulem lluctibus, et tempestale iam commutata, navis
in portum pcrvchilur. Ilio aulem,
qui in gladium incumbucral, leviter saucius facile ei vulncre est
rccrealus. Navem cuni onere liorum (riunì suam quisque esse tempo, luogo,
personaggio, opinione ; il farà ancora, mostrando in qual conto c prozio s’
abbia a tenere la deduzione traila dalla pretesa somiglianza, in quale il
motivo perchè si è tratta: in line si dimostrerà in che balla la
differenza dall' una alla altra cosa, acciocché si paia clic dell'ima e
dell’altra non densi avere la stessa idea. E se egli stesso avesse
opportunità di valersi di raziocinii, se ne dovrà valere in quelle stesse
guise clic si snn dette poco avanti ; se di opportunità direnasse,
dovrà sostenere clic non si dee allcudere ad altro che a ciò die è
scritto; andar a ripcnlaglio tulli i diritli, se si ammettessero
somiglianze sì folte, imperocché non v'Iia quasi cosa alcuna clic non
tenga del simile con qualche altra ; esservi molle leggi che Irailano
nggelti somiglianti tra loro, ma l' una essere separala dall'altra, e ciascuna
trattar solamente il suo oggetto speciale ; in tutte le cose potersi scorgere
somiglianza o dissomiglianza delle unc con le altre. I luoghi comuni clic
qui tornano a capello sono i seguenti : quegli clic ragiona per
mezzo di raziocinio dee da ciò clic è scritto raggiungere per congettura eiò
clic non è scritto, c difendere clic nessuno autore può racchiudere
ugni cosa nella sua scrittura, c che meglio scrive e a meglio riesce chi
prucura che da alcune cose alcune altre se nc venga ad intendere. Quegli
che ragiona conlro il raziocinio, dovrà sostenere clic darsi alla
congettura è un farsi a indovinare, cd essere un balordo e uno sciocco quello
scrittore clic non sa ben esprimere c provvedere tutto quello eh' ci
vuole. fi definizione, quando cercasi qual sia il vero signilicato d' una
qualche parola che ai ritrova nello scritto, come in questo esempio :
Dice la legge : Chi abbandona la nave in tempo di burrasca, si diierla e
perde ogni cosa: la nave c le mercalanzie cadono in proprietà di quelli
che nella nave si rimasero. Due persone viaggiavano per mare,
I" uno padrone della nave, I' altro della merce di che essa era
carica. Videro nell' acqua un tale clic stava perduto c che tuttora
nuotava tendendo verso essi le mani ; presi da pietà, drizzarono la nave
alla volta di quello, o lo raccolsero dal mare. Alquanto dappoi
cominciarono essi medesimi di esser forte travagliati dalla burrasca che
vi si mise, di modo che il padrone della nave, che n' era eziandio il
pilota, riparò per salvezza nel palischermo, c di quivi, a misura del
possibile, reggeva la navo con la funicella clic raccomandala alla
poppa traeva il palischermo dietro a sé. L'altro clic era il padrone della
mercalanzia, sul ponte della nave lasciossi radere da codardo sulla
punta di un pugnale per morirsene. Intanto il naufrago di’ era
slato raccolto dal mare si fece al limone, e in blil dici!. Die
orones scriplo ad causato acceduti!, el et nominis tì nascilur
controversia. Natn et rclinquere nateti), et remancrc in navi.deniquc
natia ipsa quid sii, definilionibus quaerelur. tisdem autem et locis
omnibus, quibus definitiva conslilulio, traclabilur. Nunc, exposilis iis
argumcntationibus, quac in iudiciale causarutn gettus accomodanlur, deinceps in
deliberativum gcnus et dcmonslratitum argumenlaudi loco: et praecepla
tlabimus; non quo non in aliqua conslitulione omnia semper causa veraetur, sed
quia proprii tantum liarum causarum quidam loci sunt, non a constilutione
separati, sed ad (Ines liorum generum accomodali. Nam placet in
iutliriali genere flnem esse aequilatrm, Itoc est, partem quamdam
Itonestalis. In deliberativo aulcm Aristoteli placet utililatcm, nobis et honcslatcm et
ulilitalem. In dentonstralivo , lionestatem. Quarc in hoc quoque genere
causae quaedam argumcntalioncscommuniter ac simililcr Iraclabunlur; quaedam
separatius ad liucm, quo referri onincm ralioncm oporlet, adiungcntur. Alque
uniuscuiusque constilolionis escmplum supponcrc non gravaremur, itisi
{liuti viderentus, qucmadntodum ros obscurac dicendo fioretti aperliores, sic
rcs apcrtas obscuriorcs fieri orationc. Nunc ad dclibcralionis praecepla
pergamus, LI I . Rerum cipelendarum Iria genera sunl;
par autcni numerus tilandarum et contraria parte. Nam est quiddam,
quod sua vi nos adliciat ad ecse non emolumento captans aliquo, sed
Irahens sua dignilale; quod gcnus, tirlus, scienlia, veritas est. Est
aliud autem non propter smini vini et naturam, sed propter fruclum alque
ulilitalem peIcndum; quod genus, pecunia est. Est porto quiddam ci liorum
parlibus iunctum, quod el sua vi et dignilale nos iuduclos ducit, el prue
se quamdam gerii utilitatem, quo magis eipetatur, ut amicitia, bona cxislimalio.
Alque ex is liorum conira
per quanto seppe porse aiuto alla nave. Calmatisi i fluiti, e volta
la burrasca in bonaccia, la nave fu fatta entrare nel porlo. Colui clic
s'era gettato sulla punta del pugnale non avea rilevala che una
assai lieve ferita, ondechè tosto e di facile si rimise in meglio.
Ciascuno di questi tre vanta per sua la nave con la merce denlrovi.
Perciò intentano causa tutti e tre, pretendendo ciascuno avere la legge
dal lato proprio. Si rimesta controversia di nome, cioè dire di
significato; poiché deesi realmente cercare con altrettante definizioni
che significhi abbandonar la nave, che rimanersi in quella, e infine che
sia la nave stessa. Or questa causa si trattori precisamente con tutti quei
luoghi, con che trattasi la coslituiione definitiva. Esposte cosi
le argomentazioni che si adattano alle cause di genere giudiciale, verrò
a mano a mano dando i precetti e indicando i luoghi che sono il caso per
le argomentazioni proprie dei due generi, deliberativo e dimostrativo;
non perchè ogni causa non s’ aggiri sempre sopra qualche stato di
questione oratoria, ma perche ci sono dei luoghi solamente proprii
di questi due generi di cause, non già disgiunti e divisi dallo stalo delta
loro questione, ma adatti c relativi ai (ini, a cui para ciascuno di
questi due generi. E infatti si tiene dai relori rito il genere
giudiciale abbia per line la equità, ciò è dire tuta parte dell' onesto ;
c da Aristotele clic il fine del deliberativo sia l' ulilc : io però
tengo clic sia l'utile cd anche l'onesto. Si tiene da ultimo che l’
onesto sia il line del genere dimostrativo. Laonde, eziandio riguardo a questi
dne generi di cause insegnerò in comune e per lo simile alquante
argomt-nlazioni, aggiungendone ancora certe altro speciali che si riferiscono
strettamente al fine che è proprio di ogni causa , c a cui si dee
rapportare tutta la orazione. Noti mi graverebbe di apporre il proprio
esempio a ciascuna costituzione clic io toccherò, se non osservassi che siccome
le cose oscure si fanno più ciliare col ragionarvi sopra, cosi le ciliare si
fanno, ragionandole, alquanto oscure. Ma veniamo ai precetti circa
il genere deliberativo. Lll. Tre sono le specie delle cose
appetibili, c tre le loro opposte, da cui l'uomo si dee guardare.
Vita certi oggetti che per lo slesso loro valore ne allettano ad
abbracciarli: non ne tirano già a sè colla lusinga di qualche profitto,
ma coll'innamorarne della nobiltà e pareggio loro, quali sono la virtù,
la scieuia, la verità. Te n’ha altri che sono a desiderarsi non per lo
valore c natura loro, ma perchè conferiscono uo qualche profiliti ed
utilità, siccome è il danaro. Ve n' Ita invece che sono un misto di
questi e di quelli, i quali olire che ne adeseano a seguirli pel loro valore e
nobilezza, an ria facile, tacenlibus nobis, intelligenlur. Seti ul
expedilius ralio trndalur, ea, quae posuimus, brevi nominabuntur. Narri in
primo genere quae sunl, honesla appellabunlur; quae aulem in
secondo, ulilia. Haec autem Icrlia, quia partimi honeslalis
comincili, et quia mnior esl vis honeslalis, iuneta esse omnino ci
duplici genere intelligenlur; sed in nteliorem partimi vocabuli
coiiferanlur, cl honesta nominentur. Gì bis itimi conlicitur, ul appclendarum
rcrum partes sint borie. las et utililas, vitandarum turpiludo et
inulililas. ilis igitur duabus rebus res duac grandes sunt atlribiitae,
nccessiludo cl adfectio; quarum altera ei vi, altera ci re cl personis
consideratili. De ulraque post aprrlius perscribemns; nunc honeslalis ralioncs
primum eiplieemus. Quod ani tolum aul aliqua ex parte propter se pelilur,
honestum nominabimus. Quare quum eius duac partes sint, quarum altera
simplex, altera iuneta sii, simpllcem prius consideremus. Kst igitur in co genere omnes res una «i alquc
uno nomine amplexa virlus. Nam virtus est animi habitus, naturae modo,
atque rationi conscnlaneus. Quamobrem omnibus eius partibus cognitis, loia vis
erit simplicis honeslalis considerata. Ilabet igitur partes quatuor:
prudentiam, iuslitiam, foriiludinem, lempcrantiam. Prudenlia est rerum
bonarum et malarum neutrarumque scienlia. Partes eius: memoria; intei iigentia,
provienila. Memoria est, per quam animus repctil illa, quae fuerunt;
intei Iigentia , per quam ea perspicit; quae sunt; providentia, per quam
futurum aliquid vidclur ante quam factum sit. lustitia est habitus
animi, communi utililate conservala, suam cuique tribuens dignilatcm.
Eius inilium est ab natura profectum ; deinde quaedam in
consucludincm ex ulililatis ratione venerunt; postea res et ab natura
profeelas et ab consuetudine probalas legum melus et religio sanxil.
Natura ius esl, quod non opinio genuil, sed quaedam innata vis inscruit,
ul religicncm, pielatem, gratiam, vindicationcm, obscrvantiam, verilatem.
Religio esl, quae supcrioris cuiusdam naturae, quam divlnam vocant,
curam ceremoniamque adferl ; pietas per quam sanguinoconiunclis
palriacqne benevulis oflicium cl ditigens Iribuilur cullus; gralia in qua
anticiiiarum cl olliciorutn allcrius memoria et remuncrandi vo
cile ne mostrano una cotale utilità, perchè ad appetirli siamo vie piè
invogliati, come à l'amicizia, la buona stima, e via via. Gli oggetti che
sono opposti ai prcfali, ancora clic io li ponga in silenzio, di leggiere
si potranno intendere. Ma perchè sieno più chiari i precetti che vengo a
porgere, ricordo cosi di passo di che nomi sieno da appellare gli
oggetti che ho qui sopra accennali. I primi si ap polleranno onesti, i
secondi si diranno utili. I terzi, perchè sono contempcrati con l'onesto, e
perchè in essi la forza dell' onesto è maggiore clic la propria, si
capisce di lieve che sono appetibili per due ragioni unite insieme ; ma
s’ abbiano pure il nome dalla ragione migliore, e si appellino
onesti anch' essi Da lutto ciò si deriva, che gli oggetti da dover
appetire sono di due specie, onesti ed utili, c gli opposti da doversene
chi che sia guardare, sono i turpi ed i dannosi. A queste due specie si
riferiscono due cose di assai rilievo, la necessità e la circostanza;
delle quali la prima si risguarda in sè e nella forza sua propria, la
seconda relativamente ai fatti ed allo persone. Dell' una e dell’ altra
scriverò poi con sudlcicnle chiarezza : qui intanto mi farò a trattare
cièche risguarda l'onesto. LUI. lo appello onesto ciò che in tutto
o per amore di alcuna sua parte è appetibile per sè. Siccome però son due
le parli dell'onesto, una semplice, una mista, ci occuperemo in prima
della parte semplice. Or quella che per la sua propria potenza, c
sono il solo suo nomeoomprendequanto v’ha nella specie dell'onesto semplice,
èsen z’alIro la virtù. È infuni la virtù un abito interno, basalo sulle
regole naturali, e consentaneo alla ragione. Per la qual cosa, conosciute
che siano tulle le parli di essa, si può dire di aver conosciula
tutlaquanta la forza dell'onesto semplice. Ha essa virtù ben quadro
parti, prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Prudenza è la facoltà di
conoscere ciò che è bene e ciò che è male, e ciò che non è nè l'uno nè
l'altro. Le sue parti sono, memoria, intendimento, antiveggenza. Memoria
è quella dote, per cui l'anima si risovviene dello cose clic
furono; inlendimenlo è quello, per cui l'anima acquista la conoscenza
delle cose clic sono; antiveggenza è quella che dà a conoscere innanzi che avvenga
qualche cosa che dovrà avvenire. Giustizia è quell' abitudine interna, per
cui l'uomo, senza alterar l'utile generale, dà a ciascuno quello di che
esso è degno. I suoi principii son venuti dalla natura: poscia certe
azioni, per amor dell' utile che danno, sono passale in consuetudine; in
fine si i principii venuti dalla natura, e si le azioni che furono approvate
dalla consuetudine, vennero sancite dal timor delle leggi c dalla
religione. Natura è una legge che non fu lunlas contiiictur ; vindicatio ,
per quaro vis aut iniuria et ninnino amile, quod obfuluruin csl,
de* rendendo ani ulcisccndo propulsala; observanlia, per quam
lioniines aliqua dignilalc anlceedcnles cultu quodam et honorc dignantur
; vcrilas, per quam immillala ea, quac snnt, aut aule fuerunl, aut
futura suut, dicunlur. Consuetudine ius csl, quod aut levitar, a
natura tracium aluit et maius lecit usua, ut rcligionetn; aut si quid coruin,
quac ante diximtis, ab natura proreelum maius Lictum propler
consuctudiuem viilemus, aut quod in morem vetustas luigi approbaliuue perduti!,
quod genus pactum est, par, iudicatum. Pactum csl, quod inler
aliquos convenit ; par , quod in omnes aequabile est ; iudicatum,
de quo alicuius aut aliquorum iam scntenlìis constitulum csl. Lego ius
est, quod in co scripto , quod popolo ciposilutn est , ut obscrvct
, conlinctur. Fortiludo est considerala periculorum susceptio , et
laboruin perpessio. Eius parles, magnificcnlia , Odeutia , patinili,
i, perseverantia. Magniflcentia est rcruin magnaruin et cicelsarum
cum animi ampia quadam et splendida proposilionc agilatio alque administralio ;
lidentia csl, per quam magnis et bonestis in rebus multum ipsc aniinus in
se fiduciae cerio cum spe collocavi! ; palicntia csl bonestnlis aut
utililatis causa rerum ardnaruni ac dillo ilium vnlunlaria ac
diuturna perpessio ; perseverantia csl in ralionc j bene considerala
stabilis et perpetua parmansio. i Temperantij est ralionis in libidinem
alque in alios non rcclos impelus animi firma et moderala domi- :
nalio. Eius parles, coiiliociilìa, clemenlia, mode- | stia. Conlinemia
est, per quam cupidiias cnnsilii gubcriialionc regilur ; clemenlia, per
quam animi temere in odium alicuius iticeli roncilaliquc comitale
rctincnlur ; modestia, per quam pudor honcsti curam cl slabilcm comparai
auctorilatcm. Atque lince omnia propter se solum, ut nihil adiungalur
emolumenti, pctcnda suoi. Quod ut demonstrclur, ncque ad hoc nostrum instilutum
pcrtinct, et a brcvilate praccipiciidi remulum csl. l’roplcr se
aulem vitanda suut non ca mudo, quae bis con prodotta dalla
opinioue umana , ma è per una certa l'orza che le è ingenita, quale è la
religione, la pielà, la grazia, la vcndclla, la osservanza, la
verità. Religione è procurare le cerimonie e il culto di una natura più
prestante della nostra, la quale si domanda divina; pielà £ quella virtù,
per cui l'uomo presla ossequio c rispetto a quelli che gli sono attinenti
di sangue, ed agli amatori della patria ; la grazia comprende la
memoria dell'altrui amicizia e (ratti officiosi, e la volontà di
muncrargliene; vendetta è quella, per cui, difendendo o ricattandoci,
ributtiamo la violenza c il sopruso, anzi tutto affatto ciò clic ne
potrebbe essere nocitivo; osservanza £ quella disposizione dell'animo, per cui
teniamo degni di certa venerazione ed onore gli uomini di paraggio che
son posli in dignità. É verità quella virtù, per cui, senza punlo
alterarle, diciamo le cose quali furono, o quali sono, o quali sono a
venire. Consuetudine è una norma o legge, che tratta a poco a poco
dai principii naturali, fu afforzata e resa maggiore dall’ uso, come è la
religione; e forza di norma o legge ha qualunque delle cose provenienli dalla
natura, clic ho toccalo poco fa, le quali vediamo più che più aver
preso piede mediante la consuetudine; ovvero qualsiasi delle cose,
che tenute dal popolo inaino ab antico per buone c per vero son passale
in costume fino a noi, emne è il patto, la parità, il giudicalo. È
patto ciò, in cui più persone convengono e fanno accordo tra loro; é
parità ciò che guarda verso tutti la deb la uguaglianza; è giudicalo ciù,
sopra cui fu giù da uno o più pronunziata sentenza. Legge è una regola
esposta in quello scritto che si presenta al popolo perché In debba
osservare. Fortezza, è sofferenza delle fatiche, è un esulo c
approvveduto incontro dei pericoli. Le sue parti sono, magnificenza,
sicurezza, pazienza, perseveranza. I’cr magnificenza s’ intende un esercizio
e un maneggio di coso eccelse e rilevate, congiunto con una larga e
splendida dimostrazione dell'animo; sicurezza è quella virtù, per cui l'uomo
nelle imprese grandi cil onorale ripone in sé stesso molto di
fiducia, in modo da avere la sua speranza per riuscibilc; pazienza è un
volontario c lungo sofferimento delle cose ardue e malagevoli, eoi
. disegno di giunger a fatti di onore o di utilità; perseveranza é una
ferma c perpetua permanenza in un partito che siasi preso dietro
consiglio e ponderazione. Temperanza é un signoreggiamento della
ragione, forte, ma moderalo, sopra la libidine c sopra gli altri non rclli
trasporti del cuore. Le sue parti sono contenutezza, clemenza, modestia.
Contenutezza 6 quella rirlù, per cui viene clic i desideri! affienali si
lasciano reggere dal con Iraria sunl, ut fortitudini ignavia et iusliliac
iniustitia veruni etiam illa, quac propinqua vidcnlur et Unilima esse,
absunt autem longissime ; quod gènus fidenliae conlrarium est dillìdenlia, et
ca re vilium est; audacia non conlrarium, sed apposilum esl ac
propinquum, cl lanieri vilium osi. Sic unicuiquc virluti fmilimum vilium
rcpericlur , aul cerio iam nomine appellalum, ul audacia, quac fidenliac,
pertinacia, quac perscverauliac finitima csl, supcrstilio, quae religioni
propinqua esl ; aut sine ullo cerio nomine. Quae omnia ilem, uli
contraria rerum bonarum , in rebus vitandis reponcntur. Ac de eo quidem genere
honcstalis, quod et omni parte propter se pctilur, salis dicium
csl. bone de eo, in quo ulilitas quoque adiungilur, quod famen honeslum
vocamus, dicendoci vidclur. Sunl igilur multa, quae nos quum dignilale
lum fruclu quoque suo ducunl; quo in genere csl gloria, dignilas,
ampliludo, amicilia. Gloria csl frequens de aliquo fama cum laude;
dignilas, alicuius bonasia, et cultu et honore cl vcrccundia digita auctoritas;
ampliludo, polcntiac, aut maiestatis, aul aliquarum copiaruoi magna abundanlia
; amicilia, volunlas erga aliquem rerum bonarum illius ipsius causa, quem
diligi), cum eius pari voluntate. Ilio quia de civilibus causis loquimur,
fruclus ad amicitiam adiungimus, ut eorum quoque causa pelenda vidcalur ;
ne forte quis nos de om ni amicilia diccre ciistimans reprclicnderc
incipial. Quamquam sunl, qui propter ulililatem modo pclendam pulanl
amicitiam ; soni qui propler se solum ; sunt qui propler se et ulililalcra.
Quorum quid verissime conslitualur, alius locus crii considcraudus- Nunc
hoc sic ad usuui oralorium rclln. qualur, utrami|uc propler rem amicitiam
esse cipclciidam. Amiciliarum aulem ralio, quoniain parlim sunl religionibus
iunclac, parlili) non suul, cl siglio e dal senno; clemenza £ quella, che,
quando l’uomo è allenalo e spinto all’odio contro alcuno, ne lo aflrena con
dolcezza c benignità; modestia è quella virtù, per cui l'uomo mercè il
suo pudore ha cura dell'onestà, c acquista una slabile riputazione.
Tulle queste virtù sono appetibili da per sè sole, posloehè non sicno
accompagnale di nessun approvacelo ed utilità; cosa clic non mi
fermo qui a dimostrare, Ira perchè non si perbene nll’assunlo clic ho per mano,
e perchè non si consente con la solila brevità di questi mici precetti.
Vogliono però esser evitali di per sè non solo i vizii che a tali virtù
sono contrarii, come la codardigia clic è contraria alla fortezza, la
ingiustizia clic alla giustizia; ma quelli altresì che paiono esser loro
propinqui c vicini, ma in quel cambio non sono a mille miglia tali; per
esempio, la diffidenza è contraria alla fidanza, e per questo è
vizio; l'audacia invece non è di essa fidanza il contrario, ben anzi l'é confine
c le va appresso, c niente di meno è vizio. Similmente ciascuna
virtù si vedrà essere confinata dal suo vizio contrario, il quale o si domanda
con un nome suo proprio, come l'audacia che confina con la fidanza, la
pertinacia che ha con la perseveranza molta approssimità , la superstizione che
alla religione vicn seconda ; o non ha nessun nome determinato. Or tutti questi
vizii, come conlrarii delle virtù, si riporranno nel novero delle
cose da dover evitare. Parlai della specie di onesto, che da ogni
parte è appetibile di per sè: or il Un qui basta ad aver dello. Al
presente è da parlare di quell'aura specie di onesto che porta con sè ragioni
di utilità, ma che io appello onesto niente di meno. Sonci dunque
molte cose che ne invogliano a sè non solamente per riguardo alla nobiltà loro,
ma eziandio per l'approvcccio e vantaggio che no arrecano: di questa ragione
sono la gloria, la dignità, la grandezza, l'amicizia. Gloria è la fama
celebre che gode alcuno, accompagnala di lode; dignità è una
maggiorla onesta ed autorevole, degna di onoranza, di stima e di
riverenza; grandezza è un essere di grandissima lunga poderoso di
possanza, o di macslevoli esteriorità, o di qualche specie di ricchezze;
amicizia £ voler bene c vantaggio ad altrui per riguardo della stessa
persona clic si ama, e trovare in esso un'eguale disposizione di
volontà. Siccome perù io parlo qui delle causo civili, attribuisco
all'amicizia anche una ragione di utilità, perchè ancora per tal verso
essa comparisca appetibile; c fo questa avvertenza, per causa clic alcuno
noti mi volesse per avventura riprendere, credendo che io qui metta a
fascio ogni sorta di amicizia. Mondimene v’ita dii opina quia parUm
telerei sunt, parlim novae, panini ab illoruni, parlim ab noslro
beneficio profcclac, parlim uliliores, parlim minus uliles, ex causarum
dignilatibus, ex temporum opporlunUalibus, ci ofliciis, ex rcligionibus, ex
veluslalibus habebiiur. Uliiilas aulem aut in corporc posila est,
aul in cxirariis rebus ; quBrum (amen rerum multo maxima pars ad
corporis commodum revertilur, ut in re publica quacdani sunt, quae, ut
sic dicam, ad corpus perlincnt civitalis, ut agri, portus, pecunia,
classi», naulac, mìliles, sodi, quibus rebus 'ncolumilatem ac liberlatem
re linoni civilates: aiiae vero, quae iam quiddam magis amplum et minn
s necessarium conflciunl, ut urbis egregia exornatio alque
ampldudo, ut quaedam cxcelicns pccuniae magnitudo, amicitiarum ac
sociclalum mulliludo. Quibus rebus non illud solum conOcilur, ut salvac
et incolumes, terum rliam ul amplae alque polentes sint ciiitales. Oliar e
utililalis duae partes videnlur esse, ìncolumilas el polenba, incolumiias
est salulis tuia alque integra conscrtalio; polenlia est ad sua
conservanda cl allerius oblinenda idonearum rerum facullas. Alque in iis omnibus, quae ante dieta
sunt, quid fieri, cl quid Tacile (ieri possii, oporlet considerare. Facile id
dicimus, quod sinc magno aul sino ulto labore, sumptu, molestia
qtiain brevissimo tempore conlici potcsl ; posse autem (Ieri, quod
quamquam iaboris, sumplus, molestine, longinquitalis indigel, alque aul
omnes aut plurimas, aul maximas causas liabet dilficultalis, lamen, bis
suscepfis diilicullalibus, compleri atque ad exilum perdimi potesl.
Quoniam ergo de honestale el de ulililale dixiinus, none restai, ut
de iis rebus, quas bis allributas esse dicebamus, nccessitudine cl
adTeclione pcrscribamus. Pulo igitur esse liane, necessiludinem,
cui esser l'amicixia appetibile solo per l'utilità cb'essa produce,
e chi dice esser appetibile solamente di per sè, c chi esserlo e per sè e
per l'utile che da essa deriva. Quale però sia f appunto e il Termo
da stabilire intorno a questa maleria, verrò esponendo in altro luogo. Intanto
per l'uso oratoriosi ritenga questo, esser appelibile l' amicizia c
per sè c per l'utile cb'essa apporta. Essendo poi che delle
amicizie alice si sono unite coll’ essersi intermessa la religione, altre sema
intervento di lei, e parte sono antiche, parte recenti, e quali son
nate da un beneficio Tattoci, parte da un beneficio che Tacemmo noi
slessi, ed altre sono piò utili, ed altre meno; cosi nel trattarne si
dovrà avere considerazione alla nobilezza delle cause, alle opportunità
dei tempi, alle relazioni di esse amicizie, agli alti religiosi che le hanno
ratificale, c alla lontananza della loro origine. L'ulitilà ridonda
nel corpo, o nelle cose elio gli son fuori; ma anche queste per la
massima parie si convertono a vantaggio del corpo stesso. Se nc vegga I*
esempio nella repubblica. Cl son cose, clic, per cosi dire, appartengono
al corpo della popolazione, come le campagne, i porli, il danaro, la
(lolla, i naviganti, i militi, gli alleati, ron le quali cose c persone
conservano le popolazioni la propria salvezza o libertà: altre ce ne
sono, che conferiscono a un vantaggio più appariscente. ma meno necessario,
come a dire un cospicuo ornato cd ampiezza della cillà, uno straordinario
stollo di pecunia, una moltitudine di amicizie c di società. Da queste
cose deriva che le. popolazioni non pure si manlengonsalro ed incolumi,
ina eziandio vanno distinte per potenza e dignità. Ondecbì io To ragione
esser due le parti dell' utile, ve' dire potenza c incolumità.
Questa suona tanto come conservar sicura e intatta la propria
salvezza; quella esprime il possesso dei mezzi appropriati per mantener
il proprio, e venir all' acquisto dell’ altrui. In tulio questo elio
ho dello fin qua si vuole dislinguerc ciò che Tar si possa da ciò
che sia Tacile a Tare. Diciamo Tacile a Tarsi ogni cosa clic si può
Tornire con brevità, senza grande, o senza alcuna Talica, spesa,
Tastidio: diciamo che una cosa si può Tare, quando essa, avvegnaché domandi
Talica, spesa, raslidio, lunghezza di tempo, ed involga o tulle, o la
piò parte, o le piò gravi cause di difficoltà, non però niente di
meno anche affrontando queste dillkollà medesime, può esser Tornila c
condona al suo pieno cffcllo. Ora dunque che s' è trattato dell'onesto c
dell'utile, resta da trattare delle due cose che, come ho dello, si
rapportano a loro, ciò sono, la necessità e la circostanza. Credo esser
necessità quella senz'altro. unno ii. li» nulla vi resisti
polost, quo ca sccius id, quod lacere polcst, perflcial, quac ncque mulari,
ncque leniri polca!. Atque, ul apertili? hoc sii, cicniplo licci
vim rei, qunlis et quanta sit, cognoscamus. Cri posse (lamma ligneam
motcriam noccsse est. Corpus mortale aliquo tempore inlcrire
ncccsse est; atque ita nccessc, ul vis postulai ea, quam modo
dcscribcbamus, ncccssiludinis. Iluiusmodi neccssitudines quum in diccndi
raliones inciderli, rcclc neccssitudines appcllabunlur. Sin aliquae
res accidcnl difflciles, in illa supcriore, possilne fieri,
quaestlone considerabimus. Atque oliam hoc milii vidcor viderc, esse
quasdam cum adiunctione nccessitudiucs, quasdam simpliccs et absolutas.
.Nani alitcr dicere solemus: Ncccsse est Casilincnscs se dedere
llannibali ,*alilcr autcìn : Nccessc est Casilinum venire in llannibalis
polcslalcm. Illic, in supcriore , adiunclio est liacc: Nisi si malunl
fame perire ; si cnim id malunl non est nccessc. Hoc inlcrius non ilem ,
proplcrca quod , sivc velini Casilincnscs se dedere, sive famein
perpcli atque ita perire, neccssc est Casilinum venire in llannibalis
potcstatem. Quid igitur bare per licere potest ncccssiludinis dislribuiio
? Propc dicatn , plurimum , quum Incus necessiludinis videbilur incurrere. Nam
quum simplex crii neccssiludo, niliil crii quod inulta dicamus,
quum eam nulla rationc lenire possiraus ; quum aulem ila ncccsse
crii, si aiiquid cffugcrc aul adipisci vclimus, tum adiunclio illa quid liabcat
utililalis au| quid honcstalis, crii considcrandum. Nam si vclis
attendere, ita tamen, ul ìd quacras, quod come, nial ad usum civilalis,
reperias nullam esse rem, quam lacere ncccsse sii, nisi propler aliquam
causaci, quam adiunctioncm unminamus; praeler linee auledi esse mullas
res ncccssilaiis, ad quas simili* adiunclio non accudii; quod geuus, ut
homines morlales necessc est inlcrire, sine adiunctione: ul cibo
ulantur, non necessc est, nisi cum illa eiceplionc: Evira quam, si nolinl fame
perire. Ergo, ut dico, illud, quod adiungilur, sempcr, cuiusmodi sii,
erit considerandum. Nam omni tempore id pcrlinebil, ul aul ad boncslalcm
hoc modo exponcnda neccssiludo sii : Necesse est, si boncslc volumus vivere; aul
ad incolumilalcm, hoc modo : Nccessc est, si incolumcs volumus esse; aul
ad commodiialcnt, hoc modo : Ncccsse csl , si sine incommodo
volumus vivere. alla quale per veruna forza non si può impedire clic
faccia nò più nè meno ciò eli' essa può fare, poiché non si può nè
miliare, nè restringere. Ma perchè questa definizione torni più chiara,
sarà bene conoscere per qualche esempio quale e quanta sia la forza
della necessità. Che le legna sicno bruciale dal fuoco, è questo un
necessario. Clic un corpo mortale in uno o in altro tempo venga a perire,
anche questo è un necessario; c necessario così come è richiesto dalla forza
della slessa necessità clic leslè ho descritta. SI falli necessarli
quando imballeranno fra gli argomenti che si trattano, si appelleranno a
buon diritto necessità. Che se involgessero fatti o circostanze ma'
(agevoli, si esamineranno a termine della questione tocca qui sopra, clic è,
quando uno cosa si può fare, o può avvenire. Oltracciò osservo pur
questo, esservi alcune necessità clic s' accompagnano di una qualche
condizione, alcune altre esser affatto semplici cd assolute. E infatti
nell’uso del parlare noi diciamo in un modo: È necessario che quelli di
Casilino si dicno in mano ad Annibale; c in un altro: E necessario clic
Casilino venga ad Annibale in podestà. Al modo primo va
accompagnala questa condizione: Se non vogliono pericolar di morire di fame;
perocché se amano meglio codesto, la resa non è lor necessaria. Ma non è
altrettanto del secondo modo, perocché, o sia che quelli di Casiliuo vogliano
venire alla mercè c alla misericordia di Annibaie, o sia che amino
piuttosto patirsi la rame c così disertarsi c perire, è necessario ad ogni modo
che venga Casilino in potere di Annibali'. Ora, c clic dunque se ne
ricava, si dirà, da questa distinzione del necessario ? Se ne ricava, sto per
dire, di molto, ognora clic intervenga qualche luogo spellante alla
necessità: conciossiacliè quando essa necessità fosse non più che
semplice, non c’è bisogno di andare in lungherie di parole, essendo che
essa non si può già per veruna guisa mutare; e quando per conlra la
necessità avesse questa condizione, ciò è necessario, se vogliamo
scansare ovvero ottener qualche cosa, allora bassi a porre ben mente che cosa
arrechi essa di utile, oppure di onesto. E infatti se tu vorrai considerare
di ciò, tuttavia solo nel caso che tu abbia qucsliorc su quello che
risguarda gli usi civili, riconoscerai non v' esser azione clic s'abbia
necessariamente a lare, se non per qualche motivo, che io appello
condizione; e inoltre esservi molle specie di necessità, alle quali simile
condizione non va punto accompagnala; per esempio: gli uomini
mortali debbono di necessità venir a mancare, questo è un necessario
senza condizione: ma il dire, i forza che piglino Ucl cibo, questo non è un
neccs Ac summa quidcm ncccssiludo videlur esse honeslatis: liuic
proxima, incolumilatis: ter lia ac Icvissima, commodilatis;quac cum liis
numi|tiam poteril duabus contendere. Ilasccaulem itile r se saepe Decesse est
comparari, ut quamquam prarstet boneslas incolumitali, (amen utri
polissiinum consulendum sii, delibcrelur. Cuius rei certuni quoddam
praescriplum videlur in pcrpeluum ilari posse. Nani, qua in re iteri
poteril, ut, quum incolumitali consu!ucrimns,qund sii in pracsenlin
tic honeslatc delibatimi, virtute aliquando et industria recuperetur,
incolumilatis ratio vidcbilurbabenda; quum autem id non poluerit,
honcslalis. Ila in huiusmodi quoque re, quum incolumitali lidebimur
consulerc, vere poterimus diccre nos lionestalis rationem liabcre,
quoniam sino incolumilatc cam nullo tempore possumus ndipisci. Qua in re
tei concedere alteri, voi ad conditioncm allerius descendere, vel in
pracscnlia quiescere atquc alimi Icmpus cxspeclarc uportcbil. In
commodilalis vero ratinile modo illud altcmlatur, dignane causa videalur ea,
quac ad ulilitalem pertincbil, quarc de niagiiiliccnlia aul de bonestate
quidam dcrogetur. Alque ili hoc loco milii caput illud videlur esse, ut
quaeramus, quid sii illud, quod si adipisci aut ctTugerc velimus, aliqua
res nubis sit necessaria. Ime est, quac sii adiunclio, ut proinde,
uti quaeque res eril, laboremus, et gravissimom quamquecaiisam
vebemcnlissimenecessai iati! iudicemus. A il feci io est quaedam ex
tempore aul ex negotiorum eventu , aut adminislratione.aul homiimni
studiocommulalio rcrum, ut non lales, quales ante babilac siili, sul
plcruinque liabcri solenni habondac videantur esse ; ut, ad hostcs
transire turpe videlur esse; ut non ilio animo, quo Ulyxes transiit ; et
pccuniam in mare deiicere inutile; al non eo consilio,
quoArislipptts fecit. Sunt igilur r s quaedam ex tempore et ex
consilio, non ex sua natura considerandac; quibus in omnibus, quid
tempora pctanl,aut quid personis dignum sit, considcrandumesl, et
nonquid, sed quo quidquc animo, quicum, quo tempore, quamdiu fìat,
altcndenduin est. Ilis ex parlibus ad senlcttliam dicemtam loeos stimi oporlere
arbitramur. sario, se non con la condizione : eccetto se non
vogliono perir di Tante. Laonde, come dico, è sempre da esaminare quale della
condizione sia il modo c la qualità; poiché in ogni tempo è da badar bene
clic la necessità, se si riferisce all'onesto, si esponga in questo modo:
è necessario, se togliamo vivere onestamente; o se si riTeriscc alla incolumità,
si esponga in questo: È necessario, se vogliamo mantenerci inrolumi; o se ai
nostri agi, si esponga cosi; È necessario, se vogliamo vivere bene
agiati. La necessitò di tulle maggiore è di Tare oncslamcnlc: a questa
s’avvicina quella della nostra incolumità; la terza, da meno di tulle,
è quella di essere agiati, la quale non potrà mai competere con le
altre due. Queste necessità ì mestieri di paragonarle spesso Tra loro, ai
line che possa esser risolto c stabilito, sebbene l’onesto si vantaggia
molto sopra la incolumità, a quale de’ due debbasi piuttosto provvedere.
Intorno a ciò si può Dssare un precetto, che volga per sempre. Quando noi
battiamo sopra Talli d’incolumità, c vediamo die nel provvedere ad essa ne
va per al presente diminuito e leso l'onesto in qualche parte, che
nondimeno si può quando clic sia risarcire e rimettere con l’ industria e
la virtù, dovrassi alla ricisa aver riguardo alla incolumità: ma
quando si prevedesse elle lo scapilo dell’onesto non si poiria più rifare, deesl
provvedere al1’ onesto anzi che alla incolumità. Cosi anche in questo
caso mostrando di provvedere alla incolumità, potremo dir daddovero che noi
abbiamo ri- guardo all' onesto, poiché senza la incolumità in verun
tempo non è possibile asseguire l'onesto c mantenerne il possesso. Or su
questo punto si do- vrà o cedere altrui, o venire nel partilo di un
al- tro, o non far altro per ora, e stare in aspetto di tempo più
opportuno. Quanto poi spelta agli agi, decsi considerare di questo, se la
causa che si riTeriscc all'utile debba richiedere elicsi detragga
alcun clic dalla magnificenza o dall' onestà. E ri- spetto a questo io
trovo esser un punto capitate lo investigare di qual sorta sia la rosa, a
cui otte- nere o scansare ben un’altra cosa ci è necessaria, voglio
dire, quale ne sia la condizione, acciocché ci possiamo arrahatlare ed
aiutare secondocliè lo esige la qualità della cosa, c conoscere che
la causa, Tosse pur la più Torte e malagevole, è nondimeno per ogni verso
una causa necessaria. Cir- costanza è una rotai mutazione delle cose,
clic dipende dal tempo, o dalla riuscita degli affari, o dal
maneggio loro, o dalle propensioni degli uo- mini, c fa elio non si
debbau le cose per tali ave- re, quali si son credute per lo avanti, o
quali tut- te le più volte si credono. Per esempio: il
passare Laudes autem cl vilupcraliones ei iis locis aumentar, qui loci
pcrsonis sunt attribuii, ile quibus ante diclum esl. Sin dislributius
baciare ijuis videi, partialur in aiiimum.cl corpus, et extra- rias
res licebil. Animi esl virtus, cuius de parli- bus paullo ante dicium
esl; corporis, valeludo, di- gnitas, tire*, velocitasi estrariae, lionos,
pecunia, adfinilas,genus, amici, pairio, potenlia cl celerà, quae
simili esse in genere inteliigciitur. Alque in bis id, quod il) omnia
valet, valere oportebit: contraria quoque, quac et quaba einl,
inlelligcnlur. Videro autem in laudando et in vituperando opor-
lebil non tam quae in corpore aul in estrania re- bus liabuerit is, de
quo agetur, qunm quo paclo bis rebus usus sii. Anni fortunali! quidem et
lau- dare slultilia, et vituperare superbia est; animi autem et
laus honesta, cl viluperatio veliemens esl. Rune quoniain oninc in causac
gcnus argu- incnlandi ratio tradita est, de invcnliono. prima ac
inavima parte rlieloricac, salis diclum vidclur. Quare, quoniam et una
pars ad ctituin boc ac su- periore libro perducla esl, et Ilio libcr non
parum coiitiiiet litlerarum, quae restaul, in rcliquis di-
ccmus. ai nemici £ cosa turpe ; ma non £ tale, se si faccia con la
intenzione, con clic lilissc: gettar il da- naro in mare £ cosa
dannevolc; ma non lo £, se si faccia con l'intendimento, conche
Arislippo. Ci son dunque delle cose, clic si vogliono riguardare non in
sè c nella natura loro, ma relativamente al tempo e al disegno di cbi le
fa; c in tube que- ste decsi aver l'occhio a discernerc quale sia I'
c- sigenza dei tempi, c ciò clic sia competente e degno delle persone, ed
osservare non ciò che venga fatto, ma con clic animo altri il faccia, con
quali compagni, iti qual (empii, e quanto a lungo vi duri, ba parti
si fatte io trovo clic si debbano ritrarre i luoghi acconci a provocare
la sentenza dovuta. La lode c il biasimo si trarranno da quel- le fonti
di argomenti, elle si sono indicate quando si £ discorso sopra ciò clic
si riferisce alle perso- ne. Se alcuno volesse attenersi a una
divisione bene accurata, la farà riguardo all'animo, al corpo, c alle
cose esteriori, bell’ animo £ propria la virtù, delle cui parli s’£ trattato
poco più addietro; del corpo £ propria la buona o mala salute, la
di- gnità, le forze, Tesser veloce. Per cose esteriori si intendono
l'onore, il danaro, i parerli aggi, la stirpe, gli amici, la patria, la
possanza, c quanto vi ha di genere altrettale. E per queste cose
avran- no valore gli argomenti clic hanno valore per tut- te le
altre; e cosi ancora si potrà conoscere quali si slcno le toro contrarie.
Bensì rispetto ai far uso della lode c del biasimo si dovrà
osservare non tanto quali vantaggi o scapili avesse quel ta- le, di
quelli clic si riferiscono al corpo e alle cose esteriori, quanto in qual
foggia e maniera siasi comportalo rispetto ad essi: puicliè lodare la
fortuna £ ima stoltezza, e svitupcrarla £ un’arrogan- za; mentre la lode
clic si dà all'animo £ cosa clic lo onora, come il biasimo che se gli dà
è cosa clic lo punge c trafigge. Esposte cosi le fonti c le for- me
di argomentare per ogni genere di causa. Irò- vo d’aver detto quanto
basta circa la invenzione, clic £ la prima c la più principale tra le
parli del la retorica. Epperó, giacché una metà del mio te- ma tra
in questo c nel precedente libro fu condot- ta ad uscita, c questo
secondo m' £ venuto lungo non poco, dirò negli altri libri le cose die
Bucina mi restano. Marco Tullio Cicerone. Cicerone. Keywords:
Marc’Antonio, untranslatable, signans/signatum, signans, signatum. Cicerone,
Cicero = Tully. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool
Library.
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