Luigi Speranza -- Grice e Buonafede:
la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – scuola di Comacchio – filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Comacchio). Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Comacchio,
Ferrara, Emilia-Romagna. Grice: “You’ve got to love Buonafede; he is all into
the longitudinal unity of philosophy, literally from Remo – he has chapters on
the Ancient Romans, on philosophy from the first monarchy to the second, a
chapter on Cicerone, and one of a lovely phrase, the Roman equivalent to the
century of Pericles, ‘filosofia nel regno di Augusto,’ but also on later
developments of Italian philosophy, even a chapter on Cartesianism in Italy,
and how philosophy on the whole was ‘resurrected’ or ‘revitalised’ in Italy --.
I once joked that philosophers should never give much credit to Wollaston – but
Buonafede totally proves me wrong!” -- Essential
Italian philosopher. Di
familia nobile, studia a Bologna e Roma. Insegna a
Napoli. Saggio, “Ritratti poetici, storici e critici di varj uomini di lettere
– Appio Anneo de Faba Cromaziano” (Simone, Napoli) -- opera accolta favorevolmente negli ambienti
culturali napoletani frequentati da Buonafede, nella quale convivono giudizi critici
su alcuni importanti esponenti della filosofia moderna (quali Machiavelli e
Spinoza), con parziali accoglimenti di altri (Cartesio e Locke), in uno stile
composito tra il barocco e l'arcadico. Insegna a Bergamo e Rimini. Membro
nell'Accademia dell'Arcadia, assumendo il nome di Agatopisto Cromaziano con il
quale diede alle stampe numerosi saggi. Insegna a Sulmona. Saggio “Della restaurazione
di ogni filosofia di Agatopisto Cromaziano” (Graziosi, Venezia – Societa
Tipografica de classici italiani, Milano) -- particolarmente critica verso la
filosofia sensista di Cartesio e Locke. Baretti: ebbe una violenta polemica con
lui. Il “Saggio di commedie filosofiche”, contenente un testo in endecasillabi,
“Il filosofo fanciullo” che, in uno stile comico, critica celebri filosofi
dell'antichità riportando citazioni fuori dal contesto.Venivano beffeggiati,
tra gli altri, Socrate, Democrito e Anassagora. Il saggio trova qualche
apprezzamento. Baretti, scrittore e critico letterario torinese, in un numero
del suo periodico la Frusta letteraria nel quale era solito firmarsi con lo
pseudonimo di Aristarco Scannabue, espresse giudizi negativi sul Saggio del
Buonafede trovandolo irrilevante e privo di comicità. Punto sul vivo, replica
immediatamente con il libello, dai toni assai aspri, “Il bue pedagogo: novella
menippee di Luciano da Fiorenzuola contro una certa Frusta pseudo-epigrafia di
Aristarco Cannabue” (Luca).”. Gli rispose ancora Baretti con una nutrita serie
di articoli, Discorsi fatti dall'autore della Frusta letteraria al
reverendissimo padre don Luciano Firenzuola da Comacchio autore del Bue
pedagogo, pubblicati su diversi numeri della Frusta. La polemica, una delle più aspre e celebri
delle cronache filosofiche italiane prosigue ancora.Fa pressioni verso i
responsabili della Repubblica di Venezia affinché eliminassero gli articoli
apparsi sulla Frusta e perché Baretti fosse poi espulso dallo Stato Pontificio
quando si trasferì ad Ancona. Il critico
non fu lasciato tranquillo neppure quando fuggì in Inghilterra: l'irriducibile
Buonafede lo accua allora di simpatie verso il protestantesimo. Il
giudizio di Croce e piuttosto negativo, scrisse che la sua filosofia e il
risultato di «un ingegno da predicatore e da predicatore mestierante, che ha un
impegno da assolvere, un sentimento da inculcare, un nemico da abbattere» senza
che possano distrarlo dal suo fine «né la ricerca della verità delle cose né
l'ammirazione di quel che è bello». Più positivo il giudizio di Natali nella
voce redatta per l'Enciclopedia Italiana, lo giudica “uomo d'ingegno
acutissimo, filosofo non volgare, spesso arguto e vivace e dotato di dottrina
assai superiore a quella del Baretti. Altre opere: “Delle conquiste celebri
esaminate col naturale diritto delle genti libri due di Agatopisto Cromaziano” (Riccomini,
Lucca, Milano, Fondazione Mansutti); “Saggio di commedie filosofiche con ampie
annotazioni di A. Agatopisto Cromaziano” (Faenza, pel Benedetti impressor
vescovile, e delle insigni Accademie degl'illustrissimi sigg. Remoti e
Filoponi); “Sermone apologetico di Tito Benvenuto Buonafede per la gioventù
italiana contro le accuse contenute in un libro intitolato Della necessità e
verità della religione naturale, e rivelata” (Benedini, Lucca); “Della
malignità istorica: discorsi tre contro Pier Francesco Le Courayer nuovo
interprete della Istoria del Concilio di Trento di Pietro Soave” (Bologna, per
Lelio dalla Volpe impr. dell'Instituto delle Scienze); “Dell'apparizione di
alcune ombre novella letteraria di Tito Benvenuto Buonafede” (Lucca, appresso
Jacopo Giusti nuovo stampatore alla Colonna del Palio); “Istoria critica e
filosofica del suicidio ragionato di Agatopisto Cromaziano” (Lucca, Stamperia
di Vincenzo Giuntini, a spese di Giovanni Riccomini); “Versi liberi di
Agatopisto Cromaziano messi in luce da Timoleonte Corintio con una epistola
della libertà poetica..., Cesena, Società di Pallade per Gregorio Biasini al
Palazzo Dandini); “Della istoria e della indole di ogni filosofia di Agatopisto
Cromaziano” (Lucca, per Giovanni Riccomini); “Il genio borbonico, versi epici
di Agatopisto Cromaziano nelle nozze auguste delle altezze reali di Ferdinando
di Borbone, infante di Spagna e di Maria Amalia, arciduchessa infanta” (Parma,
per Filippo Carmignani, stampatore per privilegio di sua altezza reale); “Della
letteratura comacchiese lezione parenetica in difesa della patria di Agatopisto
Cromaziano giuniore” (Parma, Bodoni). Opere di Agatopisto Cromaziano” (Napoli, Porcelli).
“Epistole tusculane di un solitario ad un uomo di città, Gerapoli); “Storia
critica del moderno diritto di natura e delle genti di Agatopisto Cromaziano,
fa parte della Biblioteca cristiano-filosofica decennio primo, consacrato alla
divinità” (Firenze, nella Stamperia della Carità). Dizionario Biografico degli
Italiani. Soffre di gotta e una caduta in piazza Navona aggrava le sue
condizioni. La storiografia filosofica, Vestigia philosophorum”. Il medioevo e
la storiografia filosofica, Rimini, Maggioli Editore. Fondazione Mansutti,
Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M. Bonomelli,
schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano:
Electa. Memorie istoriche di letterati ferraresi, III, Ferrara. Ritratto di Appiano Buonafede.
Assicurazione. Luigi Speranza, "Grice e
Buonafede," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia. -- I Romani, fin d'allora che hanno le
canne per tetti e un solco in luogo di fosse e di muraglie, esercitano la
divinazione, con la cui guida ordi [Seneca I. c. Plinio Hist. Nat.; Lucrezio
lib. V. (3) Macrobio Saturnal.; Scipione Maffei ap presso G. Lampredi l. c.
Cassiodoro-Bruzi. lVar. Ep. Museo Etrusco narono e nobilitaro noi rudimenti
della loro pira teria. ROMOLO e insieme il fondatore e il primo augure di Roma.
Uomini armati e rubatori conobbero che questa larva di religione e questa
pretesa scienza del futuro puo aver influssi propizi, nelle loro spedizioni,
siccome l'esito comprovo. Ed e veramente cosa ammirabile che una tanta
puerilità, di cui gl’auguri istessi rideano, producesse vantaggi sì grandi alla
fortuna romana. Presero adun que quei primi uomini la disciplina augurale dagli’etruschi,
e non curarono altro. Furon dette as sai novelle della FILOSOFIA degl’aborigeni,
de’ sabini, degl’Ausonj e d’altre genti di quelle contrade. Ma i critici le
numerarono tra le favole. NUMA Pompilio, secondo regolo di quella feroce
masnada, pensa di ammansarla con la religione e con la pace. Finse colloquj con
le Muse, e divulga notturni congressi con la dea Egeria. Istitue sacerdoti
agl’Id dii, e e egli stesso sacerdote. Scolge le vergini a Vesta, le quali
serbasser perpetuo il fuoco nel centro d'un tempio rotondo. Vieta le immagini
delle sostanze divine e i sacrifizi cruenti. Ordina gli auguri, gl’oracoli, le
interpretazioni de' fulmini e di altri prodigj, e le funebri ceremonie e le
placazioni de’ mani. Correno i mesi e l'anno secondo il corso del sole e della
lupa. NUMA scrive libri sacri che furon seppelliti con lui, e niun potè
leggerli. Consacra l'arcano e il silenzio con la istituzione della dea Tacita.
Chiuse il tempio di Giano. Roma guerriera divenne pacifica e religiosa. In
questi regolamenti di Numa sono cercati, e dicono anche ri trovati gl'indizi di
molta filosofia. La finzione de' [CICERONE, De Divinatione; Cicer. I. c. G.
Hornio Hist. Phil.; ; Livio; Plutarco in Numa] prodigi e de’ secreti colloqui
col cielo, e il silenzio è l'arcano e i sacrifici senza sangue, e le
proibizioni di effigiare il divino, sono sembrate dottrine della setta di
CROTONA; e sopra tutto il fuoco del tempio di Vesta è stato creduto un simbolo
del sistema di questa setta, la quale insegna la stabilità del sole nel centro
del nostro mondo. Il perchè corse già opinione che NUMA e stato discepolo di
Pitagora; ma è stato poi osservato che questo filosofo vivea a CROTONA quando
L. Bruto salva Roma dai tiranni. Onde piuttosto Numa ha dovuto ammaestrare
Pitagora. Sebbene io non credo che un filosofo chiuso tra i monti di Calabria ha
mai udito parlare d'un capo di ladroncelli ristretti fra i monti latini. Newton
pensa che Numa prende il suo sistema celeste dagl’egiziani, osservatori
antichissimi delle stelle. Ma io non so persuadermi che un pover uomo sabino
estende il saper suo fino alla penetrazione degli ardui misteri d’Egitto. Reputo
più verisimile che lo studio de gl’etruschi nelle meraviglie de' fuochi
celesti, e la molto diffusa e popolarevenerazione del fuoco gui dassero Nụma
alla istituzione di questo rito. Mime raviglio io bene come coloro che cercano
il panteismo dappertutto, non hanno trovato nel fuoco centrale di Vesta il
simbolo dell'anima del mondo, e di quelle altre del PORTICO e Spinoziane
dottrine che pure si sforzano di trovare altrove con maggiore difficoltà. Forse
si saranno contenuti da questa imputazione, perchè negl’oracoli e nell’altre
divinazioni di Numa, e nelle mortuali placazioni e cerimonie si conoscono
alcuni vestigi non dispregevoli [Plutarco. Livio I. c. CICERONE, Tuscul. Disput.; Bayle Dict. art, Pythagoras, e Brucker de Phil. Roman. yet. 3 ) De Mundi Systemate] d'una libera
provvidenza e d'una vera immortalità degl’animi separati dai corpi. Io ha quasi
voglia di aggiunger qui, che per sentenza di VARRONE gl'Iddii de' Romani e de'
Latini prima ancora di Numa e di Romolo sono gl' Iddii di Frigia portati da
Enea, quei di Frigia sono i medesimi di Samotracia tanto famosa per li suoi
misteri che sono gli stessi d'Egitto; e siccome di questi mostreremo con
qualche verisimilitudine che nascondeano la unità del divino e la immortalità
degl’animi, così puo dirsi il medesimo della segreta dottrina del l'antico Lazio
e de' primi Romani. Ma oltre le gravi difficoltà contro la venuta d'Enea in
Italia, i.se veri critici potrebbono opprimermi con altre dubbiezze assai; onde
ho deposto il desiderio di proporre le mie conghielture. Non è però male alcuno
averle accennate.Questa è l'immagine della PICCOLA FILOSOFIA dei primi tempi di
Roma, la quale appena apparita per lo pacifico genio di Numa, e dissipata
dagl'ingegni guerrieri de' suoi successori, e per più secoli e esclusa ed anche
abborrita, come nimica dell'austerità e della fortezza, da quei valorosi uomini
che, intenti alla conquista del mondo, o non hanno ozio di volgersi alla
filosofia, o pensano di non averne bisogno, o dubitarono che puo opporsi a
quell'immenso latrocinio. Ritorneremo su questo argomento, e avremo copiosa
materia di ragionare ovę riguarderemo quei tempi di Roma che dagli storici e
dai politici furon detti molli e corrotti, e dagl’amici della filosofia sono
onorati come. mansueti e sapienti. [Macrobio Saturnal.; Giurieu Hist. Cri tica
Dogmat] Il genio bellicoso di ROMOLO ammansato un poco dalla pacifica Egeria,
che era il genio di Numa, nella signoria dei seguenti regoli di Roma torna alla
primiera ferocità. Nè altramenle potea intervenire in una città e in un popolo
composto di uomini violenti e perturbatori, e per delitti e per timor delle
pene fuggitivi dalle lor terre, e riparati nella nascente città come nell'asilo
delle scelleraggini; i quali assuefatti al sangue e alla rapina, se fosser
mancate guerre esteriori, hanno infero cito contro le viscere della lor
medesima società. Perchè e mestieri esercitarli senza riposo in im prese e
rubamenti perpetui; e questa che parve prima necessità, divenne appresso
costume, e e l'origine primaria della grandezza romana. Un popolo cosi
funestamente educato non puo esser amico di alcuna filosofia: e veramente, come
alcuna volta si offersero le opportunità d'introdurla, con molta ruvidezza la
impedirono per timore che non ammollisse l'austerità militare, e non traviasse i
cittadini dalla usurpazione del mondo. Nel [Brucker] campo d'an uom consolare sono
trovati sotterra alcuni manoscritti di filosofia attribuiti a Numa, e il
pretore comando risolutamente che sono ab bruciati. Un altro pretore per
consultazione del senato, e poco dopo anche i censori dichiarano, non piacere
che soggiornassero nella città certi filosofi, maestri d'un genere di
discipline diverse dalla consuetudine e dal costume de maggiori; per la qual
novità i romani in torpidivano. Questo avvenne nel consolato di C. Fannio
Strabone e di M. Valerio Messala; ed è ben degno di considerazione che quei
grand'uomini avean già messa ad effetto gran parte del lor latrocinio. LA
FILOSOFIA e ancora un genere di disciplina contrario alle loro consuetudini. In
quel torno medesimo, e non so bene se poco prima o poco dopo, accadde una
ambasceria ateniese de tre filosofi Carneade, Diogene e Critolao. Gl’ateniesi
avendo saccheggiata Oropo città della Beozia, furono dai Sicioni con l'autorità
de’ romani condannati in CCCCC talenti. Ma questa multa sembrando soperchia,
spedirono a Roma i prefati filosofi per ottener condizioni più sopportabili.
Nella dimora e nella espettazione di essere ascoltati dal senato, tenneno dotte
assemblee nei cospicui luoghi di Roma, e ostentano dottrina incognita ed
eloquenza inaudita alle orecchie romane. Critolao la usa erudita e rotonda,
Diogene modesta e sobria, Carneade violenta e rapida. Ma comechè ognuno ottenne
gran lode, l'accademico sopra tutti risveglia le meraviglie inu [Plinio; Gellio
Noc. Att.; Bayle (artic. Carneade, not. N ) i litigj in-. torno a quest'epoca.]
-sitate e fino i furori pubblici, massimamente degl’ottimati, che dimentica de'
piaceri e rapita quasi fanatica di questa filosofia. E convien certo che molto
singolar cosa e questa eloquenza di Carneade, mentre e detto che ora a guisa
d'un fiume incitato e rapace sforza e svelle ogni cosa e seco rapiva l'uditore
con grande strepito, e ora dilettando lo imprigiona, e per una parte
manifestamente predando, e per un'altra rubanilo nascostamente, o con la forza
o con la frode vince agl’animi più prepurati a resistere. Ma ciò che
maggiormente rileva, da CICERONE medesimo maestro tanto eccellente di queste
cose, e delto che ha pure desiderato di possedere la divina celerità d'ingegno
e l'incredibil forza di dire e la copia e la varietà di Carneade, il quale in
quelle sue disputazioni niuna sentenza difende che non prova, niuna oppugna che
non mette a compiuta ruina. Consapevole di queste sue viltoriose veemenze,
ardì, stabilita la giustizia in un giorno con molto copiosa orazione,
distruggerla in un altro ALLA PRESENZA DI GALBA E DI CATONE MAGGIORE, in quella
età oratori grandi alla maniera romana. Lattanzio ci serba in poche parole la
sostanza di questa confutazione della giustizia. CARNEADE divide la giustizia
in naturale e civile, e l'una e l'altra mise a niente. La *naturale* è
giustizia, non è prudenza; la civile e prudenza, *non* e giustizia. La prudenza
civile si varia secondo i tempi e i luoghi, e ogni popolo l'attempera a suo
comodo. Questa prudenza è una inclinazione verso l'utilità che la giustizia
della natura infuse in ogni animale, alla quale chi volesse ubbidire
incorrerebbe in mille fro [1 ) Pausania; Plutarco in Catone Majore. A. Gellio; Macrobio
Saturnal.; Numenio presso Eusebio Praep. Ev.; CICERONE, De Oratore] di.
Moltissimi esempi dimostrano cosiffalta essere la condizione degl’uomini, che *volendo*
essere giusti, sono imprudenti e stolti. Volendo essere *prudenti* e avveduti,
sono *ingiusti*. Laonde non può concedersi una “giustizia” che è inseparabile
dalla stoltezza. Nel quale proposito trascorse in queste parole abborrite dai
conquistatori. Se i popoli fiorenti per signoria e i Romani oggimai possessori
del mondo *vuoleno* esser *Giusti* restituendo l'altrui, doveno ritornare alle
capanne e giacere nella miseria. CICERONE, che molto medita queste e più altre
difficoltà di Carneade, le trascorre senza risposta. E altrove avendo statuito
una giustizia naturale e un diritto naturale indipendente dall’istituzioni degl’uomini,
prega l'Accademia e Arcesila e Carneade a volersi tacere, perchè assalendo
queste ragioni, indurrebbono grandi ruine; e desidera ben molto di placar tali
uomini, non ardisce rispingerli. Ma CATONE, censore uom di rigida innocenza e
di antichi costumi e di senatoria e militare austerità, per le quali virtù era
già nata e crescea la grandezza di Roma, udite queste ambigue e scandalose
orazioni, e veduti i furori dell’ottimati romani, e considerate le conseguenze
funeste alla fortuna della repubblica, le quali poteano sorgere da quella molle
e licenziosa filosofia, prestamente e fortemente dimostra nel senato che non e bene
sopportare più a lungo nella città quegl’ambasciatori filosofi che persuadeno
quanto loro piacea, e confondeno il vero col falso, e alienano dalla robusta e
antica istituzione l'ottimati [Lattanzio; Bayle I. c. G, H, et art Porcius, H.;
Cicerone De Repub. presso S. Agostino De Civ. Dei e Lallanzio; Ciceronc De
Legib.] e quindi e mestieri conoscere e risolvere di quella legazione, e tosto
rimandando gl’ambasciatori ad istruire i greci, ricondurre l’ottimati romani ad
ascoltar come dianzi i maestrati e la legge. Di questo modo CATONE parla, e gl’ambasciatori
sono congedati. Non è però che questo CATONE e nimico del sapere, mentre è noto
per la istoria ch'egli militando a Taranto ascolta volentieri da certo suo
ospite pitagorico dottrine contrarie alla voluttà, e crebbe nell'amore della
frugalità e della continenza. Indi e interprete della legge, e difensore e
accusatore instancabile del foro, e filosofo di orazioni e di cose rustiche e
delle origini romane, nelle quali opere mostra copia e gravità di dottrina; e,
in breve, tutta la sua vita distribue tra la milizia e tra le leggi e le
lettere, e tra la più austera pratica della virtù e la persecuzione più
violenta de vizi. Onde e detto che le sue guerre perpetue contro i malvagi
costumi non sono alla repubblica meno utili delle vittorie di SCIPIONE contro i
nimici. Il perchè non credo io già che CATONE per odio di Carneade o per altra
malevolenza abborrisse la filosofia relativistica. Ma piuttosto perchè la
militare e severa indole di Roma ne' suoi dì così domanda, e perchè l'esempio di
questo relativismo ammollita e scaduta in mezzo a tanto lusso di filosofia
forse lo spaventa. E siccome CATONE e per natura inclinato all'eccesso de'
rigori, parla forse più for leinente che non sente; e nella guisa che
esagerando dicea che le adultere sono avvelenatrici ile' loro mariti, e che
tutti i medici sono da 5. [Plinio; Plutarco in Catone; Cicerone de Ci. Or.; Livio;
C. Nie pote Frag. Vitae Catonis.
Plutarco I. c. Seneca Ep.; Quintiliano] fuggirsi,
dacchè aveano giurato di uccidere tutti i romani. Così per avventura ingrande
gl’abborrimenti di tutta la filosofia, e dice a suo figliuolo: Pensa che io
parli da vate: indocile ed iniquissima è la generazione de' elleni. Quando
avverrà che quella gente a noi dia le sue lettere, saremo tutti corrotti e
perduti. Di queste sue amplificazioni, oltre il suo amore per la disciplina
pitagorica, può essere argomento lo studio che CATONE mette negli scrittori e
nelle lettere greche non solamente piu tarde, quando le medita avidamente, come
chi vuole estinguere una lunga sete, ma nella sua pretura di Sardegna, e ancor
prima; poichè, per testimonianza di Plutarco, CATONE parla agl’ateniesi per un
interprete. Potea parlar greco, se avesse volute. Suoi libri sono ornati e
ricchi di opinioni, di esempi e di istorie fonti, e di sentenze morali. Da
questi riscontri io deduco che CATONE disprezzando i Greci in pubblico e
leggendoli in privato, non e tanto nimico loro quanto ostenta; e che meditando
e usando ne' suoi componimenti opinioni filosofichi, è chiaro che vi sono
dunque in Roma i libri di filosofia, e che non sono incognite le opinioni filosofichi
a quella età, e quindi prima della ambasciata de tre filosofi vi era tra i
Romani qualche tintura di filosofia. Frattanto Furio, Lelio, Scipione e altri
di genti patrizie furon del numero di que' l’ottimati accesi nell'amore delle
dottrine filosofiche, i quali venuti a assunti al comando degl’eserciti che
soggiogavan la Grecia, prese da' greci [Plinio; Plinio I. c. Plutarco; Cicerone
De Senectute; Val. Massimo; Plutarco I, c. Aurelio Vittore De Viris Illustr,] e
al governo delle provincie conquistate, hanno agio di veder da vicino e di
ascoltare i valenti uomini di temperamento filosofico, coi quali strinsero
dimestichezza, e vollero finanche averli compagni nelle lor case, nei viaggi
enelle medesime spedizioni militari. Cosi leggiamo che SCIPIONE AFFRICANO vuole
aver seco assidua mente in casa e nella milizia insiem con Polibio, filosofo
singolare e grande uomo di Stato e di guerra, anche Panezio filosofo del
Portico. E questi un Rodiano ingenuo e grave, il quale salito ai primiluoghi
del Portico, oltre alcun altro componimento, scrive i libri lodatissimni degl’uffizi
secondo quella disciplina; ma non gli piacque la divinazione del Portico e
l'apatia, e le spine della disputa e l'asprezza delle parole e l'orror de
costum; e più gentilmente e umanamente fiolsofo, non così legandosi a Zenone e
quegl’altri, che non ama anche Aristotele Senocrate e Teofrasto e Dicearco, e
non ammira Platone come divino e sapientissimo e santissimo e come l'Omero de'
filosofi, sebben quella sua or poetica, or ambigua immortalità degl’animi non
gli tornasse a grado. E dunque PANEZIO uno filosofo del PORTICO modesto e
libero e degno della famigliarità di SCIPIONE, il quale erudito in questa
temperata dottrina del PORTICO e mansuetissimo ed umanissimo; e riparlendo la
sua vita tra la milizia e la filosofia, sali per fama di valore e di lettere
fra i massimi amplificatori della gloria di Roma. Ad illustre ed esimia indole
aggiungendo la ragione e la dottrina, e assiduamente conversando col medesimo
Panezio e con Diogene – del PORTICO -- e
con altri eruditissimi uomini, sono in compagnia di Scipione pre [Cicerone
Acad. Quaest.; De Fin.; De Off.; Tusc. Disp.; De Div.; Or. pro Murena; De Or.;
De Nat.: Deor.; Gellio Noc. At.; Suida v. Panaetius.] clari e singolari per
modestia e per continenza L. Furio e C. Lelio cognominato Sapiente. Si
accostarono a Panezio e a questi medesimi studi L. Filippo e C. Gallo e P.
Rutilio e M. Scauro e Q. Tuberone e Q. Muzio Scevola, e altri soinmi uomini
nella repubblica, e massimamente i giureconsulti; i quali invitati da lanta
luce di esempi e dalla magnificenza e dal metodo della morale del PORTICO,
pensano che niun'altra potesse congiungersi più co modamente alla giureprudenza
romana. In queste narrazioni è facile a vedersi che la filosofia del PORTICO entra
la prima in Roma con molto nobil fortuna. E quantunque Carneade esulta sopra i
compagni suoi, quando non però si ha a prender partito, quei medesimi che lo
ascoltano con tanto furore, si rivolgeno alla disciplina del PORTICO; la quale
benchè non puo mostrar tra i Romani una successione continua di maestri e
grande strepito di scuole e di libri, mostra iudizi cospicui della riverenza in
cui e tenuta e; tra gli altri il grande Pompeo, che approdato a Rodi vuole
ascoltar Possidonio da Apamea – del Portico di primo nome, che ha cattedra in
quella isola, e recatosi alla sua casa, vietà prima che il littore percotesse
la porta, e per somma testificazione d'onore comando che si abbassassero i
fasci. Indi entrato, vide Possidonio giacere gravemente per dolori in tutta la
persona, e salutatolo con onorifiche parole gli dice, molto molesto.essergli
per quella sua malattia non potere ascoltarlo. Ma tu veramente puoi, risponde
Possidonio, nè io concede mai che il dolore fuccia che [Cicerone De Or.; De Fin.;
Or. pro Archia; Cicerone Or. pro Murena; De Or.; in Bruto; Gravina De Or. Juris;
Schiltero Manud. Phil. Moralis ad Jurispr.; Westphal De Stoa Juriscon. Rom.;
Ottone De Stoica Juriscons Philosophia] un tanto uomo sia venuto indarno a
vedermi. E cosi giacendo disputa gravemente e copiosamente, che niente era
buono, salvo l'ONESTO. E intanto ardendo pure come per fiaccole il dolore,
spesso dice. Niente fai, o dolore: sebbene tu sia molesto, io non confesso mai
che tu sia male. Pompeo si congedò richiedendo il filosofo se niente volesse
ordinargli. E Possidonio risponde – “Rem gere praeclare, atque aliis prestare
me mento.” Cicerone poi lo ascoltà come scolare, e M. Marcello si tenne in
grande onore di condurlo a Roma, ove e in altissima estimazione per li suoi libri
della Natura degl'Iddii, degl’uffizi, della divinazione, e per altrenobili
scritture che andarono a male, e poichè e cultor non vulgare dell'astronomia, ha
gran lode nella composizione di quella sua sfera, la quale in ognuna delle sue
conversioni rappresenta nel sole, nella luna e ne' pianeti quello che si fa in
cielo nel giorno e nella notte. Possidonio adunque dopo Panezio e ornamento
grande e propagator sommo della fortuna del Portico tra i Romani. Altri filosofi
di minor nome sostennero la medesima fatica, e accompagnarono e amınaestrarono
altri Romani, che molto si dilettarono di quella disciplina; e tra questi non è
giusto tacere di Q. Lucilio BALBO, divenuto del Portico eguale ai Greci
medesimi, cosicchè Cicerone nei Dialoghi della Natura degļId dii gli diede a
sostenere le parti della teologia del Portico. Ma niuno tra i Romani, nè forse
pure tra i Greci agguaglia la persuasione, la pratica e la costanza del Portico
di CATONE UTICENSE, onde ottenne da Cice [Cicerone Tusc. Disp.; Plinio Juniore
Ep.; De Nat. Deor.; Suida v. Possidonius.Aieveo lo dice famigliare di Scipione
domator di Cartagine; ma è anacronismo; Cicerone De Div.; De Nat. Deor.; ad Att.;
De Off.; Cicerone De Nat. Deor.] rone il
nome di perfetto del Portico, che in tanti uomini di quel genere ricordati e
variamente lodati nelle sue opere non avea saputo ancora concedere a veruno. E
di vero parve che la natura medesima si dilettasse ad organizzare in quest'uomo
uno singolare filosofo del Portico; perciocchè è fama che fino dalla puerizia
con la voce e col volto mostra ingegno se rio, rigido, intrepido, inflessibile
alle lusinghe e alle minacce, e fin d'allora spirante immobilità nell'amor
della patria. Ha famigliari e maestri Antipatro Tirio e Atenodoro Cordilione,
uom solitario e alieno dai rumori e dalle corti; e dappoi tende sempre
dimestichezza con altri filosofi del Portico, e con la forza della istituzione
conferma ed accrebbe la natura già molto propensa, e non per la disputa, ma per
la vita e del Portico. Entrato nei maestrati della repubblica e negli strepiti
del foro e della milizia, usa tal forma di parlare e di vivere, che le
meraviglie sono grandissime di tutti i Romani, massimamente che di quei di
oramai era mutata e corrotta ogni cosa. Con una voce la cui intensione e forza
e inesausta, parla al popolo e al senato non eleganze e novità, ma ragioni
giuste, piane, brevi, severe e degne della disciplina del Portico e di Catone.
Le usanze sue non eran dissimili dalle parole, e con forti esercitazioni si addestra
a sostenere il calore e la neve col capo ignudo, e a viaggiare a piedi in ogni
stagione. Nella guerra civile, in mezzo alla militare licenza, e temperante, e
combatte con fortezza congiunta a prudenza, e ottenne lodi e onori, che rifiuta.
Eletto tribuno de' soldati per la Macedonia, e simile ai soldati nelle fatiche;
ma nella grandezza dell'animo e nella forza dell'eloquenza e maggiore di tutti
i [Cicerone, Parad; Strabone] capitani. Visild l’Asia per conoscer l'indole di
quelle terre e i costumi degli uomini, e per conquistare il solitario Atenodoro
Cordilione, filosofo del Portico, che riputa la più ricca di tutte le prede.
Ritornato a Roma, divide il suo tempo tra Atenodoro e la repubblica. Non cura
di esser questore prima di aver conosciute a fondo tutte le leggi questorie; e
in quel maestrato corrotto pessimamente tante cose muta per la giustizia e per
la salute della repubblica, che nell'amore della giustizia e della temperanza e
tenuto maggiore di tutti i romani. Nel senato e sem pre il primo a venire e
l'ultimo a ritirarsi. Dalla sua solitudine di Lucania, ove si era raccolto per
viver tranquillamente tra i libri e i suoi filosofi, desidera il tribunato
della plebe unicamente per resistere ai magnati prepotenti, e in questa ardua
contenzione dimostra giustizia, fede, candore, magnanimità; a segno che
Cicerone con molta licenza di giuochi agitando la filosofia del Portico di
Catone nella causa di Murena, incorse il biasimo di rettorica dissolutezza; di
che però l'uomo apato non si commosse per niente, e solamente ammonì un poco il
licenzioso giuocatore con quelle brevi ma significanti parole: Buoni Iddii !
Noi abbiam pure il ridicolo Console; e poi nella congiurazione Catilinaria vi
gilanteinente lo soccorse, come amico di lai e delle repubblica. Ma si
accrebbero fuor d'ogni termine le invidie, le emulazioni e le violenze de'
cittadini potenti, e i consigli di perder la patria e la libertà preponderarono
ad ogni virtù. CATONE resistè for temente; e mentre altri erano Pompejani e
altri Cesariani, Catone persevera ad esser repubblicano. Si attenne poi a
Pompeo come a MALE MINORI, e guer reggid e parla da grande soldato e da
filosofo. Dopo la battaglia farsalica, nella successione continua delle
disgrazie e nella ruina di tutte le cose si ripara ad Utica, dice ai suoi che
provvedessero a sè medesimi con la fuga o con altri consigli, entra nel bagno,
e poi cende lietamente e disputa co' suoi filosofi, e sostenne, il solo
sapiente esser libero. Coricatosi lesse due volte il Fedone, dormi ancora, e
svegliato si uccise. Con molta prolissità si è voluto disputare delle cagioni
del suicidio di Catone; il che secondo il pensier mio si è fatto assai
vanamente. Perocchè dalle cose fin qui raccontate si conosce, senza bisogno di
tante disputazioni, che il nimico alle porte, la dignità e la libertà perduta,
la speranza del fine de' mali presenti e del riposo futuro, e il sistema e il
costume del Portico e romano sono le cagioni palesi di quel suicidio. A queste
cagioni e aggiunta la trasfusione degl’animi nell'anima del mondo, ossia il
divino immerso necessariamente e indivisibilmente nella materia; il che fu
raccolto non solamente dalla indole del sistema del Portico, ma da quelle
parole che Lucanio presta a Catone -- Iupiter est quodcumque vides, quocumque
moveris -- per cui il prode Collin alloga Catone tra i panteisti. Maperchè quel
verso può essere più del poeta che di Catone, e perchè posto ancora che sia di
questi, può aver senso che il divino è presente per tutto, e in fine per chè la
teologia del Portico non è così empia come al cuni immaginarono, secondochè
dianzi abbiam detto, perciò non possiamo acconsentire al panteismo di Catone.
Sebben fosse propizia e luminosa, così come si [Cicerone, Orat. pro Murena; Paradox.; Plutarco in M.
Catone Uticensi; Seneca Ep.; De Provid.; Lattanzio; Siollio Hist. Ph. mor.
Gentil.; Brucker De Phil. Romanor.; Phars.;
De la liberté de penser; Buddeo De l’Ath. et de la superst.; Brucker] è
divisato, la fortuna della scuola del Portico tra i romani; tulta volta non è
da pensarsi che ad altre sette mancassero affatto gli amici; che anzi alcuni
furono che indifferentemente estimaron tutte le scuole, e quelle parti preser
da esse, che più sembraron concordi a certe forme di verità, a cui avean
l'animo assuefatto. Così L. Licinio Lucullo nella Grecia e nell'Asia, mentre
sostenea il peso del governo de' popoli e mentre vincea Tigrane e Mitridate,
coltiva le buone lettere e conversa coi filosofi; e dappoichè ebbe trionfato,
mise a guadagno le ricchezze predate, e dai militari peccati raccolse piaceri e
felicità. Si congedd dai turbamenti della guerra e della repubblica, e tutto ri
volto a pensieri di riposo edificò ville e palagi di meraviglioso lavoro e
d'incredibil magnificenza, e intese a pranzi e a cene e ad ogni guisa di
amenità, di eleganza e di delizia; nelle quali mollezze se tra le acclamazioni
degli uomini dilicati incorse ne' biasimi degli animi austeri, certamente
ottenne l'applauso di tutti, allorchè di tanto ama la filosofia che raccolta a
gran costo insigne copia di libri compose una biblioteca di pubblico uso, e
edifica stanze e portici e scuole, e le dedicò in domicilio delle Muse e della
pace e in ospizio dei greci maestri, che fuggendo i tumulti di guerra si
riparavano a Roma. Per questo egregio uso gli sono quasi perdonate e quasi
rivolte a lode le ruberie della guerra. Egli dissimile da que' signori che
prendono per sè il pensiere di comperare le biblioteche, e lasciano alirui il
pensiere di leggerle, pose gran parte delle sue delizie ne' libri e nelle consuetudini
coi dotti e filosofi uomini, e ascolto ed esa minò ogni genere di filosofia, e molto
ebbe in pregio e in continua familiarità Antioco Ascalonita, uom di robusto
parlare e principe in quei giorni dell’Accademia,
il quale si argomenta a mettere in amicizia con lei i filosofi del Portico e
del Lizio. E a LUCULLO piaceano questi pensieri: onde Cicerone, amico e
lodatore magnifico di lui, nel Dialogo intitolato al suo nome gl'impone la
difesa dell’Accademia. Con questa magnificenza e splendore di esempj non solo
la casa di Lucullo, ma Roma istessa e quasi ripiena di filosofi, tra i quali altri
si attennero al genio riconciliatore di Antioco, altri spaziarono nella liberlà
del relativismo di un ‘schiavo’ come Carneade, altri si accostarono ad altri
maestri, e niuno in tanta copia d'ingegni elevati, di cui Roma egregiamente
fiorisce in quella età, seppe aspirare a nuovi principati nella filosofia,
mentre affettavano pure il principato istesso del mondo. Molti han fatto le
meraviglie come i Romani, così nimici di servitù e così avidi di signoria, sono
poi tanto propensi a servire nella filosofia, in cui agli eccelsi animi dee
parer tanto bello il regnare. Ma non è meraviglia niuna che uomini intenti
perpetuamente ad infinito dominio non avesser ozio di componer nuovi sistemi, e
volendo pure esser filosofi seguisser gl’antichi per brevità. M. Giunio BRUTO,
nato verisimilmente dagli amori furtivi di Servilia e di Giulio Cesare, che
percio molto lo ama e lo dicea figliuol suo, venne a massimo nome nella istoria
di Roma non solamente perchè fu tra i sommi repubblicani e tra quei fer rei
uomini che nè per lusinghe di beni nè per terrore di mali si piegano, e all'
onesto, al giusto e al vero sacrificano la gratitudine, i benefattori, i
consanguinei e sestessi. Ma perchè grandemente ama la filosofia, e quasi tutti
i filosofi nella [Cicerone, Acad. Quaest. Lucullus. Plutarco in Lucullo.
Svelopio in Julio] sua età rinomati ascoltò, e tutte le sette conosce, e si
attenne poi alla vecchia Accademia, la mezzana e la nuova non molto approvando,
ed e an miratore di Antioco, e Aristone di lui fratello ha compagno e domestico.
Per questi studj con insigne amore coltivati nella gravità immensa, quasi nella
oppressione continua de' civili e dei militari negozi e delle turbazioni e
degli estreini pericoli, egli adornd la filosofia col sermone latino, talche
non rimase a desiderarsi altro dai Greci; e oltre i componimenti di eloquenza e
d'istoria, scrive i libri della Virtù e degli Uffizi; ed è memoria che desse
opera a cose letterarie fino in mezzo al inaggior émpito di guerra e in quella
gran notte che anda innanzi alla battaglia farsalica. In questa congiunzione
de' gravissimi affari e della filosofia e nel lo studio di tutti i filosofi
Bruto imita Lucill. Ma non vuole già imitarlo nell'abbandonamento della
repubblica e nel termine della dignità e della gloria tra i molli ozj e i
senili piaceri; che anzi amd meglio imitare CATONE UTICENSE, fratello di sua
madre, e a somiglianza di lui filosofò per la vita, ed ha animo grande e libero
dalle cupidigie e dalle vo luttà, e tanto costante ed immobile nella fede e
nell'amor della patria e nella sentenza dell'onesto e del giusto, che per
difesa di questi principj non sentà ribrezzo di mettere il pugnale nelle
viscere di Giulio Cesare suo benefattore e suo padre, e poi nella perdizione
della libertà e di tutte le cose romane metterlo nelle sue viscere istesse. Alcune
belle quistioni sono agitate in questi propositi. E prima [Cicerone, De Cl.
Oraloribus; Acad. Quaesi.; Plutarco in Bruto; Cicerone Acad. Quaest.; Cicerone
Tusc. Disp.; De Fin.; Seneca Consol. ad Helviam e Ep.; Plutarco, gli Storici
Romani.] se Bruto malvagiamente fa cospirando alla morte di Cesare; la quale
investigazione richiedendo un diligente esame dei diritti e dell’obbligazioni
di Cesare e di Roma; e una esatta idea del usurpatore e del tiranno, e dei
doveri e de' limiti del patrizio e del cittadino non può esser nè breve nè
affaccevole al nostro istituto. In secondo luogo, se Bruto puo essere escusato
allorchè nella ruina della buona causa giunto al mal passo di uccidersi con le
sue mani, vitupera la virtù esclamando con gli ultimi fiati: Infélice virtù !
io ti cre dea una realità e sei un nome. Tu vai schiava della fortuna, che è
più forte di te. Bayle presto a Bruto alcune difese che secondo me non posson
molto piacere; e la difesa migliore è che quelle parole non pajon di Bruto; sì
perchè Plutarco, diligente narratore di tutte le avventure della sua vita,
niente racconto di quella esclamazione, sì perchè non è verisimile che un tanto
uomo in così corte parole dicesse assurdità e contraddizioni; chè tale
certamente è negare la realità alla virtù, e poi affermare che ella è meno
forte e che è schiava della fortuna, il che senza stoltezza non può dirsi di
cose che non esistono. In terzo luogo, e quistione se Bruto avesse a numerarsi
tra i filosofi del Portico. È stato detto che il Portico di Bruto è un sogno. E
veramente risguardando l'auto rità delle parole citate di Cicerone e di
Plutarco Bruto abbracciò l’Accademia; ma siccome dai medesimi filosofi è detto
che si dilettò in tutte le dottrine de' filosofi e ammira Antioco famoso
conciliatore del Portico coll'Accademia e col Lizio [ Dione; Floro; Art. Brutus;
Paganido Gaudenzio De Phil. Rom.; Brucker] e perchè d'altronde è noto che parlò
e scrisse gli Uffici in istile del Portico, ed e iinitatore e lodatore di
Catone, e lo imita finanche nel suicidio, che è la più ardua di tutte le
imitazioni. Io credo bene che abbracciasse or l'una, or l'altra sente za, come
gli venne a grado, e il Portico forse più spesso e più fortemente di tutte. VARRONE,
a similitudine di Lucullo e di Bruto, gli studi della filosofia coltiva insieme
coi pensieri e con le opere militari e cittadine. Ma veduto il naufragio della
repubblica, e campato per maraviglia dall'ira di Cesare e dalla proscrizione
de' Triumviri, si ripara di buo n'ora, come in un porto, nell'ozio delle
lettere e della filosofia, e tutto intero s'immerse in questa beata
tranquillità. Cosicchè avvennero gli estremi cangiamenti di Roma e la compiuta
ruina della libertà della dominazione assoluta di OTTAVIANO, ed egli nascosto
nella sua biblioteca, e intento a com [Cicerone ad Att.; Seneca ep.; Plutarco e
i citati dinanzi; Plutarco in Bruto et
in Catone Minore. Val. Massiino porre sempre nuovi libri, che si numerarono
fino a qualtrocentonovanta, appena si avvide di tanti movimenti, e passando la
sua vita in ogni maniera di filosofie divenne il più dotto ed universale uomo,
che non i Latini solamente, ma i Greci ancora avesser mai conosciuto. Ed e detto
di lui che innumerabili cose avendo lette, e meraviglia come gli fosse rimasto
ozio di scrivere, e che pure lante cose avea scritte, quante appena può
credersi che alcuno abbia mai lette. Altre lodi si leggon di lui; e noi ine
desimi in questa gran lontananza di età, come vogliamo esaltare la vastità
della sapienza di alcuno, usiam dirlo “un Varrone”. Ma niuna commendazione
agguaglia quella di Cicerone, il quale amico ed ammiratore essendo del
valentuomo, conoscee e aduna le opere di lui in quel magnifico elogio. I tuoi
libri, o Varrone, noiperegrinie vagabondi nella nostra città, quasi come
forestieri, ridussero a casa, perchè alfine potessimo chi e dove siamo
conoscere. Tu la età della patria, tu le descrizioni de tempi, tu i diritti
delle cose sagre e de' sacerdoti, tu la domestica e la bellica disciplina, tu
la sede delle regioni e de' luoghi, tu delle cose umane e delle divine i nomi,
i generi, gli ufficj, le cagioni ci palesasti, e la luce grandissima spargesti
ne' no stri poeti e nelle latine lettere e nelle parole; e tu istesso un vario
poema ed elegante per ogni maniera componesti, e la filosofia in molti luoghi
in cominciasti assai veramente per iscuoterci, mapoco per ammaestrarci. Nel
medesimo dialogo, in cui [Cicerone Acad. Quaest.; Tusc. Disp.; Seneca Cons. ad
Helviam. Arnobio adv. Gentes; Agostino De Civ. Dei; Popeblount Cens. cel. Aut.;
G. A. Fabrizio Bibl. Lat.; Cicerone Acad. Quaest.; B., Isi. Fil.] Cicerone loda
Lanto nobilmente il suo amico, gli assegna ancora la difesa dell’Accademia, e
lo colloca nelle parti di Antioco e di Bruto. Ove si vede la falsità o almeno
la inesattezza di coloro che lo misero tra il Portico. Perchè sebbene se condo
il sistema di conciliazione Varrone puo amare inolte dottrine del Portico, ne
potea amare ancora di altre scuole, e non dovea dirsi del Portico assolutamente.
Molto meno e poi da numerarsi tra i dubitatori dell’Accademia sul tenue
fondamento d'una sua satira intitolata le “Eumenidi”, in cui gli uomini erano
accusali d'insensatezza; e su quel l'altra dottrina sua, che niuna stranezza
venne mai nell'animo agl'infermi deliranti, la quale non fosse affermata da
qualche filosofo, il che molte volte suol dirsi anche da uomini che certo non
sieguon Carneade e Pirrone. Ma non e giusto per al cun modo condurlo stoltamente
ad accrescere l'ar mento degl’atei, perchè insegna molte favole es servi nella
religione de' suoi di, che offendeano la dignità e la natura degl'Iddii
imınortali. Impe rocchè egli queste cose insegnando, distinse gl'Id dii in
favolosi, civili e filosofici; e parve bene che contro tutti avesse a ridire, e
non senza ragione; ma pure afferma che i primi erano del teatro, secondi della
città, e i terzi del mondo; e mostrò che disputava contro le favole poetiche,
cittadine e filosofiche, non contro gl'Iddii, e parve che avesse gran voglia di
onorare i filosofici, quando fosser purgati dalle fiuzioni, mentre li disse, i
Numi del mondo. Di que' tanti libri di M. Varrone non ri [Cicerone; Cozzando De
Mag. Ant. Phil.; Fabrizio
Bibl. Graec.; Uezio De la Forblesse de l'Esprit humain; Agostino De Civ. Dei] mangono altro che i nomi o alcuni frammenti
delle intichità divine ed umane, e della forma della filosofia, e della lingua latina,
della vita del popolo romano, delle Ebdomade, de' Poeti, e delle Origini
sceniche, e delle Menippee, per le quali fu cognominato Menippeo e cinico
Romano del Cinargo, e delle Cose rustiche, che sole vennero a noi salve dall'
in giuria del tempo. Questi furono i più cospicui Sincretisti romani, ai quali
si potrebbe aggiungere ancor CICERONE, il quale vaga per varie filosofie, e tenta
riconciliazioni di sistemi; ma perchè ama con molta parzialità i metodi dell’Accademia,
lo allogheremo tra que' filosofi romani che si attenneno a certe scuole, e ora
amarono i placiti da CROTONA, ora I LIZIO, ora L’ORTO, ora IL PORTICO, siccome
si è detto, ora altre guise di filosofia. Molta fu veramente la fama della
filosofia di CROTONA; ma fosse colpa sua o d'altrui, sofferse dissipazioni e
disgrazie che la misero ad oscurità. Tutta volta i Romani udirono qualche
novella di Pitagora, al lorchè nella guerra sannitica persuasi dall'oracolo di
Apollo Pizio a dedicare in celebre luogo della città una statua al più forte e
l'altra al più sapiente de Gre ci, l'una innalzarono ad Alcibiade e l'altra a
Pitagora: il che facendo, mostrarono, secondo l'avviso di Plinio, di non sapere
nè la civile nè la filosofica istoria di Grecia. Dopo quella dedicazione non è
meno ria che i Romani tenessero alcun conto di Pitagora, se non quando il
maggior Catone ascolta il Pitago rico Tarantino, e nella medesima età il
Calabrese ENNIO appare alcune dottrine pitagoriche in quella terra ove Pitagora
insegna, e le sparse nel [Cicerone Tusc. Disp.; Agostino De Civ.; Plinio] suo
poema, nel quale ardì sognare che l'anima di Omero era passata in lui. Ma non
persuase di que ste idee nè Catone a cui insegna la filosofia, nè P. Scipione
Africano di cui godè la famigliari tà, nè altri Romani che udirono volentieri i
suoi versi eroici e lo tennero sommo epico senza voler essere pitagorici. Io
però vorrei che meglio si esaminasse se un poeta per alquanti versi che senton
di Pitagorismo possa trasformarsi in filosofo pitagorico. Potrebbe parere che questa
metempsicosi somigliasse quella di Omero in Ennio. P. NIGIDIO Figulo tuttochè e
riputato vicino alla universale dottrina di Varrone, ed e senatore e pretore e
amico intimo e consigliere e compagno nei grand affari di Cicerone, che molto
lo riverì, come acre investigatore de' segreti della patura e uomo dottissimoe
santissimo, e come quello che dopo i nobili Pitagorei polea rinnovare la lor
disciplina quasi estinta, non si sa che persuadesse niuno, e fu stretto a
ridurre la sua grande sapienza fisica e matematica e astrologica alle
indovinazioni de' ladri che talvolta rubavan le borse de' suoi amici, e a
componer gli oroscopj d’OTTAVIANO e del Triumvirato, e a disegnare la rapidità
del cielo con gli avvolgimenti della ruota del vasajo, donde ottenne il so
prannome di “Figulo”. Le quali avventure non so no veramente degne d'un
senatore e d'un pretore pitagorico, ma posson forse mostrare che si pochi [Cicerone
pro Murena; Acad. Quaest.; De Fin.; Persio
Sat.; Vossio De Hist. Latinis, e A. Baillet Jugem.; Cicerone Fragm. de
Universitate; Agostino De Civ. Dei;
Ep. fam.; Plutarco in Cicerone; Gellio, Macrobio Saturn.; Apulejo in Apolog.
Dione; Svetonio in Augusto; Lucano Phars.; Bayle art. Nigidius. ICOLER] affari
di scuola esercitaron questo Nigidio, ed ebbe tanto vuoto nella vita, che gli
storici amici della sua gloria pensarono bene a riempierlo di favole. Non è
questa la prima nè l'ultima panegirica istoria colpevole di supplementi
favolosi. A confermazione della tenue fortuna di questo filosofo da CROTONA e
scritto, che avendo egli composti i libri degl’animali, de gl’uomini, delle viscere,
delle vittime, degl’auguri, de' venti, della Sfera grecanica, e di altri
moltiplici argomenti, per la cui abbondanza fu quasi eguale a Varrone, ove però
le scritture di questo si divulgarono e si lessero assai, le Nigidiane per la
sottigliezza e per la oscurità giacquero abbandonate; e l'autore poi avendo
seguite le parti di Pompeo, per timore di Cesare muore in esilio volontario.
Poco appresso Anassilao Larisseo professa la setta di CROTONA, ed esplorando i
segreti della natura per la medicina e per uso di certe sue magiche me
raviglie, e con le sue scoperte armirabili venendo in sospetto di magia e forse
uccidendo i malati più che gli altri medici con meno segreti, e d’OTTAVIANO condannato
all'esilio. La filosofia di CROTONA ebbe adunque assai avversa fortuna tra i
Romani in questa età. Il Lizio ottenne qualche migliore, ma non molto illustre
accoglienza; perchè sebbene Catone e Crasso e Pisone e Cicerone istes so non
abborissero i uomini del Lizio, e nelle memorie di questi tempi sieno ricordati
con onore Andronico Rodiano e Demetrio e Alessandro Antiocheno e Stasea
Napoletano e Cratippo Mitileneo maestro del figlio di Cicerone e di altri
nobili romani; tuttavolta per le narrate disgrazie e depravazioni dei libri del
Lizio, o per quali In: TIK ita pi V Ci I Jedi Eusebio in Chr. Plinio; Irenco; Epifanio
Haer.;Vossio De Idol.; Fabrizio Bibl. Graec.] che fossero altre cagioni, il
nome del Lizio fuori di molto pochi era, per testimonianza di Cicerone, ignoto
ai filosofi de' suoi giorni. Ma L’ORTO quantunque spesso ripresi e più spesso
calunniati e singolarmente flagellati da quella sottile eloquenza di Cicerone,
che sapea persuadere finanche il falso quando volea, pure in onta di tanto
travaglio videro assai Romani di nome e di opere illustri non arrossirsi di
essere DALL’ORTO. Lucio della tanto antica e nobile famiglia Torquata, e G. Vellejo
sostenitore delle ragioni dell’ORTO nel dialogo della Natura degli Iddii di
Cicerone, e principe dell’ORTO che allora erano in Roma, e C. Trebazio, como di
somma scienza nel Diritto civile, a cui Cicerone intitola la Topica, e L.
Papirio Peto, egregio oratore e soldalo, e L. Saufeio e T. Albuzio e C.
Amafanio, e più altri numerati da Gassendo, furono nobilissimi DALL’ORTO (2).
Ma C. Cassio e T. Pomponio “Attico” per singolarità di fama e d'ingegno emerge
splendidamente dalla folla degli altri. Il primo e quel prode assassino di
Cesare, che nell'ardor dell' assalto ad uno de' congiurati che dietro a lui si
aslenza dal ferire, dice: Feriscilo anche per mezzo alle mie viscere. Egli
vincitore de' Parti e soldalo di primo valore e sommo DELL’ORTO, parla
secondochè l'émpito militare e le disperazioni della sua scuola lo animavano, e
per gli stessi principj nella perdita della battaglia e della libertà si fa
uccidere, e si uccise egli medesimo con quello stesso pugnale con cui ferito
Cesare, ed e acclamato e pianto come l'ultimo de' Romani. Alcune avventure
filosofiche di que [(Cicerone Topic.; Bayle art. Cratippus; Brucker De Phil. Rom.; De Vita et mor.
Epicuri; Aurelio Vittore De Vir.; Plutarco in Caesare, in M. Antonio, in Bruto.]
st'uomo domandano qualche riflessione. Bruto vide uno spettro d'inusitata
grandezza, e interrogato chi fosse, risponde – “Io sono il tuo mal genio, o
Bruto: tu mi rivedrai a Filippi; ove lo rivide e fu vinto.” Di questa
apparizione Bruto ha discorso con Cassio, il qual dice, non esser credibile che
vi fossero genii, ed esser nostre immaginazioni; e quando pure vi fossero, nè
aver figure di uomini, nè forza che giun ga a noi. Ma sarebbe pur bene che
fossero, aggiun se, acciocchè noi condottieri di bellissimi e santissimi fatti
andassimo forti non solamente per fanti e cavalli e navi, ma per la protezion
degl' Iddii. Bruto si consolo per questo discorso. Ma CASSIO medesimo ha la sua
visione, e parve che consolatore degli altri non sapesse consolare sè stesso.
Nella giornata di Filippi vide Giulio Cesare in sembiante sovrumano e
minaccioso che a tutta briglia venne a combattere contro lui, ed egli
spaventato disse – “Che ci rimane più oltre, se è stato poco averlo ucciso?” --
Di lui è anche raccontato che nel giorno della uccisione di Cesare invoca l'a
nima e l'ajuto del grande Pompeo, e che rivedendo insieme con Bruto le truppe
romane, dice loro: “GlIddii, che prendon cura delle guerre giuste, vi rendan
premio di tanta fede. Noi abbiam prese tutte le giuste misure: il rimanente si
aspetta dalla vostra virtù e dagl Iddii favorevoli. Se essi vorranno, noi vi
ricompenseremo della grand'opera di questa vitloria.” Le siffatte visioni e
preghiere divote non parvero proprie d’un filosofo dell’ORTO, il quale se non
affatto rifiutava i fantasiuni, certo non co noscea gli animi immortali e la
provvidenza de [Plutarco in Bruto; Val. Massimo; Plutarco in Caesare et in
Bruto; Appiano Aless. Bell. Civ.] gl'Iddii; onde quelle apparizioni e
invocazioni o voglion tenersi per favole del popolo e degli storici, o per
fanatismi di Cassio, il quale agitato dalla grandezza de' casi lascia
trasportarsi nelle idee e nelle parole comuni, e si scorda di essere DALL’ORTO.
Io non dissento da questi pensieri; maquanto agl'Id dii e alla provvidenza io
desidero ehe i miei leggitori si ricordino di quanto abbiam disputato in questo
argomento esaminando la teologia dell’ORTO con quella diligenza che abbiam
saputo maggiore; e non diffido che le preghiere di Cassio possano porgere alcun
nuovo indizio della provvidenza non affatto distrutta nel sistema dell’ORTO.
Tito Pomponio Attico e il più sincero e il più costante ornamento della scuola dell’ORTO;
e se Cassio ed altri con lui troppo s'immersero nel comore e nel fumo di Roma,
e deviano dal piacere e dalla felicità che sono i fini dell'ORTO, ATTICO
fermamente rivolto a queste mire, già prima nelle turbazioni di Silla si riparò
ad Atene, e ascoltando Fedro e Zenone Sidonio visse tranquillamente negli ozj e
negl’orti d'Epicuro, e con la gravità ed umanità dell'ingegno ottenne tanta
benevolenza, che dai Greci ha statue e dai Romani il bel soprannome di Attico;
indi ritornato alla patria, si allontana dagl’onori offerti e da tutti gli affari
civili, e niuna parte prendendo nelle contese de' potenti, e ser bandosi amico
de litiganti, e usando fede con tutti e liberalità e cortesia, non si sa ben
dire se più e amato o riverito; e vivendo a sè medesimo e non per ostentazione
d'ingegno, ma per governo della vita filosofando, campo dalla proscrizione di
tanti cittadini, e caro ai vincitori menò vita riposata e luminosa; alla quale
però nè il suo genero Agrip [Bayle art. Cassius Longinus (Cajus) Primo.] pa, nè
il progenero Tiberio, nè il pronipote Druso dieder tanto splendore quanto la
intima amicizia di Cicerone, le cui Lettere e i libri della Vecchiezza e delle
Leggi lo consecrarono alla immortalità. In questa beatitudine di vita e preso
dalla dissenteria e dalla febbre. Ubbidì prima ai medici inutilmente, e poi sperimentata
l'ostinazione del male, alla presenza di alcuni amici suoi, Voi siete buoni
testimonj, disse, della cura e diligenza mia nel difendere in questo tempo la
mia sanità. Io ho dunque soddisfatto al debito mio. Ri mane ora che io provveda
a me stesso. Voglio che voi il sappiate. Imperocchè ho statuito di non volere
più oltre alimentare il mio male; perchè in questi giorni truendo innanzi la
vita col cibo, ho accresciuto i dolori miei senza speranza di sanità. Per la
qual cosa io prima vi domando che il mio consiglio approviate; indi che non
vogliate sforzarvi a dissuadermi. Dette queste cose con tale co stanza di voce
e di vollo che parea non uscisse dalla vita, ma da una casa per passare ad
un'altra, gli amici piansero e pregarono, ed egli le lagrime e le preghiere
compresse con un ferino silenzio. Così avendo digiunato due di, la febbre cessa;
inè mutò proposito per questo, ed essendo a mezza via, non volle tornare
indietro e anda oltre digiu nando, e muore ragionatamente secondo i principi dell’ORTO,
e non già come Cassio impetuosamente e a mal tempo. Questo inumano errore di
moda e di scuola e in Attico error di ragione ee di gran d'uomo. Tito LUCREZIO
Caro, inferiore certo ad Attico e a quegli altri nella dignità della vita, ma
nella poe [Cicerone De Fin. e nelle Epistole ad Attico; C. Nipote in Artico.
Seneca Ep.; C. Nipote] lica gloria de componimenti dell’ORTO maggiore di quanti
fiorirono in quella scuola. Nella elà di Cicerone e di Attico vide anch'egli
Atene, e ascolta Fedro e Zenone e visse negl’Orti d’Epicuro, e per mostrare a
Roma i suoi progressi nella guisa più dilettevole, scrive in esametri latini
sei libri della Natura delle Cose, ne' quali fu delto non essere meraviglia che
profondesse tutte le empietà e le pazzie dell’ORTO, perciocchè gli avea
composti ne' corti intervalli di ragione che gli rimaneano al quanto liberi
dalla frenesia contratta per certa be vanda amorosa. Ma noi invitiamo ancora
qui i leggitori nostri a volersi ridurre a memoria le ragioni altrove disputate
contro i malevoli dell’ORTO, le quali secondo la nostra estimazione posson
molto valere contro gli oppressori di Lucrezio. Non sarebbe difficile una
dissertazione, giacchè le dissertazioni sembrano facilissimi affari, ove si
prova che Lucrezio non e il più pazzo de' poeti, e non sarebbe difficile
un'altra in cui si mostrasse che molti filosofi furon più pazzi di questo
poeta. Ma non so se queste dissertazioni con tutta la bizzarria de'loro titoli,
che sogliono pur essere di qual che raccomandazione, potrebbono riuscir
dileltose a chi le componesse e a chi le ascoltasse. Imperoc chè sarebbe
necessità recitar molti di que' versi dell’ORTO che secondo il ruvido carattere
della scuola non sono i più molli e i più eleganti, e non sono poi tanto chiari
da mettervi fondamento sicuro. Noi adunque, senza pretendere in dissertazioni,
direm così per passaggio,come gli fu dato a colpa di vio lata religione ch'egli
attribuisse alla natura degl'Id dii il godimento di somma pace e la divisione
dai [Eusebio in Chr.; Fabrizio Bibl. Lat.; Bayle art. Lucrece.] dolori e dai
pericoli nostri, e che insegna non aver essi bisogno di noi, nè esser presi da
benevolenza o da ira; e che giacendo la vita degli uomini sotto grave
religione, la quale dal cielo mostra il capo con orribil risguardo soprastante
ai mortali, un uom greco fu il primo che ardì levar gli occhi contro di lei e
resistere. Lui nè la fama degl'Iddii, nè i fulmini nè i minacciosi romori del
cielo raffrenarono; che anzi l'acre virtù del suo anino s'irritò, e ruppe le
strette porte della natura, e con la vivida forza della mente vinse e tras
corse oltre i confini del mondo, e misurò tutto l'Immenso; e c'insegnò quello
che può nascere e quello che non può, e quali sieno le potestà e i termini
fermi delle cose. Onde la religione a sua vicenda è calpestata dai nostri
piedi, e la vittoria ci aggua glia al Cielo. Ma si è già detto abbastanza al
irove che le divine tranquillità possono avere nel sistema dell’ORTO sensi non
affatto distrutlori di ogni provvidenza; e veranente lasciando pure stare
Deslandes, che fa una pielosa predica a Lucrezio per questo disprezzo suo della
religione, è ben molto che Bayle non abbia saputo ve dere che la religione,
contro cui Lucrezio usa qui tanto disprezzo, non è altro che quella superstizio
ne che insieme con altre scellerate opere insegna ai Greci le vittime umane;
onde egli dopo la descrizione d'Ifigenia all' altare conchiude: che tanto di
mali potè la religione persuadere. Io certo non ar direi affermare che Lucrezio
insegnasse la Provvidenza ove scrisse, una certa forza nascosta strito lare le
cose umane, e sembrare che conculchi e 1 [Lucrezio De Rer Nat.; Deslandes Hist.
De la Phil.; Bayle] prenda in ludibrio i fasci e le scuri; o dove in voca
V'enere origine e regolatrice di tutta la natura, o dove implora l'ajuto della
governante Fortuna nei disordini e nelle ruine del mondo Ma non ardirei pure
accusarlo d’ateismo, e im porgli più errori di quelli che secondo la sentenza
nostra abbiamo veduti nel suo maestro dell’ORTO, di cui fu seguace tanto rigido,
che permettendosi il suicidio in quella filosofia, egli neusò a suo agio, e si
uccise di propria mano. È stata opinione che C. Giulio Cesare, uomo di
estraordinaria forza d'ingegno e di cuore, sebbene potendo ottener' somma
gloria dalle lettere e dalla filosofia, volesse averla piuttosto dalla politica
e dalle arme, tuttavia non isdegnasse alcuna volta di starsi tra i filosofi, e
gli piacesse di essere dell’ORTO. Im perocchè dicono che parlando al senato non
dubitò di affermare ardimentosamente, di là dalla morte non esservi tormento nè
gaudio; e non ebbe poi timore per voglia e comodo suo di tagliar boschi sacri e
di seguir le sue imprese contro gli avvisi de sacerdoti e della religione. Ma a
dir vero, que sti non sono i caratteri propri dell'Orto: e poi si potrebbe
dubitare se Cesare così parlasse al senato, come Sallustio lo fa parlare; e se
così ta gliasse gli alberi sacri, come Lucano con la poetica licenza racconto;
e date eziandio per vere queste leggende, è molto ben noto che anche Cicerone,
usando della rettorica volubilità, predica talvolta pubblicamente la mortalità
degli animi senza essere [De Rerum Nat.; Rondel Vita Epicuri; De Rer. Nat.; Reimanno
Hist. Ath.; Sallustio De Bello Catilivario; Lucano Phars.; Svetonio in Cesare]
dell’ORTO, anzi senza recarsi ascrupolo di predicarne la immortalità in altre
pubbliche orazioni, ove il bi sogno della causa lo domandasse. Così gli oratori
romani costumavano, e agli stessi metodi Cesare ubbidi; e così pur fece
nell'affare de'presagi e della religione, mentre se è scritto che talora
trasscura le romane superstizioni, è scritto ancora che spesse volte le uso, e
parve che le avesse per ve re. Molto meno io poi ardirei imporre a Cesare l'ORTO,
perchè fu accusato di osceni amori con Nicomede re di Bitinia, e perchè molte
nobili donne romane e alcune reine corruppe, e perchè e detto la moglie di
tutti i mariti e il marito di tutte le mogli, e perchè sostenne assai altre
infauna zioni di lascivo costume; le quali oltrechè possono essere alterate
dalla malevolenza e dalla effrenatezza popolare di Roma, che le lodi e i
trionfi de gran d'uomini solea contaminare con le satiriche licenze, non posson
poi essere argomenti di doltrine dell’ORTO, giacchè nè l’ORTO professa questa
dis solutezza, nè la corruzion de costumi è buon argomento per la corruzione
delle massime; e siccome non sarebbe buon discorso dai regolati costumi di
Cassio e di Attico didurre che non sono dell’ORTO, così non sarebbe pure
conchiuder che Cesare era per la sregolatezza de'suoi. Piuttosto si potrebbe
raccogliere alcun indizio dell’ORTO dalla replicata avversione che Cesare
mostrò verso i costumi di Catone, contro cui scrive due libri intitolati gli “Anti-catoni”
L’ORTO e il giurato nimico del [Cicerone Orat. pro Cluentio et pro Rabirio; Plutarco
e Svetonio in Caesare. Floro; Dione; Bayle art. César; Svetonio in Caesare; Plutarco
in Cicerone; Adriano Baillet, Des Satires personelles, ou des Anti, Entr.]
PORTICO, e Catone e grande del Portico. Pare adun que che Cesare non puo
prorompere a tanta avversità contro tutti i costumi di Catone senza essere dell’ORTO.
Vaglia questo come può il meglio. Ma qualunque fosse la setta di Cesare,
certamente il solo pensiere di correggere il calendario Romano disordinato
dalla negligenza de' sacerdoti, e l'Anno “Giuliano”, che Giulio da a tanta
parte di mondo, mostrano in lui genio filosofico e gusto di astronomia. Quella
versatile eloquenza di cui gli avvocati e i pubblici parlatori di Roma usano
nella varietà e lalora nella contraddizione delle cause, e la origine primaria
dell' applauso in cui venne tra i Romani la filosofia dell’Accademia; la quale
insegnando a disputare per tutte le parti, e colorendo di probabilità il pro e
il contro, e somıninistrando argomenti per tutti i casi, e molto opportuna a
quella eloquenza forense che potea dirsi la grande e forse la prima via delle
soinme fortune. Sembra adunque ben detto che la filosofia del PORTICO per la
gravità degli uffizj e de' principj sociali fu tra i Romani la disciplina de'
giudici, de' legislatori e de' giureprudenti; L’ORTO e lo studio quasi
domestico e privato di uomini desiderosi di vivere Jictamente; CROTONE e il
LIZIO sono la cura di pochi; l’Accademia confusa al Portico si riputa degna de'
sacerdoti, e l'accademica e la delizia de causidici e degli oratori; siccome, a
dir vero, pare che fusse pure in altre terre e in altre età, e che sia ancor
nella nostra. È però mestieri avvertire che parlando di accademica filosofia,
non vuole intendersi un pirronismo effrenato, che forse non ebbe esistenza
salvo ne' capricci di uomini esageratori; ma un temperato genere di filosofare
per cui si esa minano i placiti di tutte le scuole, e si sceglie il buono, e si
cerca il vero, e si crede di trovar solo il probabile,e secondo questo si
governa la vita. Cicerone fu il ipaggior lume di questa filosofia tra i Romani;
il quale con la forza d'una singolare eloquenza e con l'abbondanza della
dottrina e con la varietà de' libri così la nobilitò egli solo, che gli altri
furon dimenticati. Ma egli sarà ben tale da po ter valere per tutti. Mentre io
ora mi accosto a que sto sommo maestro del nobil parlare, e vedo che la
eccellenza della sua lode e la grandezza degli ob bligbi nostri domanderebbono
eloquenza pari alla sua, sento vergogna della mia lontananza da quel sublime
esemplare, e volentieri sfuggirei per ros sore il difficile incontro, se la
vergogna non fosse vinta dalla necessità. Cicerone, arpinate, o che suo padre
fosse purgatore di panni e i suoi avi cultori di ceci, o che la sua gente avesse origine dai
che nascesse onorato dagli oracoli e dai prodigj, o all' uso comune nel
silenzio degl' Iddii e nell'ordine della natura, siccome variamente si racconta.
Niente più e niente meno fu il medesimo uomo non molto cospicuo tra i soldati,
non affatto pic ciolo tra i filosofi, grande tra i maestrati e tra i consoli,
massimo tra gli oratori. Nell'adolescenza e appresso nella età anche matura amò
i poeti e scrisse versi, de' quali rimangon frammenti biasi mati più del dovere,
e coltivò le lettere e [Plutarco in
Ciceroue; Dione; Fabrizio Bibl. Lat.] la eloquenza. Cresciuto. si accostó ai
filosofi. Ascoltỏ gli Epicurei per disprezzarli allora e dap poi, senza averli
forse intesi. Conversò con IL PORTICO e con IL LIZIO, e apprese i luoghi e i
fonti del disputare, e altre loro dottrine non ab borri: ma singolarmente
coltivo gli Accademici per amore di quella versatile e forense eloquenza di cui
abbiam detto. Su questi fondamenti, con quel buon metodo non inteso dai nostri
pedanti, appog. giò e poi confermò viemaggiormente la sua arle oratoria. Presa
la toga virile si attenne ai giore consulti. Militò un poco nella guerra Marsi
cana, e venuta la pace ritornò molto volentieri alle lettere. Vive
dimesticamente con Diodoro stoi co eruditissimo, frequenta Molone oratore Rodia
no, e Ortensio, che era il primo parlatore di Roma: non trascurò fino di
apprender le più gen tili eleganze del dire da Cornelia, da Lelia e da altre
dame romane, colà imparando eloquenza ove altri ora sogliono disimpararla: non
fu giorno che non usasse nuove diligenze erudite, e non decla masse e
disputasse ora con parole latine, ora con greche. Trasse nel vulgare di Roma
alcune scritture di Protagora e di Senofonte e altre di Platone, e
singolarmente il Timeo, di cui ci rimane una parte, per la quale conosciamo che
Platone po trebbe sopportarsi tradotto da Cicerone, laddove non si può nelle
versioni di altri. Ci rimangono [Cicero pro Archia; Plutarco; Svetonio de Cl.
Ret.; Vossio De Poel. Lal.; SCOLLO CICERONE a calumniis VINDICATVS; Cicerone De
Off.; Ep. fam.; Paradox.; De Or. lib.; Tusc. Disp.; in Bruto; De Nat. Deor.; Plutarco;
Cicerone, De Fin.; De Div.; Plutarco; Quintiliano; Agostino De Civ.] pure
alcuni frammenti di sue traduzioni diOmero, le quali non ci nojano come quelle
degl' interpreti nostril. Istruito da tante esercitazioni e animato da questi
presidj, nel suo venticinquesimo anno, che era il seicento settantaunesimo di
Roma non dubitò di mostrarsi nella luce del Foro, e agitd la sua prima causa,
che alcuni dicono esser quella in difesa di Sesto Roscio Amerino, contro la vo
lontà di Silla, e ne uscì vincitore con tanta ammi razione, che niuna altra
causa parve poi superiore al suo patrocinio. Ma poichè Silla raffrenatore di
Mitridate e domatore di Mario era in quei giorni dittatore e quasi signore
assoluto delle vite e delle cose romane, fu voce che Cicerone temendo la ira di
quel fiero autore delle proscrizioni, rifuggisse in Grecia. Altri pensarono che
si desse a viaggiare per ricuperare la sanità afflitta per troppa veemen za
nella declamazione. Comunque fosse, visitò Atene e molto usd col famoso
Sincretista Antioco, e visse congiunto a Pomponio Attico con quella amicizia
che durò tra loro fino alla morte. In que sto viaggio verisimilmente fece
iniziarsi nei misteri Eleusini, de' quali così parld come se la loro so stanza
fosse l'unità d'Iddio e la immortalità degli animi. Tale fu l'avviso nostro
nella esposizione del sistema arcano d'Egitto, e tale è del dotto Warburton e
del Middleton, il che molto consola [Cicerone, De Fin.; De Div.; Plutarco; Quintiliano;
Agostino De Civ. Dei; Middleton Vita Cicer.; Cicerone in Bruto; Middleton; Plutarco;
Cicerone in Bruto; Cicerone De Nat. Deor.; De Leg.; Tusc. Disp.; B., Ist.
Filos.] le nostre conghietture. Da Atene navigò nell'A sia, e conversò cogli
oratori e coi filosofi di quelle terre, e sopra tutti con Possidonio; e declamo
in greco nel mezzo a nobil frequenza con tale fecondità, che i greci oratori
piansero il loro destino, per cui non solamente le fortune, ma le arti e le scienze
dalla Grecia trapassavano a Roma. Silla morì, e Cicerone restaurato nella
sanità ritornò alla patria, ove fu prima negletto come un grecolo scolastico;
ma poi eguagliando e spesso vincendo la gloria di Cotta e di Ortensio oratori
lodatissimi di quella età, rimosse Roma dalla sua negligenza, e ottenne
prestamente la questura ed ebbe in sorte la Sicilia, ove avendo ricevuto lodi e
onori inusitati, s'im maginò che tutta Roma fosse piena della sua glo ria.
Masbarcato a Pozzuolo in tempo che grande era il concorso di molti uomini
romani, ebbe il dispetto di vedersi ignoto, e conchiuse adirato che iRomani
aveano le orecchie sorde e gli occhi acuti. Dopo questa mortificazione, grave
di vero in uomo perduto nella fantasia della gloria, egli deliberò di battere
assiduamente il Foro e i pubblici luoghi, e starsi tuttodì presente a quegli
occhi acuti che dif finivano le sorti de' cittadini ambiziosi. Agitò cause
nobilissime, e fu edile, pretore e console non meno per favore degli ottimati,
che per giudizio del Popolo. Egli ricevè la repubblica piena di sollecitudini,e
non vi erano mali che i buoni non temessero e i ribaldi non aspettassero. I
tribuni e Catilina e i suoi compagni teneano consigli di ruina. Ma Cicerone li
compresse e salvò la repubblica [Warburton
Della divina Legazione di Mosè; Middleton; Plutarco; Div. in Verr.; pro Planco;
Plutarco; Cicerone; Plutarco; Sallustio De Bello Calilinario e gli altri
Storici Romani.] ze Tire! Per la grandezza dell'opera venne a somma grazia de'
patrizi e del popolo, e fu acclamato padre della patria; e poco appresso vinto
dalla invidia e dalla frode di P. Clodio, fu spinto in esilio, e le sue ville
incendiate e le sue case con ogni sostanza arse e saccheggiate. Andò errando
con animo assai abbat tulo per l'Italia e per la Grecia, nel che mostrd di
essere più oratore che filosofo; finanche richia mato per pubblico consenso, e
restaurati i suoi danni per sentenza del senato, ritornò a Roma, incontrato da
tutte le città, e portato, siccom'e gli raccontò, sulle spalle di tutta
l'Italia. Ebbe in provincia la Cilicia, e parve che volesse eser citar nella
guerra le arti della pace. Ma come si accese la discordia civile, egli seguendo
le parti di Pompeo, e pretendendo in valor militare, dopo la sconfitta
farsalica si pentì d'esser soldato e ricuso di guerreggiare più oltre; cosicchè
il giovin Pom peo sdegnato di quella codardia, lo avrebbe uc ciso se Čatone non
lo campava. Venne poi a riconciliazione con Cesare, e nella mutazione della
repubblica, che assai gli gravava nell'animo, si ri volse alle lettere e alla
filosofia, e istruì nobili gio vani romani, e leggendo e scrivendo libri passò
la maggior parte de' suoi giorni nella dolcezza degli studj e nei silenzi della
sua villa Tusculana.Ritorno anche ad Atene per alleggerimento di noja e per la
memoria delle passate esercitazioni. In questo spazio ripudid Terenzia, e mend
in moglie una ricca donzella, e pianse puerilmente la morte di Tullio la, e
ripudid la nuova moglie perchè non volle 702 ber che V. i luoghi di Cicerone
presso Francesco Fabrizio nella Vita di Cicerone. [Plutarco in Caesare; Dione; Vellejo;
Cicerone Or. pro Domo sua ct post Rcd. ad Quir, et post Red. ad Sen.; Plutarco
lic. 1 pianger con lui. elle quali avventure fu accusato di amori sozzi é
ridicoli, e di animo debole per temperamento o per anni. Con tutti questi do
mestici fastidj avrebbe potuto esser felice, se avesse perseverato nell' amore
del letterato ozio e dellafilosofia. Ma dopo l ' assassinamento di Cesare gli
piacque di rientrare nella tempesta civile, e sebbene non fosse tra i
congiurati, si attenne al loro portito, e M. Antonio già suo pernico irritò mag
giormente con le Filippiche. Dopo varie vicende si compose il Triumvirato, e
Cicerone ne fa la vit tima più sacra e più pianta da Roma, già ridotta a pochi,
e da tutta la posterità. Egli poichè ebbe udita la fama della proscrizione,
fuggì prima al mare e s'imbarcò con venti contrarj, onde presa terra a Circejo,
tra molti pensieri niuno piacendogli quanto la morte, disegno di recarsi a Roma
e uccidersi nella casa istessa di Cesare per versare sopra l'in grato la
vendetta del suo sangue. Indi persuaso da nuovi pensieri navigò ancora e prese
pur terra,e nojato del mare e della vita, lo morrò, disse, in quella patria che
spesse volte'ho conservata; e non morendo pur questa volta, si adagi ) e dormà
nella sua villa Formiana. Mentre i suoi domestici spa ventati dal romor de'
soldati lo guidavano a forza verso il mare, apparvero i carnefici, contro cui i
servi si prepararono a combattere. Cicerone co mandd che stessero: guardò con
fermo occhio gli assassini e singolarmente il lor condottiere Popilio Lena, che
reo di parricidio era stato difeso e salvato da lui: sporse dalla letlica il
capo, e, Fale, [Cicerone Tusc. Disp.; De Off.; Lettere ad Attico; Plutarco; Orazione
attibuita a Sallustio; Donato in Eneid. accomoda a Cicerone quel verso
diVirgilio: Hic thalamos invasit Natac velitos que hymeneos; Bayle art. Tullie]
disse, l'opera' vostra, e quello prendelo, di che avete bisogno: l'ingralo
" Popilio con parricidio maggiore del primo gli recise il capo e le mani,
e recò l'iniquo fardello ad Antonio, il quale con gran festa affisse su i
rostri quel capo sublime e onorato e quelle mani benefiche, spettacolo
miserabile e argomento di pianto ai buoni Romani e di trastullo agli schiavi,
ai traditori e ai tiranni. Nell'anno di Roma settecendecimo e di Cicerone
sessanta qualtresimo avvenne questa tragedia, in cui si vide la morte di
Cicerone e della repubblica. Daquesto tenore distudj e di vita non solamente si
può conoscere che Cicerone era pieno d'un de siderio smoderato di gloria, che
lo rendea forte e magnanimo nella buona sorte e timoroso e pian gente nella
disgrazia (onde Cristina di Svezia, con una regia libertà che sarebbe licenza
in uomini pri vati, usava dire, Cicerone essere il solo poltrone che fosse
capace di grandi cose ); ma si pud an cora scorgere facilmente che il sommo
fine poli tico di Cicerone fu l'acquisto delle maggiori for tune nella
repubblica: che due essendo i mezzi per giungervi, la scienza militare e la
oratoria, e co noscendo egli di valer poco nella prima, comechè molto si
tormentasse per giungervi, si attenne vi gorosamente alla seconda; e che egli
avendo sen tenza, niuno essere oratore perfetto il quale non abbiascienza di
tutte le grandi cose, vago per qua Junque facoltà, e sopra tutto per le
opinioni di ogni filosofia, e tutto questo adunamento di dottrine in dirizzo al
suo desiderio di essere oratore perfet to. Questo studio è palese nelle sue
opere, le (Livio Epit.; Plutarco in Cicerone et in Antonio; Svetonio in Augusto;
Vellejo; Dione; Appiano; Seneca Súas.; V. Massiino; Floro PADOV.; Cicerone De
Or.] quali a ragionatori severi appariscono più eloquenti che filosofiche, e
mostrano maggior cura del bel dire che del corretto pensare. Cicerone adunque
sempre intento alla eloquenza e sempre caldo d'una immaginazione vivace e
feconda e d'una voglia ine sausta di meraviglie rettoriche, e sempre frettoloso
per la moltitudine dei gra rissimi affari, trascorse e quasi sfiorò le nozioni
filosofiche, e divenne gran dissimo nel dipingere, nell'adornare e nel persua dere;
ma nel vigore del discorso e del giudizio e nelle sottili distinzioni del vero
e del falso parve che le più volte l'oratore fosse smisuratamente più grande
del filosofo. Gli è però vero che nel silen zio delle lettere forensi e
senatorie, e nell'ingenuo ozio in cui la usurpazione di pochi lasciava i grandi
uomini di Roma, Cicerone ottenne dalla disgrazia questa utilità, che
riposatamente e liberamente me dità e scrisse argomenti filosofici, e massima
mente si esercitò nella parte teologica e morale cui appartengono i libri
notissimi della Natura degl'Id dii, della Divinazione, del Fato, del Sogno di
Sci pione, dei Fini, della Vecchiezza, dell'Amicizia, delle Leggi, degli
Uffizj, le Disputazioni Tuscula ne, i Paradossi Stoici e le Quistioni
Accademiche; nelle quali si argomentd particolarmente a distrug gere i greci
sistemi alla maniera di Carneade, e pa lesò il suo. Coopose ancora l'Ortensio
ossia l'Am monizione alla Filosofia, e i libri della Repubbli ca, che sono
perduti. Ma per quanto ozio egli avesse e per quanto meditasse, non seppe mai
di vezzarsi dall'esagerato linguaggio oratorio, e di lui usd pomposamente nella
esposizione de sistemi e delle ragioni filosofiche; e poi vi aggiunse i suoi [Cicerone
De Off.; Cicerone ne fa memoria, De Fin.; De Div.; Tusc. Disp.; Agostino De
Civ. Dei e Lattanzio] amori e i suoi odj per certe scuole, e questi an cora
rettoricamente amplifico; e per giunta di am biguità gli piacquero le
platoniche forme de' dialo ghi e le accademiche dispute e le confutazioni per
ogni parte e gl'inclinamenti ora ad un lato, ora ad un altro; donde risultarono
equivoci e dubbj e opi nioni diverse intorno alla filosofia. Ma noi pensia mo
di poter mettere alcun ordine in tanto invi luppo ragionando di questa guisa. -
Non fram mezzo alle pompe eloquenti delle orazioni e alle asluzie forensi, e
non tra le epistole di complimen lig di raccomandazioni, di condoglienze, di affari,
nè tra i parlamenti e i dialoghi di uomini ora epi curei, ora stoici, ora
peripatetici passionati, è da cercarsi la filosofia di Cicerone, siccome alcuni
fe cero e fanno incautamente, ma è giusto rintrac ciarla in que' luoghi delle
sue opere filosofiche ove egli parla in persona e sentenza sua propria. —Cio
statuito, ascoltiamo Cicerone medesimo, il quale senza equivocazione e mistero
alcuno ci racconta ch'egli professa la filosofia della nuova Accademia;
perciocchè a coloro che si meravigliavano come egli principalmente approvasse
quellafilosofia che toglie la luce e quasi sparge una nottesopra le co se, e
protegesse impensatamente una disciplina de serta, egli risponde: « Non
imprendiamo già noi « il patrocinio di cose deserte. Questo metodo, per « cui
si disputa di tutto e non si giudica aperta « mente di niente, nato da Socrate,
ripetuto da « Arcesilao, confermato da Carneade, invigorì fino u alla nostra
età; il qual metodo ascolto essere u ora abbandonato in Grecia, il che io credo
av « venuto non per vizio dell'Accademia, ma per pi u grizia degli uomini:
mentre se gran cosa è ap prendere alcuna disciplina, quanto è maggiore u
apprenderle tutte ! la qual cosa è necessario che quelli facciano, i quali
hanno proposto per la investigazione del vero disputare contro tutti i «
filosofi e a favore di tutti; e questa difficile fa « coltà non penso io di
avere acquistata, solamente u penso di averla seguita. Nè già noi a questa gui
u sa filosofando, riputiamo, niente esser vero, ma piuttosto al vero essere
congiunto il falso con « tanta rassomiglianza, che manchi il certo criterio «
di giudicare e di assentire; dalle quali dottrine siegue questo precetto, nolto
essere il probabi le, il quale benchè non sia bene compreso, non pertanto
avendo certo uso insigne ed illustre, « dee governare la vita del savio. E
altro ve: « Io vorrei (egli dice ) non a nome di Attico, di Balbo o di Vellejo,
ma a suo, che fosse ben u conosciuta la nostra sentenza; imperocchè non « siamo
noi vagabondi nell'errore, nè manchiamo « di quello che è da seguirsi; poichè
quale sarebbe « la mente e quale la vita, tolta la regola del di sputare e del
vivere? Ma noi, ove gli altri dicono u alcune cose certe, alcune incerte,
dissentendo da essi, altre diciamo probabili, altre improbabili. « Perchè
adunque non potrò attenermi al proba « bile e riprovare il contrario, e
dechinando dalle « arroganti affermazioni, fuggire la temerità, che « è tanto
lontana dalla sapienza? Ma i nostri Ac « cademici disputano contro ogni
sentenza, peroc « chè questo lor probabile non può risplendere se « non si fa
contesa per l' una parte e per l'al « tra. » Oltreacciò egli c’invita a leggere
le sue Quistioni Accademiche, ove questi propositi erano esaminati più
diligentemente; cosicchè può dirsi che quando egli ne'suoi Dialoghi disputa [Cicerone
DeNat. Deor.; De Off.; Tusc. Disp.; De Div.; Cicerone, Acad. Quaest.] per le
parti accademiche, parla in propria perso na, e quindi par fuori di ogni
dubitazione che egli è nel metodo di quegli Accademici che ogni cri terio
poneano nella probabilità. Di qui s'intende com ' egli ora si attemperava agli
Stoici, ora ai Pla tonici, ora ai Peripatetici, senza abbandonar l'Ac cademia;
perché ove cercava i doveri dell'uomo e le leggi sociali, trovava maggiore
probabilità nelle dottrine del Portico; e dove investigava i principi delle
cose e trattava la psicologia e la teologia, credea forse trovarla maggiore nel
Platonismo e nel Peripato; e dove di queste e di altre filo sofie disputava e
ne bilanciava le vantate eviden ze, sospendea il giudizio ed era Accademico; e
così pure quando persuadeva il popolo e il senato, pas sava a grande suo comodo
nelle sentenze contra rie, e non avea ribrezzo alcuno di contraddirsi ac
cademicamente. La moda del Foro era di potere essere Accademico Probabilista,
ed egli serviva alla scena, e lo era con gli altri. Cicerone adunque così
disposto tratto di tutte le parti della filosofia ove più diligentemente, ove
meno. E certamente egli coltivò la logica e la in segnò con gran cura ne' suoi
Libri Rettorici, ma a sua maniera, vuol dire per servigio della eloquen za e
del Foro. Parve chepensasse con Socrate non essere molta la utilità della
fisica per la probità e beatitudine della vita. Conobbe tuttavia i mag giori
sistemi antichi, e vide nella rimota vecchiaja della filosofia certe nozioni
che si vantano scopri menti di questi ultimi tempi, come il moto della terra,
gli antipodi, la gravitazione o attrazione uni versale, che tiene il mondo
nell'ordine. Ma nella [De Off.; Tusc. Disp.; De Nat. Deor.; Acad.' Quaest.; De
Nat. Deor.; Acad. Quaest.] naturale teologia e nella morale pose ogni sua cu ra.
« È fermissimo argomento della esistenza d'Id « dio (egli dice ) che niuna
gente sia tanto fiera e « niun uomo tanto crudele, che non serbi nell' a. w
nimo la opinion degl'Iddii;e questo consenso di a tutte le genti dee riputarsi
una legge di patu « ra. La bellezza del
mondo e l'ordine delle cose « celesti stringe a confessare una prestante ed
eter a na natura, e un fabbricatore e moderatore della « grand' opera, il quale
è da immaginarsi come « una mente sciolta e libera e segregata da ogni «
componimento mortale, che tutto sente e muo « ve, ed è fornita di moto
sempiterno, e come a un maestro e signore che le celesti e le terrene « ed
umane cose e tutto l'Universo amministra, sen « za la cui provvidenza quale tra
gli uomini sarebbe « pietà, quale santità, qual religione? le quali virtù
tolte, sorgerebbe il disordine e la confusion della u vita, e non rimarrebbe
società alcuna nel genere « umano. Io così mi persuado e così sento, che «
tanta essendo la celerità degli animi e tanta la « memoria delle cose passate e
la prudenza delle future, e tante le arti e le scienze e le scoperte, quella
natura che le contiene non può esser mor « tale; e semplici essendo gli animi e
senza mi « stura, é movendosi per sè medesimi, nè possono « dividersi e
dissiparsi, nè cessare di moversi; ed « essendo celesti e divini e sempre
desiderosi della - immortalità, non possono essere ingannati dachi « li
produsse, e debbono essere eterni (6). E quindi [Cicerone Tusc. Disp.; De Nat.
Deor.; De Div.; Tusc.; Tusc. Disp.; De Fin.; ; Acad. Quaest.; De Nat. Deor.; De
Repub.; De Senectute; De Senect. et Tusc.] gmni su stenza 1: anto fra serbi mi
Consen ne deres ante de erator& ginarsi az ata dan ente en, es e le to
pinista i miniars le quali pfusica ja nelset si senta je tapis denta 1 comechè
Cerbero tricipite e il fremito di Cocito u e il tragitto di Acheronte sieno
favole senili, deb « bon perd rimanere dopo la morte i premj e le pe. ne, e
quelle due socratiche vie per cui gli empj si « dividono e i buoni si
congiungono agl' Iddii. - Su questi grandi principj egli collocò l'edifizio del
naturale diritto e di tutta la morale; e primie ramente dalla eterna ragione e
volontà' di Dio, e dalla comune ragione degli uomini, e dalla natura e relazion
delle cose dedusse la origine e la realità e l'autorità e la obbligazion d'un
naturale e pub blico diritto. - « La legge (egli dice ) è un eterno impero che
governa l'Universo con la sapienza del comandare e del proibire, ed è la mente
di « Dio che costringe e divieta; e non solamente è più antica della età de'
popoli e delle città, ma eguale a quell' Iddio che difende e regge i cieli e «
le terre. La mente divina non può esser senza ra gione, nè la ragione divina
può esser senza la « forza di fermare le cose giuste e le ingiuste. Una legge
sempiterna fu sempre e una ragione appog u giata alla natura delle cose; la
quale non allora che fu scritta, cominciò ad esser legge, ma al « lora che
nacque, e nacque insieme con la mente divina; il perchè la legge vera e
primaria, idonea á a comandare e a proibire, è la diritta ragione del « sommo
Giove; la quale non è legge scritta, « ma nata, e la quale non abbiamo
imparata, non ricevuta, non letta, ma l'abbiamo attinta dalla « medesima natura
e dalla comune intelligenza, per u cui giudichiamo il diritto e il torto, è
l'onesto e il turpe; imperocchè estimar queste cose dalla BST PEN ne par 2017
depositse. Em opinione, non dalla natura, è stoltezza [Tusc.; De Ainic; De Nat.
Deor.; De Leg.; Pro Milone; De Leg. Io non posso astenermi dalla ricordanza di
quelle parole memorabili di Cicerone nel terzo libro della Repubblica, le quali
da Lattanzio ci furono conservate. La retta ragione è certamente la vera legge
consentanea alla natura diffusa in tutti, co « stante, sempiterna, la quale
comandando chiama « al dovere, e ci spaventa dalla frode vielando. « Niente è
lecito toglier da lei, niente cangiare, e « molto meno abborrirla. Nè dal
senato, nè dal popolo possiamo essere sciolti da questa legge, w nè altro
dichiaratore o interprete è da cercarsi; « nè altra legge è ad Atene, altra a
Roma, ma ella « sola ed una, sempiterna ed immutabile governa « in ogni tempo
tutte le genti, e uno è il comune « quasi maestro e comandante di tutti, Iddio.
Egli è di questa legge l'inventore, il disputatore, il pro mulgatore, al quale
chi non obbedisce fugge sè « stesso e disprezza la natura dell'uomo, e per que
« sto istesso paga massime pene, quantunque sfugga « tutti quegli altri eventi
che si riputano supplizj." - Oltre questi nobili conoscimenti della
origine, del fondamento, della realità, della forza, della im mutabilità delle
leggi naturali, Cicerone conobbe la utilità della religione nella società; di
che niuno vorrà dubitare (egli dice ) che intenda come sien molte le cose che
si ferman col giuramento, e quan ta salute apportino le religioni de' patti, e
quanti sieno distolti dalla scelleraggine per timore del di vino supplizio, e
quanto sia santa la società di que' citladini che fra loro interpongon gl'Iddii
come giu dici e testimonj. Egli conobbe ancora la sanzio ne ossia la intimazion
della pena contro i violatori, senza cui le leggi non avrebbon forza di
obbligare, (Lallanzio Div. Inst.; De Leg.] .ma diverrebbono avvisi e consigli;
e non ebbe so lamente quella sanzione come una conseguenza aa turale della
colpa, ma come una vera imposizion di castigo, se non in questa, certo nella
vita av venire, siccome già sopra abbiam divisato. Co nobbe egli non meno
quella così semplice e cosi vera divisione del codice della umanità in doveri
verso Dio, verso noi medesimi e verso la società; e insegnò che la filosofia
dono e ritrovamento di vino ci erudisce nel culto degl'Iddii, e poi nel diritto
degli uomini posto nella società del genere umano: che l'uouo non è nato a sè
solo; che anche parte di lui ne domanda la patria e parte gli amici: che gli
uomini sono prodotti per gli uomini acciocchè si giovino a vicenda; e che
debbono ricevendo e dando permutare gli uffizj, e con le arti, con le le
facoltà stringere la compagnia degli uomini con gli uomini. Questa succinta
immagine della giure prudenza e della morale di Cicerone offre nella sua
medesima brevità una idea molto elevata e molto magnifica e superiore a quante
opere di antichi uo mini giunsero a noi in questo argomento, e forse a quante
mai furono composte prima di lui. Tutta volta non è già vero che la morale
Ciceroniana con tenga una disciplina compiuta, e discenda con per fetto ordine
e verità in tutti i particolari; percioc chè anzi con buon accorgimento fu
avvertito essere diffettuosa in assai parti necessarie, e gli argomenti nella
maggior parte esser trattati leggiermente, e per decisioni assai rigide
palesarsi che il severo giu reprudente non conoscea i verj principj donde po
teano di dursi gli scioglimenti di certi casi. Ma con tutto ciò neppure è vero
che Cicerone ne' suoi opere, con [Ubner Essai sur l'Hist. du Droit Nat.; Tusc.
Dis.; De Oll.; Barbeyrac Pret, à Pufendorf.] 0 trattati di morale fosse un
Pirronista, e nelle sue dispute di naturale teologia un distruttore di tutte le
religioni. La primaimputazione assume per fon damento che Cicerone avendo
statuiti i principi della morale, prega l'Accademia di Arcesila e di Carneade
perturbatrice di tutte queste cose a ta cersi, perchè volendo assalire i
principj che sem bran così bene composti, fara troppe ruine, e desi dera
placarla, e non ardisce rimoverla. La se conda accusazione è dedotta da quello
spirito di dubitazione che domina in tutte le sue opere e sin golarmente nei
libri della Natura degl Iddii, ove mostra gran voglia di confutare e deridere
tutte le antiche dottrine della Divinità, e concede alla fine tutti i trionfi
all'Accademico Cotta. Al che si ag. giunge unagrande incostanza e può dirsi
contrad dizione nell'affare gravissimo della immortalità de gli animi;
perciocchè in molte epistole sue, nelle quali scopertamente parlava co' suoi
amici, o du bita di quella immortalità, o rappresenta la morte come l'ultimo
de' mali e il fine delle sensazioni e di tutte le cose (2). Noi, per quello che
dinanzi si è avvertito, dobbiam consentire che Cicerone fu Accademico, e non
altro conobbe che sole proba bilità; nel che certo errò gravemente, e grande
fra gilità iufuse in tutto il suo sistema teologico e mo rale: tuttavolta
perchè al suo probabile diede la forza e l'autorità che noi diamo al vero e
all' evi dente, riparò un poco il dauno che fin d'allora il Probabilismo
minacciava. Fuori di questo errore, egli molte affermò di quelle medesime
verità che [Ciecrone De Legibus; Barbeyrac; Ep. Fam.; Ad Attic.; Bayle art.
Spinoza, M., e Cont. des Pens.div.; A. Collin De la liberté de penser; Buddeo
De l'Athéisme] noi stessi affermiamo, e nel naturale Diritto molte ne vide di
quelle ancora che furon vantate come scoprimenti del nostro fortunato secolo,
di che po tremmo tenere amplissimi discorsi se qui fosse luo go. Egli veramente
sparse assai dubbi e molte risa sulle teologie antiche, e non era nel torto.
Tenne ancora ragionamenti ipotetici intorno alla immor talità degli animi; e
alcuna volta scrivendo a tali che la negavano, si attemperò alle loro opinioni
per consolarli e persuaderli più speditainente. Per altro, quando fu sciolto da
siffatti riguardi, parlò di que sti argomenti con quella dignità che abbiam rac
contata.Adunque nè Cicerone fu di quegli Ateinè di quei Pirronisti esagerati
che non conoscono Di vinità e moralità nè vera nè probabile. Non si vuol qui
tralasciare che la scuola pirronica o scettica, sia che fosse oscurata dalla
modestia e serietà del l'Accademia, sia che la fama di negligenza, di stra
nezza e di stolidità la mettesse a pubblico disprez zo, non ebbe accoglienza
niuna tra i Romani; di forma che uncerto Enesidemo da Gnosso intorno all'età di
Cicerone avendo tentato in Alessandria di sollevare dalla dimenticanza lo
Scetticismo, e con questo intendimento avendo scritti più libri pirronici, che
intitold a L. Tuberone uoino prima rio tra i Romani, nè gli sforzi dello
scrittore nè l'autorità del Mecenate valsero a far leggere que libri e a
persuadere amore per quella filosofia. Donde si prende un nuovo argomento che
Cicero ne, il quale raccolse tutti gli applausi di Roma, non potè essere
Pirronista. Per questa descrizione della romana filosofia si conosce che tutto
lo splendore di lei si restrinse alla età di Cicerone, e si rinnova. [Menagio
in Laertium; Brucker De Phil. Rom.,
quella meraviglia come i grandi uomini appariseo no insieme ad un tratto, e poi
sopravviene la bar barie che li prevenne. Prima di quei dotti uomini che
vissero in compagnia di Ciceroneo poco prima, i Romani eran tutt'altro che
filosofi. Dappoi dechino la filosofia, come la eloquenza e la latinità. Noi an
cora siccome abbiam ricevuto, così possiamo tras mettere alla posterità gli
esempi vicini e forse pre senti di queste subite mutazioni. Prima che Cicerone,
compiuta la sua questura partisse dalla Sicilia, aind di conoscere le rarità di
quella isola, e visitò singolarmente Siracusa, città per gloria di armi e
dilettere nobilissima. Quivi presso la porta Agrigentina tra i vepri e gli
spineti vide una colonnetta, nella quale era la figura di una sfera e d'un
cilindro, e per tai segni scoperse quello essere il sepolcro diArchimede, e
mostran dolo ai Siracusani che l'ignoravano, molto si ral legrò che se un uomo
Arpinate non avesse disco perto il monumento di quell' acutissimo cittadino,
essi per avventura sarebbon rimasti al bujo. Da questa narrazione prendiamo
opportunità di ono rare Archimede Siracusano, il quale tuttochè av volto in un
silenzio ingrato degli antichi e dei mo derni scrittori e in una negligenza che
move lo sde gno, anche tra i pochi e dispersi frammenti appa. risce il maggiore
di quanti matematici e meccanici avanzino nelle memorie di tutta l'antichità.
Forse Cicerone Tusc. Disp. lib. V, 23.alcuni si meraviglieranno che noi
disordinatamente prendiamo a scrivere di Archimede dopo Cicerone, che fiorì
quasi due secoli dopo di lui. Ma sappiano cotesti autori cronologisti che non
abbiamo finora trovato parte più opportuna ove allogare un uomo che non ebbe
vaghezza di setta alcuna nè greca ne romana, e la ebbe piuttosto di essere
filosofo da sè; e poi sappiano che senza bisogno non vogliamo essere rigoristi
in cronologia, e sappiano in fine che se è pur un errore trasportare la memoria
di Ar chimede a dugento anni dappoi, io credo certo che sia errore molto più
grande trasportarla nel vuoto, siccome gli Stoici della filosofia usaron
finora. Nac que adunque questo divino ingegno, siccome Cicerone lo nomina,
intorno all'anno ccccLvII di Roma; e o ch'egli fosse della regia stirpe di
Gerone re di Siracusa, o che fosse un umile omuncolo fatto chiaro dalla verga e
dalla polvere, vuol dire dalla geometria, o che fosse nudo di ricchezza e
solamente pago di ben intendere i cieli e le ter re, non superbo e non depresso
per niente di quelle varie fortune, cercò nella sapienza la nobiltà e la
grandezza della sua sorte. Le matematiche pure e le applicate all'utile della
patria e alla felicità della vita furono la sua cura perpetua. Nella mi sura
delle grandezze curvilinee, argomento allora nuovo o poco famigliare agli
anteriori matematici, aperse incognite strade e immaginò metodi fecon di, che
appresso germogliarono ampiamente e fu rono i semi e, per testimonianza di
Giovanni Wal lis, i fondamenti di tutte le invenzioni onde si vanta la nostra
età. Sono già note le sue scoperte nelle [Tusc. Disp.; Plutarco in Marcello; Cicerone,
Tusc. Disp.; Silio Italico de Bello Pun.] misure e nelle proporzioni della
sfera e del cilin dro, di cui tanto si compiacque, che volle scolpite nel suo
sepolcro quelle due figure come caratteri di singolar distinzione. Sono ancor
note le sue spe culazioni intorno alla conoide e alla sferoide, e la quadratura
della parabola, e le proprietà delle spi rali; e queste cose, onde si crede che
molto si di latassero i confini dell'antica geoinetria, Archimede Irattò in
libri che tuttavia esistono, quali sono, della Sfera e del Cilindro, della
dimensionedel Cir colo, della Conoide e della Sferoide, del Tetra: 0 nismo,
della Parabola, delle Linee spirali, a cui come opera teoretica si può
aggiungere l'Arenario Ossia del Numero delle arene; nel quale trattato,
supponendo ancora che l'Universo ne fosse pieno, calcolo quel numero contro
l'opinione di tali che lo riputavano infinito. Lode eguale e forse mag giore
ottenne Archimede allorchè le astrazioni geo metriche condusse alla pubblica
utilità; e sebbene io non sappia indurmi a credere ch'egli fosse il creatore
della meccanica, mentre studiò pure in Egitto, ove ognun sa che la meccanica
non potea esser negletta; tuttavolta egli fu certamente assai benemerito di
questa facoltà. Nei due celebri suoi libri che tuttavia esistono, l'uno
intitolato degli Equiponderanti, e l'altro dei Galleggianti, ovvero delle cose
che nuotano o che si traggono per li fluidi, egli stabilì i principj statici ed
idrostatici, ai quali dicono che siamo debitori della presenteesten sione de'
nostri scoprimenti; e aggiungono che Ar chimede istesso dando assai
contrassegni di altis sima penetrazione in questo genere di studj, mo [Claudio
Francesco de Chales in Cursu Math.; de Progressu Maibes.; Giammaria
Mazzucchelli Notizie intorno ad Archimed ”, e Moniucla Ist. delle Malem.; Montucla]
strò che avrebbe potuto pervenire a questa nostra estensione medesima, se non
si fosse rivolto ad al tri pensieri. Il re Gerone avendo affidata ad un
artefice una massa di oro perchè lavorasse una co rona dedicata agl' Iddii,
venne a sospetto che il buon artefice gli avesse fatto furto; onde impose ad
Archimede che studiasse di conoscere la verità. È fama che il matematico
entrato nel bagno si avvide che quanto del corpo suo entrava nell'acqua, tanto
ne usciva; donde preso lo svoglimento della qui stione, uscì fuori tutto ignudo
e correndo gridava per via expriua evprzo, ho trovato ho trovato; e se condo
questo esperimento immerse la corona in un vaso pieno di acqua; indi
successivamente v'immerse due masse di egual peso, l'una di oro, l'altra di ar
gento, ed esaminò quant'acqua spandessero i tre corpi, e quindi conobbe quello
che investigava(3). Ma questo metodo, quando pur fosse possibile, non è
sembrato, e non è veramente degno della elevazione di Archimede; nè egli per
così poco sa rebbe fuggito via ignudo, nè Gerone avrebbe det to che dopo così
gran prova tutto era da credersi ad Archimede. È dunque più verisimile e più de
gno di lui, che avendo già egli nel suo Trattato de' Galleggianti stabilito
questo principio: i corpi immersi in un fluido vi perdono tanto del proprio
peso, quanto è un volume loro eguale del'fluido; di qui raccogliesse che l'oro
siccome più compatto vi perda meno del suo peso e l'argento più, e un misto
dell'uno e dell'altro in ragione del suo com ponimento. Bastava dunque pesare
nell' aria e nel l'acqua la corona e le due masse di oro e di ar gento per
ferinare quanto ciascuna perdeva del [Montucla; VITRUVIO] proprio peso, e dopo
questi passi il problema non avea più difficoltà per un uomo come Archimede.
Questo fecondo principio valse al valentuomo per la scoperta di molte verità
idrostatiche, le quali po trebbono leggersi nel lodato suo libro, se a questi
dì non fossero molto divulgate (1 ). Ben quaranta invenzioni meccaniche si
onorano col nome di Ar chimede (2); ma solamente alcune vanno errando disperse
negli scritti di antichi autori, e non fuor di ragione può credersi che secondo
lo stile usitato molte si abbian volute render mirabili col prestito di un gran
nome. Dicono di Archimede la chioc ciola, strumento ingegnosissimo e
utilissimo, per cui usando la propensione medesima del grave alla caduta si
produce la sua elevazione, e con tale or degno s'innalzano le acque ove
bisogna, e si asciu gano le navi e le terre. Sono però alcuni che lo credon più
antico di Archimede (4). L'organo idraulico portò già il nome di Archimede (5);
ma questo grato arnese benchè dia segno di musica perizia, è piuttosto un gioco
dilettevole che un ri trovamento sublime. Laforza infinita e la moltipli
cazione delle girelle furono poste fra le invenzioni di Archimede; ma altri
affermano, altri negano,? niuno ha migliori argomenti. Dammi fuori di qui ove
io fermi i piedi, e moverò dal suo luogo la terra, disse Archimede a Gerone. E
veramente ap presso ai suoi principj si posson in teoria immagi nar macchine le
quali rendano idonea una potenza minima a sollevare un peso inassimo. Nella pra
[Mazzucchelli e Montucla; Parpo; Pr.; Diodoro; Ateneo; Catrou e Roville Hist.
Rom.; Tertulliano De Animo; Plutarco in Marcello: Dic ubi consistam; caclum
terramque movebo.] tica Archimedle volle dar segno a Gerone che avreb be saputo
mettere ad effetto le sue promesse, e pri mieramente una grandissima nave tutta
carica, la quale non potea moversi senza molta fatica e as sai numero di
uomini, egli solo qutto e sedente, senza sforzo alcuno e coll' ordinario
impulso della mano aggirando l'ordegno suo, mosse e guidd co me gli piacque;
indi per comandamento del me desimo principe avendo disegnata e messa a per
fezione una molto maggiore e inolto meravigliosa nave, nella quale oltre le
parti usitate in siffatti la. vori, e tutte di estraordinaria sontuosità e
grandez za, vi erano giardini e peschiere e cisterne e acque correnti e sale e
bagni e fino una biblioteca, e poi vi sorgeano olto gran torri armate, e ai
loro luo ghi erano baliste e mani ferrate e altri strumenti da guerra per gli
assalti e per le difese, e di smo derato carico e di molto popolo era grave,
Archi mede non ostante la enormità di tanta mole, che tutti i Siracusani
insieme non valsero a smovere, fece per certo ingegno suo che il solo Gerone la
traesse in mare. È stato detto che questi rac conti ridondino di gran favola,
il che pud benesser vero; ma non penso che vi sia fondamento alcuno di
affermarlo. Vedute queste meravigliose opere il Re Siracusano sapientemente
avvisò di esercitare la stupenda fecondità di questo Genio tutelare di Si
racusa, e lo pregò a comporre ogni genere di mi litari strumenti per riparo del
regno e per offesa dell' inimico. Archimede, buon amico del suo Re e della sua
patria, siccome i sapienti sono o debbono essere, ubbidì volentieri. Questi
ritrovamenti bel lici furono inutili, mentre Gerone visse nella pace e
nell'amicizia de' Romani. Ma lui morto, arse una Plutarco in Marcello. Ateneo
lib. V. guerra molto crudele, e Siracusa fu assediata dal console Marco Claudio
MARCELLO, nobile capitano e rinomato per Viridomaro re de' Galli ucciso, e più
per Annibale da lui sconfitto più volte. Egli con oste gravissima e con gran
forza di navi e con macchine e con militari stratagemmi e con la fama di prode
e felice soldato strinse e assalì Siracusa per terra e per mare. In tanta
fierezza di arma mento i Siracusani furono presi da tacita paura e da terrore.
Archimede solo non ismarrì, e vepne con le sue macchine a ricomporre i cuori
dissipati de cittadini, e a sostenere la patria, e a mostrare a Marcello che un
filosofo potea esser maggiore del Re de' Galli e di Annibale, e bilanciarsi con
la forza e con la fortuna istessa di Roma. Per scienza e per avvedutezza di
questo uomo le muraglie di Si racusa erano guernite di copia incredibile di
bale stre, di catapulte e di altri macchinamenti per lan ciar dardi e palle e
sassi di ogni grandezza, e da vi cino e da lontano, secondo tutti i bisogni. Vi
erano ordegni che facendo cadere grossissime travi cari che di pesi immensi
sopra le galee e le navi nimi che, le abissava subitamente nelle acque. Vi
erano ancora certe mani di ferro con le quali si abbran cavano quelle navi e
quelle galee e si levavano per aria, e poi si lasciavancadere tutte subito con
som mersione e ruina, e altre volte si traevano a terra e si aggiravano e si
stritolavano nelle rupi, su cui stavanle mura della città. Dietro queste mura,
che in più luoghi erano pertugiate, stavano scorpioni tesi a cogliere i nemici,
che per isfuggire dai lan ciamenti lontani si avvicinavano, onde non rima nea
luogo sicuro dalle offese; e Marcello colpito da tutti i lati senza saper
d'onde e come, usa va dire: Questo geometra Briareo sorpassa ben molto i
Giganti centimani; tante sono le vibrazioni sue contro di noi. I Romani in
terra e in mare erano anch'essi molto ben provveduti di macchine mi litari, e
singolarmente sopra otto galee levavano certo congegno nominato per
similitudine sambu ca, con cui agguagliavano le mura e poteano in trudersi
nella citlà. Ma il Briareo Siracusano lanciò alcuni sassi gravi oltre a
seicento libbre, e battute quelle sambuche, le rovesciò con grande strepito e
danno.. In somma un solo vecchio geometra rendè Siracusa invincibile, e confuse
il valore di Roma e il miglior capitano che ella avesse in que' giorni. Gli
assalitori furono stretti a rimetter molto della loro baldanza e ridurre ad un
lungo blocco quella tanta vivacità di assalti. Appresso non si parld più di
Archimede, e Siracusa fu pre sa, e il suo invito difensore, quasi dimentico
della patria e di sè stesso e ozioso nella pubblica ruina, si fece ammazzare
per fatua ostinazione nel dise gno d' una figura di geometria. Io non so bene
se sia troppa offesa di gravi narratori gettare tra le fa vole queste
sconnessioni attribuite al più connesso uomodel mondo. Forse per liberare
Archimede da cosiffatte inezie e quasi deserzioni nel maggiore bi sogno della
patria, alcuni pensarono di riempiere questo vuoto col meraviglioso racconto
dell'incen dio delle navi di Marcello con gli specchi ustorj. Un medico
riputato grande (4), un istorico medio cre
e un picciol poeta furono i divulgatori di quel famoso incendio. Ma la
tenue autorità di cosiffatti uomini non vale per niente a fronte del [Livio;
Polibio Excerp.; Plutarco; Folard, Commento sopra Polibio; Polibio e Plutarco; Cicerone
De Fin.; Livio; Galeno De Teinp; Zonara; Tzetze Hist.] silenzio di Livio, di
Polibio e di Plutarco, i quali diligentemente avendo scritto della guerra
siracu non avrebbono mai taciuto unavvenimento tanto stupendo, e insieme di
tanto ammaestramento nell'arte della guerra, così nel guardarsi da quegli
specchi incendiari, come per usarne contro i nimi ci; e certo io credo che se
quel terribil metodo fosse stato veramente messo ad effetto, non sareb bono
mancati imitatori, e l'armata navale di Mar cello non sarebbe stata la sola
incendiata. Noi me. desimi, studiosissimi quanto altri di spopolare il mondo
con le militari invenzioni, non avremmo, io credo, all'economico e facile
artifizio di Archimede anteposti altri dispendiosi e incomodi metodi. Molti
veramente hanno studiato assai nella catottrica per trovar modo di suscitare
quel funesto esperimento, e alcuni son giunti a provare che certo con un solo
specchio di convessità continua o sferica o parabo lica non era possibile
quell' incendio in tanta di stanza, ma era ben possibile con molti specchi pia
ni; e tra altri in questi ultimi giorni il Buffon com pose uno specchio formato
diquattrocento specchi così disposti, che tutti riflettevano i raggi ad un
punto comune; e questo adunamento nella distanza di centoquaranta piedi
liquefaceva il piombo e lo stagno in corto tempo, e in distanza maggiore in
ceneriva il legno, il che parve che mostrasse pos sibile il metodo di Archimede:
ciò non ostante queste pratiche per ostacoli non superabili giaccion neglette,
e le nostre armate navali si distruggono a vicenda con altro, che con raggi di
sole. Non è le cito partire dalla istoria di Archimede senza dire alcuna cosa
de' suoi studj astronomici, e di quella [Kircker Ars magna lucis et umbrae; Buffon
Mém. de l'Acad.; Montucla] tanto celebre sfera e tanto lodata dai poeti, dagli
oratori, dagli stoici e, ciò che più vale, dai filo sofi. Era questa una
macchina o di rame o di bronzo o di vetro, la quale o a forza di aria o di
acqua, o di ruote e di molle e di pesi o di forza magnetica, o di altri ingegni
movendosi, esprimeva tutti i rivolgimenti e i fenomeni celesti, senza eccet
tuarne finanche i tuoni e i fulmini; e secondo alcuni rappresentava questi
movimenti secondo il sistema Copernicano. Le quali cose, se sono vere, come
possono essere, attese le altre grandi opere di quest'uomo, e massiinamente
perchè egli si compiacque assai di questo lavoro e di lui solo volle lasciar
memoria alla posterità con un libro intitolato Spheropeia, che si è poi
smarrito, pos siamo raccogliere con nuovo argomento, se altri pur ne
mancassero, che nelle scienze più utili l'an tichità davvero ne sapea almen
quanto noi(4 ). Mol. te edizioni furono promulgate delle opere di Archi mede, e
illustri uomini o in tutto o in parte le ador narono con somma diligenza, fra i
quali si distin sero assai Borelli, Wallis, Barow, Tacquet e Torricelli. Oltre
le pubblicate vi è memoria di al tre scritture di Archimede, che si dicono
ascose in qualche biblioteca, come della Frazione del cir colo, della
Prospettiva e degli Elementi di Mate matica; o perdute affatto, come de'
Numeri, della Meccanica, degli Specchi comburenti, della Nave [Ovidio Fast.; Claudiano
Epigr.; Cicerone De Nat. Deor.; Tusc.; Sesto Empirico con. Math.; Lattanzio; Franc.
Giunio Cath.'Archit. mechan. ec. Cardano, Vos. sio, Kircker; Mazzucchelli; Cardano
De Subtilitate; Pappo; Fabrizio Bibl. Graec.; Mazzucchelli] di Gerone, della
Archiettura, degli Elementi Co nici, delle Osservazioni celesti. E nel
proposito di questa ultima opera è bene ricordarci che Ma crobio accenna certo
metodo con cui Archimede pensò di avere misurate le distanze della terra dai
pianeti e dalle stelle, e di queste di quelli fra loro. Ma qual fosse quel
metodo non è scritto, che sa rebbe molto grato a sapersi. — In questa breve, ma
non iscorretta nè vana immagine degli studj di Ar chimede noi vediam un uom
serio, che non dise gna sistemi sul vuoto e non fa calcoli inutili, e non va
sempre oltre senza saper dove vada; ma che studia le forze e gli effetti della
natura, e trascura l'ignoto e si ferma sul certo, e di questo usa per utilità
de' suoi cittadini e per accrescimento della pubblica felicità. Invitiamo a
rallegrarsi quei filo sofi e quei matematici che somiglian questo grande
esemplare. E preghiamo a correggersi quegli altri che pensano sempre e non
operan mai, e mentre divagano per sentieri che non riescono a fine al cuno, e
mentre ostentano linguaggi che il più de gli uomini e talvolta essi medesimi
non intendono, non sanno poi levare un peso di alquante libbre,o tenere un po'
d'acqua disordinata senza impoverir le famiglie e le città, e senza amplificare
i mali con la perversità de' rimedj. Dopo la battaglia di Azzio C. Cesare
Ottaviano Augusto divenuto re senza prenderne il nome, chiuse [Fu stamprlo un
libro da Giovanni Gogava degli Specchi Ustorj, da lui tradotto dall'arabo, e un
altro intitolato Lemma ta; ma non sono estimati degni di Archimede. - Montucla
e Mazzucchelli II. cc. il tempio di Giano e arò la pace e le lettere. La sua
età ebbe ed ha tuttavia la lode del più collo e più letterato tempo di Roma; al
qual vanto io so certo che Lucullo e Attico e Cicerone repugnerebbono, e non so
come non repugniamo noi stessi. Impe rocchè gli è ben vero chenon solamente
Roma era già assuefatta alla filosofia e non potea divezzarsi così
d'improvviso, e che Augusto anch'egli secondo la consuetudine romana fu amico
de filosofi ed en trò vincitore in Alessandria tenendo per la mano il filosofo
Areo, per cui amore non distrusse quella città, e poi ebbe assai caro Atenodoro
di Tarso e lo ascolid attentamente, e quindi avvenne che la filosofia seguì a
coltivarsi nella nuova' dominazione, e per costume e per desiderio di applauso
e per cortigianeria fiorirono a quei di molti uomini sapienti: tutta volta io
non so vedere in quella età i gran simulacri che si videro nel fine della repub
blica, e vedo anzi che come tutti i costumi ro mani, così anche la filosofia
piegò a mollezza, e quindii poeti assunser la toga filosofica e otten nero gli
applausi maggiori, a tal che la istoria let teraria della età di Augusto
sarebbe assai tenue senza questi poeti, de' quali adunque sarà mestieri
scrivere in primo e quasiin unico luogo. Publio Virgilio Marone, nato nel
contado man tovano, con estraordinario ingegno poetico studiò di piacere ad
Augusto e a Roma; e conoscendo che a riuscire nel suo desiderio era mestieri
condire le sue poesie con dottrine filosofiche, così fece, e salì alla gloria
di Bucolico e di Georgico eguale ai Greci, e di Epico secondo alcuni riguardi
mag giore di Omero, e quello che è ora nel nostro Svetonio in Augusto et
Claudio. Plutarco in Antonio. Seneca Cons. ad Helviam. Luciano in Macrob. Zosimo; Baillet Jug. des Scayans,
des Poét. Lat. proposito,di poeta filosofo. Mainvestigandosi poi di quale filosofia si dilettasse,
insorser varie sen tenze. Alcuni lodissero Epicureo, perchè ascolto Si rone
maestro di quella scuola, e perchè un tratto racconto che l'orto Cecropio
spirante aure soavi di fiorente sapienza lo cingea con la verde ombra; e
altrove condusse Sileno briaco a cantare come nel gran vuoto si adunassero i
semi delle terre, dell'aria, del mare e del fuoco; e in altri versi nomninò felice
colui che potè conoscere le cagioni delle cose, e calpestò tutti i timori e il
Fato ine sorabile e lo strepito dellavaro Acheronte: nelle quali parole
l'Epicureismo parve evidente ad al cuni; mentre ad altri l'orto Cecropio e il
peda gogo di Bacco e i semi nel vuoto parvero equivoci e scherzi di poesia, e
il Fato e l'Acheronte calpe stati e comuni ad altre filosofie non sembrarono
argomenti di Epicureismo; massimamente perchè nello stesso tenore di canto il
poeta disse anche felice colui che conosce gl’iddii agresti Pane e il vecchio
Silvano e le Ninfe sorelle (4), che di vero non erano cose epicuree. Per queste
difficoltà fu soggiunto che Virgilio potea esser Platonico là dove insegnò il
compimentodella età vaticinata dalla Si billa Cumana, e il grande ordine de'
secoli, e i mesi dell'anno grande di Platone, e il ritorno di Astrea e di
Saturno e degli aurei giorni; il quale mescolainento io non credo certo che
Platone po tesse mai riconoscer per suo. Si abbandonò adun [Virgilio Ceiris.
Servio in Ecl. VI. P. Gassendo De vita Epicuri; Fabrizio, Bibl. Lat.; Virgilio
Ecl.; Georgic.; Georg.; Ecl.; Servio in h. I.; Paganino Gaudenzio De Phil. Rom.;
Brucker De Phil. sub Imp..] que questo pensiere, e fu estimato che Virgilio era
stoico, perchè narrò che vedute le ingegnose opere delle api, alcuni aveano
detto esservi parte della mente divina in esse, e Dio scorrere per tutte le
terre e per li tratti del mare è per lo cielo pro fondo, e dar vita a tutti i
nascenti, e tutti a lui ritornare e risolversi in lui, e non esser luogo d
morte, e tutti vivere nel numero delle stelle e nel l'alto cielo (1 ). Ma se
Virgilio ci narra che altri di ceano queste sentenze, non le dicea dunque egli
stesso. Anche nel sesto libro della Eneide, che è il più magnifico e più
profondo di tutto il poema, Virgilio conduce Anchise a filosofare della origine
e natura del mondo e degli uomini; e questa tro jana filosofia senzamolti
discernimenti fu messa a conto del poeta. Uno spirito dice il Trojano, in
ternamente alimenta il cielo, le terre, i mari e la luna e le stelle, e una
mente infusa per le mem bra agita tutta la mole, e al gran corpo si mesce.
Quindi scaturiscon tutti i viventi, in cui è ignea forza e origine celeste, per
quanto i nocenti corpi non li ritardano, e le terrene e mortali membra non gli
affievoliscono; onde avviene che desiderano e temono e godono e si dolgono, e
non mirano al l'alto, chiusi datenebre e in carcere oscuro. Dopo la morte
soffrono i supplicj degli antichi peccati: indi son ricevuti nell'ampio
Eliso,finchè per lungo tempo si tolgan le macchie, e ritorni puro l'etereo
senso e il fuoco del semplice spirito. Compiuto il giro di mille anni, un İddio
convocava gli animi in grandeschiera al fiume Leteo, perchè dimen tiche
rivedano il cielo, e comincino a desiderare i ritornamenti ne' corpi. Così
parld Anchise, e [Georg.; Æneid.] Virgilio fu accusato di Ateismo stoico da
uomini cheinsegnando sempre a non precipitare i giudi zj, li precipitarono essi
medesimimolto più spesso che non può credersi (1). Ma primieramente l'A teismo
stoico è una falsa supposizione, siccome ab biarno veduto in suo luogo; e poi
le parole spirito e mente she è infusa e che alimenta le cose, e il foco e
l'etereo senso sebben possano avere sentenza stoica, la possono anche avere di
altre scuole che fecero uso di simili formule. Inoltre quelle parole sono miste
agli Elisi e al fiume della Oblivione, e al millesimo Anno, e all'Iddio
evocatore degli animi smemorati, ma immortali a rigore; le quali giunte non
sono stoiche per niente. E in fine siccome Vir gilio apertamente ammonì, le
antecedenti parole della Georgica, che parvero stoiche, essere dial tri; così
dovrà dirsi in queste della Eneide, quando egli ancora non lo dicesse. Ma disse
pure che eran di Anchise, il quale qualunque uomo si fosse, e fosse ancora una
favola, certamente non era Virgilio. Dopo queste considerazioni, io molto mi
sdegno che uo mini non vulgari citino tutto giorno questidue passi come una
tessera dell'Ateismo stoico e dello Spi nozismo, e mi sdegno ancor più che si
producano come un argomento della empietà di Virgilio. Non essendo adunque
plausibile questa attribuzione, fu immaginato da altri che Virgilio amasse il
Pitago rismo, e da altri, che molto sanamente sentisse delle cose divine; il
che io non saprei come potesse provarsi. Ma un autor celebre prese a mostrare
che lo scopo di quell' incomparabile sesto libro della R. Simon Bibl. crit. P. Bayle Cont. des Pensécs sur
les Co mètes. G.G. Leibnitz Théodicée disc. prél. G. Gundling. Gun dliogiaol Brucker; Lattanzio; Cudwort System. intell.; Eneide
è la dipintura simbolica del sistema de misterj Eleusini e della unità di Dio,
e de' premj e delle pene nella vita avvenire. A persuaderci di questo nuovo
pensamento il valente autore con molto studiati riscontri d'antichità e con
bell'appa rato di dottrine incomincia ad insegnarci che la Eneide non è già una
favola inutile da raccontarsi ai fanciulli o da rappresentarsi agli oziosi
nelle lun ghe sere d'inverno, ma è un sistema di politica e di morale e di
legislazione, per cui si vuol dilet tarc e istruire Augusto che è l'Enea e
l'eroe del poema, e insieme tutto il mondo romano, e anche il genere umano
intero. Per la qual cosa il poeta assumendo il carattere di maestro in Etica e
di le gislatore, usa i vaticini e i prodigi per contestazione della Provvidenza,
e introduce ilsuo eroe intento ai sacrifici e agli altari e portatore degl'
Iddii nel Lazio, e pieno di tanta religione, che a taluno, cui piaceva di
averne meno, sembrò che Enea fosse più idoneo a fondareunmonastero,che un regno.
L'amicizia, l'umanità e le altre virtù
sociali entrano nel sistema di legislazione, e la Eneide n'è piena. Vi entrano
ancora i premj e le pene dopo la morte, e il poeta ne fa amplissime narrazioni.
Orfeo, Er cole,Teseo celebri legislatori furono iniziati nei mi steri, e le
loro iniziazioni si espressero simbolica mente con le discese loro all'inferno.
Cosi Enea le gislatore del Lazio si fa discendere all' inferno per significare
la sua iniziazione negli arcani Eleusini, ne' quali è noto che Augusto ancora
era iniziato. E veramente è grande la similitudine Ira le ceri monie eleusine
ei riti della discesa di Enea all in ferno. Il Mistagogo o Gerofanta, ora
maschio, ora Warburlou Diss. de l'Initiation aux mystères; Euremond presso il
Warburton. femmina, era il condottiere de proseliti, e la Si billa è la guida
di Enea. Proserpina era la Deità de' misterj, ed è la reina dell' inferno
Virgiliano; negl'iniziati si volea l'entusiasmo, e in Enea lo vuol la Sibilla.
Nel ramo d'oro sono figurati i rami di mirto dorati, che gl'iniziati portavano
e di cui si tessevan corone. L antro, l'oscurità, le visioni, i mostri, gli
ululati, le formole Procul esto, profa ni, si trovan comuni ai misterj e alla
Eneide, come sono ancora comuni il Purgatorio, il Tartaro e gli Elisi e le
esecrazioni contro gli uccisori di sè me desimi, contro gli Atei e contro altri
malvagi. Di cendo queste ineffabili cose, Virgilio domandaprima la permission
degl' Iddii: E voi, egli dice, Numi dominatori degli animi, e voi tacite
Ombre,e tu Caos, e tu Flegetonte, luoghi ampiamente taciturni per tenebre,
concedete ch'io parli le cose ascoltate, e col favor vostro divulghigli arcani
sommersi sotto la profonda terra e la caliginc Questa preghiera dovea ben farsi
da chi sapea gli spaventosi divieti che gl'iniziati sofferivano di non divulgar
mai la tremenda religion dell'arcano. Da quesli, che erano i piccioli misterj,
passa Virgilio ai grandi significati nella beatitudine degli Elisi. Enea si
lava con pura acqua, che era il rito degl' iniziati, allorché dai piccioli
erano elevati ai grandi misterj. Fatta la lu strazione, il pio Trojano e
l'antica sacerdotessa pas sano ai luoghi dell'allegrezza, e alle amene ver dure
dei boschi fortunati e alle sedi beate, ove i campi dal largoaere sono vestiti
di purpureo lilme, e conoscono il loro sole e le loro stelle. I legisla tori, i
buoni cittadini, i sacerdoti casti, gl’inven tori delle arti, e tutti que'
prodi che ricordevoli di sè stessi fecero con le opere egregie che altri si ri
Æncid.; cordasser di loro, quivi coronati di candida benda soggiornano. Queste
immagini erano mostrate ne' grandi misteri, come qui negli Elisi. Adunque le
pene e i premj della vita futura erano ! argo inento della istituzione
Eleusinia e del sesto canto di Virgilio. Finalmente la confutazione del Poli
teismo e la unità di Dio era figurata nello spirito interno alimentatore, e
nella mente infusa alle mem bra di tutta la mole, di che i nostri pii metafisici
agguzzaron tanti commenti. Così disse il dotto Inglese, a cui rendiamo onor
grande per la erudi zione e per l'ingegno, e mediocre per la rigorosa verità.
Ma comechè non consentiam seco in tutta la serie de' confronti, non sappiam
discordare che in quel libro diVirgilio e in tutto il suo poema non sieno
palesi gl'insegnamenti delle sociali virtù, de' premj e delle pene future, e
talvolta non apparisca alcun indizio di sublime dottrina nel sommo argo mento
dell' unica Divinità. Ora per la varietà di queste sentenze intorno alla
filosofia di Virgilio, e perchè già sappiamo che i begli spiriti e gli ora tori
di Roma nel torno di questa età trovavano as sai comoda quella filosofia, nella
quale era usanza prendere da tutte le scuole il verisimile e l'accon cio alle
opportunità, e non si metteano a colpa oggi essere Stoici e domane Epicurei, e
talvolta l'uno e l'altro insieme nel medesimo giorno; perciò noi portiamo
sentenza che ancora i poeti (lasciando stare quegli che strettamente cantarono
alcuna par ticolare filosofia, come Lucrezio e forse Manilio ) usarono le mode
istesse de' begli spiriti e degli ora tori; e servendo alla scena e al gusto
dominante e al comodo, e volendo piacere al genio superficiale di Augusto e
della sua corte, filosofarono alla gior [Encid.] nata e misero nei loro poémi
quella filosofia che l'argomento e il diletto chiedeano, pronti a met terne:
un'altra in bisogno diverso. Se noi vorremo domandare ai nostri poeti, come
trattino la filoso fia nei loro componimenti, risponderanno che gli aspergono
di Stoicismo quando parlano ai nostri Catoni, di Epicureismo quando lusingano i
dame rini e le fanciulle, di Platonismo quando adulano le pinzochere, senza
però giurare nelle parole di quelle scuole, anzi senza aver mai conosciuto a
fondo i loro sistemi. A tale guisa io ho per fermo che poetasse Virgilio, e gli
altri poeti della età di Angusto. Questo genere d' uomini fu sempre uso a
fingere molto e a dir quello che accomoda e piace, piuttosto che quello che
sentono. Quanto alla mo rale di Virgilio, tuttochè sia stata da alcuni solle
vata a grandi altezze, e sia veramente superiore assai alle dissolutezze degli
altri poeti di quella età, si vede in essa talvolta questo genio di scena e di
comodo poetico e di pubblico diletto. Non dispia ceano a Roma le vittime umane;
piaceano assai gli amori, e sommamente le conquiste e il sangue de' nemici.
Quindi egli conduce il suo eroe, chedicono essere il maestro della morale
virgiliana, ad inmo lare i prigionieri, a sedurre e tradire Didone, ad uccider
Turno supplichevole, a turbare e conqui star le altrui terre; e allorchè prese
a lodare M. Clau dio Marcello figlio di Ottavia sorella di Augusto, tutta
quella amplissima laudazione che fece pian gere il zio e svenire la madre e che
arricchì il poe ta, si rivolse finalmente nella cavalleresca e guer riera virtù
a cui non so se la filosofia non af [Lodovico Tommasini Méthode d'étudier
chrétiennem. les Poéles. R. le Bossu Du Poéme Épique; Du Hainel Diss. sur les
Poésies de Brebeuf.Jacopo Peletier Ari Puélique V. A. Baillet Jug. des Savans. Des Poétes Lalios.] fatto cortigiana vorrà senza
molte restrizioni con cedere questo bel nome.Si potrebbono amplificar molto le
querele filosofiche; ma in tanta copia di ornamenti e di lodi è giusto usar
moderazione ue? biasimi. ORAZIO, amico intimo e am miratore di Virgilio, fu non
meno di lui ornamento sommo della età di Augusto. Parve che questi due
incomparabili ingegni dividesser fra loro il regno poetico, e fedelmente si
contenessero nei limiti sta biliti, e l'uno non entrasse mai nella provincia
del l'altro. Orazio adunque ceduta la poesia bucolica, georgica ed epica a
Virgilio, assunse la satirica, la epistolare e la lirica; e cosi' i due amici
potendo essere sommi in tutti questi generi, amarono me glio esserlo in generi
diversi senza emulazione e senza invidia. Questi, che posson dirsi i Duumviri
della poesia latina, ebbero, siccome in parte si è veduto, campi amplissimni
ove seminare le filosofi che doltrine. Ma Orazio, per lo genio spezialmente
della satira e della epistola, gli ebbe anche mag giori, ed egli usò di questo
comodo assai diligen temente per piacere ad Augusto, a Mecenate e a sè stesso,
e alla età sua e alla seguente posterità. Dappriina educato nelle lettere
romane, visitare Atene. Mi avvenne, egli dice, di essere nu drito a Roma, e
quiviimparare quanto nocesse ai Greci l'ira –Achille. La buona Atene mi
condusse ad arte migliore, e a discernere il diritto dal torto, e a cercare il
vero nelle selve di Accademo. Ma i duri tempi mi rimosser dal dolce luogo, e il
ca lore della guerra civile mi spinse a quelle arme che non furono eguali alle
forze di Augusto. Umile par tü da Filippi con le penne recise e privo della
casa volle poi Encicl. VI. furono ag e del fondo paterno: l'audace povertà mi
strinse a far versi. E altrove non ha ribrezzo di raccon tare che nella
sconfitta Filippica militando nelle parti diBruto, fuggi e gettò lo scudo (a).
Così mal concio venne a Roma, e nato ad altro che a spar gere il sangue degli
uomini e il suo, divenne poeta, ed ebbe parte non infima nell' amicizia di
Mecenate e di Augusto, dai quali ottenne soccorsi alla sua povertà. Da queste
avventure fu raccolto che Ora zio erudito nelle selve di Accademo era dunque Ac
cademico. Ma questo sembrando poco, giunte quelle altre parole di Orazio: La
sapienza è il principio e il fonte dello scrivere rettamente, e le carte
socratiche possono dimostrarlo. Ove si vede l'amor suo grande alle dubitazioni
di So crate, che forse somigliavano quelle di Arcesila e di Carneade. In una
bellissima epistola a Mecenate, la quale è certo scritta nella vecchia età di
Orazió o nella prossima alla vecchiaja, lo sciolgo per ten po, egli dice, il
cavallo che invecchia, acciò non faccia rider le genti ansando e cadendo nella
fine del corso. Depongo i versi e gli altri sollazzi. Le mie cure e le mie
preghiere si rivolgono al vero e all onesto.Adunoe compongo dottrine per usarle
in buon tempo. E perchè niun mi domandi a quale guida e a quale albergo
miattenga, io, non istretto a giurare nelle parole di alcun maestro, vado ove
mi menano i venti. Ora sono agile e m'immerso negli affari civili,ora custode e
seguace rigido della vera virtù, ora furtivamente scorro ne' precetti di
Aristippo, e le cose a me sottopongo, e non voglio io essere sottoposto alle
cose. Ove non oscura [Orazio Epist.; Carm.; Ode; De Arte Poet.; Ep.] diente si
vedono i pensamenti d' un uomo che pren de secondo le occasioni quello che più
gli torna a piacere dalle sette diverse. Fu aggiunto ch'egli acre mente derise
gli Stoici in più luoghi, il che era secondo il costume accademico; e che
secondo il medesimo uso affermò e negò le istesse dottrine sen za eccezione
delle più solenni, come la esistenza degl' Iddii, i prodigj, le cose del mondo
avvenire, la provvidenza, il fine dell' uomo; donde non sola mente dedussero le
idee accademiche di Orazio, ma ancora il suo pirronismo. A queste osservazioni
se vorremo sopraggiungere il genio del secolo e il co. modo dell'Accadernia, e
quel di più che abbiam detto della filosofia di Virgilio, non sembrerà in
giusto consentire alle accademiche propensioni di Orazio; non mai perd ad un
pirronismo esagerato, di cui non possiamo avere alcun fondamento; anzi lo
avremo in opposito guardando a tante risolute sentenze sue, e all'abborrimento
di tutti i più dotti Romani contro quella estremità; e non ha similitu dine di
vero che un uom tanto destro ed elegante volesse esporsi al disprezzo di tutta
Roma senza proposito alcuno. Ma comechè le cose ragionate fin qui sembrino bene
congiunte a verità, alcuni pur sono che vorrebbono Orazio epicureo. Raccolse le
altrui ragioni e aggiunse le sue per convincerlo di Epicureismo teoretico e
pratico Francesco Al garotti in un suo Saggio della vita di quel poeta. Insegna
egli adunque che molti sono i luoghi epi curei ne' versi di Orazio, perciocchè
scrisse in una sua satira di certo strano prodigio che potea ben crederlo un
Giudeo circonciso, non egli, perchè avea [Satyr.; Gassendo De Vita Epicuri; Fabrizio
Bibl. Lat. ; Reimanuo Hist. Alh.; Stollio Hist. Pbil. mor. Geni. J. Brucker] porco
del apparato che gl' Iddii menan giorni sicuri e non mandan gid essi dall'alto
tetto del cielo le meravi. glie della natura. E in una epistola a Tibullo: Come
tu vorrai ridere, guarila me pingue e nitido gregge epicurco. Ma se queste ed
al tre parole epicuree vagliono a fare Orazio epicu reo, varranno adunque le
stoiche, le peripatetiche, le socratiche, le platoniche, lequali sono pur molte
ne' suoi versi, a renderlo scolare di quegli uomini; e queste varietà non
potendo comporsi in uno senza che egli fosse Accademico, o se vogliamo Eclettico
a buona maniera, adunque io non so altro dedurre salvochè quello che dianzi
abbiamo riputato simile al vero. Oltre a questo abbiam poi una molto so lenne
abiurazione dell'Epicureismo in una sua ode, che è di questa sentenza: Già
scarso e rado ado rator degl' Iddii, erudito in sapienza insana errai; ora mi è
forza ritornare indietro. Vedo Iddio che gli umili cangia coi sommi, e attenua
il grande, e mette a luce l'oscuro, e gode toglier l'altezza di colà e qui
collocarla. E abbiano ancora un an tiepicureismo in quelle sue magnifiche
parole: lo non morrò intero, e la massima parte di me evi terà la morte. La
maggior forza però è, siegue a dire il valente Algarotti, che si vede la
conformità grande tra i precetti di Épicuro e le massime e le pratiche di
Orazio. L'uno e l'altro predicarono che de' pubblici affari non dee
inframmettersi il sapien te, che ha da abborrire le laidezze dei Cinici, efug.
gire la povertà e lasciare con qualche opera din gegno memoria dopo sè, e non
farmostra delle cose suc, e dover essere amatore della campagna, e non [Satyr.;
Epist.; Od.; Od.] tenere uguali le peccata, e amare la filosofia, e non temere
la morte e non darsi pensiere della sepol tura. Ma, secondochè io estimo,
questa forma di argomentazione è cosi burlevole, come sarebbe quell altra, che
Orazio fosse epicureo perchè avea il naso e gli occhi come avea Epicuro; senza
dir poi che questo discorso medesimo potrebbe abu sarsi per intrudere Orazio in
qualunque scuola; per chè nel vero molti altri maestri erano in Grecia e fuori,
che insegnavano doversi fuggire i pubblici affari e le lordure ciniche e la
povertà, e amare la campagna e il piacere e la utilità, e non brigarsi della
morte e del sepolcro. Adunque non pud es ser provato che Orazio fosse epicureo,
perchè disse molte parole o usate dagli Epicurei insieme con al tri, o anche
rigorosamente epicuree, nella guisa che non può provarsi che fosse stoico o
peripatetico, perchè disse molte sentenze prese dal Peripato é dal Portico; e
ritorna quello che di sopra fu detto, questa indifferenza per tutte le scuole e
quest'uso appunto di ogni placito che torni a comodo, pro vare solamente la
filosofia accademica di Orazio. Trar poi le frasi oscene ei costumi dissoluti
di Ora zio a prova di Epicureismo, con pace di chiunque io dico che questa
diduzione non è consentanea al vero sistema epicureo, nè all'umano. Abbiam già
veduto altrove che il legittimo orto epicureo non era quella terra immonda che
alcuni si finsero, e possiamo veder facilmente che, riunpetto a molte oscenità
sentenziose di Orazio, moltissime parole sue sono gravi, austere e diritte per
narrazione dei contraddittori medesimi. E vediamo tutto dì che [Laerzio in
Epicuro. Orazio Epist.; Satyr.; Od.; ALGAROTTI, Saggio sopra ORAZIO; Blondel
Comp. de Pindare et d'Horace; Tominasini, Mélode d'étudier ec. A. Baillet] se
la depravazione delle parole e de' costumi fosse argomento di Epicureismo,
oggimai sarebbe epicu. rea tutta la terra. Stabiliamo per compimento di questo
esame, che se vorremo da tutti gli scherzi canori de' poeti raccogliere
inconsideratamente i si stemi e le vite loro, comporremo piuttosto poemi che
istorie. Spargiamo dunque fiori, non spine, so pra il sepolcro del più filosofo
di tutti i poeti. P. Ovidio Nasone Sulmonese fiori alquanti anni dopo Orazio,
nella età anch' egli di Augusto; al quale comunquepotesse piacere per la
fecondità e per la vivezza, dispiacque per la lascivia de' versi, o piuttosto,
siccome alcuni pensarono e come Ovi dio medesimo disse, per aver veduto
imprudente mente una certa colpa che volle tacere, e si para gond ad Atteone
che fu preda a' suoi cani, percioc chè vide senza pensarvi Diana ignuda; e
questa Diana parve a taluno Giulia sorpresa nelle brac cia di Augusto suo padre,
e altri indovinarono altri arcani di oscenità. Ma è molto più giusto ta cere
ove tacque Ovidio medesimo, tuttochè punito ed esigliato alle rive dell'Eusino
fosse pienissimo d'i ra, che fa parlare pur tanto la generazione irrita bile
de' poeti. Questo ingegno, nato per la poesia, amoreggio, e pianse in versi, e
fu antiquario, e se gretario degli eroi e delle eroine anche in versi, e disse
le mutazioni delleforme in nuovi corpi dalla origine del mondo fino a' suoi
tempi; e sempre in versi, perchè s'egli prendea a scriver prose, usci vano
versi spontanei suo malgrado. Nel molto nu mero de' suoi poemi il più reputato
per serietà e per certo condimento filosofico è quello che ha per titolo le
Metamorfosi; delle quali benchè sia stato [Ovidio De Ponto; Tristium; Bayle
art. Ovide, B, K. detto che sentono la decadenza della buona Lati nità e
preparano il mal gusto che poi sopravven ne, e mostrano il fasto giovanile, noi
pensiamo di poter dire che sono certamente menogiovenili delle altre poesie di
Ovidio, e ch' egli medesimo, il qualepotea giudicarne quanto i nostri critici
dili cati, le tenne in gran conto, e poichè l' ebbe com piute, Io, disse, ho
tratta a fine un'opera che nè l'ira di Giove, nè il fuoco, nè il ferro, nè la
vo race vecchiaja potrà abolire. Quel giorno che sul corpo solamente ha
diritto, metta amorte quando vorrà lo spazio diquesta vita incerta. Con la
parte migliore di me volerò sopra le stelle, e il nome no stro sarà indelebile.
Dovunque la romanapotenza nelle terre vinte si estende, sarò letto dalla bocca
del popolo; e se niente hanno di vero i presagi de' vati, viverò per fama nella
eternità de' secoli (2). Senza involgerci ora nell' esame delle virtù poeti che
diquesto componimento, o epico o ciclico ch'ei voglia dirsi, o di una azione o
di mille, o contra rio ad Omero e ad Aristotele, o favorevole ai poe tici
libertinaggi, di che gli scrittori dell'arte sapran no disputare;noi diremo
piuttosto della meraviglia grande che questo poema eccitò con le narrazioni di
tanti mutamenti di forme, i quali non si seppe mai bene che cosa significassero.
Chi dicesse che questi sono delirj d'un poeta infermo per febbre, direbbe forse
lo scioglimento più facile della qui stione, ma non il più verisimile, nè il
più cortese alla fama e all'ingegno di Ovidio. Onde vi ebbe chi disse, sotto
quelle metamorfosi ascondersi la serie Jelle mutazioni della nostra terra, e un
certo siste ma di storia naturale; il che parendo poco ido [Baillel; Metamorph.;
Stooekio Act. Erud.; Fabrizio Bibl. Lat. neo a spiegare tutte quelle favole, fu
soggiunto che le idee di Pitagora, di Empedocle e di Eraclito e la mitologia e
la opinione corrente a quel tempo sono le chiavi di quello enimma. Il
perspicace Warburton immagindche le metamorfosi sorgono dalla metempsicosi; e
che siccome questa è la condotta della Provvidenza dopo la morte, così quelle
lo sono per lo corso della vita: e in fatti Ovidio dapprima espone le
metamorfosi come castighi della scelle raggine, e poi introduce nell'ultimo
libro Pitagora ad insegnare ampiamente la metempsicosi. Que sto è il più
ragionevole aspetto che possa prestarsi a quel poema; e se per molte gravi
difficoltà non è forse affatto vero, meriterebbe di essere per la bellezza del
pensiere e per onore del nostro poe ta. Già altrove abbiamo parlato con qualche
dili genza della famosa cosmogonia e teogonia di Ovi dio, e della diversità sua
dagli altri sistemi de' poeti greci, e del Dio anteriore al Caos e agl'Iddii
sub alterni, il quale è Uno e Anonimo nella descri zione Ovidiana. Diciamo ora
alcuna cosa del l'accennato luogo delle Metamorfosi ove Pitagora è introdotto
ad insegnare il suo sistema della me tempsicosi, accompagnato coi pensieri di
Eraclito e di Empedocle; imperocchè ivi è scritto che gli uomini attoniti per
la paura della morte temono Stige e le tenebre, ei nomi vani e gli argomenti
de' poeti, e i falsi pericoli del mondo: che le anime non muojono, ma lasciando
la prima sede vivono e alloggiano in nuove case: che tutto si muta, niente
finisce: che lo spirito erra, e di colà viene qui, e di qui altrove, e occupa
tutte le membra, e dalle fiere trascorre ne' corpi umani, e da questi in quel [Warburton
Diss.; Metamorp.di questa Istoria. le, e non si estingue in tempo veruno: che
niente è fermo in tutto il giro, e ogni cosa scorre a so miglianza di fiume, e
ogni vagabonda immagine si forma. Chiunque vorrà legger tutta intera que sta
prolissa narrazione, potrà conoscere che qui ve ramente parla Pitagora; ma poi
tanto vi parla an cora Empedocle ed Eraclito, e tanto Ovidio me desimo, che
finalmente non s'intende chi parli. A dunque il nostro poeta non puddirsi
professore di niuna di queste sette, e pare molto più giusto pen sare ch'egli o
era Accademico, o niente. La serie di questi poeti e il genio di Augusto e del
secolo appresentano un sistema quasi generale di filosofia accademica, e perciò
non si può ameno di ripren dere la franchezza del Deslandes e di altri, che
senza pensare più oltre affasciano insieme Augusto, Me cenate, Agrippa,
Virgilio, Orazio, Ovidio, Tibul lo, Properzio, Livio, e tutti gli altri grandi
uomini di quella età, e li dicono Epicurei. Si vorrebbe separare da questa
general regola M. Manilio, il quale intitold ad Augusto un poema delle Cose
Astronomiche, e si mostro contrario agli Epi. curei e favorevole agli Stoici;
e, Chi vorrà credere, disse, che il mondo e tante moli di opere sieno pro dotte
da corpuscoli minimi e da cieco concorso? Una natura potente per tacito animo e
un Iddio è infuso nel cielo, nella terra e nel muré, e go verna la gran mole, e
il mondo vive per movimento d'una ragione, e lo Spirito Uno abita tutte le par
ti, e inaffia l’orbita intera, la quale si volge per Nume divino, ed è Iddio, e
non siadunò per magisterio di fortuna. Per queste e per altre parole [Metamorp.
Deslandes Hist. cril. de la Philos. Gassendo. Manilio Astronom.] di Manilio fu
immaginato ch'egli non era accademico, ma del Portico e panteista e precursore
dello Spinoza. No irichiamiamo a memoria le cose dette qui degli altri poeti
del tempo d’Ottaviano, e più innanzi del Portico, e affermiamo che un verso o
due che involti in dubbi e in equivoci possono sen tir forse un poco del
Portico, non fanno uno perfetto del Portico, e quando pur lo facessero, uno del
Portico non è un panteista nè uno Spinoziano. Se le ingiurie de' secoli, che
dispersero tanta parte della storia di Livio non avessero affatto distrutti i
suoi dialoghi istorici insieme e filosofici, e i suoi libri in cui scrive
espressamente della filosofia, io credo che noi potremmo conoscere la filosofia
della età d’OTTAVIANO molto più chiaramente che per tutte le immagini poetiche,
e inoltre potremmo vedere a quale sistema si attene Ottaviano stesso. Ma non
rimanendo altro di lui che parte della sua storia, i curiosi ingegni hanno
voluto raccoglier da essa un qualche assaggio della sua filosofia; e alcuni lo
hanno dileggiato come un superstizioso narrator di miracoli assurdi e un uom
credulo e popolare. Ma per le clausole filosofiche apposte a molte narra zioni
di prodigi, e per la fede istorica onde ri putò necessario raccontare le
pubbliche opinioni e i casi scritti negli annali e nelle memorie antiche, fu
molto bene difeso. Toland, vaneggiando di volerlo difendere assai meglio, lo
grava della maggior villania; perocchè lo fa tanto poco superstizioso, che lo
trasforma in ateo, e poi lo com [Collin De la liberté de penser; Toland Orig.
Ju daic; Mosemio ad Cudwort System. int.; Brucker ; Seneca, Ep.; Fabrizio Bibl.
Lat.; Lipiec Gxva] mendo come uomo di buon senno e di esquisito giudizio, e
come un saggio filosofo e un ingegno elevato. Queste arditezze furono confutate
ampiamente. E noi lasciando pure da parte molte altre sentenze di Livio, lo
confuteremo con una sola, ove di certi tempi romani disse. Non ancora era
venuta la negligenza del divino, che ora tiene il nostro secolo, nè ognuno a
forza ďinterpretazioni si forma como di giuramenti e leggi, ma piut tosto ai
giuramenti e alle leggi si accomodavano i costume. Queste parole non sono del catechismo
degli’atei. Agatopisto Cromaziano, di Buonafede.
Appiano Buonafede. Tito Benvenuto Buonafede. Keywords: storiografia filosofica,
criteria – storia neutrale della filosofia – il primo filosofo romano – in
lingua latina – previo all’ambasciata di Carneade – the patronizing tone of
classicist Johnson Murford. Each man is the architect of his own
fortunes – Appio -- -- filosofia antica, filosofia romana antica. Filosofo: addito a reflessioni
generali sulla vita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonafede” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice
e Buonamici: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- you
scratch my back -- etymologia di muovere -- corpi in movimento – scuola di Firenze –
filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Firenze). Filosofo
fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: There
are many Buonamici (including GALILEO), so you have to be careful – this one is
a genius – he taught at Pisa, in the M. A. programme, both Aristotle’s Poetics
– imitazione, il tragico, -- and his ‘motus’ – Galileo happened to be his
tutee, and the rest is the leaning tower!” Frequenta lo Studio di
Firenze, dove segue il corso del l'umanista Vettori (si conservano alcune
lettere scambiate tra i due). Filosofo naturale e latinista, si ispira molto agli
antichi testi che commenta (Aristotele, Nicomaco…). Tutore di Galilei a Pisa.
Altre opere: “De Motu libri X, quibus generalia naturalis philosophiae
principia summo studio collecta continentur, necnon universae quaestiones ad
libros de physico auditu, de caelo, de ortu et interitu pertinentes
explicantur, multa item Aristotelis loca explanantur et Graecorum, Averrois,
aliorumque doctorum sententiae ad theses peripateticas diriguntur, apud
Sermartellium (Firenze); Discorsi poetici nella accademia fiorentina in difesa
d'Aristotile. Appresso Giorgio Marescotti (Firenze); “De Alimento, Sermartellium
juniorem” (Firenze). Galilei, De motu antiquiora” “Quaestiones de motu elementorum”.
Gentiluomo Fiorentino, e Medico, Lettore di
Filosofia con gran concorso di Scolari nell'Università di Pifa. In detta
Università avendo Giulio de' Libri altro Profesfore tacciato il Buonamici, come
quello che citaffe testi falfi, questi una mentita gli diede; ed effendo state
gettate da alcuno in fua scuola certe cor na, il Buonamici così diffe: Si vede
che costui debbe avere in tafa grande a b éondanza di questa mercanzia, poichè
ne porta qua. Egli v insegnò quaranta tre anni » e letto aveva due volte tutto AQUINO
(si veda), e in ultimo gli erano pagate quattrocento feffanta piastre di provvisione.
Il buon gusto nelle belle Lettere congiunse allo studio delle facoltà più gravi;
è Accademico Fiorentino; e godette della stima de Granduchi di Toscana, da
quali, ficco me egli stesso afferma, findagiovinettofunodritoeornatodigradiono
revoli. Morì ad Orticaja vicino a Dicomano, ove, ficcome anche alle Pancole,
aveva un Podere; e lasciò tutto il fuo ad uno Speziale. Fu recitatada Attilio Corfiinquella
Pieveful Cadavereun’Orazionfunera Вbble, Poccianti, Catal. Script. Florentin.
Salvini, Fasti, Buonamici, Dife. orf. Poetici,Discorso. annoverò fra i
principali Peripatetici di quello Studio. Salvini, Fasti Poccianti, loc. cit.
di Firenze Ove Bianchini, Ragionamenti intorno a' Granduchi, le, e
a’ 27. di Maggio nell' Accademia Fiorentina altra Orazione funerale venne
recitata da Tommafo Palmerini. Di lui hanno parlato con lode diverfi Scrittori
citati dall'Autore delle N o tizie Letter. ed Istoriche dell'Accademia
Fiorentina, e dal P. Negri, il qual ultimo noi fiam di parere che sbaglj, ove
fra gli autori che hanno parlato di B. registra anche il Crescimbeni, il quale
non di questo, m a di B. di Prato ha parlato, ficcome nell' articolo
diquest'ultimo diremo. Il nostro Francesco scrive diverfe Opere, lequali,
febbene da alcuni fieno d'ofcurità tacciate, fanno conofcere il fuo fape re, la
fua fingolare dottrina, e la sua cognizione anche della Lingua Greca. Eccone il
Catalogo: - I. Francifci Bonamici Florentini e primo loco Philosophiam
ordinariam in almo Gymnasio Pifano profitentis De Motu Libri X. quibus
generalia naturalis Philoso phie principia fummo studio collećfa continentur -
Nec non universe Questiones ad Libros de Physico Auditu, de Cælo, de Ortu és
Interitu pertinentes, explican tur. Multa item Aristotelis loca explanantur, či
Græcorum Averrois, aliorumque Dostorum Fententie ad Thefes peripateticas
diriguntur ec. Florentiæ apud Bartho lomeum sermartellium infogl.Fu
affailodatoilmetodo diquest' Opera, di cui il Piccolomini era uno de'
principali ammiratori. II. Discorsi Poetici detti nell'Accademia Fiorentina in
difesa d'Aristotile. In Firenze per Giorgio Marescotti, con Dedicatoria a Baccio Valori fegnata dalle
Pancole. In questi Discorsi, che sono VIII. risponde alle oppofizioni fatte dal
Castelvetro ad Aristotile. De alimentis ubi multe Medicorum Tententie
delibantur, ở cum Aristotele conferuntur. Complura etiam Problemata in eodem
argumento notantur, ở quibusdam exGræca Leếtionepriftinusnitor restituitur.Venetiis,
Florentie apud Bartholomeum Fermartellium Juniorem in 4. IV. Una sua Lezione
fatta sopra ilSonetto del Petrarca, che incomincia: Quando 'l Pianeta che
diffingue l'ore, - nell’Accademia Fiorentina sotto il Consolato di Tommaso d el
Nero a fi conserva a penna in Firenze nel Cod.
della Libre ria Strozziana. V. Lećiiones super I. és 11. Meteororum.
Queste Lezioni fopra l’argomento delle meteore (cui affermava il medefimo B.,
per testimonianza di Monfig. Sommai, d' aver per difficilistimo, rispetto alla
difesa d' Aristotile che giudicava effere stato mirabile nelle cofe che
appariscono al fenfo »,ma nell’altre affai ambiguo) efiftevano a penna in
Firenze nella Libreria de Si gnori Gaddi fra Codici mís, paffati, per compera
fattane da Francesco I.I m eradore felicemente regnante, e Granduca di Toscana,
nella Laurenziana al Cod. 8o5. num. Valori scrive che lascia delle fue fatiche
fopra la Metafifi ca, ed altro, la quale Metafifica poffeduta da diverfi, ebbe
in Roma qualche difficoltà a stamparsi per alcune cofe Filosofiche stampate
anche ne Libri De motu, ficcome afferma il suddetto Monfig. Sommai. Il Poccianti
famen Z1OI) Così afferma Salvinine Fasti cit. acar. 355. stentia penna nel Tom.
III.delle nostre Memorie MSS. Non foppiamo Pertanto con qual fondamento Negri
acar.835.fia fferma che al Buonami comancava distin nell’ degli scrittori Fiorent.
acar.188. aflerifcache zione, e chiarezza, e che diventasse fempre più oscuro,
in detta Accademia fu Attilio Corficheinfuamortere- perchè pigliava le fue Lezioni,
e le andava ritoccando, e cita l’Orazione funerale quando il Corfila recitò sulca
ripulendo, e come egli intendeva, e presupponeva il mede davere nella Pieve,
ove fu depositato. fimo degli altri, a poco a poco le ridase inintelligibili, A
car. 214. febbene fette nel fondamento fempre faldoe le fue Lezio (1o) for. Degli
Scrittori Fiorentini. Ol nianti che fono le migliori. tre gli Scrittori citati
dal Negri parla con lode di lui anche Valori ne’ Termini di mezzo rilievo ec, a
Caľ, Si vegga Filippo Valori ne” Termini
cit. a car. 7. In alcune Memorie scritte da mano di Monfig. Girola mo Sommaī,
ed inferite nelle Schede Magliabechiane efi Catalog. della Libreria Capponi,
Lipenio, Bibl. real. Medica, pag. i1.Salvini,Fafficit.pag zoz. in foglio
volante. Loc. cit oservaz, fopra i Sigilli antichi Efistono presso di noi nel
Tom. III. delle nostre - Memorie mfs. a car.
(zo) Descrizione della Provincia del Mugello B. zione de commentar. in Logica
mở Ethicam lasciati dal nostro Autore; il Negri accenna un fuo Tractatus Logice
esistente ms. nella Libreria del Palazzo Ducale de' Medici, il quale è
indirizzato a Lelio Torello Giureconful to, e incomincia: Multa profećio,
variaque_ec; e ilchiariffimo Sig. Domeni co Maria Manni fa ricordanza d'una
Cronica fcritta a mano da Francesco Buonamici esistente nella Libreria Gaddi
pure in Firenze. Dalle schede Magliabechiane comunicateci dal chiariffimo Sig.
Canonico Bandini apprendiamo ch'era opinione che il Cavaliere Aquilani aveffe
molti Scritti e Opere da stamparfi del nostro Autore. D a ciò che abbiamo fin
qui detto ci fembra di poter afferire che il nostro Autore sia diverso da quel
Dottor B. il quale ha il suo deposito nella Chiefa del Piviere di S. Babila
detto anche S. Bavello e S. Bambello nella Provincia del Mugello in Toscana, il
quale di tutta la sua eredità lascia che foffe fatto un fondo per mantenimento
a Pisa di tre giovani parte di S. Gaudenzio, e parte di Dicomano con obbligo di
addottorarfi, del quale fa menzione il Dott. Giuseppe Maria Brocchi, ma
senzaaccennarefefia Scrittore d'Opera alcuna. V” è stato anche un B., di cui fi
ha alle stampe un Elegia, ed un Epigramma in Lingua Latina per la nascita di
Giacomo Augusto Lorenzo Ferdinando Maria figlio d'Amedeo del Pozzo ec. In
Milano.
Francesco Giuseppe Buonamici. Francesco Buonamici. Keywords: corpi in
movimento, Aristotele, filosofia naturale, Galilei, razionalismo, aristotelismo
pisano, de imitazione – aristotele – poetica – mimica – de motu – muggerbrydge
--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Buonamici” – The Swimming-Pool Library. Buonamici.
Luigi Speranza -- Grice e Buonsanti: l’implicatura
conversazionale del vettore -- implicatura di ‘animale’ – ‘non umano’ -- scuola di Ferrandina – filosofia basilicatese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrandina). Filosofo
basilicatese. Filosofo italiano. Ferrandina, Matera, Basilicata. Grice: “I like
Buonsanti; Strawson calls him a veterinarian, but I call him a philosopher,,
for surely he is a philosophical zoologist – he philosoophised, like Aristotle
did, on the comparative physiology and anatomy of ‘human’ and pre-human.!” Esponente di spicco della storia
della medicina veterinaria italiana ed europea è stato una delle figure più
rappresentative della Scuola veterinaria milanese. Diresse l'Enciclopedia medica italiana edita
da Vallardi e La Clinica veterinaria (di cui fu anche fondatore). Altre opere: Dizionario dei termini antichi e
moderni delle scienze mediche e veterinarie Manuale delle malattie delle
articolazioni Trattato di tecnica e terapeutica chirurgica generale e speciale
La medicina Veterinaria all'Estero, organizzazione dell'insegnamento e del
servizio sanitario. Dizionario Biografico degli Italiani. Nicola Lanzillotti
Buonsanti. Keywords: etimologia di ‘veterinario’ -- animale; filosofia e
medicina nella Roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonsanti” – The
Swimming-Pool Library. Buonsanti.
Luigi Speranza -- Grice
e Buonsanto: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale pratica
-- prammatica del discorso – scuola di San Vito dei Normanni – filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Vito dei
Normanni). Filosofo italiano. San Vito dei Normanni, Brindisi,
Puglia. Grice: “Buonsanto is a good one – I call him the Italian Wittgenstein;
he talks of a reasoned grammar (grammatical ragionata) and not of rules but
regoletta – and he like Austin speaks of the genius (il genio) del linguaggio –
he speaks of a ‘philosophical approach’ to grammar – of ‘proposizioni’ and the
rest – of etimologia, and sintassi, so he is into implicature!” Filosofo pontaniano italiano. Nato nella
cittadina salentina nell'allora via Vento (oggi via Cesare Battisti), qui compie
i suoi primi studi classici. Fattosi domenicano, non ancora ventenne, entra nel
convento dei Padri predicatori di San Vito dei Normanni, ove si dedica allo
studio della filosofia scolastica.
Diventando educatore, si distingue per le sue idee innovatrici nei
metodi didattici, diventando ben presto un vero luminare del pensiero
pedagogico della cittadina. Diventa anche un attivo sostenitore del movimento
repubblicano, e insieme al notaio Carella, porta dalla vicina Brindisi un
albero di naviglio per piantarlo, in segno di libertà, nella piazza antistante
il Castello. Le sue convinzioni, però, lo costringono a fuggire da San Vito ed
egli ripiega prima a Ostuni e poi a Martina Franca, da cui raggiunge, da
ultimo, il convento di San Domenico a Napoli, dove muore. La città natale ha dedicato al suo nome una
scuola media cittadina. Dizionario
Biografico degli Italiani. Altre opere: “Etica iconologica”; “Il sistema metrico”;
“Geografia” “Storia del Regno di Napoli”; “Antologia Latina”; “Sistema d'istruire
i giovanetti”. By planting the tree, Buonsanti meant that he wanted
peace. Etica iconological: children learn by imitating: ‘sistema per educare i
giovinetti” – If we are looking for a typical Latin root for acting (or not
acting,a s in the prototype of the ‘lazy Latin lover’) we should search for the
‘agire’ root, that gives us action. Qua philosophers, we are interested in that
branch of philosophy that deals with action. Which one is it? Cannot be
‘morals’ because ‘ethos’ or mos is costume, rather than action. Analytic
philosophers speak of ‘philosophy of action’ – Grice: “But not I”. Grice: “In
my ‘Actions and Events’ I elaborate on this. I find that the vernacular English
is ‘do’ – and that we need a special interrogative. Socrates in Athens whatted?
He drank hemlock. Quandum – at what time – ubi – at what place, quia – for what
reason (all from Aryan qw- root) are each examples of such an interrogative. Grice:
“Latin is better equipped than English with the range of interrogatives whose
function is to inquire, with respect to any of the ten categories, which item
WITHIN the category would lend its name to achieve the conversion of an open
sentence into the expression of a alethically or practically satisfactory
utterance. Each of these interrogatives
(‘quando’, ubi, quia) have an INDEFINITE counterpart. Corresponding to ‘ubi’ is
‘unum ubi’. Corresponding to quod ‘unum quod’ – and so on. There is the
occasion when the utterer requires not a pro-NOUN, but a pro-VERB, parallel to
the two kinds of a pro-noun (interrogative and indefinite). A pro-verb is used
or serves to make an inquiry about an indefinite reference to one of ten
categories of items which a PREDICATE (P), qua epi-thet, ascribes to a subject
(S), in a way exactly parallel to the familiar range of a pronoun. Just as the
question, ‘WHERE [Ubi] did Socrates drink the hemlock’ is answered by ‘In
Athens’, consider the yes-no
question, ‘Socrates WHATTED in 399?’.
The question might be answered by ‘Yes’ – And given the principle of
conversational helpfulness, if one is in a position to specify what VERB we
would use to express, we do just that. ‘Drank’. And more specifically, ‘Drank
the hemlock.’ And given that Socrates did drink the hemlock in 399 B. C. as the
answer just reminds us, we say: ‘There! I *knew* that Socrates SOME-WHATTED in
399 B. C.” The Romans lacked our ‘do’ – which was a good thing for them, for
they were able to avoid our constant abuse of ‘do’ – the Roman equivalent would
be ‘agire’ --. By way of a periphrasis – by which we can come close to the
roman way. We ask, for example, WHAT did Socrates DO in 399 B.C.?’ In its
capacity as PART (along with ‘what’) of a make-shift pro-VERB, the very English ‘do’ –not a German thing, even! – can
STAND IN FOR (be replaceable by) ANY English VERB – or phrasal verb or verb
phrase (‘put up’) whatsoever. Cf.
pro-verb – do as proverb. They herd cattle, and raise corn, as we used to do. HereVito Buonsanti.
Vito Buonsanto. Keywords: prammatica del discorso, Peirce, icon, Grice, iconic,
iconologia, eicon, icon: Peirce, icon, Grice, iconic, iconologia, eicon, icon, pratico e prasso are cognate praktikos dalla
radice per -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Buonsanto” – The Swimming-Pool Library. Buonsanto.
Luigi Speranza -- Grice
e Burgio: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- the goths in Italy – Romans contra Goths – la guerra gotica
in Italia -- dialettica ostrogota – filosofia ostrogota – scuola di Palermo –
filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco
di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Palermo). Filosofo italiano.
Palermo, Sicilia. Grice: “You gotta love Burgio: my favourite of his
philosophical pieces are his study on the tradition, development and problems
of ‘dialettica’ – from Athenian onwards – and his explorations of
contractualism, since I’ve been called one – a contractualist I mean, as so was
Grice [G. R. Grice].” -- Alberto Burgio
Deputato della Repubblica Italiana LegislatureXV Legislatura Gruppo parlamentareRifondazione
Comunista CoalizioneL'Unione CircoscrizioneLombardia 3 Incarichi parlamentari
giunta per il regolamento; XI Commissione (Lavoro pubblico e privato);
Commissione esaminatrice del premio Lucio Colletti dal 28 luglio Dati generali
Partito politico PRC Titolo di studioLaurea in lettere e filosofia Professionedocente
universitario Alberto Burgio (Palermo),insegna Storia della filosofia presso
l'Bologna. È stato eletto deputato al Parlamento della Repubblica alle elezioni
politiche del legislatura). Si è occupato prevalentemente di storia
della filosofia politica e di filosofia della storia con studi su Rousseau e l'idealismo
classico, la teoria della storia tra Kant e Marx e il marxismo italiano
(Labriola e Gramsci), il razzismo e il nazismo.
Altre opere: “Filosofia politica: eguaglianza, interesse comune, unanimità”
(Napoli, Bibliopolis). Rousseau, la politica e la storia. Tra Montesquieu e
Robespierre, Milano, Guerini); “Robespierre” (Napoli, La Città del Sole);
“Italia pre-aria” (Bologna, Clueb); “L'invenzione dell’ario” Studi su razzismo
e revisionismo storico, Roma, manifestolibri); “Nel nome dell’ario. Il razzismo
nella storia d'Italia” (Bologna, Il Mulino); “Modernità del conflitto. Saggio
sulla critica marxiana del socialismo, Roma, DeriveApprodi); “Struttura e
catastrophe” Kant Hegel Marx, Roma, Editori Riuniti); La guerra dell’ario,
Roma, manifestolibri); Gramsci storico. Una lettura dei "Quaderni del carcere",
Roma–Bari, Laterza); “La forza e il diritto. Sul conflitto tra politica e
giustizia” (Roma, DeriveApprodi); Guerra. Scenari della nuova "grande
trasformazione", Roma, DeriveApprodi); “Labriola nella storia e nella
cultura della nuova Italia, a cura di, Macerata, Quodlibet); Escalation.
Anatomia della guerra infinita, (Roma, DeriveApprodi); “Il contrattualismo” (Napoli,
La Scuola di Pitagora); “Dia-lettica, co-loquenza:Tradizioni, problemi,
sviluppi” (Macerata, Quodlibet); “Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno,
Roma, DeriveApprodi); “Manifesto per l'università pubblica” (Roma, DeriveApprodi);
“Senza democrazia. Un'analisi della crisi, Roma, DeriveApprodi); “Nonostante
Auschwitz. Il ritorno del razzismo in Europa, Roma, DeriveApprodi); “Rousseau e
gli altri. Teoria e critica della democrazia tra Sette e Novecento, Roma, DeriveApprodi);
“Il razzismo, con Gianluca Gabrielli, Roma, Ediesse); “Identità del male. La
costruzione della violenza perfetta” (Milano, FrancoAngeli); “Gramsci. Il
sistema in movimento, Roma, DeriveApprodi); “Questioni tedesche, a cura di,
Mucchi, Modena, («dianoia»). “Orgoglio e
genocidio. L'etica dello sterminio nella Germania nazista” (Roma, DeriveApprodi);
“Il sogno di una cosa. Per Marx, Roma, DeriveApprodi); “Critica della ragione
razzista, Roma, DeriveApprodi. Any Oxford philosophy tutor who is accustomed to setting essay topics
for his pupils, for which he prescribes reading which includes both passages
from Plato or Aristotle and articles from current philosophical journals, is
only too well aware that there are many topics which span the centuries; and it
is only a little less obvious that often substantially 66 Paul
Grice similar positions are propounded at vastly differing dates. Those
who are in a position to know assure me that similar correspondences are to
some degree detectable across the barriers which separate one philosophical
culture from another, for example between Western European and Indian philosophy.
I
GOTI. il l/F) (fa figlili;
WT'I tragedia lirica. INTERDONATO MUSICA DEL
MAESTRO Iflfiii lillff! DA lUPPHftSEINTAHSl, TEATRO NUOVO, PADOVA STAGIONE
DI PIERA e MILANO, STABILIMENTO MUSICALE LUCCA. A Teodorico, fondatore
della signoria dei goti in Italia, succede la figlia Amalasunta. Donna di
animo virile, di bellezza non comune, ed AMANTE DELLA ROMANA CIVILTÀ, e
odiata dai principali signori goti che ligi alle antiche costumanze
vedeno di mal occhio la nuova regina mostrare clemenza verso i vinti e
prediligere usi e costumi che secondo essi avrebbero finito col corrompere
i vincitori degl’eruli e dei romani. Amalasunta, a cui è tolta la tutela del
proprio figlio Alarico che poi dopo alcuni mesi perde miseramente la vita,
crede di rassodare la propria autorità sposando uno dei più potenti signori
della sua corte a nome Teodato, ma questi appena salito sul trono
si une ai nemici di lei, l'accusa di illecite tresche, le tolge ogni
autorità e quindi la relega in un castello sul lago di Perugia dove poi la
fa secretamele uccidere. Così la storia. PERSONAGGI ATTORI AMALASUNTA,
regina de' Goti, Baratiti; TEODATO, signore goto, suo cugino, Pandolpii
SVENO, giovane patrizio romano Sig. Filippo Patierno ftfcw LAUSCO, capo
de' guerrieri. Medini SVARANO, altro capo de' guerrieri
Calcaterra GUALTIERO, guerriero goto, amico di Sveno. Vistarmi
Guerrieri, Araldi, Sacerdoti, Signori goti, Congiurati, Damigelle
della Regina, Uomini e Donne del popolo. Trombettieri, Paggi. La scena è
nei primi tre atti in Pavia. Nel quarto atto sul lago Trasimeno. Il
virgolato si omette. Atrio colonnato nel Castello di Pavia. Ai lati alti e
lunghi por- tici che si perdono nelV oscurità. Un raggio di luna batte
sulle mura del Castello che si vede nel fondo. Il davanti della
scena è interamente immerso nell' ombra. Molli guerrieri goti
dormono sdraiati sul terreno. l«ausco è in piedi appoggiato ad una
colonna, immobile e pensieroso. Dal fondo s'avanzano cautamente Tediato e
Svarano. Teo. Lausco? Lau. ics.) Sì. Teo. Gessò la festa? Lau. Guarda.
dormono costor. Sva. Tutto tace. Teo. L'ora è questa
Che anelava il mio furor! Aborrito, disprezzato, Alla terra e
al ciel nemico. Quando l'astro del mio fato Parve a un tratto
impallidir, Sovra il capo d'Alarico Imprecando la sventura
Solitario in queste mura M'affidai nell'avveniri (o Lausco) Tremi
tu? Lau. Non tremo mai! Teo. Ei mi offese e m'oltraggiò, lo
d'ucciderlo giurai. Sei fedel? Lau. L'ucciderò. Sva.
Quando l'opra tia compita Ci vedrem? Teo. Del trono al
pie. Lau. Tu proteggi la mia vita; Io lo scettro appresto a te.
(entra rapidamente nell'interno del Castello) Teo. (dopo un istante
di silenzio, guardando attorno con terrore e prestando ascolto) Perchè tremo?
nulla sento. Sva. (a bassa voce) S'ei fallisse il colpo? Teo.
Ah no! (si sente un grido) Sva. Parmi un grido. Teo. (con
ansia terribile) Oh qual tormento! (grida confuse nelV interno del
Castello) Sva. Ah! L'uccise! Teo. (con gioia feroce) Io
regnerò! (partono rapidamente, mentre i guerrieri destati dalle
grida balzano in piedi e afferrano le loro armi.) Guerrieri, poi
Sveno. Alcuni guerrieri Qual suono! l'udiste? Altri guerrieri
Confuso lamento Sull'ali del nembo per l'etra echeggiò. Sveno
si precipita sulla scena pallido, coi capelli in disordine, colla spada
sguainata) Tutti Tu, Sveno? Ove corri? Sve. Tremate! Egli è
spento. Dei regi l'erede trafitto spirò! Tutti Trafitto
Alarico! Alcuni guerrieri All'armi! Altri guerrieri
terrore! Ma parla... rispondi! chi fu l'uccisore? Sve. Della
notte nel silenzio Era immersa la natura. Non s' udia fra queste
mura Che del gufo l'ulular. Quando un grido orrendo, atroce M'empie
il core di spavento. Ah, quel grido ancor lo sento Al mio orecchio
risuonar. Tutti Era il grido della morte Che venia fra queste
porte. Sve. Corro al prence... di sangue cosparso, Un pugnale avea
fitto nel petto. Non profferse il suo labbro alcun detto. Sol la mano mi
strinse... e spirò! Guerrieri (brandendo ferocemente le spade)
Morte, morte all'indegno uccisore! Si ricerchi... fuggir non ci
può! (entra Teodato e si confonde fra i guerrieri) Sve. Maledetto
il parricida, D'Alarico l' uccisori Di celarsi invan s'affida,
Di sfuggire al mio furor! Tutti All'armi, guerrieri! s'esplori ogni loco.
Già l'alba nel cielo propizia spuntò. Di ferri recinto -qui tratto fra
poco Fra strazii perisca - chi sangue versò! (partono in varie
direzioni, Sveno va per seguirli) Teoclato e Sveno.
Teo. Sveno, t'arresta. Sve. Da me che vuoi? Teo.
Giovane, ascolta; parlar ti vo'. D'ira sfavillano gli sguardi tuoi
Ma in core leggerti ben io lo so. (con sarcasmo) Tu Romano,
tu figlio d'Italia Ch'ora è serva e che un di fu regina, /
Goti 2 Puoi dei Goti temer la rovina, D'Alarico alla morte
tremar? Folle! Invano celare presumi L'empia gioia che tutto
t'invade, Tu che privo di patria e di numi Qui un asilo venisti a
cercar! Svfi. {con alterigia) E che vuoi dire? Tr0
D'Alarico estinto Or chi sul trono ascenderà, noi sai? D'imbelle
donna sulla chioma cinto Il diadema fatale or tu vedrai.
SvE.D'Amalasunta? Mai più degna mano Trattò lo scettro! Tfo.
(sogghignando) Ne più bella! v Insano! SvE. Solo ed
orfano reietto Sull'avel del padre estinto, Senza pane, senza
tetto, Io vivea di ceppi avvinto- Quando un angiolo di Dio
Quasi in sogno m'appari... E pietoso al dolor mio I miei ceppi
infranse un di. Or che cinto di perigli Sovra il trono assiso egli
e. Sfido l'uom che mi consigli Di tradire onore e fé! Teo Una
minaccia suonano Questi tuoi detti, o Sveno? So che per me
terribile Odio tu nutri in seno! Sve. Odio?... t'inganni. -
Sprezzo Mi desta un traditor. Teo. Ne avrai condegno prezzo
(raffrenandosi) Della regina il cor! Sve. Trema. ah trema!
Potrebbe a un mio detto Il tuo capo cadere al mio pie. -Finché l'ira
raffreno nel petto, Va, t'invola lontano da me! Teo. (Egli
l'ama ! Ogni sguardo, ogni detto (da sé) Il suo amore disvela per
lei. Vendicarmi fin d'ora potrei, Ma la sorte matura
non è!) Sve. Altro a dirmi t'avanza? Teo. E l'odio mio
Dunque, $veno, non temi? Sve, Io? Lo desio (partono da opposti
lati) Steca sala nel Castello di Pavia; in fondo un gran
verone dal quale si vede la pianura e in lontananza l'Appennino;
due porte laterali. Amalasunta sola. Ama. (guardando dal
verone) Ecco la luce... Coi suoi raggi il sole Le tenebre
disperde; e tu svanisci Fatai notte che a me toglievi il figlio,
Unica speme del mio core! Oh, come Sulla fronte mi pesa questa
triste Aurea corona! Alcune giovinette che passano sulla via, cantano in
lontananza) Cono esterno (Un giorno in quest'ora Per via
m'incontrò. Spuntava l'aurora Quand' ei mi baciò. È bello il
suo viso, Mi piace il suo cor, Mi piace quel riso Che parla
d'amor!) Ama. (prestando ascolto) Air opra usata allegre
Quelle fanciulle avviansi cantando. - Come sfavilla in quelle voci
tutto Il contento dell'anima! Io qui soffro! Un abisso ritrovo in
ogni loco, In ogni sguardo un tradimento... Ahi lassa! Coro esterno
(come sopra) (Di gemme e castelli » Se il ciel mi privò,
«Degli anni più belli » La fé mi lasciò. E tu, o giovinezza, Che
allieti il mio cor, Mi doni l'ebbrezza, Mi doni l'amor!) (il
canto si perde in lontananza) Ama. Eppure un dì di rosee
Sembianze rivestita Dono del cielo agli uomini Mi si pingea
la vita: Quando tra feste e gaudii Col nero crin gemmato I giorni
miei trascorrere Potea del padre allato. Or fra le tristi
tenebre Presso all'aitar di Dio Con disperati aneliti La
morte invoco anch'io. «Or che svanir le liete «Larve di pace e
amor, Or che si pasce l'anima Di lutto e di dolor. Lausco e Svarano
entrano cautamente. Sva. La vedesti? Lau. Piangeva; e quel
pianto Un inferno nel petto mi desta. Sva. E che pensi?
Lau. Che a compier ci resta Di Teodato il volere. Sva.
Frattanto Simulare ne giova. Il mistero, Della mente nasconda
il pensiero. Lau. Per lei scampo più in terra non v'ha;- S’essa
cede, perduta sarà. LA GENTE ROMANA prostrata ed inulta che un tempo sui
mondo superba regnò caduta nel fango ci sprezza c'insulta al giogo ribelle
piegarsi non può. Ma IL FERRO DEL BARBARO forier di sventura al suolo
atterrando DI ROMA LE MURA L’ITALICA TERRA di sangue inondò. Costei che di SENSI
ROMANI è nutrita il brando dei padri vorrebbe spezzar clemente redimer la
schiatta aborrita sul trono con essa chiamarla a regnar. Ma IL FERRO DEL
BARBARO ancor non è infranto foriero per gl’empii di lutto e di pianto più
splendido al sole s’'appresta a brillar. A ina lasunta, Lansco e
Svarano~ Lai. (inchinandosi in umile atteggiamento) Alla
regina messaggier m'invia li consesso dei prenci e dei
guerrier. Ama. Parla, signor. Lau. Nella parola mia
De' tuoi fedeli udrai franco il pensier! Una nemica parricida
mano A noi il re, a te toglieva il figlio. A che celarlo? Il
tradimento insano Cinge il trono di lutto e di periglio.
(marcato) Di questo scettro che ora stringi puoi L'immane pondo
sostener tu sola? il Ama. Mal t'intendo, guerrier... Da me che
vuoi? Oscura giunge a me la tua parola. Lau. Su quel trono a
te d'accanto Cinga un prence la corona. Se fìnor la madre ha
pianto, La regina or dee regnar. Ama. (quasi parlando a sé stessa. Dunque,
o schiava, tergi il pianto! Su, di fiori t'incorona! Pronta è 1' ara;
non di pianto, Questa è l'ora d'esultar! Di mio figlio dal letto di
morte Voi volete condurmi all'aitar? Sceglier dunque
m?è forza un consorte, Queste bende funèree squarciar? Sva. E
possente adorata re ina Sovra i Goti regnar tu potrai; Poiché
salva da certa rovina In tal guisa l'Italia sarà. Lau. Del sangue
dei regi Prescelto dal fato, Vi ha un prence che al
trono Sol puote aspirar. Ama. Chi è desso? rispondi!
Lau. S'appella Teodato. Ama. Teodato dicesti? (da sé) Mi sento
mancar! Lau. Neil' ombra e nel silenzio, Solo col suo
pensiero, Visse del mondo immemore, Fido alla patria e al
re. Non è guerrier, ma a reggere Il contrastato impero, l
fidi tuoi ten pregano, Devi innalzarlo a te! Ama. Non fia mai
! Sva. Che parli, o regina? Ama. Io noi deggio. Lau. Da
certa rovina Puoi tu sola la patria salvar! Sva. Bada, o
donna ! Secreta, possente Dei Romani l'astuzia congiura. Se sul
trono regnar vuoi secura, No, mei credi, non devi esitar. Lau. Che
risolvi? Ama. Noi deggio. Lau. (deposto l'umile atteggiamento e minaccioso)
Al comun voto Amalasunta ceda! -A te pon mente! Ama. E tanto
ardisci ? Parti! Lau. Ancor m'udrai ! Avvi un romano in questa corte: -ha
nome Svenoe tu 1' ami! Ama. (da sé) (Cielo!) Lau.
(afferrandola per la mano) Incauta, trema! Se esiti o nieghi, in questo
istesso istante Sarà Sveno dannato a orrendo scempio. Della morte
del figlio a tutti innanzi 10 qui l'accuserò. Ama. (con impeto)
Menzogna infame! Egli è innocente... e tu lo sai ' Lau. Che
importa? Sva. EGLI È ROMANO qui ciascun l’aborre il popolo è a noi
ligio e speri invano. Ama. Ahimè! Sva. Risolvi. Ama. (dopo un istante
d'esitazione) Ebbene... ei fìa salvato. A me consorte, sarà re
Teodato. a 5 Sva. Dell'impero dei Goti la stella S' oscurava
nell' italo cielo. Ma fra breve più fulgida e bella La vedranno i
nemici brillar, E nel fango dovranno gli ignavi, Sempre schiavi,
servire e tremar! Lau. (Io trionfo! Più fulgida e bella (da sé) La
mia stella risplende nel cielo. La perduta possanza che anelo Sol Teodato
a me puote ridar. E nei fango dovranno gli ignavi, Sempre schiavi,
servire e tremar !) Ama. Ahi, s'oscura, tramonta mia stella (da sé)
Che finora brillò senza velo. Signor, tu che regni nel cielo
1 miei passi tu devi guidar, E redenti dovranno gli ignavi,
Non più schiavi, al mio nome acclamar! (alle ultime parole Sveno
compare in fondo alla scena. Lausco e Svarano escono gettando su Sveno uno
sguardo di trionfo) Aniala«uiita e Sveno. Sve.
Grida di gioia risuonar qui sento. Ama. (Ah, tutto ignora.) [da sé)
Sve. Eppure d' Alarico L' inulta salma nell' ave! non scese.
Ama. Chi del figlio a me parla?... In queste soglie Sanguigna luce
spanderan fra breve A sacrileghe nozze le votive Faci d'Imene. - A
che mi guardi ? Il fato A me 1' impone ; sarà re Teodato. Sve.
(arretrando con grido di dolore) Ah! Ama. Tu piangi? Io asciutto ho
il ciglio. Mai non piange una regina. Della patria nel
periglio Ogni affetto tacer de. Quel poter che mi trascina
D'altro amore è in me più forte, Affrontar saprei la morte. Se la patria
il chiede a me. Sve. »Tu spezzasti mie catene, «Vita, onori a te
degg' io. Ogni avere ed ogni bene »Che beasse il pensier mio.
Tutto è sciolto. - Un dì saprai Se t'amò quest'infelice, Ma quel
giorno, o traditrice, Io vederlo non potrò. Alla tomba or mi
trascina Questo amor di me più forte, Sotto i colpi della
sorte L'alma affranta si spezzò! (si ode il suono di una marcia
funebre) Coro esterno (Neil' avello dei padri
discendi Dormi in pace, figliuolo dei re. Prega il ciel che i
presagi tremendi Sian dai Goti sviati per te. La tua vita ha
troncato il destino, Sulla reggia or si libra il dolor. Piombi
almeno lo sdegno divino Sovra il capo all'infame uccisori) Ama.
(con voce straziante) Ah... quelle voci!... Son le preci estreme.
Sovra la tomba di mio figlio... Io manco. (lasciandosi cadere quasi svenuta
sopra una sedia) Sve. (con disperata ironia) In te ritorna. Le
funeree faci Alle tue nozze pronube, domani Risplenderanno! In te
ritorna! Esulta! CORO esterno (allontanandosi gradatamente)
(Nell'avello dei padri discendi, Dormi in pace, figliuolo dei re.
Prega il ciel che i presagi tremendi Sian dai Goti sviati per te.
La tua vita ha troncato il destino, Sulla reggia or si libra il
dolor. Piombi almeno lo sdegno divino Sovra il capo all' infame
uccisori) Ama (quasi in delirio) Dove sono? Ah, già fissato,
Scritto in cielo è il fato mio! Non dagli uomini, da Dio, La pietà
sperar si de! Sve. Tu dagli uomini, da Dio, Maledetta sei da
me! Una sala nel Castello di Pavia. — Una porta in
fondo. Teodato solo. Teo. E ancor non riede... Inebbriante
meta Cui da tanti anni ascosamente anelo, Splendida larva di mie
notti, alfine Io ti raggiungo! Pur mi costi! A mezzo Volgea la
notte, ed io sognava... ahi, truce Terribil sogno! - Mi cingea la
chioma La corona regale, e sovra il trono D'Amalasunta al fianco io
m'era assiso Al sinistro chiaror delle pallenti Faci di morte... e
innanzi a me sorgea Dell'ucciso Alarico insanguinato L'orrido
spettro, e mi guardava come Quando nei petto il suo pugnai gli
infisse Lausco!... e con la man parea dal soglio Strapparmi a
forza!... ed io tremava. - Oh vile Debolezza dei core!... D'un delitto
A me che monta, se ciascun l'ignora? No, più non tremo. - Già la notte
sparve E con essa svanir fantasmi e larve! Nei cupo orrore di notte
bruna Quando la luce nel ciel fuggì, Fosca sibilla fin dalla
cuna A me lo scettro predisse un dì. E da quel giorno speme funesta
Per anni ed anni rinchiusi in cor; E nel silenzio d'aspra foresta
Solo, spregiato, vissi fìnor. Sangue mi costa quel serto, è vero:
Ma la mia sorte compir si de. Colpe e delitti sprezza il pensiero Se
ad essi è premio poter di re. Se al soglio stendere la man poss'io
Che a me il destino - vaticinò, Sui vinti popoli - lo scettro mio
Dall'Alpi al Brennero distende. Laureo, £ varano e Teodato. Lau.
Possente è quest'oro che tutto conquide! Teo. Che rechi? Sva.
Trionfi ; - la sorte ci arride. L\u. La credula plebe venduta
esultò. Il trono or t'aspetta. Teo. Calcarlo saprò.
Lau. «Ma pria che tu cinga la chioma del serto, »0 prence, rammenta
chi un trono t'ha offerto. «Dell'opra tremenda qual premio sperai,
«Teodato, scordarlo potresti? Teo. Giammai. Sva. Non scordar quella notte
e il pugnale che nell'ombra celato ferì. Lau. Non scordar che un
destino fatale nello stesso delitto ci unì. Teo. Io la mente, le
braccia voi siete in quest'opra di sangue e d'orror; Se compirla, o
guerrieri, saprete A voi dono possanza e tesor! Cadde Alarico. Ma
quel sangue è poco, Altri deve saziar l'ira del seno. Lau. Altri?...
t'intendo. Teo. Amalasunta e Sveno. Nella pianura di Pavia, commosse
S'adunano le turbe.Amalasunta Oggi il serto mi cinge! Sva. I miei
guerrieri io stesso condurrò. l jA u. Popolo e prenci A1 tuo
trionfo acclameranno. Sva. Quando L'ora fìa giunta, la fatale
accusa Profferisca il tuo labbro! AU - A noi la cura Lascia del
resto. Teo. La superba donna Ed il suo drudo, d'uno stesso
colpo Atterrati cadranno. - mia vendetta! Ad essi morte...
^AU. Il soglio a te s'aspetta. Teo., Lau. e Sva. (a tre)
Sol d'Italia, di luce funesta Splendi in questo bel giorno
sereno. L'atra gioia che m'arde nel seno, La mia sorte rischiara
così. Potrò alfine, a me intorno prostrata, Calpestarti, empia
turba di schiavi. Vili e ignavi! Già l'ora è sonata, Di vendetta
già corrono i dì. (partono per opposti lati) La gran pianura di
Pavia: si scorge a grande lontananza la città presso a cui scorre il
Ticino, e più lontano ancora la ca- tena degli Appenini. Da un lato
s'innalzerà un trono for- mato di trofei d'armi. Sveno, indi
Gualtiero. GuA.Chi veggio? Sveno in questo loco? stolto!
Fuggi! t'invola ai colpi della sorte! Altro scampo non hai...
Taci? Sve. Io t'ascolto. Non ti comprendo. Oua. E che
mai speri? Sve. Morte! Agli infelici altro non resta in
terra. Così tradirmi!... Iniqua donna! Gua. E sei
Uomo... e guerriero! Sve. Un dì lo fui! - M'atterra Or
la sventura. - Ahimè!... perchè vivrei?... (con 'profonda
tristezza) Della sua fede immemore E dell'amor giurato, Essa
i legami infrangere Volle del mio passato. Ma nel troncar quei
vincoli Ch'eterni io pur credea, Senza pietà la rea Anche il
mio cor spezzò. Fonte d'amare lagrime È l'avvenir, lo
sento. Verranno per la misera I dì del pentimento. Ma di quel
giorno infausto, Forse lontano ancora, La sanguinosa aurora,
Gualtiero, io non vedrò! [squilli di trombe; sì comincia a sentire in
lontananza il suono di una marcia trionfale che si va sempre più
avvicinando) Gua. Odi? Sve. {con rabbia) Ei trionfa! Folgori Non
ha per gli empi il cielo! Or gli omicida ammantansi Della virtù col
velo. Gua. Che parli? Sve. Un fero dubbio Mi
tormentava il petto. Ora in certezza cangiasi L' orribile sospetto.
Gua. Che far vorresti? Sve. Nulla. Io spettator - qui
resto. Gua. Ti uccidi! Sve. Il voto è questo Più
ardente del mio cor! Al suono di marcia trionfale si avanzano i guerrieri,
i principi, i sacerdoti, i congiurati, il popolo.Indi preceduti da
una schiera di guardie Amalasunta e Teodato rivestiti delle insegne
reali; poi Lausco, Starano ed altri guer- rieri. Sveno e Gualtiero si
confondono tra la folla; il popolo manda grida festive. Coro
generale Giunta è l'ora - dei Goti la stella S'oscurava
nell'italo cielo; Ma fra breve più fulgida e bella La vedranno
i nemici brillar. E nel fango dovranno gli ignavi Sempre
schiavi - servire e tremar! Lau., Sva. e Congiurati (a bassa voce tra di
loro) (Nel silenzio, nell'ombra celati Già a piombare la
folgore è presta... Dee quel serto di luce funesta Di Teodalo
sul capo brillar. Pronti all'opra; già l'ora è suonata; Gli
empi schiavi dovranno tremar!) Ama. Popolo e prenci, udite il mio
pensiero Or tutti voi che a me giuraste fé, Del mio
talamo a parte e dell'impero Ognun saluti in Teodato il Re! Tutti
Viva, viva Teodato! Rintroni TUTTA ITALIA DI CANTI E DI SUONI E dei Rardi
l'accento ispirato dica al mondo i dettami del fato. Teo. (in piedi sul
trono) Su, mescete in colmi nappi! La mia gioia ognun
divida. Ogni volto qui sorrida Del contento del suo
re! Lau. Sva. e Coro Su, libiamo e repente rintroni
Tutta Italia di canti e di suoni ; E dei Bardi l'accento ispirato
Narri al mondo i dettami del fato! Sve. (slanciandosi di mezzo alle
turbe Or tutti ascoltatemi: Vo' bevere anch'io! Le tazze
spumeggiano, Esulta il cor mio. Qui dove è sepolta La salma
tradita, Unirò, i sacrileghi, La morte alla vita! Ama.
Sciagurato! Teo. Quai detti! Che sento! Tutti Vanne,
fuggi: raffrena il tuo accento! Sve. Di cantici e suoni (con
impeto) Rintroni la reggia, Il vin che rosseggia È
sangue d'un re! Su, datemi un calice, Lo vuole il destino; Al
prence assassino (additando Teodato) Bevete con me!... Teo.
(alzandosi furibondo) Ah... è troppo! - Guerrieri! Addotto in
ceppi Ei venga, e tosto sia dannato a morte! Ama. (gettandosi ai
piedi di Teodato) Deh, pietade, pietà della sua sorte! Ei
delira, infelice. Guerrieri e Popolo A morte! A morte! Teo. (con
voce terribile respingendo Amalasunta) Per lui preghi? Invan lo
speri. Temi or tu lo sdegno mio. Tutti io leggo i tuoi
pensieri, E tuo sposo e re son io! (* guerrieri si slanciano contro
Sveno) Ama. Deh, fermate, o ciel. Teo. Popolo! Sve.
indegno! Teo. L'ultima ora per gli empi suonò! donna, io t'accuso!
(ad Amalasunta) (al popolo) Per sete di regno Del sangue del
figlio costei si macchiò ! Ama. cielo, e tu il soffri!? Lau., Sva.
e Congiurati (tumultuando) Discenda dal trono! Di cingere il
serto più degna non è! Sve. Ah, l'empio trionfa! Tutti Non speri
perdono! Discenda dal trono! Congiurati Teodato fia
re! Ama. (strappandosi la corona e calpestandola) M'uccidete! il
patibolo è presto. Ecco il serto... ai miei pie lo calpesto! Ma tu,
vile che esulti, paventa! Già la folgore piomba su te! Sve. Sì,
m'uccidi ! Ma larva cruenta (a Teodato) Me nei sogni, alle veglie
vedrai! Sì, m'uccidi, ma ovunqne ne andrai Ombra irata verronne con
te! Teo., Lau., Sva., Congiurati e Coro Traditori, tremate!
Egual sorte Vi riserba al supplizio, alla morte! Empii entrambi!
Tremendo, funesto, Vi colpisce lo sdegno del re! (Amalasunta e
Sveno sono trascinati dai guerrieri, mentre il popolo ed i Congiurati
acclamano Teodato.) Sala semidiroccata di un castello sul lago Trasimeno.
In fondo a destra una scalinata conduce alla terrazza di una
vecchia torre da cui traspare un lembo di cielo, solcato da neri
nu- voloni. - A sinistra pure sul fondo due porte le quali apren-
dosi lasciano vedere il lago. - È notte tempestosa. Una lam- pada
rischiara debolmente la scena. Amalasunta seduta, immersa in un cupo
silenzio: alcune Damigelle le stanno intorno. Dam. (parlando
fra loro) Oh, come rugge la tempesta. Udite? Con sinistro fragor,
del lago i flutti Solleva il vento sibilando, e l'etra La folgore
rischiara... Ama. Ahi... triste idea! Dam. Favella seco stessa... Ah, la
ragione L'infelice smarriva, il dì fatale Che qui all' esiglio la
dannar. Ama. Lo sento... Me chiama il figlio... e, nel
lenzuol funebre Avvolto, un uomo gli è d'accanto..: oh il veggio!
Sveno... Sveno tu sei! Che parli? E puoi Maledirmi così? Ah no, non fìa! Troppo
il vivere è grave all'alma mia! Dam. Geme e soffre... l'atroce sventura [fra
loro) Di sua mente il sereno offuscò. Così buona, sì candida e
pura Già tremendi dolori provò, (le Dam. partono) Ama.
(inginocchiandosi) Signor, che col sangue hai redento Dei
mortali feroci il destino, D'una misera ascolta il lamento, Su lei
volgi lo sguardo divino. Figlio, amici, corona
perdei!... Deh, mi togli, o Signor, questa vita. Tu che padre pei
miseri sei, Deh, perdona alla donna tradita! (si sente un fragore
d'armi che va sempre -più avvicinandosi) Sveno seguito da alcuni
guerrieri romani ed Amalasuitta. SvE. (accorrendo ad Amalasunta)
Ti riveggo... oh gioia! Ama. (indietreggiando con terrore)
Ognora La sua larva appar così. Sve. Di salvarti è tempo ancora. Per
salvarti io venni qui! Oh quante montagne stanotte ho varcato, Per
aspri sentieri, dei lampi al chiarori Tra gli ermi dirupi la mano del
fato »I passi guidava del mio corridori Coll'oro corruppi gli
sgherri inumani; Dell'empio i disegni svelarono a me... Fra poco a
svenarti verranno gli insani. Qui corsi a salvarti o morire con te.
Ama. Deh, taci! Vaneggi che parli di morte? Quest' oggi serena ci
arride la sorte. Sve. (con affetto e rapidamente) Vieni...
fuggiam! Propizia É la tempesta a noi. Vieni... i miei fidi
attendono, Salvare ancor ti puoi! In altre terre profughi
Scampo securo avremo. Là, ignoti al cielo e agli uomini, Vivere
ancor potremo! (dal fondo entra Gualtiero) Ama. (sempre delirando e
sorridente) Taci... che l'onda aspetta. Azzurro è il ciel sereno. Sull'agile
barchetta, Vieni, ci culli il mar' Vedi, soave e placido
Tramonta il sole, o Sveno. Della mia vita il tramite Voglio così
troncar! Sve. (disperatamente) Infelice!... non m'ode... o
sventura! Ah, ritorna in te stessa!... Gua. (che in quel frattempo
avrà spiato dalla porta in capo allo scalone, accorrendo
rapidamente) V affretta! Già d'armati risuona il
fragor! Sve. (tentando trascinare Àmalasunta) Vieni, ah vieni. Ama. La
lieve barchetta. Sovra il mare ci culli. Gua. Oh terror! Sve. A
forza si tragga! Alcuni Romani (accorrendo da una porta laterale) È
tardi! t'arresta! Già cinto è il castello. Sve. La morte ci
resta! Coro di Goti (interno) S'atterrin le
porte! Gua. Più speme non v'è! Sve. (sguainando la
spada) Guerrieri, a pugnare venite con me! {Sveno getta un
ultimo sguardo sopra Àmalasunta quasi assopita, e parte con Gualtiero ed
i guerrieri) Si ode il lontano cozzo delle armi ed il fragore della
pugna. Damigelle accorrendo atterrite. Dam. Regina, regina.
Deh, sorgi... ti desta; Non odi dell'armi la furia funesta?
Ama. Voi piangete?... sul mio ciglio Ora il pianto inaridì...
(t7 rumore si va sempre più avvicinando) Non sapete? Aveva un
figlio. Era bello... eppur morì. Molti ROMANI attraversano la scena fuggendo
nella mas- sima confusione e gridando) Guerrieri romani
Fuggite! I nemici già infranser le porte!... Fuggite! v' attende
terribile morte. (partono; le donne fuggono anch'esse; la scena resta
deserta) Ama. (sempre immobile e sorridente) Dalla madre
l'han diviso; Poca terra il ricoprì. E la madre dell'
ucciso Più non piange da quel dì!... (il fragore della mischia è al
colmo. Sveno mortalmente ferito si precipita sulla scena, e va a cadere
ai piedi di Amalasunta.Sul limitare della porta in fondo compare
Teodato colla spada sguainata, seguito da Lausco e Svarano.)
Amalasunta, Sveno» Teodato, Lausco, Svarano. La scena è rischiarata
dai lampi. Ama. (nel vedere Sveno moribondo, quasi destandosi da
un sogno) Tu Sveno!... che miro?... Sve. (con voce morente)
Salvarti. voli' io. L'estremo sospiro... tu accogli del cor. Ama. (alzando le
mani al cielo disperatamente) morte, a che tardi? Teo. (con
feroce ironia, avanzandosi) Fia pago il desio!... La morte
che chiedi, io t'arreco! Sve. (tentando sollevarsi) Oh furor !
Teo. Col tuo drudo ai danni miei Qui tessevi inganni
ancora. In mia possa alfine or sei... Di tua morte è giunta
l'ora!... (sguainando il pugnale) Questo ferro, ah tu
noi sai, Il tuo figlio uccise un dì! [Sveno con supremo sforzo
a/ferrando la spada si solleva per slanciarsi su Teodalo, ma fatti alcuni
passi ricade al suolo e muore, - La tempesta rumoreggia colla mas-
sima violenza) TEp. {gettando il suo pugnale ai piedi di
Amalasunta) Or lo prendi. - A te il serbai, Or che il fato si compi
! Ama. (afferrando il pugnale e sollevandosi in tuono profetico e
solenne) Godi!... ma ascoltami: Vicina a morte, Io la
tua sorte Predico a le! Ancora un anno... Poscia al
cospetto Del cielo - giudice T aspetto - o Re! (si uccide e
va a cadere presso il cadavere di Sveno.) Lau., Sva. Un
anno! Teo. (tremante) I delitti han forse un confine Che il
piede dell'uomo varcare non può?.Guerrieri Goti (prorompendo sulla scena con
faci ed armi insanguinate) Del sangue degli empi-rosseggian le
sale; Già cadder svenali -dal nostro pugnale, E il popol di schiavi
- che Italia rinserra Fra i re della terra - Teodato acclamò! Alberto Burgio.
Keywords: dialettica ostrogota, filosofia ostrogota, filosofia aria, filosofia
occidentale – Grice: the east and west --. “Those in a position to know” ostrogoto,
longobardo, ario, ariano, mistica, scuola di mistica, lingua, religione,
l’italia longobarda, l’italia ostrogota -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Burgio” – The
Swimming-Pool Library. Burgio.
Grice e Burtiglione.
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