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Monday, February 10, 2025

LUIGI SPERANZA -- "GRICE E CICERONE"

 

Luigi Speranza -- Grice e Cicerone: la semiotica -- l’implicatura conversazionale di Marc’Antonio – scuola di Ponte Olmo -- scuola d’Arpino – scuola di Frosinone – scuola di Roma -- filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana -- Luigi Speranza – (Italia). Filosofo italiano. Ponte Olmo, Abbazia di San Domenico, Arpino, Frosinone, Lazio. Ciceronian implicaturum: Grice: “One has to be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone ain’t Italian, but Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo romano’ – matter!” Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone IS discussed by this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to provide us with some nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I would mention the two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for the “Roman chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to Lucrezio and Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty recent: due to the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome in 183 a. u. c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely class, notably the Scipioni!” --  della cultura greca, attraverso la sua opera i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia greca. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina, vi fu la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per ogni termine specifico del linguaggio filosofico greco. Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano, invece, le Lettere/Epistulae (in particolar modo, quelle all'amico Tito Pomponio Attico) che offrono numerose riflessioni su ogni avvenimento, permettendo così di comprendere quali fossero le reali linee politiche dell'aristocrazia romana.  C. occupò, per molti anni, anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina (e aver così ottenuto l'appellativo di pater patriae, padre della patria), fu un membro eminente della fazione degli Optimates. Infatti, nelle guerre civili, difese strenuamente, fino alla morte, una repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo. C. nacque a Ponte Olmo, in prossimità del fiume Fibreno accanto al comune di Arpinum (area attualmente occupata dall'Abbazia di San Domenico. Gli Arpinati ricevettero la civitas sine suffragio nel IV secolo a.C. e i pieni diritti di cittadinanza nel 188 a.C.; in seguito, la città ottenne anche lo status di municipium.[5] La lingua latina era in uso già da lungo tempo[6]; tuttavia, ad Arpino, era diffuso anche l'insegnamento della lingua greca, che l'élite senatoriale romana preferiva spesso a quella latina, riconoscendone la maggiore raffinatezza e precisione.[7] L'assimilazione, da parte dei Romani, delle comunità italiche vicine a Roma (avvenuta tra il II e il I secolo a.C.), permise a C. di diventare scrittore, statista e oratore.  C. apparteneva alla classe equestre (la piccola nobiltà locale) e, anche se lontanamente imparentato con Gaio Mario (il corifèo dei Populares durante la guerra civile contro gli optimates di Lucio Cornelio Silla[8]), non aveva alcun legame con l'oligarchia senatoriale romana; era dunque un homo novus. La famiglia era composta dal padre Marco Tullio C. il Vecchio, uomo colto ma di origine sconosciuta; dalla madre Elvia, di nobile casato e integri costumi[9] e dal fratello Quinto.  Il cognomen Cicero è il soprannome di un suo antenato abbastanza noto per un'escrescenza carnosa sul naso (presumibilmente, una verruca) che ricorda un cece -- cicer, ciceris è il termine latino per cece. Quando Marco presenta, per la prima volta, la propria candidatura a un ufficio pubblico, alcuni amici gli sconsigliarono l'utilizzo del suo cognomen ma egli rispose che «avrebbe fatto sì che esso diventasse più noto di quello degli Scauri e dei Catuli.   céce e cécio nap. cecere, ven. cesere,  c. ciciru, sard. cixiri; prov. cezer; fr. ceire; ted. kicher (pruss. kockers  ¡sello): dallat. cicer (= ciR-crR) - acc. ciCEREM - che il Curtius deriva dalla ra  KAR esser duro, onde il sser. KAR-EAR-duro e come sost. osso ed anche pisell KHAR-AS duro, ruvido, KAR-AKA noce cocco o il gr. KAR-KAROS duro e come s stant. pisello (cfr. Ardito). - Ad altri il vece sembra affine al lat. cicus involuca del seme dei frutti (cfr. Chicco), ovyero gr. KEKis escrescenza. - Specie di legun in torma di granello alquanto appuntat che secco indurisce assai e si mangia cott  Deriv. Cecerèllo; Ceciarollo; Ceciato. Cfr. G  cèrbita; Cicérchia;  ¿cerone.Studi  Fanciullo che legge C. di Vincenzo Foppa, Collezione Wallace di Londra. C. si rivelò subito un fanciullo dotato di una straordinaria intelligenza (tanto da distinguersi, a scuola, dai propri coetanei) che gli fece accumulare fama e onore.[11]  Il padre, auspicando una brillante carriera forense e politica per i figli, li condusse a Roma dove Marco venne introdotto nel circolo dei migliori oratori (e protettori della sua famiglia): Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore; Crasso ebbe particolare influenza su C. che lo considerò sempre un modello di oratore e di statista. A Roma, poté anche formarsi nella giurisprudenza, grazie alla scuola di Quinto Mucio Scevola[12]. Tra i suoi compagni, ci furono anche Gaio Mario il Giovane, Servio Sulpicio Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato, nonché, uno dei pochi che C. considerò superiori a sé stesso) e Tito Pomponio (che prese poi il cognomen di Attico, dopo una lunga permanenza ad Atene, e che divenne intimo amico di C.; infatti, gli scrisse in una lettera: «Sei per me come un secondo fratello, un alter ego al quale posso dire ogni cosa»[13]).  In questo periodo, C. si avvicinò anche alla poesia[14]: in particolare, si cimentò nella traduzione delle opere di Omero e dei Fenomeni di Arato (opere che, in seguito, influenzarono le Georgiche di Virgilio).  Particolarmente attratto dalla filosofia,[15] alla quale avrebbe dato grandi contributi (tra i quali, la creazione del vocabolario filosofico in lingua latina), nel 91 a.C. incontrò, assieme all'amico Tito Pomponio, il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma; entrambi ne rimasero affascinati ma solo Pomponio rimase, per tutta la vita, seguace della dottrina epicurea. Tra il 79 e il 77 a.C., conobbe il maestro di retorica Apollonio Molone[16] (che istruì, pochi anni dopo, anche Gaio Giulio Cesare) e l'accademico Filone di Larissa che esercitò su di lui, un'influenza profonda: infatti, era a capo dell'Accademia di Atene che Platone aveva fondato circa trecento anni prima; di conseguenza, grazie a lui, C. assimilò la filosofia platonica, tanto che arrivò spesso a definire Platone come il proprio dio (pur rigettando la sua teoria delle idee).  Poco tempo dopo, C. incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo; tale movimento era già stato precedentemente introdotto a Roma, dove aveva ricevuto larghi consensi grazie all'enfasi posta sul controllo delle emozioni e sulla forza di volontà (in linea con gli ideali romani). C. non adottò completamente l'austera filosofia stoica ma preferì uno stoicismo modificato; in seguito, Diodoto divenne un protetto di C., dal quale fu ospitato fino alla morte[15].  Cursus honorum Prime esperienze Il sogno di infanzia di C. era quello di "essere sempre il migliore ed eccellere sugli altri", in linea con gli ideali omerici: infatti, desiderava dignitas e auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e dalla verga dei littori; c'era un solo modo per ottenerli: percorrere i gradini del cursus honorum. Nel 90 a.C., tuttavia, era ancora troppo giovane per approdare a qualsiasi carica del cursus honorum ma non per acquisire l'esperienza preliminare in guerra che una carriera politica richiedeva. Tra il 90 a.C. e l'88 a.C., C. servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della guerra sociale sebbene non provasse alcuna attrazione per la vita militare dato che si sentiva un intellettuale (infatti, molti anni dopo, scrisse al suo amico Attico che stava raccogliendo statue marmoree per le ville di C., "Perché mi spedisci una statua di Marte? Sai che io sono un pacifista!"[17]).  L'ingresso di C. nella carriera forense avvenne ufficialmente nell'81 a.C. con la sua prima orazione pubblica, la Pro Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del tempo, Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell'oratoria a carattere politico (almeno secondo le testimonianze scritte pervenute), si ebbe con la Pro Roscio Amerino che conserva molto di scolastico nello stile esuberante[18][19]: nell'orazione, difese, con successo, un figlio ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio nell'assumersene la difesa (il parricidio era, infatti, considerato tra i crimini peggiori a Roma) mentre i veri colpevoli erano sostenuti dal liberto di Silla, Lucio Cornelio Crisogono. Se Silla avesse voluto, sarebbe stato fin troppo facile eliminare C., proprio alla sua prima apparizione nei tribunali.   Lucio Cornelio Silla C. divise le sue argomentazioni in tre parti: nella prima, difese Roscio e tentò di provare che non era stato lui a commettere l'assassinio; nella seconda, attaccò quelli che avevano realmente commesso il crimine (tra cui, anche un parente dello stesso Roscio) e dimostrò come l'assassinio favoriva più loro che Roscio; nella terza, attaccò direttamente Crisogono, affermando che il padre di Roscio fosse stato assassinato per ottenere i suoi terreni a un prezzo conveniente, una volta messi all'asta. In forza di queste argomentazioni, Roscio fu assolto.  Per sfuggire a una probabile vendetta di Silla[20], tra il 79 e il 77 a.C., C. si recò, accompagnato dal fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche dall'amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia e in Asia Minore[21]: particolarmente significativa fu la sua permanenza ad Atene dove incontrò nuovamente l'amico Attico che, fuggito da un'Italia sconvolta dalle guerre, si era rifugiato in Grecia; Attico, in seguito, divenne cittadino onorario di Atene e poté presentare a C., alcune tra le più importanti personalità ateniesi del tempo. Ad Atene, inoltre, C. visitò quelli che erano i luoghi sacri della filosofia, a cominciare dall'Accademia di Platone (di cui era allora a capo Antioco di Ascalona). Di quest'ultimo, C. ammirò la facilità di parola, senza tuttavia condividerne le idee filosofiche (ben differenti da quelle di Filone di Larissa, delle quali era convinto ammiratore[22][23]). Dopo un breve soggiorno a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio, tornò in Grecia (dove fu iniziato ai misteri eleusini, che lo impressionarono molto) e dove poté visitare l'Oracolo di Delfi; in quell'occasione, domandò alla Pizia in quale modo avrebbe potuto raggiungere la gloria ed ella gli rispose che avrebbe dovuto seguire il suo istinto invece dei suggerimenti che riceveva[24].  Ingresso in politica  Busto di C. Tornato a Roma dopo la morte di Silla, C. iniziò la sua vera e propria carriera politica, in un ambiente sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C., dopo aver pronunciato la celebre orazione Pro Roscio comoedo, si presentò come candidato alla questura, la prima magistratura del cursus honorum.[25] I questori, eletti per un massimo di venti membri, si occupavano della gestione finanziaria o assistevano propretori e proconsoli nel governo delle province. Eletto alla carica per la città di Lilibeo (l'odierna Marsala), nella Sicilia occidentale, svolse il proprio lavoro con scrupolo e onestà (tanto da guadagnarsi la fiducia degli abitanti del luogo). Durante la permanenza in Sicilia, visitò la tomba di Archimede a Siracusa: grazie al suo interesse per l'uomo, sono state rinvenute alcune importanti informazioni sullo scienziato (in particolare, per quanto riguardi il suo planetario).  Al termine del mandato, i siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre, colpevole di aver tiranneggiato l'isola nel triennio 73-71 a.C.[26][27]. C. raccolse le prove della colpevolezza, pronunciò due orazioni preliminari (Divinatio in Quintum Caecilium e Actio prima in Verrem) e l'ex-governatore, attaccato da prove schiaccianti, scelse l'esilio volontario[28]. Le cinque orazioni preparate per le successive fasi del processo (che costituiscono l'Actio secunda), furono pubblicate in seguito e costituiscono un'importante prova del malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme di Silla. Attaccando Verre, C. attaccò la prepotenza della nobiltà corrotta ma non l'istituzione senatoria stessa (anzi, fece appello proprio alla dignità di tale ordine affinché ne estromettesse i membri indegni). Acquisì, inoltre, un enorme prestigio perché a difendere Verre era Quinto Ortensio Ortalo, considerato il più grande avvocato dell'epoca[29]: "sconfitto", Ortensio dovette accettare che il suo posto venisse preso da C. (il quale, si guadagnò il titolo di "Principe del Foro"); nonostante l'episodio, tuttavia, i due oratori strinsero, in seguito, un buon legame di amicizia (infatti, proprio a Ortalo che elogiò anche nel Brutus, C. dedicò un'intera opera non pervenuta, l'Hortensius).  A Roma, l'oratoria e l'attività forense erano uno dei principali mezzi di propaganda per i politici emergenti, poiché non esistevano documenti scritti di argomento politico (con l'eccezione degli Acta Diurna che, però, godevano di scarsa diffusione). Contro C., tuttavia, rimaneva la diffidenza dei nobili verso gli homines novi, accresciuta dal fatto che l'ultimo homo novus ad acquisire rilevante peso politico fosse stato un concittadino dello stesso C., Gaio Mario. Tuttavia, anche lo stesso Silla, fiero oppositore di Mario, aveva preso alcuni provvedimenti che permettevano e facilitavano l'ingresso degli equites nella vita politica, dando così a C. la possibilità di raggiungere le vette del cursus honorum.  Il successo ottenuto da quelle orazioni (che vennero poi chiamate Verrine), anticipatrici dei principi di un governo umano e ispirato a onestà e filantropia, portò C. in primo piano sulla scena politica: nel 69 a.C., venne eletto alla carica di edile curule[30] e, nel 66 a.C., diventò anche pretore con una elezione all'unanimitàL. Nello stesso anno, pronunciò il suo primo discorso politico, Pro lege Manilia de imperio Cn. Pompei, in favore del conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la guerra mitridatica; in quell'occasione, Pompeo era appoggiato dai cavalieri, interessati alla rapida risoluzione della guerra in Asia, mentre gli era contraria la maggioranza del Senato[32]. Il motivo dell'impegno di C. in una causa ostile all'alta aristocrazia (che, d'altronde, era restìa ad accoglierlo tra le proprie file) stava probabilmente nell'importanza che essa aveva per i pubblicani (titolari degli appalti pubblici e della riscossione delle imposte) e gli affaristi, minacciati nei loro interessi da Mitridate VI. La provincia dell'Asia Minore, minacciata dal sovrano del Ponto, era, infatti, particolarmente attiva dal punto di vista dell'economia e del commercio.  Consolato  C. denuncia Catilina, affresco di Cesare Maccari a Palazzo Madama in Roma che raffigura C. mentre pronuncia una delle orazioni contro Catilina Nel 65 a.C. C. presentò la candidatura al consolato. Nel 64 venne eletto console per l'anno successivo (ossia il 63 a.C.). La sua posizione venne illustrata dal fratello Quinto in un'opera (di dubbia attribuzione: la scrisse lo stesso C.?), Commentariolum petitionis, scritta per consigliarlo nella campagna elettorale. Per un gioco delle classi, C. risultò eletto con il voto di tutte le centurie.[33] Assieme a lui risultò eletto il patrizio Gaio Antonio Ibrida, zio di Marco Antonio, futuro triumviro e acerrimo nemico dell'arpinate, accusato dallo stesso C. (In toga candida, orazione - pervenutaci in condizioni frammentarie - tenuta in Senato come candidato poco prima delle elezioni del 64) di essere collusore di Lucio Sergio Catilina.[34] La fiducia riposta in C. dalla classe equestre venne ripagata già all'inizio del consolato con la pronuncia di quattro orazioni (De lege agraria) contro la proposta di redistribuzione delle terre del tribuno Publio Servilio Rullo.[35]  Durante il proprio consolato C. dovette contrastare il tentativo di congiura messo in atto da Catilina. Questi era un nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato il cursus honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con possibili brogli elettorali e infine ordì una congiura per rovesciare la repubblica.[36] Catilina contava soprattutto sull'appoggio della plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito, che lo avrebbe probabilmente portato ad assumere un potere monarchico o quasi, inoltre sembrerebbe fosse stato supportato politicamente da Gaio Giulio Cesare che venne però tenuto fuori dallo stesso C. e non ebbe conseguenze.[37] Venuto a conoscenza del pericolo che la Repubblica correva grazie alla soffiata di Fulvia, amante del congiurato Quinto Curio,[38] C. fece promulgare dal Senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano, come era previsto in situazioni di particolare gravità, poteri speciali ai consoli.[39][40] Sfuggito poi a un attentato da parte dei congiurati,[41] C. convocò il Senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una violenta accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima Catilinaria[42][43], che si apre con il celebre incipit  (LA) «Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?»  (IT) «Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?»  (Marco Tullio C., Catilinarie I,1)  Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida della congiura ad alcuni uomini di fiducia, Lentulo Sura e Cetego.[44][45]  Grazie alla collaborazione di una delegazione di ambasciatori inviati a Roma dai Galli Allobrogi, C. poté però trascinare anche Lentulo e Cetego davanti al Senato: gli ambasciatori, incontratisi con i congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi benefici se avessero appoggiato Catilina, furono arrestati fittiziamente e i documenti caddero nelle mani di C.. Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri davanti al Senato, ma nel decidere quale pena dovesse essere applicata, si scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la pena capitale, Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con il confino e la confisca dei beni. Il discorso di Cesare provocò scalpore, e avrebbe probabilmente convinto i senatori se Marco Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un altrettanto acceso discorso in favore della pena di morte. I congiurati furono quindi giustiziati, e C. annunziò la loro morte al popolo con la formula:  (LA) «Vixerunt»  (IT) «Vissero»  (Marco Tullio C.)  poiché era considerato di cattivo auspicio pronunciare la parola "morte" (ed espressioni di significato affine come "sono morti") nel foro. Catilina fu poi sconfitto, nel gennaio 62, in battaglia assieme al suo esercito.  C., che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la salvezza dello Stato (si ricordi il famoso verso di C. sul suo consolato: Cedant arma togae, trad: "che le armi lascino il posto alla toga [del magistrato]"), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l'appellativo di pater patriae. Nonostante ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum (ovvero l'appello al popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena detentiva) gli sarebbe costata cara soltanto pochi anni dopo.  Durante la guerra civile Dal primo triumvirato alle Idi di Marzo  Gaio Giulio Cesare (Musei Vaticani) A seguito del riemergere dei contrasti tra senatori e populares, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni dell'oligarchia senatoria, C. fu messo da parte. L'ultima possibilità di rientrare nel gioco politico gli fu offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla conclusione dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a C. di appoggiare la legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente. C., tuttavia, rifiutò non solo per non apparire un traditore dell'aristocrazia, ma anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di cui gli ottimati si proclamavano difensori.[46]  Dopo questo rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, C. si tenne fuori dalla politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico di C. per un precedente processo per sacrilegio,[47] fece approvare una legge con valore retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Si trattava, in realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare (che per l'appunto prima di partire per la Gallia attese che C. fosse fuggito da Roma) che, attraverso il suo alleato Clodio, eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari più tenaci, che avrebbero potuto osteggiarlo durante la sua ascesa al potere. C. fu dunque processato per la sua condotta durante il processo ai Catilinari Lentulo e Cetego[48] e costretto all'esilio. Lasciò Roma la notte tra il 19 e il 20 marzo di quell'anno e si recò a Vibona, sperando di portarsi in Sicilia, ma il pretore Virgilio - benché suo vecchio amico - non glielo consentì: in effetti l'isola distava da Roma meno delle 500 miglia prescritte dal bando e pertanto C. optò per la città di Brindisi, dove soggiornò tredici giorni negli orti di Lenio Flacco prima di salpare per Durazzo. In più occasioni nei suoi scritti l'oratore loda l'ospitalità e l'amicizia dei brindisini e della famiglia di Lenio Flacco. Nei mesi dell'esilio C. non si diede pace, implorando le sue conoscenze perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece approvare anche una serie di altre leggi che prevedevano che C. non si potesse neppure avvicinare al confine dell'Italia, e che le sue proprietà venissero confiscate[49] In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta, e una sorte simile toccò poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum[50][51]. Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro: C. poté dunque rientrare in Italia e, proveniente da Durazzo, giunse nuovamente a Brindisi - come narra lui stesso - il 5 agosto: nel porto oltre ai suoi familiari e la figlia Tullia che festeggiava il compleanno, c'era anche Lenio Flacco; le accoglienze tributate al retore furono raddoppiate dal fatto che nella città quel giorno ricorreva anche l'anniversario della deduzione a colonia.  Tornato a Roma riprese la sua lotta contro il tribuno della plebe[52][53]. Simpatizzante degli optimates per via anche della sua personale amicizia con Milone, uno dei capi della fazione, tenne tre orazioni in difesa di tre optimates. Nel 56 a.C. C. pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui allargava il suo precedente ideale politico: l'alleanza tra cavalieri e senatori a suo avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione politica. Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares: tale proposta prende il nome di consensus omnium bonorum. Sempre lo stesso anno tenne l’orazione Pro Caelio con cui C. si trova a difendere Marco Celio Rufo dall’accusa di tentato avvelenamento della sua amante, Clodia (sorella del tribuno della plebe Clodio Pulcro e identificata dagli studiosi come la Lesbia di Catullo). Nonostante la donna venisse dipinta come colei che per prima aveva tentato di uccidere l’amante in quanto avversario politico del fratello le accuse erano inconsistenti e C. spiegò il gesto compiuto da Marco Celio Rufo come un errore di gioventù. Nel 55 a.C. scrive In Pisonem, orazione contro il governatore di Macedonia Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Cesare. Patrizi e plebe si scontravano con l'uso di bande armate, e in uno di questi scontri, più precisamente sulla via Appia, Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise il tribuno Clodio.[54][55] Al processo per omicidio, tenutosi nel 52 a.C., C. difese Milone improntando la sua orazione sulla differenza tra tirannicidio e omicidio; in questo caso sarebbe stato tirannicidio e per tanto giustificabile. Ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con la giusta forza per il clamore della folla e per il timore che gli incutevano i partigiani di Clodio nel foro, Milone venne condannato all'esilio a Marsiglia (una versione della Pro Milone venne pubblicata solo successivamente, dando modo di verificare come fosse un'orazione tra le più abili e sottili sul piano giuridico).   Il mondo romano allo scoppio della guerra civile (1 gennaio 49 a.C.). Sono inoltre evidenziate le legioni distribuite per provincia Dopo essere stato nominato augure nel 53 a.C. al posto di Crasso,[56] nel 51 a.C. come proconsole si recò in Cilicia,[56] proprio mentre i rapporti tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da Roma, i pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia della guerra civile. Tornato in patria, non cessò di invitare le parti alla moderazione ed alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a causa del fanatismo che spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare. Quando Cesare varcò il Rubicone, C. cercò di accattivarsene il favore, ma poi decise ugualmente di lasciare l'Italia per unirsi a Pompeo.[57][58] Sbarcò, dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i Pompeiani, si accorse di quanto le speranze che egli riponeva in loro quali salvatori della repubblica fossero infondate: ognuno di loro era lì non in difesa degli ideali, ma soltanto per tentare di trarre profitto dalla guerra. Dopo la grande vittoria di Cesare nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., C. decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47 a.C.[59]  C. rivelava nelle sue opere ed in lettere ad amici come Cornelio Nepote, riguardo alla personalità di Cesare:  «Non vedo a chi Cesare debba cedere il passo. Ha un modo di esporre elegante, brillante ed anche, in un certo modo si pronuncia in modo elegante e splendido... Chi gli vorresti anteporre, anche tra gli oratori di professione? Chi è più acuto o ricco nei concetti? Chi più ornato o elegante nell'esposizione?»  (Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 55.)  La speranza di C. di collaborare al governo di Cesare venne troncata dalla piega assolutistica e monarchica presa dal potere[60]. L'oratore si ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere filosofico ed oratorio. A questo si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia Tullia, seguita dalla separazione dalla seconda moglie Publilia, una giovinetta.  Quando Cesare fu ucciso, il 15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura ordita da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, per Roma, e per lo stesso C., si avviò una nuova fase politica, che avrebbe avuto termine solo con l'avvento dell'impero.  L'opposizione ad Antonio e la morte C. non fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei Liberatores, di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando una grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano, additò C. definendolo l'uomo che avrebbe ristabilito l'ordine nella repubblica.[61]  Scrisse a Lucio Minucio Basilo, uno dei cesaricidi, una lettera per congratularsi dell'assassinio di Cesare:  (LA) «Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid agas quidque agatur, certior fieri volo.»  (IT) «Con te mi congratulo, per me sono contento; ti sono vicino, ho cura delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e di farmi sapere che cosa fai e che cosa succede.»  (C., Ad Familiares, vi, 15)  La data della missiva non è conosciuta, ma viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla congiura.[62] L'espressione «quid agas quidque agatur» la indicherebbe[62] come scritta prima che C. si recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano trovato rifugio dopo l'assassinio, asserragliati nel tempio capitolino e protetti dai gladiatori di Bruto.[63]  C., infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori rappresentanti della fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma C. fu promotore di un accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti i provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua dittatura, garantiva l'impunità a Bruto e Cassio.[64] Poco dopo, i due, assieme agli altri congiurati, fuggirono verso la penisola ellenica.[65]   Statua di Augusto comunemente detta Augusto di Prima Porta, custodita ai Musei Vaticani. Tra C. ed Antonio, comunque, i rapporti non erano dei migliori, e i due, d'altra parte, si trovavano all'esatto opposto in ambito politico: C. era il difensore degli interessi dell'oligarchia senatoriale, convinto sostenitore della repubblica monopolizzata dai ricchi, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di Cesare ed assumere gradualmente un potere monocratico.[66] Intanto, un'altra figura si andava affermando dal nulla nel panorama politico di Roma, la figura del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di Cesare e suo erede designato nel testamento.[67][68] Ottaviano decise di adottare una politica filosenatoriale, senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di Cesare.  C., allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dèi per ristabilire l'ordine.[69] C. sperava, infatti, nell'affermazione di un giovane princeps in re publica che, assistito da un membro del senato di grande esperienza, come lo stesso C., riportasse la pace e riformasse la repubblica.[70] Iniziò, inoltre, tra il 44 a.C. e il 43 a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, note con il nome di Filippiche in quanto richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio, nella volontà di condurre una nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio, decise di marciare contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo assediò nella città di Modena. Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso Ottaviano, che lo sconfissero.[71]  Tornato a Roma, Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono della politica cesariana, che avrebbe tenuto in vita l'agonizzante repubblica, e l'allontanamento dal Senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente.[72] Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato, un accordo politico secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto compiere una profonda opera di riforma della repubblica.[73] C. fu costretto ad accettare che sarebbe ora stato impossibile attuare il suo piano di un princeps, ma non per questo ritirò le severe accuse rivolte ad Antonio nelle Filippiche. Quest'ultimo, allora, nonostante la fievole opposizione di Ottaviano, decise di inserire C. nelle liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.[74]  C. lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da un liberto di nome Filologo,[75] poterono trovarlo fin troppo facilmente. C., accortosi dell'arrivo dei suoi assassini, non tentò di difendersi, ma si rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Tale località prese il nome di Vindicio (dal latino "vindicta", vendetta), attuale frazione di Formia.[76] Una volta ucciso, per ordine di Antonio, gli furono tagliate anche le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche,[77] che furono esposte in senato insieme alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli oppositori del triumvirato.[78][79]  (LA) «Prominenti ex lectica praebentique immotam cervicem caput praecisum est. Nec satis stolidae crudelitati militum fuit: manus quoque scripsisse aliquid in Antonium exprobrantes praeciderunt.»  (IT) «Sporgendosi dalla lettiga ed offrendo il collo senza tremare, gli fu recisa la testa. E ciò non bastò alla sciocca crudeltà dei soldati: essi gli tagliarono anche le mani, rimproverandole di aver scritto qualcosa contro Antonio.»  (Livio - Ab Urbe condita libri, CXX - cit. in Seneca il Vecchio, Suasoriae, 6,17)  (GRC) «Αὐτὸς δ' ὥσπερ εἰώθει τῇ ἀριστερᾷ χειρὶ τῶν γενείων ἁπτόμενος, ἀτενὲς ἐνεώρα τοῖς σφαγεῦσιν, αὐχμοῦ καὶ κόμης ἀνάπλεως καὶ συντετηκὼς ὑπὸ φροντίδων τὸ πρόσωπον, ὥστε τοὺς πλείστους ἐγκαλύψασθαι τοῦ Ἑρεννίου σφάζοντος αὐτόν. Ἐσφάγη δὲ τὸν τράχηλον ἐκ τοῦ φορείου προτείνας, ἔτος ἐκεῖνο γεγονὼς ἑξηκοστὸν καὶ τέταρτον. Τὴν δὲ κεφαλὴν ἀπέκοψαν αὐτοῦ καὶ τὰς χεῖρας, Ἀντωνίου κελεύσαντος, αἷς τοὺς Φιλιππικοὺς ἔγραψεν. Αὐτός τε γὰρ ὁ Κικέρων τοὺς κατ' Ἀντωνίου λόγους Φιλιππικοὺς ἐπέγραψε, καὶ μέχρι νῦν Φιλιππικοὶ καλοῦνται.»  (IT) «Ed egli, come era solito, toccandosi le guance con la mano sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari, ricoperto dal sudore e dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni, tanto che i più si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. E fu ucciso mentre sporgeva il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il suo sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa e le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche. C. stesso infatti intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio e tuttora sono chiamate Filippiche.»  (Plutarco, Vite parallele, Vita di C., 48, 4-6)  Una volta sconfitto Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di C., come collega per il consolato, e proprio Marco comminò le pene ad Antonio, facendone abbattere le statue e decretando che nessun membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere chiamato Marco.[80]  Plutarco racconta che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un nipote che leggeva le opere di C., gli prese il libro, e ne lesse una parte. Una volta che glielo ebbe restituito, disse: "Era un saggio, ragazzo mio, un saggio, e amava la patria".[81]  Vita privata Matrimoni C. probabilmente sposò Terenzia all'età di 29 anni, nel 77 a.C. Il matrimonio - di convenienza - fu piuttosto armonioso per 30 anni. Terenzia era di famiglia patrizia ed era una ricca ereditiera, entrambi fattori particolarmente importanti per il giovane ambizioso che era C.. Da Terenzia C. avrà due figli: Marco Tullio C., che come il padre diventerà un politico a Roma, e Tullia o «la dolce Tulliola», come appunto viene descritta da C. in una delle sue innumerevoli lettere; che sposò prima con un Pisone Frugi e poi in seconde nozze con Publio Cornelio Dolabella dal quale divorzierà perché il padre sosteneva la fazione degli ottimati mentre Dolabella era luogotenente di Cesare, infine morirà molto giovane all'età di 34 anni. Una delle sorelle o cugina di Terenzia era stata scelta come vergine Vestale, il che costituiva un grandissimo onore. Terenzia era una donna dal carattere forte e prese parte alla carriera politica di suo marito più di quanto permise a lui di prenderne negli affari di famiglia. Non condivise, tuttavia, gli interessi intellettuali di C. né il suo agnosticismo. C. lamenta a Terenzia in una lettera scritta durante il suo esilio in Grecia che «...né gli dei che Lei ha adorato con tale devozione né gli uomini che io ho servito hanno mostrato il più piccolo segno di gratitudine nei nostri confronti».[82] Terenzia era una donna devota e probabilmente piuttosto materialista.  Alla fine del 47 a.C. o all'inizio del 46 a.C. C. ripudiò Terenzia.[83] I motivi del distacco sono ignoti, ma C. accusò la moglie di averlo trascurato durante la guerra, di non essere neppure venuta ad accoglierlo al suo ritorno e di avergli restituito la casa gravata di forti debiti.[84]  Verso la fine del 46 a.C. C. sposò Publilia, giovane e ricca fanciulla orfana di padre, che viveva sola con la madre.[85] Secondo Terenzia (che accusava Publilia di essere la causa del suo divorzio), la giovinezza della fanciulla avrebbe causato l'innamoramento di C., mentre secondo Tirone, liberto dell'oratore, dietro la decisione ci sarebbe stato il desiderio di usufruire dei beni della giovane[86]; C. peraltro era già stato nominato tutore di Publilia, e ne amministrava le ricchezze.[87] Poco dopo il matrimonio, Tullia, figlia di C., morì di parto.[88] Egli rimase fortemente colpito e nel luglio del 45 a.C., mentre gli amici gli recavano conforto, decise di ripudiare Publilia colpevole di essersi rallegrata della morte di Tullia, dopo soli sette mesi di matrimonio.[89]  Il divorzio dalla storica consorte Terenzia e le seconde nozze con Publilia, destinate anch'esse alla rottura, resero C. oggetto di feroci critiche, come quelle rivoltegli da Antonio nelle repliche alle Filippiche.  Entrambe le mogli di C. morirono in tardissima età, cosa insolita per quei tempi (Terenzia addirittura centenaria; in quanto a Publilia, era ancora viva durante l'impero di Tiberio, avendo sposato in seconde nozze il console Gaio Vibio Rufo, secondo quanto afferma Cassio Dione).  Prole È universalmente noto l'amore di C. per la figlia Tullia, sebbene il matrimonio con Terenzia, da cui lei era nata, fosse stato un matrimonio di convenienza. Tullia era l'unica persona che C. non criticò mai. La descrive così in una lettera al fratello Quinto: «Com'è affettuosa, com'è modesta, com'è intelligente! Quando lei si ammalò improvvisamente nel febbraio del 45 a.C. e morì, dopo che era sembrato che potesse guarire, dando alla luce un figlio, C. scrisse ad Attico: «Ho perso l'unica cosa che mi legava alla vita».[17]  Attico invitò C. ad andarlo a trovare nelle prime settimane dopo la morte di Tullia per poterlo consolare. Nella grande biblioteca di Attico, C. lesse tutto quello che i filosofi greci avevano scritto circa il superamento del dolore, «...ma il mio dolore sconfigge ogni consolazione».[90] Cesare e Bruto gli spedirono lettere di condoglianze, e così fece anche il suo vecchio amico e collega, l'avvocato Servio Sulpicio Rufo. Questi spedì una lettera che in seguito è stata molto apprezzata, piena di riflessioni sulla fugacità di tutte le cose.  Dopo un po', C. decise di abbandonare ogni compagnia per ritirarsi in solitudine nella sua villa di Astura, appena acquistata. Si trovava in un bosco solitario, ma non lontano da Napoli, e per molti mesi non fece altro che camminare per il bosco, piangendo. Scrisse ad Attico: «Io mi immergo là nel bosco selvatico e fitto la mattina presto, e vi soggiorno fino a sera».[17] Più tardi decise di scrivere un libro per insegnare a se stesso come superare il dolore; questo libro, intitolato Consolatio, fu estremamente apprezzato in antichità (in particolare da Sant'Agostino), ma sfortunatamente è andato perduto, e ne restano solo pochi frammenti. In seguito C. progettò anche di far erigere un piccolo tempio alla memoria di Tullia, la "sua incomparabile" figlia, ma poi non portò a termine il progetto, per ragioni ignote.  C. sperava che il figlio Marco scegliesse di diventare filosofo come lui, ma era un'aspettativa priva di basi: Marco, per conto suo, desiderava intraprendere la carriera militare, e nel 49 a.C. si unì a Pompeo ed al suo esercito, e partì con loro per la penisola ellenica. Quando nel 48 a.C., dopo la disastrosa sconfitta dei pompeiani a Farsalo, Marco si presentò a Cesare, questi lo perdonò. C., allora, non perse tempo, e lo mandò ad Atene a formarsi nella scuola del filosofo peripatetico Cratippo, ma Marco, ben distante dall'occhio vigile del padre, passò il tempo a mangiare, bere e divertirsi, seguendo le lezioni del retore Gorgia.  Dopo l'assassinio del padre, Marco si unì all'esercito dei Liberatores, guidati da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, ma dopo la sconfitta nella battaglia di Filippi, nel 42 a.C., fu perdonato da Ottaviano. Questi, infatti, sentendosi in colpa per aver permesso che C. fosse inserito nelle liste di proscrizione del secondo triumvirato, decise di favorire la carriera del giovane Marco. Quest'ultimo divenne, dunque, augure, e fu poi nominato prima console nel 30 a.C. assieme allo stesso Ottaviano, e poi proconsole in Siria e nella provincia d'Asia.  L'umorismo ciceroniano [91]  Vedendo un busto marmoreo che raffigurava suo fratello Quinto, uomo di bassa statura, C. osservò: "Che strano! Mio fratello è più grande quando è mezzo che quando è intero" Anche il marito della figlia non era alto, e vedendolo indossare l’armatura e le armi di legionario C. chiese ai presenti: "Chi ha legato mio genero alla spada?". Un certo Vibio Curione aveva il vezzo di abbassarsi l'età e C.: "Ma allora quando andavamo a scuola insieme non eri ancora nato?". Saputo che Fabia Dolabella asseriva di avere trent’anni, C. assentì: "È vero! Sono vent’anni che glielo sento dire." C. non aveva nobili natali per cui il patrizio Metello Nepote lo derideva, durante le udienze in tribunale, chiedendogli chi era suo padre. Ma C.: "Per quanto ti riguarda, invece, tua madre ti ha reso difficile rispondere a questa domanda!" Ad un avversario disonesto che lo attaccò in Senato domandandogli: "Perché abbai tanto?", C. rispose: "Perché vedo un ladro!" C. politico  Lo stesso argomento in dettaglio: Pensiero politico di C..  Busto di C. (LA) «Potestas in populo, auctoritas in senatu»  (IT) «Il potere è del popolo, l'autorità del senato»  (Marco Tullio C., De Legibus,3,12)  Come uomo politico, C. è sempre stato bersaglio della critica di antichi e moderni. Le accuse mossegli vanno dall'incoerenza alla vanità, alla poca lungimiranza. Ma la sua conduzione oggettivamente può essere giustificata se la si contestualizza nella politica del tempo, fatta in un mobile gioco di accordi e conflitti tra gruppi di potere e famiglie nobili, che sfruttavano le etichette di partito per mire personali.  «C. era attaccato al governo repubblicano per tradizione e per ricordo, rammentando le grandi cose che esso aveva fatto e a cui egli, come molte altre persone, doveva le sue dignità, il suo grado sociale e il nome. Non poteva dunque pensare a rassegnarsi così facilmente alla sua caduta, anche se la libertà effettiva non esisteva più a Roma, e non ne restava che l'ombra. Non bisogna biasimare coloro, come C., che vi s'attaccano e fanno sforzi disperati per non lasciarla perire, poiché quest'ombra, questa apparenza li consola della libertà perduta e infonde loro qualche speranza di riconquistarla. Questo era ciò che pensavano i Romani che, come C., dopo matura riflessione, senza entusiasmo, senza passione, e senza speranza, andarono a raggiungere Pompeo»; questo è ciò che Lucano fa dire a Catone in quei versi ammirevoli che esprimono i sentimenti di tutti coloro che, senza nascondere la triste condizione della Repubblica, si ostinarono a difenderla fino alla fine: «Come un padre, che ha or ora perduto il figlio, prova una sorta di piacere a dirigere i riti funebri, accende con le sue mani il rogo, non lo lascia che a malincuore e il più tardi possibile, così, Roma, io non t'abbandonerò prima di averti tenuta morta tra le mie braccia. Io seguirò fino alla fine il tuo solo nome, o libertà, anche quando non sarai più che un'ombra vana».[92]  Preoccupazione costante di C. fu la difesa dello status quo e dei diritti della grande proprietà latifondista, desideroso soprattutto di acquisire presso i notabili romani il credito necessario per entrare a far parte della classe dirigente. Egli si adoperò quindi per la conservazione del potere e dei privilegi di cui godeva la classe degli optimates, secondo una formula che, in sostanza, significava sicurezza e tranquillità (otium) per tutti i possidenti, e che implicava che il potere (dignitas) rimanesse nelle mani di un'oligarchia. Il suo preteso desiderio che in questa élite si entrasse per "merito" e non per nascita, quand'anche non lo si voglia meramente intendere come un sottinteso riferimento alle sue vicende personali, rimase comunque un'astrazione teorica, un'utopia, anche per l'assenza, allora come oggi, di una vera modifica nel tessuto politico e sociale della Repubblica.[93]  C. fu, inoltre, sostenitore dell'ideale politico della concordia ordinum (intesa tra il ceto equestre e senatorio divenuta poi concordia omnium bonorum, ovvero concordia di tutti i cittadini onesti), e la esaltò, in particolare, nella quarta orazione contro Catilina: allora, per la prima volta nella storia tardo repubblicana, i senatori, i cavalieri ed il popolo si trovarono d'accordo sulle decisioni da prendere, decisioni dalle quali dipendeva la salvezza dello stato. C. auspicava che la concordia potesse durare per sempre, pur capendo che essa era nata, in quel particolare frangente, solo per la pressione emotiva: d'altronde, la concordia non faceva leva su un particolare progetto politico, ma solamente su motivi di carattere sentimentale ed economico.[94]  C. filosofo Per le opere, vedi l'apposita sezione  La filosofia prima di C.  Ritratto di C. C. fu il primo degli autori romani a comporre opere filosofiche in latino: ne andava, infatti, molto fiero, ma si scusava, allo stesso tempo, di aver dedicato alla filosofia così tanto tempo. Alcuni, infatti, ritenevano che fosse disdicevole per un uomo romano dedicarsi alla filosofia, altri pensavano che comunque non bisognasse dedicarle più di un certo tempo. Altri ancora, infine, erano convinti sostenitori della totale superiorità della filosofia greca e consideravano per l'appunto solo le opere greche degne di essere lette.[95]  C. era però convinto che, se i Romani si fossero dedicati seriamente alla filosofia, avrebbero allora raggiunto le stesse vette dei Greci, che già avevano eguagliato nella retorica. Ma il gusto per le speculazioni filosofiche era totalmente estraneo alla società romana: il vir era, d'altronde, un uomo d'azione. I Romani conobbero la filosofia grazie al contatto con i Greci, ma consideravano inutile, se non addirittura deleteria, una vita spesa alla continua ricerca di un sapere che non portava nessuna gloria alla patria né alcuna ricchezza. Il Senato arrivò, infatti, addirittura ad espellere dall'Urbe i filosofi ateniesi che vi erano giunti in visita nel 155 a.C., Carneade, Diogene e Critolao.[95]  La stessa nobilitas senatoriale non voleva, poi, che il popolo e i giovani si interessassero alla filosofia (che avrebbe prodotto in loro un certo amore per l'otium, allontanandoli dalla vita reale), ma furono costretti ad ammettere che nessun uomo degno di tale nome poteva restare estraneo a questa scienza. I senatori decisero di richiamare a Roma i filosofi che avevano scacciato per prendere da loro delle vere e proprie lezioni di filosofia, vietando, comunque, loro di insegnare la filosofia pubblicamente. Persino Marco Porcio Catone, fiero oppositore della penetrazione della cultura greco-ellenistica a Roma,[96] studiò la filosofia greca, come tutti gli esponenti dell'oligarchia senatoriale del tempo.[95]  A riscuotere un istantaneo successo a Roma fu lo stoicismo, ma presto ad esso si unirono le altre dottrine, i cui esponenti arrivarono "in massa" a Roma nel corso del I secolo a.C. In poco tempo, dunque, la situazione aveva subito un totale ribaltamento e non esisteva più uomo estraneo alla filosofia.[95]  Formazione filosofica di C. C. non si comportò diversamente dai suoi contemporanei, ma, almeno in gioventù, studiò la filosofia convinto che si trattasse esclusivamente di un valido supporto per la retorica: iniziò a comporre opere filosofiche, infatti, soltanto in tarda età, quando solo la composizione, appunto, poteva essere l'impiego del suo tempo libero. Nella filosofia C. cercò e seppe trovare la consolazione di cui aveva bisogno, il rimedio somministratogli dall'antica saggezza.[95]  Da giovane, C. studiò d'impulso l'epicureismo, dottrina che aveva avuto numerosi discepoli anche a Roma, tra cui Amafinio, Cazio e Lucrezio. In principio, C. fu, infatti, allievo di filosofi epicurei, quali Fedro e Zenone. Più tardi, sotto l'influsso di altri maestri, abbracciò, almeno in parte, lo stoicismo, ma non ne fu mai un convinto sostenitore: come altri al suo tempo, elaborò una personale fusione tra le due filosofie, in modo eclettico.[95] Mostrò, tuttavia, forti preferenze per la dottrina accademica insegnatagli da Filone: la teoria del probabilismo e del verosimile si adattavano perfettamente ad una personalità quale quella di C., a cui si addiceva perfettamente anche l'elevazione morale dello stoicismo. Questa particolare mescolanza fra più filosofie fu la vera filosofia di C..[95]  Opere  Marci Tullii Ciceronis Opera Omnia, 1566 Scritti filosofici  Frontespizio di una stampa del De officiis; Christopher Froschouer, 1560 Le opere filosofiche di C. costituiscono un'importante fonte su teorie filosofiche ellenistiche poco documentate direttamente. In particolare gli Academica sono una testimonianza essenziale sullo scetticismo della media Accademia. In molti casi C. traduce per la prima volta in latino termini filosofici greci.[97] Ad esempio i termini probabile e probabilità, usati con leggere varianti in tutte le lingue occidentali per indicare concetti filosofici e scientifici, traggono il loro significato attuale dalla scelta di C. di tradurre con il latino probabilis il termine πιθανὸς (pithanòs), nel senso in cui esso è usato da Carneade.[98]  Il De re publica e il De legibus, e la traduzione del Timeo e del Protagora contribuirono a diffondere a Roma il Platonismo.[99]  Panoramica alfabetica di tutte le opere filosofiche Academica priora (prima stesura dei libri sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica). Catulus (Dialogo), la prima parte dell'Academica priora, perduto. Lucullus (Dialogo), la seconda parte dell'Academica priora, conservato. Academici libri oppure Academica posteriora (versione tarda del trattato sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica, in quattro libri). Cato Maior de senectute ("Catone il censore, sull'anzianità"). C. immagina Catone il Censore all'età di 84 anni ed esprime la sua nostalgia del buon tempo antico, quando a Roma l'uomo politico eminente poteva mantenere prestigio e autorevolezza fino alla più tarda età. Consolatio: una consolazione a sé stesso scritta alla morte dell'amata figlia Tullia, in cui C. esorta a considerare la caducità di ogni cosa e l'importanza della filosofia. L'opera è andata perduta. De Divinatione ("Sulle profezie"): Quest'opera, probabilmente la più originale tra tutte quelle composte da C., mette in luce un'opinione molto esplicita sulla fiducia che bisogna riporre nell'arte aruspicina. Sebbene discuta anche delle opinioni stoiche al riguardo, si nota che C. tratta gli argomenti con la dimestichezza di chi ha potuto osservare da vicino il funzionamento della religione romana (nelle vesti di augure), e può trarne un lucido giudizio, che non può non essere negativo. Da quest'opera e dal terzo libro del De natura deorum i primi cristiani attinsero argomenti per combattere il politeismo. De finibus bonorum et malorum ("Sui confini del bene e del male"). È un dialogo in cinque libri che si pone il problema di cosa sia il sommo bene, tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea che, rispettivamente, lo classificavano come virtù e piacere. De Fato ("Sul Fato"), giuntoci non integralmente. Viene argomentata la dottrina provvidenzialistica degli stoici. De natura deorum ("Sull'essenza degli dei"): Il De natura deorum fu scritto nel 44 a.C., subito prima della morte di Cesare, ed inviato a Bruto. C. orchestra una conversazione tra un epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che espongono e discutono le opinioni dei vecchi filosofi sugli dei e sulla Provvidenza. L'ateismo dissimulato di Epicuro viene confutato da Cotta, che sembra rappresentare lo stesso C.. Cotta prende, poi, la parola, per confutare anche il pensiero stoico riguardo alla Provvidenza. Se C. respingeva con certezza il parere degli epicurei al riguardo, non possiamo, invece, sapere con altrettanta certezza cosa pensasse della religiosità dello stoicismo: le parole di Cotta, pervenuteci, tra l'altro, solo in parte, non contengono nessuna riflessione dello stesso C.. Si è però ipotizzato che C. abbracciasse almeno in parte il probabilismo accademico, sebbene suoi ammiratori fossero invece convinti che si fosse allontanato del tutto dallo scetticismo. Comunque, è importante il poter constatare l'estrema discrezione dell'atteggiamento di C.: egli è persuaso che il culto nell'esistenza degli dei e nella loro azione sul mondo debba esercitare una profonda influenza sulla vita, e che è, dunque, di un'importanza fondamentale per il governo di uno stato. Esso deve, perciò, essere mantenuto vivo nel popolo. Sono il politico e l'augure che parlano. C. non trova gli argomenti degli stoici molto convincenti, e li confuta per mezzo di Cotta. Infine, si dice incline a credere che gli dei esistano e che governino il mondo: lo crede, perché è un'opinione comune a tutti i popoli. Questo" accordo" universale equivale per lui ad una legge della natura (consensus omnium populorum lex naturae putanda est). In quanto alla pluralità degli dei, sebbene non si esprima categoricamente su questo punto, sembra che non ci creda, o per lo meno che, come gli stoici, consideri gli dei come nient'altro, per così dire, che le emanazioni del Dio unico. Concepisce poi questo Dio unico come uno spirito libero e privo di qualsiasi elemento mortale, all'origine di tutto. Non risparmia, invece, i racconti mitici del politeismo greco-romano; schernisce e condanna le leggende comuni a tutti i popoli. Era soprattutto questa parte dell'opera, il terzo libro, ad affascinare i filosofi del XVIII secolo: non era difficile mettere in luce gli aspetti ridicoli della religione popolare, e si può dire che anche al tempo di C. ciò era diventato un luogo comune filosofico. Gli uni, respingendo con disprezzo queste favole, che giudicavano grossolane, respingevano anche ogni credenza; gli altri adottavano la dottrina stoica. A C., invece, l'esistenza degli dei appariva come necessaria: tutti i popoli credevano, e di conseguenza credeva anche lui. Pressappoco nello stesso modo, C. analizza, poi, il tema dell'immortalità dell'anima, prendendo in prestito molte delle opinioni espresse a questo proposito da Platone.[100] De officiis ("Sui doveri"): Il De officis, che - pare - fu scritto dopo la morte di Cesare, nel 44 a.C., è l'ultima opera filosofica di C., che la dedicò al figlio Marco, che si trovava ad Atene. L'opera, ispirata ad un lavoro dello stoico Panezio, è divisa in tre libri: il primo tratta di ciò che è onesto, il secondo di ciò che utile, ed il terzo traccia una comparazione tra utile ed onesto. Nell'opera, C. non fornisce profonde spiegazioni con rigore scientifico, ma enuncia una serie di ottimi precetti, indispensabili per fare di un uomo un buon cittadino romano, ligio ai suoi doveri e dunque in grado di vivere nell'ottica della virtus. Hortensius: sorta di protrettico ovvero esortazione alla filosofia, modellata su un'analoga opera perduta di Aristotele. Come testimoniato dal proemio al II libro del De divinatione, in essa appariva Quinto Ortensio Ortalo, il quale svalutava l'attività filosofica; contro questa tesi si pronunciava C.. L'opera fu assai apprezzata nell'antichità, specie da Agostino; essa è andata perduta e gli unici frammenti pervenutici provengono da citazioni che ne fa appunto Agostino. Laelius seu de amicitia ("Lelio" o "sull'amicizia"). Paradoxa Stoicorum (Teoremi di spiegazione dei paradossi etici della scuola degli stoici): Si tratta di esercitazioni di casistica oratoria, spesso giudicate di basso livello dalla critica. Tusculanae disputationes ("Conversazioni a Tusculum"): Le Tusculanae disputationes furono composte nel 45 a.C., sotto la dittatura di Cesare, quando Catone Uticense era già stato costretto al suicidio e la repubblica aveva, in fin dei conti, cessato di esistere. Il dittatore si era dimostrato clemente, ma aveva dato a intendere agli intellettuali che non avrebbe accettato una loro "insubordinazione": a C., che aveva scritto un libro in memoria di Catone, Cesare aveva risposto con l'Anticato ("Anticatone"), in cui criticava l'illustre morto, mostrando quale sarebbe stato il suo atteggiamento verso gli oppositori. Per C. la situazione era davvero complicata: sua figlia Tullia era appena morta, e la vita politica aveva perso ogni senso. L'oratore decise dunque di ritirarsi nella villa di Tusculum, particolarmente amata da Tullia, dove si dedicò allo studio della filosofia. Gli argomenti delle disputationes rispecchiano dunque il suo stato d'animo: cos'è la morte? Cos'è il dolore? C'è un modo per alleviare le afflizioni dell'animo? Cosa sono le passioni? Come si deve confrontare il saggio nei confronti di questi elementi turbatori della propria imperturbabilità? Infine: cos'è la virtù? Basta a rendere felice una vita? Tra le ultime riflessioni ve n'è anche una a proposito del suicidio, inteso come mezzo per eludere la morte. C. tratta questi temi con il suo solito stile eloquente, ma vi si intravede un forte senso d'impotenza: è evidente che il suo pensiero è sempre rivolto, nonostante tutto, a Roma ed alla politica. De re publica ("Sulla repubblica"), sul modello della Repubblica di Platone. De legibus ("Sulle leggi"): Il De legibus fu composto probabilmente nel 52 a.C., dopo che C. era stato nominato augure. Si tratta di uno scritto che può considerarsi complementare del De re publica, del quale ricalca pregi e difetti: non è un lavoro puramente filosofico, né un semplice trattato di giurisprudenza, ma piuttosto un compromesso tra le due scienze. Nel primo libro, ispirato all'omonima opera di Platone e al trattato Sulle leggi di Crisippo, C. dimostra con una grande elevazione di pensiero e di stile l'esistenza di una legge universale, eterna, immutabile, conforme alla ragione divina, che si confonde con lei. Proprio la ragione divina, infatti, costituisce il diritto naturale, che esisteva prima di tutti gli ordinamenti. Dopo quest'avvio, C. passa all'analisi delle leggi in rapporto alle varie forme di governo, così come farà, molto tempo dopo, Montesquieu. Non avendo a disposizione altra repubblica all'infuori di quella romana, C. non immagina leggi diverse da quelle romane: esse sono le leggi perfette. Terminata l'analisi, C. si limita, nel secondo libro, ad enunciare le poche che possono essere considerate imperfette, soprattutto tra quelle che regolano il culto. L'attenta analisi delle consuetudini religiose appare, alla luce della data di pubblicazione, come un'attenta manovra di propaganda, con la quale C. appare ai suoi concittadini come uomo ben degno della carica sacerdotale che gli è stata affidata. Nel terzo libro, di cui sono andati perduti alcuni passi, C. analizza la natura e l'organizzazione del potere, il carattere delle diverse funzioni dello stato e l'antagonismo salutare che deve esistere tra le forze che lo costituiscono. Queste domande, di interesse generale così vivo poiché toccavano direttamente il problema della libertà politica, avevano un'importanza considerevole per i contemporanei di C.. Quale doveva essere la parte dell'aristocrazia o del senato, e quale quella del popolo nel governo della repubblica? Non era lontano il tempo in cui Cesare avrebbe dato la risposta definitiva a questo quesito, e tutti coloro che presagivano ciò che sarebbe accaduto tentavano di rafforzare l'autorità della nobilitas e del senato. Nell'opera, il fratello di C., Quinto, è fortemente contrario al tribunato della plebe, carica che ritiene potenzialmente troppo pericolosa: C., pur discostandosi dalle opinioni del fratello, riconosce il pericolo che il tribunato della plebe costituisce per il mantenimento della calma e della pace. Possediamo solamente i primi tre libri del De legibus: ce n'erano probabilmente sei. Il quarto era dedicato all'esame del diritto politico, il quinto al diritto criminale, il sesto al diritto civile. Si trattava di opere particolarmente preziose, perché C. non ha mai trattato altrove gli stessi argomenti. Non dimentichiamo che i trattati De re publica e De legibus furono scritti in un'epoca durante la quale la costituzione romana era ancora in piedi, prima della guerra civile e la fine dell'antica libertà. Questa circostanza spiega il carattere dei due lavori: sono al tempo stesso libri teorici e pratici, ed anche tecnici. Dopo l'avvento di Cesare, l'elemento speculativo dominerà nella filosofia di C., che infatti fuggirà la vita pubblica per ritirarsi nella contemplazione.[101] Orazioni  C. mentre pronuncia un'orazione in Senato. Particolare, Cesare Maccari, 1882-1888, Villa Madama, Roma. (LA) «In principiis dicendi tota mente atque artubus contremisco.»  (IT) «All'inizio di un discorso mi tremano le gambe, le braccia e la mente.»  (Marco Tullio C.)  C. è certamente il più celebre oratore dell'antica Roma. Nel Brutus egli ritiene completato con se stesso (non senza un certo fine autocelebrativo) lo sviluppo dell'arte oratoria latina, e già da Quintiliano la fama di C. quale modello classico dell'oratore è ormai incontrastata. C. ha pubblicato da sé la maggior parte dei suoi discorsi; cinquantotto orazioni (alcune parzialmente lacunose) sono state rinvenute nella versione originale mentre circa cento sono conosciute per il titolo o per alcuni frammenti. I testi si possono dividere tra orazioni pronunciate di fronte al Senato (o al popolo) e tra le arringhe pronunciate in qualità di - utilizzando termini moderni - avvocato difensore o pubblica accusa, nonostante anche questi ultimi abbiano spesso un forte substrato politico come nel celeberrimo caso contro Gaio Verre (unica volta in cui C. compare come accusatore in un processo penale). Il suo successo è dovuto alla sua abilità argomentatoria e stilistica, che si sa adattare perfettamente all'oggetto dell'orazione e al pubblico,[104] soprattutto alla sua tattica astuta, che si adatta di volta in volta al particolare uditorio, appoggiando appropriatamente diverse scuole filosofiche o politiche, al fine di convincere il pubblico contrario e raggiungere il proprio scopo.  Tecniche di memorizzazione Per memorizzare i suoi discorsi C. utilizzava una tecnica associativa che venne chiamata tecnica dei loci o tecnica delle stanze.[105] Egli scomponeva il discorso in parole chiave e parole concetto che gli permettessero di parlare dell'argomento desiderato e associava queste parole, nell'ordine desiderato, alle stanze di una casa o di un palazzo che conosceva bene, in modo creativo e insolito. Durante l'orazione egli immaginava di percorrere le stanze di quel palazzo o di quella casa, e questo faceva sì che le parole concetto del suo discorso gli venissero in mente nella sequenza desiderata. È da questo metodo di memorizzazione che derivano le locuzioni italiane "in primo luogo", "in secondo luogo" e così via.  Panoramica alfabetica di tutte le orazioni De domo sua ad pontifices ("Sulla propria casa, al collegio pontificale", 57 a.C.): arringa pronunciata per uno scopo particolare: durante l'esilio di C. il suo avversario Clodio aveva consacrato una parte della proprietà di C. sul Palatino alla dea Libertas; C. dichiara questa consacrazione invalida per ottenerne la restituzione. È da tale contesto che nasce la locuzione Cicero pro domo sua. De haruspicum responsis ("Sul responso degli aruspici", 56 a.C.): Clodio redige un passo sulla profanazione di alcune reliquie durante una perizia degli aruspici sul terreno di C. sul Palatino e chiede la demolizione di una casa di C. ivi in costruzione. Contro questa ed altre accuse C. si rivolge con un appello al Senato, nel quale spiega, che la maggior parte delle accuse di Clodio si basano su indagini dolosamente carenti. De imperio Cn. Pompei (De lege Manilia) ("Sul comando di Gneo Pompeo (sulla legge Manilia)", 66 a.C.), orazione di carattere politico pronunciata di fronte al popolo in occasione dell'attribuzione, effettuata su proposta del tribuno della plebe Gaio Manilio, a Gneo Pompeo di poteri speciali per la conduzione di una campagna militare contro il re del Ponto Mitridate VI. De lege agraria (Contra Rullum) I–III ("Sulla legge agraria (contro Rullo)", 63 a.C.): orazione pronunciata durante l'anno di consolato, tenuta in Senato (I) e davanti al popolo (II/III); un quarto dell'orazione è stato perduto. De provinciis consularibus ("Sulle province consolari", 56 a.C.), orazione pronunciata in senato riguardo alle province consolari romane. De Sullae bonis ("Sui beni di Silla", 66 a.C.). Divinatio in Caecilium ("Dibattito contro Cecilio", 70 a.C.), dibattito riguardo all'assunzione del ruolo di accusatore nel processo contro Verre. Quinto Cecilio Nigro fu sotto Verre questore in Sicilia e presentò la propria candidatura nel ruolo di accusatore. Per C. egli era infatti invischiato nelle macchinazioni di Verre. In L. Calpurnium Pisonem ("Contro Lucio Calpurnio Pisone", 55 a.C.), orazione d'accusa politica contro Lucio Calpurnio Pisone Cesonino. In Catilinam I–IV ("Contro Catilina I-IV" ovvero "Le Catilinarie", 63 a.C.), orazioni contro Lucio Sergio Catilina: i discorsi del 7 e dell'8 novembre 63 a.C. pronunciati di fronte al Senato (I) e al popolo (II); i discorsi della scoperta e della condanna dei seguaci di Catilina, del 3 dicembre di fronte al popolo (III) e del 5 dicembre di fronte al Senato (IV) In P. Vatinium ("Contro Publio Vatinio", 56 a.C.), orazione accusatoria contro P.Vatinio riguardo all'interrogatorio nel processo contro P.Sestio. In Verrem actio prima ("Prima accusa contro Verre", 70 a.C.), orazione accusatoria nel processo contro Verre, accusato di concussione (crimen pecuniarum repetundarum) In Verrem actio secunda I–V ("Seconda accusa contro Verre I–V", 70 a.C.), questi cinque discorsi non sono mai stati pronunciati a causa dell'esilio volontario di Verre, ma vennero comunque pubblicati in forma scritta. Oratio cum populo gratias egit ("Ringraziamento al popolo", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che hanno appoggiato il ritorno di C. dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica. Oratio cum senatui gratias egit ("Ringraziamento al senato", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che in Senato hanno appoggiato il ritorno di C. dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica. Philippicae orationes I – XIV ("Le filippiche"), orazioni contro Marco Antonio. Pro M. Aemilio Scauro ("In difesa di M. Emilio Scauro", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Emilio Scauro. Pro T. Annio Milone ("In difesa di Tito Annio Milone", 52 a.C.), orazione difensiva, originariamente diversa dalla versione pubblicata, non sortì il proprio effetto in quanto la curia era assediata dai fedeli della fazione clodiana. Dopo l'esilio di Milone subirà profonde modifiche per essere pubblicata quale ci è pervenuta: la più bella orazione di C.. Contiene tra l'altro la celebre citazione "Inter arma enim silent leges" Pro Archia ("In difesa di Archia", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore del poeta antiochiano Aulo Licinio Archia. Pro Aulo Caecina ("In difesa di Aulo Cecina", 69 a.C./ca. 71 a.C.), orazione tenuta per il querelante in un processo civile per un'azione di rivendicazione. Il fondamento giuridico è l'interdetto de vi armata (rimedio del possessore contro lo spossessamento violento). Sostenitore della parte avversa è Gaio Calpurnio Pisone; entrambe le parti fanno ricorso manifestamente all'autorevolezza del giurista Gaio Aquilio Gallo. Pro M. Caelio ("In difesa di M. Celio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro A. Cluentio Habito ("In difesa di Aulo Cluenzio Abito", 66 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro G. Cornelio ("In difesa di Gaio Cornelio", 65 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro L. Cornelio Balbo ("In difesa di Lucio Cornelio Balbo", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro P. Cornelio Sulla ("In difesa di Publio Cornelio Silla", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Marco Fonteio ("In difesa di Marco Fonteio", 69 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Q. Ligario ("In difesa di Quinto Ligario" 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Quinto Ligario, indirizzata a Cesare in quanto dittatore. Pro Marco Marcello ("In difesa di Marco Marcello", 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Marcello, indirizzata a Cesare in quanto dittatore. Pro muliere Arretina ("In difesa di una donna di Arezzo", 80 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Lucio Murena ("A favore di Murena", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore in un processo di corruzione elettorale. Pro Gneo Plancio ("In difesa di Gneo Plancio", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Publio Quinctio ("In difesa di Publio Quinzio", 81 a.C.), il più antico discorso giuridico tradizionale di C. a favore del querelante in un processo civile. Oggetto del contendere è la legittimità dell'azione di sequestro preventivo eseguita dal convenuto Sesto Nevio contro il cliente di C. Publio Quinto. Difensore della parte avversa è Quinto Ortensio Ortalo, giudice è Gaio Aquilio Gallo. Pro C. Rabirio perduellionis reo ("In difesa di Gaio Rabirio, colpevole di alto tradimento", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Rabirio Postumo ("In difesa di Rabirio Postumo"), 54 a.C./53 a.C. oppure 53 a.C./52 a.C.), orazione difensiva pronunciata nella fase pregiudiziale del processo contro Aulo Gabinio a causa di concussione nelle province. Verte attorno alla presenza di "bustarelle" in connessione con la reintegrazione al trono d'Egitto di Tolomeo XII Aulete. Pro rege Deiotaro ("In difesa del re Deiotaro", 45 a.C.), orazione in difesa del Re Deiotaro, rivolta a Cesare Pro Sex. Roscio Amerino ("In difesa di Sesto Roscio da Amelia", 80 a.C.), orazione di difesa, è la prima arringa di C. in un processo per omicidio. Sesto Roscio era accusato di parricidio. Durante la guerra civile un parente si era impossessato del patrimonio del padre di Roscio e ora cercava di assicurarsi il maltolto, il quale apparteneva ai legittimi eredi del deceduto. C. ottenne l'assoluzione. Pro Q. Roscio Comoedo ("In difesa dell'attore Quinto Roscio", circa 77 a.C. o 76 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro P. Sestio ("In difesa di Publio Sestio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Titinia ("In difesa di Titinia", 79 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Marco Tullio ("In difesa di Marco Tullio", 72 a.C./71 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro L. Valerio Flacco ("In difesa di Lucio Valerio Flacco", 59 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.  Miniatura quattrocentesca del De oratore. Scritti di retorica  Lo stesso argomento in dettaglio: Retorica latina. Così come per C. è difficile distinguere tra vita ed opere, così in particolare differenziare tra scritti filosofici e retorici è sì pratico e chiaro, tuttavia non rappresenta pienamente la concezione e l'opinione di C.. Già nella sua prima opera conservata (De inventione I 1-5) chiarisce che la sapienza, l'eloquenza e l'arte del governare hanno sviluppato un legame naturale, che indubbiamente ha contribuito allo sviluppo della cultura degli uomini e che dev'essere ristabilito. Egli ha in mente quest'unità come modello ideale sia negli scritti teoretici sia anche nella sua propria vita activa al servizio della Repubblica - o almeno è così che egli ha voluto idealizzare e vedere la propria realtà.  Perciò non è affatto sorprendente se C. ha sviluppato i suoi scritti filosofici con i mezzi della retorica e strutturato le sue teorie della retorica su principi filosofici. La separazione tra sapienza ed eloquenza C. l'addossa alla "rottura tra linguaggio e intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De oratore III 61) e tenta attraverso i suoi scritti di "risanare" questa frattura; e quindi per una migliore attuazione la filosofia e la retorica secondo lui devono essere dipendenti l'una dall'altra (v. p.e. De oratore III 54-143); C. stesso dichiara che "io sono diventato un oratore non nelle scuole dei retori ma nei saloni dell'Accademia": con ciò allude alla sua formazione sulle dottrine della Nuova Accademia di Carneade e Filone di Larissa, suo maestro.  Panoramica alfabetica delle opere sulla retorica pervenuteci Brutus: il libro dedicato a Marco Giunio Bruto venne scritto all'inizio del 46 a.C. e tratta, nella forma di un dialogo tra C., Bruto ed Attico, la storia dell'arte retorica romana fino a C. stesso. Dopo un'introduzione (1-9) C. inizia un confronto con la retorica greca (25-31) e sottolinea che l'arte oratoria poiché è la più complessa di tutte le arti solo tardi giunse alla perfezione. Mentre ritiene gli antichi oratori romani appena mediocri, parla di Catone come base della propria esperienza. Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore, entrambi protagonisti del De oratore, sono dettagliatamente confrontati (139 e ss.). Dopo un'escursione sull'importanza del giudizio del pubblico (183-200) e una riflessione sull'oratore Ortensio (201-283), C. respinge fermamente il modello dell'Atticismo (284-300). L'opera culmina in confronto tra l'arte oratoria di Ortensio e di C. stesso, non senza una notevole dose di autocelebrazione (301-328), egli infatti presenta se stesso come il punto d'arrivo di un processo di sviluppo dell'arte oratoria. Punto principale dell'opera è la critica alla diffusione nello stile neoattico, a cui anche il giovane Bruto appartiene, difendendo il suo stile, assai più ricco e magniloquente, dalla critica di essere un esempio dello stile asiano. De inventione: ("L'invenzione retorica"): sviluppato tra l'85 a.C. e l'80 a.C. questo è il primo di due libri di una descrizione globale della retorica, mai completata. C. rinunciò a completarla, per dedicarsi ad una più accattivante rappresentazione nel De oratore, e tuttavia l'opera servì, nonostante il carattere frammentario, come testo d'insegnamento fino al Medioevo. La parte completata tratta nel primo libro dei concetti principali della retorica (I 5-9), la dottrina dell'insegnamento della retorica in riferimento ad Ermagora di Temno (I 10-19) nonché il ruolo dell'oratore (I 19-109); il secondo libro tratta delle tecniche d'argomentazione, soprattutto nelle arringhe giuridiche (II 11-154) nonché brevemente delle orazioni di fronte al popolo (II 157-176) e in occasione di celebrazioni (II 177-178). Le dichiarazioni di C. per quanto riguarda il contenuto dell'opera presentano molte somiglianze con la Rhetorica ad Herennium, ma per lungo tempo erratamente ritenuta sua, cosa che ha portato a numerose discussioni tra gli studiosi riguardo al rapporto tra le due opere. Entrambi gli scritti sono all'incirca dello stesso periodo e si basano direttamente o indirettamente sulle medesime o su affini fonti greche. Inoltre c'è una notevole somiglianza letterale in alcuni periodi, cosa che suggerisce probabilmente anche una comune fonte latina, forse originata da un comune insegnamento dottrinario che ha mediato il preponderante contenuto di origine greca. De optimo genere oratorum ("Sulla miglior arte dell'oratoria"): questa breve opera, scritta probabilmente nel 46 a.C. o, secondo altri pareri, già nel 50 a.C., è un'introduzione alla traduzione delle orazioni di Demostene ed Eschine, per e contro Ctesifonte. L'introduzione verte soprattutto sugli atticisti romani, all'incirca con le stesse argomentazioni dell'Orator. La traduzione comunque non ci è pervenuta, e non è chiaro se C. l'abbia mai effettivamente completata. L'autenticità dell'opera è stata più volte messa in discussione, ma oggi è per lo più accettata. De oratore (Sull'oratore): la più importante opera sulla retorica di C. non dev'essere confusa con l'opera quasi omonima Orator. È un'opera composta nel 55 a.C. in forma di dialogo, così come per il Brutus. I protagonisti stavolta sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi, secondo C., dei più grandi oratori della generazione precedente. Nel I libro è Crasso (portavoce di C.) ad esporre la tesi principale dell'opera ossia che il buon oratore deve avere un'approfondita conoscenza dell'argomento di cui vuole trattare, osteggiando la concezione di alcuni retori greci che ritenevano sufficiente una formazione basata su regole, tecnicismi ed esercizi per affrontare qualsiasi discorso. Il II libro tratta invece delle "parti" in cui si suddivide la retorica, cioè l'inventio, la dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello stile, cioè l'elocutio, e dell'actio, cioè il modo in cui l'oratore deve comportarsi durante l'orazione. Il de oratore è considerata l'opera di C. scritta con più cura formale e per questo motivo è sempre stata utilizzata e studiata come modello primo dello stile ciceroniano. Orator ("L'oratore"): Venne scritta nell'estate del 46 a.C. ed è anche questa dedicata a Marco Giunio Bruto e descrive un modello ideale del perfetto oratore, riprendendo molti dei temi già trattati nel De oratore. Contrariamente alla disputa di quel tempo tra gli atticisti, che - come Bruto - pretendono dall'oratore uno stile sobrio e preciso, e gli asiani, che prediligono uno stile molto ricercato e magniloquente, C. ritiene che il perfetto oratore, come Demostene, deve dominare tutti gli stili e saper passare da uno all'altro con naturalezza. Per questo motivo bisogna dedicarsi soprattutto alla formazione filosofica: solo così potranno svolgere i tre compiti dell'oratore: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire, convincere), i quali vengono bene ordinati e descritti (76-99). C. parla anche qui brevemente dell'inventio (44-49), della dispositio (50) ma tratta soprattutto dell'elocutio (51-236), soffermandosi sulle figure retoriche e sulla costruzione ritmica del periodo. Partitiones oratoriae ("Partizione dell'arte oratoria"): Quest'opera venne scritta nel 54 a.C., quando il figlio di C., Marco, stava studiando la retorica, ed è ideata come una sorta di 'catechismo', trattando la teoria della retorica, soprattutto con divisioni schematiche, nella forma di domanda e risposta tra padre e figlio. L'originalità di C. in quest'opera spicca molto meno, a causa dello stile molto semplice e delle poche novità introdotte. I Topica (44 a.C.): scritti nel corso del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Trebazio, trattano della dottrina dell'inventio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di saper trovare gli argomenti. In questa produzione retorica vengono considerati i luoghi (topoi) come ottimo spunto per ogni genere di argomento ed utilizzabili per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia, ecc.) Opere perdute Tra le opere tardive di C. si possono annoverare scritti consolatori, contributi alla storiografia, poesie (alcune anche sul suo periodo di consolato) e traduzioni. Queste opere sono per la maggior parte perdute. Delle poesie ci rimangono comunque svariate citazioni anche in altri lavori dello stesso C.. Questi frammenti dimostrano l'influenza di uno dei più importanti poeti latini, Catullo e di altri neoterici.  Panoramica alfabetica delle opere poetiche ed epico-storiche di C. Alcyones: epillio composto da C. dopo il 92 a.C. nel quale veniva cantato il mito di Alcione e del marito Ceice. Dato che questi si paragonavano a Giove e Giunone per la loro ricchezza, sfarzosità e potenza, gli dei fecero fare loro naufragio durante un tragitto in mare. Dato che Ceice morì nella tempesta, Alcione si lasciò annegare per il dolore, così Giove tramutò entrambi i defunti in uccelli alcioni. Aratea: libera traduzione giovanile dei Fenomeni celesti del poeta ellenistico Arato di Soli. De consulatu suo: poemetto autobiografico composto da C. tra il 60 a.C. e il 55 a.C. in cui si parla dell'ascesa al consolato dell'autore e della sua vittoria nel processo contro Lucio Sergio Catilina. De temporibus suis: altra opera autobiografica perduta scritta nel 54 a.C. in cui C. celebrava i suoi interventi migliori durante il consolato. Epigrammata ("Epigrammi"): componimenti satirici scritti da C. quando aveva circa vent'anni. Stando alle testimonianze di Quintiliano, l'opera era di genere comico e ironico e trattava di vari argomenti fantastici e reali. Līmōn: il titolo deriva dal sostantivo greco Λειμών, "prato"; ciò sottolineava il carattere variegato dell'opera, un poema in esametri in cui venivano trattati diversi argomenti letterali e sociali. Infatti una testimonianza di Svetonio riporta un giudizio severo dell'autore riguardo a un'opera del commediografo Terenzio. Marius: poema epico-storico in cui C. parla delle imprese del console Gaio Mario. L'opera è importante per il passaggio dell'autore dal genere alessandrino a quello storico mescolato alla poesia, cioè epico. Nilus: opera quasi sconosciuta. Si pensa che C. l'abbia scritta per lodare le qualità del fiume Nilo dell'Egitto. Pontius Glaucus: componimento in stile alessandrino di C.. Scritto circa nel 93 a.C., l'opera trattava del mito di Glauco, il quale dopo aver mangiato un'erba afrodisiaca dai poteri magici, si trasformò in un animale marino. Tymhaeus: vasti frammenti del lavoro compiuto sul Timeo di Platone, che C. presumibilmente non ha mai pubblicato, preparando semplicemente abbozzi di traduzione. Uxorius: opera nota quasi esclusivamente attraverso il titolo, che significa Il marito devoto (alla moglie); si ritiene avesse argomento leggero e carattere scherzoso, se non apertamente comico. Epistolario  Edizione delle Epistole agli amici, Venezia 1547 Le epistole di C. furono riscoperte da Petrarca e dal cancelliere e umanista Coluccio Salutati. Complessivamente furono ritrovate circa 864 lettere, delle quali una novantina furono scritte da corrispondenti, e ciò inizialmente provocò un grande entusiasmo, temperato successivamente dal fatto che l'immagine che traspariva di C. non era quella dello strenuo eroe difensore della Repubblica, come si era sempre dipinto nelle sue opere e nelle sue orazioni, ma una versione molto più umana, con le sue debolezze e i suoi aspetti meno retorici, ma certamente affascinanti nella loro genuinità.  Le epistole furono raccolte e archiviate dal segretario di C., Tirone, fra il 48 e il 43 a.C. Si dividono in 4 categorie:  Epistole agli amici (Epistulae ad familiares) (16 libri) Epistole al fratello Quinto (Epistulae ad Quintum fratrem) (3 libri) Epistole a Marco Giunio Bruto Epistole ad Attico (Epistulae ad Atticum) (16 libri) Memoria Presente in tutto il Medioevo, il ricordo di C. fiorì durante il Rinascimento[107]; Giovanni I di Brandeburgo principe elettore del Brandeburgo nel XV secolo, venne ricordato, dopo la sua morte, con l'appellativo di C., proprio a causa della sua eloquenza.  Negli Stati Uniti d'America vi sono ben quattro città cui è stato dato il nome "Cicero" in onore di Marco Tullio C.. Inoltre l'espressione latina Cicero pro domo sua viene utilizzata per descrivere chi parla sostenendo il proprio tornaconto, ma che maschera più o meno bene il fine del suo discorso come perorazione per altra causa. Essa deriva da un'orazione tenuta da Marco Tullio nel 57 a.C. per ottenere la restituzione della propria casa, requisitagli durante l'esilio.[108]  Il nome di C. è diventato un'antonomasia per indicare la guida che accompagna i turisti nella visita a monumenti e luoghi illustrando loro ciò che stanno visitando.[108] Parimenti con il nome C. vengono identificate le marche da bollo, di diverso valore (e colore), ma tutte riportanti l'effigie del busto di Marco Tullio C., da apporre agli atti giudiziari, il cui ricavato alimenta il Fondo di previdenza degli avvocati. Note ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 2, 1. ^ Dionigi Antonelli, Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel Medioevo, Pontificia Università Lateranense, Roma, Loffredo, S. Domenico di Sora e i luoghi natali di C., Tipografia dell’Abbazia di Casamari, Veroli Narducci  Rawson, p. 1. ^ Rawson, Rawson, Plutarco, Vita di C., 1, 1. ^ Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., 3, 2. ^ Rawson, pp. 14-15. ^ Plutarco, Vita di C., 2, 3.  Rawson, p. 18. ^ Plutarco, Vita di C., 4, 5.  C., Lettere ad Attico ^ Plutarco, Vita di C., 3, 5. ^ Rawson, p. 22. ^ Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 83. ^ Plutarco, Vita di C., 4, 1-2. ^ Rawson Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., 7, 5-7. ^ Plutarco, Vita di C., 7, 8. ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 9, 1. ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. lutarco, Vita di C., Sallustio, De Catilinae coniuratione, 5 ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Sallustio, De Catilinae coniuratione, 29,2 ^ Plutarco, Vita di C., Sallustio, De Catilinae coniuratione Sallustio, De Catilinae coniuratione, 31,6 ^ Plutarco, Vita di C. Sallustio, De Catilinae coniuratione, 32,1 ^ Plutarco, Vita di C., Rawson, p. 106. ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 201. ^ Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 204. ^ Plutarco, Vita di C. Rawson, Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Everitt, Plutarco, Vita di C., Svetonio, Vite dei Cesari, Gaio Giulio Cesare, 9. ^ C., Seconda Filippica  Frank Frost Abbott, Commentary on Selected Letters of Cicero, Preface, section 1, su www.perseus.tufts.edu. URL consultato il 9 marzo 2023. ^ Appiano, Guerra civile Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., 42, 5. ^ Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., Svetonio, Vite dei Cesari, Augusto 83,2 ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Seneca il vecchio, Suasoriae, trascrizione di un frammento di Tito Livio, Ab Urbe condita libri, 120 ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. C., Lettere ai familiari ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 41, 3. ^ C., Lettere ad Attico,12,18b,2 ^ Plutarco, Vita di C., 41, 4. ^ Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., 41, 7. ^ Plutarco, Vita di C., C., Lettere ad Attico Boldrer, Oratoria e umorismo latino in C.: idee per l’inventio tra ars e tradizione - Oratory and Latin Humour in Cicero: Inventio between Ars and Tradition, in Ciceroniana Lucano, Pharsalia, II,300 ^ Risari, E. Lo scontro politico: i "populares", in C., Le Catilinarie, Mondadori ^ E. Risari, L'ideale politico: la "concordia ordinum", in: C., Le Catilinarie, Mondadori  L. Perelli, Il pensiero politico di C.. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri Vedere: Claudio Moreschini, "Osservazioni sul lessico filosofico di C.", Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. 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Collabora a Wikiversità Wikiversità contiene risorse su Marco Tullio C. C. su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Francesco Arnaldi, C., Marco Tullio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, C., Marco Tullio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata C., Marco Tullio, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana C. su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) John P.V. Dacre Balsdon e John Ferguson, Cicero, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) Marco Tullio C., in Jewish Encyclopedia, Funk and Wagnalls. Modifica su Wikidata (EN) Marco Tullio C., su Internet Encyclopedia of Philosophy. Modifica su Wikidata (EN) Marco Tullio C., su The Encyclopedia of Science Fiction. Modifica su Wikidata Marco Tullio C., su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. 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(LA) Marco Tullio C., Epistolae, Lutetiae, Ex officina Iacobi du Puys, sub signo Samaritanae, è regione collegii Cameracensis Marco Tullio C., [Opere]. 1, Parisiis, Ex officina Iacobi du Puys, sub signo Samaritanae, 1566. (LA) Marco Tullio C., [Opere]. 2, Lutetiae, Ex officina Iacobi du Puis, sub signo Samaritanae, è regione collegii Cameracensis, 1565. (LA) Marco Tullio C., Orationes, Lutetiae, Ex officina Iacobi Dupuys è regione collegii Cameracensis sub Samaritanae insigni Marco Tullio C., Orationes (antologie), Mediolani, Regiis typis Opere di Cícero presso la Biblioteca Nazionale del Portogallo Predecessore Fasti consulares Successore Lucio Giulio Cesare Gaio Marcio Figulo 63 a.C. con Gaio Antonio Ibrida Decimo Giunio Silano Lucio Licinio Murena C. V · D · M Guerra civile romana  V · D · M Guerra civile romana V · D · M Poeti epici antichi V · D · M Plutarco Grottaferrata   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Età augustea   Portale Filosofia   Portale Letteratura   Portale Lingua latina   Portale Politica: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di politica Wikimedaglia Questa è una voce in vetrina, identificata come una delle migliori voci prodotte dalla comunità. Voci in vetrina in altre lingue Voci in vetrina in altre lingue senza equivalente su it.wiki  Categorie: Avvocati romaniPolitici romani del I secolo a.C.Scrittori romaniScrittori Nati ad Arpino Morti a Formia Marco Tullio C.Consoli repubblicani romani TulliiPolitici assassinati Personaggi citati nella Divina Commedia (Inferno) Senatori romani del I secolo a.C.Personaggi legati a un'antonomasiaGiuristi romaniAuguriAforisti romaniPersone legate ai Misteri eleusiniDecapitazioneStudiosi di traduzioneRetori romani[altre] . L'interesse per la problematica semiotica nel mondo ro­ mano fa parte di quel processo di costante e progressiva ac­ quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro­ mano, il paradigma semiotico abbandona il campo della fi­ losofia in senso stretto, per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica, una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto­ partizione della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del paradigma se­ miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de­ stinato a essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi conto, nel modo più chiaro, del cambiamen­ to di prospettiva, basta mettere a confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di C. nei riguardi della retori­ ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei segni; ma, come era già avve202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella dei tipi di sillogismo. Cosi fa­ cendo, aveva indicato un percorso ben preciso: la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de­ vono rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte­ resse si sposta, come nel caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni referenziali a quelli efficaci . In C., e in genere nella trattatistica retorica roma­ na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori­ ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è quello di contri­ buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo­ quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia­ ramente l'opinione di C. circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma non di produrne. In effetti, per C. la retorica costituisce il "corona­ mento" della filosofia, dalla quale non può essere dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec­ nica capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen­ siero già formato. Come mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in C. agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente bene se non quando si parla ve­ ramente bene. Tuttavia la retorica, indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra che essa è organiz­ zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di di­ scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del­ l'assemblea (politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri­ cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or­ nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita­ zione del discorso: gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si inseriscono nel pro­ gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro­ gramma è il commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio o sulla sua forza proba­ toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia, come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare l'espressione "prova" per indicare le probationes (pf­steis) retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno­ tazione scientifica la cui assenza appunto definisce le "pro­ ve" retoriche. Tuttavia, un merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di dare una classifi­ cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni autore ha assolto in ma­ niera particolare, proponendo una classificazione che non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li­ nee secondo le quali i tre grandi autori della trattatistica re­ torica romana, cioè Cornificio (autore della Rhetorica ad Herennium), C. e Quintiliano, ricostruiscono nelle rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia­ scuno secondo diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium, attribuita un tempo a C. sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi asse­ gnata a Cornificio (Calboli: 1969).  204 9. RETORICA LATINA La problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della constitutio coniecturalis dove, per verifica­ re se sia stata commessa o no una determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col­ pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret­ tamente a cui i segni devono rimandare non è il fatto o rea­ to, che è ovviamente noto, ma l'agente responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti­ pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura­ le in sei parti, sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto), signum (pro­ cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). Troviamo qui una terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la trasposizione la­ tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM no completamente difformi dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi­ nizione nella quale non rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è connessa alla caratteriz­ zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se [l'accu­ satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem­ pre stato avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di "movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione (del crimine)" (II, 6). Non ritro­ viamo nemmeno qui la nozione greca di smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia­ ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico­ struire il fatto scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di por­ tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la sua definizione non è ancora molto elo­ quente ("Argumentum è ciò attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e con un so­ spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe­ nomeno percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza, significa che è stato uc­ ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit­ to, significa che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità, con­ temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che risale al­ la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori­ ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli mette in relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab­ bia titubato, sia caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi­ che non controllabili, dei segni involontari che possono ve­ nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di colpa). Questi se­ gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe­ rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca­ to difensore può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del pe­ ricolo e non per la coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac­ cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno­ cenza" (ibidem).  probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM Come si può vedere, il procedimento indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari li­ velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar­ gumenta: essi mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal comportamen­ to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes­ sivo rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il se­ guente schema (Curcio 1900):  - locus - tempus - spatium - consequens   Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli­ ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non saldamente fondata. Tuttavia, con­ temporaneamente, appare molto più aderente alla materia instans conscientiae - signe  confidentiae - signa  innocentiae  208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non priva di una logica inter­ na nel suo seguire i segni deli'imputato in un percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro­ cesso . Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se­ gni, quando propone di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo proposito, nota che ci so­ no dei segni che non garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu­ ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran numero ("se però vi si aggiungono an­ che tutti gli altri, tali segni hanno un certo peso per accre­ scere il sospetto). C. C. affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se­ gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­ to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so­ cio-politico, volta a definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut­ to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio­ nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­ pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­ rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di C. e con­ densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro­ vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­ tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im­ pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi­ zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi­ noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice­ rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­ pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar­ gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in . un mo­ do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili­ ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon­ strans) . I segni necessari sono così definiti. Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­ vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., l, 86). Come C. spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­ lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae­ rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione C. mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv.,  9.2 C. 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar­ tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi­ le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi­ le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite­ ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­ za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­ stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri­ vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo­ lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio­ nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio­ ni, come dimostra il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo­ sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu­ rità di C., nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa­ mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati argumentatio  necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio/ l "signum erodibile indicBtLm comparabile /  Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­ lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut­ tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­ digma divinatorio all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati. Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin­ seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau­ sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice C., è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­ sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili­ stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­ me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­ dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman­ da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari­ stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat­ tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­ gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali  214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore, gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). C. non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor­ nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­ goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i smefa da un punto di vista episte­ mologico per la loro insicurezza, C. è pronto a rico­ noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero­ niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­ zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­ mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine coniecturs - l - verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­ rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di­ vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­ gettura) e divinazione naturale. Infine, come C. pole­ micamente rileva (De div.), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­ sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­ verse ed entrambe plausibili. Ma C. apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­ vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­ tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­ losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora­ neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica.  216 9. RETORICA LATINA C. affronta questi argomenti nel De natura deo­ rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di C. contro la teoria soste­ nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­ te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­ nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­ cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia­ listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­ preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in­ terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­ se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­ nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri­ patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­ minati, De div., II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:     218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che C. muove ai sostenitori della divi­ nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale C. nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se­ gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, C. istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro­ fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div.), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­ pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­ sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). C. poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).  Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div.);  l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­ cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra­ gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re­ torica divenisse inutilizzabile come mezzo di agitazione po­ litica e sociale: per questo, da strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita C., era divenuta so­ prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa di chiunque altro e contemporanea­ mente registra il processo di cadaverizzazione che l'elo­ quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria tratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato­ re, in cui la competenza semiotica ha una posizione di rilie­ vo. Gran parte degli elementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio­ tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci­ ficamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri­ flessione sul segno è saldamente inquadrata all'interno del­ l'ottica giuridica con cui viene trattata la materia. I segni in­ fatti fanno parte delle probationes artificiales, cioè delle  RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars) dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altro canto, le pro­ bationes inartificiales sono quegli elementi che derivano dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suo dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1 Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove)  i n a rt i f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta, quaesita ( inter­ rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rtificisles  formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è stato rilevato che Quinti­ liano non si trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo­ giche vicine al genere deli'implicazione, ovvero del rappor­ to "se p, allora q". Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse­ re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun­ que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst. Or.). Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto attinta direttamen­ te dalla tradizione della retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem­ pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento, Quintilia­ no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi­ bilità di acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, inte­ ressato ad argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se­ gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte­ ressato alle reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu­ stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua­ sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia­ no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco­ gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significato inequivocabile, scompare la possibilità di argomentazione; se, in­ vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma necessita­ no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut­ to in necessari e non necessari. I signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non possunt" (lnst. or.), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen­ ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti­ bile . La furia classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma­ re, si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti­ po di classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in "Se cammina, si muove", "Se ha partori­ to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or., V, 9, 7). Quintilia­ no sembra sollevare qui il problema della "conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr., 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa".  QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri­ spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se­ condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto convincen­ ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce­ neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al­ l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con­ seguente: firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i propri fi­ gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re­ pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos­ sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre­ sentino in gran numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or., V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece­ denti (segni necessari e verisimiglianze), come del resto av­ veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un parallelo con i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice­ roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria (quella dci signa non necessa­ ria == eik6ta) venivano classificati fatti o proprictfi che forni­ vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente sicuro che arriverà a domani); nella cate­ goria dei signa sono classificati fatti che sono insicuri per­ ché ambigui (una macchia di sangue su una veste può ri­ mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare del sangue di una vitti1na durante un sacrifi­ cio). La classificazione, allora, dovrebbe essere così formu­ lata: necessaria relazione necessaria tra a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo· l ------- signa  non necssaria verisimiglianze non conva!idabili scienti­ ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se macchia di sangue, allora omi­ cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (e non si­ gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora e che  9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Er­ magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti­ liano ha una certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementi pro­ banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo come se­ gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipica della semiotica giuridi­ ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamente proba­ toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semiotica generale, non c'è al­ cun problema a considerare come segni "tutte le conseguen­ ze che si traggono da un fatto". Le proprietà che l'enciclo­ pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente intuito dalla retori­ ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer­ tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura­ li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco­ mandando, nel secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin­ guaggio Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di lin­ guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi­ pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra­ verso segni (Simone). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia­ na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco­ gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so­ prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri­ ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene­ rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e­ nunciato il punto di congiunzione tra il significante (semaf­ non) e il significato (semain6menon), elemento che comun­ que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve­ ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui significante e signifi­ cato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda­ to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si­ gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si­ gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro­ le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si­ gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter­ minologie& È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con­ cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio­ ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luo228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita come un og­ getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op­ pure che sfugge alla percezione (De dialect., cap. V). È così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se­ guenti termini: dicibile  vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi­ cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi­ sione terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve­ nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co­ me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva­ to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si­ gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por­ tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui­ stici antichi. RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa­ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al­ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo­ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen­ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e­ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet­ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi­ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet­ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im­ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag­ gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es­ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe­ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela­ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio­ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti­ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte­ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri­ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag­ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin­ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta­ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin­ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra­ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale:  onIE=>c  m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic­ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u­ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al­ tro (livello ii).   10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI Conseguenze dell'unificazione delle prospet­ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co­ me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro­ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in­ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma­ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili­ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun­ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui­ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec­ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per­ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri­ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia­ lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto­ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce­ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di­ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co­ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen­ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag­ gio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co­ se che significa. Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemo­rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con­ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in­ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca­ si: il primo caso è quello in cui il locutore produce un se­ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri­ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife­ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno  COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono­ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co­ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co­ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es­ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual­ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi­ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive­ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga­ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi­ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte­ riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani­ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter  234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan­ do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio­ ne dei destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle im­ pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni del simbolismo univer­ sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia­ rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia­ na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo pro­ posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore pensato proferito sa pere    10.6 Le classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia agostiniana presenta un aspet­ to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut­ tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet­ to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana,  l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio­ nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni conven­ zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra­ slato secondo la natura del designato: segno/cosa LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se­ gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel­ lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene­ ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica­ zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber­ nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu­ sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osser­ vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb­ bero comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca­ te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge­ nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro­ la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen­ do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9).  genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME -- segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze  ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti     nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)   SIGNIFICANTE delle .. AES"    10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa" La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co­ me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as­ sumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ.). Ma, immediatamente dopo, cosciente del­ la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ., l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran­ sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual­ cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi­ cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun­ te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago­ stino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro".  238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui­ re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se­ gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce­ zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al­ tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel­ li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi­ cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio­ ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester­ nare" (Dedoctr. Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban­ diere e le insegne militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi in considerazione i segni che riguar­ dano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca­ ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri­ sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si­ gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita­ zione o gioia . Dopo averli definiti, Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente interessato ai signa data, in quan­ to a questa categoria appartengono anche i segni della Sa­ cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa­ role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an­ che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni natu­ rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del resto era sta­ to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na  240 10. AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que­ sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrisponden­ za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi­ lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat­ tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce­ zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi­ tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus, il significato di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag., III e VII). Questa concezione del significato si rende possibile sol­ tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago­ stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato.  SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine comincia da l si l, di cui si riconosce che espri­ me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli­ neato che non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si passa, poi, a lni­ hi/1, il cui significato viene individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa­ rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe­ rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica contestuale: il termine può esprimere separa­ zione rispetto a qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso virgiliano; oppu­ re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so­ no alcuni negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco (una se­ rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di­ versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto al modello istruzio­ nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è proprio grazie ali'assunzione generalizza­ ta del modello implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui­ stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in generale, è possibile, però, rilevare una connes­ sione storicamente documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti­ colare del segno. A esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C. la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona (1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che "la scrittura cu­ neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3 Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu­ rioso notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios (''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era­ clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi, come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca­ pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero (1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio.  Si potevano contare oltre cento oracoli per tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti tavolette.  244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario dell'azione oracolare compiuta da Crahay  risulta che alcuni vocaboli presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo con segni") e l'ag­ gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio­ ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr . anche //., I I I, 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso del­ l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica­ tes it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio è totale e simul­ tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo­ mini egli concede, invece, solo la frammentazione della parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo­ gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro che la sapienza vista dal­ l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la presenza di possibili procedi­ menti anche di cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca­ sualità ed essere sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av­ veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per una disamina generale e approfondita dei vari ti­ pi di divinazione i testi basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8 "Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini tecnici designanti par­ ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer­ to numero di iscrizioni epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr. Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come vedremo  NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine, l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine "modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di prospetti­ va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco. Pur­ troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si­ gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi­ stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem­ brato appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen., VI): la sa­ cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se­ guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo­ glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi antitetici della li­ ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco, quella maligna e deva­ stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per una nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel mondo antico, si veda Detienne. In particolare, sulla concezione di a/theia come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'ora in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente, per una documentazione completa sulla medicina gre­ ca, dovrebbero essere prese in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente e attingendo a una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo svolgendo . Rimandia­ mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia attribuzione dei trattati di medicina. NOTE 3 Si possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter­ ne, il libro II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar­ caica del trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della medicina (Di Benedetto). In secondo luogo, un gruppo di trattati in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me­ todologici della medicina. Vegetti ha proposto di definire convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri­ sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti; Vegetti. Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati­ ca non arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal­ volta apportandovi delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una distin­ zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (tr. it.). Si deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché con un si­ gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella testa, Le articola­ zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.). 10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri­ calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi pro­ cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds (1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (tr. it.). Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di sfug­ gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del =  NOTE trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol­ /ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do­ vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen­ do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti. 1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son­ no di cui parla Platone nel Timeo e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di­ vinatione per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico",  Eco (1975: 295): per "omoma­ tericità" si intende il fenomeno per cui "l'oggetto, visto come pura espres­ sione, è fatto della stessa materia del suo possibile referente.  anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983). 17  Vegetti; Manuli. 18 Sull'abduzione si vedano Thagard; Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco. Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi­ cina greca e quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani;  anche Di Be­ nedetto-Lami . Campbell Thompson. 2 1 Per questa nozione,  Conte.  Hjelmslev.  Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet.,  Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa nozione  Di Cesare. s  Eco.  Heinimann. 7  Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto nebulosamente, il tema della doppia articola­ zione del linguaggio umano, che verrà poi sviluppato in epoca contempo­ ranea da André Martinet (1960). 9 Anche se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica (1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti­ mema come sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici  248 NOTE (Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi­ smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente "neces­ sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non necessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12 Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote­ le così commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi­ smo che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu­ tabile (ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta­ no come si è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie­ ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé­ ras Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di­ stinzione tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion;  Le Blond.  Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!.  Arist., An. Post. È del resto sulla base delle immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka­ talptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29);  Mi­ gnucci; Sandbach; "The crite­ rion of truth" di Rist.  anche Sext. Emp., A dv. Math. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein.  6  Diog. Lart., Vitae; Long  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9  Diog. Lart., Vitae, Vll, NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene Diogene Laerzio (Vitae), gli stoici distinguevano tra il "proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente;  anche Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 80. Long sostiene di preferire, per lekt6n, la traduzione "what is said" rispetto a quella propo­ sta da Mates e dai Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene­ rale e permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione, risalente al Crati­ lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come "'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione";  Long. ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in completi e incompleti; cia­ scuno dei due tipi dava luogo a una sottoclassificazione, anche molto com­ plessa, che non prenderemo qui in considerazione; si veda a questo propo­sito Mates. Mates: Mates infatti concepisce i lekta come signi­ ficato delle parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension di Carnap. 1  Zeller. 12  Bréhier. 13  Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv. Math.): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe altre sono false". Sul problema del criterio di verità,  Rist; Sandbach; Mignucci anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18  Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1  Platone, Th.; Soph. In effetti il discorso interno, endiathetos /6gos, a differenza delle espressioni emesse materialment, prophorikòs 16gos, è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math., VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomo differisce da­ gli animali irrazionali a causa del discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano suoni arti­ colati";  anche Pohlenz trattazione di Conte, curatore dcll'edizione italiana dei Kneale. 20  Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al genere è, a quel che pa250 NOTE re, un segno";  anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2'  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27  anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11  Sext. Emp., Adv. Math. Al di là del carattere pole­ mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando "medici" e "fi­ losofi", fissa i due punti estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di­ mostrano anche i numerosi esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico del segno da parte dei filosofi. 12  Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13  Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1'  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11  Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39  Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi­ derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4()  Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione cronologica e teo­ rica. "2  Phil., De signis, XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco, sono messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276; 287.   Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le médecin de cet organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de prophète, un de­ vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe". 46  Cic., De divinatione.  49  Sext. Emp., Adv. Math., Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180: "D'altronde anche la dimo­ strazione è, in linea generale, un segno, giacché essa è considerata come di­ svelatrice della conclusione". 1 Il testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il prossimo capitolo. 2  Diog. Laert., Vitae, X, 31;  ancheEpic., EpistulaadHerodo­ tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi K.D.), XXIV. 3 Phil.,Designis,fr.l. "  Diog. Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat., fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971 b: 1 14) sostiene che un simile rap­ porto tra linguaggio e pro/essi è presupposto anche nella Ep. Hdt., 37-38.   Diog. Laert., Vitae,  Epic., Ep. Pyth.,  Epic., Ep. Hdt.,  Diog. Laert., Vitae,  Sext. Emp., Adv. Math.,  Diog. Laert., Vitae,  Diog. Laert., Vitae,  Epic., Ep. Hdt.,  Epic., Ep. Hdt., 48. 1"  Sext. Emp., Adv. Math., Epic., K.D., XXIV. 16  Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt., 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il criterio della "non incompa­ tibilità" con i fatti conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. °  Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo­ tem, 1119f. 22 Si deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe252 NOTE cifico del "significato" in termini intensionali. 23  Sedley; il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti. Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate.  capitolo relativo a Platone in questo libro. 26  Plat., Crat., 421 d, 435 c;  Sedley. La data di composizione del trattato, che è controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.;  De Lacy. Il titolo greco, essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget­ura di Gompers; altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina De signis;  De Lacy. Nella prima sezione vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda viene esposta la versione di Bromio del­ l'enumerazione e confutazione di Zenone degli argomenti contro l'inferen­ za empirica; nella terza viene riportata l'enumerazione di Demetrio di La­ conia degli errori comuni degli antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda lista degli errori degli oppositori, è anoni­ ma, ma, con molta probabilità, è anch'essa da attribuire a Demetrio. ..  Marquand; Deledalle.   Phil., Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13). Il riferimentobi­ bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta il pensiero di Demetrio;  col. , 13-25 = cap. 45, e col. , 12-24=cap. 57. 7 col.,1-15=cap.18. 8  col. I, 1-12 9  col. I, 12-16=cap. 2. 1°  col.. 11 In Peirce, del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem­ poranea, una tematica simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og­ getto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef­ fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.  NOTE 12  Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro.  col. col. III, 4-8= cap. 5. 1 col.  = cap. 6. 16  coli., 35 -, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. , 4 · XVII, 28 = capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. , 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18  col. , 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai "dogmatici" sul problema della defini­ zione come combinazione di attributi, a esempio "animale", "mortale", "ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico, Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. , 1 1-28 = cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A coli. , 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll. , 13 - , 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col., 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda antichità le de­ finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac. Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale mortale, provvisto di intelli­ genza e razionalità" (Adv. Math.). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18 Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. , , 13=Cfr.coli.,32-I,3= cap.35. coli., 35 - , 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe . col . col. col . col. col. , 5-7 = cap. 52., 11-15=cap. 52. XXI, 27-29 = c, 27-31 =, 23-29=. A questo proposito C. parla di "regolarità della ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div., I l, 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De Magistro. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen­ si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa­ rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co­ me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di­ cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo­ sizionali, come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et leur logique, Actes du Colloque de Chan­ tilly, Vrin, Paris Al, D.J. The Philosophy ofAristotle, Oxford, Ox­ ford (tr. it. La filosofia di Aristotele, Lampugnani Nigri, Milano, AMANDRY, La mantique apollinienne à Delphes. 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Mudry (eds.), Formes de pensée dans la Collection Hippocratique, "Actes du IV Colloque interna­ tional hippocratique (Lausanne)", Droz, Genève WELTRING, Das SEMEION in der aristotelischen, stoischen, epikureischen und skeptischen Philosophie, Hauptmann, Bonn (ried. in Kodikas/Code, 9, 1-2, 1986, pp. 39-1 18) ZELLER, Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwick- -68 lung, Fues's Verlag, Leipzig, Marcus Tullius, Roman statesman, orator, essayist, and letter writer. He was important not so much for formulating individual philosophical arguments as for expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy, and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy. This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls humanitas  a coinage whose enduring influence is attested in later revivals of humanism  and it alone provides the foundation for constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal disciplines is essential for citizens if their rational autonomy is to be expressed in ways that are culturally and politically beneficial. A major aim of Cicero’s earlier works is to appropriate for Roman high culture one of Greece’s most distinctive products, philosophical theory, and to demonstrate Roman superiority. He thus insists that Rome’s laws and political institutions successfully embody the best in Grecian political theory, whereas the Grecians themselves were inadequate to the crucial task of putting their theories into practice. Taking over the Stoic conception of the universe as a rational whole, governed by divine reason, he argues that human societies must be grounded in natural law. For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal code; in particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules against which existing societal institutions can be measured. Indeed, since they so closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions furnish a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory, if not its particular details, established a lasting framework for anti-positivist theories of law and morality, including those of Aquinas, Grotius, Suárez, and Locke. The final two years of his life saw the creation of a series of dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of Hellenistic philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of Philo of Larissa and the New Academy. Holding that philosophy is a method and not a set of dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However, unlike Cartesian doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind phenomena, since he does not envision the possibility of strict phenomenalism. Nor does he believe that systematic doubt leads to radical skepticism about knowledge. Although no infallible criterion for distinguishing true from false impressions is available, some impressions, he argues, are more “persuasive” probabile and can be relied on to guide action. In Academics he offers detailed accounts of Hellenistic epistemological debates, steering a middle course between dogmatism and radical skepticism. A similar strategy governs the rest of his later writings. Cicero presents the views of the major schools, submits them to criticism, and tentatively supports any positions he finds “persuasive.” Three connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature of the Gods, survey Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and natural philosophy. Much of the treatment of religious thought and practice is cool, witty, and skeptically detached  much in the manner of eighteenth-century philosophes who, along with Hume, found much in Cicero to emulate. However, he concedes that Stoic arguments for providence are “persuasive.” So too in ethics, he criticizes Epicurean, Stoic, and Peripatetic doctrines in On Ends 45 and their views on death, pain, irrational emotions, and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus Tullius ness in Tusculan Disputations Yet, a final work, On Duties, offers a practical ethical system based on Stoic principles. Although sometimes dismissed as the eclecticism of an amateur, Cicero’s method of selectively choosing from what had become authoritative professional systems often displays considerable reflectiveness and originality.  “Cicero = Tully” Grice: “Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different things! ‘Cicero’ is more of a description than a name!” La morte di C.. Cicero proscribed by the triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of the three ‘vires’, along with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which he had written the Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate. The Romans never quite liked him because he was only a provincial nobility and never displayed courage. C. affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: le opere di argomento retorico; e le opere che parlano dei se­gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­to – le opera de argomento retorico --, possiamo osservare che l'interesse per il concetto di segno non è ugualmente centrale in tutte queste opere. Infatti, da una parte, ci sono il “De oratore”, I'”Orator”, il “Brutus”, il “De optimo genere oratorum” -- che affrontano una problematica a carattere so­cio-politico, volta a definire la figura dell’oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo. In queste opere tut­to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica -- e con esso anche la problematica sul concetto di segnio e di prova indiziaria) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si configura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il “De inventione”, le “Partitio­nes oratoriae” e i “Topica”, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­rossismo, come nel “De inventione”, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio all'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. Il “De inventione” con­densa l'ampia tradizione retorica che dal Liceo giunge fino a Ermagora -- è quindi naturale che al suo interno si tro­vano riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si sedimenta. In particolare, è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­tecedente p che permette discoprire un conseguente q. Viene poi confermata l'attenzione verso il segno involontario -- l'im­pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato -- come indi­zio di colpevolezza. Infine, compare la classica divisione del indizo secondo la sua relazione temporale con il fatto crimi­noso -- anteriorità, contemporaneità, posteriorità. Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione del segno proposta da C. è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­pare infatti all'interno della teoria dell’ “argumentation”, cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi. L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera probabile – “probabiliter ostendens” -- ), o la dimostra in un mo­do necessario – “necessarie demonstrans” -- De inv. Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno. Infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione, già aristotelica, tra una forza argomentativa debole – “probabili­ter ostendens” -- e un'inferenza necessaria – “necessarie demon­ strans”. Il segno necessario e così definite. "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­vato diversamente da come viene detto.” Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo.” “Se respira, è vivo” – “Se è giorno, c'è luce” -- De inv., l, 86. Come C. spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­lazione inscindibile – “cum priore necessario posterius cohae­rere videtur” -- De inv., l. 86. Il rapporto di rinvio *non* necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" -- De inv., l, 46. Con questa definizione, C. mette in evidenza due caratteri: quello probabilistico e quello doxastico. Il primo di questi e da Aristotele attribuito peculiarmente all'”eikos” -- verisimile. E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele classifica come “eikos”. “e è madre, ama suo figlio” – “Se è avido, non fa gran caso del giuramento.”  (De inv.). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ne che per Aristotele definine il verosimile -- Arist., Rhet.. C'è però un terzo esempio. "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" -- De inv.- che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semeion aristotelico. La categoria di “signum”, poi, compare come una sottopar­tizione del segno non necessario, accanto al “credibi­le” -all’ “iudicatum” e al “comparabile.” Se le ultime tre nozioni – credibile, iudicatum, comparabile -- appaiono distinte in base a crite­ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il “signum” corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­za particolare. "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­stri sensi e indica (significa) un qualcosa che sembra deri­vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" -- De inv., I, 48. Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, dell’indizio, inteso come fenomeno percepibile, scarsamente codificato e generalmente non vo­lontario. Qui sono presentati in una forma non proposizio­nale. Ma niente vieta che venga sviluppato in proposizio­ ni, come dimostra il caso dell’indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". L’indizio, infine, venne suddiviso secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Nelle “Partitiones oratoriae”a classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità. Innanzitutto la terminologia viene completa­ mente latinizzata. Dall’altre, l’indizio -- qui chiamato  “argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaia come sottopartizione di un'altra categoria. Il concetto asume un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio---signum erodibile indicBtLm comparabile / -- --. Infine, viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ghi estrinseci" -- corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' -- corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1’ -- che venne criticata nel “De inventione” (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei “Topica”. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle divine: gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia. Tut­tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­digma divinatorio all'interno del fatto semiotico, anche quando ormai il segno si e completamente “laicizzato”. Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura, si ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprime: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico. Il segno umano e invece trattato come un argomento intrin­seco, in particolare tra quello che riguarda lo stato di cau­sa congetturale. La congettura può essere tratta da due tipi di segni: il verisimilie e la nota propria rei ( Il verisimile, come dice C., è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­sponde all’”eikos” aristotelico, di cui ha il carattere probabili­stico e generalizzante. La “nota propria rei” e definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo “propria”, che riman­da alla nozione di fdion semeion -- segno proprio. Per Ari­stotele, segno proprio e la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr.). Il segno proprio ha puo carat­tere di necessità e si define come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­gnis). Ci e, poi, il “vestigium facti,” dei quali venneno dati questi esempi -- "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore, gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). C. non define QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, ed agli argumenta di Cor­nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigium facti e più in relazione con il segno necessario (nota propria rei) o con il verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle “Partitiones oratoriae” (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, il vestigium facti (chiamato lì anche signum) vennne definiti come “consequentia”, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che define appunto, per Aristotele, il segno non necessario. Ma mentre Aristotele condanna i smefa da un punto di vista episte­mologico per la sua insicurezza, C. è pronto a rico­noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­zione. Innanzitutto, il fatto che entrambe si avvalgano del segno per arrivare alla conoscenza di un fatto non direttamente accessibile alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine · coniecturs -verisimilie (quod plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam alrter frt certumque declarat) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­rali) e prova extratecnica corrisponde la distinzione tra di­vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­gettura) e divinazione naturale. Infine, come C. pole­micamente rileva (De div., II, 55), il segno della divinazione e talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­verse ed entrambe plausibili. Ma C. apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­losofia a fondamento razionalistico, e contempora­neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stesso. La superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica. C. affronta questi argomenti nel De natura deo­rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di C. contro la teoria soste­nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla “divinatio artificialis”, in cui l'interpretazione del segno è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decrizione, demandata a specia­listi, ciascuno esperto in un settore: extispices -- esaminatori delle viscere --, interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures -- interpreti del volo degli uccelli --, astrologi -- interpreti delle stelle --, in­terpretes sortium -- interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso. In tale divinazione, l'informazione proveniente dal divino si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine del Portico secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il  logos divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da parte degl’uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(De div.).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività. Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie del Liceo (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­minati, De div.), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale col divino, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente del divino. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano. Le obiezioni che C. muove ai sostenitori della divi­nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale C. nega valore alla divinazione, è che essa non ha veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come segno non e tale, ovvero che non si comporta veramente come d’antecedente rispetto a di conse­guente. Per distinguere un segno vero rispetto a quello presunti della divinazione, C. istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi. Ma, mentre le pratiche pro­fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina). C. poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico. Le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., Il, 83). Si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div.). L'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div.). In certi casi l'interpretazione è motivata da ra­gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).Grice: “Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb Classical Library, a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since there are quite a few volumes dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the revised pronounciation, /kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually. His favourite target of attack was Marcantonio, which paid him good, since Marcantonio sent someone to cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote about me’). He accuses Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s ideal of VIRTUS – virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if you look for it in keywords – or even better masculinities in the plural. The sexuality side to the masculinity was of little importance to the Romans and Cicero – the ‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between ROMAN MEN and future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated his first beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not count since a lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE becoming free. So, even though, while becoming free they attained the rights of the Roman man, they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE man is a Roman male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure a ROMAN man wanted to find he could rely on two very practical institutions – one was that of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire. The ROMAN man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that his SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would not be a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if this ‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s desire, it was the job description of a job he never applied to. The other very useful institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes lexically between MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is some overlap here. While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s no reason why he should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into prostitution by a pimp – so slave – nonliberus – and prostibulum were not exclusionary. Again, in the case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the Roman man to pretend that the desires of the PROSTIBULUM counted. They were there to please. Brothels – there was one called Ganymede, in Ostia – quite popular, next to a latrine – had all the amenities of bedrooms, locked doors, etc.. WHAT MATTERED to the ROMAN man was that his REPUTATION OF VIRTUS – or masculinity as self-control – kept untouched, so that the receptive role in the sexual act would have no witnesses if it occurred at all. Cicero was well aware of all this. But it would be idiotic to focus just on CICERO. The keyword should be ROMAN MASCULINITIES, and Ancient Rome. In this way, we can cover the periods of the archaic regal period, the republic – Cicero and Cesare – and the Empire. When it comes to professional philosophers one has to be careful in that they were a breed apart. They catered to the very elite, so their views did not represent ‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero mentions a law against ‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’ against any of the two sexes. The evidence for the philosopher should include visual, and literary. Virgil and his national epic count large – and the Hellenistic references he makes to Ganymede and his Niso ed Eurialo being erastes and eromenos would be understood to his audience. And so would Hadiran’s affair with this foreigner (a replica of the Ganymede myth – and Cicero calls Marcantonio a ‘ganymede’ --. Like Zeus, Adrian was the MASCULINE VIR VIRTUOUS, dominant and controlling. Like Ganymede, Antinous was the foreigner subservient!” Manetti has explored the semiotics of CICERO in some detail. In general, he approaches first CORNIFICIO, who is the author of a treatise on rhetoric for long attributed to Cicero. The semiotic of Cicero is lawyer-based. His idea is that if x, y.  x is a sign of y. y is the cause of x. x is the effect of y. He is interested in semiotics as part of the analytica – or demonstration which is not necessary. It is interesting to compare Cicero’s semiotics with one by this Spaniard, Quinitilian. Quintilian, possibly a homosexual, had an obsession with what signs qualify as naturally meaning that the person is a homosexual. He said there were none. It is in this discussion that semiotics works. Grice: “Cicero was quoted twice at the Mostra augustea della romanita – a sentence, and Svetonio’s description of the birth of Augustus under his consulship.” A topic of analysis if ‘natura’. There are natural tendencies in man. And some which are CONTRA NATURAM. Oddly, semioticisans like Cicero and Quintilian refer a lot to these ‘contra-naturam’ conventions – or non-naturale. Grice: “Austin liked Cicero because he made ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Il C. di Rensi.  Spero enim homines mtellecturos  quanto sit omnibus odio crudelitas et  quanto amori probitas et clementia. C. Cassio in Cic., Ad farri. XV, 14    C. Renisi . Vita    parallele,li due filosofi    4  C. era vicino ai sessantanni, quando lo  Stato legale romano, che già precedentemente aveva subito terribili scosse, ma che mediante una  saggia riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo  stesso tronco senza frattura o soluzione di continuità, riceveva da Cesare il colpo di grazia...  Non è più necessario rivendicare la grandezza  di C. contro le denigrazioni del Mommsen  e di altri due o tre storici tedeschi (I). Egli non  era una ràbula e un politico superficiale. Bensì  un uomo di Stato dallo sguardo ampio e sicuro,  nel cui animo si radicava e viveva di vita vigorosissima tutta la grande tradizione politica romana, Una bella e vivace confutazione del Mommsen si  può leggere nel saggio di A. Horncffer, Cicero und die  Gegenwarl, contenuto nel volume Das Klassische Ideal  (Lipsia, Klinkhardt, 1909). L' Horneffer però rivendica  solo il valore di C. come epistolografo e oratore,  non come filosofo.   e pur senza che l’animo servilmente vi soggiacesse,  ma, anzi, insieme, con la chiara coscienza della  nuova direzione che quella tradizione doveva prendere, e della misura e forma in cui doveva prenderla, per svilupparsi fecondamente e superarsi vivificandosi. Accanto a ciò, mente che s’era impadronita di tutta la più alta cultura dell'epoca :  Demostene e Platone insieme pel suo paese, come  riconosce Wilamowitz-Moellendorf Accanto  a ciò, una squisitissima sensibilità artistica e una  passione vivacissima per le cose d’arte ; basta vedere quanto “ vehementer , com’egli stesso dice,  attendeva che Attico gli mandasse sculture ed oggetti artistici greci: “genus hoc est voluptatis rneæ  (Ad Att.) ; e   basta aver letto attentamente le sue orazioni e  aver scorto il perfetto senso d’arte con cui sono  costruite e che vi circola. Accanto a ciò, infine,  una sensibilità in generale per le cose, le persone,  gli eventi, gli affetti, così moderna, che in lui, nella  sua pronta e multiforme impressionabilità, ritroviamo  interamente noi stessi : e il suo dolore erompente  e pieno di accenti passionali per la morte della  figlia Tullia, è il palpito d’un cuore dei nostri  tempi. Uomo, in una parola; assolutamente completo. Platon. Un filosofo di così sottile e sicuro buon gusto  e di cosi grande penetrazione storica (e particolarmente  Il rimprovero che gli si fa di debolezze e incertezze è uno dei soliti rimproveri che gli eroi  di poltrona hanno quasi sempre occasione di rivolgere al grande che si è trovato a dover davvero vivere avvolto da un gigantesco turbine di  avvenimenti, e che nemmeno se fosse stato mille  volte più grande poteva abbracciarne tutte le fila,  come è invece agevole a quelli che non fanno se non  pacificamente rileggerli nel loro tranquillo gabinetto  venti secoli dopo. Egli non fu debole ed incerto  nè nella repressione della congiura di Catilina, nè  nella lotta per la salvezza della costituzione contro il cesarismo rinvelenito da Antonio, lotta che  chiuse cosi gloriosamente la sua carriera mortale.  Le sue incertezze di altri momenti sono unicamente  frutto della sua profonda moralità. Perché l’uomo  fondamentalmente morale e intelligente, in mezzo  a cataclismi enormi che travolgono gli individui  come fuscelli, quali quelli in cui C. si trovò,  mentre non può operare contro coscienza, e per  questa, che pure sarebbe l’unica via possibile, salvarsi o tornare a grandeggiare, però avverte anche  i pencoli micidiali a cui espone sè ed 1 suoi operando secondo coscienza : e la condotta risultante è necessariamente quella che tracciano le  fluttuazioni di tale angoscioso conflitto interno. circa la storia romana) come Montesquieu ne dà questo  giudizio. Ciceron, selon moi, est un des plus grands  espnts qui aient jamais été (Pensées diVerses), Ab illis est periculum si peccare, ab hoc si recte  fecero, nec ullum in his malis consilium periculo  vacuimi inveniri potest  {Ad Att, X, 8). Quando  i frangenti in cui un uomo si trova realmente a  vivere sono davvero quelli così delineati, si può  domandarsi se sia umanamente possibile la rettilineità che esigono da lui coloro che poi spulciano  comodamente gli eventi della sua vita. Sicuro e  diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che  non sente scrupoli : il cinico ed elegante arrivista  Celio Rufo, che a C. da questo consiglio  {Ad. Di'». Vili, 14): “ Suppongo che non ti  sfugga come nelle discordie politiche interne gli  uomini debbano seguire, finché si lotta senz’armi,  la parie più onesta, ma la più forte quando vengono in gioco guerre ed eserciti, e stabilire che  è migliore ciò che è più sicuro  (Celio Rufo, del  resto ottimo scrittore, tanto che per molti umanisti ed altri dotti è ancor oggi il miglior modello  di stile). Ma C. era un uomo di coscienza.  Questa soltanto, non la sua incapacità mentale,  la causa della sua rovina.   Egli era andato con Pompeo, non già sedotto  dalla speranza della vittoria, ma quando la causa  di costui era ormai pressoché perduta e con la  piena nozione di tale condizione di cose, e mentre  Cesare, Antonio, Celio, per cercar di trattenerlo  almeno neutrale, gli facevano offerte larghissime :   secuti non spem, sed officium  {Ad Div.). Vi era andato essendo consapevole, non solo dell’inettitudine e impreparazione di Pompeo e di  quelli che erano con lui, ma altresi del fatto che  poco o nulla c era da sperare da essi circa la  restaurazione della legalità, animati come costoro  erano da propositi di persecuzione sillana (Ad Att.; Ad D/v.), e   chiaro ormai essendo che dai pompeiani non meno  che dai cesariani non si pensava che a far man  bassa dello Stato: “ regnandi contendo est » (Ad  Att.), “ dominatio quaesita ab utroque est,  non id actum beata et honesta civitas ut esset. Vi era andato straziato dall’ idea  d una guerra civile e unicamente in obbedienza a  considerazioni d ordine morale. E’ la coscienza  che ci costringe, scrive ad Attico (X,8), a staccarci da Cesare più ancora se vincitore che se  vinto, per non essere solidali con ciò che seguirà  alla sua vittoria, stragi, estorsioni, violenze “ et  turpissimorum honores, et regnum non modo Romano homini, sed ne Persae quidem cuiquam tolerabile Era andato da Pompeo, senza illusioni  e speranze, unicamente per senso del dovere.   Sed valuit (scrive più tardi a Cecina) apud me  plus pudor meus quam timor ; veritus sum deesse  Pompeii saluti, cum ille aliquando non defuisset  meae. ltaque vel officio, vel fama bonorum, vel  pudore victus, ut in fabulis Amphiaraus, sic ego  prudens ac sciens, ad pestem ante oculos positam  sum profectus (Ad Div.). Egli sapeva  cioè di andare alla rovina e vi andò in obbedienza  a yu principio d'onore (pudor) e di gratitudine,  per quel poco che Pompeo aveva fatto onde richiamarlo dall’esilio. “ Pudori tamen malui famaeque cedere quam salutis meae rationem ducere  riconferma a M. Mario. E ritornando  più tardi in una lettera a Torquato, che aveva  anch’egli seguito la parte pompeiana, su quell’episodio a entrambi comune, sente di poter ricordare in cospetto al correligionario politico nec nos victoriae praemiis ductos patriam olim et liberos et fortunas reliquisse, sed quoddam nobis officium iustum et pium et debitum reipublicae  nostraeque dìgnitati videbamur sequi, nec cum id  faciebamur tam eramus amentes ut explorata nobis  esset victoria. Ne è questa un’opportunistica configurazione postuma della sua condotta di quel tempo. Basta percorrere la sua corrispondenza con Attico (suo amico intimo e suo  editore, uomo consumato nell’ impresa di tener il  piede in più staffe e nella difficile arte di conservarsi amici i vincitori senza inimicarsi i vinti)  per constatare che tale veramente, cioè il senso del  dovere, era il nobile sentimento da cui fu mosso. Officu me deliberalo cruciat, cruciavitque  adhuc ; cautior certe est mansio ; honestior existimatur traiectio (Ad Alt.). E quando  Pompeo è pressoché spacciato e stretto da tutte  le parti, e C. è ritornato in Italia, egli si  cruccia proprio di questo suo atto da cui gli sarebbe derivato vantaggio e che poteva quindi essere reputato abile, e si rammarica di non essere  stato con Pompeo sino alla fine; “ numquam  enim illus victoriae socius esse volui ; calamitatis  mallem fuisse  (Ad Att.). Il principio,  insomma, che in un’altra posteriore circostanza,  piena di pericoli mortali, nella sua lotta contro  Antonio, egli enuncia a Planco così : “ mihi maximae curae est, non de mea quidem vita, cui satisfeci vel aetate vel factis vel gloria, sed me patria sollicitat ( Jld Dio.), questo è il principio che domina costantemente nell’animo di C., insieme con l’insormontabile ripugnanza,  o meglio con 1’ impossibilità, di venir meno al  rispetto verso se stesso. Allorché, essendo Cesare  incontrastato padrone, l’accomodante Attico gli  dà il consiglio di obbedire ai vincitori, “ non  mihi quidem (egli risponde) cui sunt multa potiora  (Ad Att.). Certo, un uomo mosso prevalentemente da sentimenti di tale natura, nelle tragiche vicende pubbliche da cui si trovò avvolto C., va al  fondo. Resta a vedere se ciò sia un indice di  inferiorità o se non lo sia piuttosto quel successo  che è raggiunto (e la cosa è facile) in grazia dell’assenza di tali sentimenti, della mancanza d’ogni  freno etico, dell insensibilità ad ogni scrupolo di  coscienza, della nessuna riluttanza a violare cinicamente ogni principio di diritto e di morale. Nè r uomo che aveva cominciato la sua carriera  attaccando coraggiosamente nell’orazione prò Roselo  un favorito potentissimo di Siila, era un pavido.  Dimostrò ancora di non esserlo e nel suo consolato e nell’ultima fase della sua vita. L’apparenza  di timidità da lui talvolta offerta, deriva da ciò  che egli, come disse di sè, si preoccupava grandemente dei pericoli nella rappresentazione e raffigurazione mentale anticipata di essi, non già che  titubasse poi ad affrontarli nella realtà. Quintiliano  narra : “ Parum fortis videtur quisbusdam : quibus  optime respondit ipse, non se timidum in suscipiendis, sed in providendis periculis. E’ press’a poco ciò che egli scrive a Toranio:  mi accusavano di essere timido, “ eram piane,  timebam enim, ne evenirent, quae acciderunt  ;  mi dicevano timido, “ quia dicebamus ea futura,  quae facta sunt  (Ad Dio.). Nè è giusto  accusarlo di non aver saputo intuire con chiarezza  le situazioni e di essersi per questa deficienza di  sguardo gettato a corpo perduto a combattere per  soluzioni che la realtà escludeva. È questa la solita iniqua condanna che ì posteri, aggiungendosi  ai contemporanei nell’incensare i vincitori e nel  dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano contro  colui che difese la causa rimasta storicamente soccombente. Quasiché il fatto che una causa sia rimasta storicamente sconfitta dimostri anche che era  giusto e logico che essa lo fosse ; quasiché il mero  fatto, il fatto del successo, sia anche verdetto di  giustizia e logicità ; quasiché assai spesso la causa  storicamente prostrata non sia quella che avrebbe  dovuto vincere. Che la cosa stia così nel caso di  C., lo dimostra il fatto che la causa da lui  combattuta e che vinse costituì la rovina della vita  di Roma : basta per accertarsene constatare che  nella stessa nostra memoria di posteri la vita di  Roma resta chiaramente presente e attira la nostra  appassionata attenzione appunto sino ad Augusto;  ci rimangono ancora come appendice già torbida  i primi imperatori ; poi tutto ci si confonde dinanzi in un lungo stato comatoso chiazzato di  continui sussulti sanguigni, in cui (se non siamo storici di professione) non distinguiamo piu ne nomi,  nè persone, nè eventi, di cui non ricordiamo, nè  c’importa ricordare, più nulla. Si rammenti come, per es., scorgeva Roma Massimo d’Azeglio. “ Fra tutti gli Stati dell’antichità è Roma  quello che ho in maggior stima, fino all’epoca dei Gracchi,  intendiamoci ! lo ammiro que’ tempi durante i quali dominò  la legge ; durante i quali le più bollenti passioni agitate  dai più vitali interessi, non cercavano altr armi nè altre  vittorie che un voto ne’ Comizi . E poco prima : Se  è giusto e vero il principio fondamentale delle Società  moderne, essere la legalità di un governo dipendente dalla  volontà del popolo che vi è governato, vorrei sapere se  1’umanità consultata avrebbe ne’ tempi dei Romani votato [Nemmeno i mezzi che egli aveva messo in opera  per sostenere la causa che soccombette, soo inadeguati. Tutto, invece, egli aveva provvisto ; tutto  quanto era necessario perchè essa vincesse: aveva  cercato di assicurare ad essa l’appoggio e la  fedeltà dei maggiori personaggi militari e politici ; aveva costituito e messo in campo eserciti  poderosi ; con la sua parola teneva altissimo il  tono morale del popolo all’ interno. Se la causa  non vinse, lo si deve, non a un fato storico, a  condizioni incoercibili insite nella realtà e sfuggite  allo sguardo di C., o al logos immanente  nella storia ; ma unicamente a due o tre puri casi,  che potevano accadere diversamente e in tal modo  rovesciare la situazione. Dice in qualche luogo  Rosmini che “ uno de’ mezzi, co’ quali 1’ uomo  può sciogliere la propria mente da molti pregiudizi e da’ legami delle consuetudini sensibili, si è  l’esercitarsi a considerare le cose non solo come  sono, ma come potrebbero essere. Se vogliamo applicare questo precetto al periodo di  storia in discorso (come Renouvier in Uchwnie  l’ha applicato in modo grandemente interessante a  tutta la storia occidentale dagli Antonini in poi),  scorgeremo agevolmente che due o tre futili casi,  per l'impero (Miei Ricordi, Barbera). Antologia Pedagogica a cura di G. Pusinieri, Rovereto, Mario] i quali fossero avvenuti diversamente, sarebbero  bastati a cambiare del tutto la faccia delle cose;  se, p. e., Lepido non avesse tradito, o se un giavellotto l’avesse ucciso quando egli si mosse per  portar soccorso ad Antonio ormai disfatto, se Planco  non avesse fatto il doppio giuoco, ciò sarebbe bastato per far di C. il capo dello Stato romano, e perchè egli occupasse nella politica di  Roma d’allora, e nella storia, il posto d’Augusto.  E quanto lo Stato romano e la posterità sarebbero stati più fortunati se il potere fosse venuto  in mano ad un uomo di rettitudine profonda e  di vivo senso del diritto e del dovere, come C., anziché ad un uomo la cui bassezza d animo è provata luminosamente dal fatto che, avendo  cominciato ancora puer o adolescens, come sempre  C. lo chiama, (sed est piane puer n \Ad  Att. XVI, 11), ad essere qualcosa solo per 1 appoggio datogli appunto da C. e con lo strisciarsi umilmente ai suoi piedi (“a me postulat  primum ut clam conloquatur mecum Capuae vel  non longe a Capua ducem se profitetur nec nos  sibi putat deesse oportere  ; binae uno die mihi  litterae ab Octaviano; “ deinde ab Octaviano  cotidie litterae, ut negotium susciperem, Capuani  venirem, iterum rem publicam servarem » ; mihi  totus deditus; “ nobiscum hinc perhonorifice   et amice Octavius   Ad Jltt. XVI, 8, 9, 11,  XIV, 11, 12), non si trattenne dal sacrificare ad  una propria maggiore ascesa la vita di colui che l’aveva sorretto nei suoi primi passi. Uomo egli,  si, veramente, pusillanime, che vinse le guerre solo  per mezzo dei suoi generali e specialmente di Agrippa , e non aveva il coraggio di presentarsi  nel campo se non dopo che Agrippa gli annunziava la vittoria (Svet. Aug. 16). Fondamentalmente istrione e poseur come risulta dal fatto,  narrato da Svetonio (Aug. 84), che non comunica mai nemmeno con sua moglie senza scrivere prima e leggere ciò che voleva dire, nonché  dall’altro, sempre narrato da Svetonio, che  egli amava stilizzare a particolare espressività e luminosità i suoi occhi, “ quibus etiam existimari  volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque   [Octave lui [a Sesto Pompeo) fit deux guerres  laborieuses ; et après bien de mauvais succès il le vainquit por i’habilité d’Agrippa... Je crois qu’ Octave est le  seul de tous les capitaines romains qui ait gagné 1 affection  des soldals en leuv donnant sans cesse des marques d’une  làcheté naturelle  (Montesquieu, Grandeur et Dócadence  des Romains. Tanto Cesare quanto Augusto  avevano l’abitudine di citare dei versi delle Fenicie di  Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva scelto  è rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare amava  citare i versi 524-525 : “se c' è un caso in cui sia bello  violare il diritto, è quando lo si viola per conseguire la  tirannide citazione signifìcatiice dello spirito violento e  illegale. Augusto amava citare il verso 559: è meglio  per un generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che essere ardito (ihf aouc)  ; citazione significatrice della vigliaccheria (cfr. Cicer. De Off. Ili, 21, 82 e Svetonio  Aug.] si qui sibi acrius contuenti quasi ad fulgorem solis  vultum summiteret e infine in modo palmare dalle  parole (“ ecquid iis videretur mimum vitae commode transigisse ) e dalla citazione greca richiedente 1 applauso per la commedia ben riuscita,  con cu; egli chiuse la sua esistenza (ib. 99). Uomo  che desta particolare antipatia precisamente in  grazia del suo proposito di moralizzare la vita  romana ; perchè niente è più ripugnante del dissoluto che si da il compito di costringere gli altri  alla virtù e posa a restauratore della morale pubblica ; e Augusto aveva cambiato tre mogli prendendo 1 ultima al manto sotto ì suoi stessi occhi,  conducendola con sé in un altra stanza donde era  ritornata spettinata e con gli orecchi rossi, e poi  introducendola in casa propria incinta d’un altro; aveva commesso le oscenità che narra  Svetonio, irripetibili, tranne forse una :  “ adultena quidem exercuisse ne amici quidem  negant; e dopo ciò faceva udire le parole ammonitrici di vita austera e imprendeva a ricondurre  i costumi alla prisca severità (I). La scandalosa condotta di sua figlia e di sua nipote, che condusse   [A cool head, an unfeeling hcart, and a cowardly  disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to assume  thè maske of hypocrisy, which he never afterwards laid  aside. With thè saine hand, and proba’bly with thè same  temper, he signed thè proscription of Cicero and thè  pardon of Cinna. His virtues, and even his vices, were  artifìcial  (Gibbon, Decime and Fall] all’esilio di entrambe, e di Ovidio complice o pronubo, dimostra che nella sua famiglia stessa si  aveva il senso netto del come si poteva prendere  sul serio una riforma morale che pretendeva attuare un individuo di siffatta ìndole e di siffatti  precedenti. Non ostante che all’epoca del trionfo di Cesare  si avvicinasse alla sessantina, C. non. era  uomo che non sapesse comprendere i tempi. Li  comprendeva benissimo, più profondamente e sapientemente di Cesare e di Ottavio. La sua mente  era in pieno vigore. Subito dopo quell epoca egli  poteva scrivere quei suoi libri di filosofia che suscitarono l’ammirazione dei contemporanei e furono  e saranno letti con entusiasmo o rispetto da tutte   Coglie veramente nel segno Aurelio Vittore : Cum  esset luxuriae serviens erat eiusdem vitii severissimus ultor,  more hominum, qui in ulciscendis vitiis, quibus ipsi veliementer indulgent, acres sunt . (cap. 1). E s. può dire d.  lui quel che il Boissier dice di Domiziano : 1 ar malheur,   ce prince si sevère pour les defauts des autres, etait luimème très vicieux. 11 avait fait des lois rigoureuses contre  l’adultere et il vivait publiquement avec sa mèce, la bile  de Titus, qu’ il avait enlevée à son mari et dont il causa  la mort en essayant de la taire avorter. Ce contraste etait  choquant, et il n’ ignorait pas qu’on en etait indigne (Tacite] le generazioni successive (I). Poco più oltre egli  svolgeva anzi la sua azione politica più abile, più  decisa, piu energica e più importante, e, insieme,  con le filippiche raggiungeva un’altezza da lui  ancora non tocca nella forma d’arte che gli era  propria : “ divina  chiama giustamente un giudice  certo non facile, Giovenale (X, 125), la seconda  di esse. La sua idea di portare alla luce del  mondo politico, sotto la sua direzione, il pronipote e figlio adottivo di Cesare, ancora ragazzo  (aveva appena diciannove anni), accordandogli anche onori che a molti parevano eccessivi, e di  riuscire così giovandosi del nome di Ottavio a far  rientrare il ribollente partito cesariano nell’ordine  costituzionale e a dominare in tal modo una siInazione difficilissima, era una idea geniale, abilissima, da politico grandemente avveduto, l’unica    (I) Sull immensa influenza esercitata da C. sui   a t“ di tutti ' tempi ' veg § asi ‘'furiente  r “, Z r fe,v C f er, 0 o ™ Wandel dcr Jahrhunderte  I d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson nella  sua Vita di C. ( Heroes of thè Nations Series )  dice giustamente che se si dovesse decidere quale degli  scrittori antichi maggiormente influì sul mondo moderno,  la decisione sarebbe,n favore di Plutarco e C.   hrasmo, scrivendo ad un amico, diceva che, se da giovane   aonr enVa rf matUra era andato sempre più   apprezzando C.. Ld è proprio giusto il noto giu d. Z .o di Quintiliano : “ Ille se profecisse sciat, (e s. può  aggiungere: tanto gusto letterario, quanto in retti Jne  etico-politica) cui Cicero valde placebit.   G. Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi ] idea che in quel terribile cataclisma poteva dar  buoni frutti. Non è sua colpa se 1 idea non riuscì,  e proprio sopratulto per la perfidia senza scrupoli  del futuro Augusto. Per quanto avveduto e grandemente intelligente, un uomo di Stato fondamentalmente onesto come C., non fa entrare  nel suo giuoco la supposizione di una perfidia  enorme, di gran lunga travalicante la media nequizia umana, come fu quella di Augusto; nè si  può accusarlo di incapacità se non ve la fa entrare,  e se essa gli si rizza impensatamente dinanzi mandando a picco i suoi piani più accortamente e  sapientemente elaborati . Fra il 4 1 e il 40 a. C.,  cioè all’età di circa sessantaqualtro anni, C.  assume risolutamente, nel momento più pieno di  vicissitudini e pericoli, la parte di leader del Senato e del popolo romano, come egli stesso scrive  a Cornificio, “ me principem Senatui populoque  romano professus sum (Ad Dio. Xll, 24 2) ;  spiega un’attività prodigiosa, tanto verso gli eserciti  quanto rispetto alla situazione interna, per dirigere   (I) Giustamente Platone osserva (Rep.) che  le persone oneste sono facili ad essere ingannate dai  malvagi perchè non hanno in sé il modulo dei sentimenti  di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv éaotoT; ^ 7 iapaos'y|J.axa  óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però il malvagio, abilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta ingannato quando tratta coi buoni, perchè, giudicando da se,  e ignorando le indoli onesti, vede dappertutto inganni  (àruaT&v Tiapà xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;)] la lotta contro Antonio ; getta di nuovo, attesta  scrivendo ancora a Cornificio, 1 fondamenti dello  Stato con la prima Filippica: “ fundamenta ieci  reipublicae  (Ad D/v. XII, XXV, 1); e al giocondo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto  faccia e come ritenga che se dovesse in tale sua  azione perdere la vita l’avrebbe spesa bene ; “ sic  tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes mini  aliud agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi  liberique sint : nullum locum praetermitto monendi, agendi, providendi : hoc demque animo  sum, ut si in hac cura atque admistratione vita  mihi ponenda sit, praeclare actum mecum putem   (Ad T)iv. IX, XXIV, 3). “ In questi primi mesi  del 43, C. fu veramente il princeps, ch’egli  aveva idealizzato nel De republica : consigliere,  esortatore, ispiratore del Senato, dei consoli, dei  governatori delle provincie  . Non è questa  la condotta d un uomo le cui facoltà spirituali siano  illanguidite.   Ma, sopratutto, a prova della sua esatta comprensione dei tempi, basta ricordare come la riforma che occorreva allo Stato romano, pessimamente attuata, secondo attestò la susseguente vita  F, Amateli, C.  (Bari, Laterza).   Jamais C. n a joue. un plus grande róle politique  qu à ce moment ; jamais il n’a mieux mérité ce nom d’homme d Etat que ces ennemis lui refusent  (Boissier, Crcéron et ses amis] dell’Impero, da Cesare e da Augusto, fosse stata  prospettata per primo da C. nel De Repubblica. L’introduzione, cioè, d’un nuovo e più  fermo principio d’autorità sotto forma di un rector  rerumpublicarum d’un “ moderator reipublicae  d’un “ princeps civitatis » (De Ti,ep.).  Senonchè C., con molto maggior senso della  necessaria continuità di sviluppo dello Stato romano  e con molta maggior disinteressata cura di esso,  non intendeva che questa riforma dovesse rivolgersi a distruzione della costituzione esistente, bensì  che dovesse ingranarsi in essa e formarne un naturale complemento e uno svolgimento spontaneo  e logico ; “ homines non tarai commutandarum  quam evertandarum rerum cupidos , egli giudica  i cesariani .(De Off.), mentre per lui la  costituzione romana, come esattamente nota lo  Zielinski, è “ capace di ogni progresso in quanto  questo conducesse all’accettazione e allo sviluppo  di idee feconde (fordeTnder), non di idee distruttive. La differenza tra il modo con cui egli  concepiva la riforma e il modo con cui la attuarono Cesare ed Augusto è si può dire scolpito  dalle seguenti sue due proposizioni: “ me nunquam voluisse plus quemquam posse quam universam rempublicam  (jdd Div.); “ ego  sum, qui nullius vim plus valere volui, quam honestum otium. Ovvero: la differenza tra la concezione ciceroniana del princeps  e la pratica applicazione fattane da Cesare è resa  nel bell’ emistichio con cui Lucano descrive il modo di operare di quest’ultimo : gaudens viam fecisse ruina. Basta riflettere a tutto ciò per scorgere tosto  che non solo la mente di C. era nel suo  pieno vigore, ma altresì la sua comprensione dei  tempi (se per questa s’intende, non già furbesca  valutazione personalmente opportunistica delle circostanze, ma avvertimento delle necessità profonde  che ad un dato momento si presentano nella vita  sociale e politica d’un paese) era perfetta.  Il * ‘ sovversivismo  di Cesare è provato dal dolore  che per la sua morte manifestarono sopratutto gli Ebrei  (“ qui etiam noctibus continuis bustum frequentabant  Svet, Caes.), cioè precisamente coloro che nel seno  nello Stato romano, da essi violentemente odiato, costituivano la catapulta diretta a farlo saltare, e che, sotto la  veste del Cristianesimo, a farlo saltare effettivamente riuscirono. Si può anzi con sicurezza dire che l’impero romano si  deve agli ebrei, perchè furono i loro lunghi tetri lamenti  intorno al cadavere di Cesare che suscitarono nella plebaglia quella sommossa per e attorno al rogo del dittatore, la quale fece prender nuova forza al cesarismo. “ É  noto come per la commozione popolare che lo straziante  rito ebreo provocò colle sue lugubri lamentazioni orientali,  se ne ingenerò quel tumulto che doveva mutare la faccia  de! mondo, mandando in fumo i diplomatici accordi con  Bruto e Cassio, che dovettero fuggire in Illirio : sicché ne  vennero le lunghe guerre civili e l’Imperio di Augusto   (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano] Mente possente, senso politico sicuro, comprensione dei tempi piena. Non si può dunque attribuire a deficienze intellettuali il modo con cui  C. valutò Cesare e il movimento da costui  capeggiato. Egli non vide certamente Cesare come  la sua figura si è plasmata nella storia, che corona  con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha trovato  in ogni presente la consacrazione del bruto successo di (atto. Lo vide come glielo presentava la  realtà immediata. Lo vide come lo vide Catullo:   Pulcre convenit improbis cinaedis,   Mainurrae pathicoque Caesarique ; E questo Caesar era proprio Caio Giulio Cesare  e quel Mamurra (da Catullo soprannominato Mentula) il suo generale del genio. A permettere al  quale di “ mangiare  (il verbo si usava anche in  latino con questo preciso significato) milioni su  milioni, il commovimento politico aveva principalmente servito. Doveva essere una cosa nota a  tutti, se Catullo la mette correntemente in versi:  Cinaede Romule, haec videbis et feres ? Es inipudicus et vorax et aleo. Eone nomine, imperator unice,   Fuisti in ultima occidentis insula.   Ut ista vostra diffutata Mentula  Ducenties comesset aut trecenties ?] Cinaede Romule Romolo debosciato, impudico, vorace e giuocatore : cosi Catullo vede Cesare. E press’a poco così lo vede C.   Egli non scorge Cesare, quale il fanatismo interessato dei seguaci e poi gli storici l’hanno costruito: gli storici, i quali (in generale) non fanno  mai altro se non aggiungere, per supino servilismo  postumo, la loro adulatrice consacrazione al successo di fatto e di solito non osano mai, per la  paura di passar per “singolari,,, sviscerare il  clamoroso successo di fatto ottenuto da un “ grande   nella età in cui visse, mettendone coraggiosamente  in luce le vere molle, spessissimo casuali, o basse,  o vili, ma sempre invece per essi è “ grande   colui che nella sua epoca le circostanze, o la  perfidia, o i misfatti hanno portato in alto.  Si vous avez une vue nouvelle, une idée originale, si vous présentez !es hommes et les choses sous  un aspect inattendu, vous surprenez le lecteur. Et le lecteur n’aime pas à ótre surpris. Il ne cherche jamais  dans une histoire que les sottises qu’ il sait dejà. Si  vous essayez de l’instruire, vous ne ferez que l’humilier  et le fàcher. Ne tentez pas de l’éclairer, il criera que  vous insultez à ses croyances... Un historien originai est  1 objet de la défiance, du mépris et du dégoùt universels».  Questo è l’abituale comportarsi degli storici, secondo la  satira, aggiustatissima, che ne schizza A. France (L’ ile  des Pingouins, préf.). Ci sarebbe solo da aggiungere che spesso il servilismo degli storici verso i personaggi della storia che scrivono serve al loro servilismo  verso i personaggi della storia che vivono. C. vede Cesare muoversi davanti ai suoi occhi,  nella vita vera, non nella luce abbagliante del  mito. Esso gli appare screditato, corrotto, senza  senso di morale nè privata nè pubblica, uomo la  cui vita, i cui costumi danno la certezza che si  condurrà male : e sopratutto la danno la gente che  lo circonda. “ O Dii, qui comitatus ! in qua erat  area scelerum! scrive ad Attico, dopo  uno dei suoi abboccamenti con lui. Egli sa che  Cesare aveva cominciato a costruirsi la sua potenza  accaparrandosi e tenendo alle proprie dipendenze  i manigoldi audaci e bisognosi. Egli scorge   ( I ) Nell' interessantissima antologia di pagine storiche  di Chateaubriand, testé pubblicata dall’editore Tallandier  sotto il titolo Scénes et portrails historiques, si legge. Tout personnage qui doit vivre ne va point  aux générations futures tei qu’ il était en réalité : a quelque  distance de lui, son epopèe commence : on idéalise ce  personnage, on le transfigure ; on lui attribue une puissance,  des vices et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange les  hasards de sa vie, on les violente, on les coordonne à  un système, Les biographes répètent ces mensonges ; les  peintres fixent sur la toile ces inventions et la posterité adopte  le fantóme. Bien fou qui croit à l’histoire. L’histoire est une  pure tromperie . E Montesquieu, dal canto suo aveva già  osservato : “ Les places que la posterité donne sont sujettes,  corame les autres, aux caprices de la fortune ( Grandeur  et décadence des Romains. Habebat hoc omnino Caesar: quem piane perditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam hominem audacemque cognorat, hunc in familiaritatem libentissime recipiebat  (Fi/. Il,]  radunata attorno a Cesare tutta la gente equivoca  e sospetta, violenta e disperata, tutte le anime dannate, vexu (<x (Ad Att.), “ omnes damnatos,  omnes ignominia affectos, omnes damnatione ignominiaque dignos, omnem fere inventutem, omnem  illam urbanam et perditam plebem  (Ad Att.), tutti i giovani circa i quali pensava che “maximas republicas ab adolescentibus labefactas,, (De  Seti. VI), tutti coloro ch’egli chiamava « perdita  iuventus » (Ad Att. VII, 7) e poc’anzi « barbatuli iuvenes, grex Catilinæ, «feccia  di Romolo, i precursori di quella che  poi Giovenale denomina «turba Remi;  cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare  è raggruppato tutto il canagliume della penisola,  « cave autem putes quemquam hominem in Italia  turpem esse, qui hinc absit; osservazione identica a quella che è costretto a fare il  cesariano Sallustio: “ occupandae reipublicae in  spem adducti homines, quibus omnia probo ac luxuria polluta erant, concorrere in castra tua,, (De Rep.  Ord.). Come Catullo, C. vede con  disgusto i cesariani ormai dominatori darsi al lusso  ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre Balbo  (altro comandante del genio di Cesare e sua longa  manus in Roma) si costruisce dei palazzi, “quae  coenae? quae deliciae? at Balbus aedificat (Ad  Att.), e Antonio scorrazza l’Italia confi) Val la pena di riportare tutto il passo perchè esso  ducendosi dietro in una lettiga aperta la sua amante  in un’altra sua moglie, septem praeterea coniunctæ lecticæ amicarum sunt an amicorum ?  l^/JJ  Att. X, IO) (I). Tutto ciò desta in C.  una nausea invincibile: “ nosti enim non modo stomachi mei, sed etiam oculorum, in hominum inso- contiene un’osservazione di indole psicologica e morale  eternamente vera e colta da C. dalla vita stessa  che lo circondava : “ At Balbus aedificat ; tl yàp «ÒTfij  péÀst ; Verum si quaeris, homini non recta sed vuluptaria quaerenti nonne [kfifwTai ?  Cioè: “ Balbo pensa a  costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò ? E in  verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la coscienza, ma solo il suo interesse, fa bene a far così : può  dire ho vissuto  La ributtante figura d’Antonio risalta scolpita non  solo nelle lettere di C., ma, più ancora nelle Filippiche (v. specialmente FU. He. 18 e s.). Pagine che  stanno a dimostrare una volta di più come, in una situazione politica tirannica ed eslege, anche persone notoriamente  turpi possano salire ai più alti gradi, perchè il controllo  dell opinione pubblica e la possibilità di censure sono soppresse dalla forza e la gente costretta al silenzio.  Non  ostante, in un primo tempo C., usando l’avveduta  prudenza dell’uomo politico, aveva cercato di persuadere  quasi amichevolmente Antonio a rimanere nell'orbita della  legge. Ciò con la Fil. I, di cui è il caso di citare le seguenti righe : “ Sin consuetudinem meam, quam in republicam semper habui, tenuero, id est, si libere, quae sentiam, de republica dixero; primum deprecor ne irascatur,  deinde, si haec non impetro, peto ut sic irascatur, ut civi] lentium indignitate, fastidium™ (Ad T)iv.] Quanto a Cesare, egli è per C. “ hominem  amentem et miserum che non ha mai conosciuta  neppur l’ombra dell'onestà, che considera la tirannide come il maggior dono degli Dei, (Ad Alt. VII,  1 1 ), capace di ogni scelleraggine, “ omnia taeterrime facturum, uomo del quale  “ vita, mores, ante facta, ratio suscepti negotii, sodi  fanno ritenere che non potrà comportarsi se  non “perdite,, (ib. IX 2 A, alias 2, § 2 e s.) La sua  condotta sarà anche resa peggiore di quel che per  l’indole di lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella  guerra civile deve pur contro sua volontà operare ad  arbitrio di coloro che l’hanno aiutato a vincere.  “ Omnia (scrive a Marcello) sunt misera in bellis  civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria :  quae etiamsi ad meliores venit, tamen eos feroLa stessa ripulsione, e per la stessa ragione, Filippo destava in Demostene. È circondato (egli dice) da  ladri, da adulatori, da gente che si abbandona a immoralità che non oso neanche ripetere (01. 11, 19). E Demostene si illudeva che anche perciò Filippo sarebbe caduto. Geloso e ambizioso com' è (egli dice) allontana gli  uomini di valore, che gli danno ombra ; gli uomini assennati e morigerati, che sono rivoltati dalle sue immoralità  (àxpaafav xoO pioti -/.al xal xopSaxia|jioOs)   sono da lui cacciati e ridotti a nulla, TrapEwaHa'. xal sv  Ò'jSevò; s!va'. |ispei (ib. 18). Ma pur troppo i fatti  hanno sempre provato che è vana speranza contare che queste ragioni facciano cadere un uomo dal potere. L’esigenza  morale non trova sanzione nella storia e nella politica.]ciores impotentioresque (più sfrenati) reddit ; ut  etiamsi natura tales non sint, necessitate esse cogantur ; multa enim victori eorum arbitrio per quos  vicit, etiam invito, facienda sunt (Ad Div. IV, 9).  E su questo stesso pensiero insiste anche con Cornificio (Ad ©iv. Xil, 18) : “ Bellorum enim civilium hi semper exitus sunt, ut non ea soium fiant,  quae velit victor, sed etiam, ut iis mos gerendus  sit, quibus adiutoribus sit parta victoria . La situazione scaturita dalla vittoria di Cesare  appare a C. un mostruoso sfacelo dell’eticità  pubblica. “ Tutto allora in Roma precipitava a  rovina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio  d’ogni cosa umana e divina, poneva i fondamenti  sanguinari la tirannia degli imperatori  . C. vede come non appena Cesare, annientati i  suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica,  ha messo violentemente le mani sullo Stato, e in   Il modo genuinamente italiano di considerare Cesare  è quello che un veramente grande italiano, il Carducci,  ci presenta nei due sonetti II Cesarismo, che cominciano  con le parole, estremamente significanti e pregnanti,  Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto  Svolge il diritto, e dal misfatto il fatto.   Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente letti,  con la nota al v. 14 del secondo, che li accompagna. BARZELOTTI (si veda), DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE NEI LIBRI DI C.] seguito a ciò “ omnia delata ad unum sunt  (jdd  Div. IV, 9) al punto che Cesare redige in casa  sua, a suo libito, quelli che devono apparire come  senatusconsulta (Ad Div.), si formi un’atmosfera di falsità, di servilismo, di adulazione universale, tanto da parte di privati quanto di enti  pubblici, cosicché non si distingue più il sentimento  sincero dalla simulazione, “ signa perturbantur,  quibus voluntas a simulatione distingui posset «  (Ad Att. Vili, 9);  quell’adulazione e quel  servilismo, che, diventati poi a poco a poco oramai di rito, Lucano, più tardi sotto Nerone, stigmatizza con magnifici versi, facendone risalire  1' inizio appunto al dominio di Cesare :  V Cette abjection de la patrie releva I’ àme de  C. par l’indignation et par la honte. La victoire de  Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna. Le succès,  qui est la raison du vulgaire, est le scandale des grandes  àmes (Lamartine, C., Calmati-Levy). È un saggio, poco conosciuto, in cui Lamartine,  in forma simpaticamente piana e scevra da ogni erudizione,  presenta, nella sua nobile luce, e con accenti assai elevati,  la figura di C.. Ne vogliamo, a conferma di precedenti osservazioni, estrarre ancora due passi. “ Les ambitieux, les factieux, les séditieux, les corrupteurs et les corrompus, la jeunesse, la populace et la soldatesque, les  barbares mèmes enrólés dans les Gaules, étaient avec  Cesar. “ Coriolan... n’avait rien fait de plus  monstrueux... et cependant l’histoire a flétri Coriolan et a  déifié Cesar. Voilà la justice des hommes irréfléchis, qui  prennent le succès pour juge de la moralité des événements  (154).] Namque omnes voces, per quas iam tempore tanto  Mentimur dominis, haec primum repperit aetas.   Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar, abesset,   Ausonias voluit gladiis miscere secures,   Addidit et fasces aquilis et nomen inane  Imperii rapiens signavit tempore digna  Maestà nota (I).   C. vede come, appena risultò che Cesare  era saldamente stabilito al potere, non solo i “sovversivi ma anche gli “ ottimati le vecchie figure   V. 386, —Si avverte che la parola “ imperium   qui non significa il nostro “ impero  ma “ officio pubblico legale Lucano vuol dire che Cesare copri l’usurpazione, assumendo falsamente il semplice nome d’un officio  pubblico legale. Come è noto, è sopratutto col nome di  potestà tribunicia che ( usurpazione si effettuò. Nel libro,  ricco di dottrina e di acume, di G. Niccolint, Il Tribunato della Plebe (Hoepli, 1932) si mostra che 1’impero  si costitui deformando e nell’ istesso tempo assorbendo la  potestà tribunicia. « L'impero non era, in ultima analisi,  che il trionfo della democrazia [più esatto sarebbe dire :  demagogia], e se chi aveva fondato il suo potere sul partito  democratico, non poteva abolire la pericolosa magistratura,  non gli restava che appropiarsela nella sua sostanza, se  non nella forma esteriore... Cosi la temuta magistratura,  nata per difendere la libertà del popolo, che conteneva  perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi in tirannide...  costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca »  (pag. 1 59). — 11 contegno adulatorio e vilmente opportunistico comincia con gli uomini il cui prototipo è Attico.  “ C’est assurément ce qui nous répugne le plus dans sa  vie ; il a mis un empressement fàcheux à s’accomoder au  regime nouveau  (Boissier, Cicéron et ses amis.] politiche, abili a restar sempre a galla, “ huic se  dent, se daturi sint , sia pure perchè terrorizzati,  sebbene essi ora dicano che lo erano quando ossequiavano Pompeo (Ad Alt.); come essi  se^ venditant  a lui, mentre i'municipi fanno di  lm vero Deum  (ib. Vili, 16), e il grosso del  pubblico sta inerte, passivo, indifferente, non pensa  che alla propria tranquillità (“ otium ), non rifiuta,  come non ha mai rifiutato, nemmeno la tirannide  dummodo otiosi essent, non si  occupa che dei campi, delle ville, dei quattrini,  nihil prorsus aliud curant nisi agros, nisi villulas,  msi nummolos suos  (ib. Vili, 13) ; atonia che  si aggravo ancora più tardi quando diventava po^  tenie Antonio : “ mihi stomachi et molestiae est  populum romanum manus suas non in defendenda   YA/I own, " plaudendo consumere (Ad Att.  AV| . lU- Ma questa prosternazione e adula (I) Anche qui si riscontra un parallelo nella potente  e \ ibrante invettiva di Demostene per l’inerzia dei Greci  del suo tempo. Non e senza ragione (egli dice) che i  Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora invece  hanno a cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi   iTera^ C ° Sa 'vi  Persian ° e fece la Grecia   def rarH mVlnC |! bl 6 “ T* ® “ mare : ed era la fermezza  (Filla 36 C 37ìT 81 asciavano corrompere e comprare   uiterr di bene ** Gr “   j .',, 1 era un tempo non avere   fil ventre el’ ^ “7 qUa 'Ì la misura della felicità  e il ventre e 1 inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole   V ' l0X ° tS Tr ' v £tJ °aqtovtav) l a libertà fu bevuta alla ] zione universale, questo continuo panegirismo ormai diventato di prammatica, non è, per C.,  se non un’universale falsificazione di coscienza,  quella stessa per cui più tardi egli osservava che  i cittadini gementi sotto l’oppressione avevano dato  a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della  patria il titolo di parens patriae : “ potest cuiquam  esse utile faedissimum et taeterrimum parricidium  patriae, quamvis ìs, qui se eo abstnnxerit, ab oppressi civibus parens nominaretur ?,, {De Ojf.  Ili, 83) . Questa situazione che fa fremere d’orrore C. (2), nella quale egli trova che non c e   salute di Filippo e di Alessandro. E, data questa vostra  viltà e servilità, (dice altrove) è mutile che speriate nella  malattia o nella morte di Filippo : anche se muore, vi  creerete tosto voi stessi un altro Filippo, "ay^Éu; upet;  gxepov OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil.). In questo stesso luogo, volendo C. dimostrare  che l'utile e il giusto non possono distinguersi, scrive fra  l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di Cesare di voler  dominare tirannicamente la patria] si honestam quis esse  dicit, amens est ; probat enim legum et libertatem mteritum,  earumque oppressionem taetram et detestabilem glonosam  putat ». Come, aggiunge, può essere ciò utile all usurpatore?  Anche i re legittimi hanno avversari ; « quanto plures ei  regi putas, qui exercitu popuh romani populum ipsum  romanum oppressisset ? Ricco com’era d’un pathos etico affine a quello di  Kant, si intuisce chiaramente dalle sue lettere e dai suoi  scritti che egli sentiva profondamente, come il filosofo  tedesco, che il “ dovere relativo alla dignità dell umanità  in noi, e che è per conseguenza un dovere verso noi piu posto“ non modo pudori, probitati, virtuti, rectis studiis, bonis artibus, sed omnino Iibertati ac   Dh - V. 16), gli appare sopraia!,  basata sulla menzogna e sul falso, perchè sotto  1 adesione, 1 adulazione, l’apoteosi che l’atmosfera  ufficiale orma, impone, circola larghissimamente  quel malcontento e quell’esecrazione generale verso  ì distruttori dello Stato legale, che egli constatava  già precedentemente quando essi avevano iniziata  tale loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium  omnium hominum in eos qui tenent omnia ; mutationis tamen spes nulla Ad Alt. Il, 22). Questa esecrazione generale, sotto le parvenze dell’ossequio più profondo, s’è ora concentrata in Cesare,  il quale, dopo poco tempo di dominio, ormai in  realta persino “ egenti ac perditae multiludini in  odium acerbissimum venerit. Invero,  Cesare stesso sapeva d’essere odiato e di dover  esserlo, sopratutto per la posizione di superiorità  e distanza, così urtante al senso cittadinesco romano, che egli aveva finito per prendere : dopo  la sua uccisione, Mazio racconta a C. che    stess., può esprimersi in modo più o meno chiaro nei  seguent, precetti: non siate schiavi degli uomini: non  permettete che, vostri diritti siano impunemente calpestati  (Dottr. della Virtù). Che è, del resto, il  precetto evangelico : \ii) r £veafre SotW.c- àv&pdmwv (1,   SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É Xptaxòs   UylCWXw!]) ^ ” 4Xlv tu r»   G. Reati . Vita parallele di due filosofi  avendo dovuto una volta Cesare far fare anticamera a quest ultimo, aveva detto : se un uomo  come C. deve attendere per essere introdotto  da me e non può a piacer suo parlarmi, “ ego  dubitem quin summo in odio sim  ? (Ad Att.  XIV, 1 e 2) (I).    A proposito dell’uccisione di Cesare. Vi sono molti  i quali pensano che perchè Bruto era stato « perdonato »  da Cesare e poi anzi « beneficato », egli dirigendo « il  tradimento e l’uccisione del suo benefattore », abbia dato  « perfido esempio di cuore ingrato e irreverente » (Corradi). Questa opinione è la tipica prova della completa  mancanza d’ogni senso di ciò che è diritto. Proprio il fatto  che Cesare gli aveva * perdonato », doveva essere per  Bruto una giusta ed onesta ragione di più per abbonirlo.  Bruto aveva preso le armi contro Cesare in difesa dello  Stato legale : dunque conforme al diritto. Decidere sul suo  caso, condannarlo od assolverlo, spettava alle autorità legali  (Senato), non a un individuo. Il solo fatto che non già le  leggi o le autorità legalmente costituite, ma l’individuo  Cesare, potesse a suo beneplacito interrompere o far  proseguire i processi, ordinare condanne o assoluzione,  assolvere Bruto, « perdonare » a Bruto (quasiché condannare  od assolvere, e, peggio, « perdonare », supposto si trattasse  di delitto, fosse di competenza d’un individuo, e quasiché  questo stesso fatto non comprovasse lo sfasciamento dello  stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di più  per avversare e condannare legittimamente l’uomo e il  sistema, e per ricorrere ad ogni mezzo onde liberarsene.  — Che, per citare un altro fatto, onde far ritornane Marcello  dall esilio ì senatori abbiano dovuto pregare un individuo,  gettarsi ai piedi d un individuo, dell' individuo Cesare, è  un fatto che doveva legittimamente suonar condanna per  [Era, insomma, la situazione che un filologo italiano contemporaneo descriveva di recente crn  tutta esattezza così : “ La crescente potenza di  Cesare, il quale, dopo la funesta giornata di Farsalo, erigendosi a signore assoluto, e sopprimendo  la libertà della vita politica di Roma, aveva, per  primo, inaugurato la lunga e mostruosa serie degli    questo individuo, che si sovrapponeva in tal guisa alle  leggi : condanna, anche quando « perdonava », perchè  precisamente così dimostrava che dipendeva, non più dalle  leggi assolvere o condannare, ma da lui perdonare o no.  Piena ragione ha Seneca quando in un capitoletto pieno  di considerazioni interessanti circa l’atto di Bruto, dice che  egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare, perchè  questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se  non violando il diritto e perchè chi non uccide non arreca  un beneficio, ma si astiene da un maleficio : in ius dandi  beneficii iniuria venerai; non enim servavit is, qui non  interficit, nec, beneficiun dedit, sed missionem » (De Benef.). Del pari piena ragione ha C., il quale, ad  Antonio, che gli rinfacciava come un benefizio usatogli di  non averlo ucciso al suo sbarco a Brindisi, rispondeva :  questo è lo stesso beneficio di cui potrebbe vantarsi un  assassino per non aver ucciso taluno : quod est aliud  beneficium latronum, nisi ut commemorare possint iis se  dedisse vitam, quibus non ademerint ? » (Fil. II, C. 111).  E si noti ancora che Seneca e Lucano, vivendo entrambi  alla corte di Nerone, il quale, pure, era della casa Giulia,  poterono il primo dare a Bruto la massima delle lodi  facendo dire da Marcello a sè stesso : “ tu vive Bruto  miratore contentus  (Ad Helviam), il secondo  dipingere nel suo poema con smaglianti colori di grandezza morale “ magnanimi pectora Bruti. ] imperatori romani ; la viltà degli adulatori, che  disertavano il partito dei vinti per quello più vantaggioso dei vincitori ; le mene degli ambiziosi,  che, r er trar partito dalle circostanze ad accumular potenza e ricchezze, pullulavano su su dal  fondo di quella corrotta società, come marcida  fungaia dal fondo d’un’ acqua stagnante ; le crudeltà dei prepotenti, che volevano, anche a mezzo  di violenze e di sangue, aprirsi un varco nella  folla dei concorrenti a quella specie d’albero della  cuccagna ch’erano le usurpazioni dei poteri dello  Stato con le loro mille seduzioni e promesse di  dominio e di saccheggio dei beni pubblici e privati ; il vivo cordoglio e l’abbandono sconsolato  in cui vivevano, nell’esilio volontario o non volontario, le anime dei virtuosi e degli onesti, fautori  del partito repubblicano ; tutto insomma contribuiva  a mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe...  Anziché assopirsi, cresce a dismisura nelle classi  non mai dome nel loro caratteristico orgoglio, il  malcontento per il nuovo regime... La miseria intanto cresce spaventosamente in Roma e nella  provincia ; lo spettro della fame s’aggira nelle  campagne desolate e incolte dell’ Italia ; le classi  medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed  alla disperazione... Torme di miserabili si vedono  per ogni dove languire d’ozio e di fame  (I)    U. Moricca, Introd. a C. De Finibus, Torino,  Chiantore,. Ora, tanto appare a C. falsa e menzognera  la situazione che egli è certo che non può durare.  La maschera di clemenza di Cesare e le sue bugie  circa la restaurazione finanziaria (divitiarum in  aerario ) sono cadute; è impossibile che egli e  i suoi, non d’altro capaci che di scialacquare, riescano ad amministrare soddisfacentemente le provincie e lo Stato ; cadranno da sè, per gli errori  propri, “ per se, etiam languentibus nobis,,, “ aut  per adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi  est adversarius unus acerrimus  ; questa tirannide  non può reggere sei mesi, “ iam intelliges id regnimi vix semenstre esse posse.   Probabilmente, ciò di cui C. avrebbe sopratutto incolpati i cesariani è che essi cadevano in quell’errore che il Romagnosi descrive così : “ La temerità e  l’intolleranza sono i vizi che sogliono guastare questo procedimento [inventivo dell’ incivilimento). Si pecca di temerità allorché si tentano innovazioni o rifiutate dalla natura  o non preparate sia nei fondamenti, sia dal tempo. Si  pecca d’intolleranza allorché si vuole seminare e raccogliere ad un sol tratto, e però si passa ad infierire contro attriti che da se stessi vanno cessando in forza della  riforma fondamentale già praticata. Siate severi nel mantenere la giustizia, e nel rimanente lasciate operare il  tempo sul fondo ben disposto. 1 vostri stimoli artificiali,  le vostre correzioni minute, invece di giovare nuociono,  invece di affrettare ritardano; e se per caso avrete un  frutto precoce, ne avrete mille falliti » {Dell’ Indole e dei  Fattori dell’ Incivilimento, Avvertimento finale). Auree parole d’uno dei nostri massimi pensatori politici, che andrebbero anche oggi meditate e tenute presenti. Alle] Tale previsione di C. andò incontro ad  nna smentita colossale. Quella “ divinatio  dell’andamento degli eventi che egli, ricavatala dallo  studio e dalla pratica, aveva la coscienza di possedere ( 1 ), qui gli fallì del tutto. E' vero che Cesare quali vanno accostate, sempre ad illustrazione del sentimento politico, che, in quelle perturbate circostanze, si  sprigionava vivo in C., le seguenti: “ guai a quel  popolo, nel quale, spento il punto d’onore, non prevalgono che poteri individuali!  (/,/. di Ciò. FU Giurispr.   T e ° r \. P \ 1,1 C - 1V ): nonché la sua affermazione  dei diritti dell uomo, da lui chiamati originaria padronanza naturale di ogni individuo. Quelli che vennero  appellati diritti dell'uomo formano appunto il complesso  di questa originaria padronanza. L’indipendenza, la libertà  1 eguale inviolabilità e il diritto di difesa e di farsi render  ragione, sono tutte condizioni di questa originaria padronanza  (Lett. a G. Valeri). Cu, quidem divinationi hoc plus confidimus, quod  ea nos mhil in his tam obscuris rebus tamque perturbatis  umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae ante futura dixissem,  ni vererer ne ex eventis fìngere viderer. Ad Dio.Exitus, quem ego tam video animo, quam ea quae  ocuiis cemimus. Ad Dio.Tamquam ex aliqua  specula prospexi tempestatem futuram  (Ib. IV, 3). Questa  sicura previsione degli eventi, questo sicuro presentimento,  C. lo possedeva in effetto. Anche nella circostanza  suaccennata egli prevedeva giusto, preveveva cioè quello  che tutto faceva ritenere dover accadere. Se i fatti si svolsero  in senso del tutto opposto alla sua previsione, si può, in  un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non C. Cioè che la realtà è irrazionale e casuale, e che mai vi  tu un periodo di storia che sia stato come quello irrazionale  e casuale.] è ucciso poco dopo e probabilmente lo fu quando  e perchè divenne chiara a tutti l’impossibilità in  cui egli era di dominare la situazione, di riordinare cioè seriamente lo Stato e di soddisfare insieme le brame dei suoi seguaci , cosicché  Mazio — uno dei pochi cesariani onesti, che, come  risulta da una sua nobilissima lettera (Ad T)iv.  XI, 28), non aveva sfruttato Cesare vivo, e che  gli rimase fedele anche morto, e anche durante  quel momento in cui, subito dopo l’uccisione del  dittatore, il cesarismo sembrava crollato e i cesariani in pericolo diceva, deplorandone la morte:   che catastrofe ! non c’è più rimedio ; se lui,  con 1’ ingegno che aveva, non trovava la via d’uscita, (exitum non reperiebat), chi la troverà  ora ?,, (Ad Att. XIV, I ). Ma dopo la morte  di Cesare, come appunto prevedeva Mazio le cose  finirono per peggiorare rapidamente. Anche C. è costretto a constatarlo. Il tiranno perì (egli  dice) ma vive la tirannia (Ad Att.); Va però tenuta presente anche la profondissima  osservazione di Montesquieu : « Il étoit bien difficile que  Cesar pùt défendre sa vie ; la plupart des conjurés étoient  de son parti ou avaient été par lui comblés de bienfaits :  et la raison en est bien naturelle. Ils avoient trouvé de  grands avantages dans sa victoire : mais plus leur fortune  devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part  au malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il  importe peu à certains égards en quel gouvernement il  vive » (Grandeur et décadence cfr. XI). ] d siamo liberali dal re dai regno (yìj Di,. ’ /aj' fi marzo non consolano più come  pnma (Ad AH.): " stolta L iZZ  Martmrum consolano, animis usi sumus virilibus  cooubs puenbbus ; excisa est arbor, non avulsa i, fi ; e st . a ‘° Iasc,al ° vi vo in Antonio  1 erede del regno (ih. XIV, 21); si poteva con   piu libertà parlare contra illas nefarias partes   xiv r vivo che non ucci - tó   ' X V ’ 1 : lnfine crebbe meglio che Cesare   vivesse ancora “ nonnumquam Caesar desiderandus. Infatti, la situazione era diventata quale la descrive ad Attico così • “ S ed  vides magistrati ; si quidem illi magistratus'; vides  tyranni satellites m impems ; vides eiusdem exercniis ; vides in latere veteranos. In conseguenza il sistema di governo che C.  prevedeva non poter durare un semestre, durò  invece, continuamente aggravandosi o peggiorando  per quattordici secoli, cioè per quanto visse l’impero bizantino.   Ma la fallacia di questa previste   la torio all. mente di C.. E' la fallacia  propria delle menti profondamente razionali, che  hanno una fede inconcussa nella ragione ; e la  mente di C. era appunto secondo la felice  dennizione che ne dà Io Zielinski, un “ Aufkàrungsvers tand» (I). A codeste menti è impossibile   (I) O. c. P . 147. ammettere che la mostruosità, l’irrazionalità, l’assurdo vengano a tradursi permanentemente nel fatto,  si facciano solida e stabile realtà. "Ciò è assurdo,  quindi è impossibile  ; questo è per siffatte menti  un canone assolutamente insopprimibile, sradicando  il quale essa sentirebbero di strappar le proprie  medesime radici. A cagione della stessa forza della  loro compagine razionale, è ad esse impossibile  riconoscere che il fatto che una cosa sia assurda  non impedisce menomamente che essa divenga  realtà e che anzi quasi sempre nella storia umana  avviene che ciò che all’ inizio la mente scorgeva  come cosa “ assurda », “ pazzesca , implacabilmente ciò non ostante si realizza. Come buon  platonico C. non poteva a meno di essere  fermamente convinto che oòx eattv Sit àv xij |a£r;ov  xoótotj xaxòv TTaìfoi y) Xóyou? (juar^aag (Fed. 89 d.).  Nel logos egli aveva indefettibile fede. Egli scorgeva  dietro a sè, fin dove 1 occhio della memoria poteva  giungere, soltanto governo di popolo. Questo era per  lui una conquista permanente» della civiltà, la civiltà stessa, la civiltà che non può perire. Con tale  forma di governo il suo spirito si era immedesimato ; essa faceva parte essenziale della sua coscienza d uomo, formava il cardine su cui poggiava  tutta la sua vita spirituale. Pensare che tale   [Che tale stato d'animo fosse non solo “ ciceroniano  ma “romano,,, emerge anche da ciò che l’indignazione per la caduta di quella forma di governo si formi potesse crollare e permanentemente scomparire, era come pensare che potesse precipitare  tutto ciò che si è sempre visto stabile, la terra,  il sistema solare, ciò che è l’incarnazione di un’eterna legge della natura. Sempre gli uomini quano si sono trovati in una fase di cangiamento analoga a quella in cui si trovò C. e   tanto più quanto più la loro mente era fortemente  razionale hanno emesso la medesima errata previsione di lui ; ciò è assurdo, quindi impossibile,  quindi non può durare. prolunga sino in S. Ambrogio, in cui, da signore romano  d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, “ Hic  erat pulchemmus rerum status, nec insolescebat quisquam  perpetua potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Nemo  audebat alium servitio premere, cuius sibi successuri in  honorem mutua forent subeunda fastidia; nemini labor  gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed postquam dommandi libido vindicare coepit indebitas et ineptas nolle  deponere potestates... continua et diuturna potentia gignit  msolentiam. Quem invenias Hominem qui sponte deponat  impenum et ducatus sui cedat insigne, fiatqe volens numero postremus ex primo ?  {Hexameron, XV).   ...  osa et nota : lo stesso errore, la stessa   illusione— nobilissimo errore ! — troviamo, come già si  e rilevato, in Demostene, il dramma della cui vita fa  esattamente riscontro a quello di C.. Anche Demoj. en  e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca prevedeva che la potenza  di rilippo era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv teXsut^v  t« «payiiax aòttji (§ 5). E questa previsione era per  lui principalmente fondata appunto sul fatto che una potenza  costrutta sulla malvagità non può durare. Oò yàp gcmv, ] Il dramma, terribile dramma, della vita di C., è appunto questo. II dramma dell’uomo   oìjy. laxiv, u> àvopEg ’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruopxoOvxa xa: ^£'joÓ|ìsvov Sóvajuv j3ej3aiav XTiqaaad’at...  xwv jrpà^ewv xàg àp%à<; xxl xàg ÒTtofliaeig àX^S-sT;  xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei (§ 10). E nemmeno dieci  anni dopo Filippo trionfava definitivamente a Cheronea.  Ad ogni momento troviamo questi pensieri nelle orazioni  di Demostene, che perciò sono cosi istruttive circa le  illusioni in cui il « razionalismo » induce gli uomini. Ma  neppure la battaglia di Cheronea guarì Demostene dal1 illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu assassinato,  Demostene comparve nell’assemblea, raggiante, tpatSpòg,  splendidamente vestito, incoronato : con la morte dell’uomo,  secondo lui, la costruzione improvvisata ed effimera doveva  certo crollare. E quando Alessandro si fece avanti a sorreggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille, ndsioa  xai |ia T txT)V (Plot., Dem. § 23). Ma la costruzione  fondata sulla perfidia, e che perciò, secondo Demostene,  non poteva reggersi, sboccò invece nel trionfo addirittura  fantastico ottenuto appunto da Alessandro. Gli uomini non  possono rassegnarsi a credere che una politica malvag-a  possa ottenere un successo duraturo, che il male trionfi  permanentemente. Pur troppo, invece, è questa una pia  illusione; e le cose vanno precisamente cosi. E gli astrattisti,   1 « razionalisti », gli spiritualisti, non sanno ricavare dal  male che sotto ì loro occhi permanente trionfa, neppure  quell unico bene che vi si potrebbe ricavare : quello cioè  di essere definitivamente istrutti dell andamento assolutamente arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita.  Chiusi nel loro mondo dei meri concetti, è a quelli e  alle deduzioni da quelli che continuano a credere, anziché  aprire gli occhi ai fatti. < Sapiunt alieno ex ore petuntque  res ex auditis potius quam sensibus ipsis » (Lucr.). che con disperazione vede rovinare intorno a sè  senza possibilità di salvezza il mondo civile di  cui la sua più intima vita stessa era intessuta, il  mondo razionale e trionfare ineluttabilmente, in causa impia, victoria etiam foedior  ( T)e  Off. 11, c. Vili), l’ingiustizia ed il male, una  forma di mondo umano impensabile assurda,,.  11 dramma della coscienza eticamente desta che  vede con orrore ciò che essa giudica aberrazione  morale e iniquità acquistare ufficialmente il carattere di nobiltà, grandezza, elevazione, e avviarsi  a restare definitivamente sotto questo aspetto nella  storia. Quando si fa a poco a poco chiaro nella  mente di C. 1 ineluttabilità dell’evento, quando  egli è ormai costretto a vedere che non c’è più  speranza, a domandarsi: “ quae potest spes esse  in ea republica, in qua hominis impotentissimi  (violento) atque intemperantissimi armis oppressa  sunt omnia ?  (Ad Div. XI); quando deve constatare che “ tot tantìsque rebus urgemur, nullam  ut allevationem quisquam non stultissimus sperare  debeat  (Ad Div.), il suo strazio non ha  confini- Ciò che già precedentemente, quando tale  condizione di cose si delineava, egli cominciava  a sentire, civem mehercule non puto esse qui  temporibus his ridere possit  (Ad. Div.),  diventa ora il suo stato d’animo permanente. La  vita non ha più sorriso : “ hilaritas illa nostra  erepla mihi omnis est. Il suo grido è quello del coro degli Spiriti nel Fausi.   Du hast zerstòrt   Die schòne Welt   Mit màchtiger Faust ;   Sie stiirzt, sie zerfàllt !   Ein Halbgott hat sie zerschlagen !   Wir tragen   Die Triimmern ins Nichts hinuber   Und kiagen   Uber die verlorne Schòne. Questo dramma strappa a C. espressioni  di dolore profondamente dilacerante. E la sua  corrispondenza è forse la lettura più viva che l’antichità e probabilmente la letteratura d’ogni tempo  ci offra, appunto perchè, come in nessun altro scritto, vi si scorge con l’immediata evidenza della vita  vissuta e quasi vedessimo la cosa svolgersi giorno  per giorno sotto i nostri occhi, come sotto quel  dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo anche la  terribilità della sua rovina personale affligge gravemente C.: “ natus enim ad agendum   semper aliquid dignum viro, nunc non modo a gendi rationem nullam habeo, sed ne cogitandi   quidem  (Ad Div.) ; ed egli ha ragione   di deplorare di essere stato travolto proprio nel  momento in cui avrebbe potuto e dovuto, cogliendo  il frutto dell’opera della sua vita, toccare l’apice  della sua carriera. Omnis me et industriae meae  fructus et fortunae perdidisse. “ Casu  nescio quo in ea tempora aetas nostra incidit, ut  cum maxime florere nos oporteret, tum vivere  edam puderet. Certo anche la rovina che incombe sulla sua famiglia e specialmente  sulla sua figlia lo tortura. “ Quibus in miseriis  una est prò omnibus quod istam miseram patre,  patrimonio, fortuna omni spoliatam relinquam  (Ad Att.). Ma ciò che forma il crepacuore  di C. non è la sua situazione personale,  bensì il baratro in cui è precipitato lo Stato.'  “ Sed tamen ipsa republica nihil mihi est carius  (Ad Dio.). Ego enim is sum,  qui nihil umquam mea potius, quam meorum civium causa fecerim. Ma ora ? “ Ego  vero, qui, si loquor de re publica, quod oportet,  insanus, si, quod opus est, servus existimor, si  taceo, oppressus et captus, quo dolore esse debeo ?  (Ad Att.). Due sono sopratutto le note in cui erompe  1 espressione di questo suo strazio. In primo luogo,  andarsene, andarsene dovunque, pur di non veder  più simili cose: “ evolare cupio et aliquo pervenire  ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta audiam   egli ripete con un tragico antico (Ad Att.); “ ac mihi quidem  iam pridem venit in mentem bellum esso aliquo  exire, ut ea quae agebantur hic, quaeque dicebantur, nec viderem nec audirem  (Ad ‘Dio. ); longius etiam cogitabam ab urbe discedere,  cuius iam etiam nomen invitus audio. Tu mi sembravi pazzo (scrive a Curio) quando  abbandonasti Roma per la Grecia, ora veggo che  sei “ non solum sapiens, qui hinc absis, sed etiam  beatus : quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc  esse beatus potest ?  (Ad Db.). E’ il  desiderio che si fa strada persino nei suoi trattati, p. e. nelle Tusculane, dove parlando di Damarato. Io giustifica cosi : num stulte anteposuit  exilii libertatem domesticae servituti ?  O, se andarsene non si può, almeno ritirarsi in  solitudine : “ nunc fugientes conspectum sceleratorum, quibus omnia redundant, abdimus nos, quamtum licet, et saepe soli sumus  (De Off.).   In secondo luogo, morire. “ Perire satius est,  quam hos videre  (Jd Db.) < Mortem]  quam etiam beati contemnere debebamus, propterea quod nullum sensum esset habitura (I), nunc  [Che cosa pensi intimamente C. della vita  futura, risulta, non già dal quadro, avente scopi puramente  estrinseci, che traccia nel Somnium Scipionis. ma dalla  sua corrispondenza Oltre il passo sopra ricordato, e due  altri, (Ad Dw.) ricordati più innanzi, basterà  citare: « Fraesertim cum impendeat, in quo non modo  ^ or,*. verum finis etiam doloris futurus sit » (ib.  Vi, 4). E anche in altre opere di C. questo suo  vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane:  Mors. aeternum nihil sentienti receptaculum ». Cosi in  Pro Marcello c Q uo d (la fine) cum venit, omnis  voluptas preterita prò mhilo est, quia postea nulla est  futura» Cosi in Pro Cluentio (cap. LXI § 171): «quid  ei tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ?]  sic affecti, non modo contemnere debeamus, sed  etiam optare » ( ib. V. 21); la filosofia sembra  < exprobrare quod in ea vita maneam, in qua  nihil insit, nisi propagatio miserrimi temporis > ; non si sa < si aut hoc lucrum est  aut haec vita, superstitem reipublicae vivere >; « nam mori millies praestitit quam haec  pati > (Ad. AH.) ; « eis conficior curis,  ut ipsum quod maneam in vita, peccare me existimem > (Ad Div. IV. 13); « mortem cur consciscerem causa non visa est, cur optarem, multae  causae > (ib. VII, 3). In uno spirito, così profondamente romano, cioè volto all’attività pratica  e civica, la desolazione dello Stato faceva spuntare questo pensiero : « Ipsi enim quid sumus ?  aut cum diu haec curaturi sumus ? » (jdd Att.  XII, li); * quid vanitatis in vita non dubito quin  cogites > (Ad Div.). Cosi, pur nell'atto che  prevede la prossima caduta del cesarismo, dice. Allo stesso modo la pensava Cesare, il quale nel discorso,  riferito da Sallustio, da lui tenuto in Senato circa la pena  da darsi ai complici di Catilina, si oppose alla pena di  morte appunto perchè con questa cessa la coscienza e  quindi ogni male : « Eam cuncta mortalia dissolvere ; ultra  neque curae neque gaudio locum esse» (Cat. LI). Va  però notato che C. dà un’altra interpretazione a  questo punto del discorso di Cesare. Cesare cioè era  contrario alla pena di morte. Egli « intelligit, mortem a  diis immortalibus non esse supplici causa constitutam, sed  aut necessitatem naturae, aut laborum ac miseriarum  quietem esse » (In S. Catilinam).] id spero vivis nobis fore ; quamquam tempus  est nos de illa perpetua iam, non de hac exigua  vita cogitare » (Ad. Att.). E il pensiero della  morte come unico scampo e rifugio viene a grandeggiargli dinanzi in modo, che bene spesso lo  vediamo insinuarsi anche nei suoi scritti teorici :  così, p. e., nel proemio del terzo libro del De  Oratore: sed 11 tamen rei publicae casus secuti  sunt, ut mihi non erepta L. Crasso a dis immortalibus vita, sed donata mors esse videatur > (IH, 2);  e così nelle Tusculane : « multa mihi ipsi ad  mortem tempestiva fuerunt, quam utinam potuissem obire ! nihil enim iam acquirebatur, cumulata erant officia vitae, cum fortuna bella restabant. Morte per sè, morte per coloro che  amiamo ; questo soltanto è ciò che lo « status  ipse nostrae civitatis » ci costringe a desiderare :  « cum beatissimi sint qui liberi non susceperunt,  minus autem miseri qui his temporibus amiserunt,  quam si eosdem, bona, aut denique ahqua republica,  perdidissent... non, mehercule, quemquam audivi  hoc gravissimo, pestilentissimo anno adolescentulum  aut puerum mortuum, qui mihi non a Diis immortalibus ereptus ex his miseriis atque ex iniquissima  conditione vitae videretur > (Ad Div.V. 16).   Ne solo nell animo di C. il trovarsi « in  tantis tenebris et quasi parietinis rei publicæ induce il desiderio di sfuggire a  questo sfacelo con la morte ; ma tale sentimento  era certo diffuso. Nella bellissima lettera con cui    G. Renai • Vita parallele di due filosofi] Servio Sulpicio cerca di consolare C. per  la morte della figlia, 1 argomento principale che  egli fa valere e, nelle circostanze presenti, “ non  pessime cum iis esse actum, quibus sine dolore  licitum est mortem cum vita commutare  e che  Tullia visse finché visse lo Stato, “una cum republica fuisse  (Ad Dio.) ; al che C.  dolorosamente risponde che l’attività pubblica lo  consolava dei dolori domestici, l’affettuosa intimità  con la famiglia delle traversie pubbliche, ma ora  “ nec eum dolorem quem a re publica capio domus iam consolari potest, nec domesticum res publica. Ed anche in Catullo, il disgusto invincibile suscitatogli dai “ turpissimorum  honores , disgusto che faceva gemere dal suo  canto C., cosi ; “ o tempora ! fore cum dubitet Curtius consulatum petere ?  (Ad Att. XII,  49, e circa Vatinio II, 9) suscita 1’ aspirazione  alla morte (LII) :   Quid est, Catulle ? quid moraris emori ?   Sella in curulei struma Nomus sedet,   Per consulatum peierat Vatinius ;   Quid est, Catulle ? Quid moraris emori ? Donde attinge C. qualche conforto in  questa immensa iattura ? Non dal foro che egli  (interessante confessione) dichiara di non aver mai  amato e nel quale del resto oggi non c’è più nulla  da tare : “ quod me in forum vocas, eo vocas,  unde, etiam bonis meis rebus, fugiebam : quid enim  mihi cum foro, sine iudiciis, sine curia ?  (Jld  Jltt. XII, 21). Era il momento in cui i vincitori  della violenta lotta politica, giravano per Roma  baldanzosi ed allegri, e i sostenitori dello Stato  legale, battuti, erano melanconici : “ Mane salutarne domi et bonos viros multos sed tristes,  et hos laetos victores, qui me quidem perofficiose  et peramenter observant  {Ad Div.). Due  di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano messi a  prender lezioni d’eloquenza da lui, o forse, con  questo pretesto, lo sorvegliavano per conto di Cesare. Anche queste lezioni recano a C. qualche sollievo {yld Di\>. IX, 18). In maggior misura, egli ne ricava dal far udire, quando e come  era possibile, qualche parola di ammonimento. Così,  pur avendo risoluto di non più parlare in Senato,  allorché sulla universale istanza di questo, Cesare  amnistia Marcello (che non aveva fatto nessun  passo per essere richiamato e sembrava non desiderarlo  e che fu, del resto, assassinato da un  suo impiegato nel momento in cui stava per partire alla volta di Roma), C. prende la pa (0 La voce dei gaudenti sfruttatori di situazioni immorali rinfaccia sempre a coloro che le condannano, come  un torto, di essere afflitti o melanconici. Cosi quella voce  si fa udire, secondo Seneca : c Istos tristes et superciliosos  alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos  assis ne feceris » (Ep.). ] rola per ringraziare il dittatore ; ma sa anche attraverso i ringraziamenti esporgli il parere più  libero e ^coraggioso che forse mai Cesare abbia  sentito. “ Quodsi rerum tuarum immortalium (egli  ha 1 ardue di significargli) hic exitus futurus fuit,  ut devictis adversariis rem publicam in eo statù  relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne tua  divina virtus admirationis plus sit habitura quam  glonae . (Pro Marc. Vili). Tu devi, egli incalza,  preoccuparti della vera gloria, del giudizio che daranno i posteri sulle tue azioni, saper considerare  ciò che tu fai, non cogli occhi abbacinati dei contemporanei, ma con quelli di coloro che giudicheranno le cose a distanza, nell’avvenire. Se tu non  avrai ristabilito la vera legalità nello Stato, tu sarai certo sempre ricordato, ma non con giudizio  concorde : “ erit inter eos etiam, qui nascentur,  sicut mter nos fuit, magna dissensio, cum alii laudibus ad caelum res tuas gestas efferent, alii fortasse ahquid requirent, idque vel maximum, nisi  belli cmlis incendium salute patriae restinxeris, ut  illud fati fuisse videatur, hoc consilii. E questo un nobilissimo linguaggio da cittadino  onesto e d’animo forte ; linguaggio che, bisogna  riconoscerlo, Cesare sa ascoltare, come altri e ben  più vivaci attacchi contro di lui, con tolleranza ed  equanimità, “civili animo,, (Svet,, Caes., 75). Anche C. nella sua corrispondenza talvolta  constata che Cesare andava orientandosi a mitezza. P. e.:] L intolleranza, 1 oppressione, 1 uso del potere per  far tacere censure al detentore di esso, e persino  per impedire di rispondere agli attacchi, comincia  con Augusto ; ed è ciò che fa uscire Asinio Pollione (lo stesso, alla nascita del cui figlio il servile  Virgilio, pronto a vendersi a tutti i potenti e a  prostituire poi il suo genio a colui che tra questi  occupa nella storia per bassezza e nequizia uno degli nam et ipse, qui plurimum potest, quotidie mihi delabi  ad acquitatem et ad rerum naturam videtur  Ad Dio.  VI, 10!, Che cosi fosse (ed è la stessa cosa che accadde  con Augusto) è naturale, perchè, se un uomo non è straordinariamente perverso, il suo grande successo e trionfo  personale lo rende incline alla benevolenza verso gli altri,  a diffondere anche intorno il sentimento di felicità che il  successo gli dà. Solo un uomo dal cuore fondamentalmente malvagio nel suo più pieno e grandioso trionfo,  quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più  duro e crudele, e non è pago se non condisce quel trionfo  col darsi la sensazione di poter a suo beneplacito tormentare, perseguitare, far soffrire altri uomini. Tale era  Siila, secondo le parole che Sallustio mette in bocca ad  Emilio Lepido : Cuncta saevus iste Romulus, quasi ab  externis rapta, tenet, non tot exercituum clade neque consuhs et aliorum principum, quos fortuna belli consumpserat, satiatus : sed tum crudelior, curri plerosque secundae  res in miserationem ex ira vertunt  (Hist. Fragni.). Raramente, si, ma però talvolta avviene che un uomo, favorito dalia più straordinaria fortuna, diventi sempre più  bramoso di far del male agli altri. “ Felicitas in tali ingenio avaritiam, superbiam ceteraque occulta mala patefecit  (Tac., Hist.] Itimi posti, Ottavio, dedica la sconciamente  cortigiana e piagg.atr.ee Egloga) nell’elegante  epigramma, riportato da Macrobio (Satura II 4)  che non si può più scrivere dove in risposti si  può proscrivere : temporibus triumviralibus PoIIio  cuna fescenmnos,n eum Augustus scripsisset, ait:   g taceo ; non est emm facile in eum scribere  qui potest proscribere (2)   Più ampio conforto ricavò C. dagli studi,  bbene una volta fuggevolmente accenni che forse  senza la sua cultura sarebbe più atto a resistale!  exculto emm animo nihil agreste, nihil inhuma- Si vegga nel libro diV. Alfieri D»/ p •, »    I  J1 '> e la dimostrazione che questa   viltà ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte divTna  e ha per base il vero robusto pensare e sentire tm-,1  niente manca in VIRGILIO (si eda)  (L.) “ V  -esse avuto nell’animo quella   P napesco, assai maggiore sarebbe stato egli stesso e  quindi assai maggiore il suo libro  (L. II C VI •  vegga anche il C. Vili) E il Canti 1 . Ci  j ;•, C S ‘   uh. ed. I. 582 n 94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani, V l D VIRGILIO (si veda) si lascia traricchire anche Boissier, Lopposition sous tes Césars p. I3Ì”   RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma ’ senza citare la fonte il   Les e Rom P - r0ba . b,,mente a memor ia, la seguente versione:  Les Komains disaient avec raison qu’ il est rare mi’ num est . (Ad Alt.) ; e sopratutto dallo  studio della filosofìa, la passione per la eguale '’quotidie ita ingravescit, credo et aetatis maturitate ad  prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia  levare animum molestiis possit.  (Ad Dio. IV, 4).  Le sue lettere di questo periodo sono piene delle  sue attestazioni che non vive se non negli studi  filosofici e non trae conforto che da essi. Ad aumentare  questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero  dalle calamita dello Stato, s aggiunge la sua attività di scrittore. Sono questi gli anni della sua  intensa e feconda produzione filosofica. Nisi mihi  hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae,  quo verterem me non haberem  (Jld Alt.) Equidem credibile non est, quantum scribam  die, quin etiam noctibus, nihil enim sommi. “ Nullo enim alio modo a miseria quasi  aberrare possum. Vero è che le  afflizioni e le ìnquietitudmi, I incertezza dell’avvenire, derivanti dal pessimo andamento degli affari  pubblici, non permettono piena pace nemmeno nello  studio : Utinam quietis temporibus, atque aliquo,  si non bono, at saltem certo statu civitatis, haec  inter nos studia exercere possemus !  Però, appunto in tali circostanze, “ sine his cur vivere velimus ?  (Ad Dio. IX, 8). Così nascono i trattati di filosofia di C., circa i quali si cita  sempre per aiutare a deprezzarli la fuggevole frase  “ sono copie  cascatagli dalla penna scrivendo al suo amico e certo come convenzionale espressioni   t Xlì Vf fr ° nte j 1Iammiraz ' on e di lui (Ad  X ’ ’ ma 51 dimentica di affrontare tale  fra e con le sue numerose e consuete esternaziom  dalle quali risulta che ben altra era la stima ch’egli   off" 3 de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “ Res difficiles  (ib. XII  38) egli dice di star scrivendo ; quanto alle Jìc G Q rto -5 C ° nVInt,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere ne aVud, cos quidem simile quidquam   le chiama “ argutolos libros  ^ XIli.Y 8,00^   XIII 19? ac n ra ? posset supra ” r/4. ); 1 libri del De Oratore gli sono “ ve  hementer probati (ib.) e così il De Finibus ib   ?AJ ÀI XvT i, soddisfa Attico   bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT L'P'a (M   AA- (  eSpnme anehe,a sua Propria   soddisfazione per queste due opere ; » mihi vakle   pbcent, maHem tibi dice dei libri, perduti d!  Giona (Ad Ali). In particolare, i| e  sua opere filosofiche le Tusculane, che facilmente  si prendono per un mero esercizio letterario, sono invece un libro profondamente vissuto, rampollato  da a tragica realtà di vita i cui C." si dibatteva e che come tale, come idoneo cioè a fornir conforto e forza in quelle circostanze doveva  essere generalmente sentito, e certo da Attico se  C. gl, scrive : “ quod prima disputatio Tuscu ana te confirmat, sane gaudeo : neque enim  ndhim est perfugium aut melius aut paratius (XV, 2 e v. anche XV, 4). Bel libro, che in  ogni epoca, nelle medesime circostanze da cui  esso è nato, è servito allo scopo per cui era stato  scritto : “die Eroica der romischen Philosophie   come con calzante espressione lo definisce lo Zielinski. Ma il supremo conforto di C. è  un altro. Esso consiste non tanto nell’ immergersi nella  filosofia come un’occupazione mentale opportuna  a distornare il pensiero da quello che poi Lucano,  il grande poeta anticesariano, definirà “ ius sceleri  datum, quanto nel rivivere in sè i concetti della filosofia come atti a fornire forza d'animo per affrontare e sopportare le sciagure derivanti da una situazione politica e sociale particolarmente triste : filosofia cioè non come “ostentationem scientiae, sed legem vitae  ( Tusc.).  Anche in lui, per usare l’espressione di cui poi si  servì Marco Aurelio zi 5 óypaia. Giustissimamente Moricca. Saremmo forse anche noi tentati di ritenere l’operetta tulliana un’amplificazione rettorica, se non pensassimo che  quelle parole... furono scritte per una generazione d’uomini... nelle cui orecchie esse... andavano diritte al cuore . Un libro di morale dell’epoca di C. è da considerarsi non come una fredda e vuota argomentazione  rettorica bensi come un’eco squillante delle voci del passato, che sale dalle tombe e vince i secoli. Secondo il testo di Trannoy, Les Belles Lettres. bisogno di vivere tali precetti A' i,• .  ventar succo e sangue e il f T l d ‘ faHl dl  gere a ciò, C. Lnl f" 0 S ° rZ ° per 8 iun '  maniera singola,«sima, scnVoSo^v"' 0 i'I “ na  consolazione a se stesso “ D • Un ^ ro dl  profecto anfe me TeZ. ^Z 'T   consolarer ; que m librum jf . me per i‘ tera s  serint librari; affirmo tibi^nuLm” 3 " 1 S ‘,^'P'  esso talem ; totos die® U c °nsolationem   quid, sed t n^sper 1 C ;,b ° 5 T“ qU ° proflci ™  XII 14) p t,sper im P e dior, relaxor  (Ad 4tt  'a ll'Tlzr ™ di r'*   d«e meditazioni morali!^ e8mam0 le Mslre   '4«fr-r v lLStó et,r°d servire 4   stoicismo, di cui poi in,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,, °  e d oppressivi, uomm Lme° Tm "p" ^ tehi   vid.o Prisco fornirono ° Peto ed EI ’   e che successivamente si anc ° Ta p ‘ù insigni,   .1 hiosofo :z :L: r, ai ^   cristiano, il sacerdnie • ’ p ° SCIa> n el mondo   ci i,Tat' e ' x:; a ” d f «   molti tenevano costantemente in d m ° nre ’ anZI  rettoredi coscienza e confortatore, iHoro ZofoOX. Plauto, fatto morire da Neron» •  mi istanti assistito e confortato dai “ / V ‘ ene " ei 3U0 ' u,tl  Cerano e Musonio (Tac., Ann. XwTv)), Trlse^’’] O Socrates et socratici viri ! (esclama C., qui, veramente riguardo a traversie di carattere privato). Numquam vobis gratiam referam Un immortales quam m ihi ista prò nihilo,, (Ad Alt.  XIV, 9). Attico (egli scrive al suo liberto e segretario Tirone) mi vide agitato, crede che sia sempre lo stesso, “nec videt quibus presidii philosophiae  septus sim  (Ad Div.). La disperata  e rovinosa condizione dello Stato “ quidem ego  non ferrem nisi me in philosophiae portum contulissem  (ib. VII, 30). “ Equidem et haec et  omnia quae homini accidere possunt sic fero ut  philosophiae magnam habeam gratiam, quae me  non modo ab sollecitudine abducit, sed etiam contra omnes fortunae impetus armat, tibique idem  censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quidquam m malis numerandum  (Ad Di\>.)   E noi vediamo veramente questo pensiero centrale  dello stoicismo, cioè lo sforzo di distornare il  proprio interesse da ogni cosa esteriore per concentrarlo unicamente nel nostro comportamento, e  m ciò trovare appagamento e pace (questo, come  si può chiamare, ottimismo della disperazione, che  e il solo che resta nei momenti di maggiormente  infelici condizioni esterne, perchè vuole appunto,  riconoscendo tale inguaribile infelicità, trovare an  Demetrio: e Seneca dice di Cano.  dato al supplizio da Caligola, “ prosequebatur illuni  Losophus suus  (De Tranq. An.).  man phi- ] cora una tavola di salvezza), vediamo questo pensiero centrale dello stoicismo svelarsi sempre più  chiaro agli occhi di C. e proprio come postogli innanzi delle circostanze di fatto. “ Sic enim  sentio, id demum, aut potius id solum esse miserum quod turpe est  (Ad Att. Vili, 8 e v.  anche X, 4). “ Video philosophis placuisse iis  qui mihi soli videntur vim virtutis tenere, nihil esse  sapientis praestare nisi culpam  (Jld Dio. IX, 19).  Cogliamo il procedere di questa appassionante tragedia, per cui un uomo di indole ilare e disposto  a gioire delle cose, degli spettacoli naturali, delI arte, della letteratura, delle relazioni sociali, delI attività pubblica e anche della ricchezza, è, a  poco a poco, dal rovinio politico, risospinto entro  se stesso e costretto a vedere e cercare la felicita soltanto nel proprio retto comportarsi. Le  meditazioni filosofiche (scrive a Varrone) ci recano ora maggior frutto “ sive quia nulla nunc in  re alia acquiescimus, sive quod gravitas morbi  tacit, ut medicmae egeamus eaque nunc appareat,  cuius vim non sentiebamus cum valebamus (Ad  r i0 ’ IX> 3 \ Naturalmente con questo alto sentimento a cui C. è ora pervenuto, il pensiero della morte, qui fonte anchesso di consolazione e forza, viene a intrecciarsi. “ Nunc vero,  eversis omnibus rebus, una ratio videtur, quicquid  e veni t ferre moderate praeserlim cum omnium rerum  mors sit extremum magna enim consolatio est cum  recordere etiamsi secus acciderit te tamen recta vereque sensisse (Ad Div.). “ Nec enim  dum ero angar alia re, cum omni vacem culpa ;  et si non ero, sensu omnino carebo  (ib. VI, 3)  Il crollo dello Stato è cosa gravissima, “ tamen  ita viximus et id aetatis iam sumus, ut omnia quae  non nostra culpa nobis accident, fortiter ferre debeamus  (Jld Div.).   E tali pensieri, tali alti ed austeri conforti ed  incoraggiamenti, i grandi spiriti di quel periodo si  scambiavano tra di loro, prova, sia di quanto il  dolore per la catastrofe dello stato era largamente sentito, sia dell’estensione che a lenimento di  questo dolore siffatto ordine di pensieri allora aveva preso. È la genuina visuale stoica a cui i nefasti  avvenimenti politici ha tutti guidati. Non aliundo pendere, nec extrinsecus aut bene aut male vivendi suspensas habere rationes (Ad Div.). Se C. ad ogni momento ripete di sè  quidquid acciderit, a quo mea culpa absit, animo forti feram (Ad Div.), nec  esse ullum magnum malum praeter culpam. Sed tamen vacare culpa magnum est  solatium. Se per sè pensa -- fortunato, quam existimo levem et imbecillam, animo firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo frangi  oportere. Se l’esperienza di quella  dolorosissima fase lo fa approdare alla definitiva conclusione che -- in omni vita sua quemque a recta  conscientia transversum unguem non oportet discedere (Ad Att.) — queste sono amici, « a Lucccio  humanas contemnentem et opule Cont r 7  c g  vi  {Ad0 7   casu, et deiicto h Z,n non aP r l “ 1U,piludi ”' non  veri  (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una commo Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° ; " “ÌJ   digni et Ss TstrrdublteTo; ea maxime conducant ! P ° SSimus) : e a Torquato ‘ ‘ f T Tectl8s  (A.   praesertim quae absit a   ancora a Torauato  “ P ) e   delio Stato) vereor ne I ^ n 3 ' (,a rovina  teperiri, praete, i|| am q “ a TtaMa"e“ “ P °7   “r: e, atque noTZIt,»   questi sentimenti ogni IralToìtTd' !“l “ 7 ° a  anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e oh 7 ?   scrive Sulpicio in morte di Tullia) Cicerón  1 et eum aui a Ine ' '-',cer °nem esse  ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et dare conIli    silium quae alns praecipere soles, ea tute tibi  subirne, atque apud animum propone; vidimus aliquotiens secundam pulcherrime te ferre fortunam  fac ahquando intelligamus adversam quoque té  aeque ferre posse. Dalle lettere di C. si potrebbe così ricavare un antologia di massime di vita stoica da  servire efficacemente in ogni tempo al ripresenarsi di analoghe circostanze (e tale è forse sopratutto la ragione per cui queste lettere suscitarono  in ogni tempo I ammirazione, anzi il culto di nobili animi), pm efficacemente ancora che non i suoi  trattati, come le Tusculane e il De Officiis, ove  egli dava sistemazione teorica alle medesime idee  1 qual, però appunto perchè non contengono se’ non quelle dee morali che, suscitate in C.  dalle vicende di ogni giorno, riempiono la sua corrispondenza, ci si ridimostrano, non mere esercitazioni letterarie, ma anzi libri cresciuti su dalla  vita vera e scritti col sangue che le ferite inferte  da questa facevano stillare dal suo cuore. « Herzenphilosophen > chiama giustamente C. lo]  Plutarco racconta (Oc 49) che un giorno OTTAVIANO essendosi accorto che un suo nipote scorgendolo nascondeva impaurito un libro sotto la  oga, glielo prese, e visto che era di C. ne  lesse un tratto, poi lo reshtui al ragazzo, dicendo •  uomo dotto e amante della patria, Xó r,o : *vl'  ?. «rat, io T,o £ *«l Tardo (come al so’   hto) riconoscimento del meriti di colui che egli aveva raggirato, tradito, abbandonato al carnefice Ma  C. e qualcosa di più. Spirito altissimo e   st'anzetn m n “'T'? 1 "” da »! le circoero \  j " 6 r 1 ' **' vivere, espres.   sero, m ragione di tale sua sensibilità, una soma   d dolore enorme, egli seppe da questa esperienza  d, dolore trarre un-espenenza morale di elevazione   e di purificazione del dolore stesso nel fuoco della  filosofia intesa come via, di cui molti e b   dTrendl' ' aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò  che rende appassionatamente attraente la sua grande   figura alla quale veramenle-secondo un penTero   che trova eco sino m Giovenale (Vili, 243)-e   Roma' ltf !a " “ u la 8erva arl “lazione lo dava   Sr p a,t a, a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad Sed Roma parentem, Roma patrem patriae C.m libera dixit. Platone  Ultime pubblicazioni dello stesso Autore Pesco Piente Fu, un [Mi|an0i CogliariJ.  f? Ap ° r ' e Jella R'Hgiont [Catania, - Etna 1  Motwl Spirituali Platonici [Milano, Gilardi e Noto]   nSTT, d ' W Jr aZl0nalim0 |N«poli. 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E. al Mere (e Ilo LA RETORICA  Avvegnaché, impedito d agli affari domestici,  a fatica io possa dar tempo bastante allo stadio, o  questo medesimo tempo, che mi è concesso, più  volentieri io soglia nella filosofia impiegare, nondimeno la tua volontà, o Gaio Erennio, mi ha mosso a scrivere dell’ arte del dire, acciocché tu non  islimassi o non aver io per amor tuo voluto o sì  veramente avere la fatica fuggito. E tanto più studiosamente quest’opera ho presa, in quanto che  sapeva che non senza un motivo volevi imparar la  Rettorica. Imperciocché non picciol frutto ha in sè  l’abbondanza del dire congiunta alla facilità dell’orazione, se governata venga da una diritta intelligenza, e da una ragionevole moderazione di animo. Laonde io ho lasciate da parte quelle cose,  che per una specie di ostentazione gli scrittori Greci  nei loro libri raccolsero. Li quali per non parere  di saper poco andarono in cerca di cose al tutto    Digitized by Googte     4    LA RLTTORICA    (    estranee, a cagione che l’arte si giudicasse cosa  difficile ad apprendersi: ed io per lo contrario non  ho tolto che quelle, che mi parevano dirittamente  appartenere al suggello. Imperciocché io, non già  per la speranza del guadagno o da una vana ambizione stimolato, mi sono posto a scrivere, siccome fanno molli , ma sì solamente per appagare ,  com’ io poteva, i tuoi dcsiderii. Ora, per non proceder tropp’ oltre con vane parole, comincerò a  trattar l’argomento, avvisandoli in prima che l’arte  senza l’assiduilà del dire non giova gran fatto; talché devi intendere che questa ragione del precetto  vuol essere acconciala nell’esercizio.   II. Il dovere dell’oratore si è di poter parlare  di quelle cose, che all’ uso civile sono regolate  dalle costumanze e dalle leggi, conciliandosi, per  quanto ei può, l’approvazione di chi lo ascolta.  Tre sono i generi delle cause, che l’ oratore deve  prendere: il dimostrativo, il deliberativo, il giudiziale. 11 dimostrativo è quello, che si propone o  la lode o il biasimo di alcuna determinata persona. Il deliberativo è quello che, proprio alla consultazione, ha perfine o il persuadere o il dissuadere. Il giudiziale è quello che, proprio alla controversia, comprende in sé accusa o dimandagione  con difesa. Dirò ora le condizioni, che aver deve  un oratore: poscia dimostrerò come debbono essere trattali questi tre generi di cause. È neccssa  Digitized by Google    rio adunque die un oratore abbia invenzione, disposizione, elocuzione, memoria, e pronunciazionc. L’invenzione è un pensamenlo di cose vere o  verisimili, che valgano a far degna di approvazione la causa. La disposizione è un ordine c una  distribuzione delle cose, la quale c’insegna dove  debbasi collocare ciascuna di esse cose. L’elocuzione è alle cose trovate un adattamento di parole  e sentenze idonee. La memoria è un fermo comprendimento dell’animo delle cose o delle parole,  c della disposizione loro. La pronunciazione è un  moderamento della voce del volto e del gesto con  • venustà. Tre cose ciconduconoall'acquisto di tutte  queste doli; l’arte, l’imitazione, el’esercizio. L’arte  è un insegnamento, che ci somministra una via determinata c la maniera del dire. L’imitazione è quella, per la quale noi siamo spinti con sollecita cura  a voler rassomigliare ad alcuno nel dire. L’esercizio è un assiduo uso, ed una consuetudine del dire.   III. Poiché adunque abbiamo dimostralo quali  cause dee prendere l’oratore, e di quali doti essere  fornito, diremo ora come si possano queste proprietà dell’oratore applicare alla composizione di  un discorso. L’invenzione compiesi tutta in sei  parti del discorso, cioè in esordio, narrazione, divisione, confermazione, confutazione c confusione. L’ esordio è principio di orazione, pel quale  l’animo dell’ uditore si dispone all’ attenzione. La     (i LA UETTOIUCA   narrazione è l’esposizione di cose avvenute, o che  si danno come avvenute. Ln divisione è quella, per  cui poniamo in chiaro ciò, che si ha per consentito, o che si adduce in controversia; e per cui  esponiamo le cose di cui dobbiamo tratiare. La  confermazione è una esposizione dei nostri argomenti con affermazione. La confutazione è un solvimenlo degli argomenti conlrarii. La conclusione  è un artificioso termine del discorso. Ora, poiché  ad una colle doti proprie dell’ oratore, siamo ^  nuli, onde la cosa fosse più facile a comprendersi, a far parola delle parti del discorso, attribuendole all’ invenzione, sarà conveniente di parlare innanzi dell’ esordio. Posta la causa, affinché l’esordio sia più acconcio al soggetto, bisogna esaminare qual è il genere della causa. Quadro sono  i generi delle cause, l'onesto, il turpe, il dubbio,  e l’umile. La causa è detta del genere onesto,  quando noi difendiamo ciò, che sembra meritevole di essere difeso da tulli, od oppugnamo ciò,  che sembra meritevole di essere oppugnato da  tutti, come se parliamo in favore d’un uomo prode  o contro un parricida. Si chiama genere turpe,  quando si oppugna cosa onesta, o si difende quella,  che è disonesta. Dubbio genere è, quando la causa  è in parte onesta e in parte disonesta. Umil genere è, quando si mette innanzi cosa comunemente  dispregiata. Stando le cose in questi termini, converrà  adattare la qualità degli esordii al genere della  causa. Due sorti di esordii vi sono: l’esordio diretto, che i Greci chiamano proemio, c l’ esordio  per insinuazione, detto da loro efodo. L’ esordio  diretto è quello, pel quale senza più ci possiamo  rendere 1* animo dell’ uditore disposto ad udirci.  Esso si tratta in guisa da far per l’appunto attenti,  docili, e benevoli gli uditori. Se noi avremo il genere della causa dubbio, cominceremo dal dimandare benevolenza, onde non ci riesca di danno quella parte, ch’ei conterrà, di bruttezza. Se il genere  della causa sarà umile, ecciteremo l'attenzione. Ma  se il genere della causa sarà turpe, allora useremo  l’esordio per insiimazione (del quale parleremo più  sotto), a meuo che non ci fosse avvenuto di trovar  cosa, per la quale, accusando l’avversario, potessimo ottener benevolenza. Se poi il genere della  causa sarà onesto, noi potremo a nostra volontà  usare o non usare I’ esordio diretto. Se vorremo  usarlo, o ci bisognerà mostrare ciò, che fa onesta  la causa, od esporre brevemente il soggetto, che  prendiamo a trattare. Se non vorremo usarlo , ci  bisognerà incominciare citando una legge, un testo, o qualche altra cosa, che sia di fermo appoggio alla nostra causa. E poiché noi vogliamo avere  l’uditore docile, benevolo, ed attento, farò aperto  in che modo si possa ciascuna di queste tre cose ottenere. Noi potremo aver docili gli uditori, se  esporremo brevemente il punto principale della  causa, ed ecciteremo la loro attenzione; perocché  è docile colui, che è disposto ad ascoltare attentamente. Li avremo attenti, se noi prometteremo  di aver a dire cose importanti, nuove, straordinarie, o cose, che riguardino lo stato, o coloro stessi, che ci ascoltano, o il culto degli Dei immortali;  e se pregheremo che ci ascoltino attentamente; e  se esporremo con ordine le cose, che noi prendiamo a trattare.   V. Benevoli ci possiamo rendere gli uditori per  quattro modi: parlando di noi medesimi, degli avversari^ degli uditori, e del soggetto stesso. Noi  riporteremo benevolenza parlando di noi medesimi, se loderemo senz’arroganza l’uffìzio nostro, o  ricorderemo ciò, che facemmo a prò della repubblica, o dei parenti, o degli amici, o di quelli stessi, che ci ascoltano; purché tutte queste cose si  convengano al soggetto, di cui si tratta. E parimente se andremo discorrendo le miserie nostre,  siccome povertà, carcerazione, avversità; c se pregheremo che ci diano aiuto, e dimostreremo nello  stesso tempo che non abbiamo voluto collocare in  estranei la nostra speranza. Noi accatteremo benevolenza parlando degli avversari, se li addurremo  nell’odio, nell’invidia, nel dispregio. Li addurremo  nell’ odio, se manifesteremo di essi alcun fatto o    4   turpe o orgoglioso, o perfido o crudele, o arrogante, o malizioso, o iniquo. Li trarremo nell’ invidia, se porremo innanzi la loro forza, la potenza,  la fazione, le ricchezze, l’ambizione, la nobiltà, le  clientele, l’ospilalilà, le amicizie, le parentele: o  dimoslremo ch’eglino più confidanoin queste cose  che nella verità. Li avvolgeremo nel dispregio, se  metteremo innanzi la loro inerzia, la dappocaggine, la pigrizia, la lussuria. Noi raccoglieremo benevolenza parlando degli uditori, se recheremo in  mezzo i giudizi nei quali essi diedero prova di coraggio, di sapietqp, di clemenza, di magnanimità;  e se faremo aperto quale slima si abbia di essi, c  quale sia l’aspettazione del presente giudizio. Parlando poi del soggetto medesimo ci renderemo  benevolo l’uditore, se innalzeremo la nostra causa  lodandola, e deprimeremo quella degli avversari  dispregiandola. : ì-m   VI. Parleremo ora dell’esordio per insinuazione.  Tre sono le occasioni, in cui non possiamo usare  l’ esordio diretto, le quali sono diligentemente da  considerare; o quando abbiamo una causa disonesta, voglio dire, quando il soggetto medesimo ci  fa contrario l’ animo dell’ uditore; o quando 1' animo dell’ uditore pare essere stato persuaso da chi  innanzi parlò contra noi; o quando esso è già stanco delle parole di chi arringò prima. Se dunque  la causa è del genere turpe, potremo per insinua   10    LA RETT0R1CA    zione cominciare con queste ragioni: essere d’uopo  riguardar la cosa, non la persona ; o la persona,  non la cosa; non approvare neppur noi quelle azioni che gli avversari nostri affermano essere stale  fatte, e sì essere indegne e nefande. Appresso, allorché avremo discorso a lungo della gravità del  fatto, proveremo che nulla di simigliando è stato da  noi commesso; o metteremo innauzi un giudizio  pronunziato da altri giudici intorno ad una causa  simile, o identica, o minore, o maggiore. Di poi a  poco a poco ci accosteremo al nostro soggetto, e  verremo a confrontamenlo. Ottenerli pure lo scopo, se dichiareremo di non voler dir nulla degli  avversari o di alcun fatto toro, e nondimeno copertamente ne parleremo lasciando sfuggir parole.  Se 1’ uditore sarà stato persuaso, vale a dire se il  discorso degli avversari avrà indotta la convinzione  negli uditori ( il che non sarà diffìcile di conoscere, poiché ci sono noti i mezzi, con cui possiamo  indurre la convinzione ); se noi, dico, giudicheremo indotta la convinzione, ecco quali saranno le  diverse maniere ondeinsinuarci per entro alla causa: prometteremo in prima di parlare di ciò, che  l’avversario avrà messo innanzi come suo più fermo sostegno; o cominceremo da uno de’suoi detti  e soprattutto da uno degli ultimi; o useremo la  forma del dubbio, mostrandoci incerti di ciò che  dobbiamo dire o confutare in prima con pieno nostro stupore. Se poi sarà di già stancala F attenzione dell’ uditore, noi cominceremo da qualche  cosa, che muover possa il riso, come sarebbe o da  un apologo, o da una favola, o da un contraffacimento, o da una storta interpretazione, o da una  inversion di parole, o da un equivoco, o da un indovinello, o da uno scherzo, o da una giulleria, o  da una esagerazione, o da un acconciamento e mutamento di lettere; e inoltre promovendo aspettazione, recando una similitudine, una novità, un  fallo accaduto, un verso; o approfittandoci ad una  interpellazione, ad un sorriso di alcuno; o promettendo di lasciar da parte molte cose, che avevamo  in animo di dire; e di non voler parlare in quella  forma, in cui sogliono gli altri, con esporre brevemente in questo caso e il metodo altrui e il nostro.   VII. Ecco il divario, che passa tra F esordio per  insinuazione e F esordio diretto: l’esordio diretto  deve esser tale, che subitamente, recali innanzi gli  argomenti già da noi detti, ci rendiamo F uditore  o benevolo, o attento, o docile: ma l’esordio per  insinuazione deve esser tale, che copertamente per  dissimulazione diveniamo al medesimo scopo di  ottenere l’esposto vantaggio nell’esercizio del dire. Ma questi tre vantaggi benché si debbano aver  di mira per tutto il corso dell’orazione, voglio dire  che gli uditori ci si mostrino continuamente attenti, docili e benevoli; pure ciò debbesi soprattutto cercar di conseguire a prò della causa per mezzo  appunto dell’ esordio: Ora mostrerò quali sono i  difetti, che dobbiamo schivare per non fare un  esordio vizioso. Nel cominciare il discorso conviene aver cura che il dire sia piano, e le parole comunemente accettale nell' uso per non essere tacciati di affettazione. È un esordio vizioso quello,  che può convenire a più cause; il quale esordio  chiamasi volgare. Parimente è vizioso quello, che  si adatta così alla causa dell’ avversario come alla  nostra; il quale chiamasi comune. È anco vizioso  quello, onde l’ avversario può far uso contro di  noi, indottavi una leggiera mutazione. Medesimamente è vizioso quello, che è composto di parole  troppo studiate, o è troppo lungo; e sì quello, che  non par nato naturalmente dal soggetto, di guisa  che si leghi senza stento alla narrazione ( il qual  chiamasi esordio staccato, e in cui si comprende  anche l’esordio traslato); e quello finalmente, che  non rende nè benevolo, nè docile, nè attento l’uditore.   Vili. Ma dell’ esordio basti il fin qui detto: passiamo ora alla narrazione. Di narrazioni ci ha tre  generi. Il primo è quando esponiamo un fatto, e ne  tiriamo ogni circostanza a nostro vantaggio per ottenere vittoria; il qual genere appartiene appunto a  quelle cause, che si espongono ad essere giudicate. Il secondo genere di narrazione è quello, che alcuna volta interviene nel mezzo della causa per motivo di prova, o di accusa, o di transizione, o di ap-*  pareccliiamento, o di lode . Il terzo genere è quello,  che è bensì estraneo alla causa civile, ma nel quale  conviene nulladimeno esercitarsi per poter più acconciamente trattar nelle cause quei due generi di  narrazione, che abbiamo detto di sopra. Di colesta  narrazione ci ha due specie, 1’ una che riguarda le cose, l’altra le persone. Quella specie, che riguarda le cose, ha tre parli, la favola, la storia, la supposizione. La favola è quella, che contiene cose,  nè vere nè vcrisimili; come quelle, che si hanno  nelle tragedie. La storia è un fatto accaduto, ma  lontano dalla memoria del tempo nostro. La supposizione è una cosa finta, ma che nondimeno potè  accadere, come i fatti supposti delle commedie.  Quel genere di narrazione, che riguarda le persone, deve contenere le grazie del dire, la diversità  dei caratteri, la gravità, la leggerezza, le speranze,  i timori, i sospetti, i desiderii, la dissimulazione,  la pietà, i variamenti delle cose, i mutamenti della  fortuna, gl’ inaspettati mali, losubite allegrezze, i  lieti fini. Ma l’esercizio è maestro a siffatto genere  di narrazione. Discorriamo ora solamente di quel  genere che è proprio di una causa vera.   IX. È necessario che la narrazione abbia tre qualità, che sia breve, chiara, e verisimile: le quali  condizioni, poiché sappiamo essere indispensabili, vediamo come si possano conseguire. La narrazio* ne sarà breve, se cominceremo là donde è necessario incominciare; e se non risaliremo alle prime  origini delle cose; e se narreremo sommariamente  e non partilamente; e se non discenderemo sino  alle ultime conseguenze, ma ci fermeremo là dove  basti ; e se non daremo luogo a digressioni; e se  . non devieremo dal soggetto, che avremo preso; e  se in guisa esporremo gii esili delle cose, che indovinar si possa ciò che è stalo fallo innanzi, benché noi lo tacciamo; come se, per esempio, dirò:   « che io sono ritornalo dalla provincia », s’ intenderà ancora che io era andato nella provincia. E al  lutto sarà meglio tacere non solo ciò che è contrario alla causa, ma anche ciò che non è ad essa nè  contrario nè favorevole. Ed è anco a guardare di  non ripetere due o tre volle la cosa medesima; e  di non ripigliare a capo di ogni frase ciò che è  stato dello in finediognuna, come in questo esempio : « Simone arrivò la sera da Atene a Megara;  dappoi che fu arrivato a Megara, lese insidie alla  donzella; dappoi che le ebbe tese insidie, lefe’ violenza nel luogo stesso ». La narrazione sarà chiara, se noi esporremo prima ciò che è stalo fatto  prima, e conserveremo l’ ordine delle cose e dei  tempi così come le cose saranno state fatte, o come sarà verisimile che siano state falle. E qui sarà  da vedere che noi evitiamo la confusione, gli avviluppamenli, le ambiguità, i vocaboli nuovi, le digressioni estranee al soggetto; clic non risalghiamo troppo ai principii; che non discendiamo troppo alle ultime cose; che non ommelliamo nulla di  ciò che spetta al soggetto; e finalmente conseguiremo la chiarezza, se osserveremo i precetti, che  pure riguardano la brevità; perciocché quanto più  la narrazione sarà breve, tanto più sarà chiara e  facile ad intendersi. La narrazione sarà verisimile,  se noi diremo conformamente al costume, all’opinione, alla natura; se ben converranno gli spazii  de’ tempi, i caratteri delle persone, i motivi delle  deliberazioni, le opportunità de’ luoghi, affinchè  non ci si possa opporre o che il tempo non è stato  bastevole, o che non eravi alcun motivo, o che il  luogo non era conveniente, o che quelle cotali persone non potevano essere o agenti o pazienti. Se  il fatto, che si narra, è vero, pur bisognerà, narrandolo, osservare tutte queste condizioni; perchè, se non si osservino, la verità può sovente non  essere creduta. Se poi il fatto è supposto, tanto più  bisognerà osservarle. Finalmente converrà usare  cautela nell’oppugnare quei falli, che sapremo essere testificati o da uno scritto degno di fede, o  dall’autorità rispettabile di taluno. Quanto alle cose, die ho fin qui dette, credo di concordare con  tutti gli altri scrittori dell’arte; se non che ho detto  alcun che di nuovo intorno agli esordii PER INSIUNAZIONE, o perusare l’espressione di Grice, IMPLICATURA –Holdcroft, Forms of indirect communication -- avendoli io solo, fra tanti altri, distinti  in tre classi, affinchè una via al tutto certa avessimo, e una regola chiara in tal genere di esordii.   X. Ora, poiché mi rimane a parlare di quella  parte dell’ invenzione, in cui principalmente consiste P arte dell’ Oratore, farò che non paia aver io  nella trattazione di questa parte posto minor cura  di quello che P importanza del soggetto richiede,  quando avrò prima dello alcun che intorno alla divisione delie cause. La divisione delle cause è distribuita in due parti. Terminata la narrazione, noi  dobbiamo primieramente mostrare in che conveniamo cogli avversari, e poscia, se sono a noi vantaggiosi i punti, in cui conveniamo, passare a ciò  che è soggetto di controversia. Per esempio: «Che  da Oreste sia stala uccisa la madre, convengo cogli  avversarli; che egli abbia ciò fatto a drillo, o che  gli sia stato ciò lecito, ecco il punto che è soggetto  a controversia ». Ed egualmente nella risposta :  « Che Agamennone sia stalo ucciso da Clilennestra, tutti Io affermano, ma benché ciò sia, pure  pretendono che io non doveva vendicare mio padre ». Fatta la divisione, noi dovremo ricorrere alla  distribuzione, la quale pure ha due parti, cioè l’enumerazione e la esposizione , L 1 enumerazione  consiste nel dire il numero delle cose, di cui prendiamo a parlare; e non bisogna che nel numero  abbia più di tre parli; perchè il dirne più o meno è cosa pericolosa, e può mettere nell’uditore il sospetto di meditazione e di artifizio ; la qual cosa  toglie fede al discorso. L’esposizione poi consiste  nel mettere innanzi con brevità e senza ommissioni  le cose, delle quali togliamo di parlare.   XI. Passiamo ora alla confermazione, e alla confutazione. Tutta la speranza della vittoria, e tutto  l’affare della persuasione sta nella confermazione  e nella confutazione; imperciocché quando avremo  esposte le nostre prove, e distrutte quelle dell’avversario, noi avremo intieramente adempiuto al1’ uffizio dell’ Oratore. Noi potremo adunque trattare egualmente queste due parti della confermazione e della confutazione, se ci sarà aperto (ostato  della quistione. Quattro stati di quislione statuirono gli altri retori; ma Ermete, mio maestro, non  ne ammise che tre, non già perchè volesse levar  via qualche cosa di ciò che quelli attribuirono alla  parte dell’ invenzione, ma per mostrare che essi  separarono in due ciò che era d’ uopo presentare  nella sua semplice ed indivisibile unità. Lo stato  della quistione è il primo conflitto del difensore  contro l’ imputazione dell’ accusatore. Tre sono  adunque, come ho detto, gii stati della quistione,  il congetturale, il legale, il giurisdiziale. Lo stato è  congetturale, quando vi è controversia di fatto, a  cagione di esempio: « Aiace, allorché conobbe ciò  che fatto avea durante il tempo del suo delirio, si trafisse con la spada in un bosco. Vi capita Ulisse:  vede 1’ ucciso; gii leva dal corpo il ferro insanguinato. Sopravviene Teucro; vedendo il fratello ucciso, ed il nemico del fratello con la spada in mano tinta di sangue, accusa Ulisse di assassinio ».  Qui, poiché si cerca la verità per congettura, vi  sarà controversia di fatto, e da ciò chiamasi congetturale lo stato della quistione.   XII. Si chiama stato di quistione legale, quando  sorge controversia intorno ad uno scritto. Siffatto  stalo ha sei parli, lettera e spirilo, leggi contraddittorie, ambiguità, definizione, traslazioae, analogia. Ci ha controversia intorno alla lettera e allo  spirito quando l’ intenzione di chi ha scritto sembra discordare dallo scritto medesimo, per esempio : « Suppongasi che vi sia una. legge , la quale  disponga che coloro, i quali per cagione di burrasca abbandonino la nave, debbano perdere la nave  ' e ogni cosa; e che, se la nave vada in salvo, tanto  essa quanto l’allre cose rimangano proprietà di chi  è restalo nella nave. Ora, spaventali tutti dalla  grandezza della burrasca abbandonarono la nave,  e cercarono salvamento sopra di un palischermo ,  eccetto un ammalalo, il quale per impotenza non  uscì di nave c non si mise in salvo. La nave per  caso e per fortuna si ridusse in porto sana e salva:  1’ ammalato si trova possessore di essa : 1’ antico  padrone della nave ne fa dimanda in giudizio come di cosa sua ». Queslo si è stato di quistion legate riguardante la lettera e lo spirito del lesto.  La controversia ha origine da leggi contraddittorie, quando una legge ordina o permette una cosa,  e l’allra la proibisce, come : « Una legge proibisce che un uomo condannato di concussione parli  davanti alPassemblea del popolo. Un’ altra legge  ordina che P augure proponga all’ assemblea del  popolo colui che domanda di essere surrogato nel  posto del collega defunto. Ora, un augure, che fu  condannato di concussione, propose il successore  del suo collega defunto. Si domanda che sia punito ». Questo è stato di quistion legale, che ha le  origini da due leggi contraddittorie. La controversia nasce dall’ambiguità, quando una cosa scritta  in un senso ne presenta due, o più; per esempio:  « Un padre di famiglia, instituendo erede il proprio figlio, legò pure in testamento a sua moglie  dei vasi d’argento in questi termini: « Tullio, mio  erede, darà a Terenzia, mia moglie, trenta libbre  di vasi d’argento, a scelta sua ». Morto il testatore, la donna domanda i vasi preziosi , e magnificamente cesellali. Tullio dice di dovere a lei  dei vasi d’argento pel peso di trenta libbre, ma a  sua scelta ». Ecco uno stato di quistion legale, che  sorge dall’ambiguità delle parole. La quistionc dipende dalla definizione quando c'è discordanza intorno al nome, col quale si dee chiamare un’azione : ecco un esempio: « Essendo Lucio Saturnino  per portar la legge frumentaria dei semiassi e dei  terzi di asse, Quinto Cepione, che era in allora  questore urbano, avvisi il Senato, che l’erario non  poteva sopportare una cotanta largizione. Il Senato  decretò che, se egli avesse recata quella legge al  popolo, sarebbe stato riguardato come autore di  un fatto contro alla Repubblica. Saturnino si provò  a recarla. I suoi colleghi fecero opposizione: egli  nondimeno fece portare innanzi la cassetta de’suffragi. Cepione, vedendo che , a malgrado del decreto del Senato e della opposizione dei colleghi,  ei recava la legge in danno della cosa pubblica, si  fa violentemente strada con alcuni de’migliori cittadini, rompe i ponti, rovescia le cassette, ed impedisce che la legge passi. Cepione viene accusato  di. lesa maestà ». Lo stato della quislione è legale,  dipendente dalla definizione ; conciossiachè non  verrà bene determinalo che cosa sia lesa maestà,  se non sia ben definito il vocabolo stesso. La controversia nasce da traslazione quando V accusalo  domanda, o che la causa sia trasferita ad altro tempo, o che sia cambialo l’ accusatore, o che sieno  cambiati i giudici. Di questa parte di costituzione  se ne servono i Greci nelle cause pubbliche, c noi  per lo più nelle cause private. In siffatta parte la  scienza del diritto civile ci sarà di gran giovamento. Nondimeno anche nelle cause pubbliche noi qualclie volta ce ne serviamo, ed ecco in che modo: « Se alcuno è accusalo di peculato, perchè è  voce che egli abbia portalo via da un luogo privato  dei vasi d' argento di pubblica spettanza, egli può  rispondere, dopo di aver defluito che cosa sia furto, e che cosa sia peculato, clic, rispetto a lui,  bassi a giudicarlo di furto e non di peculato». Una  siffatta parte di costituzione legale è di rado invocata dinanzi ai nostri tribunali, perchè se si tratta  di azion privala, il pretore giudica delle eccezioni,  e perde la causa colui che non si attiene alle forme prescritte; c se si tratta di causa pubblica, le  leggi provvedono che antecedentemente, se l’accusato ciò crede di suo vantaggio, sia dato giudizio, se quell'acusalore abbia o no il diritto di accusare. La controversia ha le origini dalla analogia, quando si presenta in giudizio un fatto, intorno a cui v'ha alcuna legge propria, la quale  decida, ma che nondimeno può riferirsi a qualche  altra legge. Per esempio: Una legge dice: Se uno  è furioso, la persona e i beni di lui saranno nella  potestà de’ suoi agnati e gentili: » Un'altra legge  dice: « Colui, che sarà giudicalo di avere ucciso  il padre o la madre, sia ravvolto e legalo in un  sacco di cuoio, e gittalo in un fiume. » Ed un’altra dice : Se un padre di famiglia ha per testamento disposto de’suoi beni c de’suoi schiavi, sia rispettata la sua volontà. » Ed un’altra dice finalmente: » Se un padre di famiglia muore senza testamento, i suoi schiavi ed i suoi beni siano degli  agnati e dei gentili. » Orbene: Malleolo fu giudicato di avere ucciso la madre: appena condannato  gli fu ravvolto il capo in un cuoio di lupo, gli fu*  ron messi i ceppi ai piedi, e fu condotto nel carcere. I suoi difensori portano delle tavolette nella  prigione; ricevono da lui, in presenza di testimonii, giusta la legge, il suo testamento, c poco dopo  è condotto al supplizio. Coloro, che per testamento  ne erano gli eredi, domandano l’eredità. Il fratello  minore di Malleolo, che nel fatto di esso era stalo  l’accusatore, dichiara che per la legge di agnazione quella eredità è a lui devoluta. Qui non può  essere prodotta alcuna legge speciale intorno a  questo caso, e ciò nonostante se ne producono  molte, dalle quali si trae per analogia, che Malleolo abbia o non abbia potuto di diritto far testamento. E. co qual è lo stato di quistion legale fondalo sopra l’analogia.   XIV. Noi abbiamo dimostrato tutte le diverse  specie di quistion legale: ora parliamo della quistione giurisdiziale. Ci è lo stato di quistion giurisdiziale quando si conviene del fatto, ma si domanda, se esso è o non è conforme al diritto. Di  tale stato di quistione ce n’ ha due specie: l’una  specie chiamasi assoluta, el’ altra assuntiva. Ella è assoluta, quando noi sosteniamo che un’ azione  è rettamente fatta, senza clic ricorriamo a motivi  estrinseci; per esempio: « Un commediante rivolse  la parola in pieno teatro nominatamente al poeta  Accio: Accio lo accusa d’iugiuria: il commediante  non si fa altra difesa che questa: dice che è lecito  nominare colui, sotto il cui nome è data a rappresentare in teatro una commedia. » La quistionc è  assunliva, quando, essendo per sè stessa debole  la difesa, si cerca di sostenerla con alcuna cosa  presa fuori dal soggetto. Le parli assunlive sono  quattro: La confessione, la discolpa, la recriminazione, l'alternativa. La confessione sta, allorquando l’accusato domanda che gli sia perdonato: essa  ha due parti: o la scusa, o la preghiera. La scusa  è, quando l’accusato dichiara di non aver commesso il delitto con animo deliberato. Danno scusa  la fortuna, l’ignoranza, la necessità. La fortuna,  « come Cepione avanti ai tribuni della plebe intorno alla perdila della sua armala. » I.’ ignoranza,  « come colui, che mise a morte quello schiavo,  che aveva ammazzalo il proprio padrone, al quale  egli era fratello, avanti che avesse aperte le tavole  del testamento in cui quello schiavo era dichiarato  libero. « La necessità, « come quel soldato, che  non tornò alle insegne il giorno prefisso, perchè  le acque gli avevano impedito il ritorno. « La preghiera è, quando l’accusato confessa di aver commesso il fallo, e di avere operalo deliberatamente,  e nulladimeno dimanda che gli si usi misericordia.  Questo mezzo in giudicio non si usa quasi mai, a  meno che non si parli in favore di un uomo conosciuto per molle belle azioni. Se il caso è tale, noi   10 vestiremo della forma di uno de’luoghi comuni  proprii aH’amplificazione, dicendo, per esempio :  « Se un tale misfatto avesse pur egli commesso,  bisognerebbe nondimeno mandarlo perdonalo in  grazia delle sue belle azioni passate; ma egli non  implora alcun perdono. » Questo mezzo adunque  in giudicio non si usa; ma ben può usarsi dinanzi  al senato, o ad un Generale di armata, ed al suo  consiglio di guerra.   XV. La causa ha sostegno nella recriminazione,  allorquando noi non neghiamo di aver commesso   11 fallo, ma diciamo di esservi stali spinti dal fallo  altrui: « Come Oreste, il quale, per fare a sè difesa, gilta la cagion del delitto sopra la propria madre. » La causa ha sostegno nella discolpa, allorquando noi cerchiamo di difenderci non in quanto  al fatto, ma in quanto alla colpabilità, ghiandola  o sopra di alcun’ altra persona, o sopra di alcuna  cosa. Ella giltasi sopra di alcun’ altra persona,  « come se è accusato uno, il quale confessi di avere ucciso Publio Sulpicio, ma rechi a sua discolpa di avere ciò fatto per comandamento dei consoli, ed affermi che essi non solo glielo comandarono, ma gli fecero ancora conoscere il perchè  egli poteva ciò fare. » Si gitta sopra una cosa,  « Come se alcuno sia impedito da una legge statuita dal popolo di far ciò che un testamento gli  ordina ». La causa ha sostegno nell’ alternativa,  quando noi diciamo che non si poteva a meno di  non fare o Luna cosa o T altra, o che fu miglior  partito far ciò che facemmo. Ecco un esempio di  questa specie: « Caio Popilio, essendo accerchiato  dai Galli, nè polendo in alcuna maniera scampare,  venne a parlamento coi capitani dei nemici e ottenne di andarne libero colla sua armata a condizione ch’ei lasciasse le sue bagaglie; stimò miglior  partito perdere le bagaglie, che Tarmata: salvò  Tarmata, lasciò le bagaglie: or viene accusato di  lesa maestà ».   XVI. Io credo di avere bastantemente dimostrato  quali sieno i diversi stali di quistione, e quali le  loro parti. Ora dimostrerò in qual maniera e con  qual ordine si dovranno da noi trattare, dopo che  avrò fatto ben conoscere quale convenga dirsi da  una parte e dalfallra il punto essenziale della causa, a cui debbesi riferire ogni ragionamento di tutto  il discorso. Trovato adunque lo stato della quistione, si deve tosto cercar la ragione: per ragione io  intendo ciò che costituisce la causa, e che comprende il punto fondamentale della difesa; c per  continuare a farmi meglio intendere, farò ciò'aper con un esempio: « Oreste nel confessare che ha  uccisa la madre, se non desse una ragione del  fallo, toglierebbe via a sè ogni difesa: nc dà adunque una, la quale se data non fosse, non avrebbe  luogo pausa di sorte alcuna: Mia madre, dice egli,  ha ucciso mio padre: « Ecco che la ragione che  ne dà, è appunto quella, io lo ripeto, che contiene il punto fondamentale della difesa, e-se vi mancasse questa ragione, non vi rimarrebbe neppure   11 più piccolo dubbio che potesse venire ritardata  la condannagione. — Trovata la ragione, bisognerà cercare la replica dell’avversario; vale a dire,  il punto principale dell’ accusa, ciò che recasi in  mezzo in opposizione di questa ragione della difesa , di cui abbiamo detto. Ecco come questo  punto verrà determinalo: quando Oreste avrà detta  la sua ragione così: « Io ho ucciso a buon diritto  mia madre perchè ella ha ucciso mio padre »; l’accusatore replicherà in questo modo: « Ma ella non  doveva essere uccisa da le, nè sostenere una pena  senza essere stata prima condannata. «Dalla ragione della difesa, e dalla replica dell’ accusa ne  sorge la quistione di giudizio, che noi chiamiamo  giudicazione, e i Greci xp/vójuevov. Questa verrà  costituita dal concorso della ragione della difesa,  e della replica dell'accusa in questo modo: « Poiché Oreste dichiara di avere ucciso la madre per  vendicare il proprio padre, era egli giusto o no che Clilenncslra venisse uccisa dal figliuolo senza  un giudizio ? » Ecco qual è il modo di trovare il  punto di giudicazione: trovato il punto di giudicazione, converrà che a quello sia riferita ogni ragione dell'inlero discorso. Il metodo adunque da seguirsi per trovare in tutti gli stati di quislionc, c nelle diverse loro  parli, il punto di giudicazione sarà questo , fuorché nello stalo di quistione congetturale. Imperciocché in esso nè si domanda la ragione del fallo,  perchè il fatto è negalo, nè si cerca la replica dejl’avversario, perchè manca appunto la ragione.  Laonde in siffatto stato di quislionc il punto di  giudicazione viene determinato dalla imputazione  c dalla negazione, in questo modo: Imputazione:  « Tu hai ucciso Aiace. » Negazione: « Io non 1’ ho  ucciso. » Punto di giudicazione: « La ha egli ucciso o no? » A questo punto si deve, come ho già  detto, riferire ogni ragione delle due aringhe. Se  vi saranno più stali di quistione, o più parli di quistioni in una medesima causa, ci saranno anche  più punti di giudicazione, ma si troveranno tutti  nella maniera medesima. Io ho posto diligente  opera a parlare con brevità e chiarezza di quelle  cose che dovevano essere fin qui discorse. Ora,  poiché abbastanza è cresciuto di mole il volume,  è più conveniente esporre in un altro libro il seguito del nostro soggetto, onde non venga la mente tua, per la moltitudine degl’insegn amenti, oppressa da soverchia fatica. E se quest’ opera sarà  compila più lardi di quello che tu desideri, ne dovrai dare la colpa si all’ampiezza delle materie, e  sì ancora alle occupazioni mie. Nulladimeno io  m’affretterò, e supplirò coll’induslria alla scarsità  del tempo, a One di soddisfare al tuo desiderio  donandoti quest’ opera in coglraccàmbio de’ tuoi  buoni uffizii verso di me, e come pegno della mia  affezione verso la tua persona. O Erennio, io ho brevemente  esposto quali cause deve prender l’oratore, in quali  doveri dell’arte conviene ch’ei s’affatichi, e in quale. maniera può facilissimamcnlc adempiere a siffatti doveri. Ma perchè non era possibile il trattare tulle Icquistioni ad un tempo, e bisognava prima dilucidare le più importanti, per farti poi più  facilmente intendere le altre, così io ho giudicato  conveniente di accostarmi di preferenza a quelle  ehe erano le più difficili. Ci ha tre generi di cause, il dimostrativo, il deliberativo, e il giudiziale:  il giudiziale è il più difficile; tratterò dunque di  esso pel primo. Tanto ho pur fallo nel libro precedente, toccando dei cinque doveri dell’oratore, dei  quali il principale e il più difficile è l’invenzione: or id darò in questo secondo libro presso a poco  compimento a quanto concerne l’invenzione, non  «serbando che una piccola parte di essa pel ler zo.Io ho comincialo primieramente a parlare delle  sei parti proprie di un discorso: nel primo libro ho  detto dell’esordio, della narrazione e della divisione, nè più a lungo di quello che bisognava, nè  meno chiaramente che mi pareva essere da te desideralo: di poi ho dovuto discorrere congiuntamente della confermazione c della confulazione;  per lo che ho fatto conoscere gli stati diversi di  quistione, c le parti loro: di che venivasi a mostrare nel tempo medesimo in qual modo, posta la  causa, sì può trovare lo stato della quistione, e le  parti sue: appresso ho insegnalo come bisognava  cercare il punto di giudicazione; trovato il quale',  come è da curare che ogni ragione dell’intero discorso si riferisca a quello: per ultimo ho avvertilo  che vi sono più cause, alle quali possono adattarsi  più stati di quistione, o più parti di essa.   II. Rimane, penso io, a mostrare in qual maniera accomodar si possano le cose dell’invenzione ir  ciascuno stalo di quistione, c a ciascuna parte di  essa; ,e parimente quali siano gli argomenti delti  dai Greci £jri%£ip^P-ara , cui bisogna usare, e quali  siano quelli, cui bisogna lasciar da parte; le quali  due cose riguardano appunto la confermazione c  la confutazione. Insegnerò per ultimo in qual maniera dovrà farsi la conclusione oratoria, che è appunto l’ultima delle sei parti di un discorso. Prima  di tutto adunque noi cercheremo come convenga di trattare ciascuna causa. Cominciamo dal considerare la causa congetturale, che è la prima e la  più diffeile. Nella causa congetturale la narrazione dell’accusatore deve contenere dei sospetti gettati c sparsi destramente qua c là in modo da far  pensare che niun alto, niun dello, niuna venuta,  ninna partenza, niun fallo insomma sia stato senza  un motivo. I.a narrazione del difensore deve prescolare una esposizione semplice e chiara, acconcia a tor via ogni sospetto. Ciò che costituisce un  tale stato di quistioue, è distribuito in sei parti: in  probabilità, in confronto, in segno o indizio, in  argomento, in conseguenti, e in prova. Facciamo  aperto il valore di ciascuno di siffatti mezzi. La  probabilità è quella, per la quale si dimostra che  il delitto fu vantaggioso all’accusato, e ch’egli non  fu mai uomo aborrente di una tale turpitudine.  Nella probabilità si vogliono considerar due cose:  la cagion del delitto, e la condotta dell’ accusato.  La cagione, che può aver mosso al male, si è, o la  speranza dell’utile, o Levitazione del danno: come  allorché si cerca, se mediante il delitto ei pensò  di avere qualche vantaggio, per esempio onori,  ricchezze, potere, se volle soddisfare a qualche  sregolato amore o a qualche appetito di tale natura. 0 veramente se ebbe in animo di evitar qualche danno, come inimicizie, infamia, dolore, supplizio.  In quanto sia atla speranza dell’ utile, l’accusatore verrà dimostrando la cupidità dell’animo  del suo avversario, c in quanto sia all’evilazion del  danno ne andrà esagerando le paure. 11 difensore,,  al contrario negherà, se potrà, che vi fosse una  cagione, o procurerà di attenuarla; quindi conchiuderà che è ingiusto l’indur sospetto di malvagia  azione in tutti quelli, ai quali è derivato vantaggio  da alcuno lor fatto. Appresso si toglierà ad esaminare la condotta dell’ accusato dagli antecedenti.  Nel che l'accusatore andrà primieramente considerando, se al suo avversario abbia già a rimprovc*  rare qualche cosa di somigliante; e ciò non trovando di lui, cercherà se egli potè mai essere sospettato di una simile azione; e si adoprerà in questo  di dimostrare che la condotta di lui ben concorda  con la cagione da esso accusatore assegnata al delitto, di cui si tratta, come: Se affermerà che la  cagione del delitto è stato il danaro, dimostrerà  che colui è sempre stalo un avaro; se l'onore, che  ei fu sempre ambizioso: così potrà congiungcrc il  vizio dell’ animo con la cagion del delitto. Se non  potrà trovare in lui un vizio dell’animo, che concordi con la cagione, ne cercherà uno di natura  diversa. Se non Io potrà, per esempio, dimostrare  avaro, lo dimostri, se in qualche modo il può, corrompitore e misleale: in fine per uno o più altri  vizii farà lordo l’ animo del suo accusato; c conchiude, clic non dee far meraviglia, che quello  stesso uomo, che in addietro operò così male, abbia ora commesso qucsl’altro misfatto. Se l’avversario godrà nome puro ed intatto, dirà che bisogna tener conto dei fatti, non del nome; eh’ egli  per lo passato seppe occultare le sue turpitudini;  ma che ora esso accusatore farà aperto che colui  è reo di misfatto. Per quanto spetta al difensore,  egli in primo luogo verrà dimostrando, se potrà,  •che la vita dell’ incolpato è senza macchia; se ciò  non potrà, piglierà difesa dalla inconsideratezza,  dalla stoltezza, dalla giovinezza, dalla violenza,  dalla persuasione: con le quali scuse verrà ad allontanare da lui il biasimo delle azioni anteriori  all'accusa, di cui presentemente si tratta. Ma se il  difensore si troverà forte imbarazzato dalle turpitudini e dalla mala fama del suo accusato, prima ,  di tutto darà opera a provare che si sono sparse  delle calunnie sopra un innocente; e farà uso di  questo luogo comune, Che non bisogna credere  alle voci del volgo. Se nessuno di questi sussidii  potrà essere usato, egli s’appiglierà all’ estrema  difesa, che è quella di dire, che non è suo obbligo di ragionare intorno ai costumi di lui davanti  a eensori, ma sì di rispondere alle accuse degli avversari davanti a giudici.   IV. Il confronto è, quando l’accusatore dimostra  che l’azione, ond’ è incolpalo l’avversario, n-m è  siala vantaggiosa a nessun altro clic a quello; o  clic non la poteva altri eseguire che l’avversario;  o che il medesimo o non poteva compirla con altri mezzi diversi, o almeno noi poteva tanto facilmente, o che, mosso dalla cupidigia, ha trascurati  altri mezzi più comodi. In questo caso il difensore mostrerà che è d’ uopo che 1’ azione sia stata  vantaggiosa ad altre persone, o che altre persone  eziandio abbiano potuto fare ciò, di. cui è accusato  il suo cliente. Il segno è quello per coi si dimostra che P accusalo andò in cerca della comodità  di fare l’azione. Esso comprende sei parti: Il luogo, il tempo, la durata, l’occasione, la speranza  della riuscita, la speranza di non essere scoperti.Rispetto al luogo, si cerca, se era frequentato o  deserto; se è sempre deserto, ovvero se fu solamente quando si commise il fatto; se era sacro e  profano, pubblico o privato; quali luoghi vi sono  allenenti; se colui, che fu vittima, poteva essere  veduto o udito. A me non incrcscercbbe di descriver qui quale di tulle queste cose potesse convenire all’accusato, e quale all’accusatore, se ciascuno non potesse facilmente di per sè farne giudizio, posta che fosse la causa; perciocché l’arte  deve sì insegnare i principii dell’invenzione; ma  in quanto al .resto è l’esercizio quello che celo fa  conseguire facilmente. Rispetto al tempo si cerca  così: -In quale stagione dell’ anno; in qual ora; se di giorno o di notte; c in qual ora del giorno o  della notle dicesi avvenuto il falto,eperchè in quel  tal tempo. Rispetto alla durata essa si considera  così: Se fu abbastanza, perchè il fatto potesse compiersi, e se l’accusato potè esser certo che quella  quantità di tempo era per bastare a compirlo. Imperciocché poco monta che lo spazio del tempo  sia stato bastante .a compire il fatto, se non si è  potuto ciò sapere c calcolare innanzi. Rispetto all’occasione si va cercando, se essa sia stata opportuna ad intraprendere il fatto, se ce ne sia stata  un’ altra migliore, che o siasi lasciata sfuggire, o  non siasi aspettata. Quanto alla speranza della riuscita si esaminerà essa in questo modo: Se i segni  or ora delti concordino insieme: se inoltre apparirà per una parte esservi stalo forza, danaro, consiglio, conoscimento, precauzione; c per l’altra si  mostrerà esservi stato debolezza, povertà, sciocchezza, ignoranza, incuria: da ciò potrà sapersi se  l’accusato doveva aver fidanza o non averla. Quanto  alla speranza del non essere scoperti, sarà fatta più  o meno evidente secondo il numero de’ complici,  de’testimoni, du’cooperalori, o siano liberi o siano  schiavi, e dogli uni e degli altri insieme.   V. L' argomento è quello, per cui si mette in  chiaro il fatto con più certe prove, e con più fondati sospetti. Esso si rapporta a tre tempi: All’antecedente, al presente, al conseguente. Rispetto al tempo antecedente bisogna considerare dove l’accusato si trovò; dove e con chi fu veduto; se fece  qualche preparamento; se andò a trovare alcuno;  se disse qualche cosa; se ebbe con sè alcuno dei  complici o de’ cooperatori; se fu in qualche luogo  fuori della consuetudine sua, o in ora inopportuna. Rispetto al tempo presente si cerca, se sia stalo  coito flel fatto ; se si è udito qualche strepilo,  qualche grido, qualche romorc, o finalmente se si  è compreso alcun che per mezzo di qualche senso,  con la vista, con 1’ udito, col tatto, coll’ odorato*  col gusto: perciocché il testimonio d’ alcuno di  questi sensi può aggrandire il sospetto. Quanto al  tempo conseguente si riguarderà, se dopo il fatto  vie rimasta alcuna traccia, cheindichi esservi stato  delitto, e chi nc possa essere 1’ autore. Che vi sia  stato delitto si riconosce a questo modo: Se il corpo del morto è gonfio e livido, è segno che vi è  stato avvelenamento. Se ne scopre poi l’ autore a  questo modo: Se un pugnale, se una veste, se  qualche altro oggetto di questo genere sia stato  lascialo, o qualche vestigio si è rinvenuto; se vi  ebbe sangue nelle vesti dell’accusato; se fu preso  o veduto, dopo il fatto, nel luogo dove dicesi essere quello accaduto. I conseguenti son quelli,  quando si cerca quali esser possono i segni, che  risultano, della colpabilità o della innocenza. L’accusatore dirà, se potrà, clic il reo, quando fu arreslato, arrossì, impallidì, vacillò, si contraddisse,  cadde ncirabballimenlo, feccdelle promesse; tutti  segni, che manifestano la coscicuza. Se l’accusato  non fece nulla di tutto ciò, l’accusatore dirà c!ie  colui calcolò prima così bene ciò che gli avrebbe  a tornar vantaggioso, che rispose con una sicurezza insuperabile; il clic è segno di audacia e non  d’innocenza. 11 difensore poi, se l’ accusalo lasciò  vedere dello sbigottimento, dirà che esso restò commosso non per la coscienza d’un delitto, ma per  la grandezza del pericolo. Se non diè segni di sbigottimento, dirà che, forte della sua innocenza,  non poteva restare commosso.   VI. La prova confermativa è quella, di cui facciamo uso all’ ultimo, quando il sospetto è bene  stabilito. Essa ha dei luoghi proprii e dei luoghi  comuni. I proprii sono quelli ohe non possono servire che all’ accusatore o al difensore. I comuni  sono quelli che in una causa convengono all’ accusalo, e in un’ altra all’ accusatore. Nella causa  congetturale il luogo proprio dell’ accusatore è,  quando dice che non bisogna aver compassione  dei malvagi, e quando esagera 1’ atrocità del delitto. Il luogo proprio del difensore è, quando eccita la compassione e si lagna di calunnie nell’accusatore. I luoghi comuni, così dell’accusatore come del difensore, sono il parlare in favore o contro dei leslimonii, in favore o contro della tortura, in favore o contro degli argomenti, in favore o contro della voce pubblica. Noi diremo in favore dei  testimonii, se allegheremo la loro buona fama e  condotta di vita, non meno che la immutabilità  delle loro testimonianze. Contro dei testimonii diremo, se allegheremo la turpitudine della loro vita, la mutabilità delle loro testimonianze ; c se sosterremo o che non poteva farsi, o che non è stalo  fatto ciò clic essi affermano, o clic noi potevano  sapere, o clic nelle loro parole ed argomentazioni  havvi della parzialità: questo sarà appunto il modo  di biasimare o di approvare i testimonii. Noi parleremo in favore della tortura se dimostreremo che i nostri maggiori usarono aneli 'essi i tormenti c le durezze per iscoprire il vero, e  vollero che coll’ eccesso del dolore fossero gli uomini forzati a dire ciò che sapevano. E l’argomentazione nostra sarà più decisiva, se, ricorrendo alle  medesime prove, clic furono adoperate in tutta la  quistione congetturale, daremo alle confessioni  fatte per questo modo il carattere della vcrisimiglianza; il che pure converrà di fare anche rispetto  alle testimonianze. Ecco poi come parleremo contro della tortura: Primieramente diremo che i nostri maggiori non ne vollero far uso che in alcuni  casi speciali, quando con questo mezzo si potesse  discoprire la verità ocombettcrc la falsità delle parole, clic in una data quistione si proferissero, co  ino sarebbe in questo caso: In qual luogo sia stata messa una lai cosa; ovvero se si Iraf lasse di qualche fallo consimile, che non potesse essere scoperto o riconosciute che con questo unico mezzo. In secondo luogo diremo che non bisogna  poi prestar fede al dolore, perchè 1’ uno può essere più debole all' altro nel sopportarlo, o più  ingegnoso a trovar menzogne, perchè finalmente  può spesse Gate conoscere o sospicare ciò che il  giudice desidera udir da lui^ed egli ben sa che,  ove dica ciò* viene ad esser messo Gne al suo dolore. Quest’ argomentazione sarà ancora più valida, se confuteremo le confessioni strappale per  mezzo della tortura con ragionamenti appoggiati  al probabile; c ciò bisognerà fqrc coi modi già indicali per le cause congetturali. Se noi vorremo  dar forza agli argomenti, ai segni, c agli altri luoghi, che accrescono la sospizionc, converrà che  parliamo in questa forma: Allorché un gran numero di argomeiUi c segni concorrano, i quali s’accordino fra loro, è d’ uopo che la cosa presa a dimostrare assuma il carattere non di sospetto, ma Il testo dice, et si quid esset, quod videri , aut  aliquo similisig no iiercipi possct-, ma ([ucsUìeLÌonc non  ha certamente un senso probabile. Le correzioni proposte dai filologi sono molte c varie. Nella traduzione ho  procurato di dare un senso probabile. Il Trai.  di certezza; e così è d’ uopo che più si creda al  segni e agli argomenti che aPtcslimonii; perciocché i segni e gli argomenti sono i fedeli espositori  di ciò che veramente è accaduto, ed i testimonii  possono essere corrotti per danaro, per favore, per  timore, per avversione. Volendo noi parlare contro agli argomenti, ai segni, c agli altri sospicamcnti, dimostreremo che non vi ha nulla, di cui  tion possiamo essere accusati in conseguenza di sospetti; in appresso attenueremo ciascun sospetto  in particolare, e daremo opera a mostrare che esso  può venire addossalo non tanto a noi, quanto a  qualunque altra persona; e che è cosa indegna  che una* congettura e un sospetto debba, senza  aiuto di* testimonii, riguardarsi come una prova  bastante. Noi parleremo in favore della voce pubblica, se sosterremo che l’opinione non si forma punto a caso senza verun fondamento; e se diremo  che non è occorsa cagione, per la quale taluno  avesse interesse a mentire c ad inventar favole; e  proveremo con ragioni che, quando pure fossero  per solito false tutte le altre voci, questa, di cui si  tratta, è però vera. Se vorremo parlare contro alla  voce pubblica, mostreremo primieramente che ce  ne ha di molte clic sono false, c citeremo esempi,  dei quali sia stala falsa la fama; e diremo che o  sono nostri nemici, o uomini di natura malevoli e maldicenti (fucili che inventarono una siffatta favola, e addurremo qualche finto racconto contro  ai nostri avversarli, il qual diremo essere ripetuto  da tutti; onde anche allegheremo una voce vera di  cui essi abbiano ad arrossire, protestando però che  noi non prestiamo fede ad essa, perchè chiunque  può metter fuori alcuna brutta voce contro di chicchessia, e seminare qua e colà una calunnia. Ma  se la voce parrà esser mollo probabile, bisognerà  che noi per forza di argomenti togliamo via alla  fama tutta la credenza. Siccome la quislione congetturale è la più difleile a trattarsi, e spessissimo si presenta nelle cause vere, così noi abbiamo  esaminate tutte le sue parti con tanto più di diligenza, affinchè arrestati non fossimo dal più piccolo vacillamento od intoppo, se a questa ragione  dell’insegnamento volessimo un giorno accoppiare  l'assiduità dell’ esercizio.   IX. Ora passiamo alle parti della quistion legale. Quando insorga dubbio che vi sia discordanza  fra il lesto e l’intenzione di colui che ne fu l’ autore, se noi difenderemo loscrillo, useremo dopo  la narrazione i luoghi seguenti: Primieramente faremo 1’ elogio del suo autore: poi leggeremo ad  alta voce lo scritto: quindi domanderemo, se per  ventura gli avversari sappiano che sia mai stato  scritto in una legge o in un testamento o in una  stipulazione o in qualunque altra scrittura cosa alcuna che aver possa attinenza al soggetto in quislione. In appresso, istituito il confronto di ciò clic  è scritto con ciò che gli avversarli interpretano  siccome vera intenzione, domanderemo a che dovrà il giudice appigliarsi; se a cièche è positivamente scritto, o a ciò che è sottilmente immaginato: in seguilo biasimeremo e confuteremo il sentimento immaginato dagli avversarii ed attribuito  allo scritto. Di poi domanderemo, se l’autore aveva  intenzione di scrivere nel modo che s’interpreta,  qual cosa lo impedì di scrivere appunto così? Dopo  ciò noi faremo aperto qual sia il verosenso, e metteremo in luce la cagione, per cui lo scrittore sentì  appunto come scrisse, e proveremo che quello  scritto è chiaro, conciso, naturale, compiuto, determinato. E qui noi produrremo esempi di giudizìi pronunziati a favore dello scritto, avvegnaché  gti avversarii adducessero nell’ autore di quello e  sentimento e intenzione diversi. Finalmente mostreremo quanto sia pericoloso dipartirsi dallo scritto. Havvi un luogo comune contro di colui, che,  pur confessando di avere operato contro a ciò che  è dalle leggi ordinato o scritto in un testamento,  cerca di difendere il fatto proprio. A favore dell’ intenzione noi parleremo così:  Primamente loderemo l’aggiustatezza e la concisione dello scrittore, perchè scrisse nè più nè meno di  ciò che era necessario, e s’avvisò di non essere temito a scrivere ciò clic, senza essere scritto, poteva venire inteso: secondariamente diremo esser  proprio soltanto dell’ uomo di mala fede lo appigliarsi alla parola e alla lettera, e non tener conto  deirinlcnzione. In appresso diremo clic ciò che c  scritto, o non può essere eseguilo, o veramente,  se può essere eseguilo, esso è contro alla legge,  aU'uso, alla natura, all’equità, al buono; c niuno  dirà, che P autore non abbia voluto clic lutto sia  fallo secondo il giusto: ora ciò clic noi abbiamo  fatto, egli ò interamente conforme alla giustizia.  Aggiungeremo poi che l’opinione contraria o è assurda, o è insensata, o è ingiusta, o tale che non  può avere effetto, o che non è d’a.ocordo coi sentimenti clic precedono, e con quelli che vengon  dopo, o eh’ ò in opposizione col diritto comune, o  con le altre* leggi comuni, o coi giudicati. Dopo  ciò faremo enumerazione degli esempi di giudicati  in favore dell’ intenzione e contro lo scritto; e finalmente produrremo dei brevi estratti di leggi e  di stipulazioni, nelle quali possa essere compresa  dall’inlcllcllo c l’ intenzione e l’ esposizione degli  scrittori. Ilavvi poi un luogo comune contro di colui che reciti uno scritto, e non interpreti l’intenzione di chi ha fatto. Allorché due leggi saranno  discordanti fra loro, bisognerà prima vedere, se  vi sia abrogazione o derogazione: appresso, sq  queste leggi dissentano cosi, che l’una comandi e l’altra proibisca; o che l’uria obblighi e l’altra permetta. Imperciocché sarà debole la difesa di colui,,  che dirà, di non aver fatto ciò, a cui da una legge  è 'obbligato, cssendovcne un’altra che permette;  perchè ha più forza una legge che obblighi, che  una che permetta. Parimente è debole la difesa,  quando si mostra clic si è fatta quella cosa che  viene stabilita da quella legge alla quale è stala  fatta abrogazione o derogazione; e se non si è tenuto conto di ciò, che viene ordinato dalla legge  posteriore. Allorché si saranno bene considerate  queste cose, bisognerà subitamente addurre, leggere, commendare la legge a noi favorevole. Appresso dichiareremo il senso della legge contraria,  e quella trarremo al vantaggio della nostra causa.  All’ ultimo dalla quistione giurisdiziale assoluta  prenderemo la ragione del diritto, e cercheremo  quella parte del diritto che stia a favor nostro :  della qual parte parleremo più sotto. Se lo scritto è ambiguo, vale a dire che si  presti a due o più interpretazioni, noi lo tratteremo  aqueslomodo:Inprimo luogo cercheremo, se sia o  no ambiguo; poi mostreremo come avrebbe dovuto  essere esposto, se lo scrittore gli avesse voluto dare  quel senso, che gli avversari interpretano. In seguilo mostreremo che la nostra interpretazione  .non solo è da preferirsi, ma è anche onesta, giusta, conforme alla legge, all’uso, alla natura, al bene, all’ equità; clic quella degli avversarli è .il  contrario; die infine uno scritto allora non è ambiguo, quando si capisce quale dei due significati  è il vero. Ci sono alcuni,! quali son di parere che,  a trattare siffatta causa, bisogna mollo conoscere  la scienza delle anfibologie, che i dialettici insegnano; ma noi pensiamo cha essa non solo non è  di alcuno aiuto, ma che anzi è d’ impedimento;  perciocché costoro tengono dietro a tulle le amfibologic, anco a quelle, clic, prese al contrario,  non presentano senso veruno. Laonde eglino altro  non sono che molesti inlcrrompitori dell’ altrui  parlare, e interpreti odiosi cd oscuri di uno scritto;  e, mentre parlar vogliamo con cautela ed esattezza,  riescon peggio che bimbi. Cosi mentre temono di  lasciarsi sfuggire una parola clic abbia più di un  senso, non osano neppurpronunziarcil loro nome.  Ma quando tu vorrai, io confuterò le loro puerili  opinioni coi più solidi argomenti. Intanto non è  stato inutile il dir qui per incidenza ciò che ho  detto, a fine di giltarcin discredito questa garrula  scuola di fanciulli.  Quandouscrcmo la definizione, noi daremo  prima una breve definizione della parola : per  esempio: « È colpevole di lesa maestà chi fa violenza a quelle cose che costituiscono la grandezza  dello Stalo, quali sono appunto i suffragi del popolo, e le adunanze de’ magistrali. Or dunque tu, quando rovesciasli i ponli, li oppoiiesli ai suffragi  del popolo, e all’ adunanza de’ magistrali. » L’accusato per contrario risponderà: « E colpevole di  lesa maestà chi porla danno alla grandezza dello  Sialo. Io non le portai danno, anzi la difesi, perchè conservai P erario, mi opposi all’ avidità dei  tristi, non permisi che la maestà dello Stato perisse tutta intiera. » Prima adunque si spiegherà  brevemente e acconciamente a vantaggio della  nostra causa il senso della parola: poi si combinerà il fatto nostro con la definizione della parola;  quindi si confuterà la ragione della definizione  contraria, se sia o falsa, o inutile,, o sconcia, o ingiusta; e gli argomenti a ciò li piglieremo dalle  parli del diritto che spelta alla quistionc giurisdi*  ziale assoluta, della quale oramai terremo' parola.  Per la traslazione poi si cerca primieramente, se  alcuno, a cui non appartenga, possa nel fatto presente avere azione, per dimandagione od istanza;  o se gli possa ciò spellare in altra maniera, in altro tempo, in altro luogo; o se per altra legge, o  con altro giudice, o con altro accusatore. A tutte  le quali cose sarà fatta ragione secondo le leggi,  l’uso, l’equità, ed il bene: di clic tutto parleremo  nella quislione giurisdiziale assoluta. Nelle cause  fondate sopra l'analogia cercheremo prima, se in  cose maggiori, o minori, o simili, è stala fatta alcuna legge analoga, o data analoga decisione: poi se la cosa addotta è simile o no alla cosa di cui si  traila; poi se è a disegno che nulla si è scritto intorno a quella cosa, perchè non vi si è voluto provvedere, o perchè si è giudicalo che vi fosse bastantemente provveduto con altre leggi analoghe. Noi abbiamo a bastanza parlato delle parti della quislione legale; ora rechiamoci alla quislione giurisdiziale.   XIII. Noi faremo uso della quislione giurisdiziale assoluta allorché, confessando di aver fatta  un’azione, sosterremo di averla fatta a diritto, sen- za aiutarci con veruna estrinseca difesa. In essa  conviene cercare, se si è operalo a buon diritto,  del qual diritto noi potremo discorrere, se conosceremo le parli costitutive di esso. Le quali parti  sono sei: Natura, legge, uso, giudicalo, equità,  patto. Il diritto, che vicn dalla natura, è quello  che si osserva per cugion di cognazione o di pietà;  quel diritto, pel quale spettano doveri reciproci  così ai padri verso i figli, come ai figli verso i padri. Il diritto, che vien dalla legge, è quello che  è costituito dalla volontà del popolo; come è quello  che ci obbliga di presentarci in giudizio quando  vi siamo chiamati. Il diritto, che vien dall’ uso, è  quello, clic, in mancanza di legge, è osservato comunemente, come se fosse stabilito da una legge:  per esempio: « Se tu avrai fatto deposito del tuo  avere presso un banchiere, lo potrai giustamente ridomandare anche dal socio di esso ». Iitliritlo,  che viene da un giudicalo, è quello intorno a cui  è stata pronunziata sentenza o interposto decreto.  Ma sovente i giudicati variano secondo il diverso  modo di pensare di un giudice, di un pretore, di  un console, di un tribuno della plebe; e ne avviene clic spesse fiale sopra la cosa medesima 1’ uno  decreta e giudica ad un modo, e l’ altro ad un altro; come sarebbé a dire: « Marco Druso, pretore  urbano, profferì giudizio diesi potesse far lite per  cagion di mandato coll’ erede; Sesto Giulio profferì giudizio contrario. Parimente Caio Celio giudice rimandò assoluto per accusa d'ingiurie quel1* attore, che aveva offeso il poeta Lucilio, nominandolo in iscena : Publio Muoio, al contrario,  condannò quell’altorc che aveva nominato in isccna il poeta Lucio Azzio ». Poiché adunque due  cause simili possono essere stale giudicate diversamente, bisognerà che noi, quando ciò sia accaduto, facciamo conoscere cosi i giudici come le occasioni, non meno che il numero dei giudicati, che  furono in favore o in danno della cosa. Dall’equità  viene il diritto, quand’ esso sembra fondato sulla  verità c sull’ utile comune; come: « Chi ha più di  sessanl’ anni, ed è impedito da malattia, può farsi  rappresentare in giudizio per mezzo di procuratore ». Per forza di questo principio può costituirsi  anche un nuovo diritto secondo 1’ occasione c la dignità della persona. Dal patto viene il diritto,  quando due o più persone hanno fatto fra loro una  convenzione, un accordo. Ci son dei patti che voglionsi osservare in forza di leggi, per esempio:  « Potrassi far causa nel luogo dove si è pattuito;  se non si è pattuito, dovrassi trattarla o nel comizio, o nel fóro prima del mezzogiorno a. Similmente vi sono de’ patti, che senza intervento di  leggi si osservano in forza di convenzione, i quali  si dicono esecutorii per diritto. Ecco adunque  quali sono le vie, per le quali conviene trovare il  torlo, o confermare il diritto; e ciò deve farsi nella  quislione giurisdiziale assoluta. Nella quislione giurisdiziale assentiva, allorché per l’ alternativa si domanderà quale delle  due cose sia stato meglio di fare, o quella, che  l’accusato confessa di aver fallo, o quella, che l’accusatore dice clic era d’uopo di farsi: si dovrà primieramente esaminare quale delle due sia stata  più vantaggiosa in confronto, vale a dire più bella,  più facile, più profittevole. Poi bisognerà domandare, se spellava a lui il giudicare quale delle due  era più vantaggiosa, o se apparteneva ad altrui il  dettare le condizioni. In seguilo l’accusatore, giovandosi delia quislione congetturale, interporrà il  sospetto, che l’ accusalo non abbia operato con  questa ragione di anliporre il meglio al peggio, ma  che abbia proceduto con mal dolo: ed anco domanderà in fine, se si poteva evitare di venire in  quel tal luogo. II difensore, all’opposto, confuterà  F argomentazione congetturale con alcuna delle  cagioni probabili, di cui si è già parlato. L’accusatore, dopo aver messi in campo i motivi detti di  sopra, userà un luogo comune contro all’ avversario, dicendo, che egli ha piuttosto preferito il nocevole al vantaggioso, allorquando non era più in  poter suo il dettare le condizioni. Il difensore poi,  contro di coloro, che giudicano onorevole F antipode l’estrema rovina all’ utile, userà il luogo comune per compianto; e nel medesimo tempo domanderà agli accusatori e ai giudici stessi, checosa  avrebbero fatto se stati fossero in quel posto; e  metterà loro sotto gli occhi il tempo, il luogo, la  cosa, e i motivi, che ebbe il suo cliente.   XV. La recriminazione si ha, allorquando l’accusato va pretestando cagione al fatto proprio il  fallo d’altrui. In tal caso l’accusatore cercherà primieramente, se a ragione si possa trasferire la reità  in altrui; secondariamente esaminerà, se il fallo,  che è imputalo ad altrui, è così grave come quello  che F accusalo confessa di aver commesso egli  medesimo: di poi, se era d’uopo commetter fallo,  perchè altri ne ha commesso uno innanzi; di poi,  se era d’uopo ctie di quel primo fallo fosse avanti  dato giudizio; di poi, conciossiachè niun giudizio  sia slato pronunzialo del delitto imputato ad altrui, se l’accusalo abbia diritto di costituir cosi sè medesimo giudice di un’azione, che non è ancora  stata secondo le leggi giudicata. Qui cadrà in acconcio quel luogo comune, per cui l’ accusatore  farà rimprovero all’accusato, elfei mostri così esser d’avviso, che s’abbia a preferire la violenza ai  giudizii, e domanderà pur anche, che cosa accadrebbe, se gli altri facessero altrettanto, cioè che  pigliassero supplizio di coloro che non sono per  anco condannati, adducendoper ragione, ch’eglino medesimi ne hanno prima dato l’esempio. Che  si direbbe, se l’accusatore egli stesso avesse voluto  fare altrettanto ? Il difensore, al contrario, porrà  nel mezzo 1’ enormità del fallo di colui sopra del  quale verrà trasferita la reità ; e porrà sotto agli  occhi il fatto, il luogo, il tempo per modo, che gli  udij^ri si persuadono, o clic non era possibile, o  che non era giovevole, che l’ affare venisse recalo  dinanzi ai tribunali.   XVI. La concessione è quella, per la quale noi  domandiamo che ci sia perdonato. Essa si divide  in due parti: in iscusa e in preghiera. La scusa è,  quando dichiariamo di avere operato senza pensamento. Essa abbraccia tre parti: la necessità, la  fortuna, l’ ignoranza. Parleremo prima di queste  tre parti, c poi diremo della preghiera. Primieramente si dovrà considerare dall’accusatore, se noi  fummo indotti a questa necessità per colpa nostra, o se fu la neccssilà per sè stessa quella che ci indusse alla colpa. In appresso si cercherà in qual  modo si poteva da noi evitare quella necessità od  attenuarla; e se colui, che si scusa con la necessità, ha tentalo tutto quanto era in poter suo di fare  o di immaginare per resistere ad essa; e se trarre  si possano dalla quistione congetturale dei sospetti, che portino indizio essere stato fatto pensatamente ciò che dicesi accaduto per necessità; e finalmente, quando pure vi sia stata una qualche  necessità se convenga tenere questa necessità  come una scusa bastante. Se poi l’accusato dirà,  essersi da lui commesso il fallo per ignoranza,  „ l’accusatore cercherà primieramente, se quegli  poteva sapere o non sapere; di poi, se ha fatto  opera di sapere o no; c quindi, se ei non seppe  per puro caso, ovvero per sua colpa: imperciocdiè  chi si scusasse di essere stato privo di ragione o  per ubriachezza, o per trasporto di amore o di  collera, egli parrebbe che avesse perduta la cognizione per un vizio dell’animo e non per ignoranza:  laonde non difenderebbe sè colla ignoranza, ma  si macchierebbe di una colpa. Dopo ciò per mezzo  della quistione congetturale cercherà, se realmente sapeva o non sapeva; c considererà, se l’ignoranza esser debba difesa bastante, quando pur  consti che la. cosa sia stala fatta per ignoranza.  Quando se ne attribuisce la cagione alla fortuna,  c clic il difensore dica, doversi per questo motivo  perdonare all’accusato, bisognerà che l’accusatore  metta in campo tulle quelle considerazioni medesime, che abbiamo poste là, dove parlammo della  necessità. Imperciocché tutte queste tre specie di  scusa hanno allìuilà fra loro, sì chea tutte si possono accomodare le considerazioni medesime. In  siffatte cause tornano in acconcio i luoghi comuni,  rispetto all’ accusatore, contro a colui, che, pur  confessando di avere peccato, trattiene inutilmente i giudici con parole, e, rispetto al difensore, di  implorare il perdono dall’umanilà e dalla compassione, e di sostenere che, dovendosi io tutte cose  aver riguardo all’attenzione, non v’ha colpevolezza  in quelle azioni clic sono stale fatte senza un positivo consiglio. Noi useremo la preghiera, se, confessando il fallo, e lasciata da parie la scusa dell’ ignoranza, o della fortuna, o della necessità, domanderemo clic ci sia perdonalo. E qui il motivo del  perdono si trae dai luoghi seguenti: Se parranno  essere più, ovvero più grandi i meriti che i torli;  se alcuna virtù o nobiltà sarà in colui che supplicherà; se alcuna speranza ci avrà che perdonando  al reo, abbia ciò ad essere di universale giovamento; se si mostrerà che il supplicante medesimo fu  clemente e compassionevole quando aveva in sua  mono il pplerc; se il fallo, ch’ei commise, noi commise per odio o crudellà, ma spinto da obblighi e da retta intenzione; se per una cagione si- ,  mile fu mai perdonato ad altro reo; se parrà non  dovere a noi derivar danno mandandolo perdonato; se per un tale perdono non ce ne verrà alcun  biasimo dai nostri concittadini, o da qualche altra  cittadinanza. Si passerà quindi ai luoghi comuni intorno airumanHà,allafortuna,allacompassione, alla mutazione delle cose. L’ avversario poi rivolgerà  tutti questi luoghi contro l’accusalo aggiungendovi  l’ amplificazione e l’ enumerazione di tutti i falli,  che gli vengono imputati. Questa maniera di trattazione torno vana nelle cause pubbliche, siccome  ho già detto nel primo libro; ma potendo esser  giovevole davanti al senato, o ad un consiglio militare, ho creduto bene di non doverla tacere.  Quando noi vorremo rimuovere l’accusa per mezzo  della discolpa, getteremo la cagione del nostro  fallo o sopra di una cosa, o sopra di una persona.  Se si getterà la causa sopra di una persona, primieramente si cercherà, se colui sopra del quale  sia gettata la causa, potette tanto, quanto il reo  dimostrerà, e in qual maniera si poteva o con onore o senza pericolo resistere ad esso : c quando  pure si animella quello che il reo dice, se nullameno sia ragionevole di scusare il reo dell’ avere  operato per impulso altrui: e passando quindi alla  quistione congetturale si discuterà, so. fu operalo con cognizione di causa o no. Se poi la cagione si  getterà sopra di una cosa, si terrà la stessa maniera di ricerche, e vi si unirà tutto ciò che abbiamo  già detto intorno alla necessità. Poiché ci pare di avere bastantemente  dimostrato di quali argomenti è d’uopo far uso in  ciascuna delle quislioni del genere giudiziale, ora  verrò insegnando come abbellir si possano e perfettamente trattare questi argomenti medesimi.  Imperciocché egli non è mollo difficile trovare ciò  dhe serve di sostegno alla nostra causa, ma, trovato che sia, si è difficilissimo pulirlo e convenientemente esporlo. E quest’ arte è appunto quella,  che fa che noi non ci fermiamo più a lungo di  quanto bisogna sopra le stesse cose, e non ritorniamo più e più volle al punto medesimo, e non  abbandoniamo il ragionamento incomincialo, enon  passiamo male a proposito ad un altro. Mercè  adunque quest’arte, e sarà facile a noi di trovare  nella memoria tutto quanto avremo detto in ciascun luogo, e potrà l’uditore comprendere e fermar nella mente la distribuzione cosi di tutta la  causa come di ciascheduna prova. L’ argomentazione adunque più compiuta e più perfetta si è  quella che comprende cinque parli: La proposizione, la ragione, la confermazione della ragione,  rornamento, e la recapitolazione. La proposizione  è l’esposizione compendiosa di ciò che vogliamo provare. La ragione è il principio , che dimostra  esser giuslo ciò, a cui miriamo , soggiungendolo  brevemente. La confermazion della ragione è quella, che fortifica con molle prove ciò che la ragione  ha brevemente esposto. L’ornamento è quello, di  cui facciamo uso per abbellire ed arricchire la  causa, allorché le prove sono bene stabilite. La  ricapitolazione è quella che conchiude brevemente, raccogliendo le diverse parti dell’ argomenta- .  zione.   XIX. Se vorremo adunque far uso di tutte queste cinque parti, ecco come tratteremo l’argomentazione : « Noi abbiamo a dimostrare che Ulisse  aveva un motivo di uccidcrcAiace; perciocché voleva torre di vita un nemico acerrimo, dal quale  non a torlo temeva per sé sommo pericolo. Vedeva che, vivente Aiace, egli non era sicuro della  persona; colla morte di lui sperava di procacciare  salvezza a sé : era suo costume, -in mancanza di  mezzi legittimi, di usar la frode per toglier via un  nemico; di clic è una prova convincente la non degna morte di Palamede. Dunque e il timor di un  pericolo spingeva lui ad uccider quello, dal quale  temeva una punizione, c la consuetudine del delitto dilungava da esso ogni dubbio di metter mano  all’assassinio. Imperciocché in generale gli uomini, i quali non commettono mai senza un perchè  i falli più leggieri, sono da ultimo tirati a commet  Lifino il.  tereiMclitli più grandi, allora che certi sono di  averne accogliere un vantaggio. Or bene: se molli  spinti furono al male dalla speranza del guadagno,  se una gran parte degli uomini gillossi nei delitti  per T ambizione del potere, se altri pagarono un  leggiero guadagno a prezzo della più gronde iniquità, chi si meraviglierà clic costui, tiranneggialo  dal più vivo timore, non siasi astenuto da un assassinio ? Un eroe pien di coraggio e d’integrità,  che non perdonava ai nemici, oltraggiato, irritato,  non si potè partir vivo da un rivale pieno di paura  c di ribalderia, che sapeva di esser colpevole, insidioso, nemico: a chi parrà strana cosa cotesta ?  Se noi vediamo le bestie feroci levarsi pronte ed  irose per nuocere ad altro animale bruto, non è  da giudicarsi impossibile cheanche l’animo feroce,  crudele, ed inumano di costui siasi avidamente  gittato a dar morte al suo nemico ; tanto più se  consideriamo, che nelle bestie non si scorge vcrun  motivo nè buono nè cattivo, c che in costui sappiamo essere sempre stali assaissimi e grandissimi  molivi. Se dunque io ho promesso di svelare la cagione, dalla -quale indotto Ulisse commise l’assassinio, c se ho dirtiostrato esserci intervenuta ragione potentissima d’ inimicizie e timor di pericolo,  non v’ha dubbio ch’ci non confessi che tale è stata  la cagione del suo delitto. L’ argomentazione più  perfetta è adunque quella che si compone di cin que parli ; ma non è sempre necessario di usare  quesla maniera di argomenlazione. Imperciocché  vuoisi, per esempio, lasciar da parie la recapitolazione, quando la cosa è così limitala che facilmente si possa tenere a memoria; e vuoisi pur pretermettere l'ornamento, quando il soggetto poco si  presta di per sé stesso all’amplificazione e adornamento. Se 1’ argomentazione è breve, e nello  stesso tempo è modesto il soggetto e poco fecondo, bisogna allora astenersi daU'ornamento e dalla  recapitolazione. In ogni argomentazione, rispetto  all’uso delle due ultime parli, è da tener conto di  quello clic ora ho defto.L'argomcnlazioue più perfetta Iva dunque cinque parli; la più breve ne ha  tre, la mediocre, tolto via da essa o l’ornamento o  la rccapilolazione, ne ha quattro.   XX. Due generi di argomentazioni viziose ci  sono: 1’ uno, che appartenendo propriamente alla  x causa può essere confutato dall’avversario; l’altro,  che, essendo inconcludente, non ha bisogno di  venir confutato. Quali siano le argomentazioni che  convenga di confutare, e quali quelle che debbansi deprezzare e passar sotto silenzio senza confutarle, tu non potrai chiaramente conoscere se  non li porgerò gli esempi. Questa cognizione delle  viziose argomentazioni li apporterà due vantaggi:  il primo, di farli evitare i difetti nel ragionamento,  il secoudo , d’ insegnarli a conoscer facilmente     quelli clic l’avversario non ha sapulo cvilare. Poicliè adunque noi abbiamo mostralo che la perfetta  e compiuta argomentazione si compone di cinque  parti, consideriamomi ciascuna qualjsono i difetti  da evitarsi, acciocché e nei medesimi possiamo  guardarcene, e col metodo istesso attaccare le argomentazioni dogli avversarli in lutto le parli loro,  e farle da alcuna parte cadere. L’esposizione è viziosa, quando, prendendo per modello taluno, o  la maggior parte degli uomini, si appropria a lutti  ciò che non è conveniente necessariamente a tutti,  come se si dicesse così: « Tutti coloro clic sono  poveri, amano meglio di procacciarsi ricchezze con  le ribalderie, clic conservare la povertà seguendo  il dovere. » So uno esponesse così la sua argomentazione senza curarsi di cercare qua! ne fosse la  ragione o la oonl'errpazion della ragione, noi potremmo facilmente confutare la sua stessa esposizione, mostrando che è falso ed ingiusto attribuire  a lutti i poveri ciò che può essere solo di qualche  povero malvagio. Parimenti è viziosa l’esposizione, quando si afferma che ciò che accade di rado,  non può punto accadere, come: « Niuno d’una sola  occhiata, e in passando, può esser preso d’amore:»  perciocché essendo pure accaduto che taluno fa  d’ un’ occhiala preso di amore, c quegli affermando che ciò non è accaduto ad alcuno, poco importa che poi ciò accada di rado, quando si sa che qualche volta accade od è possibile che accada. Similmente è viziosa l’esposizione, quando  noi mostriamo di avere enumerale tutte le circostanze di un fatto, e ne ommeltiamo qualcheduna  essenziale, per esempio: « Poiché adunque è manifesto eh c stalo ucciso un uomo, è d’ uopoche  sia stato ucciso o da malandrini, o da nemici, o  da te, cui egli ha per testamento lasciato crede in  parte. Di malandrini in quel luogo non se pe sono  veduti mai, di nemici non ne aveva alcuno: non  resta altro, che, se non è stato ucciso nè da malandrini, che in quel luogo non ne furono mai, nè  da nemici, cui egli non aveva, sia stalo ucciso da  le. » In siffatta esposizione noi faremo uso della  confutazione, mostrando che altre persone, oltre  a quelle che l’oratore ha nominate, hanno potuto  commettere l’omicidio: come se nel citato esempio, allorché fu dello essere d’ uopo che sia stato  ucciso o da malandrini, o da nemici, o da noi, risponderemo che egli potè essere ucciso o dai proprii schiavi, o dai nostri coeredi. Distrutto in questo modo il sillogismo dell’ avversario, ci verrà  aperto un più vasto campo di difesa. Bisogna adunque nella esposizione evitare anche questo, di non  tralasciare alcuna parte essenziale, quando parer  possa essersi da noi raccolta Ogni cosa. Viziosa  parimente è quella esposizione che si compone d’una enumerazione falsa, come se, essendo più le  idee, che si presentano, ne sponiamo meno, come:  « Due sono le cose, o giudici, che spjngon tulli gli  uomini al male, la lussuria c l’ avarizia. Che? aggiungerà taluno; e l’ amore? e l’ambizione? e la  superbia? c la paura della morte? e la cupidigia  d’impero? tante altre passioni in fine? » L’enumerazione ancora è falsa, quando, non essendovi  campo che a poche idee, ne presentiamo molle,  come: « tre cose molestano gli uomini: il timore,,  il desiderio, e la tristezza. » bastava dire il timore  e il desiderio, perchè la tristezza va necessariamente congiunta sì all’ una sì all’ altra delle due  cose suddette.  Ancora è viziosa quella esposizione che è  pigliala troppo da lontano, per esempio: « Madre  di tulli i mali è la stoltezza la quale più d’ogni altra cosa genera gl’insaziabili dcsidcrii; gl'insaziabili desiderii non hanno nè fine nè misura; questi  generano l’ avarizia ; e l’avarizia spinge 1’ uomo a  qualunque misfatto. Spinti dunque dall’ avarizia i  nostri avversarti, sì commisero un tale delitto. >;  Qui bastava esporre quest'ullima idea soltanto per  non imitare Ennio e gli altri poeti, ai quali è permesso di parlare in questa maniera:   « Oh avessero gli Dii voluto che nella selva Pclia, dalle scuri taglialo, non fosse mai caduto a  , terra il pino, e che con esso non si fosse mai tolto di fabbricar la nave, clic or porla il nome di Argo;  dalla quale trasportati gli eletti guerrieri Argivi  n' andarono a conquistare il dorato vello di un  montone in Colchidc per Io perfido comandamento  del re Pelias ! Imperciocché giammai non avrebbe  la casa sua lasciala l’ errante mia padrona Medea,  piena d’affanni il cuore, ferita di uncrudcleamorc.»   Qui sarebbe bastatoli diro, (se il poeta si fesse  dato pensiero solo di-ciò clic era bastante):   « Oh avessero gli Dii voluto che giammai non  avesse la casa sua lasciata I’ errante mia padrona  Medea, ferita d’ amore ! »   Bisogna adunque ben guardarsineUo esposizioni di questo genere di risalire a cose così lontane;  perciocché non v’ ha bisogno che io mi perda qui  a biasimarne a parte a parte i difetti, come di tante altre, quando è chiaro che sono viziosissime di  per sé.  È poi viziosa quella ragione, clic non è  adattata alla esposizione, sia per la propria debolezza, sia per la sua falsità. Pecca di debolezza  quella ragione, la quale non mostra che la cosa è  necessariamente tale quale è stata esposta, come  in questo luogo di Plauto:   « Castigare un amico, clic per colpa il merita,  è ingrato uffizio; m:r talora utile e profittevole. »  ' Questa è l’ esposizione : vediamo qual ragione  ne è addotta. Imperciocché oggi castigherò il mio amico  per una colpa, per lo quale ei merita di essere castigato. »   Egli dimostra qual sia 1’ utile da ciò che farà,  non da ciò che conviene di fare. È ragione falsa  quella, che consta di una ragione non vera, come  in questo esempio: « L’ amore non è da fuggirsi,  perchè ei genera amicizia verissima. )) 0 come in  quesl’allro: « E da fuggirsi la filosofia, perchè ella  è madre della indolenza c della pigrizia. » Se queste ragioni non fossero false, noi dovremmo pure  ammetter per vere le esposizioni che le precedono. Ancora è debole quella ragione che non arreca  una cagione necessaria della esposizione, come in  questo luogo di Pacuvio:   « Alcuni filosofi dicono clic la fortuna è stolta,  cieca, e insensata ; e vanno predicando che ella  volubile si lien diritta sopra un globo di pietra, e  clic cade da quella parte verso cui la sorte spinge  il globo. I.a dicono eieea, perchè non vede il luogo  dov’ella deve fissarsi; stolta, perchè è crudele, incerta, instabile; insensata, perchè non sa distinguere nè chi merita nè chi demerita- Altri filosofi  poi vi sono, i quali negano esserci per cag.ion di  fortuna veruna miseria, ma tutte cose reggersi dal  caso; opinione, dicono essi, più verisimile, la quale  in fatto è tuttodì dall’ esperienza dimostrala ; ed  Oreste ne è un esempio, il quale prima fu re, e divenne poi mendico; il che gli accadde per cagione del suo naufragio: dunque la colpa non fu della fortuna, j)   Qui Pacuvió usa una ragione debole, quando  afferma, che più veramente lutto si fa per caso c  non per fortuna; perciocché tanto nell’uno quanto nell’ altro sistèma dei filosofi pur potè farsi  che queirOrcstc, che era stato re, divenisse mendico. È debole eziandio quella ragione, che  non ha che l’ apparenza della ragione, ma altro  non dice che ciò che è stalo dello nella esposizione, come: « Un gran male è l’avarizia per gli uomini, perchè gli uomini per lo smodato desiderio  delle ricchezze vengono da molte e grandi incomodità travagliali. » Qui, se ben si consideri, vicn  data per ragione, cambiale le parole, la cosa slessa, che fu detta nella esposizione. Ancora è debole  quella ragione, la quale soggiunge alla esposizione una cagione meno idonea di quello che la cosa  richiede, per esempio: « Utile è la sapienza, perchè quelli che sono sapienti, hanno consuetudine  di seguire la pietà. » Ovvero: « È utile aver dei  veri amici, perchè allora avrai con chi scherzare. »  Se noi adduciamo siffatte ragioni, l’esposizione  non vieti confermala con una prova universale, assoluta, ma minima affatto. Ancora è debole quella  ragione, la quale si possa appropriare anche ad    un’altra esposizione, come fa Pacuvio,chc arreca  la medesima ragione per provare tanto clic la fortuna è cicca, quanto eh’ ella è insensata. Nella  confermazione della ragione vi sono molli difetti  ^a evitarsi nel nostro ragionamento, e molli altri  da notarsi in quello degli avversari!; c tanto più  attentamente vogliono essere considerati in quanto clic un’accurata confermazione della ragione  consolida mollo gagliardamente tutta intera Ja nostra argomentazione. Appunto per ciò gli oratori  diligenti nella eonfcrmazion della ragione fanno  uso della doppia conclusione, vale a dire del dilemma, a questo modo:   « 0 padre, voi mi colpite di una crudele ingiustizia. Imperciocché, se tenevate Crcsfonlc per un  malvagio, perchè me Io concedevate a marito ? E  se è un uomo onesto, perchè, a malgrado mio e  suo, mi costringete a lasciarlo ? »   Simili conclusioni, ovvero dilemmi, o si rivolgeranno in contrario, osi confuteranno in una delle  due parti. Si rivolgeranno in contrario così:   « Io non commetto, o figlia, contro di le veruna ingiustizia. Se egli è onesl’ uomc, rimarrà tuo  marito; ma se è malvagio, io por mezzo del divorzio ti torrò a gravi mali. »   Si confuteranno in una delle due parti, se delle  due proporzioni del dilemma si dissolverà ol’ una  o l’ altra, come: Se stimavate Crcsfontc un malvagio, perchè  concedermegli in isposa ? — Lo credetti un onesto  uomo; m’ingannai; lo conobbi dappoi, c l’ odio  adesso. «   XXV. La confutazione adunque di un tale dilemma si fa in due maniere: la prima maniera, mostrata di sopra, è più ingegnosa; quest’altra è più  facile a trovarsi. Similmente è viziosa la conl'ermazion della ragione, quando malamente usiamo  come segno certo di una data cosa un tal segno,  che può significarne più d’ una , per esempio :  a Poiché colui è pallido, fa d’ uopo clic sia stato  ammalalo. » Ovvero, « Fa d’uopo che colei abbia  partorito, poiché tiene sulle braccia un bambino.»  Colesti segni non presentano di per sé stessi una  certezza, se non vi •concorrano altri segni analoghi: che se vi concorrano, allora potremo più facilmente avere la convinzione. È parimenti giudicalo diretto il dire contra 1’ avversario cosa , che.  può convenire o contra un altro, o conira quel medesimo clic parla, per esempio :   « Miseri son quelli, che tolgono moglie; — ma  tu la togliesti due volle. »   E ancora difetto usare una difesa, che sia comune; per esempio: * Colui peccò per iracondia , o  per inesperienza, o per amore. » Se cosiffatte scuse si dovessero tenere per bpone, allora n’andrebbono impuniti i più grandi delitti. Egli è parimente    Digitized by Google    un altro difetto il dare per cerio ciò che non è  generalmente ricevuto per tale, perchè è cosa pur  sempre soggetta a controversia , per esempio :  « Olà, non sai tu che gli Dei, i quali hanno il potere di muovere le còlesti cose e le terrestri, fanno  tra loro pace, e manlengonsi in concordia? »  CosVEnnio introduce Cresfontc, che porge quesf esempio in favore del suo diritto, quasiché avesse già dimostrato con ragioni abbastanza certe che  la cosa è così. È parimente difettoso ciò che sembra dirsi oramai troppo lardi , c ad affare finito,  come: « Se io avessi ciò preveduto, o Quiriti, non  avrei permesso che la cosa venisse ad un tal punto; io avrei fatto così e colà; ma in quel momento  questo espediente non mi venne al pensiero. » E  ancora riguardalo come difetto il cercar di coprire  con una qualche ombra di difesa un’ azione, che  fu manifestamente colpevole, per esempio :   « Io sì ti lasciai, quando lutti venivano a te, signore di un fiorentissimo regno; ma ora essendo  tu da tutti abbandonato, io sola con grandissimo  mio. pericolo mi accingo a riporti sul tuo trono, a  Medesimamente è riguardato siccome  difetto che si dica una cosa in modo che possa esser presa in un senso diverso da quello clic si è  voluto significare. Di tal falla sarebbe questa sentenza, che fosse pronunziala da alcuno potente e  fazioso in pubblica adunanza : « E meglio avere un re che cattive leggi. » Imperciocché sebbene  questa cosa possa essere della senza un fine malizioso, persola cagione dicrescerforza airargomento, pure, poi’ la potenza di colui che parla, non è  detta senza un odioso sospetto. È pur male l’usare  definizioni false o volgari. False sono queste, come  se alcuno dica: « Non sono ingiurie se non quelle  che risultano da percosse o da oltraggi. » Volgari  definizioni son quelle, che possono senza più trasferirsi ad altra cosa; come se alcuno dica : « Il  delatore è, per descriverlo in breve, un uomo degno di forca; perciocché è un cittadino perverso e  pestilenziale. » Qui usasi una definizione, che non  si addice meno al delatore che al ladro, al sicario,  al traditore. Similmente è difetto pigliar come  prova ciò che è posto in djsquisizione; come se alcuno accusi altrui di furto, c dica: « Questo colale  • è un uomo cattivo, avaro, fraudolento , e di ciò  è una prova il furto di cui viene accusalo. » È ancora difetto risolvere la cosa in deputazione con  altra egualmente in deputazione, per esempio:  « Non conviene, o Censori, che leniate costui per  isousato da ciò che dice, clic egli non ha potuto  presentarsi a voi, come si era obbligato con giuramento; perchè, se non avesse potuto ritornare  all’esercito, farebbe egli una scusa eguale al tribuno militare? » Questo argoménto è vizioso per  ciò clic viene recata innanzi per esempio non una    cosa già spedita e giudicata, ma una cosa ancora  indecisa e posta egualmente in controversia. Altro  difetto si è, quando non si rischiara abbastanza la  cosa che forma il punto essenziale della controversia, e la si lascia da parte, come se fosse di già  consentita; per esempio: « L’oracolo, se pur lo intendete, parla chiaro ; egli comanda, che, se vogliamo impadronirci di Troia, si diano queste armi  a tale guerriero qual si fu colui che le portò: questo guerriero ecco son io: è giusto che io possegga  le armi fraterne, e che vengano aggiudicate a me,  o come a congiunto di Achille, o come all’ emulo  del suo valore. »   Un altro difetto si è quello di non essere nel  proprio parlare d’accordo con sè medesimo, e di  contraddire a ciò che prima si èdetto, per esempio:   « Io non posso, meco medesimo pensando, spiegare perchè io accusi costui; imperciocché se egli  ha verecondia, perchè mai accuso io un uomo che  è onesto? Se poi ha un animo, che non sente verecondia, perchè mai accuso io un uomo che fa  poco conto di quello che dico? In verità egli dà assai buone ragioni per  non accusare quell’uomo. E perchè dunque soggiunge :   « Ora io sì li farò smascheralo rimontando al  principio ? »   È similmente da biasimare ogni discorso che urli la volontà dei giudici o degli uditori, elio ferisca le parti ch’ei seguitano o le persone che da  loro sono amate, o che , per qualche altro modo  consimile, offenda le opinioni loro. Ancora è vizio  non sostenere nella confermazione le cose che  nella esposizione si è promesso di sostenere. Ancora è da guardarsi dal parlare di una cosa, allorché se ne ha un’altra in controversia, e per evitar  questo difetto vuoisi por mente o di non aggiunger nulla al soggetto, o di nulla levargli, o di non  far cambiar natura alla causa trasformandola in  un’altra, come appresso Pacuvio fanno appunto  Zelo ed Anfione; i quali, dopo di avere introdotta  questione intorno alla musica, d’ altro poi non ragionano che della natura della sapienza, c dell’utilità della virtù. Vuoisi ancora osservare che, se  l’accusa rechi una cosa, la difesa non ne confuti  un’altra, come fanno sovente molti avvocati imbarazzati da una causa difficile; come: « Se taluno,  venendo accusato di avere per broglio cercala una  carica, risponda clic sovente in campo ha ricevuto  ricompense da’ suoi capi. » Se noi nel discorso  degli avversar» porremo una grande attenzione a  ciò, sovente li coglieremo in difetto, e per siffatto  modo cogliendoli mostreremo, che essi nulla dir  possono intorno a quel soggetto. È parimente vizio  dir male di un’ arte , o di una scienza, o di uno  sludio qualsiasi a cagione de’ vizii di coloro clic quel colnlc studio professano: come quelli clic  biasimano la Rcttorioa a cagione della vituperevole  condotta di qualche oratore. Similmente è errore  il pensare che, poiché si è dimostrato essere stalo  commesso il delitto,, sia pur anche dimostralo chi  ne è stato T autore, come: « Egli è manifesto che  il cadavere era sfiguralo, gonfio, livido: dunque  quel tale fu tolto di vita con veleno. » Conciossia^  che se ad imitazione di molli si ponga ogni cura  a provare che quel tale Tu avvelenato, si verrà a  cadere in un difetto non picciolo; perchè non si  cerca già, se vi è stalo delitto, ma bensì da chi  è stalo commesso.   XXVIII. È pur da riguardare comevizio, quando  si paragonano due cose, lo esaltarne una, e non  dir parola dell’altra, ovvero parlarne con alquanto  di negligenza; come, qualora faccndosrquislione,  se sia meglio clic al popolo si dia grano o no, tu  ponga cura ad enumerare quali siano i vantaggi  dell’ uno di questi avvisi, c trapassi come di niun  valore quali esser possano i disavvantaggi dell’avviso opposto, ovvero nc dica solamente i più piccoli. Altro vizio si è ancora, quando si paragonano  due cose, pensare che sia necessario di biasimarne una, perchè lodasi l’altra, come sarebbe: Se  facciasi quislionc a quale dei due popoli debbasi  concedere onor maggiore, se agli Albani o ai Vestini, per cagione di servigi prestati alla Rcpubblica Romana ; c colui, che parla in favore degli  uni, dica offesa contro agli altri; perchè none necessario che, se In dai la preferenza agli uni, dica  poi male degli altri. Imperciocché tu ben potrai,  dopo di avere assai lodali gli uni, impartir qualche  lode anche agli altri, per non dar a credere che tu  abbi alquanto appassionatamente combattuto contro alla verità. Altro vizio pure si è quello di levar  controversia intorno al nome e vocabolo di quella  cosa, di cui può esser giudice supremo l’uso:  come fece Sulpizio, il quale dopo essersi opposto al richiamo degli esuli, ai quali non era stalo  concesso di difendere la propria causa, più tardi,  mutalo avviso, nel mentre clic proponeva la legge  medesima da lui prima combattuta, sosteneva che  quella era una legge diversa per un semplice cambiamento di nomi: perciocché egli diceva di richiamare non, già degli esuli, ma dei cittadini cacciali  per violenza; quasi che fossesi indotta controversia  con qual nome dovessero quelli venir chiamali dal  popolo Romano, o come se non tulli coloro, ai  quali era stala interdetta l’acqua e il fuoco, si dovessero chiamar esuli. Nondimeno noi possiamo  perdonargli, s’ ei lo feGC con un perchè: quanto  a noi riconosciamo essere vizio muovere controversia per un semplice cambiamento di nomi. Poiché l’ornamento consta di similitudini, di esempi, di amplificazioni, di giudicali, e MODO HI. cT allri luoghi oralorii, alti a sviluppare cd arricchire rargomenlazione, esamineremo quali esser  possano i vizii nell’ uso di questi mezzi. È viziosa  quella similitudine, la quale in qualche parte è  disacconcia, e non presenta eguali rapporti fra i  termini della comparazione, o nuoce all’ oratore  che l’usa. È viziosa 1’ esempio, se può essere tacciato di falsità, o è indegno di venire imitato, o è  al di sopra o al disotto del soggetto. Ci ha vizio,  se si adduca un giudicato, che riguardi una quistionc diversa, o tal cosa, sopra cui non v’ha alcuna contestazione; oppure, se è ingiusto, o tale,  che gli avversar» possano addurne a loro favore o  più altri analoghi, o più idonei. Medesimamente  è difetto, allorché l’accusato confessa il fallo, l’argomentare sopra quello, e dimostrare che ha avuto  luogo, bastando in tal caso solamente amplificarlo. Similmente è difetto amplificare ciò che prima  ha bisoguo di essere dimostrato, come: « Se alcuno accusi un tale di avere ucciso un uomo, e,  avanti di avere bastantemente provata 1’ accusa,  amplifichi il delitto, e dica, che niente v’ha di più  indegno che di uccidere un uomo : » chè non si  domanda già, se l’ azione sia o no indegna, ma se  veramente sia stata commessa.   Le recapilolazione è viziosa, quando primieramente non ripete ogni cosa nell’ ordine col quale  fu detta innanzi; quando non riepiloga con BREVITA; quando nella sua enumerazione non presenta  un insieme ben determinato c chiaro, che faccia  ricordare qual fu Mila prova la proposizione o  esposizione, c in appresso la ragione; e finalmente  la confermazione della ragione; in somma, qual  si fu P argomentazione tutta intera.   XXX. Le conclusioni , le quali vengon chiamate dai Greci epiloghi , hanno tre parli, componendosi esse della enumerazione, dell’amplificazione, e della commiserazione (1). L' enumerazione è quella, per cui noi raccogliamo e ripetiamo in pochi detti quelle cose, di cui abbiamo par- ' lato, non per riprodurre interamente, ma per richiamare a memoria il discorso, ripigliando per  ordine tutto ciò che sarà stalo, dello, di maniera  che si risveglino nella mente dell’ uditore le idee  eh’ egli avrà potuto ritenere. Bisogna altresì nella  enumerazione por mente a non rimontare sino all’esordio od anche solamente alla narrazione, perchè il discorso si parrebbe lavorato e preparato  con isludio speciale per fare o prova d' arte, o  spaccio d’ ingegno, o ostentazione di memoria.   Per la qual cosa converrà cominciare P enumerazione dalla divisione, c quindi esporre per ordine Seguo il parere di Scliutz, clic giudica intruse le  parole. In qualuor locis uli possumus, etc., c non le  ammetto nella mia traduzione. brevemente le cose che saranno state nella confermazione e nella confutazione trattate. L’aroplilìcazione è quella, che ha per obbielto di eccitare  gli uditori per mezzo de’luoghi comuni. Dieci precetti facilissimi insegnano i luoghi comuni proprii  ad amplificare l’accusa. Il primo luogo si traedal1’ autorità , allorché noi rivochiamo alla mente  quanto la cosa, onde trattasi', sia stala a cuore agli  Dei immortali, ai nostri maggiori, ai re, alle città,  alle nazioui, agli uomini più sapienti, al senato; e  soprattutto in qual maniera speciale abbiano le  leggi pronunziato intorno a siffatte cose. Il secondo luogo è, quando noi esaminiamo a chi sono  falle le azioni, onde noi accusiamo taluno ; se all’universale degli uomini, il clic è il più grave delitto; se a superiori (alla qual classe appartengono coloro, che noi abbiamo compresi nel luogo  comune dell’ autorità) ; se ad eguali, vale a dire  ad uomini collocali nella stessa condizione di ani- ,  mo, di corpo, e di fortune; se ad inferiori, vale a  dire ad uomini, che rimangono da noi trapassati  in tutte coleste cose- Il terzo luogo consiste nel  domandare che cosa ne interverrebbe , se a ciascheduno si concedesse il simigliarne, cioè di fare  quello che ha fatto l’ avversario ; e nel mostrare  quanti danni e mali seguir possano dal lasciare  impunito quel tale delitto. Il quarto luogo consiste nel mostrare che, ove si mandi perdonato il   to reo, molli altri, che ancora sono ritenuti dal timore di un giudizio, diverranno più pronti al misfare. Il quinto luogo è , quando mostriamo che,  se una volta solo sia dato diverso giudizio, non vi  sarà più nulla che possa rimediare al male, o correggere F errore dei giudici; nel qual luogo non  sarà disutile paragonare quel misfatto con altri,  per mostrare che alcuni possono venire o dal tempo tolti, o dalla prudenza corretti; ma che cotesto  da niuna cosa umana può venire o tolto o corretto.  Il sesto luogo è, quando proviamo che fu opralo  pensatamente, e diciamo che un atto volontario  non ammette veruna scusa, e che F imprudenza  sola può domandar grazia. Il settimo luogo è ,  quando mostriamo che F azione è abbominevolc,  crudele, nefando, tirannica: del qual genere sono  gli oltraggi fatti ad una donna, o quelli che cagionano le guerre, e fanno versare il sangue in battaglia. L’ottavo luogo è, quando mostriamo che il  delitto non è comunale, ma singolare, sozzo, infame , senza esempio , affinchè venga punito più  prontamente e con maggiore severità. 11 nono luogo componesi della comparazione del delitti, quando si sostiene, per esempio, che è un delitto più  grande recar violenza ad una donna libera , che  spogliare un tempio ; perchè a questa cosa può  spingere il bisogno, a quella soltanto intemperante  burbanza.il decimo.luogo è quello, pel quale lutto ciò che si è operato nel mandare a fine il fatto, e  tutto ciò che suol esserne conseguenza, noi esponiamo con tratti così vivi, così accusanti, così distinti, che si creda di vedere oprarsi e compiersi  il fatto stesso con tutte le sue ordinarie conseguenze. Per giungere allo scopo di muovere la  compassione. nell’ animo dell’uditore noi dipingeremo le diverse mutazioni della fortuna ; noi paragoneremo la nostra passata prosperità colla presente nostra disgrazia; noi enumereremo e porremo sotto agli occhi le tristi conseguenze, che deriverebbero per noi dalla perdila della nostra causa; noi supplicheremo i nostri giudici, e raccomandandoci alla loro pietà ci commetteremo interamente nel loro arbitrio; noi descriveremo i mali,  che per la calamità nostra cadrebbero sopra i nostri parenti, sopra i nostri figli, sopra i nostri amici, dichiarando nel medesimo tempo che è il loro  abbandono e la loro miseria quella clic più ci cuoce, e non già i nostri proprii mali ; noi ricorderemo la clemenza, l’ umanità, la compassione , clic  abbiamo sempre usata verso gli altri ; noi dimostreremo che siamo stati mai sempre o per lungo  tempo nelle avversità; noi lamenteremo il nostro  destino, la nostra sorte; noi finalmente prometteremo che in avvenire il nostro animo sarà forte e  paziente degli avversi casi. Trattando la commiserazione converrà clic noi siamo brevi ; perocché  niente v’ ha clic più presto si secchi quanto una  lagrima. In questo secondo libro noi abbiam trattate le quislioni presso a poco più oscure deU’arte  oratoria: laonde noi faremo qui fine a questo libro. Kel terzo esamineremo gli altri precetti tanto  quanto ci parrà conveniente. Se tu studierai questo trattato con tanta accuratezza con quanta io  ho procurato di comporlo, sì io raccoglierò nella  tua istruzione il frutto della mia fatica, c sì tu stesso approverai nel medesimo tempo la mia diligenza e andrai lieto del tuo progresso: le regole dell’arte adorneranno il tuo sapere, ed io avrò maggior premura di dar compimento a ciò che resta.  Son certo clic, in quanto a* le, accadrà ciò che dico, perchè so quanto vali: noi intanto passiamo  ad esaminare gli altri precetti per far paghi i tuoi  giusti desi lerii, la qual cosa è per me la più cara  diluite. Come ad ogni causa del genere giudiziale  convenisse di applicare i precetti dell’invenzione,  abbastanza distesamente, io credo, fu dimostrato  nei libri precedenti. In questo terzo libro ora abbiamo riserbata la trattazione delle regole dell’invenzione spettanti alle cause del genere deliberativo q dimostrativo per farti quanto più presto conoscere tutta intera la teorica, che concerne l’ invenzione. Restano ancora quattro parti della Rcttorica: tre verranno spiegate in questo libro, cioè  la Disposizione, la Pronunciazionc, e la Memoria:  di quanto poi riguarda l’Elocuzione, poiché essa  richiede una più ampia trattazione, abbiamo prescelto di parlarne in un quarto libro, il quale finito ben presto, siccome spero, noi ti manderemo,  affinchè veruna parte non ti manchi deH’arlc oratoria. Infraliamo tu potrai ben apprendere queste  prime parli e con noi, se li aggrada, e tal fiata senza di noi, leggendole, acciocché nulla t’ impedisca di potere avanzarli al pari di noi in quest'arte  del dire. Ora prestami tutta la tua attenzione: noi  continueremo a camminare verso la prefissa mela.   II. Nelle deliberazioni o si cerca quale di due  partiti è il migliore, o qual è in generale il partito  che si deve prendere. Quale di due parlili è il migliore, per esempio: «Se abbiasi a distrugger Cartagine, o lasciarla sussistere ». Qual è in generale  il partilo che si deve prendere, per esempio: « Come se Annibale, richiamalo dall’ Italia a Cartagine, consulti se debba rimanere in Italia, o tornare  a casa, o andare in Egitto per impadronirsi di Alessandria». Alcune volte la deliberazione cade sulla  natura stessa della quislione: «Come se il Senato  esamini, se debba o no riscattar dal nemico i prigionieri ». Altre volte la deliberazione viene indotta da qualche cagione esterna: « Come se il  Senato nell’occasione della guerra Punica deliberi, se dispensi con Scipione, acciocché ei possa  essere nominato consolo prima che abbia l’età voluta dalla legge ». Altre volle la deliberazione e  riguarda la natura stessa della quislione, e di più  viene indotta da qualche esterna cagione: «Come  se il Senato deliberi, nella guerra Italica, se debba  dare o no il diritto di cittadinanza agli alleati ». Io  quelle cause, in cui la deliberazione riguarderà lo  natura stessa della quislione, il discorso si aggirerà sempre intorno al soggetto. In quelle cause  poi, in cui la deliberazione verrà indotta da esterna cagione, dovrassi questa stessa cagione o innalzare o deprimere. Ogni discorso di colui, che  in una deliberazione dà il suo parere, conviene  che si proponga per fine 1’ utile, di modo che dovrà ogni mezzo oratorio tendere a questo fine. In  una discussione politica l’ utile ha due parli, la  sicurezza e l’onestà. La sicurezza consiste nell’evitare con qualsivoglia mezzo un pericolo presente  o futuro. Essa si appoggia o sopra la forza o sopra l’ inganno; e noi potremo usare o separatamente ciascuno di questi mezzi, o lutti e due insieme. La forza si spiega per gli eserciti, per le  flotte, per le armi, per le macchine di guerra, per  le leve degli uomini, e per le altre cose di questo  genere. L’inganno si compie per danaro, per promesse, per dissimulazione, per celerità, per mcnlimenlo, c per altri spedienti, di cui parlerò a tempo più opportuno, se mai applicherò l’ animo a  scrivere sopra l’ arte militare, o sopra 1’ amministrazione della cosa pubblica (1). L’onestà si compone del bene e del lodevole. Il bene è ciò che  risulta dalla virtù e dal dovere. Il bene comprende Questo è un altro luogo, che induce a credere che  Cantore della Rettorica sia proprio Cicerone. Egli fa  menzione di due opere, le quali si sa essere state più  tardi da lui composte. la prudenza, la giustizia, la fortezza, la temperanza. La prudenza è una certa finezza d’ ingegno,  che, dietro un certo calcolo,, può scegliere tra i  beni ed i mali: chiamasi ancora prudenza la cognizione di un’ arte: parimente appellasi prudenza  una memoria ricca di molte cose congiunta ad una  esperienza grande negli affari. La giustizia è l’ equilà, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo il suo merito. La fortezza è la bramosia delle  grandi cose, il disprezzo delle volgari, e la tolleranza della fatica in ragione della loro utilità. La  temperanza è nell’ animo una facoltà moderatrice,  che contiene le passioni.   III. Il nostro parlare appoggerassi alla prudenza, se, paragonando i vantaggi coi danni, consiglieremo a cercare gli uni e ad evitare gli altri: o  se consiglieremo in alcuno frangente qualche misura da noi sperimentata o conosciuta, c mostreremo in che modo e con quali mezzi noi possiamo  conseguire lo intento; o se persuaderemo un partito, del quale o abbiamo noi stessi veduto i vantaggi, o abbiamo udito a raccontarli: nel qual caso  ci sarà ognora facile di tirare altrui nella persuasione di ciò che vorremo, recando l’ esempio. Noi  faremo buon uso delle parti della giustizia, se imploreremo la pietà in favore o degli innocenti v  dei supplicanti; se mostreremo essere conveniente  di rendere il guiderdone ai benemeriti; se proveremo essere d’uopo vendicarsi delle offese; se  giudicheremo doversi ad ogni costo serbar la fede;  se diremo doversi scrupolosamente rispettar le leggi e le costumanze sociali; se diremo doversi con  amore coltivare le alleanze e le amicizie ; se dimostreremo doversi religiosamente osservare i doveri, che la natura c’ impose verso i parenti, gli  Dei, la patria ; se diremo doversi inviolabilmente  guardare le ospitalità, le clientele, le consanguineità, i parentadi; se mostreremo non doverci noi,  nè per guadagno, nè per favore, nè per pericolo,  nè per invidia, allontanare dal diritto cammino; se  diremo dover noi in ogni nostra azione aver di  mira l’equità, la giustizia. Con simili ed altri mezzi, che la giustizia ci offre, se nell’ assemblea popolare, o nel consiglio avviseremo esser da fare  alcuna cosa, proveremo che è giusta; e coi mezzi  conlrarii, che è ingiusta. Così i luoghi medesimi  ci gioveranno tanto al persuadere quanto al dissuadere. Se diremo che vuoisi far cosa per fortezza d’animo, proveremo che non solo bisogna cercare e volere le cose grandi ed eccelse, ma ancora  che gli animi forti debbono disprezzare le cose  umili e basse, e riguardarle siccome inferiori alla  propria loro dignità. Parimente diremo che non  bisogna mai lasciarsi allontanare da veruna cosa  onesta per grandezza di pericolo o di fatica; che  bisogna preferire la morte all’ infamia ; che niun dolore ci dee costringere ad abbandonar la virtù;  che non dobbiamo temer le inimicizie d’ alcuno  per cagion del vero; che per la patria, pei parenti, per gli ospiti, per gli amici, per tutto ciò insomma, che la giustizia vuole da noi, bisogna affrontare qualunque pericolo, e sottostare a qualunque  disagio. Noi ricorreremo alle parti della temperanza, se biasimeremo la smodata avidità degli  onori, dell’oro, e d'altre cose siffatte; se racchiuderemo tulli i nostri desiderii nel giusto limite  delia natura ; se mostreremo a ciascuno quanto  può bastargli, dissuadendolo dal passar quel punto, e statuendo la sua misura ad ogni cosa. Di tal  fatta sono le parti proprie della virtù, le quali sono  da amplificare, se vuoisi persuadere, e sono da attenuare, se trattasi di dissuadere; e così saran pure attenuali quei mezzi che ho indicati di sopra.  Conciossiachè nessuno vi sarà, il quale stimi di  dover lasciar da parte la virtù; ma ò noi presenteremo le parti, che confuteremo, siccome non offerenti alla virtù i mezzi di prodursi, o mostreremo  che la virtù troverà meglio il suo posto nelle parti  contrarie. E così mostreremo, se ci sarà possibile, che quella cosa, che all’ avversario nostro è piaciuto di chiamare giustizia, altro non è Che dappocaggine, e infingardia e viziosa licenza ; che  quella, ch’ei chiamò prudenza, altro non è che  una scienza inetta, garrula c noiosa; che quella, eh’ egli appellò temperanza, altro non è che mera  pigrizia e scioperata negligenza; che quella finalmente, eh* ei disse fortezza, altro non è che gla' dialoria e spensierata avventatezza.   IV. Il lodevole è ciò che ci procura, e pel presente e per l’ avvenire, un’ onorevole riputazione.  Noi lo distinguiamo dal bene, non perchè queste  quattro parti, che comprendiamo sotto alla parola  bene, non ci procurino per solito questa onorevole  riputazione ; ma perchè quanlunque il lodevole  nasca dal bene, pure è necessario che nel discorso l’uno e l’altro siano separatamente trattati. Infatti egli non si dee cercare il bene per amore  della sola lode, ma se la lode ne deve poi esser la  mercede, la volontà del ben fare raddoppierà di  forza. Così, dopo di aver dimostralo die 1’ azione  è buona, noi proveremo o eh’ ella otterrà le lodi  di giudici competenti ( comò se, biasimala da persone di basso ordine, debba venire approvata da  persone di più elevalo ordine ); o eh’ ella sarà lodata da alcuno de’noslri compagni, o da tutti i cittadini, dalle estere nazioni, e dalla posterità tutta. Essendosi di già veduto come si dividano i luoghi concernenti le cause del genere deliberativo,  ora esporremo con tutta brevità come debba essere  distribuito l’intero discorso. Si potrà adunque incominciareo dall’esordio diretto, o dall’esordio per  insinuazione, facendo uso degli stessi mezzi che abbiamo irrdicati per le cause del genere giudiziale. Se intervenga un Fatto da raccontare, si seguiranno le stesse regole già date per la narrazione.  Poiché in questa sorte di cause il fine è 1’ utile,  e quest’utile abbraccia la sicurezza e l’onestà; se  potremo servirci d’entrambe le cose, imprenderemo nel nostro discorso a dimostrare che noi abbiamo per fine e l’una e l’altra; c se saremo obbligali di ristringerci ad una sola, annunzieremo qual  è quella che vorremo far valere. Se diremo di aver  per iscopo la sicurezza, la nostra divisione riguarderà la forza ed il consiglio; perocché ciò che. nel  precetto, per esser più chiaro, io chiamai inganno,  nel nostro discorso sarà più onesto chiamar consiglio. Se diremo di aver per fine l’onestà o sia il  bene, e tutte le parti del bene converranno al soggetto, allora lo divideremo in quattro parti;se tutte  non potranno convenire, esporremo nel discorso  sol quelle che ad esso soggetto converranno. Nella  confermazione e nella confutazione ci serviremo  dei luoghi, che abbiamo già indicali, per ben convalidile i nostri mezzi, ed abbattere quelli degli  avversari!. Per la maniera poi di trattare 1’ argomentazione artificiosa si consulterà il secondo  libro.   V. Ma se accada, che nella consultazione il parere dell’uno si appoggi sopra ragione di sicurezza, e il parere dell’ altro sopra ragione di onestà. come nel caso di coloro, che, assediali dai Cartaginesi, deliberano intorno al partilo da prèndersi;  colui, che consiglierà doversi preferire la sicurezza, farà uso de’luoghi seguenti: Che nessuna cosa  è più utile della propria conservazione; che si rende impossibile l’uso della virtù a colui che non ha  provveduto innanzi alla propria sicurezza;chc neppure gli Dei vengono in soccorso di coloro che si  gettano sconsigliatamente nel pericolo; che non  s'ha da stimar cosa onorevole quella che mette a  repentaglio la nostra salute. Colui, al contrario,  che consiglierà di preferire l’onore alla sicurezza,  farà uso de’luoghi seguenti: Che in nessun tempo  si deve rinunziare alla virtù; che il dolore (se è ciò  che si teme), che la morte (se è questa che si paventa), sono ben piccola cosa a petto al disonore  e all'infamia; che s ha da considerare quale ignominia ne -verrebbe altramente; c che nondimeno  noi non ne conseguiremmo nè vita immortale, nè  perpetua felicità; che niente ci assicurerebbe che,  sfuggito quel pericolo, noi non cadessimo in alcun  atiro; che per la virtù è bello andare anche volontariamente a morte; che al coraggio è solita venir  pure in aiuto la fortuna; che vive sicuro chi vive  con onore, non chi sol guarda alla sicurezza presente; e che chi vive nell’ignominia goder non può  di una perpetua felicità. Le conclusioni nel genere deliberalivosono d’ordinario le medesime come nel genere giudiziale, se non che in questagenere  torna utilissimo recare il più gran numero possix bile di esempi di falli anteriori.   VI. Passiamo ora al genere dimostrativo. Poiché  questo genere ha per iscopo la lode od il biasimo,  noi con certi mezzi costituiremo la lode, e coi  mezzi contrarii trovar potremo il biasimo. La lode  adunque può riguardare o le qualità esteriori, o  l'animo, oil corpo. Le qualità esteriori sono quelle  che ci possono venire o dal caso, o dalla fortuna,  sì buona, si cattiva; come la nascita, l'educazione,  le ricchezze, il potere, gli onori, la patria, le amicizie, e tutti i vantaggi finalmente di questa specie; e per l'opposto le cose tutte che a queste sono  contrarie. 1 vantaggi o disavvantaggi del corpo son  quelli che la natura attribuì al corpo stesso, come l’agilità, il vigore, la dignità, la sanità, e le  cose a queste contrarie. 1 vantaggi o i disavvantaggi dell’animo sono quelli che dipendono dalla nostra volontà e dal nostro intendimento, come la prudenza, la giustizia, la fortezza, eia temperanza, e quelle cose che sono contrarie a queste (l).In una orazione di questo genere si piglierà   (t) Nel testo trovansi qui le seguenti parolè : Erit  igitur haec confirmatioet confutatio nobis; ma parendomi con lo Scliulz che siano affatto fuor di luogo, io  le ricuso come inlegitlime, e non le traduco. l’esordio odalla nostra propria persona, odalla persona di colui, del quale parliamo, ovvero da quella  degli uditori, o dal soggello slesso. Dalla nostra persona: Se loderemo alcuno, diremoche noi facciamo  ciò o per dovere, perchè fra quello e noi passa un  vincolo di amicizia ; o per propensione, perchè  esso è dotato di tanta virtù, che tutti deggiono volerlo celebrare; o infine perchè è diritta cosa mostrare, lodando altrui, qual sia T animo nostro, o  sia il nostro carattere. Se biasimeremo, noi diremo  che facciano questo o a buon diritto, perchè anche  noi fummo così trattati; o per amor del bene, perchè noi riguardiamo come utile che da tutti sia  conosciuta una malizia e scelleratezza unica; o finalmente perchè biasimando altrui amiamo di far  conoscere ciò che a noi non piace. Dalla persona,  di cui noi parliamo: Se loderemo alcuno, noi diremo che abbiam timore di non potere colle parole  raggiungere l’altezza delle sue azioni; che è d'uopo che tulle le lingue imprendano a celebrare le  sue virtù ; che gli stessi suoi fatti passano l’ eloquenza di tulli i panegiristi. Se biasimeremo, potremo due quelle cosè che ci parranno contrarie  a queste, cambiando poche parole, come con l’esempio fu poco innanzi dimostrato. Dalla persona  degli uditori : Se loderemo alcuno, diremo che ,  parlando noi davanti a persone che bene lo conoscono, spendiamo poche parole per sola cagione di avvertire; o se non fosse a loro conosciuto, domanderemo che vogliano ben conoscere un tal  uomo, perchè trovandosi nello stesso amore della  virtù coloro stessi dinanzi ai quali lodiamo, nel  quale amore è pure stata od è la persona, clic da  noi si loda, speriamo che saranno più facilmente  per approvarci suoi fatti giusta il desiderio nostro.  Il biasimo starà nei mezzi contrari: poiché, se è conosciuta la persona, affermeremo che noi siamo per  dire poche cose della scelleratezza sua; e se non  sarà conosciuta, domanderemo che vogliamo ben  conoscerla, affinchè possano schivare la sua perversità; perchè essendo coloro, clic odono, dissimili al tulio da colui che si biasima, noi speriamo  che saranno per disapprovare altamente lasua condotta. Dal soggetto stesso : diremo che siamo incerti qual cosa dobbiamo principalmente lodare ;  che abbiamo timore che, anche dicendo molle cose  in favore del nostro soggetto, noi ne ommetliamo  ben molle di più; c continueremo con sentenze di  questa forma ; alle quali sentenze sostituiremo le  contrarie, ove si tratti di biasimare.   VII. Trattato l’esordio conformemente ad alcuna  di quelle fonti, di cui abbiamo parlato, non sarà  necessario elicne segua alcuna narrazione; ma se  mai ne intervenga una, c che siamo obbligati di,  raccontare con lode a con biasimo qualche azione  della persoua di cui togliamo a parlare, cercherò  LIBRO III.    9i    mo le regole della narrazione nel primo libro. La  divisione verrà fatta così: Primieramente esporremo le cose, che vorremo lodare o biasimare; poi  diremo con ordine, come cd in qual tempo ciascuna nazione ha avuto luogo, affinchè si sappia ciò  che è stato fatto, e con quale sicurezza e precauzione. Ma converrà render conto delle virtù o dei  vizi dell’animo, e mostrar poscia come l’animo abbia tratto partito dai vantaggi o disavvantaggi del  corpo o delle qualità esteriori. Per descrivere la vita terremo quest’ordine:Cominciando dalle qualità  esteriori, parleremo della slirpe;a lode della persona, diremo di quali maggiori sia nata; è di nobile  stirpe, diremo ch’è stala pari o al disopra della sua  stirpe; se è di bassa origine, diremo che essa ha  trovato suo presidio non nelle virtù degli avi, ma  . nelle sue. A biasimo; se sarà di nobile schiatta, diremo che è stala di disonore agli antenati; se sarà  di bassa estrazione, che nondimeno ha pur loro recato scapito.Parlando poi dell’educazione, se si tratti di lode, diremo che la persona, di cui si parla, è  stata per tutta la puerizia bene ed onestamente educata nelle v buone discipline; se si tratti di biasimo,  diremo il contrario. Dopo ciò passeremo ai vantaggi  del corpo. Cominciando dalla natura, se si tratti di  lode, diremo che, se quest’uomo ha in sè congiunta dignità e bellezza, ciò gli ha giovato ad onore,  non a danno e a vergogna, come a tanti altri ; se ha forza ed agilità singolare, diremo che ciò è stato  l’ctTeUo di onorevoli esercizii e industrie; se gode  di una costante sanità, che ciò è il fruito delle sue  cure, e della sua temperanza nelle passioni. Se si  tratti di biasimo, se egli possegga questi vantaggi  corporali, diremo che ha fatto mal uso di questi  doni, ch’ei deve, come qualsivoglia gladiatore, al  caso e alla natura ; se non ne possegga alcuno ,  tranne la bellezza, diremo che ne è stalo privato  per sua colpa ed intemperanza. Appresso noi ritorneremo alle cose esteriori , e considereremo  quanto abbiano potuto sopra di esse le virtù o i .  vizii dell’animo: se egli sia ricco o povero; quali  sono le sue cariche, le sue glorie, le sue amicizie,  le sue inimicizie; nel sostenere le inimicizie, che  ha mai opralo di forte; per qual cagione s’ è egli  procaccialo inimicizie ; con qual fede, con quale .  amore, con quale ossequio ha coltivate le amicizie:  qual si fu nelle ricchezze ; o nella povertà come  si è egli condotto ; qual animo ha egli mostrato  nell’esercizio del potere ; se egli non è più, qual  » è stata la sua morte; quali conseguenze ha la sua  morte prodotte ?   Vili. Tutti poi gli atti, pei quali si manifesta l’attività dello spirito umano, vogliono essere rapportati alle quattro virtù dette più sopra; di maniera  che, se lodiamo, noi diremo che si oprò con giustizia, con fortezza, con temperanza, con prudenza ; c se biasimiamo, noi diremo che si oprò con  ingiustizia, con codardia, con intemperanza, con  istoltezza. Per questa disposizione si vede ormai  chiaro come si devono trattare le tre parli della  lode e del biasimo ; solo avvertiremo clic non è  necessario che noi nella lode e nel biasimo facciamo entrare tulle queste tre parti, perchè sovente  non vi tornano neppur tulle in acconcio, c sovente  vi hanno così poca importanza, che è inutile di  parlarne: laonde farà d’ uopo sceglier di queste  tre parti quelle che parranno offerire più solido  argomento. Le conclusioni dovranno esser brevi ;  e si faranno entrare nel corso stesso della causa  frequenti e brevi amplificazioni tolte a’ luoghi comuni. Nè, perchè questo genere di causa si presenti di rado nella vita, si dee perciò meno diligentementcconsiderarc; conciossinchè bisogna pur  volere poter fare acconciamente ciò che può accadere di dover fare alcuna volta. E ancorché meno  spesso si tratti separatamente questo genere dimostrativo, pure accade di sovente che nelle cause  giudiziali e deliberative intervengano molte parli  di lode o di biasimo. Per la qual cosa noi giudichiamo' doversi collocare qualche poco di studio  anche in questo genere di causa. Ora, poiché abbiamo terminata la parte più difficile della Rettorica, vale a dire, poiché abbiamo illustrata l’ invenzione, e adattata questa ad ogni genere di causa, è lempoche ci accostiamo alle altre parli. Prenderemo dunque a parlare della disposizione.   IX. Poiché la disposizione è quella che c’ insegna a meltere in ordine le cose somministrateci  dairiuvcnzionc, sì che ciascuna abbia il suo posto  determinato che le conviene ; facciamoci a mostrare qual modo debba tenersi in tale operazione.  Due sorte di disposizione ci ha: P una, che dipende dalle regole dell’ arte, e 1’ altra, che si conforma alle occasioni. Noi disporremo secondo le regole dell’ arte quando seguiremo i precetti che  nel primo libro abbiamo dati; i quali sono di usare  l’ esordio, la narrazione, la divisione, la confermazione, la confutazione, la conclusione; e di osservare nel discorso 1’ ordine di queste parli in quel  modo che abbiamo innanzi prescritto. Parimente  sarà secondo le regole dell’ arte, quando noi distribuiremo non solo l’ insieme del discorso, ma  aneora le diverse parti dell’ argomentazione, spiegate net secondo libro, cioè l’ esposizione, la ragione, la confcrmazion della ragione, gli ornamenti, e la recapilolazione. Due disposizioni adunque  ci ha : 1’ una di tutto il discorso, e 1’ altra dell’ argomentazione, così l’una comel’altra fondale sulle  regole dell’ arte. Ma vi è un’ altra disposizione, la  quale, lasciata al giudizio dell’ oratore, allora che  bisogna allontanarsi dall’ ordine fìssalo dall’ arte,  si conforma all’ occasione ; come se s’ incominci dalla narrazione, o da qualche argomento dei più  solidi, o dalla lcllura di qualche testo ; o se dopo  1' esordio si passi alla confermazione, c poscia alla  - narrazione; o se invcrtasi nel modo stesso l’ordine  regolare ; il che non bisogna mai fare, se non  quando la causa ciò richieda assolutamente. Se,  per esempio, ci parranno assordale le orecchie degli uditori, e stracchi gli animi loro dai. nostri avversarti per l’abbondanza delle parole, sarà bene  lasciar 1’ esordio, e incominciare la causa o dalla  narrazione o da qualche robusto argomento. Poscia, se sarà vantaggioso, perchè non è sempre  necessario, ci sarà lecito di ritornare alle idee proprie dell’ esordio.   X. Se la nostra causa parrà circondata da molta  difficoltà, sì che nessuno abbia I’ animo disposto  ad udire favorevolmente l’ esordio, noi, dopo aver  dato cominciamenlo dalla narrazione, potremo tornare indietro, esponendo le idee che sarebbero  convenute all’esordio. Se la narrazione essa stessa  parrà poco probabile, daremo cominciamenlo da  qualche argomentazione solida. È sovente necessario ricorrere a questi cambiamenti e a queste  trasposizioni di parli quando lo stesso soggetto ci  obbliga a cambiare ad arte la disposizione prescritta dall’ arie. Nella confermazione e nella confutazione conviene altresì di seguire disposizioni  simili delle argomentazioni ; collocare nel principio e alla fine le argomenlazioni più valide; c le  mediocri, c quelle clic non sono nè inutili alla  causa, nè necessarie a convincere, che, separatamente presenlalc, e ad una, ad una, sarebbero deboli, ma clic riunite alle altre divengono forti e decisive, dovranno essere collocale e disposte nel  mezzo. Imperciocché, fatta la narrazione, l’animo  dell’uditore aspetta subitamente gli argomenti che  possono confermare la causa. Bisogna adunque recare nel mezzo qualche solida prova. E fioichèle  cose dette in fine sono quelle che più facilmente  s’ imprimono nella memoria, è utile, alla fine del  discorso, lasciare nell’animo degli uditori la fresca  impressione di un molto solido ragionamento.  Questa disposizione di mezzi, simile a buona' ordinanza di soldati, può facilissimamenleneldire, siccome quella nel combattere, procacciar la vittoria.   XI. Molli Retori riguardarono la pronunciazionc  siccome ciò clic v’ ha di più utile all’ oratore, e di  più acconcio a generare la persuasione. Quanto a  me, non dirò tanto facilmente eh’ ella sia la più  importante delle cinque parli della Rettorica, ma  sì non temerò di affermare che nella pronunciali) Chi legge il libro II. De Oratore, capo 77,  Si chiama articolo, o inciso la distinzione, che si fa di ciascuna parola per  pause, tenendo sospesa la frase sino all’ ultimo :  per esempio: « Coll’impeto, colla voce, coll’ aspetto hai sbigottiti gli avversar». » E parimente: « Tu  coll’ invidia, coll’ ingiustizia, coll’ autorità, colla  perfìdia hai tolto via i nemici. » Tra la veemenza  di questa figura, e quella della precedente ci ha  questo divario, che quella fa passi più tarpi e più  radi, e questa s’ avanza più rapida e più pronta. In  quella mi pare di veder portare la spada al petto  dell’ avversario da braccio allungato c pugno slret lo, e in questa venirneferilo il petto da colpi spessi  e rapidi . La continuazione o il periodo è una  stretta e non interrotta concatenazione di parole in  sino a senso compiuto. Noi trarremo grandissimo  vantaggio da questa figòra , se l’ useremo in tre  parti : nella sentenza, nel contrario, nella conclusione. Nella sentenza, per esempio : « Non può la  fortuna fare gran danno a colui che pose suo presidio più fermamente nella virtù, che nel caso . »  Nel contrario; per esempio : « Se alcuno non locò  molla speranza nel caso, qual danno sì grande far  gli potrà il caso? » Nella conclusione; per esempio:  « Se la fortuna può moltissimo su di quelli , che  tutti i fatti loro lasciano in cura del caso, non bi*  sogna adunque tulle cose commettere alla fortuna,  onde ella non piglia su di noi troppo grande dominio. In queste tre ligure la concatenazione delle  parole è così necessaria alla forza del discorso,  che poco valente sarebbe tenuto un oratore, se  non sapesse la sentenza, il -contrario e la conclusione con ben congiunte locuzioni esporre. Ci sono  ancora altri casi, in cui la continuazione può usarsi  con vantaggio, benché non sia proprio necessario  1’ usarla.   XX. Si chiama Compar quella figura, che ha in  sè i membri, che già dicemmo, della frase formali  quasi del medesimo numero di sillabe. Ciò non otteremo già col coniare le sillabe ( il che sarebbe una puerililà ), ma bensì l’ uso c l’esercizio ci metteranno in grado per un certo naturai senso di conformare ciaschedun membro a quello che avrem  posto di sopra; per esempio: « In battaglia il padre  succumbeva.a casa il figlio s’ammogliava, ciò lutto  un fatai caso governava. » E parimente : « Alla  fortuna dee l’uno la felicità, all’ industria deo l’altro la virtù. » Sovente però può intervenire in questa figura, che il numero delle sillabe non sia affatto eguale, e nondimeno paia esserlo, se anche  l’uno o l’ altro membro è più corto di una o di due  sillabe; ma neH’uno essendo più le sillabe, nell’altro la sillaba o le sillabe siano più lunghe e più  piene; talché la lunghezza o la pienezza di queste  sillabe compensi e pareggi il maggior numerò  delle sillabe dell’altro membro. Si chiama SimiUter cadens una figura , quando nella medesima  struttura delle parole se ne hanno due o più, le  quali per egual modo nei medesimi casi si pronunziino, per esempio: « Hominem laudas egentem virtutis, abundaniem fclicitutis. E parimente :’ « Cuius omnis in pecunia spes est, eius  a sapienlia est animus remotus. Diligenlia comparai divitias, negligentia corrumpit animum;  Tu lodi un uomo povero di virtù, ricco di felicità. unno ìv. - et tamen quurr* ita vivit, neminem prue se dadi  hominem. La figura Similiter desinens si haquandoleparole presentano una stessa desinenza, senza die i casi  siano gli stessi; per esempio: « Ttirpiier audes facere, nequiter sludes dicere. Vivis invidiose, delinquis studiose, loqueris odiose. E parimente: « Audaeter lerritas , humiliter placas  ».  Queste due figure, V una delle quali consiste nella  simiglianza delle desinenze, e l’ altra nella simiglianza dei casi, mollo bene si accordano fra loro;  anzi i buoni scrittori per lo più le collocano insieme nelle stesse parli del discorso. Ciò si farà nella  seguente maniera: Perditissima ratio est amorem  petere, pudorem fugere, diligere fonnam, negligere famam  ». Qui le parole, ebe hanno casi, Colui, che ita messo tutta la sua speranza nell’oro, Ita l’animo ben lontano dalla saviezza. Acquista  le ricchezze colla operosità, e corrompe il proprio animo colla inlìngardaggiue; e nondimeno, vivendo in tal  guisa, nessuno reputa uomo a confronto di sè. Osi oprare disonestamente, e ti studii a parlare  scelleratamente. Odiosa è la tua condotta, ami il defitto, ed offensivo è il tuo parlare. Audace sci nel minacciare, umile nel supplicare. Niente di più vergognoso può farsi quanto di finiscono con casi simili, e quelle che non ne hanno, finiscono con la stessa desinenza. L’ annominazionè o paranomasia si ha ,  quando si ripete la stessa parola, o lo stesso nome  cambiandovi una o due lettere, una o due sillabe;  o quando si applica la medesima parola a due  cose fra loro differenti. Ella si forma per molle e  varie maniere. Colla diminuzione o contrazione  della stessa lettera, per esempio : « Hic qui se  magni fiee iactat , atque ostentai , veniit a te ante,  quam Romam venit (1) ». 0, facendo il contrario,  per esempio: « Hicquos homines alea vincil, eos  ferro statini vincit. Coll’ allungamento della  medesima lettera, per esempio: Hunc avium dulcedo ducil ad avium (3) ». Coll’ abbreviazione  della medesima lettera, per esempio : « Hic torneisi videtur esse honoris cupidus , tamen non  tantum curiam diligit, quanlum Curiam.   abbandonarsi all’ amore, e di rinunziare al pudore; di  esser avidi della bellezza e non curanti della fama. Costui, che spiega tanta giattanzac ostentazione, fu da te venduto avanti che fosse a Roma venuto »,   (2) « Quelli, che costui in giuoco vince, tosto di catene avvince. Il canto degli uccelli trae costui fuor di via ».    « Benché costui paia ambizioso degli onori pur  non ama tanto la curia quanto Curia. Curia è una cortigiana famosa. Aggiungendo delle lettere, per esempio « Hic sibi  posset temperare , nisi amori piatici ottemperare  ». Levando delle lettere, per esempio: « Si  lenones vilasset tanquam leones , vilae se tradidisset. Trasponendo delle lettere, per esempio: « Videte , iudices, utrum Uomini navo, au  vano credere malilis. E parimente: Nolo  esse laudator, ne videar adulator. 0 mutando una lettera : per esempio : « Deligere oportet ,  quem velis diligere. Di tal fatta sono le annominazioni o paronomasie, che fanno sostenere  alle lettere un leggiero cambiamento, sia allungandole, sia trasponendole, sia assettandole in altra  maniera non molto diversa.   Yi ha altre paronomasie, in cui le parole  non hanno una cosi stretta rassomiglianza, ma conservano però una certa analogia fra loro. Eccone  una dì questo genere: « Quid veniam, qui siiUj  quare veniam, quem insimulem , cut prosim, Egli poiria temperar se stesso, se non amasse  meglio ottemperare alTamore. Se fuggiti avesse i lenoni come i leoni, avrebbe  conservata la vita.   Vedete, o giudici, se amate piuttosto di prestar  fede a un uomo coraggioso o ad un uomo vano. Non voglio essere lodatore per non parere  -adulatore. Egli conviene scegliere colui che tu vuoi amare. quem postulerà, brevi cognoscetis Qui si  trova in alcune parole una certa analogia, che fa  d’ uopo ricercar meno che quelle degli esempi  precedenti, ma che pur vuol essere qualche volta  usata. Ecco un’altra forma della medesima figura:, Demus operaia , Quirites ne omnino Paint  Conscripli circumscripti pulentur. Questa  paranomasia si accosta alla rassomiglianza perfetta  un poco più che la precedente, ma meno che  quelle riferite innanzi, perchè ad esse non solamente sono state aggiunte delle lettere, ma ne  sono state altresì levate delle altre. Una terza forma di questa figura si è di presentare diversi casi  di uno o più nomi. Di un sol nome; per esempio: Alexander Macedo summo labore anirnum ad  virtulem a pueritiu confirmavit. Alexandri virtùtes per orberà terme eum laude et gloria sunt  vervulgatae. Alexandro si vita longior data esset , Oceanun manus M acedo num tran svola sset.  Alexandrum omnes, ut maxime meluerunt, ilem  plurimum dilexerunt. Qui un solo nome si è  Voi conoscerete ben tosto la cagione, che qui  mi guida, chi io sia, che cosa io mi proponga, chi io  accusi, chi io difenda, chi io citi in giudizio. Facciamo in modo, o Quiriti, che i padri coscritti non vengano stimati affatto circoscritti.   (3) « Alessandro Macedone dallasua infanzia esercitò  con grandissima costanza l’animo suo' alla virtù. Le fallo successivamente passare in differenti casi.  Ora vediamo una paronomasia, in cui più nomi  saranno usali in differenti casi alla loro volta:  Tiberiam Gracchum, rempublicam administranlem, indigna prohilmit ìipx diutius in ea commorari. Caio Graccho simdiler , occisio oblata est ,  quae vi rum reipublicae amanlissimum subilo de  sinu eivilutis eripuil. Saturninum, fide caplum  malorum, perfidine scelus vitae pricavit. Tuus, o  Druse, sanguis domeslicos parietes, et vultam  parenlis adspersit. Sulpicium, cui paullo aule  omnia concedebant, eum brevi spatio non modo  vivere, sed eliam sepeliri prohibuevunl(l) ». Quc virtù di Alessandro si conservano con lode e gloria  nella ricordanza del mondo intiero. Se ad Alessandro  fosse stala consentita dagli Dei una più lunga vita, un  pugno di Macedoni saria volato al di là dell’ Oceano.  Se tutti temettero grandissimamente Alessandro, lo  amarono pur anco di moltissimo amore. Una morte indegna tolse Tiberio Gracco alla  onorato incarico d’amministrar la Repubblica, al quale  era tutto intento. Similmente a Caio Gracco fu tolta  la vita da nemica mano, che alla città improvvisamente  rapi un uomo caldissimo d'amore per la Repubblica.  Saturnino, che posto avea sua fede ne’ malvagi, spensero i perfidi amici medesimi. Il tuo sangue, o Druso,  bagnò le domestiche pareli, e il volto della madre.  Sulpicio, al quale poco prima tutto concedevano, privaron ben tosto non solo della vita, ma anche dello  onor del sepolcro. ste tre ultime figure Similiter cadens, Similiter  desinens , e Annominazione o Paronomasia, allorché avremo alle mani una causa vera, non le dovremo usare che mollo di rado; perciocché non si  possono trovare senza sforzo e perdita di tempo. Siffatti giuochi dell’inlellelto sembrano  avere per iscopo piuttosto il diletto che la verità.  Laonde l’uso frequente di queste figure toglie all’eloquenza la sua autorità, la sua nobiltà, la sua  severità. E non solo toglie alla parola tutta la sua  virtù, ma l’uditore rimane disgustato da una tale  maniera di dire, perchè trova in queste figure fi'  nezza e giocondità, non mai bellezza e dignità. Il  bello ed il grandioso possono piacere a lungo, ma  il giocondo c l’aggraziato generano ben tosto sazietà allo sdegnante orecchio. Facendo noi dunque abuso di queste figure mostreremo di compiacerci di una puerile elocuzione; ma se le frammetteremo nel discorso con parsimonia, o ve le  spanderemo variamento qua e là, esse gioveranno  a render più brillante il discorso stesso, come se  fossero altrettanti punti luminosi. La soggiunzionc  è quando noi domandiamo- ai nostri avversari!, o  in generale agli uditori, che cosa può dirsi a favor  di quelli, o contro di noi; c poscia soggiungiamo ciò  che bisogna veramente dire o non dire, o ciò che  può essere favorevole olla nostra causa, o nocevolc  a quella degli avversari, per esempio: « Io doman  (io adunque come questo uomo è divenuto sì ricco.  Gli e forse sialo lascialo un ampio patrimonio? Ma  i beni tulli di suo padre furono venduti. Gli è forse toccala qualche eredità? No certamente; anzi  tulli i suoi parenti lo hanno diseredato. Ha egli  avulo guadagno da lite o da giudizio? Non solo  non ha oltenuto nulla di ciò, ma anzi di più è stalo  condannato a pagare una grossa ammenda. Dunque se non deve la sua ricchezza a veruna di queste cagioni, siccome voi tutti vedete, o bisogna  dire che a costui nasce l’ oro in casa, o che egli  ha acquistato ricchezze con mezzi illeciti. Eccone un altro esempio: « Io ho spesse  volle osservato, o giudici, che molti accusali possono trovar favore in qualche onorevole circostanza, la quale neppur dagli accusatori può essere  impugnata; ma il nostro avversario nulla può fare  di simigliarne. Imperciocché, invocherà egli la virtù  di suo padre? ma voi questo padre nella coscienza  vostra condannaste alla pena di morte. Passerà  egli in rassegna il tempo della sua vita antecedente onestamente speso in alcun luogo? ma voi  tutti senza più sapete com'egli ha vissuto sotto i  vostri occhi medesimi. Enumererà forse de’ parenti, al cui nome voi abbiale a rimanere commossi?  ma egli non ha parenti. Menerà forse innanzi degli  amici? ma niuno è, che non riguardi siccome uno  scorno l’essere chiamalo amico di costui ». E similmente: « Il nemico, cui tii riputavi colpevole,  adducesti forse in giudizio? no; perciocché tu Tue*  chiesti senza che fosse condannato. Avesti tu fimore delle leggi, che proibiscono di ciò fare? ma  tu neppure pensasti che ei fossero leggi. Quando  egli ti faceva presente l’antica reciproca amicizia,  ti sentisti commosso? niente del tinto; anzi tu lo  uccidesti con più rabbia. E che? allorquando i suoi  figliuoletti ti si gittarono ai piedi, fosti tocco da  compassione? anzi con sommissima crudeltà volesti che rimanesse insepolto il padre loro ». ilavvi  in questa figura mollo di veemenza e di gravità,  perciocché dopo che si è domandalo che cosa bisognava fare, si soggiunge tosto che quella cosa  non si è punto fatta. Di che nasce mollo facilmente  che s’ingrandisca l’indegnità della cosa. Noi possiamo altresì riferire la soggiunzione alla nostra  propria persona, per esempio: « Che doveva io  fare, allorché mi vidi soprappreso da una sì grande moltitudine di .Galli? Forse combattere? ma, oltrecchè saremmo usciti a battaglia con pochegentiavevamo pur anche una posizione mollo sfavorevole. Star dentro agli alloggiamenti? ma noi non  avevamo nè soccorsi da attendere, nè vettovaglie  per potere a lungo campare la vita. Abbandonare  gli alloggiamenti? ma eravamo accerchiali. Contar  per nulla la vita de’soldati? ma mi pareva pure di  averli ricevuti con questa condizione di conscr varli incolumi, per quanto potessi, alla patria c ai  parenti. Ricusare le condizioni del nemico? ma la  salvezza de' soldati deve andare innanzi a quella  delle bagaglic ». Siffatte soggiunzioni si pongono  sovente l'una dopo l’altra, acciocché da tutte appaia venir dimostrato che non v’ era niun miglior  partito a prendere che quello, che appunto fu  preso. La gradazione è una figura per la quale  non si discende alla parola seguente prima che  siasi risaliti alPanteceddiite, per esempio: « Qual  altra speranza di libertà ci rimane, se ciò cli'ei  vogliono, possono, e ciò che possono, osano, e ciò  che osano, fanno, e ciò che fanno, a voi non è grave? >) E ancora: t lo ciò noli pensai senza che il  consigliassi: nè il consigliai, senza che intraprendessi tosto a farlo io stesso; oè intrapresi a farlo  senza che lo recassi a compimento; nè lo recai a  compimento senza che lo approvassi. » E ancora: AH’Affricano la industria procacciò virtù, la virtù gloria, la gloria rivali. » E ancora: « Lo imperio  della Grecia si fu appo gli Ateniesi: degli Ateniesi  si fecero signori gli Spartani; gli Spartani furono  superati dai Tcbani; i Tebani vinti dai Macedoni;  i quali Macedoni in breve spazio di tempo allo imperio della Grecia aggiunsero l'Asia soggiogata in  guerra, » La successiva ripetizione di ciascuna parola antecedente ha in sè una certa tal grazia; la quale ripetizione costituisce appunto questa figura  della gradazione. La definizione è quella figura,  che in poche parole e senza nulla tralasciare abbraccia gli attributi proprii di una cosa, per esempio: « La Maestà della Repubblica si è quella, in  cui si contiene la dignità e la grandezza della città. » E ancora: « Le ingiurie sono quelle, che violano o con percosse il corpo, o con villaniegli orecchi, o con altra turpitudine la vita di qualsivoglia  uomo. » E parimente: « Questa non è economia,  ma avarizia; perciocché l’dconomia si è un’ accurata conservazione delle cose proprie; c l’avarizia  si è un’ingiuriosa appetizione delle cose altrui. »  E ancora: « Non è coraggio questo, ma temerità;  perciocché il coraggio è il disprezzo della fatica e  del pericolo con ragione di utilità e compensazione  di comodi; e la temerità è un gladiatorio intraprendimento di pericoli con inconsiderala sofferenza  di fatica. « Questa figura è tenuta vantaggiosa per  ciò appunto che fa conoscere ed intendere la forza  ed il valere di qualsivoglia cosa sì chiaramente e  sì brevemente che paia non aver avuto bisogno di  esser detta con più parole, nè si pensi essersi potuta dire con brevità maggiore. Transazione chiamasi quella, la quale e  con brevità pone sott’occhio ciò che è stato detto,  ed anco dichiara in poche parole ciò che deve seguitare; per esempio: « Voi avete veduto come co stui si è contenuto verso la patria; considerate ora  quale si è mostrato verso i parenti. » E parimente:   « Voi conoscete i benefizii, ebe io ho fatti a costui; ora udite in qual modo ei rn’hn ricompensato. » Questa figura è di qualche utilità per due ragioni; prima perchè ci fa ricordare di ciò che è  stalo dello, e prepara l’ uditore a ciò che rimane  da dire. La correzione è quella, che toglie ciò che  è stato detto, e ripone in sua vece ciò che pare più  conveniente, per esempio: « Se costui avesse pregalo i suoi ospiti, anzi avesse loro solamente fatto  un segno, avrebbe potuto facilmente ottenere lo  scopo. « E parimente » : Dopo che costoro rima-*  sero vincitori, o piuttosto vinti; perciocché come  chiamerò io vittoria quella che è stata più funesta,  che vantaggiosa ai vincitori? .0 invidia,  compagna della virtù, che per lo più vai dietro ai  buoni, o per meglio dire li perseguiti! Per  questa figura t'animo dell’uditore rimane colpito,  perchè una cosa messa innanzi con comunale parlare sembra solamente detta ; ma la stessa cosa  profferita con correzione oratoria diventa assai più  notabile all’ uditore- Ma non è meglio, dirà talu- ,  no, specialmente allorché scrivi, impiegare fino da  principio il vocabolo migliore c più scelto?  Può  essere che no, se il cambiamento del vocabolo faccia conoscere che la cosa è tale, che, ove tu avessi  usato il vocabolo comunale, parrebbe essersi da te espressa troppo fiaccamente, e invece la rendi  più degna di osservazione col venire poscia al vo ;  caboto -più scelto. Al quale se venuto fossi a bella  prima, non si sarebbe allora avvertilo nè il merito  della cosa, nè quello della parola. La preterizione è quella con la quale affermiamo, o che noi tacciamo, o che non sappiamo, o che non vogliamo dire ciò che nel medesimo  tempo specialmente diciamo, per esempio: « Io  per certo parlerei della tua giovinezza, la quale tu  dedicasti ad ogni maniera d’intemperanza, se stimassi essere questo il tempo opportuno; ma ciò  tralascio avvisatamente. Ed anco non voglio dire  che i tribuni ti castigarono siccome infrangilore  della militar disciplina: c reputo estraneo al soggetto l'aver tu dovuto dar soddisfazione delle tue  ingiurie a Lucio Labeone. Di questi falli non dico  nulla, e ritorno a ciò che forma il soggetto del presente giudizio ». E parimente: « Io non dico che  tu ricevesti danaro dagli alleati; non mi fermo a  provare che espilasti le città, i regni, le case di  lutti; passo sotto silenzio i furti, e tutte le rapine  tue. Questa figura è utile, se è nostro interesse  di lasciar intendere una cosa, o che non è espediente di mostrare per minuto, o che è lunga a dire, o che è ignobile, o che non si può provare, o  che è facile a confutare; di maniera che sia meglio per noi l’aver fallo nascere copertamente un sospetto, che l'aver preso a sviluppar cose che venir ci possano confutate. La disgiunzione ha luogo, allorquando o l’una o l’altra delle proposizioni, che si espongono, od anche ciascuna di esse  si conchiude con un verbo speciale, per esempio:  « Il popolo Romano distrusse Numanzia, abbattè  Cartagine , disfece Corinto , rovesciò Fregelle.  Niente ai Numantini giovarono le forze del corpo;  niente ai Cartaginesi fu di profitto la scienza militare; niente ai Corinzi fu di presidio la scaltrita  politica; niente ai Fregellani recò vantaggio la comunanza con essonoi de’ costumi e del linguaggio ». E similmente: « Bellezza di corpo o per malattia perde suo fiore, o per vecchiezza dileguasi;»  In quest’ ultimo esempio e nell’altro antecedente  vediamo che ogni proposizione si conchiude con  un verbo speciale. La congiunzione si ha, quando  per rinterposizione di un verbo si legano insieme  si le parti antecedenti di una frase c si le conscguenti, per esempio; « Bellezza dì corpo o per  malattia perde suo fiore, o per vecchiezza » L’aggiunzione si ha, quando il verbo, ondelegansi tra  loro le parti, non è già posto tiel mezzo, ma è collocalo o nel principio o nel fine. Nel principio, per  esempio: « Perde suo flore bellezza di corpo o per  malattia o per vecchiezza. « Nel fine, per esempio »: 0 per malattia o per vecchiezza bellezza di  corpo perde suo fiore. La disgiunzionc sente al quanlo della piacevolezza; eperciò conviene usarla  di rado, onde non generi sazietà. La congiunzione  amando la brevità si può usare più spesso. Queste tre figure procedono da un solo e medesimo  genere. La conduplicazione è la ripetizione  della stessa parola o di più parole allo scopo di  amplificare o di commovere, per esempio: Tumulti eccita C. Gracco, tumulti nelle famiglie,  tumulti nello Stato»: E parimente: « Non fosti  tu commosso , allorquando tua madre ti abbracciava le ginocchia, di’, non fosti tu commosso »? E' ancora: « Osi tu oggi ancora presentarti  al cospetto di questa adunanza, o Iraditor della  patria, si, ripeto, o tradilor della patria, osi tu oggi  ancora presentarti al cospetto di questa adunanza »? La ripetizione della medesima parola scuote  altamente l’uditore, e fa alla causa contraria una  più ampia ferita, come spada, che a più riprese  ferisca sempre .nella medesima parte del corpo.  V interpretazione è quella che non ripete già la  parola stessa, ma ne sostituisce un’altra in suo luogo, avente il valore medesimo, per esempio: Tu  la Repubblica hai dalle radici rovesciata, tu la città  hai sino dai fondamenti abbattuta ». E per egual  modo: « Tu empiamente hai battuto il padre, tu  scelleratamente hai portato la mano contro l’autor  de’luoi giorni ». Egli è ben necessario che l’animo dell’uditore rimanga scosso, quando colla interpretazion de’vocaboli si viene a dare nuova forza al detto anteriore. Si ha la commutazione quando due pensieri fra loro diversi si producono, per  ragion di trasposizione, in maniera che il secondo  avente senso contrario al primo, proceda appunto  dal primo, per esempio: « Bisogna mangiare per  vivere, non vivere per mangiare ». E parimente:  « Per questa cagione io non fo poemi, perchè,  come vorrei farli, non posso, e come posso farli,  non voglio. E ancora: « le cose, che di questo  uomo si dicono, dir non si possono, e quelle, che  dir si possono, non si dicono. » E ancora: Se un  poema è un quadro parlante, sì un quadro deve  essere un parlante poema. » E finalmente: • Perchè sei un ignorante, per ciò appunto tu taci; c tuttavia, perchè tu taci, non sei per ciò un ignorante. » Non si può dire abbastanza quanto sia conveniente questa trasposizione di due sensi contrarii, in cui anche le parole si trovano trasmutale.  Noi ne abbiamo qui posti più esempi, appunto per  chè, essendo diffìcile a trovarsi questo genere, se  ne avesse una chiara idea, acciocché venendo esso  ben inteso, fosse più facile ad esser trovato all’occasione in un discorso. La permissione si fa , allorquando nel  dire noi dichiariamo di dare e abbandonare appiedo alcun che all’arbitrio di alcuno, per csem   i pio: a Poiché tulio mi è stalo tolto, e solo mi resta l’anima e il corpo, io a voi e al poter vostro  dono ciò che sol mi rimane di tanti beni. Voi fate  di me quell’ uso, o buono o cattivo, che meglio vi  piace, giacché tutto vi è permesso: contro di me  stabilite qual cosa voi volete: parlate, ed io ubbidirò. » Questa figura è sommamente alta a muovere la compassione,' quantunque si possa alcuna  volta eziandio in altri casi usare. La dubitazione  siha, allorquando l’Oratore dà vista di cercare  quale piuttosto di due o più cose ei debba dire a  preferenza: per esempio: « Nocque in quel tempo assaissimo alla Repubblica non so se dir bisogni o l’ignoranza o la perversità de’ Consoli, o entrambe queste cose insieme. » E parimente: « Tu   hai osato dir ciò? o uomo fra tutti i mortali »   in verità che io non so con qual nome degno del  tuo carattere io li debba chiamare. « L’cspedizione si ha, allorquando, dopo avere enumerate più  ragioni dimostranti come una cosa abbia potuto o  non potuto addivenire, tutte si rigettano ad eccezione di una sola, la quale appunto affermiamo:»  per esempio: «Poiché consta che questo fondo era  mio, è necessario che tu provi o che ne sei venuto  in possesso per essere stato un fondo abbandonato,  o che è divenuto tua proprietà per diritto di prescrizione, o che l’hai comperato a danari, o che  ti è pervenuto in eredità. Tu non hai potuto fartene possessore per essere stato abbandonato, giacché  io presentavami siccome padrone; tu non puoi pur  allegare in tuo favore la prescrizione: tu non puoi  presentare verun titolo di compera: tu non potevi, me vivo, avere i miei beni in eredità. Rimane  adunque che tu per violenza sii divenuto padrone  del mio fondo. » Questa Ggura è di grandissimo  giovamento alle argomentazioni congetturali; ma  non possiamo usarla a nostro piacimento, come  usiamo la più parte delle altre, non polendo noi  ciò fare, se non quando la natura stessa del soggetto ce ne dà facoltà. La dissoluzione è urta figura, che, sopprimendo le congiunzioni, presenta i membri della  frase separati: per esempio: « Segui il voler del  padre, ubbidisci alla famiglia, cedi agli amici, ti  sottometti alle leggi. » E parimente: « Discendi ad  una completa giustificazione; non li voler sottrarre  a nulla; consegna i tuoi schiavi alla tortura; fa  tulli gli sforzi perchè sia scoverlò il voro. » Questa  figura è piena di vivacità e di forza, e si presta al  parlare conciso. La reticenza si ha, allorquando,  dopo a*er detto alcune parole, si lascia il rimanente dell’incominciato.discorso al giudizio dell'tidilore: per esempio: « .Io non voglio incominciare  a disputar lèco, perchè il popolo Romano mi ha....  noi voglio dire per non parer troppo vano: in  quanto a te io so che egli ti ha spesse fiale giudicalo degno di disprezzo. » E parimente: « Osi tu,  in questo tempo tenere siffatto linguaggio? luche  ultimamente nell’altrui casa. . . non voglio proseguire per tema che, raccontando io cose degne  di te, non si creda che io tenga propositi indegni  della mia pesona. » Qui è più funesto all’avversario il sospetto generalo dalla reticenza; che una  eloquente spiegazione. La.conelusionc è quella figura, che per una breve argomentazione deduce  da ciò, che prima è stalo detto o fatto, ciò che deve  necessariamente seguire: per esempio: « Che se  ai Greci aveva detto l’oracolo che non si poteva  premier Troia senza le frecce di Filottete, e queste altro non fecero che colpir Paride, ne segue  che toglier di vita costui si fu come prender Troia. Rimangono anegra dieci figure diparole,  dette propriamente tropi, che noi non abbiamo voluto variamente disseminare qua e colà; ma che  abbiamo in vece separate da quelle che son poste  di sopra, per ciò appunto che appartengono tutte  al medesimo genere, avendo esse la proprietà di  allontanar le parole dalia loro ordinaria significazione e farne loro assumere un’altra, dando al discorso una certa quale adornatezza. Di queste figure la prima è l’onomatopea, la quale, sé una  cosa sia senza nome, o non ne abbia uno abbastanza idoneo, c'insegna a chiamarla noi stessi con  vocabolo conveniente o per ragion d’imitazione o per ragion di significazione. Per imitazione, i nostri antichi coniarono questi verbi ragghiare, vagire, mugghiare, mormorare, sibilare. Per significare la cosa abbiamo quest’ esejnpio: « Appena  che costui fé’ impelo sopra Roma, immantinente  udissi lo scoppiettio della città. » Bisogna di rado  osare l’onomatopea, acciocché la frequenza di  nuove parole non generi disgusto: ma se si usi a  proposito e con parsimonia, non solo non dispia' cerà per la novità, ma aggiungerà eziandio bellezza al discorso. L’antonomasia è quella figura, ehe  pef una specie di soprannome tolto ad imprestilo  dà a conoscere ciò che non può essere chiamalo  col proprio suo nome: per esempio volendo parlar  de’Gracchisi potrebbe dire: « Tali non si mostrarono i nipoti dell’ Affricano. » E parimente, parlando  di un avversario, dir si potrebbe: « Vedete ora, o  giudici, come mi La trattato cotesto Plagiosippo?»  Per questa figura noi possiamo elegantemente, tanto nel lodare quanto nel biasimare, prendere o dal  corpo o dall'animo o da altre cose esteriori una  qualche maniera di soprannome da collocare in  cambio del nome noto. LA METONIMIA è quélla, perla quale noi,  volendo significare una cosa, non la chiamiamo  col suo proprio vocabolo, 'ma la facciamo intendere  col cercare un nome da altre cose che abbiano affinità o correlazione con quella. Ciò si fa o ponente do l’inventore per la eosa trovata, come se volendo  alcuno significare il Campidoglio il dicaTarpeo(t);  o ponendo la cosa trovata invece del suo inventore,  come se volendo alcuno significare Bacco nomini  il vino, e invece di Cerere dica le biade: o ponendo l’arma invece della persona di cui è propria,  come se volendo alcuno significare i Macedoni,  dica: « Non cosi prestamente le sarisse s’impadronirono della Grecia: * o, volendo quel tale signifi-.  care i Galli, dica: « Non tanto facilmente fu dall’Italia scacciata la matera oltramontana: » o ponendo la causa per 1’ effetto, come se volendo «1cuno dar a conoscere che altri abbia fatta un’azione in guerra, dica: « Marte ti spinse per necessità  a ciò fare: » o l’effetto per la causa, come quando  si dice oziosa un’arte, perchè concede ozio a chi  l’esercita, e pigro il freddo, perchè rende pigri gli  uomini; o il contenente pel contenuto, come: «Non  si può l’Italia superare nelle armi, nè la Grecia  nelle discipline. » Qui invece de’ Greci e degli Italiani si son posti i paesi che li contengono: o il  contenuto pel contenente, come se, volendo alcuno nominar le ricchezze, dica l’oro o l’ argento o  Leggo con un antico manoscritto, citato nell' edizione Panckoucke: ttf si quis Tarpeium, loquens de  Capitolio, nominet; la qual lezione è la più probabile  di quante ne sono recate dagli eruditi editori antichi  e moderni sino al Panckoucke. l’avorio. Di tulle queste differenti specie di metonimie 6 più diffìcile lo esporre le tante regole, che  trovare gli esempi; perciocché non solamente i  poeti e gli oratori son per solito pieni di siffatte  metonimie, mas’ incontrano eziandionaturalmente  nel nostro quotidiano favellare. La Perifrasi è  quella, che per esprimere una cosa semplice va  cercando una circonlocuzione: per esempio: « La  accortezza di Scipione abbattè la potenza di Cartagine. » Qui, se non si fosse avuto in mira di abbellire il discorso, si sarebbe potuto dir semplicemente Scipione e Cartagine. L’iperbato è quello,  che cambia l’ordine delle parole rovesciandole o  trasponendole. Rovesciandole, per esempio: « Hoc  vobis Deos immortales arbilror dedisse pittale  prò veslra( 1). » Trasponendole, per esempio: «Instabilis in istum plurimum fortuna valuit.  E parimente: Omnes invidiose eripuil libi bene  rivendi casus facultaies. Siffatte trasposizioni, se non rendono oscuro il senso, giovano moltissimo alla continuazione, di cui abbiamo parlato  più sopra; nella qual figura bisogna che le parole Io mi penso che gl’immortali Dei vi abbian conceduto questo favore in ricompensa della vostra pietà. L’ incostante fortuna ha esercitato sopra costui  tutto il suo potere. Il caso iniquamente ti tolse tutti i mezzi di ben  vivere. Mi siano collocate con poetica armonia, affinché ella  riesca in sommo grado abbellita c perfetta. L’IPERBOLE –Grice: Every nice girl loves a sailor --è un parlare, clic trascende  il vero, sia per aggrandire, sia per impicciolire  alcuna cosa. Essa si piglia o separatamente o con  comparazione. Separatamente, come in questa frase: « Se noi rimarremo concordi, misureremo la  grandezza del nostro imperio dal punto dove leva  il sole a quello dov’egli tramonta. » L’iperbole  con comparazione poi si prende o da assimiglianza  oda preminenza. Da assimiglianza, a questo modo:   « Il corpo suo era bianco come la neve, c gli oc- *  chi brillavano come il fuoco. Da preminenza, a  questo modo: « Dalla sua bocca scorrevano le  partile dolci più del mele. » Del medesimo genere  è quest’altra iperbole: « Sì grande era lo splendor  delle sue armi che superavano in fulgidezza il sole. « La sineddoche è quella figura che fa comprendere il tutto da una parte, o una parte daltutto  o dal singolare il plurale, o dal plurale il singolare. Il tutto da una parte, così: t Quelle nuziali tibie non ti facevano accorto di questi sponsali? » Qui tutta la solennità delle nozze vien fatta  intendere sotto l’ unico simbolo delle tibie. Una parte dal tutto, dicendo, per esempio, ad un uomo  vestilo con lusso c magnificamente ornato: « Tu  dispieghi a me dinanzi tutte le tue ricchezze, e  spandi tutti i tuoi tesori. » Il plurale dal singola re per esempio:  Il Cartaginese ebbe ad aiuto l’Ispano, ebbe il feroce Transalpino, c per sino  l’Italo togato in parte parteggiò per lui. Dal plurale il singolare , come : Un’ atroce calamità  empieva di dolore il suo cuore (perfora) : perciò  dall’imo petto (ex imis pulmonibus ) levavasi per  lo travaglio affannoso il respiro.» Nel primo esempio hanno ad intendersi più Ispani, più Galli, più  Italiani ; c nel secondo, un solo cuore ed un sol  petto per quei due nomi latini posti al plurale :  nel primo luogo il singolare vi sparge una certa  grazia, e nel secondo il plurale vi aggiunge gravità. La catacresi è quella figura, che, per una specie di abuso, in vece della parola giusta c propria,  si serve di una parola analoga ed alfine; per esempio: « Brevi sono le forze dell’ uomo, o ne è piccola  ld statura, o esteso in lui l’intelletto, o grande il discorso, o scarse le parole.» Qui è agevole a capire  che per una specie di abuso si sono ravvicinate fra  loro di senso parole appartenenti a cose dissimili. LA METAFORA (Grice: You’re the cream in my coffee – TRANSLATIO) è, quando si trasporta il  vocabolo proprio di una cosa ad un’altra, il qual  vocabolo sembri poterle convenire per una qualche  simiglianza. Noi ci serviamo di essa per più motivi, ed ecco per quali: Per mettere la cosa dinanzi  agli occhi; a questo modo: « Cotesla sollevazione  svegliò Italia con improvviso spavento. » Per cagione di concisione; a questo modo: cc II novello arrivo di quelle truppe estinse in un subito la civile  libertà. » Per evitare una parola oscena; a questo  modo: « La madre sua dilettasi di quotidiane nozze » Per amplificare; a questo modo: « Non ci  furon dolori e calamità d’uomo, che potessero appartare gli sdegni di un mostro tale, e saziarne la  iniqua crudeltà. » Per attenuare, a questo modo:  « Egli si millanta che ci è stato di un grande aiuto,  perchè in occorrenze difficilissime ci ha sovvenuti  di un leggiero soffio. » Per ornare lo stile, a questo modo: « I traffichi dello Stato, che per la malignità dei ribaldi inaridirono, un di per la virtù  degli ottimati riverdeggeranno. » È prescritto che  la metafora sia modesta, sì che passi con riguardo  ad una cosa consimile, onde non paia che alla cieca e avidamente ella sia trascorsa in una cosa al  tutto dissimile senza distinzione veruna. L’ allegoria è un discorso, che altra cosa significa nelle parole ed altra nel concetto. Essa trattasi per tre maniere: Per simiglianza, per allusione, per anlifrasi.  Trattasi per simiglianza, quando si fanno seguitare  più metafore tolte ad una stessa idea; peresempio:  « Se i cani fanno V uffizio dei lupi, a quali guardiani confideremo noi il bestiame? » Per allusione,  quando da una persona o da un luogo o da qualche altra cosa si trae la simiglianza, sia per aggrandire, sia per diminuire l’idea; come, se alcuno,  parlando di Druso, lo chiami « un vieto Numitore. Per antifrasi: a questo modo; come se alcuno,  volendo motteggiare sopra di uno prodigo o sregolato, lo chiami « tegnente ed economo. In quest’ ultima specie di allegoria, che trattasi per antifrasi, ed anco nella prima, che trattasi per simiglianza potremo usare l’allusione metaforica. Eccone un esempio per simiglianza: « Che cosa dice  questo re ed Agamennone nostro? » o meglio « perchè crudele egli è, colesto Atreo? » Eccone un altro per antifrasi: « Se un empio, che battuto abbia  il padre, lo diciamo un Enea; uno intemperante e  adultero diciamolo pure un Ippolito. » Ecco presso a poco ciò che pensavamo dover dire intorno  alle figure di parole. Ora l’ordine stesso delle cose vuole che passiamo a dire delle figure di pensieri. Si ha la figura di distribuzione, quando  si partiscono certi attributi fra più obbietti o più  persone: per esempio: « Quello di voi, o giudici,  che caro ha il nome del senato, non può non detestar costui; perciocché egli con insolenza estrema ha sempre fatto guerra al senato. Quegli, il  jquale brama che nella Repubblica si mantenga  splendidissimo l’ordine equestre, dee pur volere  che costui dato venga all’estremo supplizio, acciocché egli colle turpitudini sue nort arrechi macchia e disonore ad un ordine onorevolissimo. Voi,  che avete un padre, mostrate col castigo di costui che vi sono in.abbominio gli uomini snaturati. Voi,  che avete de’ figliuoli, date a vedere con un esempio quanto terribili pene son riserbate in questa  città agli uomini di questa fatta. » E similmente:  « Egli è dovere del senato sovvenir di consigli la  Repubblica; egli è dovere de’ magistrati eseguire  i voleri del senato con zelo e fedeltà: egli è dovere del popolo scegliere ed approvare co ! propri  suffragi gli uomini più abili, e le migliori deliberazioni. * E ancora: « Il dovere dell’accusatore  si è quello di dinunziare i delitti; quello del difensore di purgarli e confutarli; quello del testimonio è di dir ciò che sa od ha udito; quello del  giudice è di contener ciascun d’essi nel proprio  dovere. Laonde, o Lucio Crasso, se comporterai  che un testimonio, oltre a ciò che sa o udito ha,  rechi in mezzo argomentazioni e congetture, confonderai il diritto di accusatore con quello di testimonio, darai favore alla cupidigia del tristo testimonio, e costringerai l’accusato a una doppia difesa. » Questa figura è ampia: essa comprende  molte cose in poche parole, e forma tra più obbietti delle divisioni assai distinte, assegnando a  ciascuno le sue attribuzioni. Si ha la figura di licenza, allorché parlando a persone, che noi dobbiamo rispettare o temere, le rimproveriamo con ragione di alcun fallo  in cui siano cadute, senza però offender quelle o    Digitized by Google     gli amici di quelle. Eccone un esempio: « Voi vi  maravigliale, o Quiriti, clic le parli vostre sienoabbandonate da tutti? Che nessuno abbracci la vostra causa? Che nessuno si dichiari vostro difensore? Attribuite ciò a colpa vostra, e cessate una  volta di rimanere stupidi. Imperciocché come mai  non dovranno tutti fuggire ed evitare di darvi aiuto? Ricordatevi un poco di quelli, che aveste per  difensori; ponetevi dinanzi agli occhi le sollecitudini loro per voi; e considerate quale compenso  indi n’ebbero tutti. Allora si # verrà in mente, se  ciò confessar vogliate, che voi per negligenza o  piuttosto per villàJi lasciaste trucidare sotto gli occhi vostri, e che co’ vostri suffragi inalzaste ai più  distinti onori i nemici loro. » E parimente: « Che  cosa mai fu, o giudici, che dubitar vi fece di pronunciar sentenza? o che cosa mai v’indusse ad indugiar la condanna a questo ribaldo? Non era stata  forse l’accusa appoggiala alle prove più manifeste?  E (poesie prove non erano, forse state tutte confermate per leslimonii? E le confutazioni degli avversarli non furono tulle puerilità e baie? Forse voi  temeste che, condannandolo tosto alla prima adunanza, poteste essere tacciati di crudeltà? Ma voi  nel voler evitare una simile taccia, la quale certo  era lungi da voi, andaste incontro all’altra di essere giudicali timidi e dappoco. Voi intanto avete  lasciato luogo a privale e pubbliche calamità senza fine; e allorché v’ è apparenza che altre maggiori  venganvi sul capo, voi ve ne state tranquilli e colle  mani a cintola. Nel giorno voi aspettate la notte, e  nella notte il giorno. Ad ogni momento voi ricevete  qualche infausta e dolorosa nuova, e voi conservale più a lungo in vita colui, che è l’autore di  tutti i mali; e, fino a tanto che potete, ritenete  nella Repubblica il flagello della patria. Se una tale maniera di licenza parrà  aver troppo di veemenza, son molti correttivi per  addolcirla. Imperciopchè vi si potranno incontanente introdurre siffatti modi: « Indarno io cerco  qui la vostra virtù; io sto nel desiderio della vostra conosciuta sapienza; io non trovo più l’antica  vostra maniera di operare, ccc. ; » affinchè quel  movimento di sdegno, che là licenza avrebbe potuto eccitare, rimanga per la lode compresso; di  maniera che l’una cosa dilunghi dalla collera e  dal disgusto, e l’altra distorni dall’errore. Siffatta  cautela usata a tempoj come nell’amicizia così  nelle pubbliche aringhe, ha questo vantaggio, che  rattiene dal fallo coloro che ci odono, e dà a conoscere che noi, i quali palliamo, amiamo non meno essi che il vero. Havvi poi un’altra specie di  licenza oratoria, la quale consta di una maniera  più fina; ed è allorquando o noi riprendiamo i nostri uditori in quel modo, in cui vogliono pur essere ripresi, o, sapendo noi che eglino ascolteranno volentieri i nostri rimproveri, protestiamo di temere non forse li ricevano con mal cuore, ma che tuttavia la verilà ci spinge sì che non vogliamo pur  pure tacere. Sottoporremo qui esempi di queste  due sorte di licenza. Eccone uno della prima sorta: « Troppo, o Quiriti, avete gli animi semplici e  •buoni; troppo prestale fede a chicchessia. Voi pensate che ognuno si sforzi di fare ciò che vi ha promesso. V’ingannate a partito, e già da lungo tempo rimanete vittime di questa falsa speranza. Stolli  voi, che amaste meglio cercare agli altri ciò che  era in poter vostro, che pigliarlo voi stessi di mano  propria ». Della seconda maniera di licenza ecco  qual sarà F esempio: ((Furono, o giudici, fra me  e quest’ uomo vincoli di amicizia, ma questa amicizia, sebbene io tema che ciò udiate mal volentieri, il voglio pur dire con franchezza, foste voi  che me la toglieste. E in qual modo? Perchè per  conservare il favor vostro, io ho amato meglio aver  per nemico che per amico colui, che a yoì dava  travaglio». Dunque questa figura, chiamata licenza jjsi può, come abbiamo mostralo, trattare in due  modi: con veemenza, la quale fia mitigala da lode, se parrà aspra troppo; o con finzione, come  dicemmoln ultimo luogo, la quale non ha bisogno  di correttivo, perchè, sebbene abbia colore di licenza, essa nondimeno per propria natura s’insinua nell’animo dell’uditore. La diminuzione si usa, allorquando  ci bisogna lodare in noi stessi o nei nostri clienti  il carattere, la bellezza, l’ingegno; ed allora, per  non parere arroganti troppo, scemiamo e impiccioliamo con parole siffatti pregi: per esempio: « Io  dico, o giudici, giacché dir lo posso, che ho procurato con tutta fatica ed industria di non essere^  degli ultimi nella scienza militare. » Qui, se chi  parla avesse detto: « ho procuralo di esser dei primi, » avrebbe avuto aria di arrogante, benché ciò  fosse universalmente riconosciuto per vero: così  egli ha dello quanto era a bastanza e per far tacere l’invidia, e per far conoscere il merito proprio. E ancora: « È egli forse l’avarizia o il bisogno che spinse questo uomo al delitto? L’avarizia? Ma egli fu prodigo inverso gli amici; il che  è segno di liberalità, cosa contraria all’ avarizia.  Il bisogno? Ma senza dubbio il padre suo gli lasciò  (non voglio esagerare) un non piccolo patrimonio. » Qui pure l’oratore ha evitato di dire un patrimonio grande o grandissimo. Nel parlare adunque de’ pregi nostri o di quelli de’ nostri clienti  noi osserveremo una siffatta riservatezza; perciocché pigliando a lodar noi stessi inconsideratamente, nella civile società suscitiamo l’invidia, e in  un pubblico ragionamento l’avversione. Laonde  in quella guisa che il buon contegno nella società ci sottrae all'Invidia, così la riservatezza in un pubblico discorso cijsalva dall'odio. Chiamasi descrizione quella, che per  mezzo di parole chiare e manifeste e nobili insieme, dipinge tutti i conseguenti di un fatto, che sia  avvenuto o che possa avvenire: per esempio: *Se  i vostri voti, o giudici, restituiranno alla libertà costui, voi lo vedrete subito a guisa di leone, a cui  fu aperto suo carcere, o a guisa d’altra feroce bestia, da catene sciolta, giltarsi nel foro, e correre  qua e là aguzzando i denti contro alle sostanze altrui, avventandosi contra tutti, amici o nemici, conosciuti e sconosciuti, togliendo l’onore agli uni,  minacciando la vita agli altri, usando violenze alle  abitazioni, alle famiglie d’ognuno, abbattendo insomma dai fondamenti lo Stato. Per la qual cosa,  o giudici, discacciate costui dalla patria, liberate  dal terrore i cittadini , provvedete in fine alla vostra medesima salvezza ; perchè se lo rimandate  impunito, contro a voi stessi, crediatelmi pure,  voi avrete scatenata una feroce e sanguinaria bestia. » Eccone un altro esempio: « Se voi, ò giudici, pronunziale contro a quest'uomo una funesta  sentenza, con un giudizio solo vi fate net tempd  medesimo à cogliere di molte vite. Un padre carico  d’anni, che fondava tutte le speranze della vecchiezza sua nella gioventù di questo sventurato,  più nulla avrà, ond’abbia ad aver cara lavila; te neri figliuoletti, privati del sostegno paterno, saranno esposti alle beffe e agli scherni de’ nemici  del lora padre; tutta una famiglia in fine sarà inabissata in una indegna calamità: e frattanto i persecutori, portando una palma sanguinosa in mano,  padroni di una crudele vittoria , insulteranno alla  miseria di costoro, e superbi inveiranno contrassi  con fatti e con parole. » E parimente: « Niuno di  voi ignora, o Quiriti, quali siano i mali orribili,  che piombar sogliano sopra una citlà presa d’assalto. Chiunque ha portalo le armi ad offesa, è incontanente senza pietà trucidato: gli altri, che per  l’età e per le forze tollerar possono la fatica, tratti  sono in servitù : flue’, che non possono, son privati di vita : e per ultimo in un solo e medesimo  tempo l'abitazion loro è messa in fiamme da nemico incendio; e coloro, cui la natura o la volontà  per parentadi o per amore congiunse insieme, sono  violentemente separati; i figliuoli parte strappali  dalle braccia de’ genitori, parte scannali in seno  ad essi, e parte contaminati dinanzi ai loro occhi.  Nessuno vi è, o giudici, che possa con parole degnamente mostrar la cosa, e col discorso dipingere  i’enormezza di una siffatta calamità. » Con questa  figura si può muovere o lo sdegno o la compassione, quando tutte le conseguenze di un fatto  unite insieme vengono con evidenti parole concisamente esposte. La divisione è una figura, la quale separando due proposizioni le sviluppa entrambe con  soggiungere a ciascuna la sua ragione: per esempio: « E pcrchè^dovrò io farti de’ rimproveri? Se  sci un uomo onesto, non li bai meritati; sesci un  tristo, non li sentirai punto. » E similmente: « Che  bisogno ho io di parlarvi de’ miei servigi? Se voi  ne conservale memoria, io non farei che stancarvi  gli orecchi; c se ve ne siete dimenticati, quando  coi fatti io non abbia acquistato il favor vostro, come potrò ora acquistarlo con le mie parole? » E  ancora: « Vi son due cose, che trascinar possono  gli uomini a un sozzo guadagno, la miseria e l’avarizia. Nella divisione fraterna noi ti conoscemmo  per avaro: or li vediamo povero e bisognoso. Come proverai che non avevi motivo di commettere  una mala azione? » Fra questa divisione e quella,  che è la terza delle parli oratorie, di cui parlammo nel primo libro dopo la narrazione, ci ha questo divario: quella divide per enumerazione o per  esposizione le cose, di cui si dee tener deputazione in tutto il discorso ; e questa disbrigasi subitamente, e, soggiungendo in poche parole a ciascuna delle due o più parli le singole ragioni, reca  ornamento al discorso. L’accumulazione è quella, che riunisce  in un sol cumulo certe cose sparse in tutta la  causa , affinchè il discorso riesca più grave, più veemente, più nocevòle alP accusato: per esempio: « Da qual vizio mai è libero costui ? E per  qual motivo, o giudici, volete voi assolverlo?  Egli è largitore della pudicizia sua e insidiatore  dell’altrui; cupido, intemperante, sfacciato, superbo, empio verso i genitori, ingrato, verso gli  amici, ostile verso i congiunti, disubbidiente verso  i superiori, adiroso cogli eguali c coi simili, crudele verso gl'inferiori, finalmente insopportabile a  tutti. Appartiene allo stesso genere quell’accumulazione, che è di un grande aiuto nelle cause congetturali, quando de’sospetti, che, separatamente  presi, erano deboli e leggieri, riuniti in uno conducono, nonché alla probabilità, alla certezza: per  esempio: « Non vogliate adunque, non vogliate, o  giudici, considerare separatamente le cose, che io  ho dette; ma raccoglietele tutte, c assembratele  in uno. Se veniva comodo a costui dalla morte di  quell’ uomo, e vituperosissima è la sua vita, avarissimo l’animo, affondatissima la fortuna domestica, c un tale misfatto a niuno era vantaggioso  che a lui; e niun altro poteva sì facilmente eseguirlo, ed egli non poteva scegliere mezzi migliori; e inoltre non ha costui nulla ommesso di ciò  che poteva assicurarne il successo, e nulla ha fatto, che non bisognava fare; e poiché il luogo era  il più proprio ad un’aggressione, e l’occasion favorevole, e opportunissimo il momento dello in traprendere; ed egli calcolato aveva tutto il tempo  necessario del venirne a fine, e contar poteva sulle  tenebre e sull’ evento del misfatto; e inoltre, poiché innanzi che l’ uomo fosse ucciso, costui è stato  veduto tutto solo nel luogo dove l’assassinio è avvenuto; e poco appresso, nel momento, in cui  succedeva il misfatto, è stala udita la voce di colui che veniva ucciso; e quindi dopo l’omicidio è  provato che egli non è tornato a casa che a notte  molto avanzata; e all’indomani, interrogato della  morte di quest’uomo, ha balbettato, s’è contraddetto; e tulli questi fatti sono in parte per testimonii, in parte per esaminazioni ed indizii dimostrati, ed anco per la voce pubblica, la quale appoggiata a questi indizii, deve necessariamente esser conforme al vero; spelta a voi dunque, o giudici, di trarre, da tutte queste prove unite insieme, non che la probabilità, la certezza della colpa. Imperciocché può ben essere che per caso si  levino contro di costui una o due di siffatte presunzioni, ma esser non può che tutte dalla prima  all’ ultima s’accordino insieme per un semplice effetto del caso. » Questa figura è veemente, e nelle  cause congetturali quasi sempre necessaria, ma  puossi eziandio qualche volta adoperare negli altri  generi di cause, e 'finalmente in ogni maniera di  orazione.   XLII. I/espolizionc è, allorquando noi ci fcrmiamo in un medesimo pensiero, o sia ci arrestiamo ad una proposizione unica, e tuttavia sembriamo aggiungervi sempre alcuna cosa. Essa è di due  maniere: o noi ripetiamo appieno la cosa medesima, ovvero discorriamo sopra la cosa medesima.  Noi ripeteremo la cosa medesima non nella stessa  maniera di prima, perchè ciò sarebbe un annoiar  P uditore, non un abbellire la cosa, ma bensì con  dei cambiamenti. Questi cambiamenti si fanno in  tre modi, o rispetto alle parole, o rispetto alla  pronunciazione, o rispetto alla forma. Si farà cambiamento rispetto alle parole, quando, esposta una  volta la proposizione, la torneremo a dir di nuovo  o più volte con altre parole significanti lo stesso:  per esempio: « Non vi ha pericolo sì grande, che  il savio, ove si tratti della salute della patria, pensi  di dover fuggire. Allorché ne deve andar di mezzo  il durevole ben essere dello Stato, un buon cittadino esporrà certo la sua vita a lutti i pericoli per  la difesa della pubblica fortuna, e sarà fermo in  questo sentimento, che per la patria ei debba gitlarsi coraggiosamente in qualsivoglia pericolo, per  quanto grande ei sia. » Si farà cambiamento rispetto alla pronunciazione, se, passando dal tuono  semplice al veemente c a tutte le altre modificazioni della voce e del gesto, nell’ allo stesso che  noi diversificheremo per mezzo delle parole il medesimo unico pensieroso accompagneremo eziandio con una varia ed. energica azione. Per mezzo  di precetto non è molto facile spiegare la cosa, ma  colla pratica è facile ad apprenderla, talché non  v’ò bisogno di dare esempi in iscritto. Il terzo genere di cambiamento sta nella  forma, che si fa prendere al pensiero; sccondochè  o vogliamo trattarlo per dialogismo o per emozione. Il dialogismo (del quale parleremo a suo  luogo più largamente tra non molto, toccandone  ora quel tanto che basta all’uopo) è una figura,  che pone nella bocca di alcuna persona un discorso  conveniente alla dignità sua; e acciocché meglio  s’intenda la cosa, noi non ci dipartiremo dal nostro  primo esempio, trattandolo per dialogismo: « Il  savio, che giudicherà di dover affrontare tutti i  pericoli per difesa della patria, dirà sovente a sé  stesso: Io non sono nato solamente per me, ma  eziandio e mollo più per la patria: questa vita, ch’io non potrei ricusare al destino, sia soprattutto spesa a salvezza della patria. Essa fu  quella che mi nudrì, che mi assicurò infino a  questo dì un’esistenza tranquilla ed onorata, che  protesse la mia vita con buone leggi, con ottime costumanze, con una liberale educazione.  Per quali servigi potrò io pagare i benefizii ch’ella  mi ha fatti? Per questo linguaggio, che il savio  tiene a sé stesso, io appunto nei rischi della repubblica non ho mai esitato di affrontare qualunque pericolo. » Similmente si fa cambiamento della  cosa rispetto alla forma, se essa cosa si tratti per  emozione, allorché, vivamente commossi noi stessi, cerchiano pur di commovcre gli animi di coloro  che ci ascoltano: per esempio: a Chi è mai qui di  sì piccola mente dotato, il cui cuore avvolto sia  nelle miserie dell’invidia, il quale abborrisca di  lodare altamente c di giudicare come il più savio  degli uomini colui, che per la salute della patria,  pel ben essere dello Stato, per la conservazione  della pubblica fortuna affronti ogni più grande,  ogni più atroce pericolo, c vi si getti dentro con  lutto l’ardore? Per verità, che, in quanto a me, io  sento nel mio cuore piuttosto il desiderio che il  potere di lodar degnamente un tal uomo, e sono  certo che anche voi tutti provate in voi il sentimento medesimo. » Una medesima cosa adunque  si può nel discorso variare in tre maniere, cioè rispetto alle parole, rispetto alla pronunciazione, rispetto alla forma; c iu quanto a quest’ullima maniera si sceglierà o la forma del dialogismo o quella  dell’emozione.   XLIV. Ma se si tratti non già di ripetere la cosa   medesima, ma di discorrere sopra la medesima  cosa, noi avremo dei mezzi più numerosi di variare il discorso. Imperciocché- dopo che noi avremo  semplicemente enunciata la cosa, vi polrem tosto  aggiungere una prova, poi profferire in due ma nicre una sentenza, la quale potrà essere o senza  prove, o con prove: in appresso potremo far uso  del contrario, delle quali cose tutte noi abbiamo  parlato nelle figure di parole; poi passeremo alla  similitudine c all’ esempio, di cui parleremo ampiamente a suo luogo; all’ ultimo termineremo colla  conclusione, della quale noi dicemmo quanto era  necessario nel secondo libro, allorché esponemmo .  la maniera di eonchiuderc l’ argomentazione. In  questo stesso libro noi facemmo pur conoscere  qual sia la figura di parole, che porta il nome di  conclusione. Una espolizione adunque di questo  genere potrà piacere mollissimo, quando si componga di un gran numero di figure di parole e di  pensieri. Affinchè sia tale deve avere sette parti.   Noi non ci allontaneremo dall’esempio già dato per  mostrarli con quale facilità, mercè le regole dell’arte, un’unica proposizione trattar si possa in diverse maniere: « Il savio per difesa della patria  non fuggirà verun pericolo, perchè sovente accade  che colui, il qual non vuole per la patria morire,  necessariamente perisca insieme con la patria. E  poiché dalla patria noi abbiamo ricevuto lutti i comodi clic godiamo, così non dobbiamo per la patria riputar grave veruno incomodo. Coloro adunque che fuggono quel pericolo, che per la patria  abbiamo obbligo d’incontrare, opcrauo da stolli;  perocché nò sottrarre si possono ai mali pubblici, ed anco n’hanno voce d’ ingrati verso la patria. Ma  quelli, che con loro incomodo pigliano sopra di sè  i pericoli della patria, sono da aversi in conto di  savii, perchè e mostrano di rendere alla patria  quell’onore che le è dovuto, ed aman meglio perire pei molli che coi molli. Infatti sarebbe ingiustissima cosa restituire alla natura, quand’clla il  vuole, quella vita che noi ricevemmo da lei, ma  che pur ci fu conservata con grandi benefizii dalla  patria, e non darla alla patria, quand’ella ce la  domanda; e, potendo noi con grande virtù e gloria  morir per la patria, preferir di vivere nell’infamia  e nella viltà; ed essendo noi pronti ad affrontar  pericoli per gli amici, pei parenti, e per tutti gli  altri congiunti, non voler mettere la nostra vita a  vantaggio della repubblica, la quale, non che tutte  queste cose, il santissimo nome di patria in sè racchiude. Pertanto come è da biasimare colui, che  , in una burrasca cerchi di salvar sè unicamente  piuttosto che tutta la nave, così è da condannare  colui, che nel pericolo delia repubblica antepone  la salute sua alla salute comune. Imperciocché,  rotta per ventura la nave, molti pure scampar possono sani e salvi, ma nel naufragio della patria non  ci ha veruno, che possa scamparne. Il che mi pare  aver Decio assai bene inteso, il quale, dicono, votò sè medesimo, c per salvar le legioni si precipitò  in mezzo a’nemici; nel qual fatto ben lasciò la vita, ma non giltolla indarno; perchè con una cosa labilissima ne riscattò una durevole, e dandone una  di poco prezzo n’ebbe una assai preziosa. Donò la  vita, e ne ricevette la patria, lasciò lo spirito, ed  acquistò la gloria; la quale perpetuandosi nell’ ammirazione dei secoli , coll’ invecchiare diviene  ognora più splendida. Che se colla ragione è dimostralo, e confermato coll’esempio, che affrontar  si debbono i pericoli per amor della cosa pubblica,  egli è adunque d’uopo avere in conto di savii coloro che per salute della patria non si sottraggono  a pericolo alcuno. » Tali sono le diverse maniere  di espolizione; intorno alla quale figura noi ci siamo trattenuti a lungo, non solamente perchè dà  forza ed ornamento al discorso, quando noi trattiamo una causa, ma soprattutto perchè essa presenta il miglior mezzo di esercizio nella facoltà del  ben dire. Bisogna adunque che nella trattazione  di una causa non vera noi ci esercitiamo nelle diverse maniere della espolizione, e che ce ne serviamo pure nei pubblici ragionamenti, quando abbellir vorremo l’argomentazione, di cui parlammo  nel secondo libro. La commorazione è quella, per la quale  noi ci fermiamo a lungo e ritorniamo sovente sopra il punto più solido della causa, quello al quale  tutta intera la causa si riferisce. È vantaggiosissimo il far uso di questa figura, c ai buoni oratori è molto famigliare; perciocché per essa non si permeile all’ uditore di allontanarl’ attenzione dal punto più importante. Non mi è possibile il dar qui un  esempio abbastanza idoneo, perchè questo punto  non è mai separato da tutta la causa intera, come  membro distinto dagli altri, ma egli è come sangue che circola in tutto il corpo del discorso. L’antitesi è quella figura, per cui oppongonsi contrarii  a contrarii. Essa è nel numero delle figure di parole, come vedemmo più sopra conquell’ esempio.  « Ai nemici placabile, agli amici implacabile ti mostri; » ma appartiene altresì alle figure di pensieri,  come si vede in questo esempio: « Voi piangete le  disgrazie di costui, c costui gioisce dei mali della  repubblica. Voi vi diffidale delia fortuna vostra, costui solo si gonfia tanto maggiormente della sua. »  Fra queste due sorte d’antitesi ci ha questo divario, che la prima consta di due parole immediatamente opposte, e qui bisogna ciré si presentino  due pensieri contrarii messi a confronto. La similitudine è una figura, che applica ad una cosa alcun che di somigliante tolto da una cosa diversa.  Si fa uso di essa o per abbellire, o per provare, o  per dilucidare una cosa, o per metterla dinanzi  agli occhi; e siccome se ne fa uso per quattro motivi, così essa si tratta per quattro maniere: per  contrario, per negazione, per laconismo, per confronto. Noi verremo mostrando come a ciascuna di queste quattro maniere corrisponda uno dei  quattro motivi, che usar ci fanno la similitudine. Quando la similitudine ha per fine rabbellire, si prende per contrario così: «Egli non si  deve giù pensare che, come 1’ atleta, che riceve  l’ardente fiaccola, meglio sostiene nella palestra  la celerità del suo corso, che rallcla,il quale gliela  trasmette, così abbia ad esser migliore un nuovo  generale, che viene a prendere il comando dell’esercilo, di quello al quale succede; perciocché là  è un cursore affaticato, che ad un cursore fresco  di forze consegna la fiaccola, equi è un generale  sperimentato, che consegna l’esercito a un generale ancora inesperto ». Anche senza una tale similitudine potevasi dire con bastante chiarezza,  evidenza e verità in questo modo: « Che i meno  abili generali succeder sogliono nel comando delle  armate ai generali più esperti »: ma la similitudine fu presa per abbellire, onde il discorso risplendesse di una certa quale dignità. Essa fu poi trattata per contrario; c prendesi appunto per contrario, quando noi neghiamo che una cosa sia simile a quella che noi rechiamo nel mezzo , in  quella maniera che qui abbiam veduto in parlando  degli atleti che corrono. Quando la similitudine ha  per fine il provare, si fa per negazione a questo  modo: « Nè un cavallo indomito, quantunque sia  ben conformalo dalla natura, esser può idoneo a que’ servigi che da un cavallo si vogliono, nè un  uomo indòtto , benché abbia naturale ingegno ,  può pervenire alla virtù». Ciò che prova questa  sentenza, si è, che diviene più vcrisimilc che senza dottrina non si può giungere alla virtù, quando  siasi riconosciuto che un cavallo indomito non potrebbe esser alto al bisogno. Dunque la similitudine è stata presa a fine di provare, e si è trattata  per negazione; il che chiaramente si manifesta sin  dalla prima parola della similitudine.   XLVII. Quando la similitudine avrà per fine di  render più chiara la cosa, si prenderà per laconismo, come: « Nei doveri dell’amicizia non bisogna,  come nelle corse del circo, limitare i proprii sforzi  al punto di toccare la mela, ma sì usare tanto di  zelo c di forze da oltrepassarla agevolmente ». Il  fine di questa similitudine è quello di far conoscere più' chiaramente che sarebbe cosa indegna rimproverar coloro, che, per modo d’esempio, dopo  la morte di un amico, pigliassero cura de’suoi figliuoli, perciocché un atleta, che corra, basta che  abbia tanto di velocità da toccar primo la meta, ma  un amico deve aver tanto di benevolenza da pervenire, nella devozion dell’ amicizia, più in là di  quello, che sentir possa l’amico. Questa similitudine è esposta per laconismo: imperciocché i due  termini di attinenza non si presentano già separati, come negli altri esempi, ma bensì congiunti ed incarnati l’uno nell’altro. Quando la similitudine  avrà per fine di metter la cosa sotto agli occhi, si  farà per confronto: per esempio: « Come un citaredo, il quale ne venga innanzi magnificamente  vestito, coperto di un mantello dorato, trascinante  una clamide di porpora di varii colori tessuta, ornalo il capo di una corona d’oro di grosse scintillanti gemme tempestata, avente tra le mani una  elegantissima celerà fregiala d’oro e d’avorio; e  sia inoltre egli stesso ammirabile per fattezze, beltà, e statura conveniente alla dignità; se dopo avere  per tutte coleste cose mossa nel popolo una grande aspettazione, fattosi di repente silenzio, mandi  fuori una voce spiacevolissima, accompagnata da  sgarbati movimenti di persona, quanto più avrà  sfoggiato di ornamenti, ed eccitala l’aspettazione,  tanto più fra derisioni e fischi sarà via cacciato;  non altrimenti un uomo, il quale, collocato in alto  grado di nobiltà c pieno d’agi e ricchezze, abbondi  di tutti i favori della fortuna, c di tutti i vantaggi  della natura, se manchi di virtù, c di scienza, la  quale di virtù è artefice, quanto più sarà di tulle  le altre cose ricco, c per quelle chiaro-ed invidiato, tanto maggiormente fra derisione e disprezzo  sarà cacciato da ogni usanza de’buoni ». Questa  similitudine, dipingendo con vivi colori le due  parli della comparazione, c facendo eguale confronto dell’ imperizia d’arte dell’uno e dell’ignoranza dell’auro, molle la cosa dinanzi agli ocelli.  Essa fu qui trattala per confronto, perchè, stabilita  l’attinenza di similitudine, tutte le parti corrispondono fra loro. Nellesimililuilini converrà diligentemente osservare di sceglier parole acconce a significar  con giusto rapporto le idee clic voglionsi esprimere nei due termini della comparazione. Se noi, per  esempio, avremo detto: «Come le rondinelle se  ne abitano jn mezzo a noi nel tempo estivo, e da  noi si partono cacciate dal freddo »; converrà che  noi dalla stessa similitudine prendiamo parole traslate, dicendo: « Così i falsi amici restano con noi  nel tempo sereno di nostra vita, ma appena ‘veggono spuntare il verno della fortuna, se ne volano  via tutti ». Egli ci sarà facile trovare rapporti siffatti, se polrcm porci dinanzi agli occhi tutti gli esseri animati o inanimati, parlanti o muti, feroci o  mansueti, terrestri o celesti o marittimi, o dall’arte  creali o dal caso o dalla natura, ordinarli o straordinarii, c scoprire in essi similitudini che contribuir possano o ad abbellire o a rischiarare la cosa,  o a porla dinanzi agli occhi. Non è però necessario  che le.due cose fra loro paragonate siano interamente simili: basta che abbiano in parte fra loro  una tal quale analogia. L’esempio è allegazion di un fatto o di un  detto con nominazione del suo autor.e. Questa fi gara si usa per gli stessi molivi della similitudine.  Essa rende più abbellita la cosa, quando noi non  1* usiamo die per cagione di abbellimento; la rende più chiara, se non ha altro scopo che quello di  rischiarare ciò che è oscuro; la rende più probabile, quando presenta la verisimiglianza; la pone dinanzi agli occhi, quando esprime tutto con tale  evidenza clic si possa, direi quasi, toccarconmano  la cosa. Io avrei qui aggiunti gli esempi di ciascuna specie, se non avessi già fallo conoscere nella  espolizionc il carattere di questa figura, e non avessi nella similitudine falli aperti i motivi di doverla  usare. Ecco il perchè io nè ho qui voluto limitarmi  a dir poche parole, onde non mi avvenisse di non  essere inteso, nò dirne di troppe nel mentre che  la cosa era già bastantemente intesa. L’immagine  è paragone di forma con forma, fra cui sia una  certa simiglianza. Essa si usa o per motivo di lode,  o di biasimo. Per motivo di lode si dirà, per esempio: « Egli andava a battaglia simile per membra  al più vigoroso toro, per impelo al più terribile  leone. « Per motivo di biasimo l’immagine deve  addurre o nell’odio, o nell’invidia, oneldisprczzo.  Nell’odio, così: « Questo mostro striscia tutto il dì  in mezzo al foro come un crestuto drago con adunchi denti, con infocato sguardo, con mortifero alito, girando qua c là gli occhi per iscoprirc una  vittima da avvelenar col respiro, da lacerar coi denli, da coprir coll’ immonda sua bava. » Per addurre nell’ invidia, così: « Costui che vanta le sue  ricchezze, curvalo ed oppresso dal peso del suo  oro, grida e giura, siccome un sacerdote di Cibele, od alcun altro indovino. » Per addurre in disprezzo, così: « Costui è simile a lumaca, che nascondendosi e rannicchiandosi in se stessa silenziosa,^ tutta quanta portata via con la propria casa  per venire mangiata».   L. Il ritratto, o la prosopografia, è quella figura, che per mezzo di parole esprime e rappresenta Testerno di una persona tanto fedelmente che basti a farla riconoscere: per esempio,  così: « Io parlo, o giudici, di quest’uomo rosso in  viso, piccolo, storto, a capelli bianchi e alquanto  ricciuti, con gli occhi azzurri, che ha una grande  cicatrice sul mento, se pure in qualche modo ei  può larvisi presente alla memoria. » Questa Ggura  torna utile, quando si vuol far riconoscere alcuno;  ed è pure graziosa, quando sia fatta conbrevilà e  chiarezza. L’etopea è quella, che descrive il carattere di alcuno, presentando certi tratti, che ne  mostrino esso carattere. Se tu vuoi, per esempio,  descrivere non già un uomo ricco, ma chi si vuol  dar l’aria d’ esser ricco, dirai così: « Osservate, o  giudici, quest’uomo, che trova sì bello di passar  per ricco; osservate in prima con qual occhio ci  guardi. Non sembra egli dirvi: Io vi farei un presente, se ve ne credessi degni? E allorché con la  mano sinistra egli sollevasi il mento, crede di abbagliare la vista di tutti con lo splendor de’ diamanti e il luccicore degli anelli che porla nelle dila. E allorché si volge indietro a chiamare il suo  unico servo, che io ben conosco, c che non è, credo, da voi conosciuto, ei lo chiama ora con un nome, ora con un altro, e poi con un altro ancora.  Olà, grida egli, vieni qui tu, o Saninone, chè io  non vorrei che colesti zoticoni facessero le cose a  rovescio: di maniera che coloro, che odono gridare e altro non sanno, si pensano eh’ egli ne preferii  sca uno tra i molti suoi schiavi. E che cosa dice a  Sannione di fare? Gli dice piano all’orecchio o di  mettere in assetto i lctticciuoli per la mensa, o di  andar a prendere da suo zio uno schiavo Etiope,  che lo conduca ai bagni, o di approntar dinanzi  alla sua*porla un cavallo delle Asturie, o di apparecchiare qualche altro fragileornamcrvtodellasua  falsa gloria. Di poi grida sì che lutti l’odano: Bada  che la somma sia per intero pagala, se è possibile,  avanti notte. Il servo che già da tempo conosce il  debole del suo padrone, risponde: Bisogna che voi  mandiate più d’un servo, se volete che la somma  sia per intero contala c portata a casa. Ebbene, dice l’uomo, conduci con le Libano c Sosia. Padron  sì, risponde l’altro. In appresso vengono a trovare  per caso il nostro vanitosa alcuni ospiti, i quali nell’occasione di un viaggio, ch’egli fece, lo avevano accollo in loro casa e trattato splendidamente.  Senza dubbio a tal vista ei rimane turbato, ma pure  non gli dà l’animo di tradire il proprio carattere;  e, Ben faceste, dice, di venirmi a trovar qui ; ma  avreste fatto meglio, se foste andati dirittamente a  casa mia. L’avremmo fatto, rispondono essi, seavessimo saputa la vostra abitazione. — Ma era pur  facile di saperla, domandandone a chiunque; tuttavia venite con me. Quelli lo seguono: Intanto,  strada facendo, ogni discorso va a terminare in  ostentazioni. Domanda qua e colà come si presentino le messi nei campi: dice che non può recarsi  a visitar le sue terre perchè le sue case di campagna gli sono stale incendiate, e che non s’attenta  ancora di riedificarle; però, aggiunge egli, ho cominciato ne’ miei fondi del Toscolo a spendere e  spandere, e a costruire sui medesimi fondamenti.   LI. Infraliamo ch’egli parla così, giunge ad una  casa, dove il giorno stesso doveva aver luogo un  banchetto di amici, e dove, conoscendone egli il  padrone, entra insieme cogli ospiti. Ecco, dice,  dove abito. Va osservando minutamente le argenterie disposte sulla tavola, e i Ire letti preparati:  approva ogni cosa. Gli si avvicina un piccolo schiavo, che gli dice piano all’orecchio che il suo padrone sta per venire, e ch’egli s’accontenti di uscire. Oh! è ben vera la nuova, esclama egli? Andiamo, o miei ospiti; il frale! mio arrivada Salerno:   10 voglio andargli incontro: voi ritornate costà alle  dieci ore. Gli ospiti partono: costui di soppiatto  cacciasi dentro alla sua casa. Alle dieci ore, sccondocliè egli aveva fissato, tornano gli ospiti: domandano di lui: allora vengono a conoscere chi sia   11 padrone della casa, e pieni di vergogna si ritirano ad un albergo. All’indomani trovano l’uomo,  narrano l’avvenuto, si querelano, glidiconolemale  parole. La rassomiglianza de’luoghi, risponde egli,  vi ha ingannati: voi avete preso abbaglio di tutto  un viottolo; io vi ho aspettati ad ora assai larda, il  che è contrario alla mia salute. Egli aveva già innanzi dato incumbenza a Saninone di andar a cercero in prestito vasellami,. arazzi, servidori. Il piccolo schiavo, destro non poco, adempie con bravura e prontezza al comando: costui introduce m  sua casa gli ospiti. Afferma di aver prestato i suoi  grandi appartamenti ad un amico per celebrarvi le  nozze- Tutto ad un tratto il scrvidorctto gli viene  a dire, che si ridomandano le argenterie (peroc _chè chi le aveva prestate non istava scnzasospelli).  Levali via di qua, grida il padrone; io ho prestato  i miei appartamenti, ho dati i miei schiavi, e si vogliono anco le argenterie? Ma benché io abbia   degli ospiti, alla buon’ora, se ne giovino pure; noi  ci contenteremo dei vaselli di Sarao. — Dirò io  tutti i fatti di costui? Tale è il carattere di questo uomo, che tulli i tratti di vanità e di ostentazione,  clic ogni di gli sfuggono, non potrebbero essere  da mq raccontali in un anno intero. » Siffatte elopee, clic dipingono al naturale il carattere di un  uomo, porgono un grandissimo diletto. Conciossiacliè esse pongono dinanzi agli occhi l’animo e i  costumi di chiunquc,o di un vanitoso, come nel precedente esempio, o di un invidioso, o di un pusillanime, o di un avaro, o di un innamoralo, o di un  dissoluto, o di un truffatore, o di uno spione; insomma non v’ha tendenza dell'animo che per mezzo di questa figura non possa venire al vivo dipinta.   LIl. Il dialogismo è, quando si attribuisce un  discorso a qualche persona esponendolo nella maniera che conviene alla dignità sua, per esempio:  Allorché la città era inondata da soldati, c gli  abitanti, tutti presi da spavento, si stavano chiusi  nelle loro case, si presentò costui vestito alla militare, con la spada al fianco, e un giavellotto In mano. Cinque giovani armali come lui lo seguivano.  Tutto ad un tratto si precipita nella casa, c grida ad  atta voce: Dov’ è il fortunato padrone di questa  abitazione? perchè non viene innanzi? ond’è questo silenzio? Immobili per lo spavento, gli altri  tulli non osano aprir bocca. Sola la moglie di questo infelicissimo sciogliendosi in lagrime giltasi ai  piedi di costui, e. Grazia, dice ella, grazia; in nome di ciò, che liai di più caro al mondo, abbi pietà di noi; non- voler uccidere chi non ha più vita: sii  temperante nella fortuna; anche noi fummo felici;  pensa che sei uomo.  Ma egli continua a gridare:  diesiate aspettando per darlo nelle mie mani?  Cessate di assordarmi coi vostri lamenti. Egli non  isfuggirà. Frattanto si annunzia al misero che il  suo nemico è in casa, e che con g'rande schiamazzo minaccia morte. A questa nuova esclama: Old  mio Gorgia, oh! fedel custode de’ miei figliuoli,  nascondili a questo barbaro, difendili, fa di potermeli condurre sani e salvi alla adolescenza. Appena ha egli profferite siffatte parole, che in un momento si avanza questo assassino, e grida: Tu dunque stai nascosto, o temerario? La mia voce non fi  ha già levata la vita? Appaga l'inimicizia mia, c nel  tuo sangue s’acquieti la mia collera. Allora coraggioso il cittadino rispondevo pensava di non esser  vinto appieno; ma ben veggo che sì: tu non vuoi  terminar meco la contesa dinanzi ai tribunali, dove  la disfatta è vergognosa e la vittoria onorevole; tu  vuoi uccidermi. Ebbene, io perirò assassinalo, ma  non vinto.  Costui allora: Come! anche nell’ora  estrema del tuo vivere vuoi dir sentenze, e abborri  di supplicare chi ti tiene in suo potere? — Allora  la donna: Anzi ei prega, ei supplica. Ma deh! tu  non essere inesorabile; e tu, mio caro marito, in  nome degli Dei, stringi supplicante le sue ginocchia. Egli è padrone di te; egli li ha vinto; sappi or tu vincere te stesso. Perchè non cossi, o donna, dice il marito, di parlarmi cose affatto indegne  di me? Taci, e pensa solo ai tuoi doveri. E tu, a che  tardi di togliermi la vita, e di levare a te medesimo  colla mia morte ogni speranza di onorato vivere?  L’assassino respinge da sè la donna piangente, eal misero, che apriva bocca per profferire non so  quali parole degne del suo coraggio, pianla d’un  colpo la spada nel fianco. » Io credo di avere in  questo esempio dato a ciascuno il linguaggio che  conveniva alla sua dignità, il che è la cosa più imporlanlQ.in questa figura. Vi sono, ancora dei dialogismi, che si porgono come conseguenze: per csempio: « Che si dirà mai se voi darete una tale  sentenza? Non parleranno forse tutti gli uomini in  questa maniera? » E qui si soggiungeranno le parole acconce al dialogismo. LUI. La prosopopea è uua figura, per la qualeuna persona assente è presentala come se fosse  dinanzi a noi; una figura, che attribuisce ad un  essere muto o immateriale un linguaggio, e una  forma, e lo fa operare c parlare secondo la propria  natura: per esempio: « Se ora questa nostra invittissima città avesse lingua per parlare, non vi  farebbe ella questi rimproveri? Io, la quale adorna  sono dei più belli trofei, e ricca dei più gloriosi  trionfi, e accresciuta delle più luminose vittorie,  sarò ora, o cittadini, dalle sedizioni vostre lacera unno iv. tu? Quella Roma, cui nè le astuzie della perfida  Cartagine, nè le forze della formidabile Nnmanzia,  nè i trovati della dotta Corinto fiatino potuto rovesciare, soffrirete voi che or venga dai più tristi omicialloli disfatta e conculcata? » E parimente:  « Se ora vivo tornasse quel Lucio Bruto, e qui dinanzi al cospetto vostro venisse, non vi parlerebbe  egli in questa guisa? lo ho i re discacciali;' voi i  tiranni introducete: io la libertà, la quale non era,  ho recata; voi, che quella avete, non la volete serbare: io con pericolo della vita ho la patria liberato; voi, polendo esser liberi senza pericolo, ciò  non curate? Questa figura pedo più personificando le cose mule e inanimale», è di una utilità grandissima nelle parli diverse dell’ amplificazione, e  nell’ eccitare la commiserazione. La significazione,   , della anche enfasi, è quella figura, che lascia più  a immaginare di quello che non esprimano le parole. Essa si tratta per esagerazione, per ambiguità, per conseguenza, per reticenza, per similitudine. Per esagerazione, allorché si dice più di  quello che la verità non permette, allo scopo di  aumentare la sospizionc: per esempio: « Costui  di tanto patrimonio in sì corto spazio di tempo non  ha salvato pur un coccio-con cui recarsi a limosinare un po’ di fuoco. » Si tratta per ambiguità,  quando una parola può riceversi in due o~più significati, ma si riceve in quello che vuol dargli l’o latore; come se volendo tu parlare di un uomo,  che è ilo buscacciando di molle eredità, dicessi: « Osserva bene tu, che hai cosi buona vista. »  I.IV. Quanto però sono da evitarsi le ambiguità, che fanno oscuro il discorso, altrettanto sono da cercare quelle che generano significazioni di questa guisa. Noi le troveremo facilmente, se conosceremo e ben considereremo i  dubbiosi o molteplici significali delle parole. La  significazione si fa per conseguenza, allorché non  si nomina che ciò che può essere conseguente  di una cosa a fine di far nascere l’idea della cosa stessa, come se tu dica al figlio di un pizzicagnolo: « Statti cheto, o tu, il cui padre solca forbirsi il naso col gomito. » Si tratta per reticenza, allorché, dopo avere incominciato un discorso, lo tronchiamo, c da ciò che abbiamo detto, lasciamo bastantemente conghietturare ciò che  manca: per esempio: « Questi, il quale si bello,  si giovane poco fa in estranea casa  io non  vo’dire di più. » Si tratta per similitudine, allorché, raccontalo un fallo analogo, non aggiungiamo altra osservazione, ma da quello lasciamo intendere ciò che pensiamo: per esempio: « Non  voler troppo fidarli, o Saturnino, di questa moltitudine di popolo. I Gracchi sono caduti, c la loro  morte è invendicata. » Questa figura unisce qualche volta molta piacevolezza a molta dignità; perocchè lascia indovinare all’ uditore ciò che l’ oratore punto non dice. 11 laconismo è quello che  non usa che le parole necessarie ad esprimere la  cosa: per esempio: Prese Lenno in passando;  quindi lasciò un presidio a Taso; poi atterrò una  città in Bitinia; di là cacciatosi nell’ Ellesponto,  subitamente s’impadronì di Abido. » E similmente: « Testò consolo, prima tribuno, divenne poi  capo della repubblica. » E ancora: Parte per l’Asia, si dichiara esule e nemico, appresso si fa comandante, c finalmente consolo. » Il laconismo  racchiude in poche parole assai cose; e fa d’uopo  usarlo di sovente, quando o le cose non hanno bisogno di un lungo discorso, o il tempo non permette d’interienervisi attorno.   LY. L’ipotiposi è quella figura che presenta un  fatto con tanta verità che si crede di averlo sotto  gli occhi. Si ottiene questo effetto, se si riunisca  in un sol quadro ciò che ha preceduto, seguito, e  accompagnalo l’azione; o, in altri termini, se non  si trascurino nè le circostanze, nè le conseguenze;  per esempio: « Appena Gracco vide che il popolo  fluttuava c dava segno di temere non forse egli  medesimo spinto fosse dall’ autori là del senato a  rinunciare al suo progetto, fece tosto bandire il  parlamento. In questo mezzo costui, non agitando  in sua mente che delitto e mali pensieri, corre giù  a volo dal tempio di Giove, e grondante di sudore, con gli occhi ardenti, coi capelli rabbuffati,  con la toga raccolta, seguito da molti altri congiurali precipito il suo corso. In questo momento  il banditore domandava silenzio per Gracco: arriva costui, e premendo col calcagno uno de’ sedili, ne rompe colla destra mano un piede, ed ordina agli altri di imitarlo. Nel mentre che Gracco  comincia a dire la solila preghiera agli Dei, questi congiurati correndo si slanciano sopra di lui;  da ogni parte concorrono altri volando: allora uno  del popolo grida: Fuggi, o Tiberio, fuggi: non  vedi tu? risguarda, dico. Ben tosto la incostante  moltitudine presaga subitaneo spavento dassi alla  fuga. Costui, spumante la bocca di scellerata rabbia, e respirante crudeltà dall’ imo petto distende  il braccio, e a Gracco, che ancor dubita di ciò che  è, e pur non abbandona il preso posto, pianta il  pugnale in una tempia. Egli non Smentendo punto  neppure con una parola la solita sua costanza cade  in silenzio. Costui coperto del sangue, da deplorarsi pur sempre, di quest’uom generoso, volgendo intorno gli occhi, come se compito avesse la  più gloriosa aziono, e allegro porgendo la sacrilega mano ai gratulanti, se ne ritorna al tempio di  Giove. » Questa figura in siffatti racconti è di un  gran vantaggio, sia per amplificare, sia per eccitare la compassione: essa mette l’azione in iscena, e la pone, per così dire, sotto ai nostri occhi. Abbiamo con molta cura raccolti tutti gl’insegnamenti atti a render adorna l’elocuzione. Se  tu, o Erennio, vi aggiungerai un assiduo esercizio,  potrai nel dire aver gravità, dignità e soavità, per  parlare da vero oratore qnon presentare un’invenzione nuda c disadorna in linguggio triviale. Ora  noi, per un comune scopo, metteremo in comune  i nostri sforzi; cercheremo cioè di raggiungere con  lo studio e l'esercizio continuo tutta la perfezione  dell’arte; il che agli altri non è agevole fare, per  tre ragioni principalmente: o perchè non hanno  con chi possano di buon grado esèrcilarsi, o perchè di sè stessi diffidano, o perchè ignorano il metodo da tenersi. Queste difficoltà sono tutte da noi  lungi, chè e volentieri ci esercitiamo insieme per  l’amicizia nostra, cui il parentado originò e l'uniformità degli studi filosofici rese più salda; e non  disperiamo di noi poiché qualche progresso facemmo e ad un più nobile scopo accesamente aneliamo; talché se non perverremo nell’oratorio aringo  dove è pur nostro intento, poco ci mancherà per  conseguire nella vita sociale un grado onorevolissimo; e sì conosciamo la via da battere, perchè in  questi libri niun precetto rcttorico abbiamo intralascialo. Infatti si è mostrato come trovar si possano le cose proprie a ciascun genere di causa; si è  detto in q ual modo abbiansi a disporre; con quali regole si debbano pronunziare; con quai mezzi ce ne possiamo ricordare; si è finalmente spiegalo come  acquistarsi possa una perfetta elocuzione.I quali insegnamenti tutti se porremo in uso, la nostra invenzione sarà ingegnosa e pronta, la nostra disposizione  distinta e chiara, la nostra pronunciazionc nobile c  non priva di venustà, la nostra memoria fedele e tenace, la nostra elocuzione adorna e piacevole.Ecco  quanto nell’arte rettorica si comprende. Tutte queste condizioni conseguiremo, se agli insegnamenti deli’ arte aggiungeremo un diligente esercizio. UN E DELLA RETTORICA AD ERENNIO LE OPERE TUTTE CON LE VERSIONI A  FRONTE: DELLA  RETTORICA AD..,  Galloni IP DELLA BETTORICA AD ERENNIO CALLOSI LA RETTORIA unito PRIMO ESrSSSE aess    \UI. M.i ik-N'n.iiiil^ Li, li il lìn Hi:  LA RETTOBULl     'I un uni i|!iii],| U .r luminili mi nlilili.lcrii iieniiv.ni  '.al  ':,ii.,. eia, quacIMguéo ,- i .,1 i    imi. Hiilnria e,( re* piM.i. ..'.! al, iu l„li, inijir.i.   min I ii'lili.in. in. un, lui,, emi  In™ in eiccrcnilii Ican-iìieiiln  frinii, ni 1 h ,1  t .[lloiiio.l.i     ueneri.II primoèi|uaiuln espnniamu un faUO.C ne  liii,i neni Lii.:,i-MriM j iic-lm \ / 1 1  |n:r ulIrncre villnrillil l|,l„l |lilli,T(: Il 1 1 fu r I lei 1 1; il |||>|I[II,I J  ig, che ni r,i, n ti, no ai! i-s^-cr gi-iJirali' li -.--fi-ii.Lo ei-ni-Ti- tii narrazioni i qni'lln, dio il.olla iillcriieii.' nei m.vz.i ,],:llr r.nih. per inolilo ili |iroia. o iti accusa, n ili irunsitnuie. « ili ani:iclii.inieiil.,.u ili lr,.lc.ll Icrzo e.,:n tu è (]ijrllu,  (i lic-n.l «li.ncu alla eau.a ci ri In, mi nel quale  imiti™' niill.i.liriieii.i ccrciucsi |"r |,til,-r jiiii leccai ci ani crii e Irallic ncllii cause rjuci duo iwnciidi  narratine, clic iililii.nim .Inno ili -'i|ir.i.l>i cnlosu  niritóoiio ci In il ih' specie, l'uni die numerili lg  chip, Pulirà Ir i-prsonn. guniti >pi..ic, cli« i itjiKirda le .ose. ha Ire ciurli, la involo, la hlocia, la molli.- il ione. Lo limici è , india, clic eoiilicne cose.   cu o mi   |i.'si/n è imi l'i.-.i liiila.ma die iiii,,liini-|m [une.   nrcadccc. eulm: i r.i'.l, mi-,|i,isIÌ .Ielle c.jiinic.lie.  Onci funere ili narrai mie. l ini riguarda le perso„,'. il.'u- coni, mere In orarie ,l.'l .Inc. 1,1 rtiiersiL.'.   in ni. II. i lai laici III, .Ielle alia Ii'Iii|ih|.  rum. pcrsonnrum ll'(lin , alos,roasili,,| 1,111 riiliiu,,'..   : n-MIi [Wa   ll. ni s-eepa vcrila-, ciii linci- serrala siili. IìiImii  f,.rcro non pelosi: sin crii fida, e m.cis mini  iil.-.TVIirirla.II.' iis rollìi, ranle aliala.;. -minili i'sl,     .il,,. .inVIalnr i  h US. nini qnae de il     ili rms Ipraelfr crlcr(*| in Iria     lui., alimi. i:n:i - |-i.:i-. | -i nulli..;. |i -H.l.iHl,   a.i.i. t.-ril i"-. I.:i.|...ir -in in ilil.i cìclieenus Sfiorirà, ipiiil niil'is ..ni.'aiil al nielli. r|l]iil in r.nil nsia i rli',|.i.1iir L II. ni iii.i.|..;   Ini. rleilani al. dr. : l  nu:,: -| . . i   1.1 1:1 coalraior-ia. 1 1  rr-. 0 cannarlo, Aaaaa'in.   linncm esse a Civile Ira inni- .',,11 Nielline;   i| Il ili ila sii. Ilio ulain'i p;n. ni l'in a»!;.!!! (i|.nr     l-rii.i-.r.i !:>.     ur in dun parie), enumeralo     lupriamcnli. le arnia. ,1,1.1. i il. .il...;i i.n.,^ I.: ,li;.ro5.aiiu e.-li a;:ee al saintetin ; olir min riìal K lii,i.   1 1. glie ulllme co»*; a  i no nuli i i   li.- i lio S||..':IJ ni mi-l,:IIii ; 1: linai al.: luasaaii  la oliiareiia. se in-a-i.oi'aine i preeelli. clia  l'Uro 'ij; Lari'. 1,1 l.i.-lilii: |i,|riiia.lic .pillilo ;i a     ilolilicraniiiiii, le iipniirtiniilà il.-' lucili, allia.lic  nau 01 si ["-ssa a^iiiirri' 11 ili., il l.-iii| 11 a s.l,il.i   Illudo non ora cyaMTiiiali.'.n cllWnf.i..^o. ii C .iini.«irn'ieilij     -l-'n; t il Ci l- f -ti . |iff. hi il ,1 r^c f j i mcrj  tenti pctieulj». e pud muore nell'udliott ilioi[Hlu ili mriNi.iiiiiif c ili nnili/iD ; tj quii cosi  Ir^l.p f-'ilc al  lis:^ii. I.V-r,m i*iinn' irni'ivi'  m i j  iv mimici i'iiii liri ilià ^ >ev;.i iiniim*-ijiii     ri», .|iii Rullici- liTii|icslalriii naiim irliil>:c[i:]l.  murila \>i-vìm ; curimi ii.nim «liTflr|i]r r-'.i-, >i   r.fi.iMTNMjnfHa sii, imi ri- n-i-riiH in n.vi, Mv   ,'rihi.lirt- : t n i ;i ( L i r r.iii:,.-, [Vrknili liniin     ili-,;iOiiU.I tli.I •lilfn, i liliali UT c.liiiiair di lumaca aM.an Inaino Ij navi-, ilHilurm prr.kiu la n.mC oglil cojn; ( clic, JC la naie vada in aai>u, laulu LA RETTORICA I :h!jiu o n j I- w 111L.. IS lom imi   "Mio it-o, t fin rnnoiiom f rr fi..ì.ir.,.i  LA RKTTORICA DlJtiZ'XI t. Ci LA RETTORICA  iimm  gssssssssasses   wmm    ri'S".' n «"diS.; Lm di  ÌISÌIfÌɧ    sssdfasr'- LA RETTOHICA     ir.rr-l.iri iipmliTC; illuni iirrlt ucr oliassi- Ila ilia;sn ni. mini tjtlii™ni r iio .(> ni a Ir [ir in ni miri ulici*c. DcftBSOf prlaiu ni domomuobil illim lotcprsm, si pnlcrit: ili fi non pnlcril. cniinjgk-t sii  in.nrnilF.nliam, slullilioni , eilol^i'lilioili , vim,   giui «Ira Ilì f piincri turni, timi ilc-bcal abiuri,  n.n itlimicnlrr iinuiizii: liirpili.ilinr i.nr...;i|.]-.ir  .1 infamia, prins iloliil op-rram, ili Msos runinrrs  .liiiipaliii r..c uicul .Ir ÌMinccn'1' : pi ulclur loco  u uni ni uni, minori bus mali unii Sin niliil   horuin fieri polon), ulular .-Uruiiu virltfnjiiitie ;  iiicot, muli ino li bui risa o|iud censore), ied  ut iiiiiii.iil.us ailicr:a iuruui "l'in: iiiikirs Juiirc. nvoro. lo dimostri --e in qtliilr.hc rn.jiln il può, corrompilo» e misleale ; in Don per uno o più litri  villi lui lordo i' .mimo del suo acculalo ; e cunchlndmt, elio non dH far menilnlh, che quello  sic.so uomo, cuc in oiUielro operò tosi male, abliia. ora commisio quell'idra nvsfjilo. Se I oberarlo gt idri nome puro ed Intinti, dirà che bho.  gna li? ncr conio dei foni, n»n del nome; ch'rnli  per lo posino srnrc orcullirc lo sue lurpilutiim;  ini clic ora esso acouijlore (ari aperto che colui  i reo ili ini.f.ilto. IVr quello spella il .lilsniore,  ili ni prillili Illudo vena u.mOilrando, se polra,  che lo vila dell' incolpilo è iena macchio; se ciò     ili.'lo prrsnnsiniir: „.-i lcin.ili scuse .erri ad allonlinaro ila liti il bn.iiiio .l. lk- mitmi .interiori  oll'occiisj, di cui presente meni e si Irolla. Mo se il  iliti'nsari: si Isinerii t.irte imbaulalo dalle lurpi      IV, Collallu cst.quurnacruiiilor id,ip     , oc.ll s'appiglierò iti' Mira  tomo ni coslumi di lui d»i rin.ili ci 3 clic * u" unr-n clic l oiinnc sia alata  ilsgcms.-i ad dire perdine, r> che allrc persimi'  unirò .ihttjnn rinvilii tare ni ili cui f arresalo   un clicnle. Il segno t rjur-llo |ior cui ni Jimtj fari; l'azione. l;-=o r.nni|ir In nei pirli: 11 Ino   lili; quo dici, qua Docili hors  «P'iii'iui II» c unsi li cu li il ii r : -aliw liingum [unii     i", poili che riuso II «UH; pe     ittdiitodnian atcìlìil i-.i m;Tr.inii:i qllml qo l'i lliiinn |ni"ii i[ln[llii= 1.ir|i.'rrl .In i|uulilicl rumoreio proferì' ,[ cul:licu!]l Libuhni ili* iip.ro. \>tu mi rumor i.mmnenu-r pnilni fisi- vi.lcljhur. areumcnlandu farti) s li il ero  ^olecimus abrogure. ! dillkilliina Irai-lalu  ,.-1 concimilo couicrliir.ilii , ci in icris caussis     -.ilal'i ne, i[iiiJ icri|-::irii 11;, ini'!  ictaa dicaul, quid Indiali ssqui  in M .[un.] riihiRrnler pcrscripluni     iilrr.i-nciici'il':, ii^r.uo. ...vlj rimi raim-it. Ili"  In ennupla [nfirelilur, niut- re., quuni uli iola, « addurremo rimici» unto racconto conno  ai insili nrrrrsani, || ,|u,| dir Emo estero rir.elnlu  ila tulli ; 01I anche, allculiercroo uria vu ce vera, di  cui CHI abbiano ld arri» il re, ino li sia 11 'lo perielio   11. i inni |irc'>, m      Mi.luiti, dell' cui  12. dia paliamo a  I Quando ini     1 parli della qnUllon lc-g.   ' inlmiimic ili colui eli     olitole     allo scrina Ili |i "i domanderò,  inlcniinu? di si.ri.cri' nel minio dio n'inlcrpreu  •|iial COKI lo impedì di Krlnre eppunlocusì? Dopi  ciò noi faremo apcrlo qoal s'i il itro senso, e nielleremo in luce la cagione, par cui io ieri Ilare semi  Ippolito c.injo scrisje, e proveremo che quello  senno è ciliari), mutili], mimale, compililo, delerminiiio, E qui n.iì produrremo esempi di giudilll pronuuiiali 1 favore dello aerino, aneguacliS  «li aTversarii aiiiiuccMero utll' aulire di quello 0 mm-m    a-SSSSSsS    SS assaai ,,,,ir, ; ., ì .,.i,»i.,r  Ss  il. -r[ua« [i'|jilii:s ijlifiTtjoJj siinl, dui: niuilii, n li pa«U iucio Ani» i  LA BETTOMCA   nn'tiiii, bi suburra clic no     jc in sbollila iurldiciuli 'm-ìciiIihii li   cioni, non mtno rn i: !i'im?:o ilei fi :iJ itali, chn  furono in livore- a in LÌjimn 1VII1 .twi. !>j!l"c-r|inlj  ipmbti fonde lo ! olla  tir Dille comune; corno: : Clii fia più di  ed è impellila di maialila, può fini   in ^iiuliji.j pur mozzo di procuraloa ili i|o.'S|.i principio può coslllulriì     il incKosiornu i. Stallerà I ioLCrVCEllO Ùi   i di con'emiune, I quali      Liuno ir.     i ilmini nominili veneri!. I.  I:sli rrf hit l .liu.Tn;; iri:ni;'..iiM':ii:j] :i-.'or:i.ii;:iii il"     più mi ni ['tura c |i i -j pnlcsu si i  il I::  in ri  Ji.:= li; Li |  r. : ;  .1  i    1 rruiiiliiljiiuii;. I n |ini;i.>.iji.iin'  iii;.li:Mìii-ii ili ciò l'Nc tnjlLirrm  OH'! ri il |iririr. : [lio, riic iliirmilm  , 1 fui Mulinimi, s.i;ij niij;-,J-.!n  unr.Tin.iildii.ì-lliHEjii.jiirèfiirrl1)11 mcillr n : □ fili . li; linsioai  silos». I.' unni iiiciiln { [udii. Ji  o per aliUcllire ed am.'.-liirc Li     XLV. S.- iciromn n  'in:|ul' pjrli, co l'Olii: li;.i:, r..|:l,i l'in -nrn.?nninne: ir Noi aUiiamn a itn cu ni parare; Hiiuui-ttMI, Fi iure   litui | ral. riinvii inimi i ì:iìjjiì.;.j riiiiiini ulaelii iijii. ' li rei unii - iin-i-"i;i l'i! ili* le^liiiKiniiuu   dal. Urini ri radili perniili liurlitialur, cum inlcrirnere. a ino ii|iplir i iini icnhilur, i'1 condurli] ! ll rr_ i il L-    i\irlisii'iiuin , hl-vnrr li, iiMiiii.:i1inrnin p-'.->i- i|ii-i.!i-.il 1 ininii.i laie..:ln;il.ir:i ei-'l-tililrnii    levo torre iti Ha.-i-.,a:r>. [inp; rei. indo ^'tncl^ll» a'ml   i f.illi'iiù 1. ^..Ti.'JrmTiihimo^   I-re i.kli.n nf, grandi, allora die r.-rri f0 : 10 ,!i   spirili r°rrao!,"m,7 s .ÌX°^",»u deteold»™»!  ' ' arai! l'Irte di-eli iinrnirii n'Iln-.i nei delilli   li'a-- : .'ro [|nail.i_'-io a pr.nn della pin gronda inibiti, rlii ^imera.i^li.rj l |,eeo=lui,li:;,i,rif.. c iaM    ilrm I..,-. mini ni l.ilin :. , ijiil rj i Ij..>Ii.k   lideainui aliirn's l'I era-lai inliif, li e allcii Li  ' : "' I' 1 '"- min m.i-ì a, renalo da un ni 'tre "mi p:'i,lai,Hia a' iremiri. nlLraggiiio, trrilalo.'        mala™ rslionem videi mua, in ilio più rimai ti pei «eie |.r«- sl.ili .-ji.iirlii E grandissimi     I do, l> sogna allora aslener.i .1 ill'eiiiar  I rccopìlolllìono. In orjni arjomenlaii     oifliiizM T.juatllic ti .u-i.:oiii>L-iiMf.' aiKlic qumo, di udii  iMk,™..- atrofia iiiirkM-umal,.. ,|i,aiL», '" '» »"r   apparai,? CI, paura ,1 la in ala; a la auui.lijia  a r 1 , a l.'raa ^Xi"™"q««l•»S" lqU,11^, "'      iz,tr™.",r rm """ 1 "'-'™  l ìi Irti •unii s [mirili.] in a[.|iic ilisi.Miini. Nani Iidln.lioiins r:i>i fal..ae r'.i'iit, «niishicnr-s ijiiiii|uc taluni versi esse conflli'ri'uiur. Ili-m inlirma ralle  ni, quae non nceesaariam caussam aCcrl ciposi I '.i:ui.-]r, ini.iri.iiji e-ie li.i. Li tlii'niio rii. a. pi u lif min ledi, il lungn  iliiv'rll.i ilr-vn ii-*ar,i; Molla, |:cr.Ni- e rrudcl?, hi..Ila, imluliilr- iii-.in.alii, |iit.Iii> nijii.ii .li,liii-uiTE ni' ilii iii.tìIii ni' rln il.'inriilii. A'.Ni lito".li  imi li sono, i i|iiali ncgiiii» e-si'rrl |nt tngjun ili  n-rluna veruni miseria, un Milli- En.E rcg.-erM ibi    a, t.;j i  : r 1 1  luminili j   -f -  cala il il a ben tur. Itera viliusum csl. quum iJ pio  litio - 'lur.  ji=- -ci li.ln  iur.es nuli causi 11 , quin   Clio In, idi, t/luliu.s ttt pulprfiM nulli.' hj«h(i,l   alrjue (nftrSm,  |>rlccin inlersisè cucili, Hit, r-ou/.- rmir .on. or   li: ni Hji jitii snu iure lice i.'i:ui[.|n usuri; 1 j'.'^.'iiiil  Imi Km, in. iuilnrl. ignu-i i.im -tnij crii, riilitnii ani i|ii.i!.i M-fi) alfine urlìi iirruliu ilici iiuV llir. imil lll.illiH III HICIllClll lllilli fi ll lli^rl. tjllili iol| nnm hoc uni hoc [eduen ; "o^raMiiroìiim  mliu Ujgil. Uriti liliosnm est, quinti iil, i|imi1 in   Inr iliTcìi-inne, lice modo:  Smani Ir. pj-iKidttBI omnej, /Icrrmlusiino  l'^norpltyiii; ni.» [iisiTliim oc omnlolis  miii.nii, jìl'j iti.) sol'i ni rolli iiuiii pira. IH Li ti r1i,..l |„||,.. :   È ari roti mr.uo n.atc uni ilif, ; n, clic sin comuni'; pei rsruiiiiiK  Colui jiivri'i por irnrunilia, o  tu r inrspcr.cii iti, tv jilt ciuuc..-ir ,1 uoiui ij M |bui(lprsliT.ì"i" I ' liminoti;!   ..iiifrrriiiiiiiiir il;0ln r.i.'iorp ; in tornii», qir: n.'iiliu, Hill ,1 narrai ieri! Ivj.M r nuli,) [ ni- ,:    l'ori! ili 1 mirili' .i.liiniriii,. :;ll;i narr.uinn,'. |,rr    rlii- li inserirai ^i ii.inr'l.lin Inv.irjm c |irr|nir,l,> ri n-;1. T'n.'j.r. r :i! il min riniri'i Hill -, tnrr:i:i  f'iT In inni ri-n r.vi\rr;:'i l'i.ml-n-nrr' I' rm]ine:.>    ili]in a ili, Mone : ilmn.lr: eriiinc brevi Icr ci |ili  • in lall.T lini-inni', i! i[il,is : rtn :id iiiTi ìni r-, ! r ,iioTivÌ   ;mj imi lini ,1 eli  |i'l>rii r; indirne ni im't, ri r '. NÉÉ  liti «a; noi .l:|,|.|.'Ìi:-:uiiu i il .,!ri ijiuui.'i. c ria  siri l'iri'iiSi, i.ipji, i no. ni . i ii,,,1i k, : i,ì    ri. ,IHikiri,,iil.. nel m-.-Ji^n.u U-Jn|io clja fi 11 [..ni  t.-, etimi t'i .in Rinfili 'nuli; noi ritonl.T,'    :,.'"\ vSSH LA RETTORICA  unno l'Enzo ,1, ,Jn,iii.,I.T.IL,.|i^ rcip.iLI-..,- ::nì,l.c H.k'iiiNi. liGcii. Usa uppollolur pruiiciilia rerum mulurum    po più opportuno, se ni... ;|i r ,:i..-ii t 'rù l'iubm L ciiln^uc. Forliluilo csl return nuoniruin oppeii  imùj 1 : J :hi;ili],! ( li.l,ì.,v.,-.III l r,iLT prendo siisi   grurnli coso, il disprelr.0 delle miglili, e la lolleroma dello lutici in ragiono della loro ulllilb. Li  le,uporon« 6 nell'ani.™ uno r.,r,:-l, innJmlMoe,  r.jii:irni! lo passioni.    SS2SS    a&ssssrass iiim.lr.Tnw. ikm™ r.-liyiw nc^ili: o.-==.?rvarp  .ln  lil.rl |.ro patria, i>jrcnl:lnn. lio-|iiIil>n., nuiim d    '™. s.i iin.-rrn,., r : , •umilila aiiilEkì tinnii   nuoji, dell'irò, ù .. J:,  OpII «n mo. c moniti cosci eomelorumo io «ci  [•;. -i -iti"-..u> : Ji.l.Jf Ji. p. iK'U>'u«n.eln»ic    ,j;.-.o .U . >] f. 'il.. i.. r >J f. r-M Fs lirlÙ 0 1  sono lo sue concilo, le tuo Rlonr. le toc OOJ.tbrif,  ?BEE : .5ss  ced ™:;,r~::i!;.::i:r=      ii(ii|i-r..1ioik'ri] lran=fcrro, |ir. ].[; rei |u..J  irpo  ulqO, n n i:. n,n, rr:|.LT ir-, |,jr'    >rpn ri.i-n Ir.. ].c minriiM:,,,! ,l„wiiiim c.-.cr lirici ; S3SÉ    !:*[il£r]]fiir->rni M - l lt:irL'; 1 ;ni;.-ii.,s.i;nli.:]jiifj C ii;, |„, t   SSES&SSS   filiti r., «Hit «i-S;»i. « o.ifioj tvqlrMm M    MMoiMti iwnpoattu o ioMMm;aM alcuni    EEÌéllHEE luco piullo pus dlonnos.    iilllÉ   sssbsmksss   uW.ri-ww:. in. fine del di«w..7^^™^'*». 'e™w nò eh. e,     i.gisiio ni. (.mi r,„] ( i s rj r tl..m-(iir. .ci ..fnruir. r  incidi.,,*; il, in in lo™ ri r,,dir, e ..ll.r.l»    iveislmo datimi a s ii «u n un ii-m ili noltim, cui pr> rumili' il sii llcriiiui ; ili iinli: facili;  e' il .le ilici siniik'? nel!' 'pillilo 'ineiiiiHnca ccl   1,1 iaculi'; pi'M'Iit le iiiimjgirv, siccome le Ii-IIitc,  miri riirruJiitic usn, si rjricolloon; ini i Ir.nglli,  lincine lor.iiolclli'. dclilinnn semine i-immuni,  li aodocehS li jcunta quBTlUll do' luoglii non ot  Piccia cidere in l'irurc. Mirri [imi! fili! ceni rjuirilu  Ini)"!] icnja ciiiilrc.i'vnrilo : p.'r esempli], ss nel  .|niiifri Iiiiim li nillni fiiiiim ima mano d'orn, e.  Dn locìi s=Ii> «limi'" csl: mine ai] inchinimi riliormm nausearmi'. Oumiiom cto.0 veruni   binili) m.J^inc^ n|"'flcl, er lii, i.nliis linb-i silllllililillili's i lince ijcl.cmus, ilu [.lice- siiiiiìiliiJini-s e; se ilclicin. iinas rerum, alleai i diramili. 11.-;iiiti i-irnililnililic-. i'i|iiir.iioii1ur r     lode-li por rapprese ni are le cose, e clip per rifliiaiiiarrijlla in e il mi i,i ie parole si'r K lior ilclil.cinin  .kilt sinii(lijwc roiin -filili; , '-i ilclil'niui ml'incni il 1   II  ss  SII    Sigili      Di^.ii:o"J !;. Ci     l inni' m.     GHItili leiioiinceoinindOBUq LA RETTORICA Èsili   :•==£££= sssssls    =§Ii   .la alimi serrano come ili lullmor il-, «Miri.»    ,.ir>,„.'Ua gnisni situi clic una lalimoniu», è i.imni iv.      a luce ornili! inizigli eiinonei mi.toiefli'i.iui  omna. inori! [maiioic] scribenoi, redi ali In sin    vcrcciui-, no cui salii sii ni e muraria in raiumcni  prnlmml'iu. 'l'i'lil ab en [-une. interini ii. qui et  iuioiilurcs Julius arlilicii liirinnl, i l «instilo iaiu  siili!, omnibus probali silnl.ljnoiìsi. illniulii aititi»   i ii. ìlio,n:,i „li - ili li.. .°.i,.-l. esse iri.i,;nil.,ii.      IL Olire ili cita. l'a'uUHU iltsa degli «illclil  noi) fina din ili un grill valore I La i|iialu ila min  uiiiu;i,ire apurmiiinne al!,, ro-o, ,en/ Google     V. bitumi; itili.r. cui quiini lituo,  j : l-  1 iilicnn  llll H III. .:„: r-p-.-rir« non pOIUCrK. Alla i Sd|.i , ('. ,[[,.,, P„r,ii lliai-n, Allibir, ree   :.b. mulinili pulì..-,; un , uno 1L1 |»>   -alia lubcLil ; omnia, quia orano' Imbuerinl, n!.im ImL-'ic >c tk.ìm' ilillUìcl. Ergo Inutile eil ci   1 jitur nciiic- in lene inciil/rct Cì'ii.i.iik'in, si :L uro    prozio, l'ali™ un si:™, [iiipcrcii'ixlii se t u.li siiacquisii re   il nitrito ili lutti ; nu iìi .-ii> iivri disponuil, In  ponile patii .!i l l'in 1. ti l'iiT.-iliT.ì. pnrcliòa quelle,  ilari coolciilo ; ni suri da meravigliarsene, quintali O.oTunuun .1 redini» esempi lohl da Caloi -, .Li .   :vl ilnjii nnn Cil, 1 Ijn .li: lllml. ijlii'i! .InNiini    I, ni jnl ililni ri- 1 1 1 jniìsil. :ml i  1 1 j I : i ilKli : llinr . MiTiliniinnnliiinis iipsWIaliir re. kciiliv  :j i- ilfiiwi ulin infili lira oralii'iii- riripilur. line,  moil.ir Kl ini mini pTodivas. H cstuiinul quoil appclliilur mcnilirniii; ili'imli' lini: fu ip'.ilur ri-nirlrl  ab illcro: Kl amici™ laf.ifli.i'. Ki iliinbu- mcni-i rripublicac consululsli, nee ;  tersi iiilemllli dliUnguunU qui (pel non mulinili  q II Oli fi miglili opere ca  .Insinuo. bM poclo: Qu :| .||-. lrCr|i;eiHili:i. lIT.TJI «'filli Subii     ssa con frasi conciso e lime unilc.Hc csia pucc  ircccliio pur la sui ropiililà e per la sua hrm  nifi, nd tempo mC'le-iiiio |i ; ulfrr.n ilei finIo prova con editarla clli clic r oratiirc In bini ili [iroiBi-r ; c dj una virili riLfiitisciiilr, fu  ippire min velili clir è iluMiiri. si cti-ella non  ossi t iiifiiì.-.r. . o lo si iwsìl ni:il:n ililSri!   Inppilo, cosi Ila liiroe.no ili jpiniiqisrs! ad un nlIro membro ; per atmfio : . K in gioviti all' brinile"; mimi mia nr.viasiiior-L-.clic si rlimrni mei:]  bro; likii-n clic rm.i.lo membro sii legalo ceni     pinvavi al l'i n imi ivi, cci ;:ri ili rodi mento all'amico,  f uni: jir.i«nJeii a U: sle.,0. s H psrlmrnle: « Ut  olla Repubblica provi ecics'.i, ni apli amici piovasi!,  ni ai nemici rfsi.K-sli. i Si ridami articolo, 0 inciso la divini ione, clic si fa di ciascuna parola por  piusc, Lenendo sospeso la fraso sino air ultimo :  per esempio: i: Culi' impelo, cui la race , coll'a^irlI, li.,.. Ili.-.-. Il, li -li ai/.erssrii. l f. parimene: r. Tu  cull'iiKiilia , Hill' tngiii ~'.ijiii. coli' autorità, colla  peritola hai lolto vii i nemici, i Tri li vecmcnio  ili qiresla fipurn, fi i[uclla .Iella prcci'tlenle ci In  ipifhla .liv.arin. f.'io .|jel]j P.i pa's- piti Unii e |iù  più rapida e più proli"  :o il pe no uà colpi spessi   cale nazioni] di paiole in  il Irarrcmo Brandissimo     limila vL-iinn ri 1 c:i..i, (j.inl iNtiii.j si (.vallile I .:  eli potrà il caso? • nella conclusione; per esempio:  : Se la fortuna puil mutlissiuw su di (| nel 11, clic LIU1I0 IV.     iuj[iu.ili: IJiiiil veiilam, igui sin], nuaro \i«HMilok',su as,L'HiiiHlnlfÌNalL:a  miwii'ra n-y.i multa ditoni.   XXII. Vi ha a Uro |H rari Olii Mio, in cui lo parole  non hanno una roti -Inlln ru-suminlianu, ni» co:iswvauii jiltò tic.j niTtii analoga Ira l.iro. E..voon       DigifizGd by Google     Ijumii le Jrai. it e >- --r-:.tare, a 11 »™ 1 * ™ sorpreso da «in si S™  III   ili ti lì     IV. ril plcriiroqiic alqueodeo micclarisl Commoiclur  lise p'.Tirrc animus audiluns. tles cniai e uni ri in ni  volili alala, liuiluinmn.lo ilicla vìdclur ; [s;1 ca,|  posi iji~ìu3 iirjlnrii carrcciioncni, magii idaoca lit  prona atialiinte. .Nim i-iiiir salini «sci, dicci di  E parimcnlc ; i Dopo clic costoro rimasero linciloh. u ramimi!) viali; pcrcioecliè cani,,  chiamerò, in lillarin quella clic è siali piti fnni-fla,   clif inalale, ias.i ai vin.imn ? «0 invidia,   f:ritrl|iii|iii;i ili-|],l lirlii, clic jier lo pili vii dil'lro ai buoni, o por meglio dire li perseguili  Per  questa Agora 1' animo del]' militi..' rimane ai^ll. >,   principio 11 locatolo migliore e più sccllof  Può  r 'ili! 1 ì er '!',!,- i- ' i . ' "'icn:io!' i ;ml V.'-.m ."-J.V .'ira li] jj .il im,>uI;c f.v.nsn =11  i 1 .-ì -  ni . .p. i  = limili inleinli™: aclioneiii, ipnic (irilargiialiir. Ilisi-jirlii.' ed, '|ii:iiii curimi, 'le |'ii!ii|i difiiii'H, ani  Dir |Ue ani imam i|iioi!-pic cerio conclmlilur   Karl lag incni silslnlil, i^ii-i. ini in il. I laris adiumcnto full; niliil Cormllnii cimlila calliilUni jirjesiilii irli".- nLliLI [- r.-j.i il ani- nicriun ri iernionis sociclos opilulaia ci: irem Koirn.f -.li _r 1 1 - 1  ani umilio, ilillo-e-cil ani \ iUj^:,i1i- iTlinimiliit-,    lue. i Ducila tipnra a mila, se a na«irri iiil-.'reisc  ili lasciar iulaiidare una cosa. 0 che nan È espodicalo ili mainare par mintili], a alle e- lunga a dire, o elio è Ignobili), o die non si può prorare , o  die e fonile 3 caidnlire ; ili maniera clic sia meglio per noi 1' nver follo nascere copi' ri a meo Le un  sojp'.'llo, clic l'jfar pTcsn a sviluppar cesa clic ve.  uir ri [insilino cannila!,'. La ili. gin ai hi ne li: luogo, allorquando o l'una o l'olirà delle uruposinnfi, flie -i e-poiia/irie , mi lineile niisamn ili e.ii  f i concinnile r.o-i un icrlio .-:i.-. :ala. pi-r .;.citipi.i;    que rein cerio verbo cucinili viilcruus. Coiiimn-lin  esl, ijuum inlf [posinone, varili ci super orli ani lindo: 1-ormac liisnilus aul morbo ikHorr-n-I nnne  Cariatine , di, lece Cornila , rovescili r'rescllc.  TViclile Ji Snnanlliii K : «infoila li- (orla ilei corpo;  ni ai r.a'lapiiie-i fu ili iiriifilln sckiir ililare; nien'C ai Corinzi In di presidio la scallrila  pnlilica ; nienle.iì Kregellani recò carnaggio la «i LA RETTOIIC.l  raralim rei ift'iidll plurali.f']i;3i-i;ir. |i|oIiI(DHji? Militale loltao rnlpac si     Digiiized by Google     Liaiio iv.     irrs Islam reni filari! :c villi l' delirimi? [k.iniliimini, i|uns lialmcrilh dcrerrsorr?; SI ni] in torum  udii* ai, le trulli- |irr.|nniiU'; il rimla 1-1ÌI115 omnium  tonai .Ir «le. Timi vouis vcnicE in niciileni. ul vere  iJk-artl, ri t liliali li ;i i.slm «iic i t maii.i inilins ill'j.  ojuncs arile nculu» vulriis Iruciiljìos «, iriiniieoj cornai vralrii suflriipii; in nmulisiim ini Inediti  [ir tu: ni ni. [lem ; .Nani ijukl Inil. indiaci, i|Uare  in .-.! ili ijuilti, rhc avc-sla rinr  iliii nitri ; poriclni dimiiiri rifili urtili [r hollt-i-ìtndilli Imo [ter voi ; c .nn,iil«r;le i[nale tiini|, tristi  indi irrlib.ro inni Allora ti tetri in mcnlò, sa  ero ™fi'.tìiT i affline, rlm voi |nr ricjlipn,;; ,i  ninnalo |.rr lill.ì li lairiHle Irimdrir.' .olii, ali o,   'Ni mslri, a rl.c rn'voiiri ?iilTrn.qi inalM.lc ai jiiii  ilislinlì moiri i nemici Ioni. ) li |ij rimai ile : a Cile   i:nr..irir .mitrimi V n In r.-;; mal v'iildn-,,c Eli ioli na iurta niidimia ri n!i;i!il« » velismo [ni i.ii.n-i-H,! „:;,!, - j mi r r r    fugil, Cmiril... ,: miserino COIMqui M' |>"-l "("ir" 1! Hn-i "l:|-mi il-' IIL' 1-1 ÌIÌ   ìH I..:ii i-n.Iru: lumina MiiUki ic, lin/ -sui ku    I1I111É T-A BEFTORICA     Cur rp;n mine Ulti qunlquam i. linciato ? Si jin.l iis  '1 EÌUb merlo vouicl.al, ci Illa Ini    ^ii.ÌMa,:iiirpi ;i hiij, 0 nimusa.irÌ5sirnu!,rorlunH ISIS ;pn ; ci pracl.'rra rimo, (pana rii cìhui- lanini is osi,  i.le n'usi rn in re Ioni. In i|ue rs ( orciaio frnla, ;  siilus , pillilo posi In ipso unilodcin vox Minia, ipii 1    "1 più proprio ail uri' aioirsiinnc. r r orcasion fa i-uremie, e opportuni-. ìtiu il luomculo dello inIrapreiiilcrc : Oil ot'ìi calcolalo atri a Inno il lemri..     E::     wsm      p«M jttr gli ™id?pcì pircmi.^ por Itili gli JSi.'SSSSS.'ZZ'Si    n ''."T'."u"n ~\ - i'vi'..".'. JXl" ,»>  Minio csi,i|iiuiii Hprtuills  difendili», hoc modo: llu     ; ci! j [iure praii'.-sa, i .in [ali.-, rain lirtvili c   ì clii.ir';i7ii.l.'clfiiiM i: l die liiKriic ilcar.u 1 le re ili aldino, prtscnlsotlo csrli irai li, clic ne     55SSSSS    .0. oh..- e ii dico pMn„ nr oHcdil» die il .110 pi  ^ss    <li«:fnre. Oli ialiti : K.i Jìmi^iIjII.: i-imiMis -hidi.iln uralulii [imi.st in medium Ioli        jr,i™cni a U S ÌMu t ,rr,',ió , m' l0 1 ;o^ Si^h™  Ji f =„l„li,,(MÌi un l,„:l,.IOJ.: . n .li mi» -|n..|K ; i:i  1.1:.'. 'i.i U.Ji.'-L ' .ni' :'i...l.-i .1 i" ni..   no. Cinqui empiii arami »nt lui lo ^uiva     lalign™, non reliquil. l'.-r ™bi 8 uum , q,,um   .1 ili ; in ili: i.u si ilicas , qui mulini liereuluilis.  ni. mi : l'rojiiiM In, qui (ilurimuni «anis. -in., in Il luni |.„i,i„lii ,cHj, |[jqc cior   iialin | -1 li rim |n.,..tel mi ci tonimi.     bj.l, r ruJliir:irttii iIilvkKi. ihlì' <li*Lcnili:   il bracciu, c l Gtri.i.i, clic ''ir dubiln ili ciò i lir   i, e pur non nlibunkiu il preso posto , pianla il i ìiLlTimia Ali MIKKMU. DELLA aoi, INVENZIONE RETTORICA   TRADOTTI   DALL’ AD. TOMMASINI  NAPOLI   Presso MORELLI Editore  Strida S. Sebastiano n. SI. Asserisce Tullio ( De Orai. , sul line) che nei tempi anteriori a lui nessun  buono oratore si era trovato per islagione lunghissima, e solo di tollerabili appena uno per  ugni gran periodo di tempo. Eppure si nella Grecia e si in Roma per insino dalla fondazione di quello repubbliche le concioni e il diritto parlamentare a lutti concesso davano  agio e opportunità agl'ingegni di mettere in azione quanto aveano dalla natura e dallo studio, e di salire con l'esercizio e la pratica all'eccellenza nell'arte del dire. 1 fatti stupendi  e vnrii di cui essi erano attori, le congiunture di malagevole scioglimento nate dagli attriti  della politica, dalle tentazioni dell'orgoglio, dai pericoli delle guerre continue, domandavano dalla parola pubblica i provvedimenti clic ai nostri tempi son la più parte il còmpito  esclusivo della misteriosa burocrazia. Gli uomini che pei grandi talenti politici aveano primaria autorità di parere, nelle concioni volevano necessariamente essere oratori. Era questo un dovere della loro eccellenza, c d’altra parte un bisogno dello Stato. Gli effetti anzi  dimostrano che essi sapevano in qualche modo ottenere i fini oralorii, e che erano stiflìcienti alle circostanze, e a quel grado d'inlciligcnza c di civiltà in cui s'attrovavano gli uditori. Laonde l’osservazione che fa Tullio non viene altro a dire, se non che la natura andò  sempre molto ristretta in formare ingegni di tanta potenza, che fossero capaci di mettere  nel più grande rilievo i dettami o i suggerimenti di lei, c scolpirli, dirò cosi, nella straordinarietà degli effetti prodotti dalla loro parola, tanto che i venuti dappoi avessero modo  di convertire quei dettami e quei suggerimenti della natura in altrettante regole di effetto  indubitato. In una parola, non vuol dir Tullio se non che furono rarissimi gli oratori clic  sapessero mostrare nei loro ragionari una cosi magistrale disposizione di pensieri e di parole da servire di sicura guida a chi avesse poi voluto raggiungere il vero scopo dell'oratoria. Non fu dunque causa di tanta scarsezza di veri oratori là mancanza di precetti elementari, poiché questi si sono compilali a poco a poco, riducendo a norma e canone i modi  di certo effetto seguili dai migliori, i quali modi separali in ispecie, formarono quel corpo  d'insegnamenti che costituisce l'arte di fare un'orazione. Anche dell'oratoria avvenne ciò che  di tulle le altre arti : le regole furono posteriori ; si son nobili gli effetti, e si ridusse a precotto la causa che li produsse: la prima maestra fu sempre la natura, e i mezzi con che essa  porse i suoi insegnamenti furono gl’ingegni modelli ed esemplari ch'cssa ha crealo di tempo  in tempo. Giova qui a maggiore chiarezza c conferma di ciò che ò detlo allegare quel luogo  di Quintiliano che si Irovn nel lib. V. cap. 10, verso il line: « Non è già che dall’essersi  date le regole ne sia venuto che si trovassero gli argomenti; ma si usò anzi ogni maniera  di argomenti prima che se ne desser le regole : dipoi gli scrittori ne fecero le osservazioni,  ic misero insieme, e le pubblicarono. Una prora di ciò che io dico si è, che gii esempii  che recano son ludi presi dagli oratori antichi: essi non ne adducono veruno di nuovo, e  che non fosse adoperalo prima di loro. Laonde gli autori dell'arle sono stati gli oratori.  Dubbimnu però saper grado altresì a quelli che ci hanno diminuita la fatica. Perocché ciò che i primi, mercè il loro ingegno, inventarono a poco a poco, noi non l'abbiamo più a ricercare, essendoci oggimai conosciuto. Questo però non basta ancora, come non basta per  esser atleta l'aver apparala la ginnastica, se il corpo non sari aiutalo daH'cscrcizio, dalla  continenza, da un buon nutrimento, e soprattutto dalla natura ; siccome dall’altro canto  neppur questi vantaggi gioveranno gran fatto senza l’aiuto dell'arto, n   Non si vuol perciò credere clic i soli precetti abbiano la forza di condurre alla debita perfezione un oratore. Ogni arte ha i suoi priucipii elementari, le sue regole da dover seguire, chi vuole in essa acquistar attitudine a .maneggiarla; ma non lutti quelli che ad essa si  applicano vi acquistan lo stesso grado di desterilii. Le regole in un’arto sono come altrettante fila gettate qua e là nelle diverse sue parli ; ma gl'ingegni comuni non arrivano a impadronirsi di tulio il complesso c la collezione di queste fila : so l’arte è di specie un po’rilevala bisognano ingegni superiori ai comuni per venire a quell'inlicro possesso. La ragione adunque perchè, a dello di Tullio, furono rari i veri oratori anche dopo la collezione dei  precetti, si è perchè nel trattarli, nell'applicarli, v'ha di bisogno una capacità riservata unicamente all'ingegno umano, il quale dee saper discernere non solo la forza enlrinseca di  ciascun precetto, ma il modo e la varietà con che ne dee far uso. perchè le circostanze diverse domandano una diversa applicazione del precetto istesso ; e l'effetio non dipende dalla materiale collocazione di una regola, ma dalia opportunità di tale collocazione: anzi farebbe danno al suo ragionare chi non facesse apparire che la propria servilità alle regole,  mentre l'arte ci dee stare nascosta e sfuggire, per cosi esprimere, fin anche all’indagine  dell'uditore. Senza dubbio l’arte è un aiuto, ma l’arte sola non farà mai un oratore. Ci bisogna un’nttiludino naturale, una visiva acuta per vedere le vie che menano al vero effetto,  una ferliliià di espedienti per sopperire ai casi in cui l’arte è monca o inetta, una, sto per  dire, inesauribile sorgente di concetti e d’idee da adoperare all'uopo, una profonda conoscenza dell’indole di ogni circostanza per commisurarvi il ragionamento e rendervelo adatto, e soprattutto una vasta cognizione del cuore umano, di tutti i suoi penetrali e latibuli,  di tutte le fonti delle sue affezioni, e di quegli intrighi ed inganni onde il cuore sfugge sovente al contatto di chi lo tocca e lo lenta.   Certo una voce così vittoriosa che pieghi a sè la renitenza delle opinioni contrarie e lo  assimili alla propria; che tragga irresistibilmente altri alla convinzione di avere stortamente pensato; che svegli idee nuove e troppo più salutari di quelle che s’erano concepite in  generale; clic conduca ad assolvere o a condannare a dispetto delle presunzioni contrarie;  che svegli l’ainmirazione per un individuo stimato fino allora abbietto, o la compassione  per chi ha il dosso curvo dal gran fascio delle sue scelleraggini; che induca un popolo intiero a intraprendere una guerra che domanda lo sue sostanze e la sua vita; che faccia alle  parti aspiranti a una indulgenza o a un privilegio applaudire la parola che toglie loro ogni  speranza, ed opera anzi la loro sconfitta, cosi leggo in Plutarco esser avvenuto, per l'orazione di Tullio, ai tigli dei proscritli; che insomma abbia in suo potere il maraviglioso secreto di dominare gli animi , come la legge domina sullo masse . come il signore padroneggia sullo schiavo; questa voce 6 come un miracolo che non si può sentire se non sommamente di raro. Che se tanto pochi, come accenna Tullio, furono gli oratori nei tempi in  cui si può dire che l'interpretazione delle leggi c le misuro di governo risiedevano nella  parola degli oratori, e ch’essi erano la molla più ordinaria del congegno politico, non è  maraviglia che neppure ai tempi nostri non v’abbia oratori, quando l'uflìcio della parola è  rivolto a ben altri usi. Infatti quell'oratoria che è rimasta in retaggio ai causidici odierni è  inceppata da'molli rilegni impostile dalla nalura e dalla costituzione dei governi assoluti (1),  per cui n’è messa mai sempre in cesso la parte amplissima che riguarda il sindacato degli stessi atti governativi e le immense complicazioni della politica; parte clic negli stati  liberi, come erano le repubbliche antiche colle loro concioni ed assemblee, offeriva infiniti  temi all'arte oratoria, poiché il negozio pubblico era per ciascuno come un negozio di casa,  e per ogni capacità una continua occasiono d'incremento e di maggiore sviluppo. Di più Ut  molliplicilà delle leggi, per cui ogni azione ha, si può dire, un precetto che la previene,  e una sentenza anticipatamente pronunziata, non permettono all’oratore di condurre con  la potenza del proprio ingegno nè uditori nò giudici a cavar dal proprio cuore quelle miserevoli transazioni, quelle indulgenze eccezionali che l'umanità le tante volle facca sostituire alla severità dello leggi : e per verità poleano le leggi meno parlicolarizzale essere L' Autore di questa Prefazione scrive a Venezia, sodo il regime Austriaco.  meno inflessibili. S'arrogc il manco della pubblicità, salvo in argomenti criminali presso alcuni Stati, la quale è il più potente incentivo allo studio e alla diligenza del dicitore che  sa d'avere in ogni ascoltante un giudice che non sentenzia sulla causa, ma sulle sue stesse parole; e in One un esercizio di professione clic aspira a lucro, non ad clogii, non a discorsi ricisi e percntorii, ma a stancheggi c lungherie per tranghiollire più a dilungo le  propine e le strenne dei clienti ; son tutte cose che s'oppongono allo sviluppo, agl'incrementi, alla perfezione deU'ufflcio oratorio.   Ci sono, è vero, dei governi che hanno assemblee parlamentari : ma gli oratori che più  vi splendono son uomini di circostanza, non addetti esclusivamente all'oratoria, lalorn obbligati dal Umore o dalla adulazione a falseggiare per insino i proprii convincimenti, e andare alle seconde del potere o geloso di piaccnleria o troppo sensibile nel sentirsi urlare ; talora scuorati dalla certezza che le loro parole non sono tenute se non per un assaggio di prevenzioni individuali, e non come seniori e parli compendiose della opinione pubblica c dei reclami mossi dai bisogni comuni. Insomma nello stato presente delle società,  nel moto meccanico e puramente macchinale delle aziende govemaUve, nella passività delle forti passioni che non hanno nessun campo in che poter agire, gii oratori, nun dirò i  sommi, ma neppure i mediocri non sono generalmente possibili. Non parlo dell'oratoria  sacra, perchè essa ha delle specialità, che non si vogliono confondere colle forme delle  trattazioni civili, benché sieno le stesso fonU degli argomenti e le partizioni generali in  che vuol esser diviso un discorso; quantunque dai Padri in fuori, se si eccettuano pochi  ingegni brillanti della Francia nell'andato secolo, non ha troppo di che lodarsi questa specie di oratoria nella nostra Italia. Dico bensì, che qualunque ne sia la causa, che già facilmente si trova giustificabile, se il detto di Tullio era una verità rispetto ai suoi tempi c  a quelli che lo precessero, non lo è meno rispetto ai tempi moderni.   Ma per tornare agli antichi, molli, fino dalle età dei Greci, trovando troppo arduo il poter venire perfetti oratori, si gettavano nella via più facile, lasciando l'opera del sentimento e della immaginazione per abbracciar una speculativa più materiale, e si fecero a compilare ed apprendere altrui i precetti c le regole, sfiorate dalle orazioni dei migliori. Questi precetti, per quanto avviso, non furono sin da principio che masse informi di regole,  senza una certa distinzione di quelle che spettano all’oratoria da quelle che si riferiscono  alla trattazione degli argomenti filosofici. E tuttoché Aristotele, con quella sovrana maestria  con che svolse tanta parte dello scibile, sia stato forse il primo che divise e fissò con una  cotale ragionevolezza le leggi dell'oratoria, pure non potè fare che cavasse di ogni pastoia  quel suu sistema, e clic i posteri non mettessero in questione le varie specie dei precetti  spettanti quest'arte, volendo ciascuno, come addiviene in lutto, che la propria maniera di  vedere le cose dovesse divenire il modello al vedere di ogni altro. Tullio per non lasciare  l’Italia sprovvista di questo genere di disciplina, mentre la Grecia ne aveva già abbondanza, e perchè l'azione continua del Foro bisognava di questi sussidii artiflziali, c forse ancora perchè vedesse non ben chiarita dai più antichi di lui si fatta trattazione, pigliò a farne pur esso questo opuscolo ; e certo con più ragione di ogni altro si mise a riprendere  certe distinzioni fatte dagli antichi, come si pare dal primo libro, cap. 6, dove scardassa  bene Ennagoni circa il suo dividere la materia oratoria, dopo di aver già disapprovato la  estensione quasi infinita clic attribuisce Gorgia Lconlino a questa materia.   Nella presente operetta non tanto intende Tullio di svolgere le norme, dietro cui dee  una orazione esser condotta, e di metter quasi sottocchio l'ossatura e il tessuto intrinseco  del lavoro, quanto di facilitare la invenzione degli argomenti necessarii ad ogni genere di  causa. Ei tocca di passo la prima bozza della tela , o macchia , come dicono i pittori , ma  il più che si occupa è dello impasto de’ colori per andar su col pennello allo sgrossato, c  di rilevarne le tinte, e il vaneggiar della pannalura, finché si venga a compimento la dipintura intiera. Avvegnaché però ei si frammetta specialmente delle orazioni spettanti al  Foro, non lascia pur di essere a un tratto maestro d‘ invenzione per ogni genere di diceria  privata ; poiché siccome i fini generali di ogni ragionamento deono essere, persuadere ,  commuovere, dilettare, cosi tutti i ragionamenti cho si riferiscono alfintellello perchè pieghi a convinzione, al cuore perchè metta in attività i suoi affetti, al sentimento perchè riceva sensazioni dilettevoli c soavizzate, polcano fornirsi, mediante le regole di questa invenzione oratoria, di argomenti che avessero identità o che tenessero analogia con quelli  che son qui porli specialmente a materia delle orazioni forensi.   Non si vuol però lasciar ili ammonire clic questi due libri non son un trattalo formate clic  nulla ci lasci a desiderare, mentre anzi è meno perfetta e lucubrala che altre opere di Tnl   iogle lio in quello genere. Egli non fece clic un Commentario nella sua prima gioventù , come  usava fare di alcune sue orazioni e brani di esse, cioè dire un compendio, in cui scrivacchiava le cose che prime gli venivano in mente, senza porvi troppa pulitura , o per usufrultare qualche ora di scioperio, o per avere in serbo ciò che a tempo più opportuno avrebbe disteso e ordinalo pensatamente c con accuratezza. In prova piace recar qui le testimonianze di Quintiliano, il quale per essere un devoto passionalo di Tullio non può dar sospetto di esagerare a carico di esso. Dice questo autore nel lib. ni, cap. S, delle Istituzioni : 6 Cicerone pretende che la lesi non s’appartenga punto all'oratore, e assegna ai filosofi  questa specie di questione. Ma egli mi ha risparmiato il rossore di confutarlo, disapprovando egli stesso i libri ove parla cosi (ciò sono questi due della Invenzione retorica ), e  raccomandandoci nell'Oratore e nella Topica che allontaniamo la disputa dalle particola riti  delle persone c dei tempi ». E nei cap. 6: « M. Tullio non ebbe difficoltà di condannare  egli stesso alcuni suoi libri già pubblicati, come il suo Catulo, il suo Lucullo, e questi stessi libri Retorici... con iscriverne altri dappoi. Infatti sarebbe superfluo affaticarsi tanto negli sludii, se non fosse permesso d'inventar cose migliori delle inventate prima ». Ma ciò  che dà a divedere più lucidamente la vera qualità di questa operetta è ciò che aggiunge lo  stesso autore nel citato cap. fi. « Non ine ignoto che da Cicerone nel primo libro della sua  Itetorica s’interpreta in altra maniera il punto negoziale, trovandovisi scritto cosi : La specie negoziale ò quella che concerne le questioni di diritto che si decidono secondo l'usanza civile e l'equità : al qual impiego presso di noi, come si stima, presiedono i giureconsulti. Ma qual giudicio abbia fatto egli stesso di questo libro l’ho detto di sopra. Perciocché  sono come una specie di Commcnlurii, in cui registrato avea tutto ciò che in sua giovinezza venitegli appreso nelle scuole ; e però se vi ha qualche errore, hassi ad imputare al maestro ; o il movesse a così scrivere il vedere che Erntagora a questo proposito citò in primo  luogo osempii tratti dalle questioni di diritto ; o il vedere che i Greci chiamano grammatici  gl'interpreti della legge. Ma nondimeno Cicerone a questi sostituì i bellissimi libri dell'Oratore ; e però non può essere accusato di avere dati falsi precetti ».   Nelle edizioni questa operetta è comunemente intitolata De Arie Rhetoriea, eccello alcuna che ha queste sole parole, De Invenzione, tenute anche dalla edizione di Venezia. Nò  mancò da chi fosse appellala Ars velus. 11 titolo da noi qui apposto è il più vero, perchò ò  indubitato che qui son porli precetti retorici, ma che in ispeciattà son tocchi quelli che risguardano la Invenzione, cioè dire il trovar il vero aspetto sotto cui vuoisi riguardare ogni  causa, perchè non si pigli errore nel dare o negar importanza ai punti che ne sono o non  ne sono i precipui ; il trovare gli argomenti opportuni dalle fonti che li somministrano ; l’cscogilare i varii arliflzii che si vogliono porre in opera perchè resti più energicamente convalidata la ragione dell’oratore, o sia tratto il torlo islesso ad avere apparenza di ragiono, c  di verità : il trarre dalle circostanze del fallo che si agita la forza necessaria per dipingerne  con adatti colori o l'atrocità, se si accusa, o le mitigazioni clic lo rendano giustificabile, se  mai se ne piglia la difesa; infine ('amplificare i motivi clic possano trarre gli ascoltanti c i  giudici a severa sentenza o a indulgente compassione. Conviene però osservare che in questi due libri non c fatto mai molto nè della collocazione delle parti costituenti l’intiera aringa, nè dell'ordine che debbono tenere le unc rispetto nllu altre, nè della pronunzia, nè di  altre cose che bisognano a una trattazione completa : il che lascia supporre che questi due  libri non sieno propriamente il quanto scrisse Tullio sulla Invenzione retorica, ma solo una  parte di trattazione più estesa. Queste osservazioni stesse indussero i dotti a sospettare che  i libri di quest'opera potessero esser quattro, se si considcran dalle materie trattate quelle  altre che reslerieno da trattare. Fra gli altri difende questo asserto il Yossio (de Nat. lthel.  cap. 13). Nè punto è da dire che sia questa una congettura avventata, poiché Tullio stesso  le somministra in favore un argomento di gran forza. Egli infatti chiude il libro 11 con queste parole: Quare, quoniam et una pars ad exilnm hunc ab superiore libro perducla  est, et liic liber non panini conlinel litterarum, qua e restarli in reliquie dicemus. E  siccome nelle altre opere appartenenti alla oratoria Tullio non traila exprofesso della Invenzione, cosi ciò ch'egli accenna restar da dire sopra la stessa materia, si dee necessariamente credere che esistesse in altri libri susseguenti a questi, ma che il tempo ha lasciali  perire.   Per antico quasi tutti i dotti clic trattarono di queste opere attribuirono costantemente  a Tullio i libri dal loro autore dedicati ad Erennio, i quali trattano la stessa materia. (Hu  oggi per ragioni solidissime si disdice questo possesso a Tullio. Gli antichi furono senza  dubbio traili in errore dal vedere una grande uniformità nei precetti e negli esempii citali dall'uno e dall'altro autore, c ncITnccordarsi elio fanno presso che in ogni cosa, ila non fu  osservato che si Comincio come Cicerone si tennero strettamente ad Erinagom, e che la  comunanza dcU’anlico maestro fece dir all uno ciò che disse anche l’altro. Sarebbe assurdo  attribuire a Tullio un’altra opera dello stesso genere, in cui non avesse fatto atiro clic ripetere quello che avea già dello prima.   Se poi si riguarda quest' opera dal lato della utilità ch’essa può prestare all’oratoria dei  nostri tempi, convien confessare che quanto essa può recarci buon servigio nell’insieme e  nella generaldà delle regole, altrettanto ò poco acconcia a certi casi clic pigliano la loro  qualità dai costumi c dalle leggi dei nostri secoli 11 Crisliane-imo, che con la sua spiritualità, ignota agli antichi, si è l’alto guida invariabile a lutti i sentimenti deU'uomo, ha lasciato trapelare le sue ispirazioni in tutte le leggi, ha impresso nei rapporti sociali principii  inconcussi di sapienza o di verità, lui spiegalo agli uomini il segreto dei loro destini, c lo  scopo verace della lor vita, la quale i gentili credevano gcitala dal caso nel mondo delle  esistenze perchè passasse come quegli allori leatrici che si lascian vedere al pubblico traversare la scena per non più comparire, o perchè risorgesse a una immortalità fantastica,  suggerita dalla non dubbia convenienza ili un'ultra vita. Ha impresso il suo marchio divino nella religione, ncll’oiiorc, nella pietà, in tulle insomma le virtù clic erano sanzionate  dalla convenzione e dalla esperienza dei secoli. Di che è venuto un cssenzial mutamento  in quel giure comune clic istituisce le relazioni più necessarie fra nazione c nazione, come  in quei giure privato che lega fra loro i rapporti che passano tra individuo c individuo. È  dunque incompatibile con le idee dei tempi nostri lo ascrivere Tullio (lib li, cap. 22) la  vendetta, come ascrive la religione c la pietà, fra i diritti naturali, mentre la giurisprudenza presente come per amore del Crisi ancsimo trova meglio dominante nella pietà c nella  religione il diritto divino, che imprime alle azioni una ben diversa gravità da quella clic  imprimeva loro questo diritto medesimo consideralo per naturale, attesoché rispetto alla  religione c alla pietà avevano i gentili idee assai ristrette; troia essa giurisprudenza anche  dominante il diritto fraterno che riprova la vendetta come contraria a quei precetto della  natura, che comanda il fare o il non fare ciò che a noi stessi vorremmo fatto o non fatto,  perchè t’individuo non è un essere solitario o spiccato dalla società, ma un fratello, un  membro, una parte della grande famiglia umana. Nò questo è da dire di ciò solo, ma di  quanto altro ha ricevuto dal Cristianesimo una impronta diversa da quella che gli aveva  stampata l'antichità. È perciò quest' opera uno di que’ monumenti antichi, a cui s’inchinano per riverenza le età clic gli passano innanzi, e da cui ricopiano le singole parti come  bellezze confacenti ancora al loro gusto, ma il cui insieme non risponderebbe appunto al  genio e al costume che le domina. Inoltre l'antico diritto civile mollo diverso dal presente, perchè diversa la costituzione politica degli Stati: la forma del governo libero troppo  lontana dal governo assoluto dei nostri secoli ; le formalità dei tribunali c ilei giudici clic  hanno ricevuto dal tempo essenziali mutazioni, son cose che non rendono in lutto acconcia  alle nostre cause questa Ciceroniana trattazione, quantunque, siccome è dello di qui a dietro, non lasci di presentar un certo utile nelle parli del suo insieme e nella generatila dei  precedi che vi si trovano abbondantemente radunali.   Anche qucslo, come gli altri testi Lalini, andò soggetto a varietà nella lezione : il clic non  dee far maraviglia mentre al tempo di Tullio stesso e viverne lui avvenivano nc' suoi scribi,  non altrimenti clic in quelli degli altri, delle non piccole mutaz oni: di che si lagna Tullio nel terzo delle lettere in una diretta a Quinto suo fratello, che è di quel libro la 5."  Pietro Vittori esaminò attentamente i codici Fiorentini , c riuscì a dar questa operetta  più emendata che non lo fu da due secoli addietro: talché il Grevio parlando ili lui ,  nella Prof. alle Epistole di Tullio, ilice che Cicerone dee più al solo Vittori clic a tulli  gli altri clic si occuparono di emendarlo, poiché gli al ri gli guarirono qualche piaga .  ma il Vittori lo ridonò a buona salute. Paolo Manuzio aiutato da codici , ili Venezia  specialmente, fece anch’ egli qualche prò a questa opcrctla dopo il Vittori, ma non con  plauso eguale, perchè non fu fedele come quello. Ed eziandio che dica il Muralo esser  dubbio se sia più debilorc il Manuzio a Cicerone, o se Cicerone al Manuzio, tuliavin non  mancano parecchie fra gli altri Enrico Stefano, Psc udne. p 59, che lo accusano ili audacia troppo pericolosa l'iù audace è nondimeno Dionisio bambino, il quale stampò Cicerone trentanni dopo il Vittori, aiutato dai copiosissimi lesti delle biblioteche Parigine: ma  ebbe spesso la pecca di preferire il proprio giudici» alla autorità e al consenso di quei testi rinomatissimi. Laonde dice di lui il Muralo, Var. Lcz. xvm, 7, clcrgli non correggeva  già gli errori de' librai, ma correggeva Cicerone stesso, quando gli sembrava che avesse piu'.kazium: ({ualclie uscurilù. Tuttavia aveva il Lambino somma acutezza (l'ingegno, talché scopriva o  subodorava ciò che era sfuggilo agli altri; ina il suo stesso acume lo portava talvolta ad essere audace. Finalmente Ciano Crutcro avule alle mani quante copie di opere Ciceroniane  si trovavano nelle biblioteche Belgiche, e poi oltre a dugcnlo manoscritti della Palatina,  sudando fra lami codici fino all'eccesso, pubblicò le onere Ciceroniane in modo, come attesta egli slcsso nella Prefazione, da contar più di mille luoghi illustrali, corretti, accresciuti. li vero clic questa asserzione perde mollo in bocca del Crutcro, ma non si può negare che ne sia insigne il suo inerito. Corre il dello fra i critici, che mollo maggior bene  saria venuto a Cicerone se il Lambino avesse avuto alle mani alquanti dei codici clic ebbe  il Crulcro, poiché il Lambino sarebbe stato più divolo alle membrane antiche, c Crutcro  lo sarebbe stato queU'uii po’ meno clic gli bisognava, tn quanto alla presente versione io  non mi sono che di raro valuto delle varianti, avendo fallo uso di una edizione di Lipsia,  pubblicala nel 1831 con piena c curala esattezza. Discorre Tullio dello utilità dello eloquenza, del suo principio, progresso, abuso, aladio, e dell' orlo die h.; j suoi precetti proprii.   Quale sio l’unicio della eloquenza, il fine, la materia, le porli.   Della Invenzione che n è la parte più precipua, c quale debba essere In ogni cosliluzionc di causa si congetturale, si  definitiva, si generale.   Dell’esordio, narrazione, partizione, confermazione, confutazione, e delle varie specie di tulle queste partì dell’ orazione, delle parti secondarie, dell’efficacia c dei diletti loro.  Seppe et mulliim liocinccum cogitavi, bolline  i,n inali plus altulcril hominibus el drilalilius copia dicendi ac sumimim cloquenliac sludium. Nani  quum et noslrac rei piiblicuc delrimcnla considero, et nuiiimarum civituium velercs animo calamilales colligo, non minimam video per discrllssimos liomines invecbtm parlcm incommodorunt ;  quum autem res ab nostra memoria propler vcluslalem rcmolas ex lillerarum monumenlis repeterc insilino, rnullas urbes consliluias, plurima bella  rcslincla, (irmissimas socictales, sanclissimas amicilias inlelligo quum animi ralioiic tum facilius eloqucntia comparalas. Ac me quidem diu cogitanIcm su pioti tinnì sinc cloquentia parimi prodessp  civilatibus,eloquenliam vero ainesapienlia nimium  obesse pleriimque, prodesso numquam. Quare si  quis, omissis rcctissimis atquc lioncstissimis sludiis raiionis et ollicii, consumi! omnem operato in  eicrcilalionc dicendi, is inulilis sibi, pcrnicinsns  palrioc civis alilur ; qui vero ila sete armateloquenlia ut non oppugnare conimnda palriae, sed  prò bis propugnare possil, is milii tir et suis et  publicis raliouibus utiussimus atquc amicissimus civis Ture vidclur.Ntc si volumus huius rei,  quac vocalur cloquentia, site arlis, sivc sludii,  sire cicrcilalionis cuiusdam, sivc facultatis ab natura profcclac considerare principitim,repcricmus Spesso edi vantaggio andai meco esaminando  se un saper fare molle parole, c uno studio assai  grande dell - eloquenza recasse più di bene ovvero  di male agli uoiu ni ed alle città. Quando io considero la nostra repubblica venula in peggio, e richiamo al "disierò le ani che miserie di cillà cospicue, io vi troru già inlrndotla non piccola parlo  di pregiudizio c di danno appunto da uomini della  più alla capacitò di ragionare. Che se per conira  io piglio a esaminare i monumenti lellerarii della  amichila, e vi riandò i falli lontani dalla nostra  memoria, io ci ravtiso non solo per disposizione  di animo, ma mollo più col mezzo della eloquenza  fondale molle cillà, cslintc assai guerre, slrelle  società saldissime, c amicizie le più sacre c inviolale. E già mentre io buona pezza me no sio sopra  pensiero, mi (rovo condono dalla ragione stessa a  giudicare clic la sapienza scompagnala da cloquenle linguaggio poco profilta alle cillà, laddove il  linguaggio eloquente scompagnalo dalla sapienza  può nuocer loro le più volle, giovare non mai. Il  perebì quando bene alcuno, lascialo slarc lo studio sommamente buono e onoralo della dirittura  c del dovere, consumasse lulla l'opera sua in esercitarsi a perorare, coslui diverr. hbc un cittadino  siccome inutile a sè slesso, cosi offendetele c funesto alla patria; mentre olii si orma della cloqucn  ili ex honcstissiniis causi: naliim, alque optimi:  ralionibus profcclum. Nani tuli quoddain tempii:, quiim in agris  lioinincs passim bcslmrum more vagabsntur, el  sibi victu toro vilamprnpagabanl.ncc ralionc animi  quidquam, seti pleraque viribus corporis adirimislrabanl ; nominili divinac rcligionis, non Immani  oflicii raiio colebatnr, nomo nuptias viileral leghimas; nouccrlosquisquom inspcieral libcros;non,  ius acquabilc quid utililatis haberct, accepcrat. Ila  proplcr errorem alque inscientiam cacca oc temeraria dorninalris animi cupidità» ad se czplcndam  viribus corporis abulcbatur, perniciosissimis s ite! litibus. Quo tempore quidam, magnus vidclicel  vir et sapiens, cognovit quae matcries et quanta  ad maximas res opportunità: in animi: incsset homimmi, si quis cani posse! elicere et praecipiendo  mcliorem redderc; qui dispersos hominos in agris t in tectis silveslribus abdilos ralione quadarn  compulit unum in locum et congregavi!, el cos in  imam qnamque rem inducens ulilem alque lioncslam, primo propler insolcntiom reclamantcs.deinsa eloquenza ridondano a uno stato di molli beni, purché la si accompagni con la sapienza che  modera ogni rosa; da essa deriva a quelli clic lo  possedono c lode, c onore, c dignità; da essa gli  amici altresì di chi n'ha Tatto acquisto guadagnano giovamento il più certo c il più sicuro. E tuttoché per più versi gli uomini sieno mollo degradali per debolezza c viltà, pure più che per altro  per la dote ch’essi hanno della parola vanno at di  sopra delle bestie. Ondechè mi pare aver fatto un  acquisto assai ragguardevole edui clic per la stessa cosa onde sopra le bestie si vantaggia, per quella si vantaggia sopra gli stessi uomini. Ora, se ciò  non pure si Ta col mezzo della natura e dell'esercitazione, ma eziandio si ottiene con un colale artifizio. non i fuor di proposito che ci mettiamo a  sapere clic uc dicano quelli, i quali di artifizio sifTaito ci hanno lasciati dei precetti. Però innanzi  clic tocchiamo i precetti dell'oratoria, s'ha a dire  della essenza di qucsl’arle, dcll’uflb.io, del fine,  della materia, delle parti. Conosciute queste cose, potrà ognuno più agevolmente c con più speditezza porsi a considerare il magistero e l’andamento dell’arte stessa. V'ha una scienza civile che si compone di  elementi molti e di mollo rilievo, lino ben grande c vasto è l’eloquenza artificiale, che si noma  retorica. Io non mi consento insieme con coloro  clic stimano la scienza civile non aver uopo di eloquenza, ma sono altresì assai lungi dal pensare  come quegli altri che fanno essa scienza consistere tutta nella potenza e nell' artifizio del retore,  lo fo ragione essere la facobà oratoria di tal genere, da doverla dire una parte della scienza c vile, n politica. Quanto è all’ufllcio di essa facol liane, lnter olìlcium el linoni hoc inlercsl, quoti  in oOlcio, quid Iteri, in line, quid ofllcio convcnial, considcralur. Ut medici offlcium dicinius esse  curare ad sanandum apposite, lìnem sanare curalione ; ilein oratori: quid ofltcium et quid linem  esse dicamus, ìnlclligcmus, quum id, quod Tacere  debet, ofltcium esse dicemus ; illud cuius causa  Tacere debel, lìnem apoellabimus. ilaleriam arlis  cam dicitnus, in qua omnis ars et ea Tacultas, quac  conflcitur ex arte, vcrsalur. Ut si medicinac malcriam dicamus morbos ac vulnera, quod in bis omnis medicina versclur; item, quibus in rebus versatur arse! Tacultas oratoria, casres materiam arlis rhetoricacnominamus. Has aulem res alii piures, alii pauciores eiistimarunt.Nam Gorgia: Leonlious, anliquissimus Tcrc rhetor, omnibus de rebus oratorem oplime posse dicerc existimavit. llic  inlìnitam ctimmensam huip artificio materiam subiicerc tidelur. Arislolcles autem, qui Imic arti  plurima adiumenta alque ornamenta subininislravil, tribù: in generibus rcrum versari rhetoris offteium putavil, demonstratito, deliberativo, iudi.  ciati. Itcmouslrativum est, quod Iribuilur in ali*  cuius ceilae personae laudem aut vituperalioncm;  deliberalivum, quod posilum in disceplatione citili habet in se senlenliac diciionem ; iudiciale,  quod posilum in iudicio habet in se acctisalionem  cl dcTensionem, aut pclilionem et recusalionem.  El quemadmodum nostra t|uidem Tori opini», oratori» ars et Tacultas in hac materia tripartita versori existimamla est. Vani Ilcrmagoras quidcui nccquid dica! attendere, noe quid polliceatur inlctligere videlur,  qui oratori: materiam in causani eliti quacstioncni  dividal. Causam esse dicil rem, quac balieat in se  eon! roveri iam indicendo posilamcum personarnm  ccrlarum inlerpositione; quatti nos quoque oratori  dicimus esse altribiitam. Matn tresci parles, quas  ante diximiis, supponimus, iudicialcm, deliberativam, demonstrativam. Quacstioncni autem cani  appellai, quae habeal in se controversiam in dicendo posilam sinc cerlarum personarum inlerpositione , ad butte modum : Ecquid sit bonum  praeter honestalem. Verme sinl scnsus? Quac sit  mundi Torma ? Quac sit solis magnitudo ? Quas  qtiacslione5 pronti ali oratori: olticio remota: Tacile timnos inlelligerc eiisliiuamus. Mani quibus  in rebus stimma ingcnia philosoplioruni plurimo  cum labore consumpla intelligimus, cas sicul alì   lè, queslo a mio avviso consiste nel discorrere in  guisa adalla a persuadere, come it (ine consiste  nel persuadere col mezzo del discorrere. Dall’uT  flcio al fine v'ì queslo divario, clic nell' ufficio si  considera ciò che sia da Tirsi, e nel line ciò che  all'ufficio convenga Tare. A quel tnodu che noi d damo esser ufficio del medico Tar cura di modo  approprialo a risanare, c il fine essere il risanare  col mezzo della cura; allo stesso modo intenderemo che sia l'ufficio c clic il line dell'oratore, quando si dirà 1* ufficio dell' oratore essere il Tare  ciò che dee, c il line essere ciò per che dee Tare,  materia dell' arte io appello quella , intorno a  clic l'arte tutta s’aggira, come ancora la facoltà  che dall'arte si deriva. Diciamo maleria della medicina le malattie e le Tcrilc, però che la medicina  si volge tutta intorno a queste: ebbene, allo slessn  modo diciamo materia dell' arte retorica quelle  lutte cose, intorno a cui si volge l'arte c la faco’tà oratoria. Or queslo cose chi le Ta molte, c citi  le riduce a podio. Gorgia l.contino, clic dei relori  Tu uno de'più antichi, pensava che l’oratore può  ragionar oli imamente di ogni cosa; ond'egli assegna a questo artifizio una materia smisurala e senza termine. Per contra, secondo Aristotele, il quale a qucst'arlc somministri di molti ornamenti ed  approvecci, l'ufficio del retore si avvolge intorno  a tre maniere di trattazione, alla dimostrativa, alla  deliberativa, alla giudiciale. La dimostrativa si  adopera al lodare ^biasimarsi di una determinala  persona; la deliberativa risiede nella deputazione  civile, e consiste nell’ esporre i deliberanti il loto  parere; la giudiciale sia nel Tare il giudicio, c  comprende l’accusa e la difesa, o la petizione e la  replica incontro. Or l'arte e la facoltà dell’oratore, secondo che io penso, si aggira intorno a questa maleria cosi tripartita.   VI. Ermagora dà due parli alla materia dell'oratore, ciò è dire la causa c la quislionc; ma ei  mostra di non avvisar bene quello ch’ci dice, nò  intendere ciò che propone Ei dice causa una trattala clic ammette contrasto di parole coll' intervento di determinale persoue; la qual trattola ho  dello io slcsso esser dovuta all' oratore, pcrchft  gli reputo le tre specie toccate qui addiclro, la  giudiciale, la deliberativa, la dimostrativa. Egli  poi nomina questione quella die ammette il controvertere di parole, ma senza intervento di determinale persone, come sarebbe il cercare, Che altro v'ha di buono oltre l'onestà. Se sieito veraci  i sensi, Quale sia la Torma del mondo, Quale la  grandezza del sole. Le quali quislioni credo che  ognuno agevolmente intenda essere di lunga mano estranee all’ufficio dell' oratore. Attribuire inTalli ali'oralore come cosa di poco momenlo una quas parvas res oratori otlribuere magna amcntia  ridelur. Quotisi magnam in his Hermagoras habuissel facullolem studio cldisciplinacomparatam,  vidcrclur frclus sua scicntia falsimi quiddam constiluissc de oratoria otDcio, et non quid ars, sed  quid ipsc possel, czposuisse. Nunc vero ca vis est  in lioininc, ut ci multo rheloricam cilius quia ademeril, quam philosopliiam concesscril: ncque co,  quod cius ars, quam cdidil, mihi mendosissimo  scripla lidealur ; nam salis in ea videtur ex antiquis arlibus ingcniose et diligcnter eleclas res collocasse, et nonniliil ipse quoque novi protulisse ;  vcrum oratori minimum est de arte loqui, quod  lue fedi ; multo maximum ex arte dicerc, quod  eum minime potuisse omnes videmus. Quare materia quidem nobis rlictoricae videtur ca, quam Aristoteli visam esse diximus; partes outem lise, quas pleriquc dixerunl, inventio,  dispositio, eloculio, memoria, pronuncialio. Invcnlio est excogitalio rerum verarum aul veri similium, quae causam probabilem reddant; disposino est rerum inventarum in ordinem disltibulio;  eloculio csl idoncorum verbotum ad sentenliarum  invenlionem accommodatio ; memoria est firma  animi rerum ac verborum ad invenlionem peree.  ptio; pronuncialio csl ex rerum et verborum dignilalc vocis et corporis moderatio. Nune his rebus breviler eonstitulis, eas raliones, quibus estendere possimus geiius et ofllcium et llncm buius  arlis, aliud in tempus difTcremus. Nam et multorum verborum indigeni, et non tanlopcre ad arlis  descriptionem et praecepla Iradcuda pertinenl.  Eum outem, qui arimi rliclorieam scriba!, de duabus nliquis rebus, de materia arlis ac parlibus  scribere oporlcreexislimamus. Ac ndlii quidem videtur coniunctc agendum de materia ae parlibus.  Quare inventio, quae princeps est omnium partium, potissimum in omni eau-arum genere, qualis debeat esse, considcretur. Umnis res, quae liabct in se positam in  dictionc ac disceplalionc aliquam controvcrsiam,  aut facli, aul nomiuis. ani generis, aut actionis  comincili quacslionem. Eam igitur quaeslionem,  ex qua causa nascitur, constitulionem oppcllamus.     materia, a cui trattare logorarono l'ingegno con  assai di fatica i filosofi, codesto è ben una folle  forscnnalezta. Che se Ermagora avesse pure con  lo studio c le apprese dottrine acquistata una grande perizia di tali cose, ci mostrerebbe d'aver messa in piedi sull' appoggio della scienza sua propria una falsità circa all'ulllcio dell'oratore, e fatto vedere non ciò die l’arte, ma ben ciò eh’ egli  stesso sapesse fare. Egli è poi da natura si condizionato, clic molto più tosto altri gli negherebbe  sufficienza in fallo di retorica, clic non gli concederebbe sufficienza in fallo di filosofia. Nò questo  io dico perclii Ermagora nel trattar che fece l'arte retorica sparnicciassc qui e qua di sbardellati  errori, quando anzi vi Ita posto cose qua e là Irascelte con abbastanza d'ingegno c diligenza dagli antichi trattali di retorica, c parie v'aggiunse  egli stesso un po' di nuovo: ma parlare dell' arte,  come fece Ermagora, per un oratore i cosa da  nulla; il malagevole è ragionare secondo le leggi  dcll'arlc; ciò che ognun vede non aver Ermagora  saputo fare. Il perchè io sono d'avviso la materia della  retorica esser quella che, come io dissi, fu indicala da Aristotele; c le parli di essa, secondo che  molti hanno scritto, l'invenzione, la disposizione,  la locuzione, la memoria, la pronunciazione Invenzione è trovar col pensiero le cose vere o verisimili che rendati la causa probabile; disposizione è distribuire ordinatamente le cose trovale;  locuzione è adattar le parole, rhc sono acconce,  al Irovamenlo dc'concelti; memoria è percezione  fermata nella mrnle delle cose c delle parole che  servono alla invenzione; pronunciazione è reggere la voce c la persona secondo che s’avviene alti  digitila delle cose e dello parole. Dcfinile cosi alla  breve queste parli della rclorica, rimandiamo ad  altro tempo le ragioni con che si possa dimnslrare l’essenza, ruttici» c il fine di essa, poiché domandano esse parli assai di parole, c d'altronde  non hanno uno stretto rapporto col metter in trattalo quest’arte e somministrarne prccclli. Chiunque volesse compilare una Irallaziotie compiuta  dell' arte retorica, dovrebbe scrivere, io penso,  della materia dell’arte divisamente dalle parli di  essa: io però c della materia e delle parti non  debbo trattare clic a un tempo stesso. E poiché  di tulle qucsle parli la invenzione è la più principale, si vuol considerare quale in ogni genere  di cause ella si debba essere.   Vili. Ogni affare clic Involge qualche controversia in genere esornativo o giudichile, conlienc  qucslionc o di fallo, o di nome, o circa il genere  del fatto, o circa le persone a cui compelc agire.  La questione, da cui nasce la causa, io l'appello utino i. Conslilulio c>l prima confliclio catisarum ex dcpulsione intcnlionis profocla, hoc modo : Fecisli.  Non feci, aul: Iure feci. Quum farli conlrovcrsia  est, quoniam coniccluris causa (ìrmalur, cnnsliiulio roniccluralis appcllalur. Quum aulem nomini*,  quia iis vocahuli dclinienda verbis esl, conslilulio  definitiva nominalur. Quum vero, quali» rcs sii,  quacriiur, quia cl de vi et de genere ncgnlii conIroversia est , conslilulio generali» tocalur. Al  quum causa ex co pendei, quod non aul is agere  vidclur, quelli oporlct. cui non cum co, quicum  nporlct, aul non apud quo», quo tempore, qua  lege, quo crimine, qua poemi operici, Iranslaliva  dicilur conslilulio, quod aclio trauslalionis el commulaiionis indigere vidclur. Alque haruin aliquam  in omne causar gcnus incidere necesse esl. Ram  in quam rein non inridrril, in ea niliil esse polcril  controversine; quarc cam ne cansarn quid“in conventi pulari. Ac facli qiiidcm controversia in omnia tempora polesl distribuì. Nam quid factum sii,  polcsl quaeri, hoc modo: Oeciderilnc Aiaccm Uli ics. El quid dal, hoc nonio : llononc animo siili  erga popolimi ilnmauum Fregollani. El quid fuluruin sii, hoc modo : Si Cnrlliugìnem roliquerimus incoiumcin, num quid sii iucnnmiodi ad rem  putdicam perveuturum. Nomiuis est controversia,  quum de farlo conventi, et quacriiur, id quod factum est quo nomine appcllelur. Quo in genere  neccssc est ideo nomini» e. se con!rover.-iam, quod  de re ipsa non convenial ; non quod de facto non  conslcl, seri quod id, quod factum sii, aliud alii  videa tur esse, ri idcirco aliti» alio nomine id appellel. Quare in eiusmodi gcnerihus definicnda  res eril verbi», el brevih r dose ribellila: ut, si quis  sacrum ex privalo surripueril, ulrum fur an sarrilegus s.l iudieamlus. Ram id quum quacriiur, necesse eril dcOnirc ulriimque, quid sii fur, quid  sacriirgus, el sua dcsmplione cisterniere alio no  mine iilam reni, de qua agilur, appellari oporlere,  ulque adversarii dicunl.     IX. Generis esl conlrovcrsia. quum cl, quid factum sii, convelli!, cl, quo id factum nomine ap  pellari oporteal, constai; et (amen, quanlum cl I  cuiusmodi el omiiinn quale sii, quaentur, hoc  modo: Jusluin an iriiusl uni, utile au inutile, et costituzione. La costituzione è la prima contesa  delle cause, derivante dalla replica die si fa conIru l'accusa, come sarebbe: Hai fallo Non Un fallo,  oppure: ilo fallo a buona ragione. Quando è controversia circa un fallo, poiché la causa si fiancheggia di eongdiure, la costituzione si domanda  enng' Ituralc. Quando è circa un nome, siccome  si dee definire a parole l'essenza del vocabolo, la  co-tiluzionc si appella definitiva. Qualora j' investiga di clic qualità sia una cosa, giacché si controverto sull' essenza e sul genere di essa, la costituzione si appella generale. Sia quando la causo dipende da questo, che o non è odore chi dee,  o non è contro chi lo dee essere, o non presso dì  quelli clic si conviene, non in quel tempo, o secondo quella legge, o per quel dcbllo, o per quella pena che il dovrebbe essere, la costituzione  diccsi traviatila, poiché la trattala abbisogna di  eccezione dedicatoria e di permuta. Di lati questioni è inevitabile clic una o un'allra vi abbia in  ogni genere di causa, perocché l'altare che non  ne involgesse alcuna , non può ammollerò controversia ; non può quindi aver natura di causa.  I.a conlrovcrsia di Tallo puossi riferire a tulli i  tempi. Si può inqtiircrc su ciò che fu fallo, di  qiuslo modo: Se Ulisse uccise o no Aiace. E su  ciò clic si fa, a questa maniera: Se quei di Fregellc sieoo o no ben volli verso i Romani. E su  ciò clic è fulcro, come se si chiedesse: Se noi Irsecreto in buon essere Cartagine, ne verri egli alcun detrimento alla repubblica? È conlrovcrsia di  nome, quando essendo ludi d'accordo sul fallo,  si cerca di clic nome il fallo s'abbia a domandare.  Nel qual caso non può non esserci conlrovcrsia  di nome, però clic le persone non sono in accordo sulla materia stessa clic si traila; non perchè  non consti il fallo, ma perché questo fatto a chi  Ira paruta d’essere d'uno qualità, a chi di un'allra;  e però da alcuni è appellalo con un nome, da alcuni con un nome diverso. Laonde in casi di falla  simile si vuol la cosa definire a parole con alquanla poca di descrizione, acciocché se alcuno avesse, a mo’ d' esempio, privalamcnlc rapilo un oggetto sacro, si vegga se e’sia da giudicare per ladro, o per sacrilego. Quando dunque sia tale il  punto della causa, converrà defluire clic si voglia  intender per ladro, e clic per sacrilego, e con una  acconcia sposizionc dar a conoscere come il fallo  che si ag la è da appellar d'un nome diverso da  quell", onde dagli avversari! i appellalo.   IX. b conlrovcrsia circa al genere,' quando le  parli sono belisi d'accordo sul fallo, e sul nome  con che il fallo si convien designare, ma lulljii.i  si cerea di clic gravezza esso sia, di clic specie, di  clic qualità, a questa guisa: Se il fallo è giu. lo o umilia, in quibus, quale sii i'I, quud factum esl,  quaerilur sine ulla nominis controversia Iluic generi Hermagoras parlcs qualuor supposuil, deliberalivam, dcmonslraliram, luridicialcm, negolialem. Quod eius, ut nos putamus, non mediocre  pcccalum reprehendendum vidclur, vcrum lirevi,  ne aul, si laci-i pradericrimus, sino causa non se  culi ctim pulemur ; aul, si diulius in hoc constilerimus, moram alque impi-dimentum reliquia  praeceplis intulissc videamur. Si deliberano el  demoiistralio genera sunl causarunv, non possimi  recle parles alicuius generis causac polari. Eadem  cium res alii gcnus esse, alii pars polesl ; cidem  gcnus esse et pars non polesl. Dclilieralio aulem  ci demonstralio genera sunl causarono. Nani aul  nnllum causae gcnus esl , ani iudiciale solino,  aul cl iudiciale cl demouslralivuin et doliboralivum. .Nu I Inni diccrc causae esse gcnus, quum causas esse mullas ilical, el in ca9 praecepla del, amenlia esl; unum iudiciale aotem solmn esse qui  polesl, quum deliberali» et demonslraliu ncque  ipsae similes inler se sinl, et ali iudiciali genere  plurimum dissidi-ani, cl suum quaeqiie linem liabeanl, quo referri debeanl? Rclinquilur ergo, ili  omnia iria genero sin! causarum. Deliberano imitar el demonstralio non possimi recle parlcs alicuius generis causae pulari. Male igilur cas generai'* conslilulioilis parles esse divii. Quodsi generis causae parles non possimi  recle pulaii, multo minus recle partls causae parics putabunlur. Pars oulcui causac est conslilutio  omnis. Non enim causa ad constilutimiem , sed  constilullo ad causam arcommodalur. Sed demonslralio el dclihcralio generis causac parles non  possimi recle pulari, quod ipsa sunl genera; mullo  igilur minus rccte parlis eius, quod liic dici!, pnrles putabunlur. Dciiidc si conslilutio cl ipsa cl pars  eius quaclibel inlcntionis depulsio est, quae inleulionis depulsio non esl, ea ncc conslilulio ncc pars  conslilulioilis esl. Al si, quae inlentionis depulsio  non esl, ea ncc conslilulio nec pars constilutionis  esl, demonstralio cl deliberali!) neqnc conslilulio  nec pars conslilulionis est. Si igilur conslilulio el  ipsa cl pars eius inlcntionis depulsio esl, deliberali» cl demonslratio ncque conslilutio neque pars  conslilulionis est. Placet autem ipsi consti lutionem  inlcntionis esse depulsioiicm; placcai igilur oportei dcmonslralioncm cl deliberalionein non esse     ingiusto, se proficuo u inutile, c ogni altro simile,  in cui si inquerisce di clic qualità sia il fallo senza veruna controversia circa al nome. Alla controversia circa al genere Ermagnra attribuiva quattro  parli, la delibcraliva, la ditnoslraliva, la giurldiciolc, la negoziale. Non credo di dover cessarmi  dal riprendere questo di lui non mezzano errore,  perchè se io me ne passassi in silenzio non si credesse clic io mi scostassi da questo autore senza  motivo; avvegnaché il farò cosi di passo c alia  brc;ualc ii sostegno della difesa: le quali tulle cose debbono partire dalla costituzione. La questione è quella conlroversia clic  nasce dal conllillo delle rausc, come a dire: Non  facesti a buona equità. Ilo fallo a buona equità. Il  conflitto delle cause è quello in cui consiste la  cos iluzione. I)a questa dunque nasce quella colai controversia clic io appello queslione, come se  si diccsso:llacg!i fallo o no a buona equità? Ragione è quella clic cornicile il motivo: lollo esso, non  resta nella causa punto di conlroversia, come se  si dicesse, per servirmi di un esempio facile e a  (ulti conosciuto: Poslu che sia accusalo Oreste di  aver moria la madre, se egli non si esprimesse cosl:L’lio moria a tulio «tirino, perdio ella mi ho ucciso il padre; ci non avrebbe difesa, c lolla la difesi, è lolla eziandio ogni conlroversia. Laonde la  ragione ovvero motivo ili quesla causa sla in ciò  che la donna aveva ucciso Agammenone. La giudicazione è la conlroversia che nasce dall’ infermar che fa l'accusatore, c dall' avvalorar che fa  l’accusalo la ragione, ossia il motivo. Insidiamo  nella ragione qui sopra esposta. .Mia madre, dica  Orcslc, mi ha ucciso il padre. Ma non era dicevo  I le, risponde l'accusaiore, clic lo uccidessi la ma  i die, lu clic le eri figlio, poiché poteva quel fallo Ei tuie ileducliiinc ralifìnis illa somma mi  scilur controversia, qoam juilicatioiicm appella  mus. Ea esl huiusmodi: Reclutimi: fueril ab Oreale tnalrcm occidi, quum illa Orcslis patron occidissi l. Fiimamcntum est (irmissinta argumcntalio  defensoris, el appoailissima ad itidicalioncni: ul si  volil Orestes dircre cjusmodi aiiimum malris suao  fuisse io palrcni suum, in se ipsuni ac sororca, in  regnimi, in famain generis el rainiliac, ul ab ea  poenas liberi sui polissimuin pelare debucruil. Et  in ceb ria quidenieonsliltilioiiilius ad lume modum  judicalioncs reperieulur ; in conjeelurali auleti)  conslilulione, quia ralin non esl ((aduni cnim nnn  conccdilur), non polesl ci dcduclionc ralinnis nasci judicali». Quare neccssc esl camdem esse  quacslioncni el judiealionem: Facilini esl. Non est  factum . Faelunine sii ? Quol anioni in causa consliluliones ani earum parles eruul, lolidein neccssc erti qnacslioncs, raiiones, judicalioncs, firmauiciila reperir! Ilis omnibus in causa reperlis, luni  denique singulau parles lolius causae considerandac sunl. Nani non ul quidquc eli endum prillili ni,  ita primuni anim i hcrlenduin lulelur; ideo quod  illa, quac prima dicaulur, si u liemenlcr velis rongrtiere el cdiacrcrc cum causa, ex bis ducas operici, quac post direnila sunl. Quare quum judicalio, et ea, quac ad judiealionem oportel argenteal i iineiiiri, diligcnlcr eruul arlificio repcrla, cura  cl cogitalioue pi-rtraclala, Inm denique ordinalidac sunl cctcrac parles oralionis. Eac parles sei  ose umilino nobis videnlur: exordium, narralio,  parlilio, conili malio.repreliensio, conci u-io. Nuiic  qtioniam exordium princeps omnium esse debel, I  uos quoque primum in ralionem cxordicndi praeccpla dabinius. Evnrdiuni esl orali» animum audiloris ido  nec eomparans od reliquam diclioriem: quo I eveilici, si cum benctuluni, altcnlum, duodeni con(eeeril. Quare qui bene exordiri caosam volel,  rum necesse esl genus suao causae diligenler aule cognoscere. Genera cau.-arum qiiinquc sunl :  lioneslnm, admirabilc, Immite, anccps, obscurum.  Henesliim causae genus esl, cui slatini sino oral ione nostra audiloris farei animus; admirabilc, a  quo esl ahvualns animus cerimi, qui autliluri sunl; esser puuilo sema elle lu li gallassi in unascelleragginc. Dal torre all'accusato questa ragione o difesa nc tien la controversia sul gran punto da decidere, che io appello giudicationfi. Essa sla in  questi termini: Se fu giusto che Oreste uccidesse  la madre perchè ella ad Oreste ateva ucciso il padre. Il sostegno della difesa è la più furie argomentatone del di felli ire, c la più propria a determinare i giudici; e sarebbe se Oreste de cise,  tale essere stalo il inai talento di sua madre si conilo il padre, sì contro lui slesso, e le sorelle, c il  regno, e la ripiilaxione della stirpe o della famiglia, che i suoi llgli stessi avrian dovuto chiedere  ch'ella fosse ponila. Cosi in tulle le altre costituzioni si Irorcranno allo slesso modo i punii da giudicare: perù nella cosliluiione congetturale, siccome non v'ha ragione (perchè il fallo non si concede), cosi essendo sottraila la ragione, non può  uscirne il punto da decidere. Il perchè è mestieri   ! he sia la stessa e la queslione e la cosa da decidere, come in questo caso: Fu follo. Non fu fallo.  Quel che s'ha a vedere è, se veramenle fu fallo o  no. Oliatile poi saranno nella causa le costituzioni u le parli loro, allrellaulc dovranno essere le  questioni, i punii di difesa, i capi da decidere, i  sostegni, di clic te parli litigami s'avvalorano. Trovalo tulio questo, allora Cmatmcnle si debbono  ciiusidcrarc le singole parli di luna la causa; perocché non è già clic s'abbia prima a ben avvertire quello che ha da dirsi prima dì tutto, perchè  le cose clic si dicono in prima, se vorrai che si  coufaeciano bene e si leghino con la causa, le dei  derivare da quelle che si vogliono dir poscia,  bionde quando bene col mezzo dell'arte si sarà csattamenle rinvenuto, c poi pensalo e ripensalo  con diligenza qua'e sia il punto decisivo che dee  essere giudicalo, e insieme gli argomenti che sono  il caso, allora dovranuosi disporre per ordine le  albe parli dcll'oraziooe. Queste parli io penso essere al postullo sei: esordio, narrazione, divisione,  confermazione, confutazione, conclusione. E poiché l'esordio dee essere la prima fra le parli deil'orazione, anch'io darò per primi i preeellì che  all'esordio si riferiscono. L’esordio è un discorso che dispone convenevolmente l'animo dcll’ud ture a tulio il rcslo  dell'orazione: Il clic addiverrà -e si faccia di renderlo bcnvoglienle, allento, e disposto a lasciarsi  istruire. Oudcchè chi vorrà ben iniziare la causa  è incinero ch'egli conosca a fondo che specie di  causa c' prende a Irallarc Le cause sono di cinque specie: oncsla, disonorevole, abielta, ambigua, o-cura. Causa onesta è quella, a cui gli udi i tori si mostrano ben volli pur innanzi che noi co  unno i. il liumilc, quoti negligilur ab auditore, et non mag impero altcndcndum videlur; nnceps, in quo aut  judicalio dubia est, aut causa et honcslalisel turpitudini particcps, ut et benevolenti pariat et offensionem: obscurum, In qun aut tardi auditorcs  sunt, aut ditBcilioribus ad cognoscendum negotiis  causa implicala est. Quarc quoniam lam diversa  sunt genera causarum, eiordiri quoque dispari Tallone in uno quoque genere necc3sc est. Igitur  eiordium in duas pnrtcs dividitur, ili principinm  et insinualionem. Principinm est omiìo perspicue  et proiiuus contJciens audilorem benevolum, aut  docilem, aut allentum. Insinualo est oraio qua.lam dissiniulatione et circuilione obscurc subicns  audiloris animino. In admirab li genere eausac, si  non oinnino infesti audilores crunl, principio ticnevoleiilium comparare licebiUSinerunl vetiementer abalienali, confugerc uecesse crii ad itisinuationem. barn ab iralis si perspicue pai et benevolenti petilur, imn modo ea unii invenilur, seri augetur alque infialimi, ilur odium. In Immiti autem  genere causae contcmplionis tollemic cau-a nccesse eril allentum cfllcere audilorem. Anceps genus causae si dubiam judicalionem babebil, ab  ipsajudicalioiiecxordicndum est. Sin antem partem  turpitudiuis, parlcm boneslalis babebit, beneiolenliam captare nport. bil, ut in gcnus li'.nesiitm  causa transita lidealur. Omini autem crii lumeslum causae genus, vel prueleriri principinm poleril, rei, si comniodum lucrit, aul a uarralione  incipicmus, aut a lego, aut ab aliqua (imissima  rationc nostrae diclionis; sin uti principio placebil,  benevolcnliae partibus ulcmlum est, ut id, quod  est, angcalur.     XV). io obscuro causae genere per principimi!  doi-ites audilores clllccre oportcbil. Nunc, quoniam quas res esordio conficerc nporteat dietimi  est, reliquum est, ut oslendalur, quibusquaeque  raliombus res confici possit. Benevolenti quatuor  i l locis comparatur: ab nostra ab adversariorum,  ab iudicuin persona, ab ipsa causa. Ab nostra, si  de noslris factis et nfllciis sinc arroganti diceiiius; si criniina illai et aliquas minus honcslas  suspiciones inieclas ililuemus; si, quac incornino  da acciderint, aul quae instcnt dilliculiatcs, profcreuius; si prece et obsecralionc humili ac supplici utemur. Ab advcrsariorum autem, si cos aut     mincimo di parlare; disonorevole diccsi quella  che è contro l'opinione di coloro clic sono per ascollare; abietta si dice perchè è sprezzata dall'uditore, siccome quella clic ha un oggetto da non  farne conto gran fatto; ambigua 6 quella, in cui  o è dubbio il punto da giudicare, o v'è mescolato  l'onesto e il turpe, da cccilarc a un tempo c bcncvoglienza c sdegno: oscura dicesi quella, cui gli  uditori hanno le fatiche a ben comprendere, o clic  è intralciata di soggetti molto difficili a esser co.  mischili. Per esser dunque cosi diverso le specie  delle cause, vuole essere ciascuna in diversa maniera cominciala a parlare. I.' esordio perciò ha  due parlile, ii principio c l'Insinuazione. Per prin •  cipio s’ intende quel discorso che all’aperta e Gn  dalle prime renile l’uditore ben volto, o attento,  o disposto a lasciarsi istruire. Insinuazione è quel  parlare clic mostrando altro, con certe svolte di  parete impercettibilmente si intromette iiclt'animo  dell' uditore. Nella causa straordinaria se gli uditori non saranno al postutto di animo avverso, si  potrà fare nel principio di renderli benvoglienli.  Ctie se fossero contrarli troppo forte, converrà aver  ricorso all’insinuazione. Perocché se vuoisi rappaciar all'aperta c render benevolo chi è sdegnato, non pure non se oc verrà a capo, ma si aumenterà e si rinfocolerà vie più lo sdegno. Nella causa abietta, a voler rilevarla dallo sprezzo, si conviene rendere attento l'uditore. L'ambigua Ita essa dubbio il punto da giudicare ? si vorrà da questa punto far esordire l'orazione. Clic se sarà mista di turpezza e di onestà, donassi accattar la he •  nevoglietiza parlando di tal maniera clic paia essere la causa diventata in ispecic solamente onesta.  Quando poi sarà davvero di specie onesta la causa, si potrà cessarsi dall'esordio, ovvero, se verrà  in concio, dorassi principio dalla narrazione, o da  discorso sopra la legge, o da qualcuna delle più  sode difese della nostra orazione. Clic se abbonasse all'oratore porci l'esordio, il farà ad acquisto  di benevolenza, acciocché quella che gli è già avuta si possa vie piò accrescere.   XVI. Nella causa oscura converrà con l'esordio  rendergli uditori inscgncvuli. Ora, giacché s'è dello a quali effetti l’esordio dee over la mira, rosta  che si dimostri per quali vie ciascuno di questi effetti si possa raggiungere. La benvogl enza si procaccia per quatlro mezzi, per mezzo di noi, per  mezzo degli avversarti, dei giudici, della causa  stessa. Per mezzo di noi, se parleremo de' i.oslii  fatti c mansioni senza millanteria; se ci purgheremo da colpe che ci sicno imputale, o da altre meno oneste sospieioni; se porremo innanzi le molestie che ne accalcarono, o ic malagevolezze ila  cui siamo premuti; se condiremo i preghi e le sup  ili odium, aul in invidiam, aul in conlcmplionem  adducemus. In odium duccntur, si quod forum  spurcf , superbo, crudcliler, maliliosc faclum proferclur; in invidiati), si vis eorum, polcnlia, divitiac, rognatio, pocuniac profercnlur, alqtic eorum  usus arrogans cl inlulerabilis, ul bis rebus niagis  vidcanturquam rausae suae confidcre; in contcmplioneni addueeulur, si eorum inerba, negligendo, ignavia, desidinsum sludium et huuriosum  otium prufcrclur. Ab audilorum persona benevolentia caplabilur, si res ab bis forlilcr, sapienlcr,  mansuete gestae proferenlur, ut ne qua adsenlalio nimia signiflcclur, ri si de bis, quain bonesla  ciistimatio quantaque coruin indici! et auctorilalis esspeclalio sit, oslcndelur; ab ipsis rebus, si  nosiram cau-am laudando cvlollcmus, advcrsarlorum rausam per conlemptionem deprimeinus. Altenlus aulem Taciemus, si demonstrabimus ca,  quae dicturi crimuv , magna nova , incredibitia  esse , aul ad omnes , aut ad eos, qui audienl,  aul ad aliquos illuslrcs homincs , aul ad deos  immorlales, aul ad summam rem publicam prrlinerc ; et si poUiccbimur nos brevi noslram causam dcmonslraluros , alque eiponemus iudicalionem, aut iudicalioncs, si plures ciunt. Doiilcs  audilorcs faciemus; si aperte et breviler summam  causac eiponeinus, hoc est, in quo consistili con  Iroversia. Nani et quum docilem velis lacere, simili altcntum facias nportet. Piam is est mavirne  dncilis, qui allcntissime est paratus audirc.  filine insinualiones qnemadmodnm baciari conveuiant, deinceps dicendum vidclur. Insiuualione igitur ulendum est, quum admirabile  gcnus causae esl, hoc est, ut anle diximus, quum  animus auditoris infcslus est. Id aulem tribus ex  causis fll maxime; si aut inest in ipsa causa quacdam turpitudo; aut si ab iis, qui ante dixerunt,  iam quiddam auditori persuasum vidclur; aul co  Icmpurc Incus dicendi datur, quum iam illi, quos  audire oporlet, defessi sunl ambendo. Nani ex liac  quoque re non minus, quam ex primis duabus, in  oralore nonnumquam animus audiloiis oflenditur.  Si causac lurpiludo conlrahel oflensìnnem, aul     pliche di riverenza ed iimillà. Per mezzo degli avversari, se li faremo venire in odio altrui, o in inaIcvoglicnza, o in disprezzo. Verranno in odio, se  si spiattellerà qualche lor trailo di turpezza, di superbia, di crudeltà, di malizia: in malevoglienza,  se si darà a conoscere cli’ei son forli, polenti, doviziosi, addanaiali, pieni di parentele, ma clic usano questi mezzi per modi arrogami c incomportabili, da far apparire eh' essi troppo più che nella  propria causa hanno confidanza o si tengono furti  di questi lor mezzi. Verranno in disprezzo, se si  farà nota la inerzia loro, la negghieoza, la oziosaggine, l'amore alla infingardia, lo scioperarsi a lascivire. Si accatterà bcnvuglirnza dagli uditori, se  si pronunzieranno falli di forza, di saviezza, di  mansuetudine da essi operati, cosi perù clic non  vi Iraluca troppo di piaggenleria; se si mostrerà  quanto essi splendano per onorala estimazione, e  quanto si debba fare assegnamento sul loro giudi  ciò ed autorità; In fino si cattiverà henvoglienza per  mezzo della causa stessa, se noi lodandola porremo in sul grande la parie nostra, e faremo n -l tempo stesso di screditare a forza di spregio la parie  degli avversarli. Ridurremo allento l'uditorio, se  renderemo dimostro che sono di grande rilievo,  clic son nuove c maggiori della credenza le cose  clic siamo per esporre, ovvero se faremo conoscere clic esse riguardano o tulli quanti, o quelli  clic ne ascollano, o alcuni uomini insigni, o gli  dei immortali, ovveramenle i negizii più importanti della repubblica ; e se prometteremo clic siamo per dimostrare di rorlo la giustizia della nnsira causa, e porremo in veduta il punto da dover  giudicare, o i punii, so saranno più. Faremo inscgncroli gli uditori se sporremo chiaro c in  brevi parole il sunto della causa , voglio dire in  clic consista la controversia. Pcrocrhè quando  lu voglia far 1' uditore inscgnevole , è mestiere  clic insieme lu lo Taccia atteso , poiché quegli  ò il più disposto a lasciarsi istruire , che è anche disposto ad ascollare con la massima attenzione.   XVII. Ora si vuol dire per Io seguilo come si  convengano ballare In insinuaz : oni. Dcesi usare  insinuazione quando la causa è di specie straordinaria, clic vien a dire, come toccai innanzi, quando 1'udilore i di animo avverso. Questo uso si fa  spccialmcnlc per Ire ragioni; o perchè nella slessa causa s' involge alcun che di lurpe; o perché  pare clic da quelli, i quali hanno ballalo prima,  F uditore siasi lascialo qualche cosa persuadere;  o perchè ì data copia di parlare a un'ora, in cui  quelli che ascollar debbono hanno già tanto ascoltalo ch’ei ne sono lassi e ristucchi. E diretto anche  da questa cosa ultima, non meno clic dalle due prò eo liomine, in quo olTemlilur, alluni liomincm,  qui diiigilur, interponi oporlcl; aut prò re. in qua  offenditur, aliato rem, quac probàlur ; aut prò re  liomincm, aut prò liomine rem, ut ab eo, quod  odit, ad id, quod diligil, auditori» animus traducami", et dissimulare id te defensurum, quod evistimeris defensurus. Di-inde, quum iam mitior factus erit auditor, ingredi pcdelenlim in defensionem, et diecre ca, quac indignenlur adversarii,  libi quoque indigna videri: deinde, quum lenieris  eum, qui audiet, demonslrarc, nilul coroni ad te  pertinere, et negare le quidquam de adversariis  esse diclurum, ncque boc, ncque illud: ut ncque  aperte laedas cos, qui diliguniur, et lanicn id obscurc faciens, quosd possis, alicnes ab eis nuditorum toluntalem ; et aliquorunt iudicium simili  de re aut auctorilalem proferre imilalione dignam;  deinde camdem, aut consmiilem, aut maiorent,  aut minorem agi rem in praescmia demonslrarc.  Sin oratio adversariorum fidi-m videbitur onditoribus fecissc (idque ei, qui intelligel, quibus rebus fides fiat, Tacile erit cognito), uporb-l aul de  eo, quod adversarii sibi firmissimum putariut, et  maxime n, qui audicnl, probarinl, primiiui te diclurum polliceri; aul ab adversarii dirlo esordir!,  et ab co polissimum, quod illc tiiipcrriine divori!;  aul dubilationc uli, quid primum dicas, aul cui  polissimum loco rospo mica- , eum ndmiralionc.  Nani auditor quum eum, quem adversarii pcrlurbatum pula! oralionc, videi animo firnii-simo coti tra diccrc parai urn , pleruinquc se polius temere  adsensissc, quum illuni sine causa confiderò arivitratur. Sin audiloris sludiuni dcTaligalio abalii-navil a causa, le brevius quam paralus fueris, esse  diclurum commodum est polliceri; non iniilaturum arlvcrsarium. Sin rcs daini, non inutile est  ab aliqua re nova aul ridicula incipcrc ; aul ev  tempore quac nata sii, qund getius, strepitìi, ticclamalionc ; aul iam parala, quac sci apnlogum,  vel Tabulant, vel aliquam conlincal irrisionem; aul  si rei dìgnilas adimct iocandi Tarullatem, aliquid  triste, novurn, liorribile statini non incoinmodum.  est iniicerc. Nam, ut cibi saliclas et Taslidium aul  subamura aliqua re relcvalur, aul dulci miligalur,  sic auiinus defessus audicudo aut admiralionc integralur aut risu novatur. prime, rascollonte lai fiala piglia motivo di esser  mal tolto verso l'oratore. Se il turpe che v'ha nella  causa è motivo di malevogl inula nell'uditore, allora  si conviene per la persona elicsi odia iniromeltere  un'altra persona che sia amata; o per la cosa, di cui  l'uditore si otTcnde, un'altra cosa clic sia degna di  approvazione; o per la cosa una persona, o per la  persona una cosa, acciocché l'animo dell'udilore  sia richiamato da ciò elio odia a ciò che. ama; «  conviene ancora clic tu l'infinga di non tolcr difendere ciò clic si crede già clic tu difenderai. Dipoi,  quando l'uditore sarà cosi addolcilo, vorrai cnlrarc a passo a passo alla difesa, e dire clic le cose,  le quali muovono a sdegno gli avversarli paiono  a le pure da doversi avere a schivo: poi, insieme  che avrai mitigalo l'udilorr, verrai dimostrando  che di colali cose niente si aspetta alla tua orazione, c atTermei'ai che intorno agli avversarli non  sci per dir nulla, nè questo, nè quello; affinché  non mostri di offendere apodamente coloro che  so» benvoluti, c nondimeno facendo questo in  maniera palliala, fino a che il possa, allunghi da  loro il buon volere degli uditori; c cilcrai, qual  esemplo degno di servire per regola, il g udirlo  c la testimonianza di taluni sopra affare di fatta  consimile: dipoi mostrerai che al presente si tratta un alTar eguale, o simigliarne, o di piò, c di  meno rilievo. Che se il discorso degli avversarli  panà avci fatto clic gli uditori gli aggiustassero  fede ( c facilmente si conoscerà, chi sa con che  meni ella si aggiusti), ti conviene promettere che  per prima cosa tu parlerai intorno a ciò che gli  avversarli hanno credulo il loro sostegno piò principale, e che gli uditori hanno soprattutto approvalo; o pigliar l’esordio da quanto fu dello dall'avversario, c massime da ciò ch’egli ha dello da  sezzo; o mostrare di esser in penderne circa a  quello da che dei cominciare, o al punto a cui  particolarmente dei rispondere, incUcnda altrui  alquanto di stupore. Poiché l'ascoltante quando  vede esser disposto a replicare ardimentosamente  quello stesso ch'ci crede sconcertalo dal discorso  dell'avversario, fa ragione le piò volte di aver egli  aggiustato fede con poca considerazione, anzi che  quegli si confidi senza motivo. Clic se l' uditore  per islaneliez/a non si inoslra più interessato nella  causa, fi) al fatto che In prometta di essere per spacciarti più di breve che non eri disposto a fare, e di non volere imitar le lungherie dell'avversario. Non sarà anche inutile, se oflrirassono l'occos.one, far principio da qualche cosa nuova o ridevole; owero da qualcuna naia d'improvviso,  come sarebbe qualche strepilo, qualche allo gridore; o da alcuna già preparala, che rnnicnca vi  un apologo, o una favolosità, o alcun rive ili bui Ac scparalim quidcm, quac «te principio  r-l Jc insinuatioiic dicenda vidclianlur, lisce fere  soni. Nane quiddam brevi cominunitcrdc utroque  praciipieiidum tidolur. Erordium scnlcnliariim  cl gravitali* plnrimum delie) liabcrc, cl umilino  omnia, quac pcrlincnt ad dignitalcm, in se continere, proplcrca quod id iqilìmc racicndum c-l,  quod oratorcin auili lori minime commendai: splcndoris cl fcslivilalis cl concinni ttnlinis minimum,  proplcrca quod ex bis susp ciò quacdani lipparalionis alquc arliliciosac diligcnliae nascilur ;  quac maxime nrationi (Idem, oralori odimi) auclorilalcm. V'ilia vero baco sunl ccrlissima cxoriliurum, quac summopcrc vitari oporlebil : rullare, communc, commulabilc, longum, separatimi, Iranslatum, conira pracccpla. Volgare cs!>  quod in plurcs catisas potcst accominodari , ul  convenire videalur. Commune, quod nibilo minus  in hauc, quam io conlrariam parimi causar, poIcsl convenire. Commulabilc, quod ab adversariu  polcsl leviler mutalum ex conlraria parie dici.  Longuni, quod pluribus verbis aul seutcnlHs ullra  quam satis est producilur. Scparalum, quod non  ex ipsa causa duclum est, noe sicul aliquod mcinbrum adnexum oralioni. Translalum est, quod aliud confici), quam causau gcnus postulai ; ul si  qui docilcrn facial audilorem quum benevolcntiam  causa desidero, aul si principio ulalur, quum insinualioiicm rcs postulo. C.onlra pracccpla est, quod nihil corum efiicit, quorum causa de cxordiis pracccpla Iradunlur; hoc usi, quod eum, qui  audii, ncque bcncvolum, ncque alteiilum, ncque  docilem cfiicil, aul, quo ndiil profeclo peius est,  ul conira sii, facil. Ac de esordio qnidem salis dicium est.     XIX Narralio csl gcslarum rcrum, aul ul gcslarum csposiliu. Narraliouum genera Iria sunl.  Unum gcnus csl, in quo ipsa causa et omnis ralio  conlrovcrsiac conliiiclur; allcrum, in quo digrcs' 1 aliqna extra cau-am aul criminalionis, aul si   Icvolc; oppure, se la gravili dcH'afiarc non lasccrà tempo allo scherzo, si può far principio con  l’introdurre alla prima qualche cosa di serio, di  nuovo, o che metta orrore. Poiché come la nausea  del cibo e la sazietà si rileva con qualcho amarognolo, o si alleggerisce con un po'di dolce, così  l’animo slanco di ascoltare o si rinforza con la maraviglia, o col riso si rimane in essere.   XVIII. Queste a un di presso son le cose clic  mi parve dover dire del principio e della insinuazione spnrtatamcnlc. Ora si vuole cosi olla breve  dir qualche nonnulla di ambedue insieme. L’esordio dee tener mollo del scntimcnloso e del grave, e comprendere in sé tulio quanto si appartiene alla dignità, poiché si dee raffazzonare il meglio possibile, siccome quello che più di ogni altra cosa raccomandal' oratore all’ udilorio. Non  dee avere però clic appena un menomo di splendore, di piacevolezza e di acconcialura, perchè di  qua si viene a dar sospetto di apparecchio e di  una diligenza consigliala dall’ arto; le quali snn  cose clic troppo lolgono il buon concedo all' orazione, e il credilo all’oratore. I difetti die incontrano il piò snvcnlc negli esordii, e che si vorranno con somma cura schifare, seno questi : esser  volgare, che può servire a prò e contro, mutabile,  lungo, improprio della ca usa, fuori di proposito,  contrario alle regole. È volgare quello che può  accomodarsi ad ogni specie di causa, si che le  paia star bene. Può servire a prò e contro quello  clic conviene alla parte In favore non meno che  alla parte contraria. È imitabile quello che con  alquanta poca di varietà può anzi che da noi esser  recitato dal nostro avversario. È lungo, quando si  disfi ode in assai parole e concedi più che non è  mestieri. É improprio della causa, quando non é  trailo da essa, e non come un membro unito al  resto della orazione. E fuori di proposito, se conchiudc altro da quello che domanda la specie della causa; come sarebbe se tendesse a render insegncvole l'uditore, mentre la causa il ionia benvoglienlc anzi che no, o se adoperasse il principio  quando l'affare esigerebbe anzi la insinuazione.  É contrario alle regole quando non raggiunge  nessuno di quei Din, per cui si danno precetti circa all’ esordio; come a dire, quando non rende  ben volto l'uditore, né allento, né bisognevole, o,  ciò che al postutto è troppo peggio, quando lo  rende affililo mal volto ed avverso. Quanto è all’esordio, abbastanza detto è. La narrazione è un esposto di cose avvenute, o come se avvenute. La narrazione é di tre  specie. La prima è quella, in cui é compresa la  causa stessa e lutto il cardine della controversia:  la seconda é quando si frammette una qualcho tiiìliludinis, aul «Iclcclalionis non alienar ab co  negolio, quo '' e agitar, aut amplificatioiiis causa  interponimi-. Tcrlium genus est remoliim a civilibus causis, quoti tlcleclationis causa non inutili  cum ezetcilalinnc dicilur et scribìlur. Eius parles  suoi duac, quaruin altera in ncgotiis, altera in persona ma lime versatur. Ea quac, in nrgntiorum  cipositionc posila est, trcs habel parles, fabulam,  liistoriain, argumentum. Fabula est, in qua ncc  vera e uec veri similes res continentur, cuiusmodi est :   « Angues ingcnlcs alitcs, iuncti iugo... a  llistoria est gesta res, ab actatis nustrac memoria  remota; quod genus: Appius indisi! Cartliaginiensibtis bellum. Argumentum est lieta res, quac tamen fieri poluit lluiusnmdi apud Terentium; Hoc in genere narralionis multa debet incsse féslivitas, conicela cs rorum varietale, animorum  dissimilitudinc, gravitale, lenitale, spc, mclu, suspicione, desiderio, dissirnulationc, errore, misericordia, forlunac eommutalione, insperato incommodo, subita laetilia. iucundu esitu rerum. Venmi  bacc ex iis, quac postea de clocutionc praecipicntur, ornamenta sumcntur. Nunc de narralionc ca,  quae causae cominci csposilioncm , diccndum  videtur. Oporlcl igilur eam trcs habere res: ut brevis, ut aperta, ut probabili» sit. Brevis crii, ss  unde Decesse est, inde inilium sumetur, et non ab  ultimo repetetur, et si, cuius rei satis crii summam  dixisso, eius parles non diccntur, (nani saepe satis est, quid factum sii, diccrc, non ut cuarrcs, que  madniodum sii faclutu); et si non lougius, qtiam  quod scilo opus est, in narrando proecdetur; et  si tiullain in rem aliam lransibitur ; et si ila dicctur, ut nonnumqtiam ex co, quod dicium sii, id,  quod nuli sit dicium, inleltigalur; et si nuli modo  id, quod obesi, veruni ctiain id, quod lice ubi si  uec adunai, praeteiibilur; et si Semel unum quid     ili   digressione che s'allunghi dalla causa, o di querela, o di similitudine, o di diletto, elio non sia  straniero all'afTare di che si tratta, o che si faccia  a (Ine di amplificazione. La terza specie è estranea  alle cause civili, la quale con cs crc zio non inutile  si scrive e si recita per amore di dar piacere. Ila  due parli la narrazione, di cui la prima versa specialmente sui fatti, l'altra piuttosto sulle persone.  Quella clic consiste licita sposizione dei falli, ha  (reparti, la favola, la storia, l' argomento. Favola è quella clic conlicnc cose nò vere, nè veri simili, come sarebbe :  La narrazione clic versa intorno a personaggi è  fatta di modo clic insieme con i falli si possali conoscere le parole o l'animo dei personaggi stessi.  Tale i la seguente ;   ( Ei viene spesso a me, mille tragedie  Facendomi nel capo : o Milione,   Grida, che fai ? a clic ci perdi il figlio ?   A clic gli amori, e il vino ? a clic di queslo  Gli dai le spese ? tu di troppe gale  Gli lasci far, e troppo esci dei termini.   Troppo egli è austero, oltre l’onesto c il retto •  In questa specie di narrazione bisogna molta piacevolezza, la quale si vuol trarre dalla varietà delle cose, dalla dissomiglianza degli animi, dalla  gravitò delle persone, dalla loro mansuetudine,  dada speranza, dal Umore, dal sospetto, dal desiderio, dalla dissimulazione, dall'errore, dalla misericordia, dalla cambiatila di fortuna, dalla disgrazia improvvisa, dalla subita allegrezza, dalla  lieta riuscita delle cose. Però questi ornali della  narrazione si piglieranno dietro i precetti clic ilano dati quando della locuzione verrà da parlare.  Ora s'ha a dire di quella specie di narrazione clic  comprende la sposizione della causa.   XX. E necessario di’ essa sia breve, clic aperta, che probabile. Sarà breve, se piglicrasscnc il  principio da ciò clic preme, c non si comincerù  da qualche punto che sia lontano di troppo, e se  bastando clic si esponga la somma dell' alTare, si  lascerà di divisarne le parli individuale (perocché  spesso è sufficiente che si dica ciò clic fu fatto,  senza clic si racconti come fu fatto); c se nel fare  la racconlazinnc si schiverà di andar più là di quel  clic fa d'uopo perchè si sappia ciò clic imporla sapere; c se si eviteranno i passaggi io altre cose  diverso; e se si |>arlcrà in guisa che qualche volta  da quel clic fu detto s'intenda ciò clic fu taciuto; e que dicelur; cl si non ab co, in quo proiimc desimin crii, deinccps ineipiclur. Ac mulo: imilalio  brcvilatis decipil, ul, quuin se breves pulentc-sc,  longissiml siisi; quuin detti operarli, ul rcs mullas  brevi dicaul, non ut omnino paucas rcs dicant, et  non plures, qnnm necessc sii. Nani plerisquc breviler videtur il cere, qui ila ilicil : Accessi ad aedcs. Pucru.'U evocavi, liespondil. Quacsivi dominuin. Domi negavi! esse. Ilio torneisi lot res brevius non poluil diccrc, lamen, quia salis fui! dixissc : Domi negai it esse, IU rerum mulliludine  longus. Oliare, Ime quoque in genere vitanda est  brevilatis imilalio, et non niinus rcrum non neccssariarum , quam «erborimi mullltudiue supersedenduin esl. Aperta autern narrati» poteri! esse,  si, ut quidquc primum gcslum crii, ita printum  opoueliir, et rerum ac temporum ordo sorvabimr,  ut ila uarrcnlur, ut gcslac rcs erunl, sul ut potuissc gerì vid' buniur. lire crii considerandum,  nc quid perturbale, ne quid contorte dicalur, ne  quam in aliam rem Iransealur, ne ab ultimo repelalur, ne ad cvlrenium prodealur, ne quid, quod  ad rem pertinenti, praelereatur ; et omnia», quae  praccepta de brevilate sunt, hoc quoque in genere sunl conservando. Nani saepe res parum est intellccta longitudine magis, quam obscurilate narralionis Ac verbis quoque drluridis uicndum esl;  quo de genere diccndum est in praeccplis clocu  liullii. Probabilis erit narrilio, si in ea videbuulur inesse ea, quae seleni apparerò in vcritale ; si  personarum digiiilalcs servabunlur ; si causae fadorimi cislabunl ; si fuissc faeullales radunili viilebrintur ; si Irmpus idoncum, si spalli salis, si  bicus opporluuos ad camdetn rem, qua de re narrabitur, fuisse oslendclur; si rcs et ad corum, qui  agoni, uaturam, et ad vulgi morena, et ad eorum,  qui aiidicnt, opinionem accuininodabilur. Ac veri  quidem similis cvliis ralionibus esse polerit. Illusi  aulem praetcrca considerare oporlcbil, nc, aul  quum olisi! narrati», aut quuin nihil prosatameli  intarponatur; aut non luco, aut non, qiicraaduioriunì causa postulai, narrctur. Obest lum, quum  ipsius rei gcslae evpositio magnam eveipit olfcnsiouem, quam argiimciilando et catisam agendo  Icniri oporlcbil. Quoti quum ucciderli, membra- j  tini opurlebil parlcs rei gcslac dispergere ili cau- i  sani, clad imam quaiuque coulestim ralionem ac- j  cotnuicdarc, ul vulneri praeslu mcdicamcnluin sii, |     se si Iralasccrà non pure ciò che nuoce, ma eziandio ciò clic nè nuoce, uè giova; e se ogni cosa si  dirò solo una fiala; c se si causerà di ricominciar  da quello, da cui si sarà finito. Molti allucinano  nel seguire la brevità, sicché quando hanno fantasia di esser brevi, sono per coulra lunghissimi,  perché danno opera a dir molte cose alla breve,  nou ai dirne al postutto poche, e non piò che non  bisogna. E infal li credono molli che saria breve  chi parlasse cosi: Fui alla casa. Chiamai il servo.  Rispose. Chiesi del padrone. Mi disse che era ruori. Costui, eziandio che lame cose non polea dire  piò brevemente di cosi, lunaria, perchè bastava  aver dello; Rispose che era fuori, diventa lungo  per le troppe cose. Laonde anche in questa parie  si vuol evitare d’i.-nitar una falsa brevità, c si dee  astenersi non meno dalle cose non necessarie, che  dalia moltitudine eziandio delle parole. Aperta  potrà essere la narrazione, se sarà esposto prima  ciò clic prima addivenne, e ai manterrà l'ordine  delle cose e dei tempi cosi che le coso sien narrale come cltellivamenlc sono addiv enute, o come  pare che lo potessero essere. E qui s'ha a veder  bene clic uiciilc sia dello alla confusa, niente c»n  istiracchiatura; clic non si sdruccioli in co«c estranee, clic non si ripigli il dello prima, clic non si  vada innanzi fino allo stremo, qualora sia inol io  alla causa; elio non si trapassi nulla di quanto s’atlicue al fullo:in somma ciò che sopra alla brevità si  è prima insegnalo, anche in questa parie si dee ritenere del lutto. Perocché avviene di frequente che  una cosa é poco inlcsa più per la sua lunghezza che  per la oscurità della narrazione. Anche si vorrà far  uso di parole ciliare; ma di questo in' incontrerà  di dire nei precelli clic darò sopra l'elocuzione. Sarà probabile la narrazione, se si troveranno in essa quei seguali che sogiiuno manifestarsi nella verità; se si conserteranno i caratteri  delle persone; se sussisteranno le cause dei falli;  se si parrà cho l'agente avesse copia di agire; se  si mostrerà clic al fallo che si narra il tempo fu  acconcio, lo spazio sufficiente, opportuno il luogo; se la cosa sarà relativa alla natura di quelli  clic vi avranno parie, c al reslanle del volgo, e  aU'opinionc degli uditori. Per queste ragioni potrà il racconto esser anche verisimile. Conterrà  inoltre considerare pur questo, che non s'ha a far  narrazione si quando nuoce, c si quando non giova, o clic non s'ha a farla fuori di luogo, o diversamente da quel che la causa richiede. Nuoce, allorché la dipintura del fallo é esposta a qualche  grate contrarietà, clic argomentando c trillando  la causa sarà necessario di miligarc. Quando avverrà il caso che nuoca la narrazione, si dovrà il  fallo distribuire a parie a parie nell' orazione, e et odium stallar, detonilo miligct. Nihil prodcsl  ilari alio lutti, quum aut ab advcrsariis re cvposita,  nostra nihil interest itcrum, aut alio modo narrare ; ani quum ab iis, qui audìunt, ita tcnctur uegoliuni, ut nostra niliil intersit cos alio paolo do.  cere. Quod quum accideril, ninnino narratione  supcrsedcndum est. Non loco dicitur, quum non  in ca parte orationis collocalur, in qua res postulai ; quo de genere agcmus lum, quum de dispostone diccmns; iijiii hoc ad disposiliimem pcrtinet. Non quemadnindiim caus i postulai, narratur,  quum aut id, quod adversario prodesl, dilucidc et  ornate cvponilur, aut id, quod ipsum adiuvat, oliscure dieilur et ncgligcnter. Quare, ut hoc litium  vitetur, omnia turquenda sunt ad commodum suae  causac, contraria, quae praclcriri poterunt, praclercundo, quac illius eruut, leviter attingendo,  sua diligcnler et cnodalc narrando. Ac de narratone quidem salis dicium ìidclur ; dcìnccps ad  parliiioncin Irauseamus. Rrcle habila in causa parlilio illustrerò  et pcrspicuam totani cllìcil oralioncin. Parlcscius  sunt duae, quarum ulraqoc magno opere ad apericndam caosam, et constitucndam pertinct controversiani. l'na pars est, quae quid cimi ad versa  riis convelli, il, el quid in controversia rclinqualur,  oslendil; et qua certum quiddam deslinalur auditori. in quo animimi dclical bobere oceiipalum.  Altera est, in qua reruni carimi, de quilius crimus  dicltiri, brciilcr eiposiiio poniliir dislribula ; ci  qua connciiur, ut ceri -s animo rcs tcncai auditor, quibus diclis inleliigal roro peroratimi. Nunc  ulroquc genere parlilionis quemadmodum convcnlat uti, brevitcr dicemlum videtur. Quae partilio, quid convenial, ani quid non convcnial ,  oslendil, dace debel itimi, quod convenil, inclinare ad suae causac commodum, hoc modo : Inlerfeclam malrcin esse a lilio convenil mihi cum  advcrsariis. lem conica : iiiierfeclom esse a Olytaenineslra Againemnonem convenil. Nam liic ulerque et id posuil, quod convcniebat, cl laincn suae  causac commodo consuluit. Deinde, quid controvertiae sii, ponendum est in imlicalionis esposilione ; quao quemadmodum invenirelur, ante dicium est. Quae aulcin parlilio rcrum dislribularum conlinet ciposilioncin , haec Iutiere dolici  brevitaicui, absoliitioiiem , paacilalcni. Itrciilas  esl, quum uisi neccSsarium imi lum adsumilur ver   soggiunger loslu a ciascuna parie la sua ragione  giiislilicaliva, acciocché alla ferita sia subito in  pronto In medicina, e ciò che olleude sia miligaIn dalla ragione che tosto lo giuslillca. Non giova  la narrazione, quando essendo csposlo il fallo dagli avversarli, non è di nessun momento il ripeter  noi la slessa cesa, ancora clic in altro modo; o  quando quelli che ascoltano si conoscon dell'alfa,  re co.) bene, che importa nulla che noi lo porgiamo loro a sapere con olire parole. Allorché dunque imballerà questo caso, s> dovrà affittii omettere la narrazione. È essa fuori di luogo quando  si colloca in ultra parie della orazione da quella  che il fatto esige; ma di ciò tratteremo quando si  parlerà della disposizione, a cui questo caso si  riferisce È falla la narrazione diversamente da  quel che richiede la causa, quando o si espone  con chiarezza c adornalo ciò che prolilla all'avversario, o diciamo oscuramente c alla spensierata ciò che dee far prò a noi slcssi. Il perchè, a voler che questo difello non intervenga, si dee pie  gare ogni cosa al vantaggio della noslra causa,  causando delle cose sfavorevoli le più clic si possa, e facendo di attinger alla rieisa ciò che fa all'avversario, e narrare ciò che fa a noi con diligenza e lucidità. Della narrazione mi pare aver dello  abbastanza; ora facciamoci alla partizione. La partizione, quando sia ben falla, dà  lustro e chiarezza a tutta la diceria. Issa ha due  parli, di cui ciasc 1 1.1 conferisce troppo bene a  chiarir la ragione dell i causa c (issare la conlrovcrsia. La prima di qiieslc parli dimostra i punii, in  cui si è in concerto con gli avversari, e i punii che  si lasciano alle parli da dover d-ballcre; nel che  ci si licite come ad assegnare all'uditore la parte  di che la sua attenzione si dee frammettere. L'altra è quella, io cui cun brevi parole si spnngonn  divisalamentc le cose, di cui siamo per ragionare; di che viene, che l’uditore coirà a conoscere quelle date cose, ragionale le quali sa che  l'orazione dee esser finita. Ora, come si convenga  far uso di quesle due parlile, verrò dicendo sotto  brevità. La partizione moslru quello in cui le parli  accordano, e quello in cui no. L'oralorc dee però  acconciare l'accordo al taniaggio della propria  causa; «ciò egli farà, dicendo: Che la madre sia  siala uccisa dal (iglio, io accordo con gli avversari!. E cosi per conira: Accordo io già che Agamennone sia sialo morto ila Clilcnneatra. In questo  dire l'uno c l' altro avversario toccò un pillilo di  comune accordo, c nondimeno provvide al prò  della propria causa. Dipoi, quanto v’è di coulro  verso dee collocarsi là dove si spone il punto da  giudicare; c del controverso come venga a rilevarsi, si è già delio di qui addiclro. La seconda parie, lium. Ilare in hoc genero ideirco est utilis, quod  rebus ipsis cl parlibns causac, non verbis ncque  cilrancis ornamenlis animus auditnris tencndus  est. Absolulio csl, per quain omnia, quac ioeidunl  in causam, genera, de quibus diccudum csl, arapleclimur. In qua parli Mone lidendum csl, ne aut  aliquod gcnus utile rclinqualur, aul sero dira  parlilioncu),id quod viliusissiinum aclurpissiinum  csl, inferalur. Paucilas in partilione scrvalur, si  genera ipsa rerum pnnunlur, ncque periuiilc cum  parlibus implicaniur. Nam genus csl, quod plurcs  partes ampleclitur, ul animai, l’ars est, quac subosl generi, ul cquus. Sed saepe eadem res alii  gcnus, alii pars est. Nam homo animalis pars csl,  Thebani aul Troiani gcnus. liaee ideo diligcntius ìnducilur pracscriplio, ul aperte in'cllecla generali partilione, paucilas gcucrum in partilione scrvari possil. Nam,  qui ila parlilur; Oslendain propler cupidilalcm cl  audaciam et avariliam adveisariorum omnia iocommodu ad rem publicam pervenisse; is non inIcllcxil in parlilione, «posilo genere, parlem se  generis admiscuisse. Nam genus est omnium niinirmn l.bidinuin cupidilas ; eius autein generis  sine dubio pars est avaritia. Hoc igitur vilanduin  csl, ne, cuius genus posucris, eius siculi aliquam  diversam ac dissimilem parlem ponas in eadem  parlilione. Quod si quod in gcnus plurcs incident  partes, id quuin in prima causac parlilione eri!  simplioilcr expositum , dlslribucliir lemporc co  rommodissime, quuin ad ipsum venlum crii oiplieandum in causae diclionc post parlilioncm.  Alquc illud quoque pcrlincl ad paucilalem, ne  aul plura, qoain salis csl, demouslraluros nos diranius, li io modo : Oslendain adversarios, quod  arguimus, et potuissc faeere, el v*duissc, el fccìs*  se; nam fecisse salis csl osleuderc : ani, quum in  causa parlilio nulla sii, et quum simplex quiddam  agalur, tamen ulamur dislribuliouc; id quod perraro polesl aceidere. Ac suoi alia quoque pracccpia parlilionum, quae ad hunc usum oralorium  non laido opere perlincant, quae vcrsanlur in pliilosophia, ex qmbus liacc ipsa Iranslulimus, qiuc  convenire videbanlur, ipioruin niliil in ceteris arlibns invciiicbamus Alquc bis de parlilione praeceplis, in omni diclionc meminisse oporlebil, ul  cl prima qiiaequc pars, ul espusila esl in parlinone, sic ordine iran-igatur; cl omnibus esplicali*  peroratimi s i hoc modo , ul ne quid posteriu» cioè dire quella che conlicno la sposiiione delle  cose divisale, dee esser breve, intiera, parca. È.  breve, quando non si pongano parole olire le necessarie. Questa qualità della partizione è utile  per ciò, clic l'addizione deU'uditore bassi a fermare per mezzo delle cose stesse c delle parli della rausa, non per mezzo delle parole nè di ornali  estranei. È iutiera quando abbracciamo tulli i  punii che cadono nella causa, e de'quali bassi a  ragionare. In questa dote della partizione deesi  aver l'occhio che o non si ommetta qualche punto  vantaggioso, o non si introduca troppo lardi fuori  della partizione, il elio è difello molto vizioso e da  vergognarsene. È parca la partizione, se vi si toccano I soli generi delle cose senza impigliargli e  intrigare delle loro specie. È genere quello che  conlicno in sè più specie, come animale. È specie  quella che è soggetta al genere , come cavallo.  Ma sovente la stessa cosa da dii è adoperala per  genere, da chi per ispecie. E infatti uomo è specie di animale, è genero di Tcbano o Troiano. Questa regola si vuole perciò inculcar  bene, perchè inlesa clic siasi chiaramente la partizione generale, si potrà serbare in essa la parsimonia delle parli. Poiché chi facesse la parlilione  cosi: Mostrerò clic, colpa la cupidigia, l'audacia c  l’avarizia degli avversarli, vennero addosso alla repubblica tulli i malanni: costui non si avviserebbe  che dopo esposto il genere ei mescolò nella partizione una specie di esso genere. Perocché la cupidigia è un geuere che abbraccia tutti i desideri i  sfrenali, c l'avarizia è senza dubbio una specie di  qucslo genere. Si dee dunque guardarsi che quando è posto il genero non si ponga nella slessa partizione la sua specie, come se fosse una cosa diversa, che non avesse alcuna somiglianza col genere. Clic se nel genere cadranno molte specie;  poi clic si sarà esposto il solo genere nella prima  partizione della causa, si potrà a ludo agio scompartirlo nelle sue spcc c allora che si verrà a (rattare di esso nel corpo della causa dopo la partizione. Inoltro si spella anello questo alla parsimonia, voglio dire, che non promettiamo di dimostrare più di quello clic basta, coinè sarebbe: Mostrerò che gli avversarii e poterono fare, o vollero,  c fecero quello, di elio io li accuso; poiché il mostrare elio fecero è quanto fu: ovvero che qualvolta  la causa non patisce partizione, e si traila un alTur  semplice, non dobbiamo divisarlo in partile; ma  queslo caso non può occorrere che assai di rado.  Ci sono altri precetti circa la partizione, uia che  non si roiifamio gran fallo con questo uso oratorio, porcili spellano alle cose di filosofia, lo uè ho  qui recali quelli che mi parte fossero il raso, e  clic noli (rovai in nessun altro trattalo di retorica. praclcr conclusionem inferatur. l’artilur apud Tercnlium brevi ter et commode scnci in Andria,  qua e cognoscere libertum veli! :t Eo paolo et gnati vilam, et consilium meum Cognosces, et quid Tacere in hac re te velim. a   Itaquc quemadmodum in parlionc proposuit, ita  narrai, priimim guati vitam :  a Nam is pnslquam exccssil ci cpbcb ; s, Sosia... a  Delude simin ennsilium : Dipoi ciò eli’ egli pensa :  o E di presente a questo io penso In line ciò ch’ei vuol fatto da Sosia, il che dice da  ultimo perchè l’espose in ultimo nella partizione:   « Or egli è ufficio tuo   Come dunque esso vecchio trattò per prima in  parie che pose prima nella partizione, e finito di  ragionarle tutte, fece line, cosi sta bene a noi pigliar per mano secondo ordine i membri della  partizione, e solo dopo svoltili lutti, farsi a conchiudcrc. Ora è da venire ai precetti circa la confermazione, secondo clic richiede l'ordine finora  tenuto. La confermazione è quella, per la quale la orazione col mezzo dcH’argomcnlarc aggiunge fede e autorità c fermezza alla nostra causa.  Iti questa parte della orazione v'ha alcune regole  determinalo, le quali saranno sparlile c applicate  alle singole specie di causa, quando se ne Irallcià.  Nuli di manco non torna qui inopportuno mettere  innanzi una certa selva, ro'dirc un ammasso sfolgoralo di tulle le forme ili argomentazione, clic  finora non erano altro clic un miscuglio, clic un  disordine, e poscia insegnare come sia da farsi la  confermazione in ogni maniera di causa con tutte  quelle formo di argomentare clic fra queste si saranno pigliale. Ogni asserto si conferma con le  argomentazioni clic si traggono o dalie circostanze clic si riferiscono alle persone, o da quelle cheai falli. Alle persone si riferisce il nome, la ualura, il vivere, la condizione, la dispostezza, l'affczi iuic, gli sludii, i disegni o intenzioni, i falli, gli  accidenli, il discorso. Il nome è quella appellazione clic si dà ad ogni uomo, pen ile sia chiamalo con proprio c dclcrminalo vocabolo- La naluia  è cosa forte a definire: più facile è annoverare  quelle patii di essa ilio a porgere questi nostri  prerclli soli di bisogno. Parli siffatte son proprie,  alcune della specie divina, alcune della specie nius ; cognatione, quibus malori bus, quibus consanguineis: actate, pucr an adolesccns, nalu grandior an sene*. Praelerca commoda et incommoda  considerantur ab natura dala animo aul torpori,  hoc modo: valens an imbccillus; longus an brevis; fon ’osus an deformisi telox an lardus sii; aculus an licbctior ; memor au oblis io^us ; comis, oIRciosus, pudens, paliens, an conlra. Et  omnino, qnao a natura danlur animo et corpori,  considerabunlur in natura. Nam quac industria  comparantur, ad habitum perllncnt, de quo poslcrius est dicendum. In vielu considerare oporlel, apud quos,  et quo more, et cuius arbitrali! sit cducalus, quos  habuerit arliuni liberalium magislros, quos livcndi pracceptores, quibus amicis ulalur, quo in ticgolio, quacslu, artifìcio sii oecupatus, quo modo  rem familiarem adminislret, qua consuetudine domestica sit. In fortuna quaeritur, scrvus sii an liber, pecuniosusan Icnuis, privalus an cum polestalc : si cum poleslaie, iure in  iniuria; Mix, eiarus, an conlra ; qualcs libcros liabcal. Ac si de  non vivo quaerctur, cliarn quali morte sit adfcclus. crii considcrandum. Habitum autem appellamus animi aul corporis constanlem el absolutam  aliqua in re pcrfcclioncm, ut virlulis aut arlis ali cuius pcrci ptionem, aut quamvis scicntiam , et  item corporis aliquam eominodilalem non natura  dalam, sed studio el industria parlarli. Adfcclio est  animi aul corporis l-i tempore aliqua de causa  commutal o, ut taclilia, cupidilas, rnctus, molestia, morbus, debililas, et alia, quac genere in codem rcpcriunlur. Studium est aulem animi adsidua el vcliemcns ad aliquam rem applicata magna  cum lolunlale occupatili, ut philosopliiac, poèlicao, geometriae, littcrarum. Consilium est aliquid  facicudi, non faciendivc escogitala ratio. Farla alilem et casus et orationes iribus e* temporibus  considerabunlur : quid fcccril, aut quid ipsi acci'  derit, aut quid diserit ; et quid facial, quid ipsi  acridi!, aut quid faelurus sit; quid ipsi casurum  sii, qua sit usurus oralionc. Ac personis quidem  bore vidcnlur esse attribula.     umana. Quelle della specie umana, altre si coniano nell'uomo, altre nelle bestie. Quelle clic nclFuorno, sono il sesso, o virile o muliebre, la nazione, la patria , la parentela, l'età: la nazione, se è  greco o barbaro; la pairia, se Ateniese o Sparlano;  la parentela, cioè dire quali ha antenati , quali  consanguinei; la clà, se è fanciullo o adolescente,  se adulto o vecchio. Si riguardano oltracciò i comodi o le incomodità che son date, dalla natura  all' animo o al corpo, quali sono l'csscr l'uomo  possente 0 debole; lungo o orlo; bello o brullo;  veloce o lardo; acuto o ottuso; memore o smemorato; dolce, obbligante, verecondo, pazicnlc, o  all'opposto. In somma quelle qualità che son date dalla natura all' animo o al corpo si vorranno  considerare per palli di essa natura: giacché le  qualità che si acquistano coll'Industria sospettano  alla vlisposlezza, di cui s'ita da dire dappoi poco.   XXV. Nel vivere ò uopo osservare presso cui  l'uomo fu educato, a quali coslumi, ad arbdrio di  chi, quali maestri abbia avuti delle arti liberali,  quali precettori della maniera di vivere, con quali amici egli usi, di quali faccende, di quali guadagliene, di quale prie si frammetta, come amministri il patrimonio domestico, quali usanze c modi ci tenga in casa. Quanto è alla condizione, s'ha  a vedere se l'uomo è servo o se libero, se bene  o se male accivilo di danaro, se privalo o in uIHcio pubblico; e dato clic in ulllcio, se vi fu eletto,   0 se vi s'intruse; se felice, se nominato, n all'opposto, se i suoi Agli sono di buona o di malvagia  qualità. E se si parlasse di un trapassato, si dovrà  vedere di qual morto c’iiniva. Dispostezza o abito  si appella una cosiamo e assoluta perfezione dcll'aiiimo o del corpo in una cosa, come sarebbe la  conoscenza pratica di una virtù o di un'arte, ovvero una scienza qualunque, e similmente una  qualche dote del corpo, non impartita dalla natura, ma acquisita con lo studio e l'industria. Affezione è ogni mnlanza che succede improvviso o  nell'animo o nel corpo, originala da qualche causa, come allegrezza, desiderio, paura, moleslia,  malattia, debolezza, 0 altrettale. Studio è un'assidua e forte occupazione dcll'ouinio intorno a  qualche cosa, accompagnata con grande inclinazione di volontà, come sarebbe intorno a filosofia,  a poesia, a geometria, a erudizione. Disegno n  inb-nzioiic diccsi un avviso pensato di fare o non  fare alcuna cosa. I fatti la ultimo, gli accidenti,   1 parlari vogliono considerarsi relativamente ai Ire  tempi, cioè attendere clic cosa altri abbia già fatto, che gli sia intervenuto, che abbia detto; che  cosa faccia, che gl'inlcrvenga, che dica; clic sarà  per fare, che per avvenirgli, che discorso sarà per  lenere. Tutto questo si riferisce alle persone. Negotiis aulem quae sunl atlributa, partim sunl contincnlia rum ipso ncgolio, pari irn in  gestione negotii consideranlur , parlim adiuncia  negolio sunl, parlim gcstuni ncgotiiim consequunlur. Conlinenlia cum ipso negolio sunl ea, quae  semper adlìxa esse vidcnlur ad rem, neque ab ea  possunl separari. Ei bis prima est brevi compieaio totius negolii, quae summam cominci facli,  hoc modo: Pareniis occisio, palriae prodiiio; dein  de causa cius summae, per quam el quam ob rem  et cuius rei causa factum sii quaerilur; deinde  ante geslam rem quae farla sinl, conlinenlcr usque ad ipsum negolium; deinde, in ipso gerendo  ncgolio quid aclum sii ; deinde, quid pò- le a factum sii. In gestione autem negolii, qui locus sccundus eral de iis, quae negnliis atlributa sunl,  quacrctur locus, lempus, occasio, modus, facullalcs Locus considcralur, in quo res gesta sii, et  opporluuifalc , quam videatur liabuissc ad negolium adminislrandum. Ea autem opporluuilas  quaerilur ei magnitudine, immollo, longinquilalc, propinquilale, solitudine, cclcbrilale, natura  ipsius loci el «icinilate lotius regionis ; ex bis etiam allribulionibus : sacer an profanus, publicus  an privalus, alicnus an ipsius, de quo agilur, locus sii aut fueril. Tcmpus est autem id, quo Dune  ulinaur ( uam ipsum quidem generallter defluire  difllcile est ), pars quaedam aelernilalis cum ulicuius annui, mensurni, diurni, noclurnirc spalii  certa signiflcatione. In hoc et quae praclcrierinl  consideranlur; el eorum ipsorum, quae propter  velustalem obsolcterinl, ut incredibilia tidcanlur,  et iam in fabularum numerum reponanlur;cl quae  iam diu gesla et a memoria nostra remota, lamen  faciant (idem «ere tradita esse, quod eorum monumenla certa in lilteris exslent ; et quae nupcr  gesla sint, quae scire plerique possinl ; el ilem  quae instenl in praesentia, et quae quum maxime  flant, et quae consequanlur. In quibus polest considerari, quid ocius et quid serius fulurum sii.  El ilem communiler in tempore perspicicndo longinquilas cius est considerando. Nam saepe oportel commctiri cum tempore negolium, el «Mere,  potueritne aut magnitudo negolii aut mullitudo  rerum in co transigi tempore. Considcralur aulem  lempus et anni et mensìs el dici et noclis et vigiline el borac et in aliqua parie alicuius borimi. Quanto poi alle circostanze che si riferiscono ai falli, parte di esse son congiunte col fallo stesso, parie si riconoscono nella gestione del  fallo, olire sono come una aggiunta, altre vengono in conseguenza del fallo. Congiunte con esso  sono quelle che se nc stanno costantemente appiccale al fallo, senza che le si possano da esso  dispiccare. Fra queste la prima i il breve sunto  che contiene la somma del fallo, per esempio: La  uccisione del padre, il tradimento contro la patria: la seconda è la causa di quella somma, per  la quale si cerca quale sia il movente, e quale lo  scopo del fallo: la terza è il cercare quali sicno  gli antecedenti che avvennero sino all' istante del  fallo: la quarla £ il vedere clic si fucessc nell'ano  stesso di trascinar quell’azione; in One il cercare  che si facesse dappoi. Circa alla gestione del fallo, clic è la seconda tra le specie di circostanze  che si riferiscono alle cose, si cercherà quale ne  fosse il luogo, il tempo, la occasione, il modo, la  attitudine di citi lo trascinò. Per luogo s' intende  il dove fu operalo, rclalivamenlc alla opportunità  che offerse di poterlo maneggiare. Questa opportunità si cerea di trovarla nell' ampiezza del silo,  neU'intervallo, nella lunghezza, nella prossimità,  nella solitudine, nel bazzicarvi la genie, nella natura del luogo slesso, nel suo vicinare col rcslo  della contrada. Ccrcherassi l'opportunità eziandio  in questi altri caratteri del luogo; ac esso £ ovvero fu sacro o profano, se pubblico o privato, se  d’altrui o di quello stesso, di clic si traila. Il tempo  quale £ quello che noi usiamo oggi (poiché il definirlo in generale £ malagevole), £ una parie deli’clernilà, che porla seco la speciale significazione dello spazio annuo, del mensile, del diurno o  notturno. Quanto al tempo si dovrà considerare  le cose passale; e fra queste si daranno a credere  per false c da ripor Ira le favole quelle clic per  vecchiezza sono andate In disuso; e quelle altresì  che furono operate pezza fa, c che son venule a  quasi non si sapere; le quali però si mostrerà che  son vere, e che la tradizione che le rapporta è  giustificala da monumcnli non dubliii che restano  tuttavia nelle storie; e quelle inoltre che furono  fatte di fresco, e che possano per ciò essere a molti  sconosciiilc; e similmente quelle che addivengono  in presente, c quelle che il più spesso, c quelle  che poscia seguiranno. Tra queste ultime si può  far attenzione quali più tosto, e quali saranno più  tardi per accadere. Arrogo, clic quando bassi ad  argomentare dal tempo, convien d' ordinario por  mente alla lunghezza di esso; poiché incontra sovente che si debba coinmisu rar con esso la cosa,  e vedere se in un dato andare di esso polessc essere dalo spaccio a un affar di rilevanza o a molte Occasio aulcm est pars lemporis Imbens  in se alicuius rei idoneam faciendi aul non faciendi opporlunilaiem. Quarc cum tempore hoc differì : nam genere quidem ulrumque idem esse  iiitelligitur ; vcrum in lemporc spalium (|uodam  modo deelaralur, quod in anni», aul in anno, aul  iu aliqua anni parie spcrlalur , in occasione ad  spalium lemporis faciendi quacdain opporlunilas  inlelligilur adiuncla. Quare quum genere idem  sii, fit aliud, quod parie quadam cl specie, ul dixiinus, ditterai. Haec disi ributtar in Iria genera,  publicum, communo, singolare. Puhlicum esl,  quod clritas universa aliqua de musa frequentai,  ul ludi, dies feslus, belluin. ('.orninone, quod accidil omnibus codcm fere lemporc, ul messis, sindemia, calor, frigus. Singolare aulcm est, quod  aliqua de causa privatilo alicui solcl accidere, ul  uupllac, sacrillcium, funus, convivium, somnus.  Modus aulcm est, iu quo quemadmodnm cl quo  animo factum sii, quaerilur. Kius parics sunl prudenlia cl imprudenlia. Prudenliae aulcm ratio  quaerilur ex iis, quae ciani, palam, vi, persuasione feceril. Imprudenlia aulcm in purgationem  ronferlur, cuius parics sunl Inseienlia, casus, neeessilas, cl in adfeelionem animi. Ime esl, tnulcstiam, iracundiam, amorem, cl celerà, quae' in simili genere vcrsanlur. Facullalcs sunl, aul quibus  facilius fit, aul siile quibus aliquid ronfici non  potosl. Adiunclum negolio aulem jd inlelligilur, quod majus, el quod iniiius, el quod sìmile,  eril ei negolio, quo ile agitur, el quod aeque inagnum, el quod contrarimi), cl quod disparalum,  el genus et pars cl ciculus. Majus el minus el acque magnum ex vi el ex numero et ex figura ncgolii, sicul ex sialura corporis, consideratur. Simile aulem ex specie comparabili : comparabile  aulem ex conferenda aique adsimilanda natura judicolur. Conlrarium esl, quod positum in genere  diverso, ab codcm cui conlrarium esse dicilur,  plurimutn disiai, ul frigus calori, vilae mors. Disparatuni nnlcm evi id, quod ah aliqua re per oppatilioncm negalionis separalur, hoc modo: sapere, el non sapere. Genus esl, qund parles ali quasampleclilur, ul cupidilas. Para osi, quae subesl generi, ul amor, ovaritia. Kvenlus esl exilus cose insieme. Si fa aitarsi allenzionc al tempo ri  spello all'anno, al mese, al giorno, alla notle, allo  vigilia militare, all'ora, e ai ritagli di ciascuno di  questi periodi. Occasione è una parlila di tempo clic  contiene in sè l'opportunità o l'adatta congiuntura di fare o non fare alcuna cosa. Quindi da occasione a tempo v’ha questo divario, clic sebbeoe  c questo e quella son compresi nello slesso genere, puro nel tempo si vieti a significare solo un  qualche spazio che si trova o in più anni, o in uno,  o in qualche parie di esso; laddove nell'occasione  s'intende allo spazio dei letnpo aggi mila una colale opporlunllà di fare. Epperò, tuttoché eguali  nel genere, diventano pure due cose differenti;  perchè, come dello è, si differenziano in una parie, ossia nella specie, che è l'opportunilà. L'occasione si divide in tre, cd è o pubblica, o comune,  o particolare. E pubblica quella che si presenta  bene spesso alla città intiera per qualche ragione,  come sono i giuochi, i giorni festivi, la guerra. È  comune quella che dà a tulli quasi nel tempo medesimo, come è la messe, la vendemmia, il calore, il freddo. É particolare quando si presenta privatamente ad alcuno per qualche causa, come sono le nozze, il sacrifizio, il funerale, il convito, il  sonno. Modo è quello, nel quale si cerca come e  con che intendimento è falla una cosa. Ila esso  due parli, prudenza c imprudenza. S'indaga inumilo alla prima badando a ciò che altri fece di nascosta, in palese, con la forza, con la persuasione.  La imprudenza si risguarda come ragione giustiflconlc. e si divide in ignoranza, caso, necessità; o  si risguarda come affezione dell'animo, e si dipari le in moleslia, iracondia, amore, e negli altri inoli  interni dello slesso genere. Attitudine è quella facoltà, per cui si fa con molta agevolezza alcun che,  o senza coi niente si può fare. È circostanza aggiunta al fallo ciò che  è di maggior importare o di minore, o simile al  caso di clic si Iratta, e ciò che £ egualmente grande, e ciò che conlrario, c ciò che disparata, e il  genere del fallo, e la specie, e l'avvenimento di  esso; cose tulio che per avere attinenza col fallo  oifrono materia di argomentazione. Come dalla sta tura si deduce la grandezza di un corpo, così dal  nerbo, dai punii, dalla forma dui fallo si conosce  la circostanza clic gli è maggiore, o che da meno,  o che lo pareggia. Il simile si rileva da specie che  possono ira loro paragonarsi; e si può paragonare  ciò clic Ita natura suscettiva di confronto e di essere rassomigliata. Conlrario è ciò che balle in  genere diverso, e clic va mollo di lungUla quello  a cui si dire conlrario, come il freddo va lungi dal  calore, la morie dalla vita. Disparate dieonsi dite LI litio I. alicujus negotii, in quo quocri solfi, quii) pi quoque re cveneril, evenirli, cvrnlurum sii. Quarc hoc  jn genere, ut commodius,quid eventurum sii, aule  animo colligi possi!, quid quaque ei re solcai evenire, considerandum est, hoc modo: Ex adroganlia  odium ex insoleoiia adrogaqlia. Quarta aulem pars  esl ei iis, quas negotiis dicchamus esse allrihutns,  consentilo. In Irne rae rcs quaerunlur, quae gcslum negotium conscquuntur: primum, quod factum esl, quo id nomine appellar! coni miai; delude ejus facti qui sin! prtneipes et invenlores, qui  denique aucluriialis ejus cl invcnlionis comprohalorcs alqoe aemuli; deinde ccquae de ea re aul  cjnsrci sii lev, consuclmlo, urlio, judicitim, scintila, arliOcium; deinde natura cius evenire vulgo  solcai au insolcntcr cl raro; poslea lioinines id sua  auclorilalc cnmproharc, an offendi re in iis consueriol; et celerà, quae fariuin aliquod simililer  confeslim, aul ex intervallo solent Consequi. Deinde proscenio allendcudum esl, cium quae res ci  iis rebus, quae positae sunl in parlihus honcslalìs aul ulililalis, consequanlur; de quibus in delheralivo genere causae distinclius crii diccndum.  Ac ncgoliis quidem fere res cae, quas commemoravimus, sunl altribulac. Oninis auleta arguii» ulali", quae ex iis  locis, quos commetnoraviinus, sttnielur, aul probahilis, aul necessaria debt-bii esse. Elcnini, ut  breviler describamus, argumenlalio vidclur esse  Intenlum aliquo ex genere, rem aliquam aul pròbabiliter oslcndens, aut necessarie demonstrans.  Necessarie dcmnnslranlur ea, quae aliler ac dicunlur noe fieri ncc probari possuul, hoo modo :  Si pepcril, cum viro concubuit. line gcnus argumentandi, quod in necessaria dcmonslralioncvcrsatur, maxime Iraclal tir in dicendo atti per compleiionem, aul per enumerahoneni. aul per simplicem eonclusionem. Coitiplcxiu esl, iti qua, uIrunt concesseris, rcprchendilur.ad liunc modum:  Si intprobus esl, c.ur uteri» ? si probus, cur accusas ? Enumcralio esl, in qua pluribus rebus exposilis et ccleris inlirmatis, una rcliqua necessario  conlirntalur, hoc pacto: Neces.sc esl aui iniiiiicitiarum cuu-a ab Itoc esse occialini, aul inclus, aut o più cose die si separano l'ulta dall'altra per nte-:   10 di negativa, come sarebbe: sapere, e non sapere. È genere ciò che abbraccia alcune specie,  come cupidigia. È specie quella clic è soggetta  al genere, come amore, avarizia. Avvenimento del  fallo significa la sua riuscita, nella quale si cerca  ciò che sia avvenuto, ciò che avvenga, ciò che sia  per avvenire da una cosa qualsiasi. Epperfi, quanto a questo, perchè si possa prima agevolmente  comprendere dò che sia per avvenire, o die soglia avvenire da una cosa qualsiasi, bassi a far deduzione a questo modo: Dall' arroganza nasce l’odio, dalla superbia l'arroganza. Delle circostanze  che, cotn'i dello, s'appropriano ai falli, la quarla  parte comprendo quelle clic al fallo tengono dietro. Qui dunque si ccica lituo clic seguila poi clic   11 fallo è venuto a compimento; c prima, di clic  nome il fallo sia da appellasi; di poi chi simo gii  autori di esso c gli agenti precipui, e in fine quali  sieno quelli che approvarono e seguirouu l’ordinamento del fatto: poscia si ceri Iterò qual sia la  legge, sotto cui cade il fallo, quale la usanza clic  gli si oppone, quale l'azione giudiciaria, fi giudiciò, la scienza, l'arte; poi se per sua natura ci suole accascare comunemente, o per islraordinario c  di raro; indi se le persone Itati costume di auloriz.  zarlo con l’approvazione loro, ovvero se esse di  cose di lai falla si olTmviono; e cosi si cercano vki  via le altre cose che a modo simile sogliono seguire o immantinente, o dopo qualche intervallo. In  fine decsi badare se consegnano di quelle cose che   t si riferiscono all" onesto c all’ ulile; ma di qucsle  verrà di discorrere più dislinlamcnlc, quando si  tratterà della causa deliberativa. Or queste clic si  sun delle sono a un di presso le circostanze proprie dei falli. Ogni argomculaziunc che piglierassi dalle fottìi di qui addietro ricordale dovrà essere o  necessaria, o probabile. Perocché l'argomentazione è, per dirlo in breve, un trovalo di qualche  sorte, che dimostra con ragioni probabili o con  necessarie una qualche cosa. Si dimostra con ra gioni necessarie ciò che non può nè essere nè provarsi divcrsamcnle da quello elle si dice, come sarebbe: Se partorì, dunque giacque con un uomo.  Questo modo di argomentare die versa nella dimoslrazionc necessaria , si licite specialmente  quando si parla o per dilemma, o per enumerazione, o per sola conclusione. Dilemma è quello, in  cui si ribalte o l'un pittilo o labro che lu conceda; per esempio: S'egli è un malvagio, perchè li  vali di lui? se uomo probo, perchè lo accusi? Kniimerazione è quella, in cui esposte più cuse, se  uc conferma necessariamente una, dopo aver mandale a nulla tulle le altre; ionie sarebbe : h no spei, 3ut alicujus amici grafia; aul, si tiorum nihil esl, ab hoc non esse orcisum; nani sine causa  malelicium susceplum non polest esse. Sed ncque inimici) ac ruerunt, ncc melus ullus, nccspcs  ex morie illius alicujus commodi, ncque ad amirum liuius aliqucm mors illius perlinrbal. Rolinquilur igitur, u) ab boc non sii occisus. Simplex  auiem conclusio ex neerssoria conscculione confi cilur, hoc modo: Si vos me islud co tempore ferisse dicilis , ego aulem eo ipso tempore trans  mare fui, relinquitur, ut id, quod diritis, non modo non fecerim, sed ne polucrim quidem Tacere.  Alque hoc diligonlcr oporlebil xidere, nc quo pa.  cto genus hoc refelli possi!, ut ne conlirmalio modum in se argumentaliouis solum habeat et quamdam simililudinem neccssariae conclusionis, rerum ipsa argumenlalio ex necessaria ralionc consista). Probabile aulem est id, quod fere sole! (ieri, aul quod iu opinione posilum est, aul quod  habcl in se ad lisce qtiamdam simililudinem, site  id falsum est, sivc veruni. In co genere, quod fere (ieri solel, probabile buiusmodi est: Si mater  esl, diligi! fllium: si avorus est, negligi! ius iurandum. In co autem, quod in opinione posilum esl,  buiusmodi sunl probabili: Impiis apud inferos  pocuas esse paratas; eos, qui philosopbiae doni  operali!, non arbitrari dcos esse.     XXX. Similitudo aulem iu coulrariiset paribus  et ni iis rebus, quae sub camdrm rationem cadimi, maxime speclatur. In conlrariis, hoc modo:  Nani si iis , qui imprudciites laeserunl, ignosci  ronvenil, iis, qui necessario profucriml, liaberi  gratiam non oportcl. Ex pari sir: Nani ut locus  in mari sine porlu naxibus esse non potrsl tulus.  sic animus sine fide stabills aniicis non polest esse. In iis rebus, quae sub eanulem rationem caduul, boc modo probabile considcralur: Nani si  Ilodiis turpe non esl porlorium locare, nc llcrmarrconli quidem turpe est ronducere. llaec Ioni  vera sunl, hoc pacto: Quoniam cicalrix esl, fuit  vulnus; tum veri similia boc modo: Si mullus ei al iu calceis pulvis, ex ilinrre cum venire oporlebal. Omnc autem ( ut certas qtiasdant in partes  disiribuamus) probabile, quod sumilur ad argumentalionem, aul signum esl, aut credibile, aut  indicatimi, aul comparabile. Signum esl, quod  sub scusimi aliqucm cadil et quiddam significai,  quod ex ipso profectum tidclor, quod aul aule. ,  Inerii, aut in ipso nrg u tio, aut posi sii eonsecu- ;  lum, et lame» iudigrt lestimouii et gravioris ron   ressario ch’ei sia sialo morto da costui o per motivo di nimicizia, o per motivo di timore, o di sperarne, o per far piacere a un amico; o se non fu  nessuno di questi motivi, non fu dunque morto da  costui; da che senza motivo non può esser commesso un misfatto. Ma non vi fu nimicizia, non timore alcuno, non isperanza chea quella morte rispondesse vantaggio, nò profittava essa a nessun  amico dell' uccisore. Resta dunque che e' non fu  ucciso da costui. La conclusione schietta si forma  dalla conseguenza necessaria, a questo modo: Se  voi dito che io feci questo in quel tempo, e io in  quel tempo era oltremare, resta clic questo clic  voi dite, non solo io noi feci, ma neppur il poteva  fare. Vorrassi altresì ben attendere che una tatù  conclusione sia fatta in modo clic per nessun verso non possa essere ributtala, affinchè la confermazione non solamente abbia forma di argomentazione, c come una scmbiauza di conclusione necessaria, ma si faccia in effetto per ragioni clic necessariamente concludano. Probabile è ciò che le  più volle suol essere, o ciò che si opina che sia, o  ciò che lia in se qualche somiglianza col vero che  determina la nostra opinione, sia esso vero effettivamente, o sia falso. Quanto a ciò che suol essere, ecco un esempio del probabile: se ella è madre, ella ama il figlio: se costui è avaro, non si  cura del giuramento. Quanto a ciò clic si opina  die sia , il probabile è questo : Agli empi nt-1l' inferno sta preparala la pena ; coloro clic metlon opera alla filosofia non pensano che ci siano  gli dei. La similitudine si ravvisa specialmente  licite coso contrarie, c nelle pari, e in quelle clic  cadono sotto una stessa qualità. Nele cose contrarie, a questo modo : Se a quelli che offcscro  senza avvertire , si conviene dar perdonatila, a  quelli che giovarono perchè non poterono a meno, non è necessario aver obbligazione. Nelle pari, di questa maniera: Come nel mare un silo che  manchi di porlo non può prestar sicurezza alle  navi, cosi un cuore clic mauclii di fede non può  esser costante in amar le persone. Nelle cose clic  cadono sotto una stessa qualità il probabile si deduce cosi: Se i Rodiani non commettono disonestà a dar in affitto il pedaggio, neppure Ermacreuntc noti commette disonestà a prenderlo in  affilio. Il probabile poi passa a verità quando si  enuncia a questo modo: Poiché rimane cicatrice, c'ci fu ferita: o a verisìmile, quan to si enuncia cosi : Se te scarpe tencano di molla polvere, essa volea esser lolla sii nel viaggio. Ogni  I probabile ( per volerlo dividere in alcune parti  determinate ) , clic si adopera per argoineiila; rione, o consiste in un segno , o in una cosa firmaliouis,  ut cruor, Tuga, pallor, pulvis, et quae  li js sunt similia. Credibile est, quod sine ullu leste auditoris opinione firmalur, hoc modo: Memo  est, qui non liberos suos ìncolumes et beatos esse  cupial. Judicalum est resadsensione, aut aucloritalc, aut iudicio alicuius, aut aliquorum comprobala. Id trìbus in generibus spectaiur, religioso,  commu ni, approbato. Heligiosum est, quod turati  legibua iudicarunt. Coinmunc est, quod omnes  vulgo probarunt etsecuti sunt, huiusmodi: ut maioribus natu adsurgalur, utsupplicum miserealur.  Approbatum est, quod homincs, quum dubiurn  essel, quale haberi oporteret, sua constitucrunl  aucloritate: rei ut lloratii factum a popolo approbalum, quod occìdd sororem, quum illa deviclum  Curiatium hostem deflerel; vel ut Gracchi patria  factum, quem populus Romanus ob id faclum,  quod insciente collega in censura nihil egissel,  post censuram consulem feci!. Comparabile autem esl, quod in rebus diversis similem aliquam  rationem contine!. Eius parles sunt Ires: imago,  collatio, eiemplnm. Imago esl oratio demonslrans  corporum aut naturarum simililudinem. Collatio  est oratio rem cum re ex similitudine conrerens.  Esempi um est, quod rem aucloritate, aut casu alicuius hominis, aut negotii confirmai aut infirmai. Ilorum esempla et descriptiones in praeccptis clocutionis cognoscenlur. Ac fonsquidem confirmationis, ut facullas tulit, apertus esl, nec minus di lucide, quam rei natura fercbal, demonstratus est: quemadmodum aulem quaeque conslilulio et pars conslilutionis et omnis controversia,  sire in ralione site in scriplo versabitur, traeteli  debeai, et quae in quamque argumenlationes convenianl, singillalim in secundo libro de uno quoquo genere diccmus. In praesenli lantummodo numcros et modos et parles argumenlandi confuse  et pernii Miro dispersimus; post descriple et electe  in geiius quodque causae, quid cuiquc convenia 1,  ci liac copia digeremus. Alque inveniri quidem  omnis es bis locis argunienlalio poterli: inventaro  ciornari et certas in parles distingui et suavissirnum esl, et suinroe necessarium, et ab artis scriplnribus maiimc negleclum. Quarc et de ea praeceptioue nobis et in hoc loco dieendum visum esl,  sii ad inventionem arguincnli absolulio quoque argumcnlandi adiungerelur. Li magna cum cura et  diligenfia locus file omnis considerando esl, quod  rei non solum magna ulilitas esl, sed praecipiendi quoque summa difllcullas. credibile, o in una giudicala , o iu una paragonabile. É segno ciò che cade soilo qualche senso e significa un che, il quale par derivato da esso segno, c fu prima del fatto, o nella gestione, o  vrnne iu conseguenza di esso, ma che nondimeno  ha uopo di testimonio e di esser meglio confermalo, come è il sangue, la fuga, il pallore, la polvere, e cose altrettali. E cosa credibile quella, cui  l' uditore si rappresela per si falla senza esservi  indotto da alcun testimonio, come sarebbe : Non  *' ha nessuno che non brami sani, salti e felici i  suoi figliuoli. Il giudicalo i una cosa che vien renduta ferma e immutabile o dall' assenso, o dalla  autorità, o dal giudicio di una o più persone. Questa specie di probabile è di tre maniere, religioso, comune, approvato. Religioso ò quello che tiene stabilito da un giudicio fallo secondo le leggi  da persone giurale. Comune è quello che da lutti  è generalmente commendalo e seguila, coma sarebbe: clic si dee levarsi al sopraggiungere di uomo attempalo; clic si dee aver pietà dei supplichevoli. Approvalo i quello che, scndo dubbio se si  dovesse aver in conio di bene o di mal fallo, gli  uomini stessi con la loro autorità hanno stabilito  in che conio si dovesse avere; per esempio: Fu approvato dal popolo il fallo di Orazio che uccise la  sorella, mentre essa andava in pianto perchè era  slato vinto il Curiazio nemica dei Romani; oppure fu approvalo il fallo di Gracco il padre,  tanto , clie il popolo Romano per rimeritarlo di  esso, cioè dire di aver nella censura operala ogni  cosa di ron-erlo col collega, dopo la censura lo  fece entrar consolo. Paragonabile è quello che in  cose diverse pur contiene alcun che di simile. Ila  Ire parli: imagine, confronto, esempio. Imaginc  è un discorso che dimostra la somiglianza dei corpi o delle nature. Confronlo è un parlare che conpara una cosa con un'altra per ragione del loro  assomigliorsi. Esempio è ciò clic conferma o abbaile una rosa con l’autorità, o con l'accidente avvenuto a una persona, o col successo di qualche  altare. Di qucsle specie di paragonabile si vedranno gli esempi e una sposizionc piu distesa là dove  si daranno 1 precetti della elocuzione. Fin qui si  son messi in manifeslo i principii della conferma- •  zinne, secondo che io ho saputo fare, e illustrato  con quella chiarezza elle domandala la natura dell'argomento che trotini. Come poi debba maucg  giarsi ogni costituzione ed ogni parie di esia, e  cosi ancora ogni conlrotcrsia, sia die essa versi  circa la mente dello scrillore, sia che circa le parole stesse dello scrino, e quali argomentazioni  calzino bene a ciascuno di questi articoli, si vorrà  dire sparliiamenlc nel secondo libro. Finora io ho  posto qua e là soltanto in ammasso c alla confusa Omnis igilur argomentalo! aul per induclioneni (racla mia est , aul per raliocinaliouem.  Induclio est oratio. quae rebus non dubiis captai  adseusiones eìus, quicum inslituta est; quibusadsensionibus facil, ut illi dulia quaedain res propter similitudincm carum rerum, quibus adscnsil, probetur; velili apud Socralicum Aeschinem  dcmonslrat Socralcs min Xenopliuntis uxorc cl  cum ipso Xcnnplionte Aspasiam locutam: Die milii, quaesn, Xcnopliomis uxor, si vicina tua melius  habeat aururn. quani tu habes, utrum iltiusnc an  luutu malis? Illius, inquii. Quid, si vestem et cetiTuin oruatum mulicbrcin preti! maioris habeat,  quain tu habes, luumnc an illius, melisi Itespondil: Illius vero. Agcsis, inquii, si virum itla indiorem habeat, quam tu habes, ulrunine luum virum  malis, an illius? Hic inulier erubuit. Aspasia autem sermonom cum ipso Xenophqule instiluil.  Quaeso, inquii, Xcnophon, si vicinus tuus equuin  meliorem habeat, quain tuus est, luumnc equuin  malis, an illius? Illius, iuquil. Quid, si luminili  meliorem luibeal, quam tu habes, utrum tandem  fondimi Iutiere malis? illuni, impili, meliorem  scilircl. Quid, si uxorcin meliorem liabeal, quam  tu habes, iilriim illius malis? Alque Ine Xenoplion  quoque ìp-e lacuil Posi Aspasia : Quoniam ulerque vestrùin, inqud, id nnhi solum non respondil, quod ego sobilli uudire volucram, egomel dicam, quid ulerque cogilel. ,\am el lu, uiulicr, oplimum virum vis balere, cl tu, Xcnophon, uxoretn liaberc loclissimatn maxime vis. Quare, nisi  hoc perrecerilis, ul ncque vir mclior ncque femina liclior in lerris sii, profeo.lo semper id, quod  oplimuin potabili! esse, imillo maxime pcquirelis, ul cl lo marilus sis quam oplimae , el lisce  quain optimi) viro mipla sii. die quum rebus non  dubiis ossei ad*cn : um, factum esl proplcr simi   li numero delle argomentazioni, e i modi di farle,  e le parli di esse: verrò poi da dover (ulta questa  materia disporre con ordine e sceltezza rispetto a  ciascun genere di causa c a ciò che a ciascuna  causa si conviene. Dal dello finora si potrà rinvenir ogni argomentazione clic fa d’ uopo; ornarla  poi che si ì rinvenuta, c distinguerla uclle sue  parli, è cosa assai piacente a fare; senzachè è al  sommo necessaria, eziandio clic dagli scrittori di  retorica affano niente curata. E per questo Ionio  ch'io trovo di dover qui dare alcuni preconi eziandio sopra ciò, perciò dopo la invenzione dell’ argomento si venisse anche a sapere in quali modi  ci si debba pur adoperare. E questa parie vuoisi  svolgere tutta con mollo di attenzione c di esattezza, non pure perciò essa è di grande utilità,  ma ancora perchè è diOicilc assai il darne i precetti relativi. Ogni argomentazione bassi a fare ri per  induzione, o per raziocinio. Induzione 6 un discorso, ii quale alle cose non dubbie accatta l'assenso di colui con cui si parla; c la che per (aie  assenso egli approva una cosa dubbia per la somiglianza die passa tra questa e quelle, a cui altre  volte egli ha già dato il suo assenso. No dà un esempio Socrate presso Eschinc, clic tu della sua  scuola , là dove dice che Aspasia tenne questo ragionamento con la moglie di Senofonte e  con Senofonte istesso: Diurni, di grazia, o moglie di Senofonte, se la tua vicina avesse più bello  fornimento d'oro che tu non hai, ameresti meglio  il tuo, o qucllu di colei? oh! quello di colei, rispose. E se porlasse il vestire c l’altro ornalo muliebre di prezzo più vantaggialo che non porli lu,  vorresti le robe tue, o non più preslo quelle dì  lei? Affò, rispose, quelle di lei. Dimmi ancora,  soggiunse, se ella avesse marito migliore del tuo,  vorresti il tuo, ovvero quello di lei? Qui la donna  arrossì. Aspasia poi rivolse la parola a Senofonte  istesso, e gli disse; Di grazia, Senofonte, se il tuo  vicino possedesse un cavallo più prestante die  non è il tuo, vorresti anzi ii tuo, clic avere quello di lui? Quello di lui, rispose. E se possedesse  un fondo che avesse miglior essere che il tuo non  ha, vorresti piuttosto quello di costui? Si certo,  rispose, qucllu di costui. E se aresse moglie mi;  gliure della tua, quale brameresti delle due ? E  qui lo stesso Senofonte si tacque. Allora Aspasia:  Giacché l'uno e l’altro di voi, disse, ciò solo non  mi rispose clic anzi era il solo elle io voleva udire, dirò io ciò che voi due pensale. Tu, o moglie,  vuoi avere il miglior di lutti i mariti: e tu. Senofonie, la moglie di tutte migliore. Laoude, se voi  non giungerete a fare che non ci sia al mondo nò  un uomo migliore degli altri, nè una donna delle liludinem, ut etiam illud, quoti dubium videbatur, si quis stqiaralim quacrercl, id proptcr rationcm rogandi conccderetur. Hoc modo sermonis  plorimum Socralcs usus est, propterca quod nihil ipsc adrerrc ad perSuadcndum volcbal , sed  ci co, quod sibi ilio dederat, quiciim dispulabat,  aliquid coufìcere malcbal, quod iJlejci co, quod  iam concessissel, necessario approb. ro debercl. Hoc in genere praacipiendum nobis vi  delur primum, ut illud, quod inducemus per simillludinem, ciusmodi sii, ut sit necesse concedi.  Nani ex quo poslulabiimis nobis illud, quod dubiuin sit, concedi, dubium esse ìd ipsum non oportebit. Deinde illud, cuius coniìrmandi causa Gel  induetio, tidendum est, ut simile iis rebus sit,  quas rcs quosi non dubias ante induxerimus (nam  aliquid ante concessum nobis esse nihil proderit,  si ei dissimile crii id, cnius causa illud concedi  primum xoluerimus) ; deinde non inteltigal, quo  sperlcnt illae primac induclionrs, et ad quem sin!  cxiluni porventurae. Nam qui vìdei, si ei rei, quam  primo rogetur,rectc adsensciil, illain quoque rem,  tjuae Sibi displice.it, esse necessario conccdcndam, plerumquc aut non respondendo, aut male  respondendo, longins rogalioncm procedere non  siml. Quare rationc rogationis imprudens ab eo,  quod concessi), ad id, quod non sull concedere,  deduccndus esl. Evlremum autein aut taccalur  oporlcl, aut conccdatur, aut urgetur. Si negabilur, aut ostcndenda similitudo est carum rerum,  quae ante conccssae sunt, ani alia utendum induellane. Si concedctur, concludonda est argumenlatio. Si tuccbilur, aut clicieuda responsio esl,  aut, quoniani lacitumilas imilatur confcssioncm,  prò eo, ac si concessum sit, concludere oporlebit  argunienlationcm. Ha fu hoc gentis argumentandi  Iripertilum: prima pars ex similitudine constai una  pluribusvc; altera ci co, quod concedi volumus,  cuius causa simililudincs adhibilac sunt ; tcrtia  ex conclusione, quae aut conGrmal concessionem,  aut quid ex ca conOciatur oslcndit. altre più egregia, per fermo voi sempre agognerete ciò die slimìatc essere il migliore, voglio dire che tu vorrai esser marilo della più prestante,  e che costei vorrà avere il più prestante per suo  marilo. Qui dunque fu dato assenso a cose non  dubbie, cppcrò per ragione delia somiglianza avvenne che anche quello, die saria partito dubbio  a chi I* avesse cerco separatamente, fu conceduto  per certo per la somiglianza delle interrogazioni.  Usò più volte Socrate questo modo di ragionare, siccome colui che non volea da sè proferir  nulla clic conducesse a persuasione, ma amava  meglio da quello che gli porgeva la persona con  cui dispulaia, trame una illazione tale, che quella persona, appunto per causa di quanto avea concesso, dovesse necessariaoienle approvare. Circa alla induzione, il pruno precetto  che io fo ragione di dover dare.'ù questo; clic li  induzione che si fa per similitudine sia (ale elicsi  debba di necessità concedere. Non dovrà punto  esser dubbia la cosa, merci di cui domanderemo  che sia dato assenso a quella che è dubbia Inoltre c da ba dar bene che quello, in conferma di  clic si farà la induzione, sia simile alle cose clic  avremo innanzi rappresentale per quasi non dubbie ( giacchi non ei gioverà punto che qualche  cosa ne sia stala innanzi concessa, se a questa Ila  dissimile quella, per cui cagione avremo voluto  che ne sia conceduta' la prima ) ; dipoi s’ ha da  provvedere che l'avversario non possa addarsi dove vadano a batter le prime induzioni, c a quale  uscita sieho per venire. Conciossiacbi chi si accorgesse clic se darà assenso olla prima cosa di  elle è interrogato, dovrà necessariamente darlo  altresì a quella che gli ripugna, costui o col non  rispondere, o col risponder male, non lasccràebc  la interrogazione se ne vada molto alla lunga.  Laonde s' ha da teucre una lai guisa d’interrogare, che l'avversario, senza clic vi faccia pensiero,  sia condotto da quello clic concesse a concedere  anche quello che non vorrebbe. Però I' ultimo  punto della interrogazione dee esser taciuto , o  concesso, o negalo. Se lia negalo, allora o deesi  mostrare la similitudine che t’ha tra esso e gli altri punti clic prima furono conceduti, ovveramentc deesi lar uso di nu'allra induzione. Se il punto  ultimo Ga concesso, si dee chiudere l'argomentazione. Se in Gne sarà taciuto, o si dee fare di prò  vocaruc come die sia la risposta, ovvero, siccome il silenzio rassomiglia in ccr o modo alla confessione. si dovrà venire alla chiusa dcll’argomcnlazionc appunto come se l’avversario avesse risposto affermatitainenlo. Cosi questa maniera di argomentare viene ad aver tre parti; la prima con- l.i  di una o più similitudini, la seconda consta di Seti quia non salis alicui videbilttr  dilucitle demonstralum, nisi quid ei chili causarum genere esempli subiccerimus, videlur eiusmodi quoque Sitcndbm t^cVnpió' noti quo' pweceplio dilTeral, aul aiitcr hoc in sermone atque in  dicendo sii ulendum, se'd ut eorum volunlaii aqtis  Dal, qui, quoti allrjuo in loco viderunl, alio in  t ‘ loco, Risi mpnatratum.mequeSnt cognoscerc. Ergo  in hac causa, qaoe aputTGraeeos eaLpgnagala,  quod Epaminondas, Thebanorum imperaler, ei,  qui sibi ci lege praclor successcrat, eiercilum  non Iradidit, cl, quum paucos ipsc dics conira legem oneri inni) lenuisset, Lacedaemonios funditus  vici!, poleril occupato* argumenlatione uli per inly^clioncm, quum scr : ptum legis conira senlenliam defendat, jd hunc modum: Si, iudiccs, id,  quod Epaminondas ail legis scriplorem sensissc,  as ribat ad legem, et addai Itane ezceplionem:  exira guani si quia rei publicae causa exercìlum  non tradideril, paliemini ? Non opinor. Quod ai  vosmel ipsi, quod a vostra religione cl sapienlia  remolissimum est, islius honoris causa liane eamdem eiceplionem iniussu populi ad legem ascribi  iubealis, populus Tliebanus id patieturne Aeri ?  Profcclo non palietur. Qu«t, ergo ascribi ad legem nefas est, id sequi, quasi aseriplum sii, recium vobis videalur ? Novi veslram inlclligenliam;  non polcsl ila voleri, iudices. Quod si lillcris corrigi neque ab ilio neque a tobis scriploris voluntas polest, videle ne multo intlignius ail, id re et  iudicio vestro mulari, quoti ne verbo quidem comrrttibiri polest. ,tc de inductionc quidem salis in  prac^|tia dictuin videlur. Nunc deinceps ratiocìnalionteyim et naluram considercmus. Ratiocinalio est oralio ei ipsa re probabile aliquid eliciens, quod eiposilum el per se  cognilum sua se vi cl ralione conflrmel. Hoc de  genere qui diligenlius cousitlerandum pulaverunl     quello che vogliamo ne sia concesso, e per cui le  similitudini si sono adoperate ; la terza contien la  chiusa, la quale o conferma la concessione o mostra che conseguenza se ne può trarre. Ma poichi poiria sembrare a taluno  che tulio questo non fosse dimostralo con chiaroaza, ai ^ansassi dall' apparvi qualche poco  ‘•d'csernjift trailo dalle cause di qualità civile, io  vorrò pur addurle un esempio adatto alla matc> ria, non perchè belle cause, sia diversa la regola,  di farej' induzione o nel linguaggio oratorio sia  da farne altro uso da quello che si fa nel filosofico, ma per àStjàr a' versi di quelli che ciò che  hanno veduto in un luogo non sanno ravvisar in  un altro, se loro non sia dimostro e fatto conoscere. Or bene, togliamo l'esempio da quella causa che presso i Greti caper le bocche. Epaminonda comandante de* Tebani non volle consegnar l'esercito, come era di legge, al pretore che  veiùvqgli "àufrogalo, e tenutolo cosi illegalmente  alquanti giorni, in questo mezzo ruppe di santa  •ragione i Lacedemoni. Qui potrà l'arcusalorc argomentar per induzione , difendendo quanto è  scritto nella legge ad onta del senso che vi si volesse sottintendere. Procederà dunque cosi : Se  Epaminonda, o giudici, aggiungesse alia legge  ciò eh' egli dice aver avuto in intenzione il legislatore , e vi affibbiasse questa eccezione, che  non è espressa: salvo il caso che tui capitano trovasse esser d' utilità alla repubblica il non consegnare l'esercito a chi si spella, ve lo comportereste voi? No, mi do a credere. Che se voi stessi ( il clic troppo si dilungherebbe dalla vostra co  scienza e saviezza) comandaste che per onorare  Epaminonda si dovesse aggiungere alla legge la  eccezione stessa, che della è, se ne starebbe forse  contento questo popolo di Tebe? Non se ne starebbe egli per certo. Ciò dunque che non si può  aggiungere alla legge vi par ben fallo che si metta in pratica come se aggiunto già fosse ? So che  voi siete persone d'intelligenza, e per questo io  credo che ben fatto, o giudici, codesto non vi debba parere. Che se Epaminonda nè voi altri non  potete per veruno scritto correggere la volontà  del legislatore, badale che saria cosa troppo più  indegna che voi con l'opera e giudicio vostro veniste a mutare quella volontà che neppure con lo  scritto non si può ni anehe correggere. Ma della  induzione mi pare aver detto abbastanza per ora.  Entriamo a far parola stilla forza e sulla natura  del raziocinio. Raziocinio è un discorso che dalla  cosa probabile trae fuori qualche nuota proposizione, la quale esposta che sia, siccome è nota per  si, è confermata dalla slessa sua forza e carattere,     Digitized by Google      unno i.     quum idem usu direnili scquerenlur, paullulum  in praccipicndi ralione disscnscrunt. Nani par litri  quinque cjus partes erse dixerunt, panini non  plus quam in Ircs parici posse distribuì putaverunt. Eorum conlrovcrsiam non incommodum vidclur cum ulrorumque ralione ciponere. ft'ain cl  brevis est, cl non ejusmodì, ut alteri prorsus nihil diccre pulcntur, et locus hic n -bis in dicendo minime negligendo videtur. Qui pulanl in  quinque distribuì parles opurlcrc, nj uni primum  convenire cxponcrc summam argumcntalionis.ad  liunc modum : Melina accuranlur, quae consilio  gcrunlur, quam ipjae siile consilio adininistranlur. liane primam parlcm numeranl ; cain dedico ps ralionibus variis cl quam copiosissimi! verbis approbari pulant oporlcre, boc modo : Humus  ca, quae ralione regilur, omnibus est inslructior  rebus et apparalior, quam ea, quae temere et  nullo consilio administralur. Esercitila is , cui  praepositus est sapiens cl callido impcrntor, omnibus partibns commodius regilur , quam is ,  qui slullilia et Icmcrilalc alicujus adminislralur.  Eadem navigli rollo est. Nam navis oplimc cursum  coniìcil ea, quae scientissimo gubcrnatorc ulilur.  Quum proposilio sii boc paclo approbala, et dnac  parles Iransierinl raliocinationis, Icrlia in parie  ajunl, quod oslenderc velis, id ex vi proposilio*  nis oporlcre adsumcrc, hoc paclo : Niliil aulem  omoium rerum melius, quam omnis mundus, ad*  minislraiur. Ilujus adsumplionis quarto in loco  aliam porro inducunl approbationem, hoc modo :  Nam cl signorum ortus cl obilus delinitum quemdara ordinem serrani, cl annuac commulalioncs  non modo quadam ex necessiludinc semprr eodem modo Qunl, veruni ad ulililalcs quoque rerum omnium sunt accomodarne, et diurnao nocturnaeque vicissiludines nulla in re umquam mutalae quidquam nocuerunl; quae sigilo sunl omnia non mediocri qundam consilio naluram mundi adminislrari. Quinto inducunl loco complcxionem cam, quae aul id inferi solimi, quod ex omnibus partibns cogitur, boc modo : Consilio igilur  mundus adminislralur: aul unum in locum quum  conduxeril breviler propositionem el adsumplio*  nem, adjungil, quid ex bis conlìcialur, ad lume  modum: Quodsi melius gcrunlur ca, quae consilio, quam quae sine consilio adminislranlur, nitrii aulem omnium rcrum melius adminislralur,  quam omnis mundus ; consilio igilur mundus adminislraiur. Quinquopertilam igilur Ime paclo pulsiti esse argumentationem. Quelli clic hanno posto più di csaltczza nel trattare su questa specie di argomentazione, benché  si attenessero nel discorso alla sostanza slessa, si  allungarono perù alquanto gli uni dagli altri nel  sottoporla a regolo. Alcuni dissero avere il raz n  cinio cinque parli, altri non gliene diedero più  clic tre. i\on è dunque fuori di proposito clic io  venga discorrendo la costoro conlrovcrsia c le  ragioni di clic e gli uni e gli altri si avralorano,  tanto più ch’cssa è breve, e uon di lai sorla, clic  non vi si trovi della cosa di qualche mollicelo;  e d'allro lato è una argomeutazionc elio ncll'arringarc non si vuol mcllorc in cesso. Quelli clic  stimano doversi il raziocinio dividere in cinque  parli, dicono che si conviene per primo pronunziare la somma dell'argomentazione, come sarebbe: Meglio si procurano le cose elio si fanno dietro considerazione, di quelle clic si fanno senza di  essa. Que-un mi Mono in conto di prima parte, e  credono clic la si debba ili mano in innno comprovare tra con ragioni varie c incisi assai abbondanti  di parole. Foniamone questi esempli : l.a casa clic  ù diretta giudiziosamente è mollo più fornita ili  bisogni o di apparalurc clic non è quella , la  quale è diretta a capriccio e senza fior di buon  senno. L'esercito che ha per capo un uomo savio e sagace è regolalo per ogni verso più con  vcncvolmcntc che quello non è, il quale ha per  sopracciò un midollonaccio temerario. Dicasi lo  stesso della nave; poiché la nave fa ottimamente  il suo corso, se 6 guidata da un pilota clic si cono  sca bene dell'ano sua. Comprovala clic sia ili que  sio modo la proposizione, e toccale cosi due parli del raziocinio, dicono clic nella terza parte si  dee pigliare dal forte ridia proposizione ciò che  lu vorrai dimostrare, come sarebbe: Ma di tulle  cose nessuna è meglio governala elio il mondo  universo. Di qucsla nuova proposizione aggiungono pure la sua prova, a questo modo. Foicliè il  nascere c il tramontare, degli astri serba un ordine inalterato, e le stagioni dell'anno noe solo succedono sempre allo stesso modo per quella certa  necessitò che loro ha imposta la natura, ma son  altresì accomodale all'ulile andamento di tulle cose, c le vicissitudini diurne e nolturnc in nessuna  parie mai minale non recarono mai di nocumrn 10 nè un menomo che; le quali cose danno sicurtà  che il mondo è governalo da provvidenza non  lieve. Danno il quinto luogo alla chiuso dcll'argoincnto, la quale o ciò solo concliiude, che da tulle  le parli si viene a conchiuderc, siccome sarebbe :   11 mondo è dunque governalo con provvidenza:  ovvero allora quando e la prima e la secooda proposizione saranno brevemente condoltc n far capo  c conchiuderc, aggiunge la illazione che da queliti Qui aulem Iripcrlilam esse dicunt , li  non aliler Iraclari puljiit oporlere argumenlationcin, srd parlitionem borimi rcprchendimt. Ncganl cnim ncque a proposiliouc ncque ab adsumplionc approbaiioncs caruin separar! oporlere,  neque propnsilioncm absolulam , ncque adsumplionem sibi pcrfcctam vldcri, quac approbalionc  coufirniala ncn sii. Quare quas illi duas partes  numcreDt, prnposilioncm cl apprubalioncm, sibi  unam partem vidcri, proposi lionem ; quae si apprettala non sii, proposìlio non sii arguincutalionis. Item. quae ab illis adsuinptio el adsumptionis approbalio diralur, eamdcin sibi adsumptionem solam vidori. Ila (ir, ni cadeni raliouo argumentatio Iraelala aliis Iriperlila, aliis qoinqiicpcr  lila tidealur. Quare evcnit, ul res non lam ad  Usiim diccndi pei lineai, quain ad ralionem praeceplionis. .Nobis aulein cormnodior illa parlilio vidclur esse, quae in quinque parlcs dislribula est,  quain omnes ab Aristotele el Tlieopbraslo profecli  ma lime seculi suiti. Nani queinadinuduni illud  superius gcnus argumcntandi, quoti per inducilonem sumilur, inastine Socralcs cl Socratici Iraclamnl, sic hoc, quoti per raliocinalionem espolitur,  stiniute est ali Arislolelc alque a l’cripalclicis el  Tlieopbraslo frequenlalum, deinde a rlieloribus  iii, qui cleganlissinii alqun arliliciosissimi pulali  sunl. Quare aulem nobis dia ruagis parlilio probetur, dicendum vidclur, nc Icmere seculi pulemur; cl bretiler dicendum, nc in liujusmodi rebus diulius , quain ralio praecipiendi postulai,  emumoremur. Si quadam in argumcnlutione salis esl  uli proposiljonc, el non nporlet adjungcre apprabalionem propositioni, quadam aulem in argumcnlaiinne infirma esl proposito, nisi adjuncla sii npprobalio, separnlum esl quiddam a proposiliono  approbalio. Quod enim el adjungi et separali ab  aliquo potasi, id non polcst idem esse, quod esl  id, ad quod adjungilur cl a quo separalur; est  aulem qunedam argumenlalio, in qua proposìlio  non indigel approbationis, et quaedam , in qua     le si Irac, siccome sarebbe: Che se meglio vanno  le cose che son governale da provvidenza di quelle  clic noi sono, e se di lune la meglio governala è  il mondo universo; il mondo adunque si governa  per provvidenza. Per queste ragioni erodono che  il raziocinio sia divisalo in cinque parli. Quegli altri poi che dicono esser il raziocinio di Ire parli, non credono già che s'abbia  da variare l'argomentazione: disapprovano le cinque parli solo perchè non credono clic si debba  dalle due proposizioni sceverare le due prove, e  trovano nè intiera la proposizione prima, nè ben  compiuta la seconda, so E una c l'altra non porla  seco la prova clic la conferma. Laonde mentre i  faulori delle cinque parli fan due parli distinte la  proposizione e la prova, i faulori delle Ire riducono queste due a ima sola, c la dicono ricisamente  proposizione ; la quale se non ha unita la sua prava, non è punto la proposta dell’argomentazione.  Similmente la seconda e la prova di essa , clic i  primi dicono esser due parli, i secondi ristringono a una parie sola. Da ciò deriva che un’argo  lucidazione per raziocinio, comechè (rullata nello  slesso modo, da altri è tenuta perdi tre, da altri  per di cinque parti ; il che non lanlo risgu8rda  I' uso clic ne dee far l'oratore, quanto riguarda la  maniera di stabilire i precelli circa a questa malerio. Se ho a dir ciò clic io senio, io trovo esser più  acconcia la dislribuzione del raziocinili in cinque  parli, la quale fu seguila da quanti vennero dopo  Aristotele c Teofraslo. E elio quesli nomi perchè  come l'argomcnlar che si fa per induzione, di rhe  è dello, fu seguilo da Soerate c da quelli della  sua sella, cosi questo argomentar clic si fa per  raziocinio fu mollo di frequente usalo da Arislolelc c dai Peripatetici c da Teofraslo, 0 poscia da  quei relori che furono de’ piò nominali per eleganza ed artifizio. Quale sia poi l'itnpcrcliè, onde   10 approvo la partizione in cinque, fo ragione di  doverlo dire, a causi che non si credesse che io  m’avventassi in questa opinione senza pensarci  sopra. Il farò uundimeno alla breve, per non di  morar in queste cose troppo piò che non richieda   11 mio assillilo di sporre i precelli dell' arie che  ho per mano. Se v' ha di quelle argomentazioni in  cui basta la proposizione sola, c non v’ è mestieri  soggiungerne la prova, c se per conira v’ ha di  quelle che ini Illudono una proposizione clic vacilla, c non regge, ove non le sia aggiunta la sua  prova, nc segue che la prova è un che di separalo dalla proposizione. Perocché una cosa clic s'aggiungo a un' ultra, o che si separa da essa, non  può esser la slessa con quella a cui si aggiunge,  o da cui si separa. Ma c vi sono argomentazioni , mini valel sino approbalioue, ul oslcndemus. Separala igilurcsla proposilione approbalio Ostendctur autem iti, quod pollicili surcus, hoc modo:  Quae proposilio in se quiddam conlinct perspicuum, el quod slarc inler onmes nccessc est, liane  velie approbarc el Ormare nihil allinei. Ka est hujusmodi : Si, quo die isla cacdcs ltouiac racla est,  ego Allienis eo die fui, iu cacdc interesse non po  lui. Hoc quia perspicue veruni est , nihil allinei  opprobari. Quarc adsunii slatim oportcl, hoc modo: Fui auleni Allienis eo die. lloc si non constai, indiget approbalionis ; qua iuduela, complctio coDsequeltir. Esl igilur quaedam proposilio,  quae non indiget approbalioue. Sani esse quideiu  quumdaui, quae indigeni, quid allinei oslendcrc,  quod cuivis facile perspicuum est? Quod si ita  est, ex hoc, el ex co, quod proposueranms, hoc  coiiflcitur, separatum esse quiddam a propostone approbalionem. Sin autem ila esl, falsum esl  non esse plus quam Iripcrlilain argumcnlalionem.  Simili modo liquet allcram quoque approbalio  nem separalam esse ab adsumplionc. Si quadani  io argumenlalione salis esl uti adsumplionc, el  non oporlct adjungcrc approbalionem adsumptioni; quadam autem in argumenlalione infirma esl  adsumptio, nisi adjuncla sii approbalio: scpnralum quiddam exira adsumptiooem est approbalio.  Est autem argumculalio quaedam, in qua adsumplio non indiget approbalionis; quaedam autem,  in qua nihil vaici sino approbalionc, ul ostendemus. Separala igilur est ib adsumplionc approbalio. Oslendcmus autem, quod pollicili sumus,  hoc modo : Quae perspicuam omnibus vcriialem  cominci adsumptio, nihil indiget approbalionis.  Ea est hujusmodi : Si oporlct velie sapere, dare  operaci philosophiae convenil. Hacc proposilio  iudigel approbalionis ; non rnim perspicua esl,  neque constai inler omnes, proplerea quod multi  nihil produsse philosophiani, plcrique ctiam ohesse arbilranlur. Adsumptio perspicua osi; est  cnim baco: Oporlct aulem vello sapere. Hoc quia  ipsum ex se perspicilur, el vergai esse inlcliigilur, nihil allinei approbari. Quare slatim concludenda est argumculalio. Est ergo adsumptio quaedam, quae approbalionis non indiget ; nain quamdam indigere perspicuum esl. Separala est igilur  ab adsumplionc approbalio. Falsuin ergo est non  esse plus quam Iripcrlitam argumcnlalionem. in cui la proposilione non ha necessaria la prova,  e v’ ha di quelle, in cui la proposizione senza la  prova non ha nessun valore, come si dimostrerà.  È dunque la prova una cosa separala dalla proposizione. Or io dico, secondo clic ho qui promesso  di dimostrare, che una proposizione , la quale  contiene iu se qualche verità evidente, c che non  può clic non sia da tulli tenuta per ferma, non ha  necessità di esser provata e ribadita. Jio sia questo un esempio : Se io era in Alene il giorno in  cui fu fallo a Roma questo gran taglio di gente, è  cerio che iu non mi vi poteva trovare iu mezzo.  Quella proposizione che è evidente, non ha bisogno di prova. So dee perciò porre in mezzo la seconda proposizione, cioè : Ma in quel giorno io  fui in Alene. Se questo non consta, se ne dee dar  la prova, e datala ne seguirà la conclusione. V’ha  dunque una specie di proposizioni che non hanno  uopo di prova : esservene poi di quelle clic ne  hanno uopo, non imporla dimoslrarlo, perché non  c’è chi non se lo sappia. Che se cosi è, si per questo e sì per quello che ho dimostralo, ne consegue che la prova è un che di separalo dalla proposizione. E se questo é vero, dunque è falso che  rargomcnlazione per raziocinio non abbia piò che  Ire parli. Per cgual modo ì chiaro clic anche la  seconda prova è separata dalla seconda proposizione. Se in qualche argomentazione basta toccar  la proposizione seconda di per sè, c non è mesliero di aggiungervi la prova ; c in qualche altra  la proposizione seconda è debole, se la prova non  le sia aggiunta, ne segue che la prova seconda è  audio essa un clic di separalo dalla seconda proposizione. Mn v'ha argomentazioni iu cui la della  proposizione non abbisogna di prova, c ve »’ ha  altre, in cui essa proposizione non tal punto, se  non sia provala, come si dimostrerà. È dunque la  seconda prova separala dalla seconda proposizione. Or io dico, per dimostrare ciò clic qui ho  promesso, che la seconda proposizione che contenesse una verità a tulli evidente, non abbisogna  di prova. Eccone un esempio: Se preme di voler  venire in sapere, e' si dee metter opera alla filosofia. Questa proposizione ha bisogno di prova,  perchè non è evidente, nè tenuta da lutti per vera, essendo che molli sou di credere che la filosofia non giova, c molli piò che anzi ella nuoce.  Bensì è evidente la seconda proposizione , cioè :  Ma dee premere il voler venire in sapere. E questa, perchè è una verità per sè patente e da lutti  ritenuta per tale, non abbisogna di essere comprovata. Si vuol quindi venir subito alla chiusa  dell' argomentazione. V ha dunque una specie di  proposizioni, parlando delle seconde , che non  hanno mestieri di prova, c ve n’ ha dì quelle che si »ede chiaro »eme mestieri. Dunque la proposizione seconda è cosa separala dalla sua prora.  Epperò è falso non potersi l’ argomentazione per  raziocinio dividere in più che tre parti. Alque ex his iltud jam pcrspicuum Da tutto questo si par chiaro che si  est, esse qnamdam argumcnlationem, in qua nc- dà una specie di argomentaiione, nella quale ni  i|uc propositio ncque adsumptio imligcat appro- 13 prima ni la seconda proposizione ha bisogno  hationis, hujusmodi, ut crrtum quiddam et breve jj prora. Ne reco qui un esempio, brere, e che  esempli causa ponamus: Si summo opere sapien- sta garante di quanto io dico : Se si dee cercare  lia pe tenda est: summo opere stultitia vitanda di gran maniera la sapienza, si dee di gran mais! : Summo aulem opere sapicntia pctcnda est : uiera guardarsi dalla stoltezza : ma la sapienza si   tummo igitur opere stultitia vitanda est. tlic et dee cercare di gran maniera; si dee dunque guar udsumptio et propositio perspicua est ; quare darsi di gran maniera dalla stoltezza. Qui si la   neutra quoque indiget approbatinne. Ex bisce prima che la seconda proposizione £ una verità ,  omnibus illusi pcrspicuum est , approbationem non abbisogna dunque di prora nè l'una nè l'altra,  min adjungi, lom non adjungi. Ex quo cogno. Di qua apparisce a chi che siasi che la prora ora  scilur ncque iu propositionc neque in adsum- si aggiunge, ed ora no; onde è chiaro altresì quepliono contineri approbationem , sed utramque sto, che nè nello proposizione maggiore, nè nella  suo beo poiitam vim suoni tamquam certam et minore non si contiene la prova lor propria, ma  propriam oblinerc. Quod siila est, eommodc che ciascuna di esse proposizioni posta a suo luopartili sunt illi, qui in quinque partes distribuc- go ha una forza sua, che ì come una determinata  runt argumcnlationem. Quinque suoi igitur par- proprietà. Clic s'ella è cosi, ben fecero coloro che  Ics ejus argumcnlationis, quac per raliocinatio- hanno divisa in cinque parli siffatto argomcntaiieui tractatur; propositio, per quam locus is bre-_.zioue. Cinque son dunque le parli della argoviter eiponitur, ex quo vis omnis oporlct cmanel mcnlazionc che si conduce per via di raziocinio,  ratiocinalionis: proposilionis approbatio, per quam voglio dire: la proposizione maggiore, per la   id, quod breviter exposilum est, rationìbus adlir- quale si spone brevemente il punto che contiene  matum, probabilius et apertius IH ; adsumptio, tutto il forte del raziocinio : la prova di questa  per quam id, quod ex propositionc ad ostenden- propositionc, per la quale ciò che brevemente è  dum perline!, adsumilur; adsumptionis approba- cspo-lo, e ribadito con le ragioni , si rendo più  tio, per quam id, quod adsumptum est, rationi- probabile c più manifesto : la proposizione minobus firinalur; corapiciio, per quam id, quod con- re, per la quale si pronunzia ciò che dietro la  fiuitur ex ornili argumcntalione, breviter esponi- maggiore bassi a dimostrare: la prova di questa  tur. Quac plurima» habcl argumcntalio partes, ea minore, per cui si conferma con ragioni ciò che  constai ex his quinque parlibus ; secunda est qua- fu pronunziato : la conclusione, con cho di corlu  dripcrlita; lerlia Diportila ; deiu bipartita; quod si espone ciò che risulta dall’ argomentazione inni controversia est. De una quoque parte potcst fiera. Ogni argomentazione ha più parti : la più  ulicui vidcri posse consistere. numerosa conta le cinque prelato ; altre ne hanno   quattro, altre solo tre, c ve n' ha che non ne conta più clic due, ma quest'ullima è in controversia.  V ha chi crede che anche ci siano argomentazioni  di una parte sola Eorum igitur, quac Constant, esempla Pertanto parlando dello parli del raponemus lioruin, quac dubia sunt, ralioncs adfe- ziocinio da tulli adollalo, io ne verrò adduccndo  remus. Quinqucpcrtila argumcntalio est buiusmo- gli esempli; c di quelle che son coiilroversc ne  di : Omncs leges, iudices, ad commodum rei pu- porrò in campo le ragioni. Il raziocinio di cinque  blicac referre oporlct, et eas ex militate communi, parli ò qui: Tullcquante le leggi, 0 giudici, si vonon ex scriplionc, quac iu littcris est, inlerprclari. gliono riferire al bene della repubblica, e intorba chini tirtulc et sapicntia maiorcs nostri lue- pretore secondo il vantaggio comune, non seconrunt, ut in legibus scribcndis niliil sibi aliud, ubi do che suonati le parole presentate dallo scritto,  salulem alque utililatcm reipublicac.proponcrcnl. Erano i nostri anhpassati di tale sapienza c virtù,  Neque eoim ipsi, quod ohcsscl, scribcre volcbant; che nello scriver le leggi non si proponcano altro  et, si scripsisscnt, quum ossei intcllectum, repu- clic la salvezza cd il vantaggio della repubblica,  dialum iri legein iiilclligcbanl. Nomo enim leges Nuli vulcano scriver cosa elio avesse potuto nuoIcgum causa salvas esse vull, sed rei publicac. cere; esc pure l'avessero scrilla, conosccano come quod et lcgibus omnes rem publicam oplime puiant administrari. Quam ob rem igitur Icges servar! oporlal, ad eam causam scripta omnia inter prctari convenit: boc est, quoniam rei publicac  servimus, e* rei publicae commodo atqoe utiiilate  interpretemur. Narri ut ci medicina nihii oportet  putire proflcisci, disi quod ad corporis utilitatcm  spectet, quoniam cius causa est insliluta, sic a legibus niliil convcnil arbitrari, Disi quod rei publicae conducat, proflcisci , quoniam eius causa  suol comparane. Ergo in hoc quoque iudicio desinile litteras legis perscrutari, et legem, ut aequum est, ei utililate rei publicae considerate.  Quid magis utile fuil Thebanis quam Lacedaemonios opprimi r Cui rei magia Epaminondam The  banorum imperalorcm, quam vicloriae Thebanorum consulere dccuit? Quid hunc tanta Tbebanorum gloria, taro darò atque cromato tropaeo carius atque antiquius habere convenit? Scripto videlicel legis omisso, scriptoris sentenliam consi  dorare debebat. At hoc quidem salis consideralum  est, nullam esse legem nisi rei publicae causa  scriptam. Summam igitur amentiam esse eiistimabat, quod scriptum esscl rei publicae salutis  causa, id non ei rei publicae salute interpretari.  Quod si leges omnes ad utilitatcm rei publicae  referri convenit, bicautem saluti rei publicae profuit, prorecto non potest codcm faclo et comuiunibus fortunis consuluissc, et lcgibus non oblemperasse. Qualuor auletn parlibus constai argumentatio, qtitint aut proponimus, aut adsumimus  sino approbatioue. M Tacere oportet, quum aut  propositio ex se inlelligitur, aut adsumplio perspicua est, et nullius approbatiunis indiget. l’ropositionis approbatioue praetcrìta, qualuor ci partibus argumcntalio tractatur, ad liunc tnodutn :  ludiccs, qui ex lege turati iudicalis, obtemperare  legibus dibetis. Oblemporare aulem lcgibus non  potestis, nisi id, quod scriptum est in lege, acquattimi. Quodenini ccrtius legis scriptor teslltnonium  volunlatis suae relinqucrc poluit, quatti quod i|»»c insieme clic ciò si Tosse inteso, la legge sarebbe  siala abolita. Nessuno inTalli vuole conservalo le  leggi perchè son leggi, ma perchè conferiscono al  bene dello Sialo, giacché luti! sono d'avviso ebe  per governare il meglio la repubblica fan di bisogno le leggi. Quale adunque £ il One per cui le  leggi si deono mantenere, tale dee esser il One a  cui si vogliono interpretare tutti gli scrìtti che son  di regola allo Stato: voglio dire, che siccome noi  ci adoperiamo in servigio della repubblica, cosi  dobbiam vedere d' inlerprelar le leggi secondo il  vantaggio e rutilili di essa. A quella guisa ette  si dee credere non altro venire dalla medicina,  se non ciò che aspetta al ben essere del corpo,  perchè essa è per ciò appunto islituita; alla guisa  slessa si vuol credere che altro servigio non ne  venga dalle leggi, se non quello che concorre a  mellcr In buon essere io Stalo, perchè per ciò appunto osse furono stabilite. Laonde anche in quoslo giudicio lasciate, o giudici, di ragguardar pel  sonile le parole della legge; e voi Tjrctc cosa più  giusta e dicevole, se voi applicherete la legge secondo che profitta alla repubblica. Qual piè vantaggio pei Tcbani, che quello di stremar la potenza dei Lacedemoni? Quale altra cosa s’addiceva  meglio a Epaminonda comandante dei Tcbani,  clic di arrabattarsi per la vittoria de'suoi? Che altro potea quest’ uomo aver tanto caro ed accetto,  quanto si sfolgorala gloria dei Tcbani, e si cospicuo trofeo e si magnifico ? Certo a ciò ottenere  ei non polca che lasciare dall' un de’ (ali il testo  della legge, e por meole all’ inlcozione del legislatore. E per vero ei facea ragione ebo non v’ Ita  legge che non sia scrìtta per lo vantaggio della  repubblica. Slimava dunque essere un* avventata  pazzia che quello scritto medesimo, Il quale era  fallo a vantaggio dello Sialo, s’ interpretasse a diservigio di esso. Che se tulle le leggi si vogliono  riferire al vantaggio della repubblica, e se quest' uomo alla salute della repubblica bene contribuì, cerio non è da inpulargli che ei disobbedissc  alle leggi con quel fallo stesso con cui provvido  al ben essere dello Sialo intiero. Ha quattro parli il raziocinio, quando  è senza prova la proposizione maggiore, o la minore, il che addivieneo come la maggiore s'intende di per sé, o come la minore è si evidente  che non ha necessaria alcuna prova. Quando dunque la maggiore fa senza di prova, il raziocinio Ita  quadro parli, e si svolge in questo modo : Voi altri, o giudici, clic giuraste di giudicare secondo  la legge, dovete fare la felicità c il comandamento di essa. Ma farlo voi non potete, se voi liuti se  guitc ciò clic nella legge è già scrino; poiché qual  testimonio piè certo della sua volontà potea la magna curii cura alquc diligcntia scripsit ? Quod  si liucrai» non ezstarent, magno opere eas requireremtis, ut ex iis scriptoris rolunlas cognoscerctur ; nee tamcn Epaminondae pernii tleremus, ne  si extra itnlieintn quidem esset, ut is notiis sentenliam legis inlerprelaretur, netlum nune istum  patiamur, quuiii praeslo lex sii, non ex eo, quod  apertissime scriptum est, sed ci co, quod suae  causar convenit, scriptoris roluntalem intcrprelari. Quod si vos, ìudiccs, legibus olilemperare debelis, et id fanere non potcslis, nisi id, quod scriptum est in lego, scquamìni, quid causaci est, quin  islum cuntra legnili fecisse iudicelis ? Adsumptionis aulenti npprobalionc praeterita, quadripertila  sic (ini argunicnlalio : Qui saepcnuincro nos per  Qilem f-fei I ir un t , eoruni uraliani ruleni liabere  non debemus. Si quid enim perfidia illorum detrimenti accepcrinius, ricino erit praetcr nosmet  ipsos, quem iure accusare possimus. Ac primo  quidem decipi incommodum esl; ilerunr, stullum;  terlio, turpe. Cartbaginenses aulem persaepe iam  nos fcrellcrunt. Somma igitur amentia est in eorum fide spem liabere, quorum pciQdia lotiens  deceptus sis. (Jtraquc approbatione praeterita, Iripertita (il, hoc parto: Aut mcluamus Carlbaginienses oportet, si incolumcs cos reliquerimus; aut  corum urbem diruamus. Ac meluere quidem non  oportet. Ueslat igdur, ut urbem diruamus. Suiil onte in qui putant uounumquam posse  complexione et oportere supersederi, quum, id  perspicuum sii, quod conficialur ex ratiocinatione;  quod si fiat, biperlilam quoque bari argumenlalionem, Irne modo : Si pcperil, virgo non est: pcpcrit autom. Ilic salis esse dicunt proponere et  adsumerc, quoniam perspicuum sii, quod confici, itur ex ratiocinalione ; quod si fiat, compleiionis rem non indigere. Nobis aulem vidclur et omnis ratioeinatio concludenda esse, et illud vilium  quod illis displiccl, magno opere vilandum, ne,  quod perspicuum sit, id in complciiunem inferamus. Hoc autem fieri poteri!, si comptexionum  genera inteliigenlur. Nani aut ita complccteuiur,  ut in unum conducamus propositionem et ndsumptionem, huc modo: Quod si leges omnea ad ufilitalem rei publicac referri convenil, hic autem     sciare il legislatore, se non quello di aver egli  scritta la legge con tutta la diligenza e la cura?  Che se il lesto della legge non si avesse alle mani, noi faremmo ogni potere di trovarlo, per conoscere indi qual fosse la volontà del legislatore.  E se noi non pcrmclleremmo od Epaminonda che,  ni eziandio nel caso che questo giudizio non gli  riguardasse, prclendcsse di voler inlerpretare il  sentimento della legge; mollo meno dobbiam permettere nel caso presente, in cui la leggo è qui  in pronto, eh' ei ci venga interpretando la volontà del legislatore non già secondo quello che manifestamente è scritto, ma secondo quello che risponde meglio alla sua causa. Che se voi, o giudici, dovete Tare il comandamento delle leggi, e  tuttavia noi potete, se voi non vi atteneste a ciò  clic nella legge è scrino, con quale appoggio voi  giudicherete che quest’ uomo non fece contro la  legge? Quando poi la proposizione minore fa senza  di prova, il raziocinio è di quattro parli, e si fa a  questa maniera: Coloro che ne hanno piò volle  rotta fede non son degni che noi delle loro parole facciamo a fidanza con essi; poiché se dalia  perfidia loro noi abbiamo rilevalo alcun che di  danneggioso, non nè potremo giustamente corre  cagione ad altri che a noi stessi. Lasciarsi garabullarc una volta £ cosa incomoda; lasciarsi un’altra,  è sciocchezza; una terza, £ vergogna. Ma i Cartaginesi ne hanno gabbato delle volle assai, e non  tenutisi alla fedeltà. K dunque una matlezza avventala Tare a sicurtà con quella fede loro, clic  tenie volte nc ha perfidamente IrufTati. Qualvolta  si lascia i'una prova e l'altra, il raziocinio £ di tre  parli, come sarebbe: 0 cl conviene slar in timore  dei Cartaginesi, se concederemo loro incolumità,  o ci conviene dar a terra la città loro. Ma star in  timore e' non ci conviene. Resta dunque che ci  convieuc darne a terra la città.   XL. Ci son tali, che stimano potersi talora, ed  anzi dover fare a meno della conclusione, quando  sia di per sé evidente quale del raziocinio debba  esser la uscita : e in questo caso dicono di due  parli il razionioio, che si enuncia cosi: Se infantò,  essa non è vergine: ma infantò già. Qui dicono esser baslevoli le due proposizioni, perchè è chiaro  a che devenga il raziocinio ; e in questo caso non  y’esser uopo di concludere. Quanto è a me, io son  di credere che qualsisbi raziocinio debba avere la  sua conclusione; con questa avvertenza però, che  s'abbia attentamente da evitare il difetto che dispiace pur a que’ tali, di introdurre nella chiusa  ciò che £ evidente per s£. Si potrà evitare questo  difetto, se si conosceranno bene le varie specie di  conclusione. Perocché ovvero si conchiuderà in  modo da abbracciar nella chiusa sì Cuna che l' al saluti rei pubbeae profuil, profecto non polesl cotieni paclo et saluti communi consuluisse, et lcgibus non oblempcrasse : aut ila, ut ci contrario  couliciatur senlcnlia, hoc modo : Summa igilur  amentio est corutn in fide spem liabere, quorum  perfidia toliens deceplus sis: aut ila, ut id solimi,  quoti conficitur, infcratur, ad liunc niodum : Urbem igilur diruamus : aut, ut id, quod cam rem,  quac conficitur, sequalur necesse est. Id est Ini  immolli : Si pcperit, cuni tiro concubini : pcpcril  aulem. Conficitur hoc: Concubuil igitur cum viro.  Hoc si nolis inferro, et inferas id, quod sequilur:  Kecil igitur incestimi ; et concluseris argumenlationem et perspicuam fugeris complexiuncm. Quare in longis argumentalionibus aut et conduclionibus, aut ex contrario, complecli oporlel: in bretibus id soluin, quod coniicitur, exponcre, in iis,  in quibus exitus perspicuus est, consecutinnc uti.  Si qui aulem ex una quoque parte putabuul constare argumunlationcm, potermi! dicere saepe sali» esso hoc modo argumcntationcm Tacere : Quoniatn peperit, rum tiro concubuil: nam hoc nullius iici|iic approbationis ncque contplexionis indigere. Sed nobis ambignilale nominis videnlur  errare. Nam argumentatio nomine uno res duas  significai, ideo quod et iiiventum aliquam in rem  probabile aut nccessarioni argumentalio tocalur,  eteius inventi artificiosa cxpolitio. Quando igitur  proferent aliquid huiusmodi: Quoniam pcpcril,  cum tiro concubuil, invcnlum proferent, non cipolitionem ; nos aulem de expolilionis parlibus  loquimur.     xt.l. piiliil igilur ad liane rem ratio illa pcrtineliit; otque hac distinclionc alta quoque, quac vi»  debuntur olilcere buie partitioni, propuUabimus,  si qui aut adsumplonem aliquandn tolti posse  pulci, ani proposilinnem. Quac si quid habd probabile aulnecessarium, quoquo modo eommoveat  audiiorcm necesse est. Quoti si soluni spcctarrinr,  ac nihil, quo pacto Iraclorclur id, quoti cs«ct excogitatum, referret nequaquani lanlum inlcr summos oratore» et mcdiocrcs interesse oxislimaretur.  Variare autem oralionem magno opere oporlebil ;  nam omnibus in rebus similitudo est salietalis ma   fia proposizione, come in questo esempio: Che se  sia bene diesi riferiscano le leggi tutte al ben essere della repubblica, e costui alla salute della  repubblica ita giovalo, certo ci non polca per la  stessa guisa e provvedere alla saiote comune, e  farsi disobbcdienle alle leggi: ovvero si conchiuderà in modo da trarne la chiusa dai contrario,  come in quest' altro esempio: fi dunque una maltcxza avventata porre speranza di fedeltà in coloro,  dalla cui perfìdia tante volle fosti raggirato : oppure in modo da pronunciare ciò solo che si vien  a concludere, come: convicn dunque clic no diamo a terra la città: o in maniera da enunciare ciò  che segue necessariamente a ciò clic s'ò concluso;  corno ili questo esempio: Se quella tal donna partorì, certo ella giacque con un uomo : ma partorì  già. La conclusione i : Dunque giacque con un  uomo. Cile se non vuoi dir questa conclusione, e  vuoi piuttosto enunciare ciò che ad essa consegue,  dirai: Commise dunque un incesto ; e così avrai  bensì concliiuso il raziocìnio, ma avrai schifalo la  chiusa già evidente da sè. Per lo clic nei raziocini! lunghi la chiusa si dee trarre o dall'aggregato  delle due proposizioni, ovvero dai contrario: nelle  brevi s'ha ad esporre solo ciò clic si conchiude ; e  in quelle, in cui la conclusione ì evidente, si dee  pronunciare ciò che dal raziocin io ne consegue.  Se v’ Ita poi di quelli, che credano esservi raziocino anche di sola una parte, costoro potranno dire  clic basta sovente fare II raziocinio a questa maniera : Ella ha partorito; questo è segno che giacque con un uomo; poiché qui non v'ha bisogno  nè di prova, nè di chiusa. Ma io fo pensiero elle  costoro sien tratti in errore dall'ambiguiià del nome, poiché raziocinio è un nome solo, ma significa due cose. E infatti appellasi raziocinio e il trovato probabile, o necessario, a favore o contro uu  che, c f artificioso raffazzonamento e pulitura di  esso trovato. Quando dunque enuncieranno a questo moiio: Poiché ella partorì, certo conobbe qual»  che uomo ; essi spolmono il trovalo, ma non la  pulitura di esso: in invece parlo delle parli della  pulitura medesima. Non pcrliene dunque ni tema eh’ io svolgo  quella loro opinione ; anzi se mai ci sarà ehi ctede-se potersi talora omettere la proposizione minore, o la maggiore, io farò di confutarlo con la  distinzione testé annunziala, e dissipare ogni altro  argomento che si combattesse con la partizione  che ho seguila. Dico intanto che se il raziocinio  lidio sue proposizioni contiene uu probabile o un  necessario, ileo per uno o per altro modo commuovere inevitabilmente l'uditore. Nondimeno, se  si mirasse al solo necessario o ai probabile, t non  si facesse alcun caso del come si tratlassc la ma Icr. Id Iteri palerii, ti non similiter scmper Ingrediainur in argumcnlaiioncm. Nam primum oraninni gcneribus ipsis distinguere convcnit oralioncm, hoc est, tura indnclioric uti, tura raliocinalionc. Deinde in ipsa arguraenlatiunc nuli scraper  a proposilione inciperc, ncc scraper quinquc parlibus abuti, ncque cadcm ratione parliliones cxpolirc ; scd tura ah adsumptiunc inciperc licci,  lum ab approbationc alterutra, Iran utraquc, tura  hnc, lum ilio genere complexionis uli. Id ut perspicialur, aut seribamus, ani in quolibct «empio  de iis, quac propesila sunl, hoc idem cicrceamus;  ut quam Tacile facili sii Ac de partibus quidem  argunicnlalionis salis nubis dirlura videtur. Illud  aulcm volumus inlclligi , nos probe tenere aliis  quoque rationibus Iraclari argumentalioncs in pliipisnphia mullis el ubscuris, de quibus ccrtum est  arlilicmni conslitulura. Veruni illa nobis abhorrcrc  ab usu oratorio visa sunt. Quao pertincre aulem  ad diccndum pillarmi*, ca nos coniraodius, quam  celeros, allendissc non adlìrmamus ; perquisilius  et diligcnlius conscripsisso pulliccmur. Nane, ut  iiistiluimus, prollcisci ordine ad rcliqua pergemus. Ucprchensio csl, per quam argumenlando  adversariorum coullrmatio diluilur, aut infirmatur,  aut cteiolur. Ilare Tonte invcnlionis codcm utelur,  quo utitur confìrmatio, proplerea quod, quibus  ex locis aliqua res confirmari potcst, iisdem polcsl  ex locis infirmari. Nibil cnim considerandum est  in bis omnibus invenlionibus, nisi id, quod personis aut negotiis attributura est. Quare invenlioucm  et argumentalionum expolitioncm ex itlis, quac  snlc praecepta sunt, liane quoque in parlem orationis IransTcrri oportebil. Verumtamen, ut quacdaui praeccplio detur liuius quoque partii, cipouenius modos reprehensionis ; quos qui obscnabuut, facilius ca, quac conira dicenlur, dilucre aut  infirmare potcrunl. Omnis argunienlatio repreliendilur, si aut ex iis, quac sinopia sunt, non concedilur aliquod unum plurale, aut, his concessi!,  complexio ci iis conGci ncgalur, aut si gcnus ip  s uni argumcnlatiunis «itiosum oslendilur, aut si  contro firmam argumcnlaliunem alia aeque firma     tcria che s' ha in mento, non si crederebbe che  passasse quella si grande distanza che pur passa  dai sommi ai mediocri oratori. È poi di troppa  necessità variare il discorso, poiché in tulle cosa  la somiglianza d madre di stucchevolezza. Detrassi variare, se entreremo nell’ argomentazione ora  d' uno, ora di un altro modo : perchè innanzi a  lutto conviene aver l' occhio di ornare il discorso  con la varietà delle argomentazioni, voglio dire,  Tar uso ora della induzione, ora del raziocinio.  Inoltre nella argomentazione istessa non va bene  cominciar sempre dalla proposizione, nè sempre  Tare, sto per dir abuso, delle cinque parti, nè rafTazzonar alla stessa guisa i membri deU’argomcnlaxiunc ; ma ora giova cominciar dalla proposizione minore, ora dalla prova dell' una, o da ambe  le prove delle due proposizioni, ora da questa, ora  da quella specie di chiosa. Perchè questo si possa  ben ullncìare e scorgere, Tacciamone prima una  bozza di scrittura, cd esercitiamoci in qualche csempio relativo alla materia che dobbiamo trattare : Tatto questo, la varianza nel discorso ne verrà  più agevole a introdurre. Mi pare di aver detto a  bastanza sopra le parti dell'argomentazione. Voglio  però che s’ intenda come io so bene che in filosofia le argomentazioni si maneggiano per altri modi, che paiono oscuri, intorno ai quali v’ha un sistema proprio di trattazione. Ma io credo che quei  modi non si conTacciano punto con gli usi oralorii.  I modi che si debbono seguire nelle orazioni io  non dirò d'avcrli avvertiti meglio degli altri ; ben  Tu Tede d'avcrli cerchi con più diligenza, e scritti  con più precisione. Ora, come ho proposto, passerò alle altre cose che sono ordinatamente da  dire. ConTulazionc è quella parie del discorso,  per la quale col mezzo degli argomenti si ribalte,  o s'indebolisce, o si scema la contermazionc degli  avversarii. La cunTutazione dee attingere allo stesso Tonte d'iiivcnlive, a cui attingono le prove, poiché per gli stessi modi onde una cosa comprovasi, la si può altresì confidare. I’erò in queste inventile si dee aver mira di non far uso se non di  quello che può esser appropriato alle persone o  aile cose. Ond’è die anche in questa parte dell'orazione si dee ripetere quanto s’è insegnalo prima  circa al trovare le argomentazioni e all’ a frazionarle come conviene. Nondimeno perchè anche  questa parte abbia in proprio qualcosa di regole,  metterò innanzi i modi onde si può fare la confutazione: i quali daranno all' oratore di polcrc più  leggermente ribattere e indebolire le obbiezioni  che gli fossero poste in mezzo. Si confula ogni  specie di argomentazione col ricusar di concedere uno o più puuli di quelli diedra pigliati per aut flrmior ponilur. Ex iis, quae sumuntur, ali.  quid non concedilur, quum aut id, quod credibile dicunt, ncgatur esse oiusmodi, aul, quod  comparabile putanl, dissimile ostenditur, aul iudicalum aliam in partcm traducilur, aut omnino  iudicitim improbnlur, aul, quod signum esse adversarii dixerunl, id eiusmodi ncgatur esse, aut si  complexio aut una, aul ulraque ex parte reprehendilur, aut si enumeratio falsa ostenditur, aut si  simplex conclusio falsi aliquid conlinere ilemooslratur. Nani omne, quod sumitur ad argumenlandum site prò probabili sire prò necessario, neccsse est sumaturex bis locis,ulante ostendimus. Quod prò credibili sumplum crii, id inflrmabilur, si aut perspicue falsum eril, hoc modo:  Remo est, quin pecuniam, quam sapirnliam mali! ; aut ex contrario quoque credibile aliquid habebil, hoc modo: Quis est, qui noti oflicii cupidior,  quam pecuniacsil? aut erit omnino incredibile,  ut si aliquis, quem consto! esse avarum, dica! alieni)» mediocris oflicii causa se maximani pecuniam neglexisse;aut si, quod in quibusdam rebus  ant hominibus accidit, id omnibus dicitur usu venire, hoc paclo: Qui pauperes surit, iis anliquior  officio pecunia est. Qui locus desertus est, in eo  cacdctn factam esse oporlet. In loco celebri homo  occidi qui poluit ? aut si id, quod raro flt, Aeri  omnino negatur, ut Curio prò Fulvio: > Nemo  potest uno aspectu ncque praetericns in amorem  incidere. > Quod autem prò signo sumetur, id ex  iisdem locis, quibus eoofirmatnr , inlirmabilur.  Nam in signo primum verum esse oslcndi oporlet;  deinde esse eius rei signum proprium, qua de agitar, ut cruorem caedis ; deinde factum esse quod  non oportuerit, aut non factum quod oportuerit;  postremo scisse eum, de quo quaerilur eius rei  iegcm et consuetudinem. Nam eae res sunt signo  altributae ; quas diligenlius aperiemus, quum separatim de ipsaconieclurali constilulione dicemus.  Ergo liorum unum quidquc in reprehensione, aul  non esse signo, aut parum magno esse, aut a se  potius.qusm ab adversariis stare, aut omnino falso  dici, aut in aliam quoque suspicionem duci posse  demonstrabilur. mano, o col negare, quando pur si concedano,  che si possa Irar da essi la pretesa illazione, o  col far apparire viziosa quella tale argomentazione dell’avversario, o se ad una argomentazione  forte se ne contrapponga un'altra egualmente forte, o più forte di quella. Dei detti punti si ricu-a  di concederne uno o più, quando si oppone non  esser credibile ciò che ci vien dato per tale, o si  mostra essere di specie diverse le cose che ci si  vorricno dare per paragonabili, o si devia il giudichi da un punto per fermarlo sopra un punto  secondario, o il giudicio stesso si riprova in lutto;  o se si nega essere indizio o segno quello che dagli avversarii si caratterizza per tale, o se si ribatte la conclusione del raziocinio come non corrispondente ad una o ad ambedue le premesse, o  si mostra falsa la enumerazione, o si dimostra  che almeno la chiusa contiene alcun che di falso.  Poiché ogni punto che si adopera per fare l'argomentazione, sia rispetto al probabile e sia al necessario, non può che non sia preso di qui, siccome addietro io dimostrai.   XUII. Ciò che ci sarà dato per credibile, si abballerà, o clic evidentemente sia falso, come sarebbe il dire : Nessuno è che non ami meglio il  danaro che la sapienza; o che abbia qualcosa di  credibile in confronto del contrario, come se si dicesse: Chi v’ha che non abbia più voglia di una  carica,che di danaro? o che sia affatto incredibile,  come sarebbe se alcuno, clic si sa essere un gretto, una pillacchera, dicesse d’avere un ufficio mediocre anteposto a una cospicua somma di danaro:  o se ciò che abbatte solo a certi uomini o cose si  dicesse esser solilo abbattere a lutti, come sarebbe  il dire: Chi è povero ha più a caro il soldo che non  un ufficio pubblico. In luogo solitario dee certo  essersi commessa l’uccisione. In luogo frequentalo  come potè un uomo essere tolto di vita? o se quello che accasca di raro si dicesse che non accasca mai, come disse Curio in quella a prò di Fulvio: a Nessuno può lasciarsi andare in amore al  veder di passaggio e a prima giunta una persona. » Quando qualche incidente verrà preso per  indicio e segno, esso si abbatterà con quegli stessi argomenti, con che si avvalora. Perocché, la prima cosa.deo mostrarsi ch’esso è segno vero; dipoi  che i un segno proprio della cosa di che si (ratta,  come il sangue è segno di uccisione; inoltre, che  fu fallo ciò che punto non si doveva, o non fatto  ciò che pur dovevasi; da ultimo, che l’ accusato  sapea troppo bene a che legge quel tal fatto e a  die consuetudine si opponeva. Queste son le cose  che si riferiscono al segno, delle quali darò più  distinta spiegazione quando mi verrà da parlare  separatamente delle cause congetturali. Or dico Quum autcm prò comparabili nliquld in  ducetur, quoniam iti per simililudincm maxime  Iraclalur, in rcprehendcndo convellici simile id  negare esse, quod conferelur, ei, qnicum confcrelur. Id Ceri poteri!, si demonstrabilur diversum  esso genere, natura, vi, magnitudine, tempore,  loco, persona, opinione ; ac si, quo in numero illud, quod per simililudincm adfcrelur, et quo in  loco hoc, cuius causa adferetur, haberi conveniat,  ostcndclur. Deinde, quid res cum re ditterai, demonstrabimus: ex quo doccbimusaliudde co, quod  eoniparabilur,et de eo,quicum comparab itur, exislimari oporlere. liuius facullalis maxime indigemtis, qtium ea ipsa argumcnlatio, quac per indùclionem Iraclalur, eril reprehendenda. Sin iudicalum aliquod inferelur, quoniam id ex bis locis  maxime firmalur: laude corum, qui iudicaruut;  similitudine eius rei, qua de agiiur, ad cam rem,  qua de iudicatum est; et commemorando non modo non esse reprebensum iudicium, sed ab omnibus approbalum ; et dcmonslrando difilcilius et  maius fuissc id iudicatum quod adleralur, quam  id, quod inslet : contrari» locis, si res aut vera,  aut veri similis permittet, inCrmari oporlebil. Alque crii observandum diligentcr, ne niliil ad id,  quo de agalur, perlincal id, quod iudicatum sii ;  et videndum, ne ea res proferalur, in qua sii offensum, ut de ipso, qui iudicaril, iudicium (ieri  videatur. Oportet aulem animadverlere, ne, quum  aliler sint multa iudicata, solitarium aliquod aut  ramni iudicatum adleralur. Nani bis rebus auctorilas ìudicali maxime potesl inCrmari. Alque ea  quidem, quae quasi probabilia sumentur, ad Iiudc  modum tentari oporlebil. Quae vero siculi necessaria induccnlur,  ca si Forte imilabuntur modo necessariam argumenlationem, neque crunt eiusmodi, sic reprehendentur. Primum complexio, quae, ulrum con   adunque che nella conFutatione s’ha a dimostrare  qualcuno di questi punti, ciò sono, o quel tale  non esser segno del Fallo, o esserlo troppo lieve,  o star a vantaggio dell' oratore più che degli avversarli, o esser dolio segno Falsamente, o poter  esso dar sospetto che l atrare sia ben d' altra maniera.   XLIV. Allorché vten posto in campo alcun che  siccome paragonabile, essendo che questo sì tratta per mezzo della similitudine il più delle volte,  converrà nella confutazione asserire clic il paragonalo manca di somiglianza con quello a cui si  paragona. Il che si potrà fare, dimostrando che  Fra l'uno e l'altro v’ha diversità nel genere, nella  natura, nella Forza, nella grandezza, nel tempo,  nel luogo, nella persona, nell' opinione; o dimostrando in qual conio c pregio s'Im da tenere il  punto che si reca per istituire la somiglianza, in  quale quello con die esso si vuol ragguagliare.  Dipoi si dimoslrcrà in che risieda la diOcrcnza da  cosa a cosa; e di qui si verrà significando altra  essere l'idea che s'ha da avere di ciò che paragonasi, altra l’idea di ciò con che quello si paragona. I)i questa qualità d’argomentazione abbiam  mestieri massime allora che saran da confutare gli  stesa! argomenti della induzione. Se verrà esposto  qualche punto già passala in giudicio, siccome  esso si rafTerma c consolida o con la lode di quelli  clic giudicarono, o col mostrare la somigliania  che v'ha Ira la cosa giudicala c quella che trattasi  attualmente, o col rammentare che il giudicio non  pure non ebbe biasimo, ma che anzi tulli se no  sono lodali, o col mettere a vedere che il punto  giudicalo era più rilevante c più difficile del paolo che non ancora ha subito il giudicio; se verri  esposto, dico, questo tal punto, converrà confutarlo col mezzo de’ luoghi contrarli, secondo che  il fallo o vero o vcrisimile lo permetterà. Sarà altresì da attendere con diligenza che ciò che trattasi abbia relazione a ciò die Fu giudicato, ma vedere che non si ripeta cosa in die il giudice abbia  posto il piede in Fallo e incespicalo, a causa che  non paia che si voglia Fare il giudicio delio stesso  giudicatore. Conviene anche osservare clic se molli punti furono diversamente giudicati, non si alleghi qualche punta isolalo c non troppo solilo n  venire in giudicio; poiché per questa via si può  addcbolirc l'autorità dd giudicio che Tu fatto. A  questo modo adunque converrà che sien maneggiati gli argomenti che si allegheranno siccome  probabili.   XLV. Quelli poi che si allegassero siccome necessarli, se per avventura imiteranno l’argomentazione necessaria, senza però esser necessari), si  confuleranno di qucsla maniera. Innanzi a tutto cesserò, Betel lollerc, si «era esl, numquam reprchendelur ; sin falsa, duobus moilis, ani conversione, aul alterius parlis inflrroalione. Conversione, hoc modo:   «Nani si vcri'lur,quid cum accuies, qui est probus?  Sin inverecundum animi ingenium possidet,   Quid eum accuscs, qui id parvi audilu acslimd?»  llic, sive vereri diieris, conccdcndum hoc pillai,  ul neges esse accusandum. Quod conversione sic  reprehendetur : linmo vero accusandus esl. Nam  si vcrclur, accuses ; non cnim parvi audilu acslimabit. Si inverecundum animi ingenium possidet,  la me n accuscs; non cnim probus esl. Allcrius autem parlis infirmaliono hoc modo rcprcheiidclur:  Verum si vcrclur, accusalionc lua corrcclus ab  erralo recedei. Enumcralio vinosa intelligilur, si  aul praeterilum quiddam dicemus, quod velimus  concedere, aut infirmimi aliquid adnumcralum  quod aul conira dici possi!, aul causa non sii quarc non honeslc possimus concedere. Praclcrilur  quiddam in ciusmodi cnumeralionibus : Quoniam  habes islum equum, aul cnicris oporlct, oul hcreditale possidcas, aul muncre accepcris, aul domi  libi ualus sii, aul, si horum nihil est, surripueris  neccssc est : sed neque enusli, neque hcrcdilale  venil, ncque doualus est, neque domi nalus esl ;  Decesse esl ergo surripueris. Hoc commode reprehendilur, si dici possil ex hoslibus equus esse  captus, cuiua predac seclio non venierii ; quo iliato, infirmelur enumcralio ; quoniam id sii induelum, quod praeterilum sii in enumeralione. Altero autem modo rcprchendilur, si aul  conira aliquid dicelur, hoc est , si esempli causa  ut in eodem versemur, poteri! oslendi hcrcdilale  venisse; aul si illud estremimi non crii turpe concedere, ut si qui, quum diserint adversarii : Aut  insidias faccre voluisli, sul amico morem gessisi!,  aut cupfdilale clalus cs, amico se morem gessisse  faleaiur. Simplex aulem conclusio reprehenditur,  si hoc, quod sequilur, non videalur necessario  cnm eo, quod anleccssit, cohacrere. Nani hoc quidem ; Si spirilum ducil, vivil : Si dics esl, lucei !  ciusmodi esl, ut cum priore necessario posterius  cohacrere videalur. Hoc aulem: si maler est, diligi! : Si aliquando peccavi!, numquam corrigelur !  tic convellici reprehendi, ul demonslrolur non ne   non si confuterà mai il dilemma, il quale da sè  dee togliere o l'uno o l'altro dei punii conceduti,  se è dilemma vero; o se falso, si confuterà in due  modi, o invertendo, o abbattendo l'ima o l'altra  proposizione. Si inverle cosi:   a S’cgli sente rossor, perchè l’accusi,   Mentre è da por fra i buoni ?   Se affolli inverecondi in seno ha chiusi,  Perchè ne lo incagioni,   Mentre d'aver infamia ei non si cura?!   Qui, sia che lu dica esser verecondo costui, sia  che inverecondo, l'avversario le lo concede, affinchè lu dica clic e' non si dee accusare, àia lu  confuterai cosi per inversione: Anzi ei dee pur  accusarsi, giacché se è verecondo, si dee, perchè  non porrà a non calere la infamia; e se nulre affolli inverecondi, si dee dot pari, poiché non è  punto persona proba. Se poi lu vorrai addebolire  l’una delle due proposizioni, dirai cosi: che s'egii  è pur verecondo, venendosi per la tua accusa a  emendare, si cesserà dal suo fallo. La enumerazionc si parrà difettosa, o se riporteremo qualche  punto già omesso, il quale vogliamo concedere,  o se nell’enumerazione si sarà inserita qualche cosa mal fondala, la quale o possa essere contraddetta, o non offra ragione perchè onestamente la  si possa concedere. Un esempio di punto omesso  si ha nella seguente enumerazione: Poiché lu hai  questo cavallo, è inevitabile elio tu o lo abbi compero, o acquistato in eredità, o avuto in dono,o che  li sia nato in casa: che se nessuna è vera di queste  eose.lu lo del cerio aver rubalo. Ma nè l'hai compero, nè acquistalo in eredità, nè avuto in dono, nè  ti è nato in casa; è necessario dunque che lu l'abbi rubato. La confutazione qui viene a taglio, se si  può dire che il cavallo fu (olio ai nemici, ma clic  non era compreso nella parte di preda che fu venduta. Aggiunto che sia questo, la enumerazione  verrà riballula per difettosa, poiché s'é posto in  campo un punto che v’era stalo pretermesso.   XLVI. Si fa la confutazione in secondo modo,  se si contraddirà un qualche punto, voglio dire,  per attenermi all'esempio testé citato, se si potrà  mostrare che colui ebbe quel cavallo per eredità:  ovvero se un tal punto si potrà ultimamente concedere senza vergogno, come se, dicendo gliavversarii: 0 tu hai voluto tender insidie, o fare a fantasia dell'amico, o li se'lasciato vincere alla cupid già, si rispondesse: si, ha fallo a fantasia dell'aulico. Si confuta la conclusione sola, se Cièche segue  non sembra legarsi necessariamente con ciò die  precesse. Queste conclusioni: Se respira, dunque  vive; se è giorno, dunque è chiaro; son tali clic  il detto poi si lega necessariamente col detto prima: laddove queste: Se è madre, dunque ella Cessarlo cum priore posterius cobaerere. Hoc genita cl celerà necessaria, et omnino onmis arguinenlalio, el eius reprcliensio maiorem quamdam  vini cornine!, el lalius palei, quam hic esponilur;  seti eius arlilicii cognilio ciusmodi esl, ni non ad  buius arlis parlem aliquam adiungi possil, sed ipsa separatine longi lemporis et magnae alque arduac cognilionis indigeni. Onore illa nobis alio  tempore alque ad aliud instilulom, si facullas crii,  explicabuntur; nunc bis pracceplionibus rbelorum  ad usum oralorium conlcnlos non esse oporlcbil.  Quum igilur et iis, quac sumunlur, aliquid non  concedilur, sic iulirmabllur. Quum aulem, liis concessis, complciio  ei bis non conOcilur, hacc erunl considerauda :  mi in aliud conficialur, aliud dicalur hoc modo :  Si, quum aliquis dical se profeetum esse ad exerrilum, contro eunt quis tclil bac uli argumcnlalionc: Si venisses ad excrcitum, a tribunis mililaribus visus esses ; non es aulem ab bis visus; non  cs igilur ad exercilum profcclus. llic quum concesseris proposilioncm ut adsumplioncm, coinplexio est inlirmamla. Aliud enim, quam cogebalur,  illulum est. Ac nunc quidem, quo facilius res cognosccrelur, perspicuo el grandi vitio pracdilum  posuiwus ciemplum; sed saepc obscutius posilum  vilium prò vero probalur, quum aul parum meniiucris, quid concesseris, aut ambiguum aliquid  prò certo conccsseris. Ambiguum si concesseris  cs ea parte, quam ipse intcllexeris, eam parlem  si adversarius ad aliam parlem per complciioncm  veli! accommodare, demonslrare oporlcbil non ci  eo, quod ipse concesseris, sed ex eo, quod ilio  sumpseril, confici complexionem, ad liunc mollimi : Si indigelis pecuniac, pccuniam non babetis ; si pccuniam noti habetis, pauperes eslis : indigelis autem pccuniae : mcrcalurae enim, ni ila  cssel, operano non darelis : pauperes igilur eslis.  Hoc si rcpreheqdilur: Quum diccbas : Si indigelis  pccuniae, pccuniam non habetis ; hoc inlclligcbam : Si propler inopiam in egcslatc eslis, pecuniam non habetis ; et idcirco concedebam : quum  aulem hoc sumebas : Indigelis autem pecuniac ;  illusi accipicbam; Vullis aulem pecuniac plus ha bere. Exquibus conccssionibus non coulìcilur hoc:  I auperes igilur eslis ; eonilcerelur aulem, si libi  primo quoque bue conccssissem, qui pccuniam  maioreui velici babere, cum pccuniam non habcrc.     ama: Se una volta ha fallalo, dunque dal suo fallo  non si correggerà più mai ; converrà vengano  confutate in modo che si dimostri il detto poi  non collegarsi col dello innanxi. Queste e le altre  argoinenlaiioni necessarie, ansi al tulio ogni argomentazione con le relative risposte coufulaloric hanno una forza maggiore, e pigliano più del  largo clic qui non è dello; ma il conoscerne l'arlifizio è cosa che non si può trattare in unione  con veruna di queste parti della retorica, perchè  vorrebbe per se sola una trattala assai lunga, cd  esigerebbe di grandi c difficili cognizioni. A tema sifTallo io darò mano, se pure io ne avrò il  potere, quando me ne verrà acconcia altra occupazione: per ora conviene ch'io mi stia contento a porger questi precetti retorici relativamente all'uso che n’ ha da far l'oratore. Cosi  dunque, come detto è, si ribalteranno i punti clic  non si vuol concedere. Qualora poi, concessi che sieno i punii,  non ne vien traila una cnnclusione che quadri, si  dovrà osservare se sia stato conchiuso diversamente da quello che comportano le premesse; come in quesla argomentazione, dalo che un tale  volesse opporre a un lai altro che dicesse d’essersi  mosso in via per l'esercito: Se tu fossi venuto all'esercito, saresti stato veduto da'lribuni militari;  ma non sci stalo da loro veduto: tu dunque non  ti se'mcsso in via per aU'esercilo. Qui tu concederai la maggiore e la minore, ma dovrai confutar  ta illazione. Per dire il vero, a causa che si intendesse meglio quello che io dico, ho qui allegalo  un esempio che ha un difetto grave o facile ad esser conosciuto; ma avviene di sovente che per essere il difetlo poco riconoscibile, si piglia per vero  quello che non lo é ; e ciò avvidi quando o non  avrai bene a memoria quali punii lisi conceduti, o  avrai conceduto per cerio quello che non era che  ambiguo. Se avrai concesso l'ambiguo in quella  premessa che li era noia, conterrà che l'avversario,  se vorrà connettere quella premessa con un' altra  per mezzo d' una conclusione, dimostri che non  dal punto che tu bai conceduto, ma da quello elio  egli ha introdotto si trae la conclusione. Per esempio : Se bisognate di danaro, dunque voi non ne  avete : se non nc avete, dunque siete poveri: ma  di danaro voi bisognale, poiché so ciò non fosse  non vi sareste dati alla mercatura : dunque sicle  poveri. Questa argomentazione si confuta cosi :  Quando dicevi : Se bisognale di danaro, dunque  voi non nc avete, io ci capiva : Se per sostenere  inopia siete in bisogno, dunque non avete danaro;  eper questo io concedeva. Quando poi lu aggiungevi : àia voi bisognate di danaro; io invece trovo  clic dovevi soggiungere : Ha volete venir iu più Saepe autem oblilum pulanl, quid concesseris, et idcirco id, quod non conficitur, qnasi  conficialur, in conclusione infertur, lioc modo: Si  ad illum hercdilas vcniebat, veri simile est ab ilio  necalum. Deinde hoc approbant plurimis terbis.  Tosi adsmnunt: Ad illum autem hcredilas vcniebat. Deinde inrertur: lite igilur occidil; id quod  ex iis, quae sumpserant, non conficitur. Quare  observare diligenlcr oportcl, et quid sumatur, et  quid ex his conficialur. Ipsum autem genus argumentalionis vitiosum his de causis ostendelur, si  aul in ipso viliuni crii, aut si non ad id, quod inslituit, accommodatiilur. Atque in ipso vitium crii,  si omnino totum falsum erit, sì commune, si vulgare, si leve, si remolum, si mala dellnitio, si controversum, si perspicuum, si non concessimi, si  turpe, si offensum, si conlrarium, si inconstans,  si adversum. Falsum est. in quo perspicue mcndacium est, hoc modo: Non polesl esse sapiens,  qui pccuniam negligi!. Socrates autem pecuniam  negligebal: non igilur sapiens crai. Commune est,  quod pillilo magis ab adversariis, quam a nobis  fucil, hoc modo: Idcirco, iudices, quia vcram causam habebam, brevi peroravi. Vulgarc est, quod  in aliam quoque rem non probabilem, si none  concessum sii, transferri possi!, ut hoc: Si causam  vcram non haberet, vobis se, iudices, non eommisissct. Leve est, quod aut post tempus dicilur,  hoc modo: Si in menlem venisset, non commisissetiaut perspicue lurpem rem levi legere vult  defensionc, hoc modo :  a Quurn le expetcbanl omnes, fiorentissimo  Regno rcliqui : nunc dcserlum ab omnibus  Summo pcriclo, solu' ut restituam paro. >     XI Remotum est, quod ultra quam satis est,  petitur, huiusmodi : Quod si non P. Scipio Corneliam filiam Ti. Giaccho collocasset, atque ex ea  duos Gracchos procreasse), tanlae seditiones natae  non essenl ; quare hoc incommodum Scipioni ascribendum videtur. ltuiusmodi est illa quoque  conquestio :   « t'iinam ne in nemore Pelio securibus  a Coesa accidissct abiegna ad terroni Irabcs I copioso danaro. Dalle quali concessioni non s' inferisce già: Voi dunque siete poveri. Inferirebbcsi  bensì, se io t’ avessi prima concedutoianchc questo. che chi vuol venire in più copioso danaro, ei  non ha donaro. Spesse volte credono gli avversarli che  tu li sii smcniicato ciò che bai conceduto, epperò  mcltono nella conclusione come inferito ciò che  non lo fu, per esempio: se toccava o lui l’eredità,  è verisimilc che da lui l’ infelice sia sialo ucciso ;  e a provar questa illaiione si distendono in parole.  Indi vengono alla proposizione minore: Ma l’ erodila toccava a lui. In fine conchiudono: È egli  dunque l’ uccisore : il che dalla delta premessa  non si può inferire. Il perchè si vuole avvisar con  attenzione c ciò che vien aggiunto alla minore, e  ciò che giustamente sia da conchiuderne. Questa  specie di argomenlazionc si mostrerà esser viziosa  o per l'uno o per Patirò de’ seguenti capi, cioè se  il difetto risederà in essa, e se essa non sarà acconcia al punto che si trossina. Risiede il difetto nella  argomenlaxione, se essa è al latto falsa, se comune, se volgare, se leggera, se rimota, se inchiude  una definizione errala, se ì questionevolc, se perspicua, se inopportuna, se turpe, se offensiva, se  rontraria, se inconsunto, se avversa. E falsa quando vi si avvista chiara la menzogna, come sarebbe:  Non può esser sapiente chi fa nessun conto dei  danari: ma Socrale di danari non facea conto veruno: non era dunqne sapiente. Comune è quando  non giova n enie più a noi che agli avversarli, come a dire : Per ciò, giudici, io mi spacciai di corto, perchè avea per le mani una causa giusta. Volgare è quando essa può accomodarsi, se ne venga il concio, anche a un' altra cosa non probabile,  come il dire: Se non avesso dai suo lato la giustizia  della causargli, o giudici, non si sarebbe affidalo a  voi. È leggera, so si diresse dopo il suo tempo, per  esempio: Pur che se ne fosse ricordalo, non avrebbe commesso il lai fallo: o se volesse con lieve difesa  giustificare un'azione aperta mente turpe, come qui:  « Quando avevi amicizie e in fior il regno,  Olii poco io l' essendo, ito ne sono.   Or die perigli, e t' han già tulli a sdegno,  Peno so! io di ritornarti in trono, a E rimota l'argomentazione, quando si  pianta da punti più ionlanichcnon bisogna, come la  seguente : che se P. Scipione non avesse collocala  la figlia Cornelia in matrimonio a Tiberio Gracco, o  non avesse da lei avuti nipoti i due Gracchi, non sarebbero addivenutesi gravi sedizioni: il perchè questo infortunio s'ha da riputare a Scipione. Di fatta  simile ì altresì quel lagno che siiegge in Ennio : iDngius cnim reputila est, quam rcs postulibal.  Mala (leQnilio est, qiium aut communia deseribit,  hoc modo: Scdiliosus cstis, qui inalos atque inulilis est civis (nam hoc non magis seditiosi, quam  anibiliosi, quam calumniatoris, quam alicuins hominia improbi vini deseribit); aut falsum quiddam  dicil, hoc pacto : Sapientia est pecuniae quaerendno inlclligentia ; aut aliquid non grave ncc magnum conlinens, sic: Stullilia est immensa gloriae  cupiditas. Est liaec quidem stullilia, sed ex parte  quadnm, non ex omni genere definita. Controvcrsum est, in quo ad dubium demoustrandum dubia  causa adferlur, hoc. modo : x Elio tu, di, quibus est polestas motus superùm atque inferòm,  l’accm iulcr scse conciliant, confermi! concordino]. a   l’erspicuttm est, de quo non est controversia, ut  si qui, quum Orcstcn accuset, planimi facialab  co malrem esse ocrisam. Non concessum est ,  quum id, quod augetur, in controversia csl, ut si  qui, quum Ulixen accuse!, in hoc maxime commorclur : Indignimi esse ab liomine ignavissimo  virum fortissiinum Aiacem necalum. Turpe est,  quod aut co loco, in quo dir-ilur, aut co Domine,  qui dicil, aut co tempore, quo dicilur, aut iis, qui  audiunt, aut ea re, qua de agitur, indignum propter inhonestam rem videtur. OlTensum csl, quod  corum qui audiunt, voluntatem laedit: ut, si qui  apud cquilcs Homnnos, cupidos iudicandi, Caepionis legem iudiciariam laudcl. Conlrarium est, quod contra dicilur atque li,  qui audiunt, fccerunl: ut si qui apud Alcxandrum  Maccdonem conira aliquem urbis expngnalorem  dicerct uiliil esse crudelius, quam urbes diruerc,  quum ipsc Alexander Tlicbasdiruissel. Inconslans  est, quod ab codem de eadem re diverse uicilur :  ut si qui, quum dixeril, qui lirlutcm Italica!, cum  nultius rei ad bene vivrndum indigere, neget postea sinc bona valetudine posse bene vivi : atti, se  amico adesse proplcr benevolentiam, sperare tamen aliquid commodi ad se pervenlurum. Advcrsum csl, quod ipsi causac aliqua ex parte oIDcil,  ut si qui hoslium vini et copias et felicitatoli au  gcat, quum ad pugtiandum mililcs adhortetur. Si  non ad id, quod insliluilur, accommodubilur aliqua pars argumenlalinnis, borimi aliquo in vitio  reperielun si plura pollicilus pauciora dcmonslra   poiché è ripetuto da più lontano che la circostanxa  non richiedeva. Incltiude definizione errata, quando o spiega cose comuni, a questo modo ; Sedizioso è colui che fa da cattivo c inutile cittadino  (poiché questo spiega il carattere del sedizioso né  più nè meno che del calunniatore, del rollo alla  ambixione, e di altri malvagi); o dice alcun che di  falso, a questo modo: È sapicnxa I’ essere esperto a  cercare danaro; o contiene alcun che di non graie  nè grande, come : È stoltezza un' immensa brama  di gloria. Anche questa, 6 vero, è una specie di  stoltezza, ma non è definita che per parte, e non  nella sua generatili. Qucslionevolc è I' argomentazione, quando per dimostrare una cosa dubbia  si reca un' altra cosa o un esempio dùbbio, come  il seguente;   « Con me far cruccio ? ve’ gli dei contenti  D'csser concordi e consigliarsi a pace:   E sì che a scombuiar ci son possenti Quanto v’ ha in cielo, e quanto in terra giace.  Perspicua è l' argomentazione, quando contendo  sopra un punto chiaro e confessato ; come chi volendo accusare Oreste, dimostrasse ch'egli ha  uccisa sua madre. Inopportuna è quando ciò che  si amplifica è il punto stesso della controversia,  come allora che alcuno, accusando Ulisse, si fermasse specialmente in questo: È cosa indegna cito  il fortissimo Aiace sia stato morto da uu uomo così  vile come se mai alcuno. Turpe, è quando per la  vituperevole cosa eh' essa tratta riesce indegna o  del luogo in che la si dice, o della persona che la  espone, o del tempo in che viene esposta, o di  quelli che l’ascoltano, o della causa stessa che si  trassina. Offensiva è, se si urlano le voglie degli  uditori, come se alcuno alla presenza dei cavalieri  Romani, vogliosi d'esser soli in fare i giudicii, lodasse la legge giudiciaria di Cepionc.   L. Contraria è quando si parla contro a ciò che  fecero quelli clic stanno ad udire, come se alcuno  in presenza di Alessandro Magno, movendo rampognosc parole coui ro alcuno che avesse espugnata una terra, si dicesse non v’ esser fallo più  crudele che il dare a terra una città, mentre lo  stesso Alessandro avea dato a terra la città di Tebe. È incostante se lo stesso oratore, dopo aver  parlalo a un modo di una cosa, ne parli poi a modo diverso; come chi avendo prima asserito che  chi possedè la virtù non difetta di nulla al ben vivere, dicesse poscia che senza prospera salute non  si può viver bene;o se dicesseche ei favoreggia l'amico per sola bonevoglicnza,ma che tuttavia spera  sia per venirgliene qualche buon servigio. Avversa è, quando in qualche parte nuoce alla stessa  causa, come se chi è suii’csortare i soldati a coni bit; aut si, qmim tolum debebit ostcndcrc, de  parte aliqua loquatur, hoc modo: Mulicrum gcnus  avarimi est ; nam Eriphjla auro viri vitam vendidii : aut si non id, quod accusabilur, defcndcl, ut  si qui, quum ambitila accusabilur, manu se forlem  esse defcndcl; ut Ampbion apud Euripidcm (ilem  apud Pacuvium ), qui vituperala musica, sapicntiam laudai ; aut si rcs ex hominis vilio vituperabilur, ut, si qui doctrinam ex aiicuius docli vilio  reprebendat ; aut si qui, quum aliquem volet laudare, de felicitate cius, non de «inule dica! ; aut  si qui rem cum re ita comparabit, ut alleram se  non pulci laudare, nisi alleram vituperanti aut si  alleram ita laude!, ut alterius non faciat mcntiotieni ; aut si, quum de certa re quacrelur, de communi iiisliluctur oralio, ut, si qui, quum aliqui dcliberenl, bellum gerani an non, pacem laude! crollino, non illud bellum inutile esse demonstret ;  aut si ratio aiicuius rei reddetur falsa, hoc modo :  Pecunia bonum est, proplerca quod ea maxime  vitam bealam cflicial ; aut si infirma, ut Plautus :   • Amicura castigare obmerilam noxìam.   Immune est facinus ; veruni in aelatc utile  Et conducibile ; nam ego amicum hodic incum  Coneastigabo prò commerita noxia,   Invitus , ni me id invitcl ut faciam fldes : a   aut eadem hoc modo : Maximum malum est avarino; mullos cnim magnis iucommodis adfccit pecunie cupidilas ; aut parum idonea, hoc modo :  Maximum bonum est amicitia; plurimae enim sunt '  deleclalioncs in amicitia. Quartus modus era! reprehensionis, per  quem conira Ormam irgumcnlationem aeque firma aut firmior poncbalur. Hoc genus in delibcratìonibus maxime versabilur, quum aliquid, quod  conira dicatur, aeqtium esse concedimus, sed id,  quod nos defendimus, neccssarium esse demonstramus ; aut quum id, quod illi defendant, utile     battere, esaltasse la fortezza dei nemici, il numero, la feliciti delie altre lor pugne. Quando alcuna parte dell’ argomentazione non s' acconciasse'  bene con ciò che si venne a proporre, sarà difettosa per una o per un'altra di queste ragioni, cioè  se l'oratore dimostrerò meno punti di quei molti  che aveva promesso; o se, quando avrà a mostrare un lutto, parlerà solo di alcuna parte, come se  dicesse: Le donne sono avaro; poiché Enfila vendette per oro la vita di suo marito; o se nel difendere non adatterà la difesa a ciò che è posto in accusa, come se colui che fosse incagionato di broglio si difendesse con dire di esser forte di mano;  come Allibine appo Euripide (e similmente appo  Pacuvio), Il quale parlando a biasimamenlo della  musica finisce col lodare la sapienxa; oppure se  sviluperassc una cosa per cagione del difetto d'una persona, come se alcuno improverasse una dottrina per aver qualche magagna colui che la possedè; oppure se volendo commendar altrui nc lodasse la felicità, non la virtù; o quando si facesse  paraggio di una cosa con un' altra, e si credesse  di non lodarne questa se non se sriluperando  quella; o quando se ne facesse l' elogio dell' una  senta far motto dell'altra; ovvero se si facesse un  discorso applicabile ad ogni questione, mentre non  si tratta che di una questione determinata, come  sarebbe se altri, essendo in deliberare se abbia a  farsi la guerra, ovveramente no, venisse lodando  la pace, senta dimostrare se quella guerra sia utile, o non sia; o quando d'uria cosa si renderà una  ragione falsa, come sarebbe il dire: Il danaro é un  bene, perocché esso più clic altro fa felice la vita;  o quando se ne renderà una ragione debole, come in quella di Plauto:   a L'amico improverar del suo malfatto   É forte si che ad un amico incrcscc;   Ma se 'I rimproccio in suo momento è fatto,   A laudabile prò pur gli riesce:   Ond' io rabbufieronne oggi l'amico.   Ma dirò per amor quello eli' io dico; a   oppure in quest' altro esempio: Gravissimo male  è l’avarizia, poiché I' agonia di danaro trasse di  molli a gran mal essere: o se si renderà una ragione poco idonea, come a dire: Un sommo bene  è l'amicizia, poiché in essa si trovano piacimenti  pure assai.   LI. S'è detto il quarto modo di confutare esser quello, per cui a un'argomentazione solida se  nc mette incontro una egualmente solida, opiù  solida di quella. Argomentazione si fatta sarà da  usare specialmente nelle deliberazioni , quando  concediamo esser retto c giusto ciò che no vien  replicato, ma dimostriamo come quello che per esse fateamur; quod nos dicamus, honeslum esse  demonslremus. Ac de reprehensione quidem hacc  existimavimus esse diccnda. Deinceps mine de  conclusione ponemus. Ilermagoras digressiotiem  deinde, lum poslremani conelusionum pomi. In  hac auleni digressione illc pulal oportere quatndam inferri oralionem a causa alque a iudicalionc  ipsa remolam, quae ani sui laodem, aut adversarii vitupcralioncm conlineat, aut in aliam causam  deduca l, ex qua confidai aliquid confirmalionis  aut repreliensionis, non argomentando, sed augendo per quamdam amplilìcationem. liane si qui  partimi pularii esse orationis, sequatur Ermagoram liccbil. Nam et augendi et laudandi et vituperandi praccepta a nobis parlim data sunt, partito  suo loco dabuntur. Nobis aulem non placuit batic  parlcm in nutnerum reponi, quod de causa digredì, nisi per locum cominunem, displicet : quo de  genere poslerius est dicendum. Laudes aulem et  vitiiperalioncs non scparalim placet tractari, sed  in ipsis argumcntalionibus esse implicalas. Nunc  de conclusione dicctnus. Conclusio est eiitus et determinano totius  orationis. llaec habel parles tres, cntimeralionem,  indignationem, conqueslionem. Enumeratio est,  per quam res disperse et diffuse diclae unum in  locum cogunlur, et reminiscendi causa unum sub  aspcctum subjieiuntur. llaec si semper eodem modolraclabilur, perspicue ab omnibus artificio quodam tractari intclligetur; sin varie flct, et hanc suspicionem et salictatem sitare poteri!. Quarc lum  oporlcbit ita Tacere, ut plcrique faciunt propter  facildalcm, singillatim unam quamque rem attingere et ita omnes transire breviter argumentationes; tum aulem, id quod diOlcilius est, dicere  quas partes exposucris iu partitone, de quibus te  pollicilus sis diclurum, et reducere in memoriam  quibus rationibus unatn quamque parlcm confirmaris; tum ab iis, qui audiunt, quaerere quid sii,  quod sibi velie debeant demonstrari, hoc modo ud docnimus, illud planum fccimus. Ita simul  et in memoriam redibit auditor, et pntabit nihil  esse praelerea, quod debeat desiderare. Atque in  bis gencribus, ut ante dictum est, tum tuas argumcutaliones transire scparalim, tum, id quod artiliciosius est, cum luis contrarias conjungerc; et  quum tuam dixeris argumenlationem, tuum, con   no! si difende, è necessario; o quando confessiamo esser vantaggioso ciò che gli avtcrsarii sostengono, ma esser onesto ciò che sosteniamo noi.  Questo è quel tanto che della confulaxione ho creduto si dovesse dire. Da qui innanzi tratteremo  della conclusione. Ermagora prima di trattar della  conclusione tratta del digresso. In questo ci fa  fantasia che s'abbia da porre un discorso che sia  spiccalo dalla causa e dal punto che ì a giudicare, e clic in tal discorso debba l’oratore far un elogio a sè stesso o metter in biasimo gli avversarli; ovvero toccar un'altra causa, da ritrarne alcun  che di conferma a suo prò; o di confutazione a  donno degli avversarli, non coll'argomcnlare, ma  coll’anncrvar la difesa per mezzo d'una cotale amplificazione. Chi amasse tener il digrosso per una  parte del discorso oratorio, il tenga pure a suo  grado con psso Ermagora; già dei precetti circa  all' amplificare, al dar lode, al muover biasimo,  parte io ne bo dati, e parte a luogo acconcio ne  porgerò. Che se io non pongo il digrosso nel novero delle altre parli, noi pongo perchè non mi  abbclla che si faccia digressione dalla causa se  non per mezzo di qualche luogo comune, spettante a vizio o virtù; ma di questo ò già a parlare da  poscia. Delle lodi e de' biasimi quel che mi resta  a dire non lo tratterò separalamcnlc, perchè io  considero e questi c quelle come innestate nelle  argomentazioni stesse. Ora veniamo alla perorazione o conclusione. La perorazione, o conclusione, è la uscila  e il termine del discorso intiero. Ila tre parli, enumerazione, indignazione, commiserazione. Enumerazione è quella, per cui si raccozzano in un  luogo solo le cose che si son dette sparsamente  qua c là, e si mettono come in un quadro davanti  agli occhi per potersene rammentare. Se 1' enumerazione si maneggiasse mai sempre di un modo, ognuno verrebbe agevolmente a sospirare esser essa maneggiala per un cotale artifizio; ma se  sia fatta con qualche varianza, potrassi rimuovere da chi ascolta tanto questo sospetto, quanto la  sazievolezza ingenerala dalla uniformità. Laonde  ora converrà farla, come la fanno di molli alla foggia più facile, voglio dire, toccar le cose ad una  ad una, c cosi passar di volo sopra ogni argomentazione; ora invece, il che è più forte a fare, ricordar i punti della partizione di che hai promesso che ti verrebbe da discorrere, e rider alla memoria le ragioni con che ogni parte bai confermata; e talora chiedere agli uditori che altro possono  volere che loro sia dimostrato, come sarebbe il  dire: Che volete di vantaggio 7 questo io ho fatto  vedere, di quest'auro ho già la evidenza rilevala.  Per iti modo e l' uditore potrà risovvenire che ira eam quoti adTcrcbatur, quemndmodum dilueris, oslendcre. Ila per tircvcm comparalioncm audiloria memoria «1 de confirmalionc el de reprchensioue redinlcgrabilur. Atquc liaec aliis aclionis quoque modis variare oporlebit. Nam luin ex  tua persona enumerare possis, ut, quid et quo  quidque loco dixeris, admoncas; tum vero personam aut rem aliqnam inducere, et cnutneraiionem ei totani atlnbuere. Pcrsonam boc modo :  Nam si legis scriplor exsislal, et quaerat a vobis,  quid dubitetis; quid possilis dicere, quum vobis  boc el boc sii demonslralum? Alque hic, ilem ut  in nostra persona, licebit alias siugdlalim transire  omnes argumenlationes, alias ad partilioncs singula genera relerre, alias ab auditore, quid desidercl, quaerere, alias haec Tacere per cnmparationetn 9 uarum et conlrariaruin argumenlatioiium.  Res autem inducetur, si alicui rei huiusinodi, legi, loco, urbi, monumento oratio allribueliir per  enumerationem, boc modo: Quid, si leges loqui  possenl ? Nonne baec apud vos quaercri nlur ?  Quidnam amplius desideralis, judices, quum vobis boc et hoc planurn factum sii? In hoc quoque  genere omnibus iisdem modis uti licebit. Commune autem praeceptum boc datur ad cnumeralionem, ut ex una quoque argumentatione, quoniam lotaiterum dici non polesl,id eligalur, quod  eiil gravissimum, et unum quidque quam brevissirne transealur, ut memoria, non oratio rcnovala  videa tur. Indignalio est oratio, per quam conficilur,  ut in aliqurm hominem magnino odium aut in  rem gravis olTensio cnncitcllir. In hoc genere illud primum intelligi volumus, posse omnibus ex  locis iis, qoos In conlirniandi pracceptis posilimus, trattari iiidignalionetn. Nam ci iis rebus,  quac persomi, et quac ncgoliis ullribulac suol,  quaevis ampMficaliones el iiidigualioncs nasci possuiti; sed lamon ea,quac separalim de indignalio  ne praeripi possimi, consideremus l'rinus locus questo o quello fu dello, e insieme si persuaderà  non v'csserc cosa ch'egli debba di vantaggio desiderare. E seguendo a dire dei modi con clic si  può variare la enumerazione, tu dovrai, come ho  dello innanzi, ora toccar di passo e a parte a parte le tue argomentazioni; ora, ciò clic domanda  più arte, metter vicine delle tue le argomentazioni dell' avversario; c poscia che avrai tocche le  tue, mostrare come abbi confutale le repliche di  quello. Cosi per questo breve raffronto l'uditore  potrà farsi ricorrere alla memoria e la conferma  dei punti ricordati e la confutazione clic se ne fece. E queste cose medesime si dovranno esporre  in modi differenziali, secondo clic comporterà la  specie di orazione: poiché ora potrai enumerare  in persona tua, ricordando quali cose bai dette e  a quali propositi; ora introdurre altra pcr-ona o  cosa, e farne far da essa tutta la enumerazione.  S'introduce una persona a questa maniera : Poiché se esistesse lo scrittore stesso della legge, e  vi chiedesse di clic siete dubitasi, che potreste rispondere ora che vi fu dimostro c questo c questo?  E qui similmente, come iu nostra persona, potremo toccare ad una ad una le argomentazioni tulle;  c alle volle scorrer i singoli capi secondo le divisioni che si son fatte; alle volle chiedere all' uditore che altro egli amerebbe, c late altra volle  invitarlo a dire se volesse pur altro dopo avergli  messe le nostre argomentazioni a raffronto con  quelle della parte contraria. Si ottiene la enumerazione mercé una cosa, se si attribuisce il parlare  dc'sunmii capi o a una legge, o a un luogo, a ima  città, a un monumento, eccetera. Per esempio:  Or clic sarebbe, se le leggi potessero parlare?  non si lagnercbber esse appo voi di cose s) falle?  Che volete di vantaggio, o giudici, mentre vi fu  mostralo a evidenza e questo e questo ? Ne' quali  casi si potrà egualmente far uso de' modi sopra  indiroli. Però il precetto sempre applicabile ad  ogni specie di enumerazione é questo, sfiorato anche sopra, che, siccome non si può ogni argomentazione di bel nuovo ripetere, si dee scegliere da  : ciascuna il punto clic più rileva, e toccarlo alla  succinta, tanto che sia richiamata la memoria del| le cose, non già rifatta la orazione,   LUI. Indignazione é un discorso, per cui si vieti  a capo clic sia colto addossa a qualche persona  un odio acerbo, o a qualche cosa una forte c dura  avversione. E qui innanzi a tutto voglio che si sappia come della indignazione si può trattare con  1’ appoggio di tutti quei lunghi elio ho svolli nel  dar i precetti sopra la confermazione: poiché lutto  quello che s’appropria alle persone c ai Tatti é una  Tonte copiosissima, da cui si può torre quanto bisogna per Tare qualsiasi amplificazione, e per in 121 .'ili   siiniilur ab auclorilalc, i|uum commomoranius ,  quanlac dirne rcs ca Inerii, nc per indignationcin oslendilur, ani ad omnes  ani ad majorem parlem, quod alrorissimum esl,  ao ad superiorcs, qitalcs suoi ii, quorum ex attclorllalc indignano sumitur, quod indignissimunt  esl, an ad pnros animo, fortuna, corpore, quod  iniquissinittm esl, an ad iitleriores, quod superbis  stimmi esl. Terlius Incus esl, per quom quoeri  tnus qiiidtiam sii evcntiiruni, si idem celeri fa  ciani; el simili oslendinius, buie si concessimi sii,  inulliis aemttlos ejusdem audiciac fuluros; ex quo  quid mali sii cvcnluruni, dciuoiislmbiinus. QuarI its locus esl. per qttem dcniuiislramus mullus alacrcs «spedare, quid slalualur, iti ex eo, quod  otti conecssuni sii, sibi quoque (ali de re quid li*  c.eal, inlelligcrc possinl. Quitilus locus esl, per  quem oslentliinus cclcras res perperatn conslilulas, inlellecla fCrilale, conimulalas corrigi posse;  Itane esse rem, quac si sii semel judicala, ncque  alio ronimulari itidicio, ncque ulla poluslale corrigi possil. Sexlus locus esl, per quem eonsullo  ri de industria faclum demonstralur, cl illuci ad  itingilur, toluulario maleficio vcuiam ilari non o  porlere, imprudenliae concedi iionnuniqtiam convenire. Seplimus locus est, per quem iudignamur,  quod lelrum. crudele, nefariurn, Ijraimicuni facilini esse dicanola, per vini, matium, opulenllam,  quac res ab legibus el ab aeqtiabili iure rcmolissiinae siili. Octavus locus est, |>cr quelli demonslratnus non vulgnre ncque faclilalum esse ne ab audacissimi* qiiidem liomnibiis id malelicinm, de  quo agilur; al. pie id a feris quoque liuminibus cl  a barbaris gcntibiis el immanibus bcsliis esse reinolimi. Dace crunl, quac in parcnles, libcros,  conj tgcs, consanguincos, supplice., erudclilcr far   generarci lo sdegno. Ora perù dubbiamo trattar i  preconi clic riguardano la indignazione in particolare. Il primo luogo oratorio, ovvero sorgente,  donde essa si fa derivare, 6 l'autorità, il credilo;  per esempio se ricordiamo quanto la lai cosa fu a  cura degli dei immortali, o di quelle persone, il  cui credilo e l'autorità dee esser avuta perdi gran  peso. E qui se ne caverà argomento o prova dalle  . sorti, dagli oracoli, dai vali, dagli eventi moslruo! si, dai prodigii, dai responsi, e da cose altrettali;   ; c per islesso modo dai nostri maggiori, dai re,  dalle ciilà, dalle genti, dagli'uomini più satii, dal  senato, dal popolo, dai legislatori. Il secondo è  i quello, per cui si mostra a quali persone fece dati1 no il lai fallo, eccitando lo sdeguo con quanto si  i può di amplificazione; o se lo fece a tulle, ovvero  alla piò parie, il clic è estrema atrocità; o se a*  superiori, ebe à cosa indegnissima; c qui si farà  nascere Tudiu dalla ragguardevolezza clic in loro  fu offesa; o se danneggiò altri che siano eguali  per qualità di animo, di fortuna, di corpo, il cito  è somma iniquità; o se gl'inferiori, clic è callivez] za piena di superbia. Il Icrzu luogo è quello, per  | cui si cerca che ne avverrebbe, se tulli facessero  ; a quel modo, c insieme si mostra clic se si desse  pus-ala a quel tale, si Accrebbero molli altri an1 dare alla stessa audacia; c qui si mostrerà quanto  gran danno incontrerebbe per ciò. Il quarto 6  quello, per cui diamo a conoscere che molli a orccclii lesi espellano che venga deciso, per sapere  da quanto s'indulge all'accusato quanto essi possano assicurarsi in caso simile. Il quinto luogo è,  quando mostriamo che si può bene ogni altra decisione, appoggiala a cadivi dati, mutar e correggere, insieme elio se no conosca la verità ; ma il  I fallo presente essere di lai sorla, che giudicalo  i una volta, ili si può mutare per altro giudicio, ni per veruna podestà se ne può alterare la decisione. Il sosto tende a dimostrare clic il fallo fu commesso da seuuo e a bella posta ; e qui si aggiungerà altresì clic a un misfallu lolouiario non si coui viene perdono: convenirsi solo alcuna volta indulgere alla inconsideratezza. Il settimo i quello, per  cui facciamo cruccio per essere il fallo orrendo,  crudele, nefando, tirannico, condodo con la vioi lenza, di mano del tale, con lo spreco di contanti,  le quali cose sono di troppo aborrenti dalle leggi  C d >lla nin i. -razione. L'ollavo luogo, o sorgente d'indignazione,   I ì quello per cui mezzo dimostriamo che il delitto  di clic si traila non è nò proprio del volgo, uè praticalo eziandio dagli uomini più audaci; anzi esser  nuovo agli stessi barbari, ai selvaggi, alle fiere piò  immani. Tali sono le sevizie con le quali diremo  essersi albi incrudito coirli o i genitori, i figli. la diccntur, cl doinceps si qua prolcranlur in majores ualu, ili liospilcs, in vicino*, in amicos, in  eos, quitiuscum vitaio lineria, in cos, apud quos  educai us sis, in eos, a quibus erudilus, in morluos, in miscros el misericordia dignos, in liomine-s claros, nobile* el lionore usos, in eos, qui ncque laedere alium noe se defendcrc poluerint, ut  in pucros, scncs, inulieres ; quibus et omnibus  acrilcr cucitala indignatio suiumuin in cum, qui  violarii horum aiiquid, odiuni comnioverc polcrit. Nonus locus est, per quem cumaliispeccalis,  quac Constant esse peccata, hoc, quo de quaestio  est, comparatur, et ita per conlcnlioneni, quanto  atrocius et indignius sit iilud, de quo ogitur,  ostenditur. Dccinius locus est, per quem omnia,  quae in negotio gerendo acta aulii, quaeque post  uegolium consecula sunl, cum uniuscujusqucindignalione et criminalionc colligiinus, cl rem verbis quam maxime ante oculos ejus, apud quem  dicilur, ponimus, ut id, quod iudignum est, pcrinde illi videalur iudignum, ac si ipse inlerfucril  et praesens videril. Undccimuslocus est, per quem  ostendimus ab eo factum, a quo minime oporluerit, et a quo, si alius Tacerei, proliiberi convenire!. Duodccimus locus est, per quem indignamur,  quod nobis hoc primis accideril, ncque alicui  umquam usu venerit. Tcrtius dccinius locus est.  si cum injuria contumelia juncla dcmonsiralur,  per quem iocum in superbiam el adrogantiam  odium concilatur. Quarlus dccinius locus est, per  quem pelimus ab iis, qui audiuut, ut ad suas res  noslras iujurias referant: si ad pueros perliiicbil,  de libcris suis coglioni; si ad muliercs, do uxori.  bus;si ad scncs, de patribusaut pareulibus. Quinlus dccinius locus est, per quem dicimus, inimicis quoque et lioslibus ea, quac nobis accideriul  indigna vidcri solere. El indignatio quidem bis  fere de locis gravissime sunielur. Conqucstionis anioni liujtismodi de rebus  parles pelcrc oporlcbil. Coi uj in sti o est oratio audiloruni miscricordiam caplaus. In liac. priuium  animum audiloris milem cl misericoidein conli'  cere o porle!, quo facilius cnnqueslione commoveri possi!, ld locis communibus eflicere nporlebiti  per quos fortunae vis io omnes, el lioniinum inGrmilas ostenditur; qua oratiune ballila graviler el  scnlenliose, maxime dimiilitur animus liomiuum,  el ad miscricordiam comparalur, quum in alieno  malo sua in infirmila toni consideralo! . Delude priuius locus est miscricordiae, per quem quibus in ài   il inarilo, la moglie, i parenti, i domandami mercè;  c cosi via via, i debili cunlru i maggiori di elà, gli  ospiti, i vicini, gli amici, quelli con elle vivesti .   0 presso cui fosti educalo, o da cui istruito, i morii, i miseri e degni di piulft, gli uomini illustri, i  nobili, c quelli clic liaiuiu sostenute onoranze pubbliche, quelli clic non poterono né offendere altrui, uè difender sè slessi, come sono i fanciulli,   1 vecchi, le femmine. Per (ulti questi molivi eccitandosi forte la indignazione, potrà fare che ognuno venga in grossezza e ira con chi avesse adontala   0 luna o l'ultra di queste persone. i*el nono luogo  si mene a riscontro la colpa, onde si controverte,  di altre colpe da tulli confessale per tali, c si dimostra argomentando esser di tulle quelle più atruce c più infame questa, di che si traila. Cui decimo razzoliamo tulle le circostanze chcaccunr  [lagnarono il fallo e le conseguenze che ne soli  poi venule con isdeguo c querela d’ognuno, c nielliamo il fallo davanti agli ocelli dell' uditore per  Tarma che ne ravvisi la indegnità come s'egli stesso ci fosse staio in mezzo e avesselo di presenza  veduto. Coll' undecimo meniamo a vedere essersi  fornito il fallo da chi meno il dovea, da ehi anzi  avria dovuto far rimanere qualunque altro l'avesse  Imlaio. Il duodecimo è quello, per cui ci scorrubliiamo della mala ventura di aver dovuto esser   1 primi a trattar un fallo, clic mai a nessun altro  avvenne di dover Irailare. Il licdicesimo è, se si dimostra all' offesa esser anche aggiunto lo scherno e la villania ; e in questo caso I' odio se la piglierà ancora con la superbia c l' alterigia degli  offensori. Il quarlodecimo luogo è quello, per cui  preghiamo gli uditori che vogliano immaginare di  aver ricevuto essi I' offesa che abbiamo ingozzalo  noi ; e se essa sarà caduta sopra fanciulli, ripensino essi ai Agli proprii ; se sopra femmine, pensino alle lor mogli ; se sopra vecchi, ai genitori o  parenti loro. Il quindccimo è quello, per cui diciamo clic quanto occorse a noi è cosa clic si tiene per indegna pur dai nemici c dalle persane più  ostili. Ua tulli questi luoghi e sorgenti si farà nascer gravissima la indignazione.   l.Y. Converrà ora vedere cumc dal fin qui dello  si traggano i mezzi e le fonti della commiscraziuue. È questa un discorso clic accada la compassione degli uditori, l'or accanarla prima cosa è  render inde e benigno l'animo di chi ascolla, colalcliè possa dalle querimonie esser ageminicele  commosso. Questo sì potrà conseguile per mezzo  dei luoghi e fonti comuni, pei quali si dj a vedere  la forza che esercita su tulli la fortuna, e la fralezza che fa declinar l’uomo ai male; c con questo  discorso fallo con parole gravi e senlcnziosc, si  viene ad ammollir furie il cuore degli uomini fi8 bonis fuerint, et nunc qnibus in malis sinl, ostcnditur. Sccundus, qui in tempora Irìbuilur, per  quelli, quibus in malis fucrint, et bini, et futuri  sinl, demoustralur.Tertius, per i|uem unum quodque deploralur incoromodum, ut in morte Dlii pueriiiae dcleclatio, amor, spes, solatium, cducalio,  et, si qua simili in genere quolibcldc incommodo  per conqueslioncm dici poterunl. Quartus, per  quem res turpes et bumiles et illiberalcs profercntur et indignac aelatc, genere, fortuna, pristino  honore, bcncficiis; quae passi perpessurive sinl  Quinlus, per quem omnia ante oculos singillatim  incommoda ponunlur, ut vidcatur is, qui audit,  siilere, et re quoque ipsa, quasi adsit, non terbis  solurn ad miscricordiam ducalur. Seilus, per  quem practcr spem in miseriis dcmonslralur esse,  et, qumn aliquid eispeclarel, non modo id non  adeplum esse, sed in summas miserias incidisse.  Seplimus, per quem ad ipsos, qui audiunt, similem casum converlimus, et petinrus, utdesuis libcris aul parentibus aut aliquo, qui illis carus debeat esse, nos quum videanl, rccordentur. Oclar us, por quem aliquid dicilur esse factum, quod  non oporlueril, aut non factum, quod oportueril,  hoc modo: Non adfui, non ridi, non posircmam  vorem ejus nudivi, non estremum spirilum ejus  eicepi. Itcm: Inimicorum in manibus mortuus  est, lioslili in terra lurpiler jacuit insepultus, a feria diu vcialus, eommuni quoque lionorc in morie  caruit. Nonus, per quem oralio ad mutas et crpertes animi res refcrclur, ut, si ad equum, dutnum , tcslem , sermnnem alicujus accomodes ,  quibus animus corum, qui audiunt et aliquem dicierunl, vehementer commovclur. Decimus, per  quem inopia, iulirmi tas, soliludo dcmonslralur.  Endccimus, per quem aut liherorum, aul parentimi , aut sui corporis sepeliendi , aut alicujus  ejusmodi rei commendano lìl. Duodeeimus, per  quem disjunctio deploralur ab aliquo, quoti) diducaris ab eo, quicum libenllssime vlzeris, ul a  parente, (ìlio, fratre, familiari. Terlius decimus,  per quem cum indignationc conqucrimur, quod  ab iis, a quibus minime convcnial, male traclc mur, propinquis, amicis, quibus benigne feceri mus, qnos adjulores furo pularimus, aut a quibus  indignum sii, ut servis, liberili, ebentibus, supplicibus. disporlo a esser misericordcrole, siccome quello  che nel fallo altrui riconosce la propria debolciza.  La prima fonte di compassione è il mostrare di  quali beni si borano forniti, e da che mali si trovano essi sbattuti gl'infelici. La seconda si diride  per tempi, c viene a descrivere le calamità dreni  ban sostenute, che sostengono in presente, e che  sono per sostenere appresso. La lena lagna di  qualsiasi crepacuore: cosi nella morie di un figlio  compiangesi la gioia che ne recava la sua puerizia,  l’amore, la speranza, il conforto, l'educazione, c  quanl' altro di simile potrà esser motivo di commiserazione. La quarta è quella, per cui si fa vedere che turpezze, che umiliazioni, che incivilii  ha dovuto e dovrà trangugiar l' infelice, indegne  della sua età, della sua slirpc, della sua condizione, dell' antico splendore, dei bencllzii da lui imparlili. La quinta è quella, per cui si schierano dinanzi agli occhi dell'uditore ad una ad una le disavventure deli’ infelice , affinchè ascoltando le  possa quasi clic vedere, e siane condotto a compassiono non pur dalle parole dell' oratore, ma  dal figurarsi d’essere quasi presente ai fatti stestiLa sesta è quando si dimostra esser un tale irretito nelle disgrazie senza speranza di poterne uscire.e mentre se u’atlcndcva qualche allcviazione,  non solo non esserne venuto a capo, ma precipitato anzi nelle miserie più dure. La settima ì quando imaginìamo in quelli che neascollano un infortunio simile al nostro, e ii preghiamo che nel veder  noi rammentino i loro figli, i genitori, o qualche  altro che lor debba esser caro. L’ ottava, quando  si dice essersi fatto ciò die non bisognava, o lasciato di fare ciò che si dovea, come a dire : Non  fui presente, non vidi, non ho udite le ultime di  lui parole, non ne ho raccolto il respiro eslrcroo;  oppure : E morto in potere dei nemici, giacque  indcccnlcmcnle insepolto in terra ostile, mislratlato a lungo dalle fiere, senza avere nè in morie  i comuni onori. La nona è quella, per cui s'appropria il discorso ad esseri muti e privi di ragione,  come se lu facessi parlare per altri un cavallo, lina casa, una veste; c questo è caso in cui quelli  die ascoltano e che hanno portato amore a qualcuno, restano vivamenlc commossi. La decima è  quando si dimostra l'altrui miscrlà, la debolezza,  l'abbandono di tulli. La undecima è quella, con  che si raccomanda che non manchino di sepoltura i figli, i genitori, il proprio corpo, o clic sia foritila qualche altra cosa consimile. La duodecima  deplora la separazione che dei sostenere da qualche tuo amorevole, con cui menasti vita della migliore tua voglia, come sarebbe dal padre, dal figliuolo, dal fratello, dall'amico. La tcrzadccima  è quella, per cui alle querele accoppiamo altresì (joartus decimus, qui per obsecralionem  sumilur; in quo oraninr modo illi, qui audiunl,  humili el supplici oralionc, ut miscreanlur. Quintus decimus, per quem non nostras, scd corum,  qui cari nobis dcbcnl esse, forlunas conqueri nos  demonstramus. Sextus decimus, per quem animum nostrum in olios misericordem esse ostendimus, et tamen amplum et escelsum et patienlem  incommodorum esse, et futurum esse, si quid acciderit, demonstramus. Nam sacpe virlus et magniCcenlia, in quo gravilas et auctoritas est, plus  proOcit ad misericordiam commorendam quam  liumililas el obsccralio. Commotis aulcin animis,  dlutius in conqucslione morarì non oportebit.  Qucmadmodum enim dilli rbctor Apolionius, lacrima nihil citius aroscil. Sed quoniem et satis,  ut (idemur, dcomnibuspartibusoralionis diiimus,  el hujus «nluminis magnitudo longius processil,  quac scquuntur dciriceps, in sccundo libro diccmus.  SS)   10 sdegno di esser duramente tribolati da chi noi  dovca, come a dire dai parenti, dagli amici, da  quelli che hanno da noi ricevuto del bene, i quali  ci snidavamo dovessero esserci aiutatori , o da  quelli che non ci potevano mislratlare se non con  la più nera indegnità, come sono i servi, i liberti,  i clienti, e quelli che altre volte sono ricorsi a noi  supplichevoli. Il quartodecimo luogo o fonte di compassione £ la preghiera, con clic facciamo forza al  cuore di quelli che ascoltano, per discorso reumiliato c che va alla mercede loro, perchè ne facciano misericordia. Col decimoquinto mostriamo  di compiangere non le nostre disavventure, ma  quelle di coloro che ne debbono esser amati e cari. Col seslodccimo dimostriamo che il nostro  cuore è pietoso verso altrui, ma che tuttavia nelle  presenti disgrazie è magnanimo, elevalo o sofferente, quale altresì sarebbe, se altro gli fosse per  incontrare. Ed è un fatto, che sovente la virtù e   11 portamento di grand'animo in uomo autorevole  e grave fa più al muover la compassione che non  farebbe rumiliamcnlo e la preghiera. Commossi  gli animi, non si vuole esser lungo nella querimonia, poiché, a detto del retore Apollonio, niente  si asciuga più presto che le lagrime. Or, poiché  ho dello a bastanza, per mio avviso, circa le parti  tutte dell'orazione, e questo libro m’è anche venuto un po' troppo allungalo, dirò a mano a mano nel secondo libro le cose che mi restano da cs porre. Tullio culla eoo una elegante narrativa, e poi passa a trattare del genere gludic iato, e della costituitone congetturale,  e deferiti a che per agitare si fatte cause dee ricorrere e ruttore c l'accusato.   Della costituitone definitiva,' indi della traslativa.   Della costituitone generate, di cui spiega Tullio le due parti in che essa ai divide, eiósonolinegotialcelagioridiciilc.  Delle controversie circa lo scritto.   Del genere deliberativo, e delToncslo e deU'utile.   In Due, del genere dimostrativo. Crolortialac quondam, quum llorcrent omnibus copiis, et in Italia cum primis beati numcrarcnlur, lemplum Junonis, quod religiosissime colebaul, egregiis picturis locupletare toluerunl.  Ilaque ileracleolem Zeuxiu, qui lum longe ccteris ciceilere pirloribus csislimabalur, magno prelio conductum adhibucrunl. Is et cclcras contplurrs fabulas pinxil, quarum nonnulla pars usque  ad nostrani memoriam propter funi religloncm retnansil, el, ut exccllcnlem muliebris formac pulcritudinein muta in scse imago contiueret, Ilelenac pingcrc se simulammo velie diiil; quod Crotonialac, qui eum muliebri in corporc pingendo  plurimum aliis pracstarc saepe acccpisscnt, libcnler audicrunl. rulavcrunt enim, si, quo in genere  plurimum posscl, in co magno opere elaborasscl,  egregium sibi opus ilio in fatto rcliclurum. Ncque  tum cos ilia opinio fefeliil. Nani Zeuiis illico quacsivil ab cis, quasnain virgines forntosas liabcrcnt.  Illi aulem statini hominem dcduicrunt in palestram, atquc ci pucros ostcndcrunt multos, magna  praedilos dignilalc. Elenim quodam tempore Crolonialac mullum omnibus corportim viribus et dignitalibus anlcstclcrunt, alquo lioncslissitnas ci  g vinilico ce riamine viclurias domum cum laude  maxima rclulcrunt. Quum pucrorum igiiur formas Croloniesi, allorché erano in florido e di  ogni bene rinfusi, c in Italia coniali Ira i popoli  più felici, fecero su pensiero di voler arricchire  di dipinli i più squisili il (empio di Giunone elio  veneravano a grande rispello ed onore. A ciò insilarono Zelisi di Eraclea, che di quei tempi avea  nome di eccellente in pittura sopra ogni altro, c  a gran contante patlovirono con esso il lavoro. Costui vi condusse parecchie dipinture, delle quali  alquanto poca parte si conservò lino ad oggi per  la venerazione in che il tempio fu sempre avuto;  c per comporre una imaginc clic nella sua mutezza esprimesse quanto può avervi di sfolgorala belili in fattezze muliebri, si profferse di voler fare il  ritratto di Elena. 1 Croloniesi udirono questo del  miglior grado, siccome quelli ebe spesso arcano  udito come in dipinger sembianze di donna ci lasciavasi in dietro ogni altro di lunga mano. Faceano ragiona che se egli, il quale in dipinger  donne era al postutto vaiente. Tosse stato attorno  a quel lavoro con proposito di farne ogni suo potere, avrebbe lasciato nel tempio un’opera di somma eccellenza, Mési apposero in fallo. Zcusi chiese tosto quali avessero donzelle di più bellezza.  Esssi lo condussero inconluuculc nella palestra,  e gli fecero vedere molli garzoni di maestosa av CI et corpora magno liic opero mlrarelur: llorum,  inquilini illi, sorores suol apuli nos virgines Oliare, qua siili illac ilignilalc, polcs ex his suspicari.  Pracbetc igilur milii, quaeso, inquit, ex istis virginibus formosissimas, dum pingo id, quod pollicilus suiti vobis, ul mutui» in simulacrum ex animali esemplo vcrilas Iransferatur. Tum Crotoniatae publico de concilio virgincs unum in locum  coiiduxcrunl, cl pictori quam velici eligendi potèslatcm dedcrunl.Ille aulein quiuquedelcgit; quarum nomina multi poiitac mcmoriac prodiderunt,  quod ejus csscnt judicio probalac, qui pulcriludinis habere verissimum judicium dcbuissel, Ncque cnini putavil omnia, quac quaercret ad i cuti  slalom, uno se in rorporc reperire posse, ideo  quod niliil siuiplici in genere omnibus cv partibus  perfeclum naluru expolivit. Ilaquc, tamquam ccleris non sii habilura quod largialur, si uni cuncla  enncesseril, alimi olii commodi aliquo adjuucto  iurommodo muneralur. Quod quoniam nobis quoque toluulatis acridi!, ut urlcui diccildi pcrscribcremus, non unum  aliquod proposuimuscxeinplum,cujusonines parics, quoenmqnc esscnl io genere, exprNneodac  nobis necessario viderenlur; sed, omnibus unum  iu locum coaclis scriploribus, quod quisque commodissime pracripere videbalur, cxcerpsimus, et  ex variis ingcniis excelleulissima quaeque libaviinus. Ex iis Chini, qui nomine et memoria digiti  sunl, ncc mini optiine, nec omnia pracclarissimc  quisquam diccre nobis videbalor. Quaproplcr stultitia visa csl aul a bene inventis ulicujus recedere,  si quo in vitto cjusoITemJerctnur, aul ad vilia quoque cjus accedere, cujus aliquo bene pracccplo  duccremur. Quodsi in ccteris quoque sludiis a  umili, cligere boni ncsconnnodissimuin quodque,  quam sesc uni slicui eerto/cllcnl addiccrc, minus  in adrogantiam oOenderent; non tanto opere in  viliis perseverami! ; aliquanto levius ex inscienlia  laborarcnl. .Ve si par in uobis liujus arlis atquc in  ilio picluruc scienlia fuisscl, fonasse magis Ime in  suo genere opus nuslruin, quam ilio in sua pictura nobilis enilercl. Ex majore cium copia uobis  quam iili fuil eiempiorum eligendi poleslas. lite  una ci urbe et cv co numero virginum, quac tum  eranl, cligere poluìl: nobis omnium, quicumque  fueruut ab ultimo principio liuj-is pracceplionis     veneroleixa. E infatti una volta I Crotonicsl andavano innanxi a ogni altro popolo per corpi fatticci  e di nobile appariscenza, c negli agoni ginnastici  vernano riportando con ispantc lor lodi vittorie  onoratissime. Or mentre Zcusi si dava attorno ad  ammirare i corpi c le fattezze di quei garzoni; Son  qui fra noi, dissero i Croloulesi, le vergini sorelle  di colesloro, le quali quanto sieno di bellezza vantaggiale, da questi loro fratelli ne puoi far saggio. Ed egli: di grazia, me ne date le meglio leggiadre finché io travagli il dipinto clic vi ho profferito, c annesti nella mula effigie la verità dell'animato esemplare. Altura i Crotonicsi di comune conserto ragimarono insieme le loro donzelle,  c fecero copia al dipintore di scerre delle tante  quella ch'egli volca. Egli ne fece eletta di cinque,  i cui nomi dappoi per molli poeti furono messi in  celebrità per esser esse in conto di belle nel giudichi di quell'imo, clic della bellezza dovea essere giustissimo estimatore. Ne volle cinque, perchè non andava capace di trovar in solo un corpo  quanto ei cercava di venustà, però clic non v' ha  individuo di veruna specie, in cui la natura alftzzunassc e rendesse perfetta ogni sua parte; tanto che essa, come se non avesse più die dare agli  altri se concedesse lutto ad uno, alle doli clic dispensa a questo o a quello mette sempre allato  una qualche imperfezione.   II. Or poiché avvenne pur a me ch'io fossi d’animo di scrivere sopra l' arte di parlare, non mi  proposi io già mi qualche modello speciale, da  dover di necessitò ritrarre in tutte le sue parli, di  qualunque ragione esse si fossero; ma mi raccolsi innanzi quanti di tale materia hanno già scritto,  e ne presi da ciascuno i precetti clic uh parvero  il caso, sdorando dai v arii ingegni quanto di più  eccellente ti Iruvai. Perocché di lutti gii autori  die son degni di esser nominali c tenutane memoria io m'avvisai die ognuno dice belisi quatdie  cosa di gran rilievo c peso, ma clic noti ogni sua  cosa è della stessa qualità. Oud' è dio io repulai  non essere da buon senno clic io rifiutassi ciò die  alcuno ha ritrovalo di buono, solo perchè io mi  fussi imbattuto ili quulelic suo difetto, che mi spiacesse, ovvero che io ne andassi dietro fin anche  alle pecche, se di qualche suo buon precetto avessi preso piacere. Che se anche negli altri studii  amassero gli uomini scerre da molli il lior delie  cose più presto clic attenersi agl'insegnamenti di  uno svio, saiieno meno presontuosi, itoti islarcbbero nei difetti cotanto alla dura, ed anche s' uvrebbero d’ignoranza alquanto meno, E se io dell'arlc retorica avessi una scienza clic stesse iu ragguaglio con quella clic avea Zeusi della pittura,  forse clic quest'opera risponderebbe nei suo gc li usquo od hoc tempus, eiposills copiis, quodcum  quc placerct, eligendi poteslas fuil. Ac vcleres qui  dem scriplorcs artis usque a principe ilio alque  inventore Tisia rcpelilos unum in Incum condoli!  Aristolelcs, et nominalint cujusquc praccepla magna conquisila cura perspicue conscripsil, alque  enodala diligentcr ciposuil; ac tantum invenlorilius ipsis suavilale et bretitale diccndi praestitil,  ut nemo illorum praccepla ex ipsorum libris cognoscat, sed omnes, qui quod illi praecipiant vclint intelligcre, od liunc quasi ad qucmdam multo  commodiorcm eiplicalorcin revertanlur. Atquc hie  quidem ipse et so ipsum nobìs, et ens, qui ante se  fucrant, in medio posuit, ut celeros et se ipsum  per se eognosccrrmus : ab hoc aulem qui profccli  stilli, quamquam in maximis philosophiac partibus  operae plurimum consumpserunt, S'cul et ipse,  cuius instiluta sequebanlur, beerai, tamen permulla nohis praccepla dicendi reliquerunt. Alque  alii quoque alio ex fonte praeceplores dicendi  emanavcrunl, qui ilem permullum ad dicendum.  si quid ars prolicit, opilulati sunt. Nani fuit tempore endem. quo Aristutcles, magnilo et nobili*  rhclor isocrales; cuius ipsius quam conslet esse  arimi, non invenimus. Discipulorum aulem, ali|ue  eorum, qui prolinus ab hac suoi disciplina prufccli, multa de arte praccepla repcrimus. Ex bis duabus diversi* siculi ramiliis, quartini allora quum vcrsarelur in philosophia, nonnullam rhcloricae quoque arlis sibi curam adsumebal, altera vero omnis in dicendi crai studio el  pracceptione occupala, unum quoddam est connatum genus a poslerioribus, qui ab ulrisque ea,  quae commode dici vidcbanlur, in suas arles conlulerunl, quos ipsos simul alque illos supcriores  nos nobis omnes, quoad facullas lulit, proposuimus, et ex nostro quoque noniiibil in commune  coiiluliinus. Quud si ea, quao in bis libris expotiuiilur, laido opere eligenda fuerunl, quanto studio ciccia suut, prorecto ncque nos ncque alios  iuduslriae noslrac poenitebit. Sin autem temere  aliquid alicuius praclcriisse, aul non salis degan   nere più che nella pittura ci non fece; poiché io  a potere far scella ho maggior abbondanza di modelli ch’ei non ebbe polulo avere. Egli raccolse il  meglio in 3ola una cillà e fra quel numero di donzelle che vi Bveano allora: io per contra ebbi innanzi agli occhi tulio il gran capitale che hanno  ammassalo quanti furono lino da quando si cominciò di ridur quest' arte a precedi, e vi potei  scegliere ciò che meglio mi abbellava e piaceva.  Quanti v'ebbero scrittori di retorica per insino da  Tisia che ne fu l' inventore, e primo ne scrisse,  tutti gli raccolse insieme Aristotele, e i precedi  che con molla cura rauuò da questo e da quello,  citandone anche il nome, pose con tutta chiarezza in iscritto, e sviluppò e svolse con precisione;  e tanto seppe eccellere gli stessi primi inventori  per piacevolezza e brevità di dedalo, che nessuno  sa conoscere esser quei loro precetti tolti dai libri loro, ma conviene che qualunque, il quale voglia sapere che si dicessero con quei loro precedi  gli antichi, ricorra a lui come ad esplicalorc molto  più frullcvolc e più giudizioso di ogni altro. Anche più, che questo autore ne pose innanzi sé steso oltre quelli che erano stali prima di lui, acciocché per mezzo suo conoscessimo e gli altri e lui  medesimo. Quelli poi che lo secondarono oppresso, eziandio che mollo spendessero ili fatica piai disio nella trattazione delle parli cssenzialPdclla  filosofia, come avea fallo quell'esso, di cui seguivano le dottrine, tuttavia ne lasciarono un buon  dato di precetti pur sopra l'arte del dire. Prece dori di quest' arte nc uscirono fuori anche da altro  fonte, i quali similmenle recarono assai soccorsi  al dire, se pur l' arie si lascia alcuna cosa soccorrere. E infatti a’ tempi stessi di Aristotele fu un  grande ed eccellente retore, Isocra'e voglio dire ;  ma quali leggi ci seguisse dell' arte sua, non ho  trovalo chi il sappia. Bensì i suoi discepoli, e quegli altri che vennero da questa sella troviamo aver  lascialo ben molti precetti di retorica.   HI. Da queste due dirò cosi diverse famiglie,  l’uno, avvegnaché di professione trattasse filosofia,  pur facea qualche sludio anche dell’orle relorica,  e quella d’ Isocrate era tutta iu faccende solo nel  far l'esame e dar leregple del ragionare. Or queste due famiglie furono ridotte a una sola dai posteriori, i quali introdussero nell' arte che insegnavano quaulo han trovato di buono c di meglio  negli uni e negli altri ; c son questi medesimi e  quelli più antichi che io mi proposi di seguire  quanto lio potuto, e coi quali ho messo in comune  pur qualche poco di mio. thè selccosc che ho esposto in questi miei libri io le ho Irascelte con quella  colatila cura che una scella cosi rilevante pur domandava, corto della mia industria né io posso, né ler scemi viilcbimur, dodi ab aliquo Tacile cl libenler commutabimur sen'cnliam. Non enim panini cognossc, sed in parum cngnilo stililo et din  perseverasse turpe est, proplerea quoti nllcruni  eommutii linminum iuflrmitali, allcrum singolari  unius cuiusque litio est atliihulum. Quarc nos  quidem sinc ulta adfirmalione simut quacrcntes  dubilanter unum quidquc dicemus, ne, riunì parvulum Ime eonsequinmr, ut salis linee rommnde  perscripsisse videamur, i limi amitlamus, quod  maximum est, ut ne cui rei temere alque adroganter adscnserimus. Verum Ime quidem nos cl in hoc  tempore et in onini vita studiose, qnoad Tacullas  lerci, consequeniur. None autem. ne longius oralio progresso ndcalur, de reliquia, quae praeeipicnda videntur esse, dicemus. Igilur primus liber,  ciposito genere liuiusarlis el olllein, et (Ine, et  materia, et partibus , genera controversiarum et  inventiones el eonslitutiones et iudieationes eontinebal, deinde parles oralionis et in eas omnes  omnia praecepla Quarc quum in co ccloris de rebus dislinctius dicium sii, disperse autem de con  llrmalione el do reprchensione, nunc cerlos confirniandi cl repreliendendi in singula caiisarum  genera locos tradendos arbiiramur. El quia, quo  pacto traclari convenirci argumentaliones, in libro primo non indiligcnlcr espositum est, hic tantum ipsa inventa unam quantque in rem exponentur simplieiler sinc ulta eiornalionc, ut ex hoc  inventa ipsa, ex superiore autem eipoldio invenlorum pelalur. Quarc liacc, quac mine prnccipicntur, ad confirmationis et reprchensionis parles rcferre oporlcbil. Omnis cl demonstraliva cl deliberativa cl  iudicialis causa necesse est in aliqno carimi, quac  ante exposila sunl, eonstilulionls genere, uno piu  ribusve, verselur. Hoc quamquam ila est, lumen  quum communilrr quaedam de omnibus praeripi  possi»!, separatilo quoque aliac sunl cuiusque  generis diversac pracccptiones. Alimi enim laus  ani vituperano, aliud sente.nlian dictio, alimi accusatili aut rccusalio conflecrc debet. In iudiriis,  può andare scontento chi che sia. Se poi dì qualche autore io avessi senxa avvisarmene prelermesso alcun che, o trascrillo con meno di pulitezza !e  cose clic mi pareano da dover adottare, quando io  ne sia fallo accorto da qualcheduno, io son presto  a far di leggieri c della miglior voglia le necessarie  mulaiioni. Non è vergogna aver delle cose una  conoscenza rislrellu, ma bene è do vergognare a  dii durasse scioccamente c alta lungo in cono  scema si fatta : poiché la primo è propria della  pochezza umana, c l’altra non è chorgrossn difetto  di colui elle se ne accontentasse. Laonde io laserrù nel loro dubbio le ricerche die sono per fare,  c delle cose clic dirò mi vorrò cessare da ogni affermazione, acciocché mentre io vengo a capo ili  scrivere questa materia sufficientemente bene, die  pur t cosa menoma, io non perda ciò che più rileva, voglio dire il merito di non aver acconsenlilo  a cosa veruna da arrogante c inavveduto- Il che mi  servirà di regola, per quanto potrò, si nella circostanza presente, e si ancora in ogni altra occasione  della mia vita. Ma perché il mio discorso non si  distenda troppo in parole, vengo agli altri precetti  die restano da insegnare. Or il primo libro, dopo di aver detto che specie di orte sia la relntica,  c quale sìa il suo ufficio, il (ine, la materia, In  parli, lia ragionalo de'tarii generi di controversia,  dc'modi di trovare gli argomenti, delle costituzioni delle cause, dei punti da giudicare, dipoi delle  porli dell’ orazione, e di lutti i precedi clic a lune  codeste parli si riferiscono. Il perchè , siccome  delle altre cose si è parlalo in quello alquanto distintamente, ma della confermazione C della confutazione non altrimenti clic a spizzico, io Iroro  da dover ora insegnare i luoghi ovvero le fonti acconce a fare la confermai ione c la confutazione In  ciascuna specie di causa. E giacché nel primo libro lio dimostro non senza esali- zza come sian ila  svolgere c maneggiare le argomentazioni , qui si  esporranno nudamente c senza alcuna politura le  invenzioni acconce per ogni bisogno, affinchè da  questo I bro si allindano solo le argomentazioni  trovale, mentre dal primo se nc attinge anche l'ornamento e la politura. I precetti adunque che vengo ora a porgere si vogliono riferire olla confermazione c alla conlu lozione.   IV. Ogni causa, sia duno-lrativa, sia deliberativa, sia gìudiciale, dee necessariamente aggirarsi  in uno o in un altro genere di cosliluzione, sia  uno, o sic o più, dei tanti clic sonosi per addietro  dimostrati. Tuttoché non possa essere altramente,  pure siccome V ha precetti applicabili in comune  a tulli i generi di cause, cosi ve n‘ ha altri diversi  che di ciascun genere sono propri! e speciali. Perocché altro dee avere per Isropo la lode o la dif tn quello, aitine di far apparire  quanto gli sia possibile che P accusalo fu indotto  a misfarc da una ragiono che Iroppo gli cattava  bene. Se questa ragione era la gloria, ciduvrò far  vedere quanto di gloria colui imaginava gliene  sarebbe seguilo; e cosi se la ragione, se lo scopo  era o dominio, o danaro, o incontrar amicixia, o  romper nimisiò , insomma qualunque ragione colui avesse di far ciò clic fece, egli dovrò aniptiQcarla quanto piò sappia. Anche dovrò attesamente  speculare, non pure se fosse ragion vera che  mosse l'accusato, ma eziandio, c mollo piò, quale  fosse la opinione clic esso n'avea: poiché nulla  molila clic non ci fosse o elle non ei sia nella ragione del fallo un vantaggio o un dissutile, se può  provarsi che l’ accusalo tenevo realmente che  questo o quello ci fosse. L'opinione fa allucinare  gli uomini per due modi, o quando una cosa è  d’altra maniera ch'essi non credono, o quando un  successo riesce diversamente da quello ch'essi hanno pensato- La cosa è d'altra maniera quando essi  credono un male ciò che è un bene, o per centra  un bene ciò che ò un male, ovvero credono male  o bene ciò che non è bene nè male, ovvero credono nè male nè bene ciò che è bene o male, inteso questo, se l'accusalo dirò non v' esser somma di danaro che gli sia più accetta c più cara  clic la vita del fratello o dell'amico, o ancora del  proprio dovere, non dovrò l'accusatore negargliene; poiché ci si trarrebbe addosso una pecca, un  odio acerbo, negando una asserzione clic può esser vera nel tempo stesso che è pia. Solo potrò  dire l'accusatore che colui non pare essere di questo avviso, e darò rincalzo al suo dello con gli  argomenti elio si traggono dalie persone , dei  quali fla dello più sotto.   VII. Il successo inganna quando esso riesce  allramenlc da quello che gli accusati o altri qualunque si promettevano; come se si dicesse clic un  tale ha moria altra persona da quella che avria  voluto, perchè trailo in errore o dalla somiglianza, o dal sospclto, o da una appariscenxa  fallace; n che l’ha uccisa perchè fu di credere  ch’essa nel testamento lo avesse nominalo suo  crede, mentre secondo il testamento l'crcdilò non  era legala a lui. Non si dee desumere la intenzio tasti utalur, ad rem pcrlincre. In hoc attieni loco  caput illud erit accusatori, si dcmonslrarc polerit  alti neniini causam fuisse faciendi; secundarium,  si tanlam aul tam idoneam nomini. Sin fuisse aliis  quoque causa faciendi xidebitur, aut poteslas defunse aliis demoiislranda est, aut farullas, aul voluntas. Polestas, si aul nescissc, aut non adfuissc,  aul enndeere aliqtt'd non poluisse dicelur. Eacultas, si ratio, adiutore», aditi menta celcraquc, quae  ad rem pertinebunl, deruisse alicui deni'tusirabun  tur. Voluntas, si animus a talibus faclis vacilli» et  integre esse dicelur. Pnslrcmo, quas ad defensionem rationes reo dab mos, iis accusalor ad alins  ex culpa eximendos abutelur. Veruni M breii faciendtim est, et in unum multa sunlconducenda,  ut ne alterius defendendi causa huuc accusare,  sed huius accusandi causa defcndcrc altcrura videalur. Atque accusatori quidem hacc fere sunt in  causa faciendi consideranda. Defensor autem ci  contrario primum impul9Ìonem aut nullam fuisse  dicet, aut, si fuisse concedei, exlenuabit, et porvultm quamdam fuisse demonstrabil, aut non ei  ea solere huiusmodi facta nasci docebit. Quo erit  in loco demonstrandum, quae vis et natura sii eius  adfcclionis, qua impulsusaliquid rcus commisissc  dicclur; in quo et exempla et similitudincs crunl  profercndae, et ipsa diliirenler natura eiusadfeclionis quam lenissime quielissimam ad parlcni eiplicanda, ut et res ipsa a facto crudeli et lurbulcnlo  ad quiddam mitius et tranquillius traducalur, et  oratio Inmcn ad animum eius, qui audicl, et ad  animi qucmdam inlitnum sensum accommodetur.  Ratiocinationis autem suspicione.» infirmabil, si aut  commodum nnllum fuisse, aut parvuin, aut aliis  magis fuisse, aut niliilo sibi magis, quam aliis, aut  incommodum sibi maius, quam commodum dicci;  ut nequaquam fticril illius. cominodi, qund expelilum dicalur, magnitudo aut rum co incommodo,  quod accidcrit, aut cttm ilio periculo, qund subcatur, comporti tela: qui omnes loci simdiler in iucommodi quoque vitatione traclabunlur. Sin accusalor dixerit cum id esso scculum, quod ei usi m  sii commodum, aut id fugisse, quod putarit esse     ne dal successo, ma bensì badare quale Tu proprio  l'intensione c la speranza con che l'animo si è  accinto a malfare: perocché quel clic fa al caso  si è il vedere la intenzione con la quale altri fa  un fallo, non la uscita a che il fatto stesso è venuto. E qui il punto primario per l'accusatore  sta in questo, che possa dimostrare come verun  altro, dall'accusato in Tuori, non ebbe la ragione  ch’ebbe egli di venir a quel fatto: il punto secondario è prmarc che nessun altro polca avere  unti ragione di si gran peso ed opportunità. Che  se potrà pur essere clic altri avesse la stessa ragione di fare, si dimostrerà che nondimeno gliene mancava o il potere, o il destro, o la volontà; il potere, se dirassi ch’egli non se ne  seppe, n che non fu presente, o clic non ebbe  i mezzi per fare; il destro, se si rnoslrerà clic  non ebbe nè modo, nè nppnggialori, nè aiuti, nè  quant'allro saria stalo di bisogno; la volontà, se  dirassi che egli ha un animo scevro c intatto da  opere dì si falla maniera. Da ultimo, le ragioni  che daremo all’accusato per la propria difesa son  le stesse che tirerò al suo vantaggio I’ accusatore  per purgare da colpa qualunque altro che invece  di quello fosse accusato. Questo però si vuol  fare alla breve, ammassicciando in uno piò cose,  tanto clic si paia non clic s’accusi questo per  difender quello, ma che si difende l'uno per anzi  accusar l'altro.   Vili. Tali sono le considerazioni clic dee far  l'accusatore rispetto alla ragione che mosse l'accusato a far quel clic fece. Il difensore in quel  cambio dee tenere diversa via. l a prima cosa c!  dirà clic quel fallo non venne da impulso d'animo, o se concederà elle un impulso ci sia pure  stato, farà di stremarlo e mostrare che fu assai  lieve, ovvero farà vedere clic falli di quella maniera per l'ordinario non procedono da impulso  interno. E qui ci verrà dispiegando la forza c la  natura di quella affezione, da cui si dice essere  stato impulso l’accusato a commetter I’ azione  imputatagli: porgerà a difesa esempii e similitudini, c svolgerà accuratamente quel molo dell’animo dal suo lato più calmo e più tranquillo;  talché il fatto stesso, che è cagione di accusa,  di crudele e turbolento pas-i ad aver sembianza  di mite e pacato, e il discorso sia nondimeno acconcio a svegliar nell'animo di chi ascolta un sentire accostante alta sembianza elle si vuol dare al  fallo. Il difensore anche addebotirà i sospetti appoggiali a raziocinio, se dirà che dal fallo non  venne vantaggio di sorta, o che ne venne pochissimo, o che esso profittò agli altri mollo piò, o che  niente piò all'accusato che agli altri rftin fece, o  anzi gli tornò più a danno che a utile; di forma ti incommodum, quamquam in falsa fucril opinione,  dcmonslrandum crii ilcfcnsori ncniinem Ionia esse  slullilia, qui tali in re possil verilatem ignorare.  Quod si id conccdnlur, illud min ronccssum ili,  ne dubitasse quiilem lume, quid u-rius ossei, sed  id. quod falsimi Inerii, sino olla duliilalione prò  vero protrasse. Quod si duliiliirit, smuntile Inisse  amctilioedtibias|ie inipulsiiin eerlurn in periculiini  se conunillere. Qiieniadniodum anioni areu-alnry  quum ab aliis culpam deiuovebil, defensoris Ineis  ulclur, sic iis locis, qui a-cusatori doli soni, utelur rem, quum in ilios ab se crimcn vote! Iran  s Terre.  Et persona uulem eonicclura capielur, si  rac res, rpiae personis atlriliulae soni, diligenler  eonsidcrabuntur, qnas omnes in primo libro ovposuimus. N.un el tic nomine nonmunqunin aliquid  suspiciouis nascilur. Nomen ameni 1 poco scaltra, che possano essere ribattuti evoltali a utile della parte contraria;  della qual fatta sono i Ire clic ultimamente ho toccati. Quanto (• alta querela gravissima, con che si  dimostra che seguirebbe scompiglio in tutliquonli  i giudicii, ove l' accusatore avesse licenza d' infligger la pena a chi non fu condannalo, l'accusatore addebolirà essa querela primamente se farà  vedere esser il fatto una ingiustizia cosi acerba,  ila non poterla portare un uomo dabbene, e molto  ancho meno un uomo libero; dipoi se farà conoscere esser essa cosi evidente, ria non poterla  mettere in dubbio neppure colui medesimo elio  la commise; poscia esser di tanta gravità, che  colui clic n’ha fatto punizione l’ha senza altro unno n. communis accusatori in cum, qn>, quum id.qnnd  argnilur, negare non possi!, lamen al quii! sibi  spai compn et ex iudlciorum pcrln» boli, no ,\ ! quc  hic ulilitalis iudiciorum ocmonslrnliu et de co  conquesti» , qui supplicium dederil indi miinlus ;  in eius autem, qui sumpseril, audacia!» pi crudrlilalcm indignali». Ah defensorp. In eius , quem  ullus sii, audacia!» sui conquesti» : rrm non ex  nomine ipsius negolii, sed ex consilio eius, qui fe  ccril, et causa et tempore consideraci nporlerc ;  quid mali fulurom sii ani ex iniuria aut ex seriore alicuius, nisi tanta et Ioni perspicua audac a ab  eo, ad cuius famam, aut ad parentes, aut ad li  beros perlinuerit, ani ad aliquam rem, quani caram esse omnibus aut ncccssc est, aut oportel esse, fueril «indicata. Remolio criminis est, quum eius inleidio  f ieli, quod ab adversario inferinr, in atium aut in  aliud dem >velur. Id IH bipcrlito ; nam tum causa,  lum res ipsa removetur. Causae remotionis hoc  nobis esemplo sit: Rhodii quosd.im legarunl Ailienas. Legatis quacstorcs sumplum, quem oporlcbal  dari, non dcderunl. Legali profedi non stud Accusantur. Intenti» est : Profieisci oportuit, Dipoi  sio est: Non oportuit. Quaestio est: Opertucrilnc?  Ratio est: Sumptus enim, qui de publico dari sole!, is ab quacstore non est datus. Inflrmalio est:  Vos tamen id, quod publice vobis erat negotii datum, conflccrc oporlcbal ludicatio est: Quum iis,  qui legali eranl, sumptus, qui debebatur de publico, non daretur, oporlueritnc eos conlieere nihilo minus legalioncm ? Hoc in genere primum,  sicut in coieria, si quid aut ex conieclurali aut ex  alia constilulionc sumi possi! , viderì oporlcbil.  Deinde pleraquc et ex comparatione et ex rclaiione criminis in liane quoque causam convenire  poterunt. Accusalor autem illum, cuius culpa id  factum reus dice!, primum dcfendel, si polcrii ;     dovuta fare di necessario; di modo clic se Tu  cn-a giu-la, se fu onesta clic quella ingiustizia  veni.se portata in giudici», motto più fu onesta  e giusta rosa die si punisse a quel modo c da  quello, ila cui fu cosi punita; indi esser essa cosi  manifesta, da non esser mestieri die neppure se  uè tenesse giudici». E qui con ragioni e circoslanrc simili si dee dimostrare come si danno di molte  altre cose egualmente atroci ed egualmente chiare, le quali non solo non è necessario, ma ni  eziandio utile aspettar di punire quando ne sarà  fallo il giudicio. A questo punto toma acconcio  un lungo comune: a carico dell'accusatore, mostrando la parte arveisa clic non potendo egli  negare il fallo, movente c causa del fatto cli'cssa  difende, va tuttavia a mendicare nello scompiglio  dei giudici qualche speranza di buona uscita. E  qui s' ha a dimostrare l'utilità dei giudicii, e menar doglianza sull'Infelice che doveltc soggiacere  a pena senza previa condanna, e far cruccio contro l'audacia e la crudclvzza di colui che impose  la pena. A carico del difensore, dolendosi l’accu  sante dell'arroganza di colui ch'egli ha punii».  Dirò, doversi riguardare il delitto non dal nome  dell' a ITa re totale, ma dalla intenzione di colui  clic il fece, dal motivo, dalle circostanze del tempo; c badar bene al male che ridonderebbe dalle  ingiustizie c dalle scellcranzc dei malvagi, se cosi  grande e cosi Dolente audacia non fosse punita  dall'uomo clic se ne vede mistratiala la fama, o  i genitori, o i figli, o qualche atiro oggetto che  necessità o convenienza domanda clic da ognuno  sia avuto a caro. È retnoziune del distillo allora che un Iole riversa sopra un'allra persona o un'altra cosa il  fallo che l'avversario imputa contro a lui. Ciù si fa  per due modi, poiché ora si riversa sopra altrui la  causa del fallo, ora il fatto stesso. Quanto alla causa, abbiamone il seguente esempio: I Rodiani vollero mandare certi loro ambasciadori in Alene, àia  siccome i questori non diedero loro le spese, come era dovere, gli ambasciadori per ciù non partirono. Sono accusati. Dice l’attore: Si doveva partire. Replica colui che difende: Non si doveva. La  questione è: Sì doveva o no? La ragione, ovvero  difesa: Poiché ii questore non forni il danaro del  comune, che si fornisce per consueto agli ambasciadori. La confutazione è: Voi non di meno dovevate spedir la bisogna che a nome del pubblico  vi era commessa. Il punto da decidere si i : Non  essendo date agli ambasciadori le spese di quello del comune, come pur bisognava, dovevano essi non ostante ciò andare in ambasceria? In quesia causa, come in lolle le altre, é da vedere se si  possa (or qualche punto che profili! o dalla con si minus poteri!, ncgabil ad hoc iudicium illius,  scd liuius, qucm ipsc accuse!, culpam pei linere.  Poslca dicci suo quemquc officio consolerò oportcre ; ncc, si illc peccasse!, hunc oporluisse peccare : deinde, si ille deliquerit, separabili illum  sicut hunc accusari oporlere,ct non cum huius dcfensioneilliusaccusalionem. Defensoraulom quum  celerà, si qua ex aliis incidenl conslilulionibus,  pertractaril, de ipsa rcmolionc sic argumenlabilur.  Primum , cuius acciderit culpa , demonstrabil ;  deinde, quum id aliena culpa accidisscl, ostcndel  se aut non poluisse aut non debuissc id tacere,  quod accusator dica! oportuisse. Quod non polueril, ex ulililalis partibus, in quibus csl necessiludinis vis implicata, demonstrabitur; quod non dcbuerit, ex honeslate considerabilur. De ulroque  distinctius in deliberativo genere dicelur. Deinde  omnia racla esse ab reo, quac in ipsius Tuonili potestalc; quod minus, quatn convencrit, faclum sii,  culpa id allerius accidisse. Deinde in allcrius culpa cxponcnda dcmonslrandum esl, quanlum volunlatis elstudii fuori! in ipso; et id signis confirmandum huiusmodi ; ex celerà diligenlia, ex ante  factis aut diclis; alque hoc ipsi utile fuissc Tacere,  inutile autem non facere, et cum celerà vita fuisse  hoc magia conscntaneum, quain quod proplcr alterius culpam non feceril. Si autem non in hominem certum, sed in  rem aliquam causa demovebilur, ut in hac eadem  re, si quaestor mortuus esse!, et idcirco legalis  pecunia data non essel accusatone allcrius el culpae depulsione dempta, ccleris similitcr uli locis  oporlebit, et ex conccssionis partibus, quae convenienl, adsumere ; de quibus post nobis diccndum erit. Loci autem communes idem ulrisque  fere, qui superioribus adsumplivis, incidenl ; hi  tamen certissime : accusaloris , facli indignato,  defensoris, quum in alio culpa sii, aut in ipso non  sii, supplicio se adOci non oporterc. Ipsius autem gcllurjle, o da qualche altra costituzione. Dipoi  potranno anche in questa causa risponder bene  molti capi della comparazione c del lrasfc, a cui era interdetto sacrificar vitelli. Giunti i naviganti a terra, c ignorando la legge, sacrificarono il vitello votato. Il padrone della  nave £ tradotto al tribunale. L'accusa che gli si  dà £ questa: Hai sacrificato un vitello a quella divinità, a cui non si poteva La replica non fa che  eoncedcrc. Il motivo, o difesa, si £: lo non sapeva clic non si potesse. La confutazione 6: Però,  quando fu fallo ciò clic non era permesso, sci  merilevolc del casligo voluto dalla legge. Il punto  da dover giudicare sarà così: Poichò coslui ha fallo  ciò clic non era permesso, ma ignorava clic permesso non fosse, £ egli merilevolc o no di casligo? Il caso si rapporterà alla concessione allorch£  mosirerassi che qualche ostacolo e impiglio fortuito ovviasse che l'uomo non facesse a sua volontà, come in questo fatto: Era legge in Fsparta  che colui, il quale aveva l'appalto di somministrare le vidimo, fosso punito di morte se non  le avesse apprestate per un dato sacrifizio. Cominciò adunque si fallo appaltatore di condurre  dalla campagna le villimc alla volta della città, praeslo non lucrimi. Dcpulsio esl: Concessio. Ratio: Fluraen cnim subito accrcvil, et ra re traduci  non poluerunl. Inlìrmalio est : Tamcn, quoniam,  quod lei iubct, factum non est, supplicio digitus  es. Iudicalio est : Quum in ea re contro Irgern redemptor ali.quid fecerit, qua in re studio eius subita flutninis obstitcrit magnitudo, supplicio dignusne sit ? Necessitudo autcm infcrlur, quum li  quadam reus LI, quod feccrit, fruisse defeudilur,  hoc modo : Lei est apud Rhodios, ut, si qua rostrata in porlu navis deprrhensa sit poblicetur.  Quum magna in alto tcmpestas esse), vis vcntoruin  invilis nautis in Khodiorum portum navem cocgil.  Quaestor navem populi vocat. Navis dominus negai oportrre publicari. Intenlio est: Rostrata navis  in porlu dcprchensa est. Dcpulsio est: Concessio.  Ratio: Vi ol necessario sunius in portum c acti.  Inlirmatio est : Navem ex lego tamcn populi esse  operici. Judicalio est: Quum roslralam navem in  poi tu deprehensam L-s publicaril, quumque liacc  navis invilis nautis vi lempcstatis in pollimi conicela sit, oporleatne cam publicari? Ilorum tiium  gencrum idcirco in unum locum contuliuius esempla, quod siniilis in ra praeccptia orgumeiibrum  traditur. Nani in bis omnibus primum, si quid res  ipsa dabit fdculiatis, cnniecluram induci ab accusatore oporlcbit, ut id, quod volunlulc factum oc  gabilur, consulto faclum suspicione aliqua demonslrelur ; deinde iuducere dclinitionem nccessitudinis, sul casus, aut imprudenliae, et esempla ad  eam dclinitionem adiungere, in quibus iinprudcnlia foisse vidcalur, aut casus, aut necessitudo, et  ab bis id, quod reus infoiai, separare, id esl, estendere dissimile, quod levius, facilius, non ignorabile, non forinitum, non neccssarium fueril. rosica dcmonslrare poluissc vilari ; et hac radono  provideri poluissc; si Ime aut illud fecissct, aut, perchè avvicinava già il gioruo del sacriGxio. Avvenne però caso che essendosi messa una fiera  procella, il (lume Eurola che scorre rasente a  Sparla ingrossò di tanto c prese un andare si  impetuoso, che per nessun modo vi si poterono  far passare le vittime. L' appaltatore per dar a  conoscere com'egli era d’animo di voler far il  dovere, appostò tutte le vittime sulla spiaggia per  amore che le potessero vedere quelli eh’ erano  dall' altra parte del fiume, Avvegnaché tutti sapessero die al desiderio di passare gii avea fatto  ostacolo la si tosta piena del fiume, nondimeno  ci fu chi gl' intentò lite in fatto capitale. Ecco  l'accusa: Non furono in pronto lo vittime che tu  dovevi somministrare pel sacrifizio. La replica i:  Vi si concede La ragione giustificante : Giacché  il Guuie fatto grosso d' improvviso mi vietò dal  tragittare le vittime alla città. La confutazione:  Tuttavia, siccome non hai fallo ciò clic comanda la  legge, sei degno che le ne sia inflitta la pena. Il  punto che vuol esser giudicato è tale : Poiché  ('appallatole non apprestando le vittime ha mancato alla legge, ma non le apprestò perchè gliene  pose ostacolo la subita piena del fiume, è egli  meritevole o no di supplicio? La ncccssilà Ira luogo nella concessione  quando I' accusato deduce che a far ciò che egli  fece fu spinto da una cotale prepotenza delle circostanze. Per esempio: Vi ha legge presso i Rodiani che in evento che sia sorpresa nel porlo loro  una nave rostrata di qualsiasi forestiere, essa diventa proprietà del comune. Or essendosi gettato  il mare a burrasca fierissima, avvenne che la furia  dei venti, nondimeno che i naviganti volesseio tener l'alto, spinse la nave loro malgrado, nel porlu  dei Rodiani. Il questore vanta per la legge clic la  nave è proprietà del comune. Il padrone sostenta  che non dee al postutto essere. Si viene alla petizione: Fu presa una nave rostrata dentro dal porto. La rcplicu è la concessione del fatto. Il motivo  di difesa : Fu la forza dei venti cito necessarianiente u' ha avventalo addentro il porlo. La confutazione : Tuttavia la nave a richiesta dc!la legge  dee cadere in proprietà del comune. Il punto da  decidere: Essendo la riave rostrata, che fu presa  nel porto, fatta dalla legge di ragion del comune,  ed essendo questa nave avventata nel porto dulia  furia delta procella a malissimo grado dei naviganti, si dee essa o non si dee aggiudicar al comune coinè sua proprietà? Ilo unito di seguilo gli  esempli di queste tre parli della scusa, perché son  simili i precetti che si danno circa agli argomenti  proprii di tutte o tre. Difatti in tulle c tre converrà  primamente che l'accusatore, se il fallo stesso gliene olTrirà qualche appiglio, ricorra alio parti della 9i ni sic ferisscl, praccaveri ; el dcfinilionihns ostendere non tianc imprmlentiam, aut casum, aul  ncccssitudiricm, sed inertiam, ncgligonliam, faluilalem noininari oporlere. Ac si qua nccessiludo  lurpitodinem videbilur liabcre, oportebit per locorum communium implicationem redargucnlcm  dcmonstrarc quidvis perpeti, mori denique salius  fuisse.quam ciusmodi nccessitudini obtemperare.  Alquc lum ei iis locìs, de quibus in negoliali parie dictom esl, iuris et aequilalis naluram oportobit quaererc, el, quasi in obsoleta iuridiciali,  per se, hoc ipsutn ab rebus omnibus separatim  considerare. Atque hoc in loco, si facullas crii,  riempii* liti oportebit, quibus in s'mili eicu«alione non sii ignotum, et contenlione, mauis il Iis  ignosrendiim fuissc , el delibcralionis parlibus  turpe ani inutile esse concedi eam rem, quac oh  aihcrsario commis»a sit ; permagnuin esse, cl  magno fulurum detrimenln, si ea res ab iis, qui  pntest ilern habenl viodieandi, neglecla sii. ltiTensor aulein conversi! omnibus bis  parlibus poterit oli. Hhivime aulein ili vidimiate  defeiidenda commnridiilur. el in ea re adaugenda,  quae vnluntati fiieril impedimento; el se plus,  qnam feeerit. tacere non poluisse ; el in omnibus  rebus «oliintalem speelari oporlere; el se convinci non posse, quod alis i a culpa: et et suo nomine eomtnunem Immillimi inlirntilalem posse doni  nari. Deinde n ini esse indignius, qoam cuni, qui  culpa careni, supplicio non rarere. Loci aulein  commuiies accussaioris, in contcssionem, el quanta pntestas peccandi rclinqualur, si semel iuslilu     questione congetturale, per potere quando l’accusalo dicesse aver tatto contro sua voglia ciò che  egli fece, dimostrare col melterc in rilievo qualche  sospetto eh' egli anzi ha tallo a sciente c a bello  studio ; dipoi si dovrò porgere la definizione della  necessità, o del ca-o, o della ignoranza, e aggiustar a quella definizione esempii si falli che dimostrino etTetlivomente o ignoranza, o caso, o necessità, c separare da questi il fatto presente, voglio  dire farlo conoscere ben diverso da quelli, asseverando che qui il fallo era di meno importanza ,  più agevole, non ignoto, non forlunevole, non necessario. Dipoi si vorrà dimostrare che l’accusalo  poteva schivarsene, e darsi attorno facendo questo  o quello, perchè nulla avvenisse, o almeno prevedere dò che sarebbe seguilo se nè questo nè quello avesse fallo; e col mezzo delle definizioni mettere in chiaro che il fallo presente non dee nominarsi o tratto d'ignoranza, o caso, o necessità, ma  più presto dipendere da inerzia, negligenza, stolidezza. Che se nella necessilà fosse impigliala  qualche azione ignominiosa, converrà all'accusatore col mezzo ili varii luoghi comuni mostrare che  saria sialo meglio patire qualunque stremo, e fin  anche la morte, che obbedire a necessità di quella  fatta. Inoltre converrà ilielio la guida di quei luoghi, di che si è dello parlando dello stato negoziale, cercare quale sia la natura ilei giure e dell'equità. c. come si Tu nella causa assoluta di genere  giuridici.de, considerar ciò medesimo di per sè,  separatamente da ogni altra rosa. E qui, se pure  se n'avrà in pronto, dovrassi addurre esempii di  falli, che quantunque giustificali per mezzo di  scusa simile, pure non hanno ottenuto perdono,  c mostrare por via di confronto che quelli allato  a questo erano perdonabili mollo più di vantaggio, ed entrando a ragionare dietro le regole  dello s'ato deliberativo, far vedere essereosa turpe o inutile clic del suo delillo il reo se la passi  liscia: esser cosa di troppo momento, c elio ridonderà a gran male, tc di lai delitto si volessero  trascuratamente passare coloro che hanno l'autorità di esigerne la pena.   XXXIII II difensore all'opposto potrà valersi  di tulli questi argomenti, ma in verso contrario.  Egli però si fermerà il più a difendere il buon  volere (l' Il'aecu-ato, e ad esagerare ciò che gli  intervenne inciampo e di ostacolo: sosterrà ch'egli non ha potuto fare più di quello che fece; e clic  in ogni azione deesi aver in mira l'intendimento,  e la volon'à: e che egli non può esser convinto  perchè da colpa è ben lontano; e che se si condannasse per questa sua causa, si potrebbe egualmente condannare la debolezza comune a lutti gli  uomini. Dirà poscia, non v'esser cosa più crudele lum sii, ut non de facto, sed de facti causa quaeratur : defcnsoris conquestio est calamilatis cins,  quae non culpa, sed si malore quadam accideril,  et de forlunac polestalc, et hominum iulirmitalc,  et, uti suiim animum, non cvrntum considerent.  In quibus omnibus conquestioncm suarum acrumnarum, et crudelilalis adversariorum indignalionem inesse oportebit. Ac neminem mirari convcniet, si aut in his aut in aliis exemplis scripti quoque conlroversiam adiunctam videbit. Quo de genere posteritnobisscparalim dicendum, propterca  quod quaedam genera causarum simpliciter ex  sua vi considerantur, quaedam aulem sibi aliud  quoque aliquod controvcrsiac gcnus adsumunt.  Quarc omnibus cognilis, non erit difficile in unam  quamque causam transferre, quod ex eo quoque  genere convenict; ut in bis exemplis conccssionis  inest omnibus scripli controversia ea , quae ex  scripto et sentenlia nominatur ; sed, quia de concessione loquebamur, in eam praecepla dedimus.  Rune in alleram concessioni; partem consideralionem intcndemus. Deprecatio est, in qua non defensio faeli, sed ignoscendi postulatio continetur. Hoc Bonus vix in iudicio probari polest, ideo quod concesso peccato difficile est ab co, qui peccalorum  rindex esse debet, ut ignnscat, impetrare. Quarc  parte eius generis, quum causam non in eo constitueris, uti licebit. Uti si prò aliquo claro aut  forti viro, cuius in rem publicam multa suoi beneficia, dixeris, possis, quum videaris non uli deprecalionc, uti tamen, ad hunc modum : Quodsi.  iudices, hic prò suis bencflciis, prò suo studio,  quod in vos semper habuit, tali suo tempore multorum suorum recte factorum causa uni deliclo ut  ignosceretis postulare!, tamen dignum veslra mansuetudine, dignum virtute huius csscl, iudices, a  vobis hanc rem hoc postulante impctrari. Deinde  angere beneficia licebit , et iudices per Iocum  communem ad ignoscendi volunlatem deducerc.  Quaro hoc genus. quamquam in iudiciis non ver di quella, che soggiaccia a pena quell'esso, che  di male fallo non è punto reo. I luoghi comuni  che gli tornano a prò li piglierà l’accusatore, l’uno  da ciò che confessa il reo di aver fatto, l’altro dal  far osservare che si lasccrohbe a tulli un pieno  arbitrio di venire a nequizie, se una volta si autorizzasse l'abuso di far il processo non del fatto,  ma della causa del fatto. I luoghi a prò del difensore sono: il deplorare quella disavventura che  occorse non per colpa dell'accusato, ma per una  forza maggiore, cui egli non fu poderoso a ribattere; il lamentare sopra la gran possanza della fortuna e la debolezza degli uomini, c clic si voglia  alle intenzioni di lui attribuire una pravità, anzi  che cercar la cattiveria del fatto nelle circostanze  che lo accompagnarono. In tutti questi punti dovrà  il difensore mostrar doglianza delle disgrazie del  suo protetto, c sdegno della crudeltà degli avtcr  sarii. Nè dee prender maraviglia chi che sia, se in  questi esempi, come in ogni altro, vedesse involta  controversia altresì di scritto. Di questo però ho  da parlare distintamente più sotto, poiché alcuni  generi di causa si riguardano puramente in sè  e nel solo punto controverso in cui s'aggirano,  ed alcuni altri associano alla propria qualche altra  I specie di controversia. Quando adunque sieno ben  conosciuti i capi precipui di ogni causa, non sarà  malagevole introdurre in ciascuna quel tanto della  controversia di scritto che l'è occoncio o che vi  calza: ed anzi in questi medesimi esempi della  concessione è inchiusa la controversia clic si domanda di scritto e di senso; ma siccome si parlava della concessione sola, non ho dato altro clic  i precetti che erano relativi ad essa. Dello scritto  e del senso parlerò altrove. Ora passiamo a considerare la seconda parte della concessione. Preghiera è quel discorso, in cui consiste non la difesa del fallo, ma la istanza che gli  sia dato perdono. La preghiera di questa specie è  troppo difficile che in giudirio possa essere poderosa, perchè quando il delitto è confessalo, appena può darsi che lo perdoni colui che ne dee anzi  essere il punitore. Laonde, qualvolta la tua causa  non sia così spallala, che tu non le possa dar altro  per appoggio che la preghiera, dovrai usarne con  parsimonia solo qualche parte. Per esempio se Iti  arringassi a prò di un personaggio di gran levatura o valore, il quale avesse recali di molli benefizii alla repubblica, potrai, facendo partila di non  dar punto in preghiere, darvi non di meno a questa guisa: che se quest'uomo, o giudici, clic sa di  aver fatti imporlanti bcnclìzii, e preso per voi tulli  molto impegno e premuraci facesse istanza che in  si grave sua disgrazia voi altri a riguardo di latito  buone e belle sue azioni gli aveste a perdonare il satur, nisi quadam ex parie, lamen, quia el pars '  haec ipsa ìnducenda nonnumquam osi, el iq se- nalu, aut in consilio saepe omrii in generp, tractanda, in id quoque praceepla pnnemus. Nani in  senalu el in consilio de Syphacc diu deliberatimi |  esl ; el de Q. Numilorio Pullo apud L. Opimium |  et eius consilium diu diclum est. Et magia in Ime  quidem ignoscendi quam cognoscendi poslulatio  Tatui!. Nani semper animo liono se in popolimi  Romanum fuisse non lam Tacile probabili, quurn  coniccturali conslitutionc uleretur, quam ut propterpostcrius bcneDcium sibi ignoseerclur, quum  deprecationis partes adiungerct. Oporlebit igitur eum, qui sibi ut ignoscatur , postulabit , commemorare , si qua sua  poteri! beneficia, et si polcrit ostendere ea malora esse, quam haec, quae deliquerit, ut plus  ab eo boni quam mali proTcclum esse videatur ;  deinde maiorum suorum beneficia, si qua cxstabuoi, proTcrre; deinde ostendere non odio ncque crudclilate fecisse , quod fecerit , sed aut  atuUilia, aut impulsu alicuius, aut aliqua boneala, aul probabili causa ; poslea polimeri el confirmarc se et hoc peccalo doclum, el beneficio  eorum, qui sibi ignoverint, confirmalum , ornili  tempore a lati radono afuturum ; dcinilc spem  ostendere aliquo se in loco magno iis, qui sibi  concessemi, usui fulurum. Poslea, si facullas  eril, se aul consanguincum, aul iam a maioribus in primis amicum esse demonstrahit, el ampliludinem suac voluntalis , nobili latem generis  eorum, qui scsalvum velini, el dignilalem estendere, el celerà ea, quae personis ad honestalem et  amplitudinem sunt allribula, cum couqueslionc,  aìne adrogantia, in se esse demonstrahit, ut bonere polius aliquo, quam ulto supplicio digiius esse  videatur ; deinde celeros proTerrc, quibus moiora     solo delitto ch’egli ha commesso, sarebbe pure un  tratto degno della clemenza vostra, o giudici, e  degno della virtù di tanto uomo clic voi scendeste  a indulgenza si fatta per essere si Tallo il personaggio clic la vi ehiede. Dipoi si potrò mettere in  sul grande i delti lienefizii, e col maneggio del  luogo comune clic è calzante ed alto a ciò, piegare il cuore dei gindici a volere pur perdonare. Il perchè, sebbene dilla preghiera non si dee  far uso ne’ giudicii se non che per qualche poco,  lunaria perchè quesla porle medesima si dee pur  qualche rolla interporre, ed ami incontra sovcnle  che o in senato o in consulta si debba trattar la  preghiera per ogni sua parte, così verrò qui dando i precetti che a questo capo si riferiscono. Certo è clic sull’ aliare di Si Tace cosi in senato come  in consulta si deliberò molto a dilungo se gli si  dovesso perdonare, ed altresì sopra Q. Numilorio  Pullo fu parlato lunga pezza davanti L. Opimio e  ga sua consulta; c massime nella causa di Numitorio Tu senz'altro piò valevole il fare istanza clic gli  fosse perdonalo, elio non l'insistere perchè ne seguisse il processo. Non era infatti troppo facile per  lui, essendo la sua causa basala sul congellurale,  far vedere manifestamente ed in prova ch’egli fosse stato sempre di buone intenzioni e voleri verso  il popolo Romano; ben per contrario gli fu facile  ottenere che gli fosse perdonato, Ira in vista del  beneficio che da ultimo avea fallo, c mollo piò  per avere al suo ragionamenlo aggiunta la fona  dello preghiere.   XXXV. Converrà dunque che colui il quale facesse istanza perchè gli fosse perdonalo, vada ricordando i benefizii che potesse aver fallo, e mostrando, se il caso gliene pcrtnclterà.ch’cssi in confronto sono mollo piò rilevanti clic non le mancanze ch'egli lia commesse, tanto che si paia che  ha fallo del bene troppo più che del mole; dipoi  dovrà recare in mezzo, se polrà vantarne, i benefizii dei suoi maggiori; indi dar a divedere come  a ciò che egli fece non fu indolto nè da odio nè  da crudelezza, ma o dalla scioccaggine o dalle  istigazioni di alcuno, ogipure perch'egli n'ebbe una  causa onesta o lodevole; dappoi dar parola e far ad  ogni modo fede eh’ egli ammaestrato dalla esperienza presa nella prcscnlc sua colpa, e reso raffermo e savio dal beneficio di quelli che di quel  fallo gli perdonarono, non vorrà piò in nessun tempo adoperarsi mai di quella maniera; inoltre mostrare anche speranza che in qualche occasione ei  polii pur fare avvantaggio mnlloe servigio a quelli  die avranno indulto con lui. Dipoi, se avrà ragioni da polerlo fare, dimostrerà aver egli parentezza  con quelli a che rivolge le suo preghiere, oppure  coltivala sempre l' amicizia che verso loro gli fu concessa dclicta sinl. Ac mullum profìcicl, si se  miscricordem, in polestalc propcnsum ad ignosccndum fuissc oslendcl. Alque ipsuin illnd peccalum crii cxtcnuandum, ut quam minimum obfuisse videatur, etani turpe aul inutile demonstrandum tali de liominc supplicium sumere. Deindc loda communibus miscrieoMiam captare oportebit ex iis praeceptis, quae in primo libro sunt  eiposila. Advcrsarius aulem malefacta augcbil:  nibil imprudentcr, sed omnia ci crudelitale et  malitia fa da dicet; ipsum misericordcm, superbum fuissc, et, si poteri!, ostendet semper immicum fuisse et amicum fieri nullo modo posse. Si  beneficia proferel, autaliqua decausa facla, non  proplcr bcncvolenliam dcmonstrabil, aut poslea  odium esse acre susccplum, aul illa omnia maleficiis esse deleta, aut levìora beneficia quam maleficia, aut, quum bencficiis bonos habitus sii, prò  maleficio pocnam sumi oportere. Deinde turpe  esse aut inutile ignosci. Deinde, de quo ut polestas esse! saopé optarint, in eum polestate non uti  summamesse stulliliam; cogitare oportere, quem  animum in cum et quale odium habuerint. Locus  aulem communis erit, indignano maleficii.et alter,  eorum misereri oportere, qui proplcr fortunam,  non proplcr maliliam in miseriis sinl. Quoniam  ergo in generali conslilutione lamdiu proplereius  parlium mulliludinem commoramur, ne forte varietale et dissimililudine rerum diduclus alicuius  animus in qucmdam errorem deferatur, quid etiam nobis ex eo genere resici, et quare resici, admonendum videtur. Iuridicialcm causam esse dicebamus, in qua acqui et iniqui natura et praemii  aul pocnae ratio quaererelur. Eas causas, in quibus de acquo et iniquo quaerilur, exposuimus. trasmessa dai maggiori, c farà conoscere il grande suo buon volere, come altresì la nobiltà della  stirpe e la grandetta degli ufllcii tenuti da quanti il  bramano salvo o risparmialo: dimostrerà avere in  sé, pure clic il faccia con parole dimesse e in tuono presso ette lamentevole, tulli quei caratteri che  son proprii delle persone clic per grandetta c onestà ranno dagli altri distinte, sicché faccia in certo modo apparire esser egli meritevole piullosto  di qualche onore ebe di un castigo: inoltre nominerà tulli gli altri, quanti ne sappia, a cui furono  perdonati delitti vie più gravi del suo. Mollo anche  gioverà alla sua causa, se mostri com'egli fu sem.  pre compassionevole, e come sempre che ebbe csercitio di autorità fu inchino ad usar perdonanti  ed indulto. Anche dovrà il difensore appicciolir la  colpa dell' accusalo, e mostrare che il danno indi  venutone é da nulla, ed esser o cosa vana o da far  disonore il soggettare a castigo una persona tale.  Dipoi si vorrà con l'uso de' luoghi comuni accattargli compassione secondo i precetti che nel primo libro se ne son dati. L'avversario per contro amplificherà il  delitto: dirà che niente vi fu fallo per ioconsiderama, ma lutto ami per malizia e crudelezia: che  egli fu superbo e senza pietà; c dove il possa, farà vedere ch’egli fu sempre porlalo alle nimicizie,  e che amicarlo mai per nessun modo è possibile.  Se toccherà i benefizii da lui fatti, dimostrerà che  essi ebbero origioe da qualche ragione di suo vantaggio, non da animo proclive a ben volere, oppure eh’ egli poi ti attossicò con l' odio acerbo in  che colse i beneficali, o che i benefizi! furono distrutti da altrettanti diservigii e male cose, o che  il ben eh’ egli fece fu da meno che il tanto male,  ovvero che deesi oggimai, poiché hanno avuto la  debita mercede i suoi benefizii, volere il castigo  delle sue malvagità. Poscia verrà dicendo che il  perdonare sarebbe una inutilità, o un tratto vituperevole: essere un troppo scioccheggiare il non  volere punto far uso i giudici sopra costui di quella autorità che sopra di esso hanno tante volte ambito di avere: dover essi riandar seco quanto mal  animo e qual odio a quel tristo hanno già portato.  E qui il luogo comune che fa al proposito è in  prima lo andar in parole piene di sdegno contro il  delitto dell'accusato, secondamente mostrare che  si dee aver pietà s) bene, ma solo di quelli che  sono flagellali dalla fortuna, non di quelli che  sono nelle miserie per loro propria malvagità. Ma  posciachè io mi trattengo cosi alla lunga circa la  costituzione generalo per la moltitudine delle  parti eh’ essa comprende, voglio ammonire che  altro mi resti ancora di questa trattazione, e perchè mi resti; e il vo' fare perchè qualcuno per ar Restai nunc, ul de praemio, et de poena explieemus. Sun! cnim mullae causae, quae ex  pracmii alicuius pctilione Constant. Nametapud  itidices de praemio saepe accusalorum quaerilur,  et a senaiu aul a Consilio aliquod pracmium saepe  pelilur. Ae neminem conxeniet arbitrari nos, quum  aliquod exemptum ponainus, quod in senatu agatur, ab iudiciali genere exemplornm recedere.  Quidquid cnim de homine probando aut improbando dicitur, quum ad cam diciioncm scntentiarum quoque ratio accommodetur, id non, si per  senleiiliae diciioncm agilur, dcliberativum est; sed  quia de homine staluitur, iudicialc est habendum.  Omnino autem qui diligcnter omnium causarum  vim et naturam cognoverit, genere et prima conformationc eas inlelliget dissidere. Ccleris autem  partibus aptas inter se omnes et aliam in alia implicatalo videbit. Nunc de pracmiis consideremus.  L. Licinius Crassus consul quosdam in citeriore  Gallia nullo illustri neque certo duce, ncque eo  nomine, ncque numero praeditos, ut digni cssent,  qui hoslcs pnpuli Romani esse dicerentur, qui  lune cxcursionibus et latrociniis infestam provinciam reddercrit, consectatus est et confecit. Romani rcilil : triumphum ab senatu postulai, llic,  ut et in deprccatione, niliil ad nos allinei rationibus et inflrmationibus rationum supponendis ad  iudicationem pervenire, propterea quod, nisi alia  quoque incidcl conslitutio, aul pars constilulionis,  simplex erit iudicalio, et in quacslione ipsa contincbitur. In deprccatione, huiusmodi : Oporteatne  pocna adfici? In hac, huiusmodi: Oporteatne dari  pracmium ? Nunc ad praemii quacstionein appositos locos exponemus. Ratio igilur praemii qoatuor est in  partes distributa : in bcnelicia, in hominem, in  praemii gcnus, in facultates. Beneficia ex sua ri. ventura non pigliasse le cose a rovescio, tratto in  errore dalla varietà e dissomiglianza di esse, lo  già diceva, quella essere causa giuridiciale, in cui  si cerca la natura del giusto e dell' ingiusto, e la  ragione del premio e della pena; ed anche ho csposlo le cause, nelle quali del giusto e dell'ingiusto si la la debita investigazione. Resta dunque adesso che si venga a  parlare del premio e delia pena. Ci sono di molle  cause, le quali consistono nella domanda di qualche premio. E infatti si controverte spesso davanti  ai giudici del premio da dover dare agli accusatori  c cosi ancora molle delle volte si domanda premio dalla consulta o dal senato. Nessun però creda che quando io reco alcun esempio di causa che  si agili in senato, io mi diparta dagli esempii di  genere giudiciale; conciossiachè ciò che si dice o  a lode o a biasimo di una persona, quantunque  eziandio a questo genere di dicitura vada spesso  unita la pronunzia della sentenza, non si vuole però per la ragione della sentenza ascriver al genere  deliberativo la causa di lode o di biasimo: nondimeno, siccome si tratta di persona da prosciogliere  o da condannare, la causa è per questo da agitarsi  con le forme del genere giudiciale. Del resto, chi  conoscerà a fondo la forza e la natura di ciascuna  causa, intenderà che tutte hanno bensì una differenza si nel genere primario e si ancora nella forma, ma  che però nelle rimanenti lor parti son tutte collegate fra loro, c come a dire l' una impigliata nell' altra. Ora dunque entriamo a far parola circa 1  premii. Il console L. Licinio Crasso nella Gallia  citeriore s' avvenne in una banda di armali che  avea per capo una persona oscura, o a meglio dire  non avea nessun capo stabile, e ni pel nome con  che veniva designata, ni per lo numero dei combattenti, non meritava esser della al popolo Romano nemica ; e solo con i ladroneggi e l'andare in corso molestava la provincia. Il console non  di meno le diede addosso, e la pose in rolla e sgominio. Tornato a Roma, chiede che ii senato gli  decreti il trionfo. Qui, come anche nella causa che  si fonda sulla preghiera, non ci i mestieri di metter innanzi nè le ragioni giustiDcanti, nè le repliche incontro, per venire al punto da giudicare,  poiché se non interviene un' altra costituzione, o  una sua parte, il punto da giudicarsi è uno solo,  quello che si contien nella questione. Nello stato  di preghiera questo punto è, Se si debba o no  infligger la pena: nel presente, Se si debba o no  dare il premio richiesto. Ora sporremo i luoghi  acconci alla questione di premio. La ragione del premio è di quattro  maniere, secondo che si riguardano o i benefizi!,  o la persona che li fa, o la qualità del premio, o ex tempore. Gì animo eius, qui feci!, ex casu consideranlur. Ex sua vi quaercntur lioc modo : magna an parva, facilia an dilBcilia, singnlaria sinl  an vulgaria, vera, an falsa, quanam cxornalione  honeslcnlur. Ex tempore aulem, si lum, quum indigcremus ; quum celeri non possent aul nollcnt  opitulari ; si lum, quum spes deseruissct. Ex animo, si non sui commodi causa, si co consilio fccil  omnia, ut hoc conlicere posso! ; ex casu, si non  fortuna, sed industria faclum videbitur, aul si induslriae fortuna obslitisse. In hominem aulem,  quibus raliunibus viieril, quid sumplus in eam  rem aul laboris insumpserit ; cequid aliquando  tale fcceril ; num alieni laboris aut deorum bonitatis praemium sibi postulel ; num aliquando ipse  lalem ob causam aliquem praemio adOci negarli  oportere; aut num iam salis prò co, quod feccril,  honos habitus sii; aul num necesso fueril ei tacere  id, quod feceril ; aul num ciusmodi sii faclum,  ul, nisi fecisset, supplicio dignus esse!, non, quia  fecerit, praemio ; aul num ante tempus praemium  petat, et spem incertam certo vendilet predo: aut  num, quod supplicium aliquod vile), eo praemium  postulet, uti de se praciudicium factum esse videalur. In praemii autem genere , quid et  quantum et quamobrcm postuletur, el quo et  quanto quaeque rcs praemio digna sii, considerabitur; deinde apud maiores quibus hominibus et  quibus de causis lalis honos habitus sii, quaeretur ; deinde, ne is bonos nimium pervagclur. Alque bic eius, qui conira aliquem praemium postulameli) dicet, locus eril communis: praemia virtulis et oRìcii sancta et casta esse oporlere, ncque  ea aut cum improbis communicari, aul in mediocribus hominibus pervulgari ; el alter : Minus homines virlutis cupidos forc, virtulis praemio pervulgato; quae enim rara et ardua sinl, ea ex praemio pulcra et iucunda hominibus v ideri; et tertius: le sostante dal benemerente possedute. I bcnelìiii  si vogliono considerare in quanto al peso che hanno in sì, in quanto al tempo, nH'inleniione di chi  li fa.all'accidcnte da cui forse dipendono. Rispetto  il peso che hanno in sì, si cercherà se siano grandi  o piccoli, se fatti con travaglio o senta, se siano  slraordinarii o comuni, se veri o se falsi, c da quali  speciose parole siano onestali. Rispetto il tempo,  si cercherà se ci furono falli quando ci andavano  a bisogno; se quando gli altri non potevano o non  ri voleano aiutare ; se quando ogni speranza ne  facevamo già andata. Rispetto alla intenzione, se  altri fece il benefizio senza nessun disegno di proprio interesse, se operò tutto con l’ intento di poter elTeiluare quel bene : rispetto all'accidente,  se il beneficio ha vista di esser fallo non a fortuna,  ma piuttosto a belio studio, ovvero se fu il caso  che oppose ostacolo alla premura e al buon volere. Si vogliono considerare i benefizii relativamente alla persona che li fa, badando quali furono i  modi del trarre costui la vita, quali spese abbia  sostenute o quali fatiche per acquistarsi quel merito : se altre volle abbia fallo azioni altrettali : se  domandi un premio dovuto alle altrui fatiche, o  che non è largito che dalla sola bontà degli dei ;  se abbia mai detto che per una tale ragione quel  premio non dee esser dato a nessuno ; o se per  quello che ha fatto n'abbia già avuto una sufficiente mercede ; o se egli fece niente altro che quello  che non poteva a meno di fare ; o se l' azione fosse di tale necessità, che se non l’avesse fatta saria  stato degno di supplizio, piuttosto clic esser degno  di premio per averla falla ; o se voglia esser premialo quando il tempo non ì da ciò, non si sapendo ancora I* appunto del suo merito , e vender per un prezzo certo una cosa ancora incerta e  dubbia ; o se chieda un rimerito con la mira  astuta di cessarsi da qualche punizione, facendo quasi apparire che si fosse già fatta un’ ordinanza a suo favore prima che l'alTare n’andasse al  giudicio. Quanto è alia qualità del premio, bassi  a vedere quale e quanto grande sia la cosa eh’ è  domandata, e per qual motivo, e poi di quale e di  quanto premio ciascuna azione sia degna : indi si  verrà esaminando a quali persone fra gli antichi e  per quali cause siasi conceduta una tale mercede;  dipoi si baderà che mercede si fatta non abbia a  divenire troppo comunale. E qui ecco il luogo comune da dover usare chi arringherà contro il postulante: i premii dovuti alla virtù c a qualche rilevante mansione volersi avere in luogo di cosa  santa e di pura, nè doversene far partecipe la gente  malvagia, o farsi tener a vile col lasciarsi andare  alle mani di uomini mediocri e volgari; ed ecco un Si exsislanl, qui apud maiores noslros ob oprepiani virliilem lati lionorc (tignali smit, nonne de  sua gloria, quum pari praemio loles liomines alitici vulcani, dilibari pulenl ? cl coruin enuineralio  Ct rum eis, quns conira ilicas, comparano. Eius  autem. qui pracmiiim pelei, tarli sui amplificano,  eorum, qui praemio adfccli sunl. cum suis taclis  conlenlio Deindc celeros a virlulis studio rcpulsum iri, si ipse praemio non sii adfeclus. Facullales aulem considcranlur, quum aliquod pecuniarum pracmium poslulalur ; in quo, ulrum co  piane sii agri vectigalium, pccuniae, an penuria,  consideralur. Loci communes: Ka rullo Ics augerc,  non minuerc oporlere.cl : Impudcntcm e<se, qui  prò beneficio non graliam, verum merredem postulo! ; conira aulem de pecunia raliocinari sordidum esse, quum de gralia reterenda dclibcrclur ;  el, se prclium non prò tarlo, sed honorem ila, uli  faclilatum sii, prò beneficio postulare. Ac dcronstilulionibus quidem salis dicium esl : nunc de  iis conlroversiis, quac in scriplo rersanlur, dicendum videlur. In scriplo vcrsalnr controversia, quum cv  scriplionis ralione aliquid dubii nascilur. Id lì l ex  ambiguo, ex scriplo cl scnlenlia, ex conlrariis Icgibus, ex raliocinationc, ex definilionc. Ex ambiguo autem nascilur conlruvcrsia, quum, quid setiscrii scriplor, obsrurum esl, quod scriptum duas  plurcsvc res significai, ad huno modum : Palerfamilias, quum lilium hcredem tacerei, vasorum argenleorum contimi pondo uxori suae sic legavi! :  lleres meut uxori mene iiasorum argenieorum  pondo cenlum, quae rotei, dato. Posi mortem eius  vasa magnifica ct pretiose cadala pelil a (Ilio maicr. lite se. quae ipse velici, debere dici!. Primum,  si fieri poteri!, demonstrandum est non esse ambigue scriptum, proplcrca quod omnes in consucludine scrmonis sic uti solenl eo verbo uno pluribusve io eam seatealiam, in quam is, qui dice!. altro : Rendersi chi che sia meno bramoso della  virtù, se vedesse il premio ad essa dovuto divenire  quasi che una trivialità ; rhè le cose rare c mala,  geroli a conseguire sono appunto quelle che gli  uomini, ore le ottengano in premio, hanno in conto  di gioconde c di belle; e tenamente : Se v' ha tra  i nostri antichi di quelli ebe per la sfolgorata loro  virtù furono giudicati di tal premio meritevoli, non  crederebbero essi forse che la gloria loro se ne  andrebbe scemala, se vedessero un premio eguale  cader nelle mani a persone che non ne son degne?  c qui viene in concio che tu venga noverando quei  tali amichi, e li metta a confronto con quelli, contro ai quali tu arringhi. Quanto a colui che chieda  il premio, ei maneggerà il seguente luogo comune;  darà Importanza al fallo ch'egli operò, e farà comparazione di quanto operarono quelli che furono  premiali con quanto ha operato egli stesso. Dipoi  farà vedere elicsi obbligherebbe ogni altro a rompersi dall’ amore alla virtù, dove egli del suo ben  fare non fosse rimeritato. Alle sostanze si dee aver  riguardo allorché é domandato qualche premio in  danaro ; e rispetto a questo caso si esamina se il  petente è bene avvantaggialo di campagne, di entrate, di dauaro, o se per contrario ne patisce difetto. I luoghi comuni sono questi : Le sostante si  deono accrescere, non mica scemare, c : Voler avcre una fronte invetriata colui che per un benefizio chiede una paga, anzi clic un alto di riconoscenza ; per contra si dirà essere una grettezza  che mentre si consultano consigli intorno a grazie  da riferire, sì faccia computi sul danaro da dover  numerare ; c, chieder egli non già il prezzo della  sua azione, ma un premio del suo beneficio in  quel modo o misura clic altre assai volle fu praticato. Or questo tanto potrà bastare ad essersi detto  delle costituzioni: adesso è da dire di quelle controversie che si aggirano sopra lo scritto.   XL. È controversia circa allo scritto, allorché  dal modo con che lo scritto fu espresso ne viene  qualche dubbielà. Nasce essa controversia dalla  espressione ambigua , dallo scritto e dal senso,  dalle leggi che si fan contro, dal raziocinio, dalla  definizione. Nasce controversia dalla espressione  ambigua quando é oscuro c non si può compren*  dere che volesse dir lo scrittore, però che la sua  espressione significa due o più cose. Per esempio;  Dii padre nell' istiluiro suo erede il figlio legò alla  moglie de' vasi d'argenlo per lo peso di cento libbre, e acrisse cosi: Il mio erede dia a mia moglie,  per lo peso di cento libbre, de’ vasi di argento  quelli che vorrà. Poi che il marito si mori, la madre domanda dal figlio de’ vasi magnifici, che aveano gran lautezza d' intagliature. Costui risponde che le dovea quelli eh' egli volesse. Or la pri aecipiendum esse demonstrabit. Deinde ex superiore el et inferiore scriptum docciulum iti, quoti  quaeralur, (Ieri perspicuum. Quare si ipsa srparatim ei se verba considcrenlur, omnia aul plcraque  ambigua visiim iti ; quac auleni ex omni considerata scriptum perspicua Kant, baec ambigua non  oporlcre eiislimari. Deinde, qua in sentenlia scriplor fueril, ci celerà eius scriplis et ex faclis, dittila, animo alque fila eius stimi oporlebil, el cam  ipsam scriplurnm, in qua inerii illud antbiguum,  de quo quaerctur, totani omnibus ex partibus pericolare, si quid aul ad id appositum sii, quod nos  interprclcmur, aut ei, quoti adversarius inlelligat,  Qdvcrsetur. Nani facile, quid verosimile sii eum  voluisac, qui scripsit, ex orniti scriptum , et ex  persona scriploris, alque iis rebus, quae personis  attributac sunt, considerabilur. Deinde erit dcmonstrandum, si quid ex re ipsa dabilur factillalis, id, quod adversarius inlelligat, multo minus  commode Aeri posse, quam id, quod nos accipimus, quod illius rei ncque adminislratio neque  exitus ulius ciste! ; nos quod dicamus, facile et  commodc iransigi posse. Ut in hac lege (nibil enim  prohibel (iclam «empii loco ponere, quo facilius  res Intelligalur) : «eretrix coronarti ne habclo; si  habueril , pubitea erto, conira eum, qui merctricem pubi icari dical ex lege oportere, possi! dici  neque adminislralionem esse ullam publicac meretricis, neque exilum legis in meretrice publicanda; at in auro publicando et adminislralionem et  exilum facilem esse, cUncommodi nibil incsse. Ac diligentcr illud quoque allenderc oportebit, anni, ilio probato, quod adversarius inlelligat, res utilior, aul honcstior, aul magis necessaria a scriptorc ncglecta videalur. Id fìct, si id,  quod nos demonslrabimus, bonestum, aul utile,  aut necessariitm demonslrabimus ; et si id, quod  ab adversariis dicclur, minime eiusmodi esse dicemus. Deinde, si in lege erit ex ambiguo conlroversia, dare operam oporlebil, ut de co, quod adversarius inlelligat, alia in lego caulum esse do   ma cosa, in evento cito si possa, decsi dimoslrare  non essere punto ambigua la scrittura, conciossiacbè tutti nell’ uso comune del parlare cosi sogliono adoperar quell' una o ptù voci per esprimere  quel senso, nel quale citi parla dimostra esse voci  dover essere intese. Dipoi è da ammonire clic ciò  clic si cerca è già reso evidente dal contesto che  precede c da quello che segue. Se si volesse attenersi a questa o a quella parola presa separalamente c di per sé, tulle le parole, o almeno la più  parte, potranno aver aspetto di esser ambigue; ma  non si dcono tenere per tali quelle che son già  messe in evidenza dall'esame del contesto e complesso dello scritto. Dipoi, a voler conoscere qua;  fosse la mente dello scrittore, si vorrà roviglior e  razzolare tutti gli altri di lui scrini, i falli, i detti,  il modo di pensare, il modo di vivere, e scrutar In  ogni sua parte tutto lo scritto che porla la della  ambiguità, per conoscere se alla espressione ambigua che interpretiamo ne sia soggiunta qualche  altra che ne la chiarisca, o che stia contro a quel  senso che l' avversario crede di dover inferire: perocché sarà anzi facile trovare ciò che verisimilmente abbia voluto lo scrittore, quando si voglia  por mente a lutto lo scrino, e alla persona che  scrisse, e a quelle altre cose clic alle persone si  riferiscono. Dipoi sarà da dimostrare, se la cosa  slessa ne porgesse qualche appicco, che ciò che  intende l'avversario si può fare molto meno utilmenlc che ciò clic intendiamo noi, poiché quello  non è conduccnlc a vcrun vantaggio, a vcrun successo ; mentre ciò clic diciamo noi può leggermente c con vantaggio comporre ogni cosa. Citiamo per esempio questa legge ( che niente vieta il  pigliar ad esempio una legge immaginaria, purché  s' intenda la cosa più di facile) : Nessuna meretrice porterà corona : se una la portasse, sarà incamerata. Contro colui che dicesse doversi iti for  za della legge por nel fisco la meretrice, si potrà  rispondere non avere il comune alcun provcnlo da  una donna pubblica, nè v' essere nel recarla al fisco alcuno scopo della legge : bensì »' essere e  provcnlo al comune e scopa della legge incamerando l’oro di che è composta la corona, senza  che ne emerga un menomo clic di svantaggio. Si vorrà eziandio ben attendere, se nel caso  che fosse adottato il seoso voluto dall’ avversario,  possa parere che lo scrittore abbia trascurala qualche cosa piò utile, o più onesta, o più necessaria.  E questo si farà, se porremo a vedere che ciò cito  adontatilo noi è onesto, od utile, o necessario ; e  che ciò che dicono gli avversarli non porta nessuna di queste qualità. Dipoi, se la controversia sarà  circa I' ambiguo che si trovasse in una legge, si  vorrà meller opera a dimoslrare che all' inconve ccalur. Pcrmullum aulem prodcict illud demonslrare, qucmadmodum scripsisset, si id, quod advcrsarius accipial, Acri aut inlclligi voluissct : ut  In hoc causa, in qua do vasis argenteis quaerìtur,  possi! mulier dicere, nihii allinuisse ascribi, quae  volef, si heredis collimati permitleret. Eo enim  non adscriplo niliil esse dubilalionis, quin hcres,  quae ipse vcllet, daret. Amenliam igitur fuissc,  quum hercdi velici caverò, id adscribere, quo non  adscriplo nihilominus hcredi cavcrctur. Quare hoc  genere magno opere talibits in causis uti oporlcbit : si hoc modo scripsisset, Isto verbo usus non  csset, non isto loco verbum istud collocasse!. Nani  ex bis scnlcntia srriploris maxime pcrspicitur.  Deinde quo tempore scriptum sii, quacrendum  est, ut, quid cum voluisse in ciusmodi tempore  veri simile sit, intelligatur. Post ex deliberationis  parlibus : quid ulilius, et quid honeslius et illi ad  scribendum, et bis ad comprobandum sii, demonstrandum ; et ex his, si quid amplificationis (labitur, communibus utriuque locis uti oportebit. Ex scriplo et sententia controversia consistil. quum alter verbis ipsis, quae scripla sunt,  utilur, allcrad id, quod scriplorem scnsisse dicci,  omnem adiungit diclionem. Scriploris autem sentcntia ab eo, qui sententia se dcfendel, lum scmper ad idem spoetare et idem ielle demonslrabitur ; lum ex farlo ani ex evento aliquo ad Icmpus  id, quod insliiuil, accommodatur. Semper ad idem  spedare hoc modo: Palerfamilias quum liberorum Imberci niliil, uxorem aulem haberel, in testamento ita srripsit : Si mihi filivs genitur unni  pluresve, is mi hi heres calo. Deinde quae ad-oicnt. Poslea : Si Mita ante morilur, quam in tutela m sumn venerii, lum inibì lite sccundus heres eslo. Fillus natus non est. Ambigunt agnati  cum eo, qui est hcrcs, si fllius ante quam in suam  tutelam venia!, morluus sit. In hoc genere non  potest hoc dici, ad tempus et ad eventum aliquem  scnlenliam scriploris oporlere accommodari, pròpterea quod ea sola esse demonslratur, qua fretus  ilio, qui conira scriptum dicit, suam esse heredi   nienza messa in campo dall'avversario fu gii provveduto con altra legge. Gioverà poi gran fatto il  mostrare come si saria espresso io scrittore, ove  avesse voluto che si facesse o s'intendesse ciò che  l'avversario crede d'aver inteso. Per esempio,  nella causa, in cui s' ioquerisce sopra le vasa di  argento, potrebbe dire la donna, che se il testatore  avesse voluto lasciar l' arbitrio all' erede, non era  di bisogno che aggiungesse quelle vasa che vorrà.  E infatti, se non ci fosse quella giunta, non ci sarebbe neppure dubbio che l'erede non avesse date  alla madre le vasa eh' egli avesse creduto. Essere  dunque stata una mattezza che lo scrittore, volendo lasciar si fatto arbitrio all’erede, facesse una  giunta di tal sorta, che se anche non ci fosse, lo  lascerebbe niente di meno nell'arbilrio stesso.   Eppcrò in cause di questa fatta sarà mollo importante far uso dell'argomento che segue: se lo  scrittore avesse avuto un tale intendimento nello  scrivere, ei non avrebbe adoperata quella tal voce,  non avrebbe allogato quella parola in questo tal  silo; conciossiachò son questi, più che ogni altro,  gl’indizii da cui si viene a riconoscere la mente  dello scrittore. Dipoi si dee esaminare in qual  tempo fu messo giù lo scritto, per mettersi a sapere ciò che vcrisimilmente in quelle tali circostanze lo scrittore volesse. Poi si dimostrerà, dietro le parti del genere deliberativo, quale delle  due cose dibattute sia la più utile c la più onesta  che l'autore dovesse scrivere, e che gli avversari!  debbano voler sostenere ; a dote alcuno di questi  punti sia da trattare col mezzo della amplificazione, dovrà l'una parte e l'altra valersi de' luoghi  comuni che sono da ciò. Sorge controversia di scritto c di senso  allora che l'uno de' litiganti s'attiene alle parole  stesse che sono scritte, c l'altro converte c piega  tutto lo scritto al senso ch'ei crede avere avulo in  mente lo scrittore. Quegli che sostiene il senso,  mostrerà come con quel tale concetto Io scrittore  mira sempremai al senso stesso e ad esprimere la  stessa coso ; oppure che esso concetto è acconciato in tal senso a questa tale circostanza per amore di qualche avvenimento, di qualche fatto, e via  via. Dcll'avcr sempre un concetto il senso medesimo ecco un esempio è qui: Gn padre che non  avea figliuoli, sì bene avea moglie, nel suo testamento lasciò scritto cosi: Se mi nascesse un figlio,  uno o più, voglio che sia mio erede. E qui segue il testo secondo che è uso. Indi dice: Se il figlio morisse innanzi che fosse giunto alla pubertà, allora quello che è secondo sarà l'erede. Non  nacque nessun figlio. I consanguinei del padre  entrano in litigio sul diritto di eredità con quello  che pretende clic il padre lo istituisse crede in talcm dcfendit. Allerum autem genus est eorum  qui senlenliam inducunt ; in quo non simplex volunlas scriptoris ostemJilur, quae in omne tempus,  et in omne factum idem valeat ; sed ex quodam  facto aut erenlu ad tempus interprctanda dicitur.  Ea parlibus iuridicialis adsumplivac maxime suslinetur. Nana tum inducitur comparatio, ut in eo,  qui, quum lex aperiri portas noctu «darei, aperuit  quodam in bello, et auxilia quaedam in oppidum  recepii, ne ab hostibus opprimercnlur, si foris essent, quod propc muros bostcs castra habercnl ;  tum relatio criminis, ut iu eo milile, qui quum  communis lei omnium hominem occidcre velare!,  tribunum suum, qui «im sibi adferre conarctur,  occidit; tum remolio criminis, ut in eo, qui quum  lex, quibus diebus in legationem proflcisceretur,  praeslitueral, quia sumptum quaeslor non dedit,  profeclus non est; tum conccssio per purgatiouem  et per imprudenliam, ut in viluli immolalionc, et  per vim, ut in nave rostrata, et per casum, ul in  Eurotae magnitudine. Quarc aut ila sentcntia inducelur, ut unum quiddam voluisse scriptor demonstretur; aut sic, ul io ciusmodi ra, et tempore  boc voluisse doceatur. Ergo is, qui scriptum defendet, bis locis  plerumquc omnibus, maiore aulem parte semper  poteri! uli : primum scriptoris collaudatone et  loco communi nihil eos, qui ìudiccnl, nisi id, quod  scriptum sit, spedare oporlere; et boc eo magia,  si legitimum scriptum proferelur, id est, aut lex  ipsa, aut aliquìd ex lege. Postea, quod vehemenlissimum est, facli aut intenlionis adversariorum  cum ipso scripto contenlione, quid scriptum sii,  quid factum, quid iuratus index ; quem locum  mullis modis variare oportebit, lum ipsum secum  admirantem, quidnam centra dici possi!, tum ad  iudicis ofOcium reverlentem et ab eo quaereotem, evento die il figlio morisse innanzi alla pubertà.  In questa causa non si può dire che debbasi accomodare il dello dallo scrittore al tempo c ad un  avvenimento di qualche sorla , poiché si dimostra  senza contrasto essere quel detto non altro che il  senso, di che si fa forte il litigante che parla contro lo scritto per difendere che è sua l'eredità. La  seconda specied'interpretazione ammessa da quelli che s'attengono al senso, si ò il dimostrare non  essere la volontà dello scrittore così semplice e  condizionala, da avere in ogni tempo e per ogni  caso l'intento medesimo, ma doversi interpretare  secondo la circostanza, secondo che richiede quel  tale avvenimento o quel tal fatto. Questa specie di  trattata appartiene specialmente a quella costituzione giuridiciate che si domanda assunliva. E infatti egli avviene che ora si dee istituire la comparazione, come rispetto a colui clic, vietando la  legge dall’aprire lo porle sempre clic dura la not•e, le aperse in tempo di guerra, e mise dentro in  città uno sforzo di aiuti, perchè stando fuori non  fossero oppressali dai nemici clic stavano a campo  soltesso le mura ; ora si dee riversare la colpa sopra un altro, come farebbe quel soldato che, interdicendo la legge a tutti comune di levarla vita  a chi che sia, la levò al suo tribuno clic si lasciava andare a fargli le forze addosso ; ora si dee venire alla remozionc della colpa, come farebbe colui che, avendo la legge posti i giorni in cui si dovesse partire in ambasceria, non parti altrimenti  però che il questore non gli diede le spese ; talora  si dee venire alla concessione coll’addurreo la scusa o la ignoranza della legge, come nel sacrifizio  del vitello; o la forza maggiore, come nel fatto  della navcroslrata ; ol'accidente, come nella escrescenza detl’Eurota. Laonde il senso di uno scritto  si dee difendere per due modi, o mostrando che  lo scrittore con quel tale concetto ha sempre voluto esprimere una cosa stessa, o facendo vedere  che in questo tal fallo e in questo tal tempo ha voluto esprimere nel suo scritto questa tale sua volontà. Il litigante per contro che difenderà lo  scritto quale esso è, potrà far uso le più volte anche di tutti i seguenti luoghi, ma sempre perù della più parte: primamente si loderà dello scrittore,  ed uscirà in questo luogo comune: dover quelli  che hanno in mano il giudicio por mente solo a  ciò che è scritto; il che egli affermerà di più forza , se si trattasse di uno scritto legittimo , corno  sarebbe o la stessa legge, o qualche cosa che dalla legge fosse cavata. Poi verrà al punto che ingagliardisce della maggiore veemenza , voglio dire  al far agguaglio dallo scritto al fatto o all' accusa  degli avversarli, mostrando ciò che fu scritto, ciò iOi quid praetcrca audire aul exspcctare debeai; tum  jpsum adversarium, quasi intentanti loco producendo, hoc est, interrogando, utrum scriptum ncgel esse co modo, an ab se conira ractum esse,  aut contra contendi neget; utrum negare ausus sit  se dicere desilurum. Si neulrum neget, et contra  tamen dical nihil esse, quod hominem impudentiorem quisquam se visurum arbilrctur. In hoc  ita commorari conveniet, quasi nihil praeterea di- j  ccndum sit, et quasi contra dici nihil possi!, saepe  Id, quod scriptum est, recitando saepe cum scripto factum adversarii confluendo, atquc inlerdum  acritcr ad iudicem ipsum reverteudo. Quo in loco  iudici demonstrandum est, quid iuratus sit, quid  sequi debeat : duabus de causis iudicem dubitare  oportere, si aut scriptum sii obscure, aul neget aliquid adversarius. Quum et scriptum aperte sit, et adversarius omnia conflteBtur, tnm iudicem legi parere,  non intcrprelari Icgem oportere. Hoc loco conflrmato, tum diluere ea, quae contra dici poterunl,  oportebit. Contra autem dicetur, si aut prorsus aliud scnsisse scriplor et scripsisse aliud drmonslabitur: ut in illa de testamento, quam posuimus,  controversia; aut causa adsumptiva inferetur, quamobrem scripto non potuerit aut non oporluoril  obtemperari. Si aliud seusisse scriplor, aliud seripsisse dicetur, is qui scriplo utclur, haec dice! :  non oportere de cius voluntate nos argomentavi,  qui, ne id lacere possemus, indicium nobis reliquerit suae voluntalis ; multa incomrnoda consequi, si instiluatur, ut ab scriplo rccedatur. Nato  et cos, qui aliquid scribant, non eiistimaluros id,  quod scripserint, rallini futurum; et cos, qui iudicenl, cerlurn, quod sequantur, nihil habituros, si  semel ab scripto recedere consueverinl. Quod si  voluntas scriptoris conscrvanda sit, se, non adversarios, a voluntate cius stare. Nam multo propius  accedere ad scriptoris voluutatem cum, qui ci ipsius cam lilteris Inlcrprclctur, quam illum, qui  sententiam scriptoris non ci ipsius scripto special,  quod illae suae voluntalis quasi imaginem reliquerit, sed domcsticis suspicionibus pcrscrutclur. Sin che fatto, ciò che sia di dovere al giudice che ha  giurato di osservare la legge; e questo luogo dovrà il litigante variare per molti modi , ora mostrandosi ammirato che si trovi cosa da voler opporre; ora tornando sopra alfuDlcio del giudice,  c chiedendogli clic altro di vantaggio ei possa  ascollar cd attendere; ora con cerl'aria come di  minaccia appellandosi all'avversario, inlerroganI dolo cioè se mai po«sa dire o che lo scritto non  sia alTallo a quel modo, o ch'egli non faccia con| irò allo scritto c contenda Dior di dovere; e soggiungendo che ove abbia il coraggio di dire o l'uno  o l’altro, ci si rimarrà dal più avanti discorrere.  Se non dicesse nè questo nè quello, e non di meno durasse a dir contro, aggiungerà il difensore  dello scritto, nessuno dover credere di poter mai  vedere un uomo più impudente di quello. In questo proposito si dovrà dimorare un po’ a lungo ,  come se più altro non restasse da dire, c come se  non potesse colui aver più che rispondere incontro : si reciterà più volle lo scritto, si combatterà  spesso con lo scritto lo adoperarsi dcll’atvcrsario,  e qualche fiata con parole ardite si farà appello  allo stesso giudice. E qui si vorrà al giudice anche dimostrare che s’intenda per giurato, e quale  sia il partito eh' ci dee seguire , c come per due  capi è necessario che il giudice sia in dubbio, vale a dire, se lo scritto Tosse oscuro, o se l'avversario negasse qualche punto dello scritto. Qualvolta lo scrino è chiaro, c l'avversario stesso nc confessa di ogni punto la chiarezza,  devsi ammonire il giudice che suo dovere è obbedire alla legge, non già farsene il turcimanno e lo  sposilorc. Raffermato questo asserto con le prove  addotte, converrà ribattere ogni obbietlo elicvi  potesse esser mosso. Sarà obbietlo, se il nostro  avversario dimostrerà che lo scrittore intese esprimere ben altra cosa da quella che porla lo scritto,  siccome nella controversia circa il testamento, cho  qui sopra Ito toccala; ovvero se avrà ricorso a costituzione di genere assuntilo per mostrar la causa onde non si potè o non si dovette obbedire allo  scritto. Se il nostro avversario dicesse aver lo scrittore inteso d'esprimere ben altra cosa da quella  clic dimoslra, risponderà quegli clic allo scritto  si attiene: non esser mestieri che noi discutiamo  circa alla intenzione dello scrittore, il quale appunto perchè non ci fosse di che discutere ne ha  lasciato della sua intenzione un indicio non dubbio; venirne in conseguenza molli mali cQctli, se  i *’ introducesse l'abuso di allontanarsi dallo scril< lo: imperocché quelli che scrivono faranno ragione  j che non si starà punto allo scritto loro ; e quelli  che deono giudicare non avranno nessun dato cer| to c sicuro da dover seguire, ove avessero una causam adfcret is, qui a scntcnlia stobil, primum  crii conira dicendum ; quam absurdum non negare conira legem ferisse, seri quarc fcccril, causam aliquam Rivenire ; di-inde, conversa esse omnia ; ante solilos esse accusatorcs iudicibus persuadere, adlìnem esse alicnius culpac eum, qui  accusarclur; causaui prorerre, quae curii ad pcccandum impulisscl: mine ipsuin rcum causam adferro, quare deliqucril. Deinde liane inducere parlilionem, cuius in singulas parles mullac comeuieul argumentalionrs : primum, nulla in lege ullam causam «mira scriptum accipi convenire ;  deinde, si in celeris logilnis «invernai, liane esse  eiusmodi legem, ut in ca non oporleal; postremo,  si in hac quoque lege oporleal, liane quidem causato accipi minime oporlcre. Prima pars bis fere locis conBrmabilur:  scriplori ncque ingcnium, ncque operam, ncque  ullam facullatem defuisse, quo minus aperte posse! perscribere Id, quod cogitarci ; non fuisse ci  grave nec difficile cani causam excipcrc, quam  adversarii proferant , si quidquam cvcipicndum  putassct ; consuesse eos, qui leges scribanl, ciccplionibus uli. Deinde opor'.et recilare leges cum  ciccptionibus scriplas, et maxime ridere, ccquae  in ca ipsa lege, qua de agalur, sii «copilo aliquo  in capile, aut apud eumdem legis scriptorem, quo  magis probclur cum fuisse exceplurum, si quid  evcipicndum putarel ; et ostendcrc causam accipere niliil aliud esse itisi legem tollere; ideo quod,  quum semel causa considerclur, nihil allineai cain  ex lege considerare, quippc quae in lege scripta  non sii. Quod si sii institulum, omnibus dari causam et polcstalcm pcccandi, quum intcllexcrinl  vosex ingcnio cius, qui conira legem fcccril, non  ex lego, in quam iurali silis, rem iudicare; deinde  et ipsis iudicibus iudicamli et cctcris civibus vivendi ralioncs pcrlurbolum iri, si semel ab legibus  recessum sii ; nam cl iudices ncque quid sequan   volla piglialo l' uso di non si allenerò allo'scrillo.  Dirà inoltre clic se s’ba da conservare la intenzinne dello scrittore, è anzi egli, c non mica gli  avversarli, clic Iroppo meglio la conserva; perocché a questa intenzione avvicinasi assai più colui  clic la desume dalla scriltura slessa, clic non qucll' altro clic indaga il sentimento avuto in animo  dallo scrittore diclro i suoi calcoli e congetture  private , anzi clic volerlo riconoscere per mezzo  dello scrino stesso, clic 1' autore lasciò come un  ritrailo visibile della sua intenzione. Se poi quegli clic s'attiene al senso a Idurrà il motivo perché  si debba allonlanarsi dallo scrino, so gli dovrà in  prima così rispondere: esser assurdo, non negare  egli di aver fallo contro la legge, e nondimeno volere trovar un qualche motivo perché cosi facesse;  dipoi dirassi clic oggi si conduce il giudicio ludo  a riverso; per prima erano gli accusatori che meticano a vedere ai giudici come l’accusalo era reo  di qualche colpa, e poncan loro innanzi la causa  che in quella colpa lo fece cadere : ora è il reo  stesso che manifesta la causa della sua reità. Indi si dovrà discorrere queste Ire parli, ciascuna  delle quali olfrirà parecchie argomentazioni , voglio dire: primamente non doversi per veruna leggo ammettere alcun molivo che si oppooga allo  scrino; in secondo luogo, se anche tulle le altre  leggi comporlassero tale ammessione , la legge  presente essere di tale natura che aliano non la  comporla; in line, se anche la legge presente ammetlcssc un molivo, non essere però tale il molivo addotto, che ommellere punto si possa. La prima di qucsle parli comprovasi a un  di presso cosi; lo scrittore non mancava né di industria, nè di mezzi, nè di parole c facilità per esprimcrc chiaro ciò eh’ egli pensasse; nè incontrava difficoltà o pena a fare una eccezione in favore  del molivo che meltono in campo gli avversarli, so  avesse credulo esserci cosa da dover eccelluare;  anco più che quelli che scrivono le leggi ne scrivono eziandio lo necessarie eccezioni. Dipoi si dee  citare il lesto delle leggi che recano le loro eccettuazioni scritte, c soprattutto osservare se v’ ha e  quale v’ ha eccezione in qoalche articolo della  legge questionala, o in altre dello stesso scrittore  perché si possa comprovar con più evidenza che  egli, ove una eccezione fosse siala necessaria, l'avrebbe s-'iiz' altro opposta alla legge, di che si  traila; e insieme deesi mostrare clic ammettere la  eccettuativa non posla dallo scrittore è nienle meno che distrugger la legge, perù clic una volta che  si abbia riguardo ad essa, non è più bisogno di  considerarla relativamente alla legge , siccome  quella che nella legge non è punto inserita. Che  se si cominciasse di avere un Iole riguardo, ognu tur babiluros, si ab co, quoti scriptum sii, recodatti ; ncque, quo paolo alios improbare possinl,  quod conira legem iudicarinl ; cl cclcros civcs,  quid agalli, iguoraluros, si ei suo quisque cotisilio e! ex ca rationc, quac in mcnleoi aul in libidinetti vencril, non ex communi pracscriplo civilalis  unam quamque rem adminislrarit. Rosica quacrerc ab iudicibus ipsis, quarc in alienis dclineanlur  negoliis ; cur rei publicae munere iinpedianlur,  quo seriis suis rebus et commodis servire possinl;  cur in cena verba iurent ; cur certo tempore conveniant, cerio discedanl, nibil quisquam adferat  causac, quo minus frequenter operam rei publicae  det, nisi quae causa in lege cxccpla sii; an se legibus obslriclos in lanlis molesliis esse acquutn  censeanl, adversarios nostros leges negligere concedati); deinde ilem quaerere ab iudicibus, si eius  rei, propler quam screus conira legem fecisse dica!, cxceplionem ipse in lege ascribal, passurinc  aint;poslca boc, quod facial, indigniusel impudcnlius esse, quam si ascribal; ago porro, quidsi ipsi velico! iudices ascribcrc, passurusnc sii populus? alqttc hoc esse indignius, quam rem verbo  et litlcris mulare non possinl, eam re ipsa et iudicio maxime commutare. Deinde indignimi esse de  lege aliquid dcrogari, aul legem abrugari, aul aliqua ex parie commutari, quum populo cognoscendi et probandi aut improbandi poleslas nulla fiat;  hoc ipsis iudicibus invidiosissimum fulurum; non  hunc locura esse, ncque hoc tempus legum corrigendarum ; apud populum haec el per popolimi  agi convenire : quod si nunc id agant, velie se  scirc, qui lalor sii, qui sin! accepturi; se captioncs  videro, el dissuadere velie : quod si bacc quum  summe inutilia lum mullo turpissima sint; legem,  cuicuimodi sii, in praesenlia conservai ab iudiribus, post, si displiceal, a populo corrigi convenire ; deinde, si scriptum non extarct, magno opere  quaereremus; ncque isti, nc si extra pcriculum  quidem ossei, crelercmus. Nunc quum scriplum  sii, amcnliam esse eius, qui peccarli, polius quam  legis ipsius verba cognoscerc. llis et huiusmodi  ralionibus ostenditur causam exira scriplum accipi non oporlere.     no avrà licenza e buona presa di fallire, perchè si  avviserà che voi giudicale dcll'alTare secondo che  lalenta a colui che contravvenne alla legge, non  secondo la legge stessa, a cui avete giuralo di altenervi nel giudicare: dipoi mostrerà che gli stes! si giudici avranno tutta in iscompiglio la condotta  del giudicio, c gli altri cittadini lutto in disordine  l’andamento delia vita, se si piglierà una volta ad  andar a ritroso della legge; conciossiacbè nè i  giudici avranno una regola da seguire, se si divertissero da ciò che è scritto, ni potranno convincere i contravventori di aver fallilo, quando  essi medesimi abbiano giudicato ad onta della  legge c gli altri cittadini non sapranno che far si  debbano, se ognuno si governerà in ogni caso non  dietro i generali statuti della città, ma a talento  proprio, c dietro quella ragione che gli passerà  per la metile, o che andrà a seconda delle sue  voglie. Poscia ci verrà inlerrogando gli stessi giudici, perchè si frammettano di altari alimi, che  loro non si perlengono; perchè dall'ulllcio cltesostengon nella repubblica si lascino impedire di  attender alle gravi loro faccende e provvedere ai  propri! interessi; perchè giurino dietro una formola prescritta; perchè a un posto tempo si raccolgano insieme, c ad una data ora se ne vadano, senza che alcuno molla innanzi altra ragione che lo  autorizzi a prestarsi meno di spesso al servigio  deila repubblica, eccetto quella che è indicala  nella legge: che? slimeranno giusto e ben fatto tenersi essi obbligati alle leggi in mezzo a si gravi  lor cure, o comportare clic i nostri avversarli si  gellino quello leggi medesime dopo le spalle? Dipoi verrà similmente chiedendo ai giudici, se mai  essi patirebbero che I’ accusalo aggiungesse egli  stesso nella legge la eccezione in favore del molivo, da cui si dichiara indotlo a far contro alla  legge, c aggiungerà, ciò che fa l’avversario esser  una sfrontatezza più indegna che se apponesse alla legge quella eccezione : di più, dato anche il  caso che i giudici stessi la volessero apporre in  proprio, forse che il popolo se la porterebbe in  pace? eppcrò esser cosa ben troppo riprovevole  che una legge eh' essi nè per parole nè per iscriltura non possono mutare, vogliano invece mutarla più che più col giudicio e sentenza loro. Di.  rà appresso, essere uno scoocio indegno o detrarre alquanto alla legge, o abrogarla a pieno, o cambiarne qualche parte, senza che siane data copia  al popolo di giudicarne i moliti, c di approvarli o  riprovare: questo non poter che riuscire di odio  acerbo contro gli stessi giudici; non esser questo  nè luogo nè tempo da farsi a corregger le leggi;  questo esser un aliare da trascinarsi col popolo e  per mezzo del popolo: che se ora volessero Ira unno li. Seconda pars est, in qua est oslendendum, si in celeris legibus oporleat, in hac non oporlcrc. Hoc dcmonslrabilur, si lei aulad res maximas, ulilissimas, honeslissimas, religiosissimas  ridebilur pcrlinere ; aut inutile , aut turpe, aut  nefas esse tali in re non diligentissime legi obtcrnperare ; aut ila lev dlligenler pcrscripta dcmonslrabilur, ila cautum una quoque de re, ila.quod  oporluerit, eiceplum, ut minime convcniat quidquam in tam diligenti scriptum praelerilum arbitrari. Tcrlius est Incus ci, qui prò scriplo dicci,  maxime necessarius, per quem oporlet ostcndal,  si convcniat causam contro scriptum accipi, cam  lamen minime oportere, quae ab adiersariis adferatur. Qui locus idcirco est buie necessarius, quod  semper is, qui conira scriptum dicet, aequitalis  aiiquid odierai oporlet. Nani summa impudentia  sii cum, qui conira quam scriptum sii, aiiquid  probare rclil, non aequilatis pracsidio id Tacere  conari. Si quid igitur et hac ipsa quippiam accusator deroget, omnibus partibus iustius et probabillus accusare videatur. Nani superior oralio hoc  omnisfaciebat, uti iudices cliamsi noi leni, necessc  esse! ; baco aulern, eliamsi ncccsse non esset, ut  yellent conira iudicare. Id aulem (iet, si, quibus  ex locis culpa dcmonslrabilur esse in eo, qui comparationc, aut remolione, aut relatione criminis,  aut concessionis partibus se duTcndil ( de quibus  ante, ut poluimus, diligenter perscripsimus ), si  de iis locis, quae res poslulabit, ad causam adversariorum itnprobandam IransTeremus, aut causac  et raliones adferentur, quare et r|uo consilio ita  sit in lego, aut in testamento scriptum, ut sentenza quoque et voluulalc scriploris, non ipsa solum  scriptura causa con&rmata esse, videatur: aut aliis  quoque constitutionibus factum coarguetur.     stillarlo essi, or chi n* è il proponente, e citi son  quelli clic approveranno? sé non vederci che calappi e trullerie, c volere lor giù altrui dal lasciarsi cogliere: che se ogni disegno di mutazione olire  clic al lutto è inutile, ancora £ cosa sommamente  sconcia, dcono per ora i giudici mantenere intatta  la legge, di qualunque sorte ella sia; ove non piaccia, si vorrà più tardi emendare dal popolo. Dirà  inoltre; se lo scritto non ci Tosse qui presente, noi  faremmo ogni potere per averlo a rinvenire, n£  porremmo fede iu costui neppure s' ei trattasse  con noi sicuro da ogni pericolo. Ma siccome è qui  presente Io scritto, è dare iu pazzia senza più, voler essere inTormali delle parole di uno clic falli,  anzi che di quelle della legge medesima. Per questi adunque e per simili altri argomenti si dimostra cotue una eccezione, che non è nello scritto,  non si dee per nulla ammettere.   XLVI. La seconda parte £ quella, nella quale  deesi dimostrare che se anche tutte le altre leggi  dovessero ammettere una eccezione, la legge presente non la dee per veruna guisa. Questo si proverà, mostrando clic la legge rfsguarda cose di  grande rilevanza, di sommo vantaggio, onoratissime e della maggiore santità; ed essere o vana, o  turpe, o illecita azione non obbedire puntatamente alla legge in circostanza si fatta: ovvero si porrà a vedere essere scrina la legge con tale esattezza, si ben provveduto a ogni cosa, cosi eccelle  le circostanze che volcauo eccettuazione da non  si dover credere che in una scrittura cosi condot  la fosse intralascialo n£ un menomo clic. Il terzo  luogo £ di tutta necessità per lo contendente che  sostiene lo scritto. Ei dee mostrare che se anche  la legge ammettesse un motivo eccezionabile, non  £ però di tale qualità il motivo addotto dagli avversarti, che si debba per esso seguire un senso  non indicato dallo scritto. Dissi esser necessario  questo luogo, perch£ siccome chi ragiona contro  lo scritto dee sempre mettere innanzi qualche punto che risguarda l'equità, c saria grave sfacciatezza, chi volesse provar qualche punto che è in pugna con lo scritto, non far quanto potesse per aiutarsi di quella; così l'accusatore, se farà di detrarre e mostrar qualche parte non consentanea alla  equità, sarà in casa di far credere la sua accusa  da lutti i laii più giusta e più probabile. E infatti  le regole esposte più sopra circa al non doversi  ammettere ragione contraria allo scrino riuscivano tulle a fare clic i giudici dovessero di necessità, ancora che non volessero, portar giudicio contro al motivo ccccziouabile: le regole presenti per  conira parano a fare che i giudici vogliano dar  giudiciu conira quello slesso motivo, eziandio se  loro non fosse necessario di cosi fare. Or ciò si Conira scriptum autcm qui dicol, primum induco! cum lorum, perquom aoquilas causae demonstrclur ; aut oslcndel, quo animo, quo  consilio, qua de causa fccoril ; cl, quamcumque  causani adsumcl, adsumplionis parli bus se defcndel, de quilius anlc dicium esl. Alquc in hoc loco  quum diulius commoratus sui Cacti ralionem cl  equitatem cansac cxornavcril, lum ex liis locis foro  conira adversarios dicci oporlcrc causas accipi.  Dcmonslrabil nullam esse leeoni, quae aliquam  rem inuldcm aut iniquam Acri «clil; omnia sttpplicia, <1 ime ab lcgibus profìciscanlur, cuipae ac  malitiac «indicandac causa conslilula esse ; scriplorcin ipsum, si cvsislat, factum hoc prohalurum,  cl idem ipsum, si ei lalis res accidissel, faclurum  fuisse ; ca re legis scriplorcm certo et ordine iudices certa aelate prandi tos consliluisse, ut essont,  nun qui scriptum suoni rccilarcnl, quod quivis  pucr Tacere posse!, sed qui cogilalionc adsequi  posscnl cl volunlatcm interpretar! ; deinde illum  scriptorem, si scripla sua slultis liominihus et barbaris iudicibus coinmilleret, omnia somma ddigentia pcrscriplurom fuisse ; nun - vero, quod inlelligeret, quales viri res iudicaturi essenl, idcirco  cum, quae perspicua videro! esse, non ascripsissc;  ncque cnim vos scripli sni recitatore], sed volutilatis interprcles foro putavil. Poslea quaerere ab  adversariis : Quid, si hoc fccisscm ? Quid, si hoc  accidissel ? Eorum aliquid, in quibus aut causa sii  honcstissima, aut neccssitudo certissima, tumnc  accusarclis ? Atqui hoc lei nusquam excepil; non  ergo omnia scriplis, sed quaedam, quae perspicua  sint, lacilis cxccpliouihus cascri ; deinde nullam  rem ncque legibus ncque scriptura ulta, denique  ne in sermone quidem quotidiano atque impcriis  domeslicis recto posse administrari, si unus quisque vclit verba spedare, et non ad voluolalcm  eius, qui ea verba habuerit, accedere.     otterrà, se di que - luoghi, con che rooslrerassi esserci colpa in colui che si accolla difesa o dalla  comparatone, o dalla remozi one del delitto, o dal  rivcr.-arlo in allra cosa v persona, o dalle parli  della concessione (di che per addietro ho trattato  con quella diligenza migliore che ho sapulo), se  di que' luoghi, dico, si farà uso secondo il bisogno dell'aHare, per ribattere la eccezione ammessa dalla parie contraria, o se si pareranno dinanzi  le cause e le ragioni comprovanti e perchè e con  quale disegno sia stato cosi scritto in quella tal  legge o in quel testamento; con che si verrà a capa di ralTorzarc la causa non pure col solo mezzo  della scrittura, ma eziandio col mostrar in nostro  vantaggio il sentimento e la volontà dello scrittore', oppure si aumenterà l'accusa contro il fatto  facendo uso altresì di altre costituzioni.   XLVII. Quegli che parlerà contro Io scritto, primamente si varrà di quel luogo con che si dimostra la giustizia della causa, oppure farà vedere con  che mente, con che disegno, per qual motivo ha fatto  cosi piuttosto che no; e qualunque sia il motivo con  che si parerà, dee pigliare a sua difesa le parli  dell'assunzione che furono di qui addietro vedute. E qui, appresso ch'egli abbia un po’ alla difesa raffazzonalo di belle esortazioni i molivi di ciò  ch'egli ha fallo e la giustizia della causa; sosterrà  contro gii avversarli doversi animaliere quei suoi  molivi a un bel circa con gli orgomcnli che seguono. Dimostrerà non v' esser legge al mondo che  comandi cosa inutile ovvero iniqua; tulli i castighi che sono inflitti dalle leggi essere stabiliii per  punire la colpa c la malignità: lo scrittore medesimo, se esistesse, approverebbe il fallo, anzi egli  stesso sarebbesi adoperalo di eguale maniera, se  si fosse abbattuto in tale affare: per questo lo scrittore della legge aver designato a giudici persone  appartenenti a una data classe, e giunti a un' età  prestabilita, volendo che tenessero i giudicii persone che sapessero non già recitare il testo della  legge, che da lauto è un fanciullo qualsiasi, ma  raggiungere col raziocinio e inlerpelrarc la sua  volontà. Dipoi, se quello scrittore avesse fatto ragione che il suo lesto saria venuto alle mani di  gente sciocca e di giudici selvaggi da ogni civiltà,  avrebbe esposto ogni cosa Alo per Alo e con la  maggiore accuratezza; ma siccome ei s' avvedeva  troppo bene quali personaggi avrebbero avuto il  maneggio dei giudicii, non inserì nella legge ceni  punti che vedeva essere da sì di facile intelligenza: non vi tenne egli dunque per recitatori del suo  scritto, ma per interpetri della sua volontà. Poscia  dovrà chiedere agli avversari: Or che sarebbe, se  io avessi fallo questo f che, so quest' altro fosse  mai acca scalo? V' Ita cose prodotte da un motivo MURO Doindcei ulilitatis cthonestatis partibus  ostenderc, quam inutile aut quam lurpe sit id,  quod adversarii dicant fieri oporluisse aut oportere; et id quod nos feccrimus aut postulemus,  quam utile aut quam honestum sii; deinde leges  nobis caras esse non proptcr lilteras, quac tcnues  etobscurae nolae sint voluntatis, sed propler carum rerum, quibus de scriptum est, utililalcin, et  corum, qui scripscrint, sapicntiam et diligentiam,  postea, quid sii lei, describerc, ut ea tidealur in  scnlentiis, non in vcrbis consistere; et iudci is vi*  dealur iegi obtcmperare, qui scntentiam eius, non  qui scripluram sequatur; deinde, quam indignum  sit, eodem adfici supplicio eum, qui proptcr aliquod scelus et audaciam contra leges fccerit, et  eum, qui honcsta aut necessaria de causa non ab  scntcntia, sed ab litteris legis reccsserit ; atquc  bis et buiusmodi rationibus et accipi causam, et  in hac lege accipi, et cam causam, quam ipse odierai, oporlerc accipi demonstrabit. Et qucmadmodum ei diccbamus, qui ab scripto dicerei, hoc  Tore utilissimum, si quid de acquitele ea, quac  cum advcrsario starei, derogasse!, sic huic, qui  contra scriptum dicci, plurimum proderii, ci ipsa  scriplura aliquid ad suam causam converlere, aut  ambigue aliquid scriptum oslendere ; deinde ei  ilio ambiguo cam partem, quae sibi prosit, defendere, aut verbi definilionem inducerc, et illius  verbi vim, quo urgeri videatur, ad suae causae  commodum traducerc ; aut ex scripto non scriptum aliquod inducerc per ratiocinalioncm, de qua  post dicemus. Quacumquc autcm in re, quamvis  levitar probabili, scriplo ipso se dcfendcrit, etiam  quum acquitalc causa abundabil, necessario multimi proDciet, ideo quod, si id, quo nililur adrersariorum causa, subduxeril, omncm eius illain  vim et acri moniam lenierit ac dilucrit. Loci autcm  communes celeris ci adsumptionis partibus in  utramque partem convcnient. Praetcrea eius, qui  a scripto dicci: leges es se, non ex eius, qui contra commiscri!, ulilìlutc spcclari oportere, et In   tanto onesto quanto nessun altro mai, o da una  necessità indeclinabile: or di queste cose ne accusereste voi alcuna? Ma questa cotale non è dalla  legge in nessuno de' suoi articoli eccettualo: dunque non a tulle cose si provvede con Io scritto, ma  solo si provvedo con tacile eccezioni ad alcune,  clic sono lucide c appariscenti a chi clic sia: dipoi, nessun affare si potrebbe reggere con dirittura nè per magistero di leggi, nè di scritto qualsiasi, anzi nè eziandio nel discorso della giornata  e nei comandi domestici, se volesse ognuno starsi  affitto alle parole, c non piuttosto adocchiar bene  la volontà di colui che quelle (ali parole Ita cspresse. Dipoi aiutandosi con le parti dell' utile  e dell’onesto, dimostrerà quanto saria danneggioso o quanto lurpe ciò che gli avversarli dicono essersi dovulo o doversi fare; e a riverso quanto sia  utile o quanto onesto ciò che noi abbiamo fatto, o  ciò che veniamo chiedendo; poscia, esserci a grato le leggi non per le parole, che son segni inconcludenti ed oscuri dell'altrui volontà, ma per lo  profitto che ne viene a lutti dai provvedimenti  delle leggi , e per la sapienza c sceltezza dei  precetti che vi hanno posto quelli che le scrissero ; indi si dovrà definire clic sia legge per  modo tale clic si paia manifestamente consister  essa nei concetti, e non nelle parole, c far vedere che solo quel giudice mostra di obbedire  alla legge, il quale si attiene al sentimento di  essa, non alla materiale scrittura ; dipoi quanto  sia cosa danncvolc e da riprovare che sia mollato  della stessa pena colui che con sua scellcrmiza c  lemeritè si fece ribelle alla legge, c si quegli che  per una ragione onesta o necessaria si è dilungalo non dal sentimento della legge, ma dalle parole di essa; e con questi e altrettali argomenti dimostrerà ed esser ammissibile il motivo clic induce eccezione, ed esserlo in questa legge stessa  ed esso motivo esser tale che affatto si debba ammettere. E come io diceva esser di giovamento  assai a quello che sostenta lo scritto, se avesse  spizzicato e detrattone alquanto delle ragioni di  equità che avvantaggiano I’ avversario, così a costui clic discorre contro lo scritto profitterà a gran  misura il convertire in suo prò qualche punto dello scritto medesimo, ovvero dimostrarne di qualche tratto il doppio senso e 1' ambiguità: di vantaggio, difendere de' due sensi quello che gli torna utile, o recar la definizione della parola ambigua, c guadagnar un argomento in favore della  sua causa dal significato di quella parola stessa,  che pareva gli dovesse tornar al contrario; oppure per mezzo di sillogismo, di che mi verrà da dire più sotto, ricavar c dedurre dallo scritto qualHO wm gibus anliquius haberi niliil oporterc. Conira scriplum: logos in consilio scriploris et ulilllalc communi, non in verbi* consistere ; quasi indignimi  sii, aoquitatom litleris urgori, quac volunlalc eius  qui scripscril defendatur. Ex con Ira ri is aulem logibus conlrovcrsia nasedur, qiium inlor se Jii.'ys vidcnlur logos  aul pluros discrepare lioc modo: Lcx: Qui (yrunnum (inciderti, Olympionicarum proemia capilo,  ni quatti cole! libi rem a muqisltolu doposcì lo,  cl magislralus ci concedilo. El altera lei: T gratino occiso, quinque ejul jiroximos coqtiuliotie inayislratus ficcato. Alexandrum, qui apud Pheraeos  in Tliessalia lyrannldcm occuperai, uxor sua, cui  Thcbc nomen fiiil, nocl’u, quum simul cubarei  uccidi!. Ilare (ilium suum, quom ex lyranno habebal, sibi in praemii loco doposcil. Sunl, qui ci  lego occidi pucruin dicant oporlere. Rcs in iudicio  osi. In hoc genere utramque in parlcm lidcm loci  alque cadem praecepla comcnicnt, ideo quod uterque suam legein conlirinare, contrariam infirmare debcbil. Primum igilur leges oportet contendere considerando, ulra lcx ad maiorcs, hoc  est, ad uliliores, ad honcsliorcs ac magis nocessarias res perlincal; ex quo conlìcilur, ut, si leges  duac, aul si plures erunl, aul quolquot erunt, conservaci non possint, quia discrepeut inter se, ca  maxime conservando pulclur, quac ad maximas  rcs pcrlinere vìdoatur; deinde, ulra lcx poslcrius  lata sii; nani postrema quaeque gravissima est ;  deinde, utra lei iubeal aliquid, ulra permillal;  nam id , quod imperatur , nccessarium , illud,  quod pcrmiltilur , volunlarium est ; deinde , in  ulra lege, si non obtcmpcratum sii, pocna odliciatur, aut in ulra raaior poena slalualur ; nam  maxime conscrvanda est ea, quae diligentissime che corollario che non vi è espresso. Qualunque  sia il punto, tuttoché tampoco verisimile, in cui  questi potrà piegare u propria difesa lo scritto  medesimo, anche quando la causa si fiancheggiasse di molle ragioni di equità, ei sarà condotto senza manco nessuno a giovar di molto la causa propria, perocché se giunga ad abbattere e tor di  mezzo le ragioni che sono di appoggio agli avversarli, egli avrà bella e distrutta, non che addoglila, tutta la forza e veemenza della causa loro.  Quanto è ai luoghi comuni che si traggono dalle  altre parli dello stalo assunlivo, questi cadranno  bene in taglio all’ uno e all'altro avversario. Di  più, quegli che s'altienc allo scrìtto avrà dalla sai  questo argomento: le leggi doversi riguardare in  sé, non mica secondo il vantaggio clic dal violarle  uomo ne trac, e doversi esse aver a cuore e a capitale più clic ogni altra cosa. Quegli clicslà contro lo scritto si gioverà di quest’ altro: avere le  leggi il loro fondamento e sostegno non nelle parole, ma nella intenzione dello scrittore; esser cosa indegna far forza con le parole contro quella  equità, che ha in sua difesa il volere e l'intendimento dello stesso legislatore.  Nasce controversia per leggi contrarie  allora che due o più leggi non vanno di piena concordia fra loro, come in questo esempio : Dice  l'una : Chi darà morie a un tiranno si abbia il  premio che si dà ai vincitori di Olimpia, e chieda al magistrato ciò che meglio gli aggrada,  chè il magistrato gliene dovrà concedere. Dice  un’altra legge: Insieme che sia ucciso il tiranno,  dovrà il magistrato menar a morie cinque altri  che siano a quello legali di parcnlaggio. Tebe,  moglie di quell'Alessandro che s’era fallo tiranno  Ira i Ferei nella Tessaglia, nottetempo, essendo  ella nello stesso letto con lui, lo pose a morte. Per  premio chiede costei la vita del lì glio di' essa dal  tiranno aveva avuto. Insorge altri a dire dover il  fanciullo per legge esser ucciso. L' aliare é messo  in giudicio. Or in causa si falla all'uno c all'altro  avversario verranno a taglio I luoghi stessi, gli  stessi precetti, perchè dovranno lutti e due tener  ferma la legge che lor giova, e battere molto di  vena la contraria. La prima cosa adunque, si dee  far il pareggio e confronto delle due leggi, esaminando bene quale delle duo vada a battere a mag.  glori cose, voglio dire quale provveda a cose più  utili, a più oneste, a più necessarie ; e di qua conchiudere che se due leggi, o se saranno più, o  quante potranno essere, non si possono ritenere  per essere disconsenzienti Ira loro, abbiadi tutte a  ritenersi quella che provvede alla maggiore utilità  delle cose ; poscia è da vedere quale delle due fu  fatta poi giacché l'ultima ha più forza ed autorità; IH sancta est; deinde, utra lei iubcat,utra vetel; nam  saepeea, quae velai, quasi exceptione quadam  corrìgere videlur illam, quae iubel; deinde, utra  lei de genere omni, utra de parie quadam; utra  communiler in plurcs, utra in aiiquam cerlam rem  scripla vidcalur; nam quae in partem aiiquam el  quae in cerlam quamdam rem scripta est, propius  ad causam accedere videlur, et ad iudicium magia perlinerc; deinde, ci lege ulrum statini fieri  nccesse sii; ulrum habeal aiiquam moram et suslentationem; nam id, qund stalim faciendum sii,  parlici prius oportel; deinde operam dare, ut sua  lei ipso scriplo vidcalur niti, contraria anioni aul  per ambiguum, aul per raliocinalionem, sul per  detinilionem induci, uli sanclius el firmius id videalur esse, quod apcrtius scriptum sii ; deinde  suac legis ad scriptum ipsam senlentiam quoque  adiungere, contrariam legein ilem ad aliam senIcntiam Iransducere, ut, si fieri poteri!, ne discrepare quidem videantur inter se; postremo Tacere,  si causa Tacultalem dabil, ut nostra ralione utraque lei conservar! vidcalur, adversariorum ralione altera sii necessario ncgligenda. Locos autem  communcs, et, quos ipsa causa del, ridere oportcbil, el ex utilità tis et ex honcslalis amplissimi  partibus sumere demonstrantem per ampliGcalionem, ad utram potius legem accedere oporteal. Ex raliocinatione nascitur controversia, qunm  ex eo, quod uspiam est, ad id, quod nusquam  scriptum est, venilur; hoc paclo: Lei: Si furiosus  ejcif, agnalum genliliumqve in eo pecuniaquc cius potestà! etto. Et lei: Palerfamilias uli super  [umilia pecuniaquc sua legassi t, ila ius esto. Et indi quale mena obbligo intorno a un che, quale  non lo metta, conciossiachè il Tare, quando ci ha  obbligo è atto di necessità, quando non ci ha, è  atto volontario senza più; inoltre, qual legge soggetti a pena chi non le obbedisce, o quale soggetti  a pena più grave che non le altre, poiché deesi in  paragone ritener quella che guarentisce meglio la  propria inviolabilità col multare di più gravi ammende quello che ad essa contrarrà; poscia, quale  di esse leggi prescriva una azione, quale invece la  interdica, poiché spesso quella che la interdice dà  vista di correggere quasi che per mezzo di eccezione quella che la prescrive : quindi , quale delle  leggi si riferisca a lutto un genere, quale a sola  una qualche specie ; quale sia scritta in comune  per molti oggetti, quale lo sia per un solo oggetto  determinalo^ poiché quella che si riferisce a una  specie, come anche quella che é scritta per un  oggetto solo, si applica meglio ai bisogni della  causa e meglio serve a determinarne il giudicio :  oltracciò, se la legge imponga la necessità che si  Taccia di presente ciò che é da Tare, o se conceda  qualche soprastanza e indugio, poiché ciò che di  presente è da Tare si c^invien compiere per primo  e innanzi a lutto; dipoi metter opera che la legge,  a che noi ci atteniamo, mostri di aver la sua Tona  nelle sue stesse parole : e per conira quella dello  avversario si farà veder che non tiene, o citandone  l'ambiguità, 0 deducendo per sillogismo o per  definizione qualche corollario che le tolga la forza  c il valore, in maniera che si venga a conchiuder  di netto, come ciò che é scritto con più chiarezza  é appunto cièche si dee tenere vie più per Termo  e giustamente ordinato. In seguito, alla legge da  noi difesa applicheremo il senso che ne pare, e  vedremo per lo simile di accomodar alla legge  contraria un senso cosi fatto, che lasci apparire  a misura del possibile, non esser poi le due leggi  cosi discordanti Tra loro come si crede: in ultimo,  dovremo travagliarci, se la causa ne darà il poterlo, di dar a divedere che il nostro ragionamento  concilia e ritiene ambe le leggi, laddove per lo ragionar degli avversarli o l'una o l'altra ne dee necessariamente essere rigettata. Converrà altresì  vedere quali luoghi comuni la causa offra da sé,  e pigliarne anche dalle molle e varie parti deli' utilc e dell' onesto per dimostrare col mezzo della  amplificazione a quale delle due leggi sia più presto da attenersi.   L. Nasce controversia dal raziocinio, quando da  ciò che è scritto in una legge si viene a trattare  ciò che in nessuna è scritto, per esempio: V'è una  legge che dice: Se alcuno vien pazzo furioso, gli  agnati e gli offri della stessa famiglia acquisteranno padronanza sopra di lui c sopra if sito Ics.- Si palcrfamitias intestalo maritar, familia  pccuniaque eit a agnatumgentiliumijne està. Quidam iudicatus est parcnlem occidisse. Ei slatini,  quoti cffngicndi potcslas non fuit, ligneac soleac  in pedes induclac suol; os anioni obtolulum osi  folliculo el pracligatum; deinde osi in carcerem  deduciti*, ul ibi ossei tarilisper, dum coleus, in  ijuein coniceli!* in proflucnlem doferrelur, compararelur. lnlcrea quidam ojus familiares in carccrem labulas adrerunl cl loslcs adducimi; beredes, quos ipsis libel, seribunt; labulao obsignanlur. De ilio posi snpplicium sumilur. Inler eos,  qui herodes in labulis scripli sunl, el inler agnalos de licrcdilale conlrovorsia esl. Ilio corta lei,  quac testamenti faciemli iis, qui in co loco siot,  adimal polcslalem, nulla prorerlur. Ex ccleris Icgibus, el quae liunc ipsum supplicò)' liuiusmodi  adliciunt, el quac ad testamenti lacicndi potestàlem pertinenl, per raliocinationcm vcnicndum est  ad eiusmodi rationem, ut quacralur, habucritne  testamenti faciendi poleslntem. Locos aulem communcs in Irne genere argumenlandi lios et liuidsinodi quosdam esse arbilramur; primum cius seripii, quod proli-ras, laudalioncm cl coniirmalionem; deinde cius rei, qua de quacralur cum co,  de quo constcl, collationem eiusmodi, ut iti, de  quo quacritur, rei, de qua constcl, simile esse videatur; postea admiratioocm perconlationc, qui  fieri possit, ut, qui hoc acquum esse conccdal, illud ncgel, quod aul aequius aul eodem sii in genere; deinde idcirco de hac re niliil esse scriptum  quod, quum de illa cssel scriptum, de hac is, qui  scribebat, dubitalurum nomi noni arbitratila sit;  postea mullis in legibus multo practenla esse,  quac idcirco practenla nemo arbitrclur, quod ci  ccleris, de quibus scriptum sit, inlelligi possint ;  deinde acquitas rei dcmonslranda est, ul in iuridiciali absolula. Contro autem qui dicet, simililudinem infirmare dcbcbil: quod facicl, si demonslrabit illud, quod conlcralur, ab co, cui confcralur, divcrsuni esse genere, natura, vi, magnitudine, tempore, loco, persona, opinione; si quo in  numero illud, quod per similitudincm adfertur, el  quo in loco illud, cuius causa adfertur, liaberi  conrcnial, ostendetur; deinde, quid res cum re  ditterai, dcmonslrabitur, ut non idem videalur de  utraque exislimari oporterc. Ac, si ipse quoque  polerit raliocinalionibus uli iisdem rationibus,  quibus ante dicium esl, utclur; si non poteri!, negabit oporterc quidquam, itisi quod scriptum sii,  considerare; pcriclitari omnia iura, si similitudincs accipiantur; niliil esse pacnc quod non alteri  simile esse videatur: mnllas de similibus rebus et  in unam quamque rem tantum singulas esse leges  omnia posse inler se rei similla tei dissimilia do   danaro. Un’ altra dico : Se un padre testamento  rapporto a' suoi schiavi c ai suo danaro, sieno  ferme e rate le sue disposizioni. Dice una teria :  Se un padre se ne muore intestato, i suoi schiavi  e il suo danaro divengono proprietà degli agnati  e degli altri della siesta famiglia. Un tale fu giu: dirato reo d’ aver ucciso suo padre. Siccome non  potò trovar modo di prender la fuga, gli furono  I calzale le piante di piedi che di legno a nifi di scar' pc, c imbavagliato il volto in un baccuceo stretto alla gola ; poi fu dato alla carcere perché vi  I stesse prigione tanto solamente che fosse ammannala la saccaia di cuoio, io clic si dovea chiù1 dere c gettare in fiume. In quel mezzo tempo al| cuni suoi amici recan nella carcere uno stromenlo  testamentario c insieme alcuni testimoni; nomano  eredi di esso quelli che lor pare c piace, c mettono allo slromcnlo il suggello dovuto. Poscia si  prendo il supplizio del delinquente. Nasco litigio  circa l' eredità fra gli agnati c quelli che sou nomali eredi nello scritto. Qui non si rena in mezzo  nessuna leggo positiva che tolga il dirillo di far  1 testamento a quello che ha poco andare ad esser  morlo. Si dee dunque dalle altre leggi, si da quel| le clic a lai delinquente infliggono un tale supplì! ciò, si da quelle clic si riferiscono al dirillo di far  1 testamento, venire per la via del raziocinio a una  trattazione clic versi sulla ricerca, se quel parricida  | avesse o no diritto di testare. I luoghi comuni clic  | son proprii a questo modo di argomentare sono i  seguenti senza clic ve n'ha certi altri di falla simile ; primamente dello scritto clic metterai innanzi  I dei fare la lode, c raffermarne l'autenticità: dipoi  ! deesi fare della cosa che si cerca con quella che è  manifesta un confronto di tal maniera, che appari  j sca esser simile alla manifesta la cosa che cercasi;   poscia eccitar la maraviglia coll'intcrrogarc, come  1 possa mai darsi che olii concede esser questa casa  : ben giusta, dica non lo essere quella, che giosta  è molto più, o almeno in eguale misura ; indi, se  della cosa che cercasi non »’ è nulla di espresso  nello scritto, nop v'èa motivo che P autore, allora che scriveva, lacca ragione che nessuno ne moi «crebbe già dubbio; io altre leggi esser trasandate  ; di molte cose, le quali nessuno crederà mal che  - P autore le Irasandassc perchè non le volesse ,  ma solo perchè le non iscritte si possono raccogliere da ben altre, che scritte già sono; di vantaggio, deesi dimostrare la equità della cosa, come  nella costituzione giuridicialo di specie assoluta.  Quegli che terrà il contrario dovrà lor forza alla  somiglianza mostrata dalla parte avversa; c il farà  dando a vedere esser la cosa messa a paragone di  genere diverso da quella con che s' è messa, cd  altresì esser di diversa natura, fona, grandezza, Limtu il. inonslrari. Loci communes: a raliocinalionc, oporIcre conieclura ci co, quoti scriptum sii, ad iti,  quod non sii scriptum, pervenire; et neminern  posse omnes rcs per scripturam amplccli.sed eunt  commodissimc scribcre, qui curel, ut qoacdam ex  quibusdam inlclligantur. ('.mitra ratiocinalioncm,  huiusmodi : coniccluram divinalionem esse , et  stulli scriptum esse non posse omnibus de rebus  caverò, quibus velil. Dcllnilio est, quum in scripto verbum aliquod est positum, cuius de vi quaerilur, hoc modo; Lei: Qui in aduna tempestale nocem reliquerinl, omnia amiilunto; forum nauta et onera  sunto qui innave remanserint.Duo quidam, quum  iam in allo navigarcnl, et quum eorum allerius  navis, allerius onus esset, nautragum qucmdnm  nalaolcm et manus ad se tcndcnlcm animum advcrlerunt; misericordia commuti navem ad rum :  applicarunl, hominem ad se suslulcrunt. Postea  aliquanlo ipsos quoque tempesta» vehcmenliiis  lodare coepit, u*que adeo, ut dominus navis,  quum idem gubernator esset, in scapliam confugcrel, et inde funicolo, qui a poppi religalus scapham adneiam Irahobat, navi, quoad possel, nioderarclur; ilio aulem, cuius merces crani, in gladiuin ignave ibidem incumbcrct. Ilic ille naufragus ad gubernaculum accessit, et navi, quoad po  luil, est opiluluios. Sedatis aulem lluctibus, et  tempestale iam commutata, navis in portum pcrvchilur. Ilio aulem, qui in gladium incumbucral,  leviter saucius facile ei vulncre est rccrealus. Navem cuni onere liorum (riunì suam quisque esse tempo, luogo, personaggio, opinione ; il farà ancora, mostrando in qual conto c prozio s’ abbia a  tenere la deduzione traila dalla pretesa somiglianza, in quale il motivo perchè si è tratta: in line si  dimostrerà in che balla la differenza dall' una alla  altra cosa, acciocché si paia clic dell'ima e dell’altra non densi avere la stessa idea. E se egli stesso  avesse opportunità di valersi di raziocinii, se ne  dovrà valere in quelle stesse guise clic si snn dette  poco avanti ; se di opportunità direnasse, dovrà  sostenere clic non si dee allcudere ad altro che a  ciò die è scritto; andar a ripcnlaglio tulli i diritli,  se si ammettessero somiglianze sì folte, imperocché  non v'Iia quasi cosa alcuna clic non tenga del simile con qualche altra ; esservi molle leggi che  Irailano nggelti somiglianti tra loro, ma l' una essere separala dall'altra, e ciascuna trattar solamente il suo oggetto speciale ; in tutte le cose potersi scorgere somiglianza o dissomiglianza delle  unc con le altre. I luoghi comuni clic qui tornano  a capello sono i seguenti : quegli clic ragiona per  mezzo di raziocinio dee da ciò clic è scritto raggiungere per congettura eiò clic non è scritto, c  difendere clic nessuno autore può racchiudere  ugni cosa nella sua scrittura, c che meglio scrive  e a meglio riesce chi prucura che da alcune cose  alcune altre se nc venga ad intendere. Quegli che  ragiona conlro il raziocinio, dovrà sostenere clic  darsi alla congettura è un farsi a indovinare, cd  essere un balordo e uno sciocco quello scrittore  clic non sa ben esprimere c provvedere tutto quello eh' ci vuole. fi definizione, quando cercasi qual sia il vero  signilicato d' una qualche parola che ai ritrova  nello scritto, come in questo esempio : Dice la  legge : Chi abbandona la nave in tempo di burrasca, si diierla e perde ogni cosa: la nave c le  mercalanzie cadono in proprietà di quelli che  nella nave si rimasero. Due persone viaggiavano  per mare, I" uno padrone della nave, I' altro della  merce di che essa era carica. Videro nell' acqua  un tale clic stava perduto c che tuttora nuotava  tendendo verso essi le mani ; presi da pietà, drizzarono la nave alla volta di quello, o lo raccolsero  dal mare. Alquanto dappoi cominciarono essi medesimi di esser forte travagliati dalla burrasca che  vi si mise, di modo che il padrone della nave, che  n' era eziandio il pilota, riparò per salvezza nel  palischermo, c di quivi, a misura del possibile,  reggeva la navo con la funicella clic raccomandala  alla poppa traeva il palischermo dietro a sé. L'altro clic era il padrone della mercalanzia, sul ponte  della nave lasciossi radere da codardo sulla punta  di un pugnale per morirsene. Intanto il naufrago  di’ era slato raccolto dal mare si fece al limone, e in blil dici!. Die orones scriplo ad causato acceduti!, el  et nominis tì nascilur controversia. Natn et rclinquere nateti), et remancrc in navi.deniquc natia  ipsa quid sii, definilionibus quaerelur. tisdem autem et locis omnibus, quibus definitiva conslilulio, traclabilur. Nunc, exposilis iis argumcntationibus, quac in iudiciale causarutn gettus accomodanlur, deinceps in deliberativum gcnus et dcmonslratitum argumenlaudi loco: et praecepla  tlabimus; non quo non in aliqua conslitulione omnia semper causa veraetur, sed quia proprii tantum liarum causarum quidam loci sunt, non a constilutione separati, sed ad (Ines liorum generum  accomodali. Nam placet in iutliriali genere flnem  esse aequilatrm, Itoc est, partem quamdam Itonestalis. In deliberativo aulcm Aristoteli placet utililatcm, nobis et honcslatcm et ulilitalem. In dentonstralivo , lionestatem. Quarc in hoc quoque  genere causae quaedam argumcntalioncscommuniter ac simililcr Iraclabunlur; quaedam separatius ad liucm, quo referri onincm ralioncm oporlet, adiungcntur. Alque uniuscuiusque constilolionis escmplum supponcrc non gravaremur, itisi  {liuti viderentus, qucmadntodum ros obscurac dicendo fioretti aperliores, sic rcs apcrtas obscuriorcs fieri orationc. Nunc ad dclibcralionis praecepla  pergamus,     LI I . Rerum cipelendarum Iria genera sunl; par  autcni numerus tilandarum et contraria parte.  Nam est quiddam, quod sua vi nos adliciat ad ecse non emolumento captans aliquo, sed Irahens  sua dignilale; quod gcnus, tirlus, scienlia, veritas est. Est aliud autem non propter smini vini et  naturam, sed propter fruclum alque ulilitalem peIcndum; quod genus, pecunia est. Est porto quiddam ci liorum parlibus iunctum, quod el sua vi  et dignilale nos iuduclos ducit, el prue se quamdam gerii utilitatem, quo magis eipetatur, ut amicitia, bona cxislimalio. Alque ex is liorum conira   per quanto seppe porse aiuto alla nave. Calmatisi  i fluiti, e volta la burrasca in bonaccia, la nave fu  fatta entrare nel porlo. Colui clic s'era gettato sulla  punta del pugnale non avea rilevala che una assai  lieve ferita, ondechè tosto e di facile si rimise in  meglio. Ciascuno di questi tre vanta per sua la  nave con la merce denlrovi. Perciò intentano causa tutti e tre, pretendendo ciascuno avere la legge  dal lato proprio. Si rimesta controversia di nome,  cioè dire di significato; poiché deesi realmente  cercare con altrettante definizioni che significhi  abbandonar la nave, che rimanersi in quella, e infine che sia la nave stessa. Or questa causa si trattori precisamente con tutti quei luoghi, con che  trattasi la coslituiione definitiva. Esposte cosi le  argomentazioni che si adattano alle cause di genere giudiciale, verrò a mano a mano dando i precetti e indicando i luoghi che sono il caso per le  argomentazioni proprie dei due generi, deliberativo e dimostrativo; non perchè ogni causa non  s’ aggiri sempre sopra qualche stato di questione  oratoria, ma perche ci sono dei luoghi solamente  proprii di questi due generi di cause, non già disgiunti e divisi dallo stalo delta loro questione, ma  adatti c relativi ai (ini, a cui para ciascuno di questi due generi. E infatti si tiene dai relori rito il  genere giudiciale abbia per line la equità, ciò è  dire tuta parte dell' onesto ; c da Aristotele clic il  fine del deliberativo sia l' ulilc : io però tengo  clic sia l'utile cd anche l'onesto. Si tiene da ultimo che l’ onesto sia il line del genere dimostrativo. Laonde, eziandio riguardo a questi dne  generi di cause insegnerò in comune e per lo simile alquante argomt-nlazioni, aggiungendone ancora certe altro speciali che si riferiscono strettamente al fine che è proprio di ogni causa , c  a cui si dee rapportare tutta la orazione. Noti mi  graverebbe di apporre il proprio esempio a ciascuna costituzione clic io toccherò, se non osservassi che siccome le cose oscure si fanno più ciliare col ragionarvi sopra, cosi le ciliare si fanno,  ragionandole, alquanto oscure. Ma veniamo ai  precetti circa il genere deliberativo.   Lll. Tre sono le specie delle cose appetibili, c  tre le loro opposte, da cui l'uomo si dee guardare.  Vita certi oggetti che per lo slesso loro valore ne  allettano ad abbracciarli: non ne tirano già a sè  colla lusinga di qualche profitto, ma coll'innamorarne della nobiltà e pareggio loro, quali sono la  virtù, la scieuia, la verità. Te n’ha altri che sono  a desiderarsi non per lo valore c natura loro, ma  perchè conferiscono uo qualche profiliti ed utilità,  siccome è il danaro. Ve n' Ita invece che sono un  misto di questi e di quelli, i quali olire che ne adeseano a seguirli pel loro valore e nobilezza, an ria facile, tacenlibus nobis, intelligenlur. Seti ul  expedilius ralio trndalur, ea, quae posuimus, brevi nominabuntur. Narri in primo genere quae sunl,  honesla appellabunlur; quae aulem in secondo,  ulilia. Haec autem Icrlia, quia partimi honeslalis  comincili, et quia mnior esl vis honeslalis, iuneta  esse omnino ci duplici genere intelligenlur; sed  in nteliorem partimi vocabuli coiiferanlur, cl honesta nominentur. Gì bis itimi conlicitur, ul appclendarum rcrum partes sint borie. las et utililas,  vitandarum turpiludo et inulililas. ilis igitur duabus rebus res duac grandes sunt atlribiitae, nccessiludo cl adfectio; quarum altera ei vi, altera  ci re cl personis consideratili. De ulraque post  aprrlius perscribemns; nunc honeslalis ralioncs  primum eiplieemus. Quod ani tolum aul aliqua ex parte propter se pelilur, honestum nominabimus. Quare  quum eius duac partes sint, quarum altera simplex, altera iuneta sii, simpllcem prius consideremus. Kst igitur in co genere omnes res una «i  alquc uno nomine amplexa virlus. Nam virtus est  animi habitus, naturae modo, atque rationi conscnlaneus. Quamobrem omnibus eius partibus cognitis, loia vis erit simplicis honeslalis considerata. Ilabet igitur partes quatuor: prudentiam, iuslitiam, foriiludinem, lempcrantiam. Prudenlia est  rerum bonarum et malarum neutrarumque scienlia. Partes eius: memoria; intei iigentia, provienila. Memoria est, per quam animus repctil illa,  quae fuerunt; intei Iigentia , per quam ea perspicit;  quae sunt; providentia, per quam futurum aliquid  vidclur ante quam factum sit. lustitia est habitus  animi, communi utililate conservala, suam cuique  tribuens dignilatcm. Eius inilium est ab natura  profectum ; deinde quaedam in consucludincm  ex ulililatis ratione venerunt; postea res et ab natura profeelas et ab consuetudine probalas legum  melus et religio sanxil. Natura ius esl, quod non  opinio genuil, sed quaedam innata vis inscruit, ul  religicncm, pielatem, gratiam, vindicationcm, obscrvantiam, verilatem. Religio esl, quae supcrioris  cuiusdam naturae, quam divlnam vocant, curam  ceremoniamque adferl ; pietas per quam sanguinoconiunclis palriacqne benevulis oflicium cl ditigens Iribuilur cullus; gralia in qua anticiiiarum cl  olliciorutn allcrius memoria et remuncrandi vo   cile ne mostrano una cotale utilità, perchè ad appetirli siamo vie piè invogliati, come à l'amicizia,  la buona stima, e via via. Gli oggetti che sono opposti ai prcfali, ancora clic io li ponga in silenzio,  di leggiere si potranno intendere. Ma perchè sieno  più chiari i precetti che vengo a porgere, ricordo  cosi di passo di che nomi sieno da appellare gli  oggetti che ho qui sopra accennali. I primi si ap  polleranno onesti, i secondi si diranno utili. I terzi, perchè sono contempcrati con l'onesto, e perchè in essi la forza dell' onesto è maggiore clic la  propria, si capisce di lieve che sono appetibili per  due ragioni unite insieme ; ma s’ abbiano pure il  nome dalla ragione migliore, e si appellino onesti  anch' essi Da lutto ciò si deriva, che gli oggetti  da dover appetire sono di due specie, onesti ed  utili, c gli opposti da doversene chi che sia guardare, sono i turpi ed i dannosi. A queste due specie  si riferiscono due cose di assai rilievo, la necessità  e la circostanza; delle quali la prima si risguarda  in sè e nella forza sua propria, la seconda relativamente ai fatti ed allo persone. Dell' una e dell’ altra scriverò poi con sudlcicnle chiarezza : qui  intanto mi farò a trattare cièche risguarda l'onesto.   LUI. lo appello onesto ciò che in tutto o per  amore di alcuna sua parte è appetibile per sè. Siccome però son due le parli dell'onesto, una semplice, una mista, ci occuperemo in prima della  parte semplice. Or quella che per la sua propria  potenza, c sono il solo suo nomeoomprendequanto v’ha nella specie dell'onesto semplice, èsen z’alIro la virtù. È infuni la virtù un abito interno,  basalo sulle regole naturali, e consentaneo alla  ragione. Per la qual cosa, conosciute che siano  tulle le parli di essa, si può dire di aver conosciula  tutlaquanta la forza dell'onesto semplice. Ha essa  virtù ben quadro parti, prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Prudenza è la facoltà di conoscere ciò che è bene e ciò che è male, e ciò che  non è nè l'uno nè l'altro. Le sue parti sono, memoria, intendimento, antiveggenza. Memoria è  quella dote, per cui l'anima si risovviene dello  cose clic furono; inlendimenlo è quello, per cui  l'anima acquista la conoscenza delle cose clic sono; antiveggenza è quella che dà a conoscere innanzi che avvenga qualche cosa che dovrà avvenire. Giustizia è quell' abitudine interna, per cui  l'uomo, senza alterar l'utile generale, dà a ciascuno quello di che esso è degno. I suoi principii  son venuti dalla natura: poscia certe azioni, per  amor dell' utile che danno, sono passale in consuetudine; in fine si i principii venuti dalla natura, e si le azioni che furono approvate dalla consuetudine, vennero sancite dal timor delle leggi  c dalla religione. Natura è una legge che non fu lunlas contiiictur ; vindicatio , per quaro vis aut  iniuria et ninnino amile, quod obfuluruin csl, de*  rendendo ani ulcisccndo propulsala; observanlia,  per quam lioniines aliqua dignilalc anlceedcnles  cultu quodam et honorc dignantur ; vcrilas, per  quam immillala ea, quac snnt, aut aule fuerunl,  aut futura suut, dicunlur. Consuetudine ius csl, quod aut levitar, a  natura tracium aluit et maius lecit usua, ut rcligionetn; aut si quid coruin, quac ante diximtis,  ab natura proreelum maius Lictum propler consuctudiuem viilemus, aut quod in morem vetustas luigi approbaliuue perduti!, quod genus pactum est,  par, iudicatum. Pactum csl, quod inler aliquos  convenit ; par , quod in omnes aequabile est ;  iudicatum, de quo alicuius aut aliquorum iam  scntenlìis constitulum csl. Lego ius est, quod  in co scripto , quod popolo ciposilutn est , ut  obscrvct , conlinctur. Fortiludo est considerala  periculorum susceptio , et laboruin perpessio.  Eius parles, magnificcnlia , Odeutia , patinili, i,  perseverantia. Magniflcentia est rcruin magnaruin  et cicelsarum cum animi ampia quadam et splendida proposilionc agilatio alque administralio ; lidentia csl, per quam magnis et bonestis in rebus  multum ipsc aniinus in se fiduciae cerio cum spe  collocavi! ; palicntia csl bonestnlis aut utililatis  causa rerum ardnaruni ac dillo ilium vnlunlaria ac  diuturna perpessio ; perseverantia csl in ralionc j  bene considerala stabilis et perpetua parmansio. i  Temperantij est ralionis in libidinem alque in alios  non rcclos impelus animi firma et moderala domi- :  nalio. Eius parles, coiiliociilìa, clemenlia, mode- |  stia. Conlinemia est, per quam cupidiias cnnsilii  gubcriialionc regilur ; clemenlia, per quam animi  temere in odium alicuius iticeli roncilaliquc comitale rctincnlur ; modestia, per quam pudor honcsti curam cl slabilcm comparai auctorilatcm. Atque lince omnia propter se solum, ut nihil adiungalur emolumenti, pctcnda suoi. Quod ut demonstrclur, ncque ad hoc nostrum instilutum pcrtinct,  et a brcvilate praccipiciidi remulum csl. l’roplcr  se aulem vitanda suut non ca mudo, quae bis con   prodotta dalla opinioue umana , ma è per una  certa l'orza che le è ingenita, quale è la religione,  la pielà, la grazia, la vcndclla, la osservanza, la  verità. Religione è procurare le cerimonie e il  culto di una natura più prestante della nostra,  la quale si domanda divina; pielà £ quella virtù, per cui l'uomo presla ossequio c rispetto a  quelli che gli sono attinenti di sangue, ed agli  amatori della patria ; la grazia comprende la  memoria dell'altrui amicizia e (ratti officiosi, e la  volontà di muncrargliene; vendetta è quella, per  cui, difendendo o ricattandoci, ributtiamo la violenza c il sopruso, anzi tutto affatto ciò clic ne  potrebbe essere nocitivo; osservanza £ quella disposizione dell'animo, per cui teniamo degni di  certa venerazione ed onore gli uomini di paraggio che son posli in dignità. É verità quella virtù,  per cui, senza punlo alterarle, diciamo le cose  quali furono, o quali sono, o quali sono a venire. Consuetudine è una norma o legge, che  tratta a poco a poco dai principii naturali, fu afforzata e resa maggiore dall’ uso, come è la religione; e forza di norma o legge ha qualunque delle cose provenienli dalla natura, clic ho toccalo  poco fa, le quali vediamo più che più aver preso  piede mediante la consuetudine; ovvero qualsiasi  delle cose, che tenute dal popolo inaino ab antico  per buone c per vero son passale in costume fino  a noi, emne è il patto, la parità, il giudicalo. È  patto ciò, in cui più persone convengono e fanno  accordo tra loro; é parità ciò che guarda verso  tutti la deb la uguaglianza; è giudicalo ciù, sopra  cui fu giù da uno o più pronunziata sentenza. Legge è una regola esposta in quello scritto che si  presenta al popolo perché In debba osservare.  Fortezza, è sofferenza delle fatiche, è un esulo c  approvveduto incontro dei pericoli. Le sue parti  sono, magnificenza, sicurezza, pazienza, perseveranza. I’cr magnificenza s’ intende un esercizio e  un maneggio di coso eccelse e rilevate, congiunto  con una larga e splendida dimostrazione dell'animo; sicurezza è quella virtù, per cui l'uomo nelle  imprese grandi cil onorale ripone in sé stesso  molto di fiducia, in modo da avere la sua speranza per riuscibilc; pazienza è un volontario c lungo  sofferimento delle cose ardue e malagevoli, eoi  . disegno di giunger a fatti di onore o di utilità;  perseveranza é una ferma c perpetua permanenza  in un partito che siasi preso dietro consiglio e  ponderazione. Temperanza é un signoreggiamento  della ragione, forte, ma moderalo, sopra la libidine c sopra gli altri non rclli trasporti del cuore.  Le sue parti sono contenutezza, clemenza, modestia. Contenutezza 6 quella rirlù, per cui viene  clic i desideri! affienali si lasciano reggere dal con Iraria sunl, ut fortitudini ignavia et iusliliac iniustitia veruni etiam illa, quac propinqua vidcnlur et  Unilima esse, absunt autem longissime ; quod gènus fidenliae conlrarium est dillìdenlia, et ca re  vilium est; audacia non conlrarium, sed apposilum  esl ac propinquum, cl lanieri vilium osi. Sic unicuiquc virluti fmilimum vilium rcpericlur , aul  cerio iam nomine appellalum, ul audacia, quac fidenliac, pertinacia, quac perscverauliac finitima  csl, supcrstilio, quae religioni propinqua esl ; aut  sine ullo cerio nomine. Quae omnia ilem, uli contraria rerum bonarum , in rebus vitandis reponcntur. Ac de eo quidem genere honcstalis, quod  et omni parte propter se pctilur, salis dicium csl. bone de eo, in quo ulilitas quoque adiungilur, quod famen honeslum vocamus, dicendoci  vidclur. Sunl igilur multa, quae nos quum dignilale lum fruclu quoque suo ducunl; quo in genere  csl gloria, dignilas, ampliludo, amicilia. Gloria csl  frequens de aliquo fama cum laude; dignilas, alicuius bonasia, et cultu et honore cl vcrccundia digita auctoritas; ampliludo, polcntiac, aut maiestatis, aul aliquarum copiaruoi magna abundanlia ;  amicilia, volunlas erga aliquem rerum bonarum illius ipsius causa, quem diligi), cum eius pari voluntate. Ilio quia de civilibus causis loquimur, fruclus ad amicitiam adiungimus, ut eorum quoque  causa pelenda vidcalur ; ne forte quis nos de om  ni amicilia diccre ciistimans reprclicnderc incipial.  Quamquam sunl, qui propter ulililatem modo pclendam pulanl amicitiam ; soni qui propler se solum ; sunt qui propler se et ulililalcra. Quorum  quid verissime conslitualur, alius locus crii considcraudus- Nunc hoc sic ad usuui oralorium rclln.  qualur, utrami|uc propler rem amicitiam esse cipclciidam. Amiciliarum aulem ralio, quoniain parlim sunl religionibus iunclac, parlili) non suul, cl siglio e dal senno; clemenza £ quella, che, quando l’uomo è allenalo e spinto all’odio contro alcuno, ne lo aflrena con dolcezza c benignità; modestia è quella virtù, per cui l'uomo mercè il suo  pudore ha cura dell'onestà, c acquista una slabile  riputazione. Tulle queste virtù sono appetibili da  per sè sole, posloehè non sicno accompagnale di  nessun approvacelo ed utilità; cosa clic non mi  fermo qui a dimostrare, Ira perchè non si perbene nll’assunlo clic ho per mano, e perchè non si  consente con la solila brevità di questi mici precetti. Vogliono però esser evitali di per sè non  solo i vizii che a tali virtù sono contrarii, come la  codardigia clic è contraria alla fortezza, la ingiustizia clic alla giustizia; ma quelli altresì che paiono esser loro propinqui c vicini, ma in quel  cambio non sono a mille miglia tali; per esempio,  la diffidenza è contraria alla fidanza, e per questo  è vizio; l'audacia invece non è di essa fidanza il  contrario, ben anzi l'é confine c le va appresso,  c niente di meno è vizio. Similmente ciascuna  virtù si vedrà essere confinata dal suo vizio contrario, il quale o si domanda con un nome suo  proprio, come l'audacia che confina con la fidanza, la pertinacia che ha con la perseveranza molta approssimità , la superstizione che alla religione vicn seconda ; o non ha nessun nome determinato. Or tutti questi vizii, come conlrarii  delle virtù, si riporranno nel novero delle cose  da dover evitare. Parlai della specie di onesto,  che da ogni parte è appetibile di per sè: or il  Un qui basta ad aver dello. Al presente è da parlare di quell'aura specie di onesto che porta con sè ragioni di utilità,  ma che io appello onesto niente di meno. Sonci  dunque molte cose che ne invogliano a sè non solamente per riguardo alla nobiltà loro, ma eziandio per l'approvcccio e vantaggio che no arrecano: di questa ragione sono la gloria, la dignità,  la grandezza, l'amicizia. Gloria è la fama celebre  che gode alcuno, accompagnala di lode; dignità  è una maggiorla onesta ed autorevole, degna di  onoranza, di stima e di riverenza; grandezza è un  essere di grandissima lunga poderoso di possanza, o di macslevoli esteriorità, o di qualche specie di ricchezze; amicizia £ voler bene c vantaggio  ad altrui per riguardo della stessa persona clic si  ama, e trovare in esso un'eguale disposizione di  volontà. Siccome perù io parlo qui delle causo  civili, attribuisco all'amicizia anche una ragione  di utilità, perchè ancora per tal verso essa comparisca appetibile; c fo questa avvertenza, per  causa clic alcuno noti mi volesse per avventura  riprendere, credendo che io qui metta a fascio  ogni sorta di amicizia. Mondimene v’ita dii opina quia parUm telerei sunt, parlim novae, panini ab  illoruni, parlim ab noslro beneficio profcclac, parlim uliliores, parlim minus uliles, ex causarum dignilatibus, ex temporum opporlunUalibus, ci ofliciis, ex rcligionibus, ex veluslalibus habebiiur. Uliiilas aulem aut in corporc posila est, aul  in cxirariis rebus ; quBrum (amen rerum multo  maxima pars ad corporis commodum revertilur, ut  in re publica quacdani sunt, quae, ut sic dicam,  ad corpus perlincnt civitalis, ut agri, portus, pecunia, classi», naulac, mìliles, sodi, quibus rebus  'ncolumilatem ac liberlatem re linoni civilates: aiiae  vero, quae iam quiddam magis amplum et minn s  necessarium conflciunl, ut urbis egregia exornatio  alque ampldudo, ut quaedam cxcelicns pccuniae  magnitudo, amicitiarum ac sociclalum mulliludo.  Quibus rebus non illud solum conOcilur, ut salvac  et incolumes, terum rliam ul amplae alque polentes sint ciiitales. Oliar e utililalis duae partes videnlur esse, ìncolumilas el polenba, incolumiias  est salulis tuia alque integra conscrtalio; polenlia  est ad sua conservanda cl allerius oblinenda idonearum rerum facullas. Alque in iis omnibus, quae  ante dieta sunt, quid fieri, cl quid Tacile (ieri possii, oporlet considerare. Facile id dicimus, quod  sinc magno aul sino ulto labore, sumptu, molestia  qtiain brevissimo tempore conlici potcsl ; posse  autem (Ieri, quod quamquam iaboris, sumplus,  molestine, longinquitalis indigel, alque aul omnes  aut plurimas, aul maximas causas liabet dilficultalis, lamen, bis suscepfis diilicullalibus, compleri  atque ad exilum perdimi potesl. Quoniam ergo de  honestale el de ulililale dixiinus, none restai, ut  de iis rebus, quas bis allributas esse dicebamus,  nccessitudine cl adTeclione pcrscribamus. Pulo igitur esse liane, necessiludinem, cui esser l'amicixia appetibile solo per l'utilità cb'essa  produce, e chi dice esser appetibile solamente di  per sè, c chi esserlo e per sè e per l'utile che da  essa deriva. Quale però sia f appunto e il Termo  da stabilire intorno a questa maleria, verrò esponendo in altro luogo. Intanto per l'uso oratoriosi  ritenga questo, esser appelibile l' amicizia c per  sè c per l'utile cb'essa apporta. Essendo poi che  delle amicizie alice si sono unite coll’ essersi intermessa la religione, altre sema intervento di lei,  e parte sono antiche, parte recenti, e quali son  nate da un beneficio Tattoci, parte da un beneficio  che Tacemmo noi slessi, ed altre sono piò utili,  ed altre meno; cosi nel trattarne si dovrà avere  considerazione alla nobilezza delle cause, alle opportunità dei tempi, alle relazioni di esse amicizie, agli alti religiosi che le hanno ratificale, c alla  lontananza della loro origine. L'ulitilà ridonda nel corpo, o nelle cose  elio gli son fuori; ma anche queste per la massima parie si convertono a vantaggio del corpo stesso. Se nc vegga I* esempio nella repubblica. Cl  son cose, clic, per cosi dire, appartengono al corpo della popolazione, come le campagne, i porli,  il danaro, la (lolla, i naviganti, i militi, gli alleati, ron le quali cose c persone conservano le popolazioni la propria salvezza o libertà: altre ce ne  sono, che conferiscono a un vantaggio più appariscente. ma meno necessario, come a dire un cospicuo ornato cd ampiezza della cillà, uno straordinario stollo di pecunia, una moltitudine di  amicizie c di società. Da queste cose deriva che  le. popolazioni non pure si manlengonsalro ed incolumi, ina eziandio vanno distinte per potenza  e dignità. Ondecbì io To ragione esser due le parti  dell' utile, ve' dire potenza c incolumità. Questa  suona tanto come conservar sicura e intatta la  propria salvezza; quella esprime il possesso dei  mezzi appropriati per mantener il proprio, e venir  all' acquisto dell’ altrui. In tulio questo elio ho  dello fin qua si vuole dislinguerc ciò che Tar si  possa da ciò che sia Tacile a Tare. Diciamo Tacile  a Tarsi ogni cosa clic si può Tornire con brevità,  senza grande, o senza alcuna Talica, spesa, Tastidio: diciamo che una cosa si può Tare, quando essa, avvegnaché domandi Talica, spesa, raslidio,  lunghezza di tempo, ed involga o tulle, o la piò  parte, o le piò gravi cause di difficoltà, non però  niente di meno anche affrontando queste dillkollà  medesime, può esser Tornila c condona al suo  pieno cffcllo. Ora dunque che s' è trattato dell'onesto c dell'utile, resta da trattare delle due cose  che, come ho dello, si rapportano a loro, ciò sono, la necessità e la circostanza. Credo esser necessità quella senz'altro. unno ii. li»  nulla vi resisti polost, quo ca sccius id, quod lacere polcst, perflcial, quac ncque mulari, ncque  leniri polca!. Atque, ul apertili? hoc sii, cicniplo  licci vim rei, qunlis et quanta sit, cognoscamus.  Cri posse (lamma ligneam motcriam noccsse est.  Corpus mortale aliquo tempore inlcrire ncccsse  est; atque ita nccessc, ul vis postulai ea, quam  modo dcscribcbamus, ncccssiludinis. Iluiusmodi  neccssitudines quum in diccndi raliones inciderli,  rcclc neccssitudines appcllabunlur. Sin aliquae res  accidcnl difflciles, in illa supcriore, possilne fieri,  quaestlone considerabimus. Atque oliam hoc milii  vidcor viderc, esse quasdam cum adiunctione nccessitudiucs, quasdam simpliccs et absolutas. .Nani  alitcr dicere solemus: Ncccsse est Casilincnscs  se dedere llannibali ,*alilcr autcìn : Nccessc est  Casilinum venire in llannibalis polcslalcm. Illic,  in supcriore , adiunclio est liacc: Nisi si malunl  fame perire ; si cnim id malunl non est nccessc. Hoc inlcrius non ilem , proplcrca quod ,  sivc velini Casilincnscs se dedere, sive famein  perpcli atque ita perire, neccssc est Casilinum  venire in llannibalis potcstatem. Quid igitur bare  per licere potest ncccssiludinis dislribuiio ? Propc dicatn , plurimum , quum Incus necessiludinis videbilur incurrere. Nam quum simplex crii  neccssiludo, niliil crii quod inulta dicamus, quum  eam nulla rationc lenire possiraus ; quum aulem  ila ncccsse crii, si aiiquid cffugcrc aul adipisci vclimus, tum adiunclio illa quid liabcat utililalis au|  quid honcstalis, crii considcrandum. Nam si vclis  attendere, ita tamen, ul ìd quacras, quod come,  nial ad usum civilalis, reperias nullam esse rem,  quam lacere ncccsse sii, nisi propler aliquam causaci, quam adiunctioncm unminamus; praeler linee  auledi esse mullas res ncccssilaiis, ad quas simili*  adiunclio non accudii; quod geuus, ut homines  morlales necessc est inlcrire, sine adiunctione: ul  cibo ulantur, non necessc est, nisi cum illa eiceplionc: Evira quam, si nolinl fame perire. Ergo,  ut dico, illud, quod adiungilur, sempcr, cuiusmodi sii, erit considerandum. Nam omni tempore id  pcrlinebil, ul aul ad boncslalcm hoc modo exponcnda neccssiludo sii : Necesse est, si boncslc volumus vivere; aul ad incolumilalcm, hoc modo :  Nccessc est, si incolumcs volumus esse; aul ad  commodiialcnt, hoc modo : Ncccsse csl , si sine  incommodo volumus vivere. alla quale per veruna forza non si può impedire  clic faccia nò più nè meno ciò eli' essa può fare,  poiché non si può nè miliare, nè restringere. Ma  perchè questa definizione torni più chiara, sarà  bene conoscere per qualche esempio quale e  quanta sia la forza della necessità. Che le legna  sicno bruciale dal fuoco, è questo un necessario.  Clic un corpo mortale in uno o in altro tempo venga a perire, anche questo è un necessario; c necessario così come è richiesto dalla forza della  slessa necessità clic leslè ho descritta. SI falli necessarli quando imballeranno fra gli argomenti  che si trattano, si appelleranno a buon diritto necessità. Che se involgessero fatti o circostanze ma'  (agevoli, si esamineranno a termine della questione tocca qui sopra, clic è, quando uno cosa si  può fare, o può avvenire. Oltracciò osservo pur  questo, esservi alcune necessità clic s' accompagnano di una qualche condizione, alcune altre  esser affatto semplici cd assolute. E infatti nell’uso del parlare noi diciamo in un modo: È necessario che quelli di Casilino si dicno in mano ad  Annibale; c in un altro: E necessario clic Casilino  venga ad Annibale in podestà. Al modo primo  va accompagnala questa condizione: Se non vogliono pericolar di morire di fame; perocché se  amano meglio codesto, la resa non è lor necessaria. Ma non è altrettanto del secondo modo, perocché, o sia che quelli di Casiliuo vogliano venire alla mercè c alla misericordia di Annibaie, o  sia che amino piuttosto patirsi la rame c così disertarsi c perire, è necessario ad ogni modo che  venga Casilino in potere di Annibali'. Ora, c clic  dunque se ne ricava, si dirà, da questa distinzione del necessario ? Se ne ricava, sto per dire, di  molto, ognora clic intervenga qualche luogo spellante alla necessità: conciossiacliè quando essa  necessità fosse non più che semplice, non c’è bisogno di andare in lungherie di parole, essendo  che essa non si può già per veruna guisa mutare;  e quando per conlra la necessità avesse questa  condizione, ciò è necessario, se vogliamo scansare ovvero ottener qualche cosa, allora bassi a porre ben mente che cosa arrechi essa di utile, oppure di onesto. E infatti se tu vorrai considerare di  ciò, tuttavia solo nel caso che tu abbia qucsliorc  su quello che risguarda gli usi civili, riconoscerai  non v' esser azione clic s'abbia necessariamente a  lare, se non per qualche motivo, che io appello  condizione; e inoltre esservi molle specie di necessità, alle quali simile condizione non va punto  accompagnala; per esempio: gli uomini mortali  debbono di necessità venir a mancare, questo è  un necessario senza condizione: ma il dire, i forza che piglino Ucl cibo, questo non è un neccs Ac summa quidcm ncccssiludo videlur  esse honeslatis: liuic proxima, incolumilatis: ter  lia ac Icvissima, commodilatis;quac cum liis numi|tiam poteril duabus contendere. Ilasccaulem itile r se saepe Decesse est comparari, ut quamquam  prarstet boneslas incolumitali, (amen utri polissiinum consulendum sii, delibcrelur. Cuius rei certuni quoddam praescriplum videlur in pcrpeluum  ilari posse. Nani, qua in re iteri poteril, ut, quum  incolumitali consu!ucrimns,qund sii in pracsenlin  tic honeslatc delibatimi, virtute aliquando et industria recuperetur, incolumilatis ratio vidcbilurbabenda; quum autem id non poluerit, honcslalis.  Ila in huiusmodi quoque re, quum incolumitali  lidebimur consulerc, vere poterimus diccre nos  lionestalis rationem liabcre, quoniam sino incolumilatc cam nullo tempore possumus ndipisci.  Qua in re tei concedere alteri, voi ad conditioncm  allerius descendere, vel in pracscnlia quiescere  atquc alimi Icmpus cxspeclarc uportcbil. In commodilalis vero ratinile modo illud altcmlatur, dignane causa videalur ea, quac ad ulilitalem pertincbil, quarc de niagiiiliccnlia aul de bonestate  quidam dcrogetur. Alque ili hoc loco milii caput  illud videlur esse, ut quaeramus, quid sii illud,  quod si adipisci aut ctTugerc velimus, aliqua res  nubis sit necessaria. Ime est, quac sii adiunclio,  ut proinde, uti quaeque res eril, laboremus, et  gravissimom quamquecaiisam vebemcnlissimenecessai iati! iudicemus. A il feci io est quaedam ex  tempore aul ex negotiorum eventu , aut adminislratione.aul homiimni studiocommulalio rcrum,  ut non lales, quales ante babilac siili, sul plcruinque liabcri solenni habondac videantur esse ; ut,  ad hostcs transire turpe videlur esse; ut non ilio  animo, quo Ulyxes transiit ; et pccuniam in mare  deiicere inutile; al non eo consilio, quoArislipptts  fecit. Sunt igilur r s quaedam ex tempore et ex  consilio, non ex sua natura considerandac; quibus  in omnibus, quid tempora pctanl,aut quid personis  dignum sit, considcrandumesl, et nonquid, sed quo  quidquc animo, quicum, quo tempore, quamdiu  fìat, altcndenduin est. Ilis ex parlibus ad senlcttliam dicemtam loeos stimi oporlere arbitramur. sario, se non con la condizione : eccetto se non  vogliono perir di Tante. Laonde, come dico, è sempre da esaminare quale della condizione sia il modo c la qualità; poiché in ogni tempo è da badar  bene clic la necessità, se si riferisce all'onesto, si  esponga in questo modo: è necessario, se togliamo vivere onestamente; o se si riTeriscc alla incolumità, si esponga in questo: È necessario, se vogliamo mantenerci inrolumi; o se ai nostri agi,  si esponga cosi; È necessario, se vogliamo vivere  bene agiati. La necessitò di tulle maggiore è di Tare oncslamcnlc: a questa s’avvicina quella della  nostra incolumità; la terza, da meno di tulle, è  quella di essere agiati, la quale non potrà mai  competere con le altre due. Queste necessità ì  mestieri di paragonarle spesso Tra loro, ai line  che possa esser risolto c stabilito, sebbene l’onesto si vantaggia molto sopra la incolumità, a quale  de’ due debbasi piuttosto provvedere. Intorno a  ciò si può Dssare un precetto, che volga per sempre. Quando noi battiamo sopra Talli d’incolumità, c vediamo die nel provvedere ad essa ne va  per al presente diminuito e leso l'onesto in qualche parte, che nondimeno si può quando clic sia  risarcire e rimettere con l’ industria e la virtù,  dovrassi alla ricisa aver riguardo alla incolumità:  ma quando si prevedesse elle lo scapilo dell’onesto non si poiria più rifare, deesl provvedere al1’ onesto anzi che alla incolumità. Cosi anche in  questo caso mostrando di provvedere alla incolumità, potremo dir daddovero che noi abbiamo ri-  guardo all' onesto, poiché senza la incolumità in  verun tempo non è possibile asseguire l'onesto c  mantenerne il possesso. Or su questo punto si do-  vrà o cedere altrui, o venire nel partilo di un al-  tro, o non far altro per ora, e stare in aspetto di  tempo più opportuno. Quanto poi spelta agli agi,  decsi considerare di questo, se la causa che si  riTeriscc all'utile debba richiedere elicsi detragga  alcun clic dalla magnificenza o dall' onestà. E ri-  spetto a questo io trovo esser un punto capitate  lo investigare di qual sorta sia la rosa, a cui otte-  nere o scansare ben un’altra cosa ci è necessaria,  voglio dire, quale ne sia la condizione, acciocché  ci possiamo arrahatlare ed aiutare secondocliè  lo esige la qualità della cosa, c conoscere che la  causa, Tosse pur la più Torte e malagevole, è nondimeno per ogni verso una causa necessaria. Cir-  costanza è una rotai mutazione delle cose, clic  dipende dal tempo, o dalla riuscita degli affari, o  dal maneggio loro, o dalle propensioni degli uo-  mini, c fa elio non si debbau le cose per tali ave-  re, quali si son credute per lo avanti, o quali tut-  te le più volte si credono. Per esempio: il passare Laudes autem cl vilupcraliones ei iis locis aumentar, qui loci pcrsonis sunt attribuii, ile  quibus ante diclum esl. Sin dislributius baciare  ijuis videi, partialur in aiiimum.cl corpus, et extra-  rias res licebil. Animi esl virtus, cuius de parli-  bus paullo ante dicium esl; corporis, valeludo, di-  gnitas, tire*, velocitasi estrariae, lionos, pecunia,  adfinilas,genus, amici, pairio, potenlia cl celerà,  quae simili esse in genere inteliigciitur. Alque in  bis id, quod il) omnia valet, valere oportebit: contraria quoque, quac et quaba einl, inlelligcnlur.  Videro autem in laudando et in vituperando opor-  lebil non tam quae in corpore aul in estrania re-  bus liabuerit is, de quo agetur, qunm quo paclo  bis rebus usus sii. Anni fortunali! quidem et lau-  dare slultilia, et vituperare superbia est; animi  autem et laus honesta, cl viluperatio veliemens  esl. Rune quoniain oninc in causac gcnus argu-  incnlandi ratio tradita est, de invcnliono. prima ac  inavima parte rlieloricac, salis diclum vidclur. Quare, quoniam et una pars ad ctituin boc ac su-  periore libro perducla esl, et Ilio libcr non parum  coiitiiiet litlerarum, quae restaul, in rcliquis di-  ccmus. ai nemici £ cosa turpe ; ma non £ tale, se si faccia con la intenzione, con clic lilissc: gettar il da-  naro in mare £ cosa dannevolc; ma non lo £, se  si faccia con l'intendimento, conche Arislippo. Ci  son dunque delle cose, clic si vogliono riguardare non in sè c nella natura loro, ma relativamente  al tempo e al disegno di cbi le fa; c in tube que-  ste decsi aver l'occhio a discernerc quale sia I' c-  sigenza dei tempi, c ciò clic sia competente e degno delle persone, ed osservare non ciò che venga  fatto, ma con clic animo altri il faccia, con quali  compagni, iti qual (empii, e quanto a lungo vi duri,  ba parti si fatte io trovo clic si debbano ritrarre  i luoghi acconci a provocare la sentenza dovuta. La lode c il biasimo si trarranno da quel-  le fonti di argomenti, elle si sono indicate quando  si £ discorso sopra ciò clic si riferisce alle perso-  ne. Se alcuno volesse attenersi a una divisione  bene accurata, la farà riguardo all'animo, al corpo, c alle cose esteriori, bell’ animo £ propria la  virtù, delle cui parli s’£ trattato poco più addietro;  del corpo £ propria la buona o mala salute, la di-  gnità, le forze, Tesser veloce. Per cose esteriori  si intendono l'onore, il danaro, i parerli aggi, la  stirpe, gli amici, la patria, la possanza, c quanto  vi ha di genere altrettale. E per queste cose avran-  no valore gli argomenti clic hanno valore per tut-  te le altre; e cosi ancora si potrà conoscere quali  si slcno le toro contrarie. Bensì rispetto ai far  uso della lode c del biasimo si dovrà osservare  non tanto quali vantaggi o scapili avesse quel ta-  le, di quelli clic si riferiscono al corpo e alle cose  esteriori, quanto in qual foggia e maniera siasi  comportalo rispetto ad essi: puicliè lodare la fortuna £ ima stoltezza, e svitupcrarla £ un’arrogan-  za; mentre la lode clic si dà all'animo £ cosa clic  lo onora, come il biasimo che se gli dà è cosa clic  lo punge c trafigge. Esposte cosi le fonti c le for-  me di argomentare per ogni genere di causa. Irò-  vo d’aver detto quanto basta circa la invenzione,  clic £ la prima c la più principale tra le parli del  la retorica. Epperó, giacché una metà del mio te-  ma tra in questo c nel precedente libro fu condot-  ta ad uscita, c questo secondo m' £ venuto lungo  non poco, dirò negli altri libri le cose die Bucina  mi restano. Marco Tullio Cicerone. Cicerone. Keywords: Marc’Antonio, untranslatable, signans/signatum, signans, signatum. Cicerone, Cicero = Tully. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool Library.

 

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