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Monday, February 10, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z C CO

 

Luigi Speranza -- Grice e Contri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del Napoleone di Hegel – scuola di Cazzano di Tramgina – filosofia veronese – filosofia veneta --filosofia italiana – Luigi Speranza (Cazzano di Tramigna). Filosofo veronese. Filosofo Veneto. Cazzano di Tramigna, Verona, Veneto. Grice: “I like Contri – he reminds me of my days at Rossall! Of course Contri is interested in Hegel – “a la ricerca del segreto sofisma di Hegel” – and attempts to reveal it as Stirling never could! But Contri is also interested in ‘il bello’ – being an Italian! – The interesting thing is that he goes back to Italy – Aquino! He has a good exploration on ‘verum’ in Aquino, too, which reminds me of Bristol, Revisited!” Allievo di Zamboni, elabora una minuziosa critica alla logica di Hegel di cui mise in rilievo le incongruenze gnoseologiche e metodologiche che portano alla errata concezione hegeliana della realtà come vita dell'idea. Rovesciando l'immanentismo hegeliano, scopre un mondo di realtà sviluppando una concezione di filosofia della storia che denomina “storiosofia”.  Studia a Verona. Si laurea a Padova. Discepolo fervente di Zamboni, di cui accolse e sostenne la dottrina della gnoseologia pura. In alcune occasioni si descrisse come elaboratore in contemporanea al suo maestro Zamboni di alcune teorie, collegate all’estetica ma non solo. Insegna a Bologna. Zamboni fu espulso dall'Università Cattolica con la motivazione di allontanamento dalla ortodossia tomistica e con accusa di non conformità al Magistero della Dottrina Cattolica Romana. C. definì la posizione della Cattolica con il termine da lui coniato di “archeo-scolastica”. La posizione “archeo-scolastica” della Cattolica di Milano, di una conoscenza indimostrata, a priori, dell’essere e degl’esseri era bersaglio di critiche da parte di filosofi cristiani e non che la ritenevano inadeguata nell’ambito del pensiero moderno. Contri sostenne che la dimostrazione della conoscenza dell’essere e degl’esseri data dalla Gnoseologia Pura di Zamboni superava definitivamente tali critiche e ridava certezza dimostrata della conoscenza e dell’esistenza di Dio. Accusa di plagio Gemelli per aver pubblicato nella monografia Il mio contributo alla filosofia neoscolastica (Milano) pagine già scritte da Mercier e Wulf, senza indicare le citazioni. Gemelli diede le dimissioni da Rettore della Università Cattolica ma rimase in carica. Insegna Bologna. Il prof. Ferdinando Napoli, Generale dei Barnabiti, cultore di scienze naturali, venne depennato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, allora presieduta dal Gemelli. Venne dato ordine di non pubblicare articoli a firma di C.. Continuando la difesa della dottrina di Zamboni, fondò la rivista quadrimestrale di polemica e di dottrina neoscolastica “Criterion”. Il confronto con l’Università Cattolica di Milano continuò negli anni successivi con relazioni a numerosi congressi di cui C. da resoconto sulla rivista. Insegna a Ivrea. Sulla rivista Criterion apparvero intanto i saggi del C. sui suoi studi hegeliani che prelusero all'opera definitiva dLa Genesi fenomenologica della Logica hegeliana. Partecipa attivamente agli organi culturali del fascismo. Sscrisse su giornali quali Il Secolo Fascista, Quadrivio, Il Regime Fascista, Il meridiano di Roma e La Crociata Italica. Contri si avvalse della tribuna offerta da queste testate per promuovere i suoi studi filosofici e critica filosoficamente l’ ebraismo di Spinoza, di Durkheim e di Bergson. Insegna a Milano e tenne conferenze su studi hegeliani. Sorse una disputa con Zamboni in seguito all'articolo Il campo della gnoseologia, il campo della storiosofia, in risposta alla pubblicazione del Contri Dallo storicismo alla storiosofia. Prese parte attiva a congressi tomistici internazionali e a congressi rosminiani.  Partecipa attivamente alla “Missione di Milano”, lanciata dall’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini.  Come riconoscimenti ai suoi studi conseguì alcuni premi fra i quali uno indetto dall'Angelicum sul tema “Quid est veritas”, e una segnalazione all'Accademia dei Lincei per l'opera: Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, Milano, LSU. Discepolo e geniale continuatore di Zamboni. Così potrebbe definire la situazione filosofica di oggi. Il mondo del pensiero, perduta la bussola non teologica d'orientamento, è costituito da una miriade di metafisiche che cozzano le une contro le altre tanto da definirsi che heghelianicamente come il divenire in sè, che è puro fenomenismo. A tale fenomenismo corrispondono molteplici fenomenologie. Per esempio quella di  Heidegger, afferma che il reale è un solo, una totalità onniafferrante (Hegel direbbe begriff), tanto come essere quanto come niente. Anche Hidegger poi tenta la via della salvezza ammettendo la realtà del mondo esterno come di un che, che resiste al soggetto, ponendosi nel solco del pensiero di Zamboni. In questo modo Hidegger tocca il problema che si volle e che si vuole eludere: la realtà del mondo esterno. Esistono queste realtà, come la mia realtà, indipendentemente dal pensarle? Per dare risposta a questo interrogativo cruciale, è necessaria la gnoseologia pura. La gnoseologia secondo C., scoprì la risoluzione definitiva del problema della certezza della conoscenza umana. Essa permise di risolvere il problema dell'esistenza di Dio, riavvalorando criticamente le cinque vie della dimostrazione Aquino. Sono meriti del metodo filosofico di Zamboni il poter affermare la sostanzialità del mio “io” personale, la mia realtà individua e dimostrare l'esistenza di Dio, trascendente, personale. Il metodo zamboniano distingue gli elementi della conoscenza umana tra la sensazione, che e sempre oggettiva, e lo stato d'animo e tra questi "quello stato d'animo che è anche atto: l'attenzione". Ogno stato d'animo e sempre soggettivo. La gnoseology riesce a cogliere la realtà del proprio “io”, nei suoi atti e stati. Essi sono reali, per­ché immediatamente presenti all'”io”, e se sono reali gli accidenti dell'io, perché essi sono modo di essere dell'io, reale è l'io, come sostanza, cui essi ineriscono. Perciò dall'immediata certezza della realtà degli accidenti di un ente si giunge alla certezza della realtà sostanziale dell'io." La critica alla posizione della neoscolastica di Gemelli, Olgiati e Masnovo sulla conoscenza indimostrata dell'ente e la soluzione tramite la gnoseologia pura. Rispetto alla dimostrazione della realtà dell'ente, si fonda così nell'esperienza immediata ed integrale il concetto di essere e ‘esseri’ che non è più necessario assumere acriticamente, come qualcosa di razionalmente immediato, pena l'impossibilità di una logica razionale. L'assunzione acritica del concetto di essere ed esseri è propria del neotomismo dell'Università Cattolica, che in un suo autore, Masnovo, perviene alla sua massima teorizzazione nel "mio hic et nunc diveniente atto di pensiero". Ma con questo l'essere e gli esseri è solo pensato e ammesso acriticamente come pensiero, è un presupposto, mentre nella gnoseologia zamboniana è il risultato di un processo di astrazione, che deriva da una realtà immediatamente presente all'autocoscienza dell'io, che non ha la natura del pensiero, non è pensiero essa stessa, ma qualcosa di diverso. Si può pertanto uscire dalla formula logica della ragion sufficiente, che è sempre e comunque razionalista e riduce al razionalismo anche il neotomismo. Nell'ambito dell'esperienza immediata ed integrale si scopre invece non la ragion sufficiente, ma la sufficienza ad esistere o no. E la fondazione ed il ripensamento delle prove dell'esistenza di Dio, e in particolare della terza via tomistica, diventano inoppugnabili. Nessuno più può dubitare dell'esistenza del sufficiente ad esistere, che è Dio."  Secondo Peretti la fondazione gnoseologica della metafisica è il più grande merito di Zamboni.  L'ambiente filosofico dell'Università Cattolica non accetta la gnoseologia zamboniana e fonda la metafisica sul concetto di ente, assunto acriticamente, come un presupposto indimostrabile. Esso finì per identificarsi con l'ente di ragione (ens rationis), non sfuggendo all'insidia hegeliana, che lo aveva dialettizzato sia come essenza che come esistenza. La dialettica negativa di Hegel produsse ben presto nella corrente neotomista di Milano (ma anche in altre università cattoliche) i suoi effetti devastanti. Aveva messo in guardia i neotomisti dalla fraus hegeliana, che si svela nell'antitesi (contra-posizione) come negazione. Seguendo la metodologia gnoseologica, Contri affronta Hegel, il "padre del fenomenismo" compiendo una minuziosa e sistematica analisi della fenomenologia hegeliana. Dopo averle individuate ha messo in rilievo le incongruenze gnoseologiche e perciò metodologiche che sfocia nella concezione della realtà come vita dell'idea, presentandola come uno svolgimento dialettico del ‘begriff’, come qualche cosa che non mai in sé, ma diviene eternamente in sé e per sé. C. resa evidente questa impostazione, anima del fenomenismo, e scoperta nella deficienza gnoseologica e pertanto metodologica, derivata dall'impostazione razionalista ed empirista che al fondo dello stesso criticismo, rovescia l'immanentismo hegeliano, che si gli scopre non più come mondo di idee, ma di realtà, di cui ognuna è altro del suo altro, in un ordito cosmologico, di cui la storia dell'uomo rappresenta l'essenza. Ed ecco la storiosofia, che reclama, al posto dell'immanentismo gnoseologicamente insostenibile, la trascendenza della trama di questo ordito, che a questo punto in sé e per sé non può più essere spiegato (si ricordi che l'anima della spiegazione hegeliana è la "negazione"!). Tale trascendenza prova l'esistenza di un Dio trascendente, che ha concepito la trama creando le realtà ordito di questa trama, di realtà in reciproca relazione, in cui non c'è membro che sia fermo. In questo ordine si risolvono in modo nuovo i rapporti tra le realtà, che per esempio tra l'anima e il corpo, superando così gli scogli di una spinosa questione di eredità aristotelica, di grande importanza anche oggi, in cui le realtà terrene e spirituali non trovano la sintesi equilibratrice.  La storiosofia rappresenta uno sviluppo del metodo di Zamboni, considerandolo la via per rinnovare tutta la filosofia poiché esso non è storicismo filosofico, non è naturalismo, è avanti positivistico, non è speculazione, ma metodo appunto, (metodo) che da secoli la filosofia europea ha cercato, perdendolo oggi nella disperazione del momento." Altri saggi: “Il concetto aristotelico della verità in Aquino” (Torino, SEI); “Gnoseologia” (Bologna, L.Cappelli); “Il concetto d’armonia” (Bologna); “Il tomismo e il pensiero moderno secondo le recenti parole del Pontefice, Bologna, Coop. tipografica Azzoguidi): “Del bello” (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina); “La filosofia scolastica in Italia nell' era presente” (Bologna, Cuppini); “L’essere e gl’esseri” (Bologna, C. Galleri); Un confronto istruttivo: Mercier, Gemelli, De Wulf ed altri ancora, Bologna, C. Galleri); “Pane al pane: riassunto d'una situazione, Bologna, Costantino Gallera. “Neo-scolastici e archeo-scolastici” (palaeo-scholastici) sulla rivista Italia letteraria; “Il segreto sofisma di Hegel” (Bologna, La Grafolita), “Mussoliniana: il discorso del duce” (Bologna, La Diana scolastica); “Gnoseologia pura di A. Hilckmann; Il segreto di Hegel di S. Contri, Bologna, Stabilimento Tipografico Felsineo); “Hegel, Ivrea, ed. Criterion); “La genesi fenomenologica della logica hegeliana” (Bologna, ed.Criterion; Ambrogino o della neoscolastica, dialogo filosofico,  Bologna); “La soluzione del nodo centrale della filosofia della storia, Bologna, Criterion); “Complementi di storiosofia, Bologna, Criterion); “Punti di storiosofia, Bologna, Criterion; Lettera a S.S. Pio XII sulla filosofia della storia, Bologna, Criterion; Il Reiner Begriff (=concetto puro) hegeliano ed una recensione gesuitica, Bologna, Criterion; Dallo storicismo alla storiosofia. Lettura prima, Verona, Albarelli; I tre chiasmi della storia del pensiero filosofico.  Inquadratura unitotale della controversia sulla storiosofia, Milano, ed. Criterion); “Rosmini” (Domodossola, La cartografica C. Antonioli); Ispirazione da dei” divina della S. Scrittura secondo l'interpretazione storiosofica” (Milano, Criterion); “La sapienza di Salomone, Milano, ed. Criterion; “La riforma della metafisica” (Milano, ed. Criterion); Filosofia medioevale.  Raggiungere la forma nuova, Fiera Letteraria; Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, alla luce della momentalità storiosofica” (Milano, Libreria Editrice Scientifico Universitaria); “Rosmini” (Milano, Centro di cultura religiosa); “Posizioni dello spiritualismo Cristiano: La dottrina della poieticita in un quadro rosminiano” (Domodossola, Tip. La cartografica C. Antonioli); “Assiologia ed estetica”, Theorein; Posizione dello spiritualismo cristiano. La dottrina della poieticità, in un quadro rosminiano, Rivista rosminiana; Heidegger in una luce rosminiana: la favola di Igino e il sentimento fondamentale, Domodossola, La cartografica); Missione di Milano. Chiosa storico-filosofica, Ragguaglio); “Heidegger in una luce rosminiana, Rivista rosminiana); La coscienza infelice nella filosofia hegeliana” (Palermo, Manfredi); “Husserl edito e Husserl inedito” (Palermo, Manfredi); “Kierkegaard: profeta laico dell'interiorità umana”; “Saggio di una poetica vichiana” (Milano, Il ragguaglio librario); La fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Rivista rosminiana; L'unità del pensiero filosofico, Sapienza; Il pluralismo filosofico nell'ambito di una concezione cristiana, Sapienza; In margine al centenario dantesco, Sapienza; La negazione come principio metodologico di unificazione speculativa, Theorein; Vita e pensiero di Hegel, Rivista rosminiana; Possibilità di un accordo tra la dottrina rosminiana del sentimento fondamentale e le concezioni moderne  sull'inconscio, Rivista  rosminiana; Morale e religione nella Fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Palermo); “Parallelo tra Hegel e Rosmini, Palermo, Mori); “Metafisica e storia, Palermo, Mori); “Il sofisma di Hegel” (Milano, Jaca book). “Il caso Contri”; “Gnoseologia”; noseologia, storiosofia; Contri, Note mazziane; La propedeutica metafisica hegeliana al problema del pensare e la lettura rosminiana di S. Contri, Contri tra gnoseologia e storiosofia, Punti di trascendenza in S. Contri, in Sophia, Crociata Italica, Fascismo e religione nella Repubblica di Salò, L'Estetica di Benedetto Croce. Certi gestiscriveva la Vanni Rovighiche gli furono rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di grande ingegno e di purezza adamantina: Zamboni, un gesto che non può non essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in bocca. Contri, (Circa il volume di Croce 'La storia come pensiero e come azione. Siro Contri Presidente dell' Istituto di Cultura Fascista. CONDOTTA POLITICO-MILITARE ESPRESSA DAI FATTI UNIVERSALMENTE NOTI,  I QUALI CELEBRANO COTANTO LA SINGOLARITÀ DI BONAPARTE. Paralello degli uomini ipiù celebrati  dalla Storia dei Secoli. Non è del mio proposito il qui premettere alle azioni di NAPOLEONE le cause che rivoluzionarono la Francia, e i  fatti che a danno proprio, o di altrui  operarono i Francesi, poiché questi sono  noti a tutti, o se qualcuno' vi è, che non  li sappia, da quelli stessi, che io dirò,  operati da Lui, meglio si rileverà la grandezza degli altri distinguendosi troppo  bene riunite in un solo quelle grandi  ia   qualità, con le quali si va a riordinare,  e regolare in pace il cittadino, come in  guerra a vincere e superare l'inimico.  Nè vi voleva di meno: conobbe BONAPARTE opportunamente, che non si ha  la pace, se non si fa la guerra, che non può  tornare all'ordine il Francese, se non è  vittorioso, subito che la gloria di aver  vinto altrui richiama, per goder dei frutto, al dovere di vincere se stesso se non  si dipende? Col dipendere dagl'ordini di  BONAPARTE nel campo di battaglia, si  volò dal Francese alla vittoria: che meraviglia, se all'un fatto autorevole perciò riesci agevole inculcare con altri i  doveri di giustizia, nell'osservanza de'  quali, rimesso l'ordine pubblico, si passò  ad unire a quelli di conquista i frutti  preziosi della pace.   Troppo è singolare NAPOLEONE  BONAPARTE nella storia dei secoli.  Quegli uomini che arrichirono di beni,  che fornirono di gloria la Patria, ed i regni, di cui erano signori, di cui erano cittadini, con le loro imprese in guerra,  con i loro consigli in pace, daranno a me  tutto quel meglio che ciascuno di essi  possedeva parzialmente, per provarlo  riunito in BONAPARTE a riordinare la  Francia, a pacificare V Europa. Non si vuol qui osservare l'ordine dei  fatti, nei quali BONAPARTE si mostrò  da prima grande Capitano, ma presa sibbene l'epoca del Consolato tanto glorioso  per Lui, e dove Egli si mostrò grande  politico, si faranno servire i fatti nell 9  uno, e nell'altro stato operati all'espressione di quella condotta, la quale praticata da Lui solo, celebra veracemente la  sua Singolarità.   Dirò pertanto, con tutto che io non  ignori, che Giulio Cesare fu l'uomo in  Roma, il quale più d'ogni altr'uomo delle storie antiche può dare a me una  qualche simigliala di NAPOLEONE in  Francia, pure i fatti che me lo descrivono per grande, non sono quegli stessi che  ora mi dimostrano grandissimo BONAPARTE. 11 ritorno di GIULIO CESARE dal Governo della Spagna non è simile a quello di  BONAPARTE dopo V occupazione dell'  Egitto; Cesare trovò la Repubblica Romana divisa in due fazioni, una di GNEO POMPEO, e l'altra di MARIO CRASSO. BONAPARTE trova la Repubblica non divisa in fazioni, ma in tanto disordine e confusione, che più non è divisibile, poiché l'eccesso dell'anarchia produce la serie indefinita delle divisioni  sempre rinascenti e rovinose; pure non  altri vi fu, se non che Egli, tanto potente, che la divise per trarla dalla sua confusione. GIULIO CESARE vien pregato da ognuno dei due rivali a farsi del suo partito,  e Cesare si fa mediatore di pace.   BONAPARTE non pregato va da se  a rimproverare d'ingiustizia, e di oppressione i Governanti, e a nome del Popolo  Francese ingiustamente oppresso intima  la loro destituzione. Giulio Cesare si fa pacificatore di chi  voleva la pace. BONAPARTE assicura la pace a fronte di coloro che volevan la guerra. Giulio Cesare dee vincere con la persuasione due nemici, che erano nel seno della Patria a promovere con la divisione l'interna discordia. BONAPARTE dee vincere con la forza i nemici esterni della Francia, e dee  persuadere la Francia in disordine della  necessità di un nuovo ordine di cose per  felicitarla. Giulio Cesare accetta l' incarico di  mediatore non per servire, ma per regnare; perchè coll'esser così fra Crasso e  Pompeo, ambidue li vedeva dipendenti  da Lui; regna chi non dipende, non dipende chi giudica, e quello che giudica  si fa arbitro dei due nemici: non voleva Cesare con la sua dipendenza rendere  più forte uno dei rivali, ma voleva col  pretesto della sua mediazione indebolire ambidue. Trattò la pace non per unirli fra di loro, ma per unirli a se, non perchè fossero amici, ma perchè fossero disarmati.   BONAPARTE instruito dei disordini della Francia e delle sue perdite, con  eroica risoluzione veste il carattere di  guerriero, di pacificatore; si mostrò così  al Consiglio dei Cinquecento, dove era  maggiore l'autorità, e dove erano tanti  che volevano governare; non si ritiene  da dirli indegni di quest'ufficio, quando  per due anni avevano così male governata la Francia. Il rimprovero di un simile  delitto, la fermezza di chi rimprovera,  ed il coraggio, avvilì e disperse i delinquenti, (molto più di Trasibulo che cacciò d'Atene i trenta suoi tiranni): si rimi*  se allora BONAPARTE al voto del Popòlo Francese, che lo acclamò Liberatore;  ed assicurato di lealtà, annunziò il Consolato, e la sua Costituzione. Fatta la pace fra Pompeo, e Crasso  per opera di Cesare, tutti due concorsero a farlo Console, e in tutto il tempo n   Consolato il di Lui Collega non comparve mai a palazzo.   Si vide BONAPARTE Primo Console, e gli altri due furono sempre con Lui  nel Consolato. Se fu solo Cesare a comandare fu con  usurpazione.   Se ha BONAPARTE nel comando la  primazia, glie la concede la costituzione: Cesare non soffriva che gli applausi  di buon governo fossero attribuiti ad alcun altro che a Lui: per tal modo andava  avvezzando Roma al governo di un solo,  e disponeva gli animi ad approvare nel  Consolato la Monarchia.   BONAPARTE sebbene il primo nel  Consolato, ed il maggiore nella autorità;  è però sempre insieme con gli altri a governare; non sprezza l'opera altrui, non  sfugge l'altrui consiglio, e vuole che tutti abbiano parte al merito della sua bontà, della sua aggiustatezza; non vuol cambiar governo nei momenti che tanto si  opera per stabilirlo; tutto quello che si fa, si fa per conoscere, 3e il Francese può  essere buon repubblicano: il grido della  libertà democratica non è un voto valevole per la esclusione della monarchia;  quantunque siansi veduti i Francesi eletrizzati andare incontro alla morte per  vendicare la libertà; si deve dar ciò  alla forza di quel barbaro terrore difuso  per avvilimento universale con la oppressione dell'innocente; sostenuto con  la franchigia ed esaltazione del malvagio per accrescere il numero dei terroristi; non già ad un maturo consiglio, ad  una risoluzione giudiziosa, unanime, universale, che però il procedere di BONAPARTE fu assai prudente per richiamare  all'ordine i Francesi in rivoluzione, e  metterli veracemente in libertà, col costituire la forma di un buon governo.   Cesare ha finito il Consolato. BONAPARTE viene dichiarato a Vita  Primo Console. Cesare dopo il Consolato si elesse il  Governo delle Gallie dove andò con E-sercito, e fece guerra a molte nazioni.  Vide pesare che le fazioni lo potevano  fare il primo della Repubblica, ma non  bastavano a farlo padrone, per cui era  necessario un esercito: come armarsi però  senza scoprire il suo disegno? Ecco l'arte  di Cesare; si armò per servizio della Repubblica, la servì valorosamente per poterla signoreggiare, la esaltò per poterla  opprimere: nel regnare l'arte del segreto  non è tacere, ma consiste in rivelare una  intenzione verisimile che nasconda la  vera, ma che non sia la principale: la più  fina simulazione del mondo consiste nel  sapersi ben servire della verità. BONAPARTE fu fatto Primo Console  non dalle fazioni, ma dal voto libero di  una gran nazione: i meriti della guerra,  e quelli maggiori della pace precedettero  la sua perpetuità nel Consolato; non servì alla Francia per signoreggiarla, non la  esaltò per opprimerla, quando con averla  levata da suoi disordini, e fatta amica di  tutte le nazioni 5 non cercò di escludere i tanti dall'onore di questa grand'opera,  i quali ora sono con Lui nel governo vigilantissimi per conservarla. Per dare però una maggior rilevanza  al paragone di BONAPARTE con Giulio  Cesare, mi farò a tracciar questi nè suoi  principj per condurmi così a provar meglio la singolarità dell'altro; e giusta la  diversità di tante sue virtuose azioni, mi  farò pure a dir di quelli, i quali nei bei  secoli della Grecia, e di Roma onorarono  la loro patria, perchè i più valorosi nell'  arte della guerra, i più sapienti nel governo dei popoli tra coloro tutti, che il  precedettero, scorrendo la vita de' medesimi, dimostrerò, senza osservare l'ordine dei tempi, giacché non è ciò del  mio soggetto, riunite in BONAPARTE le  grandi virtù di tutti quelli celebratissimi nella storia delle nazioni. CeSare nella sua più fresca età passò  la prima volta a militare sotto Marco Minucio GermOj allora Pretore in Asia.,  e mandato in Bitinia all'assedio di Mitiiene, la sola città che ricusava sottomettersi ai Romani, si distinse tanto nella  sua presa, che meritò diverse corone civiche, le quali davansi a chi aveva salvata la vita ad alcun cittadino romano.  BONAPARTE che nel principio della  Rivoluzione Francese trovavasi in Parigi  tutto intento a coltivare i grandi suoi talenti nella scuola militare, e nella vera  filosofia, fu mandato all'assedio di Tolone Ufficiale in una compagnia d'artiglieri,, allora di soli ventitre anni, ed ivi le  prove del suo valore furono tanto luminose e così sollecite, che i Rappresentanti del popolo ivi presenti, non tardarono a promoverlo Generale di Brigata,  nel qual posto più d'ogn'altro suo pari si  mostrò esperto nell'arte difficilissima di  condur i soldati alla vittoria; e singolarmente intrepido si rendette in quei  terribili momenti di assalto, sotto l'impeto del quale ebbe a tornar Tolone in  potere dei Repubblicani. Giulio Cesare fu accusato da L. Vezio  cavalier romano complice nella cospirazione di Catilina. BONAPARTE fu accusato, e fatto arrestare a Nizza dal Convenzionale Befroi  come terrorista. Il terrore allora era diretto a dominare sugli uomini per disordinarli, per perderli. La Congiura di Catilina si volgeva a  fare un dominatore di Roma per felicitarla. Il Valore mostrato nell'armi da BONAPARTE mosse l'invidia di tanti ad  accreditarne l'accusazione. Fu accusato Giulio Cesare di troppa  parzialità per Lentulo, Gabinio, Cetego,  Statilio capi dei congiurati. Questi per  salvar la vita ebbe bisogno di un CICERONE; fuggì gli occhi di tutti; si rinserrò  nella propria casa timoroso d'incontrare  nuovamente il risentimento dei Padri. BONAPARTE va da se a Parigi per fare delle rimostranze al Comitato di salute  pubblica contro una simigliante ingiustizia, ha cuore di orare la propria causa  in faccia a quel Tribunale istesso eretto per distruggere gli innocenti; e non  avendo più dove ricorrere per denegata  giustizia, chiede il permesso di ritirarsi  a Costantinopoli, perchè soverchiamente delicato, non vuol vivere a fronte di  un'accusa troppo ingiusta. Il patrocinio delle Vestali, l'amor del  Popolo tant'altre volte come in questa  capriccioso, perchè mosso dall'ingenita avversione al volere dei grandi, richiama  Giulio Cesare al suo uffizio. Affidato BONAPARTE al patrocinio  più sicuro della sua giustizia, attende da  filosofo il momento propizio alla sua  gloria, poiché il Vendemiatore vide  BONAPARTE col comando di un corpo  numeroso di linea tanto ben disposto, e  regolato, trarre dall'estremo periglio la  Convenzione, e salvar Parigi dal furore  di un nuovo disordine, che urtando liberamente, poteva nelle sue rovine aprire  la tomba a tutti i Cittadini : un'operazione tanto salutare, li procurò dei potenti  amici, li meritò la pubblica ammirazione, la riconoscenza nazionale; in questo  giorno egli trionfò di tutti i cuori: gli  amici lo amavano teneramente, lo temevano grandemente gl'inimici : il suo trionfo fu molto dissimile a quello di Mario,  di Siila, di Cesare, e di Pompeo; questi  volevano, trionfando, signoreggiare, ed  avvilire tutti i Romani: BONAPARTE  riponeva nella grandezza dei Francesi, e  nella maggiore loro felicità il suo trionfo, la sua gloria era di vincere., lasciando  alla nazione di trionfare. La prima azione di questo Giovine  Guerriero fu quella di sostenere nella  Patria i diritti delle supreme podestà  contro un forte partito dei suoi, il qual  voleva nella morte dei Governanti assicurare al disordine la sua dominazione,  che è quanto dire, a Lui viene affidata  la grande impresa di frenare, di avvilire  gl'inimici interni della Patria, che sono  i più potenti, i più terribili, perchè i più  sicuri di unire alla forza aperta i funesti  progressi di una domestica prodizione.  Per tutto questo era mal sicuro dell'istes^  ssl sua vita, perchè Comandante di tanti  altri armati troppo facili a cedere alla seduzione di alcuni di quelli, coi quali oltre ad aver comune la patria, erano del  medesimo sangue, divisi soltanto di sentimento per la formazione di questo, o  dell'altro Governo pure BONAPARTE  superiore ad ogni pericolo, va, come si  disse, condotto dal suo genio a farsi il  terrore dei sediziosi, il salvatore dei Governanti: molto più grande questa impresa di quella di Petrejo contro Catilina, poiché questi comandava all'aperto  a piè dell'Alpi i suoi Armati, dove la cognizione del luogo, e la sua ampiezza  dava al Capitano in caso di perdita il  piano per una gloriosa ritirata. Quando  per BONAPARTE il campo di battaglia  era Parigi; aveva pertanto comune con  gl'inimici gFistessi ostacoli, i medesimi  pericoli, che anzi si facevano maggiori per Lui; perchè doveva esser sempre  nel sospetto, che quella immensa popolazione rivoluzionata, inquieta per l'incertezza di un felice destino, potesse  fornire ad ogni momento di un maggior  numero di soldati le legioni dei ribelli:  con tutto questo le sue disposizioni furono così giudiziose, il suo coraggio tanto sorprendente, che con poco sangue  sparso vinse interamente la fazion nemica, e levò ad essa ogni speranza di risorgere, per tornare contro di Lui a nuova  pugna. Egli adunque, come Filopemene  mandato a guerreggiare contro gFistessi  Greci suoi, non si disse per Lui ventura  il trionfar di loro, ma una soda virtù,  mentre quelli, che eguali han tutte le cose, non possono che per virtù primeggiare sugli altri, e distinguersi più di loro. Se fu capace BON APARTE di trionfare sugl'istessi suoi Francesi, e ciò non  per se, ma per il solo bene dei vinti, ragion voleva, che i Governanti ad una  prova tanto singolare d'amore, scegliesscio Lui Comandante in Capo dell'Armata d'Italia, siccome gl'interpreti sicuri  del voto universale dei Francesi, per  aprire cosi un nuovo campo di gloria ai  suo valore, ed assicurare a loro il bene  della vittoria sugl'esterni nemici della  Francia. NAPOLEONE va senza ritardo al  luogo, ^ove lo attende la grandezza de'  suoi destini; quivi essendo si mostra a  tutti i suoi, come Marc'Autonio mirabilissimo nella idea delle sue imprese, le  concepisce quali dovevano essere nella mente di un regnante; e più di Marc’Antonio l'eseguisce con facilità, mentre  questi mancava di una pronta attività  per una felice esecuzione. È dunque BONAPARTE, dove nasce l'Appennino e  mancan l'Alpi, fra strette gole ed inaccessibili dirupi, in quei luoghi istessi praticati altra volta con bravura da un Flaminio, da un Postumio celebratissimi  Capitani di Roma; quivi egli è a fronte  di un inimico, che si avanza vittorioso da Voltri per battere Monteligino, ultimo trinceramento repubblicano, di dove  poi andar più oltre con maggior speditezza, perchè minori gli ostacoli del luogo, ed arrivare una volta a por piede sul  terreno Francese, per risvegliare così,  ed animare il partito nemico delia libertà. Con tutto questo che pareva tanto  prossimo ad eseguirsi, BONAPARTE nelle concepite disposizioni guerresche, vede sicura l'occupazione dell'Italia; e più  oltre andando, non vede tanto incerto  l'approssimarsi alla Capitale dell'Alemagna: le grandi distanze, gl'infiniti pericoli, che si frappongono, non lo distraggono un momento dal porsi sulle mosse  per dar principio all'opera, e giungere  ad occupare la grandezza del suo fine: i  modi sono presti per vincere; in caso di  mancanza, sono pronti gli altri per trarre  dalla sua difesa gli utili di una grande  vittoria. Sagace nella previdenza di tutte  le cose, passa con risolutezza dallo stato  di difesa, a quello di offesa; e mentre si occupava rinimico a vincere le resistenze del Capo di Brigata Rampon, BONAPARTE, seguitato dai prodi Generali  Berthier, e Massena, dirige le truppe dei  suo centro, e della sua sinistra sul fianco, e alle spalle degli Alemanni. Questa  manovra tanto difficile nel luogo., ed eseguita sugl'occhi di un inimico vigilantissimo, preparò la memorabile vittoria di  Montenotte, e la decise; poiché simile  ad Alessandro, e a Pirro nella prestezza  delle disposizioni, nell'impeto, e violenza del conflitto, divise il corpo di Beaulieu dagli Austro-Sardi; e mentre batteva  un corpo, l'altro era tenuto a bada, e poi  piombando su di questo, ambedue furon vinti, disordinati, dispersi; la conseguenza di ciò fu l'essersi reso padrone del  Cairo, di Dego, e della posizione importantissima di santa Margherita, per cui  trovossi al di là delle cime dell'Alpi, su  i declivi, che guardano la bella Italia.  La impresa non fu strepitosa soltanto  per essere stata eseguita nel breve corso  di quattro giorni, ma perchè opera di un  Capitano di soli ventisette anni, come  Pompeo nell'Affrica contro Domizio della  Fazion Mariana, e Jarba Re de' Mori suo  aleato, per cui questi ebbe da Siila, allora Dittatore in Roma, il titolo di Grande. BONAPARTE però più grande di  Pompeo per aver superatigli ostacoli della natura in un con quelli opposti dall'arte militare la più studiata, la più perfetta. A che ricordarsi più con meraviglia  del passaggio dell'Alpi fatto da Annibale? sebben'egli partito dal Rodano con la  sua armata di Numidi, e di Spagnuoli per  passar le Gole transalpine, e le Alpi* per  nove giorni di cammino fino alle sue vette combatter dovesse ad ogni passo i Galli che in imboscata e con prodizione attraversavano, estremamente molesti, la  sua gita; e negli altri sei giorni impiegati  nella discesa, niuno essendovi più, che  il molestasse, pure le nevi altissime, i  ghiacci, e le bufere rendessero tanto più malagevole, e pericoloso il suo tragitto:  ciò non pertanto più maraviglioso fu il  salire, e il discendere di BONAPARTE,  quando in questo si deve aggiugnere il  dover vincere passo passo un inimico,  che in un momento era pronto alla difesa, e nell'altro prontissimo all'Offesa;  per cui gli avvenne di essere una qualche  volta respinto; lo che sembrava, e ciò a  tutti, una volontaria ritirata, tant'era  presto a riprendere il combattimento  con più veemenza, e risoluzione; come  chi, per accrescere il colpo contro le  mura nemiche, par si discosti per levar  più alto l'ariete, e la mazza ferrata a far  maggiore la gravità del colpo, e più sollecita la sua distruzione: ed è per questo  che il General Augereau forza le Gole  di Millesimo; Menard, e Joubert discaccian l'inimico da tutte le posizioni di  quei contorni; ma l'inimico è sulle alture a riprenderne delle nuove, e più formidabili per cui i Francesi in ogni ora  sono chiamati a nuovi disastrosissimi conflitti essi vi vanno non un movimento pronto, ben regolato e risoluto, in  ogni luogo perciò sormontano il potere  dell'inimico. Dopo fatiche così eccedenti,, e sì luminosi vantaggi più non si teme  della vittoria; in fatti quando sugl'albori del sesto dì della battaglia Beaulieu  gli attacca, supera il villaggio del Dego,  respinge il general Massena per tre volte assalitore, Victor, e Lannes per ordine  di BONAPARTE piombano sulla sinistra dell'inimico; ma l'inimico è più forte; le truppe repubblicane vacillano per  un istante; indi ritornano all'assalto;  raddoppiano il coraggio, e Dego è nuovamente in lor potere. Il piano delle operazioni dei diversi corpi d'armata è troppo concorde perchè il risultato non lasci mai d'essere utilissimo al loro avanzamento: i suoi capi sono sempre insieme a combinare su d'un piano troppo  attivo e giudizioso, mosso e regolato dal  capo supremo, che lo ideò, che lo compose. La valle pertanto di Borimela, e quella  del Tanaro sono aperte ai repubblicani;  le trincee di Montezimo, e di Ceva sono  superate; passano questi il Tanaro, e rinimico è in piena ritirata per la strada  del Mondovì: sul far del giorno i due eserciti sono a fronte l'uno dell'altro; comincia nel villaggio di Vico la zuffa, Fiorella, e Dammartin attaccano con impeto il ridotto, che cuopre il centro del nemico, questi abbandona il campo, passa  la Stura, e si pone fra Cuneo, e Cherasco entro un recinto bastionato; Massena si muove contro, e rovescia le gran  guardie nemiche. Dopo questa operazione i Francesi si trovano vicino a Turino: il General Colli propone una sospension d'armi; BONAPARTE vi acconsente con la condizione, che vengano a lui  rimesse Cuneo, e Tortona; il Re non sa  non approvarlo, e BONAPARTE con ciò  dà alla sua armata in Italia una situazione sicura ed imponente, e vede aperta   senz'altri ostacoli la sua libera comunicazione con la Francia. Ogni giorno  pertanto crescono gli armati,, BONAPARTE gl'impiega al passo del Pò nella grande battaglia di Lodi; con marce, e contromarce cuopre air inimico i veri suoi  movimenti, si fa strada tra l'Adda, e il  Ticino per dirigere la sua marcia sopra  Milano, mentre Beaulieu ingannato, si  affaticava a fortificarsi tra il Ticino, e  la Sesia. Il resultato di queste felici operazioni non aveva in se tutto, che si voleva, per andare senz'altro intoppo dritto  dritto alla capitale della Lombardia. Sono eccellenti le disposizioni del generale inimico per apporne dei nuovi. Questi ritardarono la marcia, non l'impedirono', Beaulieu col suo corpo d'armata  dall'opposta parte dell'Adda guarda con  numerosa artiglieria l'estremità del ponte di Lodi, che lo cavalca per l'estensione di cento tese; non volle tagliare il  ponte, lusingandosi cosi di meglio dirigere il fuoco alla distruzione di tanti nemici insieme strettamente riuniti al suo passaggio. Il soldato francese, sotto un  tanto Duce, conosce il grande pericolo,  ma troppo è animato a superarlo; vede  che il passo del ponte è angusto e micidiale, ma ad impadronirsene ve li sprona l'onore, e gl'interessi della patria: la  morte di alcuni aprirà il varco a molti,  si muoja, dicevan essi, purché si vinca.  Quanti mai sono che vogliono essere i  primi, contenti di assicurare ai superstiti col loro sangue gli utili d'una grande vittoria: il secondo hattaglione de'carahinieri precede l'armata francese serrata in colonna: i prodi si presentano sul  ponte, il fuoco dell'inimico è tanto terribile e continuato, che la testa della colonna stette in forse per alcuni momenti a fronte di un sì alto pericolo, e se un  solo istante di più s'indugiava, tutto era  perduto:Berthier, Massena, Cervoni, Duprat si precipitarono alla testa delle truppe, e fissarono la fortuna ancor vacillante: l'inimico nell'istante è rovesciato,  l'Adda è aperta alla cavalleria, la vittoria è definitivamente decisa. Più di Cesare glorioso BONAPARTE  poiché quello sostenne il ponte sul Aisne  contro Galba, che con le sue forze numerosissime tentava superarlo; quando  l 'a i t ro acquistò il ponte di Lodi contro gli  Alemanni, che lo guardavano tanto forti: Noyon atterrita apre le porte a Cesare. Milano festeggiante incontra BONAPARTE; in quello Noyon teme il suo tiranno; in questo Milano ama il suo benefattore: Cesare vinceva per far schiavi i  vinti: BONAPARTE trionfa per farli liberi.   Dalle divisate azioni guerresche chi  non vede riunito in BONAPARTE il cova ^gio, l'operativa prontezza di Marcella; ìa circospezione, ed il provedimento  Fabio Massimo? Conobbe troppo be> bON APARTE la importanza delle  <e imprese; e potè dire molto avanti  to quello, che solo aveva pensato di  . Si valse opportunamente dei suoi  .ta^i con non lasciarsi alle spalle altrui inimico: vinto uno dalle sue armi,  gli altri maravigliati, ed atterriti dalle  sue vittorie fecero delle proposizioni di  pace, che furono accordate con i vantaggi dovuti al vincitore; i quali però non  portavano il vinto ad un odioso avvilimento.   Riunì BONAPARTE in queste operazioni la esecuzione dei pensieri di Marcello in Siracusa; di Fabio Massimo nella capitale de' Tarentini, popolazioni da  loro debellate.   Marcello per trattato leva molti bel1 issimi simulacri, perchè servissero di  ornamento alla sua patria; la quale siuo  allora non aveva, ne avuti, nè veduti abbigliamenti cosi gentili ed isquisiti. Fabio Massimo trasse fuori denari e ricchezze, lasciando ai Tarentini i loro numi sdegnati che eran di marmo. Marcello  fu applaudito dal popolo e condannato  dagli uomini di probità. Fabio Massimo  fu celebrato da questi, e non curato dagli  altri. Siro Contri, «Il regime fascista». Siro Contri. Contri. Keywords: il Napoleone di Hegel, del bello, il bello, assiologia, poetica vichiana, Mussolini, discorso, duce, logica di Hegel, filosofia dell’essere, l’essere e gli esseri, Hegel contraddetto, il bello, pulchrum, archeo-scolastici, paleo-scolastici, Aquino, aristotele, il vero, l’errore di Croce, l’equivoco di Croce, percezione del bello, l’armonia e il bello, del storicismo alla storiosofia, storiosofia o filosofia della storia, interpretazione dommatica di Aquino, la negazione di hegel, il concetto puro di Hegel, la negazione come metodo in Hegel, nihilismo e negazione in Hegel, l’errore di Hegel, il sofisma di Hegel, Gentile e il bello. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contri” – The Swimming-Pool Library. Contri.

 

Luigi Speranza -- Grice e Corbellini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del darwinismo politizzato – scuola di Cadeo – filosofia piacentina – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cadeo). Filosofo piacentino. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Cadeo, Piacenza, Emilia-Romagna. Grice: “I like Corbellini; of course he has to defend science versus what he calls – alla Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy, which he calls ‘il paese della pseudoscenza’ – I thought that was Oxford!” I sui interessi riguardano la grammatical del vivente, la storia della medicina e la bioetica. Insegna Roma. Si laurea con “L’epistemologia evoluzionistica”.I suoi interessi di studio hanno riguardato la storia e la filosofia della biologia evoluzionistica, delle immunoscienze e delle neuroscienze, per includere poi anche lo studio della storia della malaria e della malariologia in Italia, delle ricadute della genetica molecolare, delle implicazioni dell’evoluzione e l'evoluzione. L'approccio storico-epistemologico all'evoluzione trovato una sintesi nella ricostruzione della storia delle idee di “salute” e malattia e delle trasformazioni metodologiche a cui è andata incontro la ricerca delle spiegazione causale della salute. La sua ricerca si è orientata anche verso l'esame delle radici delle controversie bioetiche. Difende un'idea non confessionale della bioetica, che ha radici filosofiche in uno scetticismo morale radicale, naturalistico e non relativista (Bioetica per perplessi. Una guida ragionata, Mondadori).  Coltiva anche un interesse per la percezione sociale e il ruolo della scienza nella costruzione del valore civile. Sostiene che l'invenzione e l'espansione del metodo scientifico hanno consentito e favorito l'evoluzione del libero mercato e della stato di diritto, ovvero che la scienza ha funzionano come catalizzatore nella costruzione e manutenzione dei valori critico-cognitivi e morali che rendono possibile il funzionamento del sistema liberal-democratico.  Altre opere: “Nel Paese della Pseudoscienza. Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie? Sperimentazione e diritti animali” (Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del cervello: un'introduzione alla neuro-etica” (Milano, Mondadori Università,; Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla cura alla scienza” (Milano, Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi democrazia, Torino, Einaudi); “Perché gli scienziati non sono pericolosi” (Milano, Longanesi); “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con Giovanni Jervis), Torino, Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina basata sull'evoluzione” (Roma-Bari, Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino, Einaudi); “Breve storia delle idee di salute e malattia” (Roma, Carocci); “La grammatica del vivente. Storia della biologia e della medicina molecolare” (Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero immunologico” (Bollati Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione; Dall’etica medica alla bioetica; Il senso morale umano e le controversie bioetiche; 3. Sperimentazione sull’uomo e consenso informato; Scelte di fine vita; Scelte di inizio vita; Medicina genetica; Sperimentazione animale; Medicina dei trapianti e definizione di morte; Etica della ricerca responsabile; Medicina rigenerativa e staminali; Neuroetica; Etica ambientale e OGM; Etica della comunicazione scientifica, della percezione della scienza e del «gender»; Indice dei box; Indice analitico; Indice dei nomi. Come nota C. nella prefazione all’edizione italiana del libro di Ru- bin, il tentativo di applicare l’approccio evoluzionistico alla filosofia politica spesso rischia di venire frainteso. Il fraintendimento più comune e pericoloso deriva dalla mancata distinzione tra il darwinismo politicizzato e la politica darwiniana: il primo è costituito, come è accaduto nel caso del “social darwinismo”, dall’nterpretazione strumentale e priva di coerenza logica o di basi scientifiche delle idee darwiniane per difendere qualche particolare ideologia politica»; la seconda, invece, consiste nell’«uso delle conoscenze evoluzionistiche sulla natura umana per meglio comprendere le origini delle preferenze politiche individuali, la loro distribuzione sociale e le dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e l’ambiente attuale. Ridley si mostra ben consapevole del rischio di trasformare la politi- ca darwiniana in ideologia. Questo, tuttavia, non gli impede di avanzare alcuni suggerimenti di politica economica Cfr. Skyrms, The Evolution of Social Contract, e Festa “Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali e filosofia della politica”, Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto, consenso). Alcune immani tragedie che hanno segnato la storia degli ultimi due secoli sembrano dovute, almeno in parte, all’ignoranza – e, talvolta, alla ne- gazione – di alcune caratteristiche essenziali della natura umana. Per esempio, Ridley osserva che Marx vagheggia un sistema sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo stati degli angeli, ed è fallito perché siamo invece degli animali. Singer, Una sinistra dawiniana. Politica, evoluzione e CO0OPERAZIONE, Torino, Edizioni di Comunità, Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint Academic, Rubin, La politica secondo Darwin; Corbellini, “Politica darwiniana vs darwinismo politicizzato”, prefazione a Rubin, La politica secondo Darwin; Ridley.Origini.Virtu.indd Le origini della virtùsi vedano soprattutto gl’ultimi tre capitoli del saggio – che gli sembrano compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche, che non sarebbe inappropriato chiamare anarco-liberalismo. Tale prospettiva, ispirata dalla grande fiducia di Ridley negl’ISTINTI CO-OPERATIVI e altruistici degl’esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine politico-economico nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico è ridotto ai minimi termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che immaginava un mondo di liberi individui. Non sono così ingenuo da pensare che ciò possa accadere da un giorno all’altro, o che qualche forma di governo non sia necessaria. Ma metto se- riamente in dubbio la necessità di uno Stato che decide ogni minimo dettaglio della nostra vita e si attacca come una gigantesca pulce alla schiena della nazione. D’altra parte, Ridley si rende conto che, mentre le soluzioni politico-economiche da lui favorite si accordano con alcune tendenze evolutive umane, confliggono però con altre. Per esempio, egli osserva che certe istituzioni economi- camente adeguate nella società moderna, come la proprietà privata, possono entrare in tensione con le tendenze primi- tive all’egualitarismo, alla redistribuzione e al rifiuto dell’accumulazione di ricchezza. L’analisi dei conflitti tra le moderne istituzioni politico-economiche e le nostre ten- denze primitive è uno degli argomenti centrali del già citato libro di Rubin.Le “Imperfezioni umane” di Pani e C. Covato Mailing Le “Imperfezioni umane” di Pani e C. Fornire un punto di vista innovativo, cioè evoluzionistico, di tutto quello che riguarda la salute e le disfunzioni comportamentali, e suggerire qualche punto di vista originale sul perché nonostante le dissonanze evolutive, la condizione umana è globalmente migliorata. È questo l’obiettivo del libro dal titolo “Imperfezioni umane. Cervello e dissonanze evolutive: malattie e salute tra biologia e cultura” (Rubbettino), scritto da Luca Pani e C., Roma, Centro studi americani a Via Caetani. Dopo i saluti di Messa, direttore Centro studi americani, interverranno alla presentazione moderata da Palmieri (Tg1) monsignor Leuzzi, Vescovo ausiliare di Roma, Mingardi, direttore generale Istituto Leoni, Ippolito, professore di storia della Filosofia a Roma. Negli ultimi vent’anni una nuova ipotesi di lavoro si è fatta strada in ambito medico sanitario, definita nel mondo anglosassone «evolutionary mismatch» (dissonanza evoluzionistica) – raccontano gl’autori -. Questa teoria assume, in pratica, che l’ambiente nel quale la nostra specie ha acquisito i suoi tratti adattativi sia drammaticamente cambiato in un tempo troppo breve perché predisposizioni o tratti genetici e fenotipici dell’organismo fossero in grado di adeguarsi, per selezione naturale, alle novità”. Le conseguenze di queste dissonanze? “Disfunzioni o disturbi o rischi che richiedono un approccio medico”.  “Il libro è diviso in tre parti – spiegano Pani e Corbellini – Si inizia con un’illustrazione dei presupposti di qualunque strategia motivazionale, cioè dei meccanismi che sono alla base del piacere e delle ricompense, e da cui deriva – in ultima istanza – la possibilità di acquisire nuove conoscenze che consentono di affrontare le incertezze psicologiche che si accompagnano a qualunque comportamento esplorativo. La riflessione prosegue con esemplificazioni di risposte comportamentali che in particolari (o mutate) condizioni si manifestano come malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo specifico al comportamento alimentare e discute l’esempio più eclatante di dissonanza evoluzionistica: il mismatch metabolico. Gl’ultimi due capitoli affrontano una serie d’imperfezioni e predisposizioni comportamentali umane che scaturiscono da compromessi evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel contesto dell’adattamento evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali determinati dall’evoluzione culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori fenomeni disadattativi”. Nel dettaglio gli autori descrivono le dissonanze create dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda cicli del sonno, accesso al cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento sociale, oppure di comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o l’altruismo; ma anche le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi capitoli del volume emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive e innovazioni che hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili cambiamenti comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica che sussista nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale, la capacità di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative disponibili, senza essere condizionati da fattori fisici o biologici di qualunque genere. Si assume, in altri termini, che le persone maturino una cosiddetta “agenticità”, cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di consapevolezza degli effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla base dei processi neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi fisiche che li governano. Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti modi e da diverse prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica, etc.  Nel corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto credere di essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali  Negli ultimi decenni le neuroscienze cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio, con una quantità crescente di prove, la visione classica di libero arbitrio, aprendo un dibattito scientifico ancora in corso.  Qual è la sua posizione all’interno del dibattito?  La mia posizione è che il libero arbitrio è una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il libero arbitrio, allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo immaginare. Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della specie,abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto credere di essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali. Il libero arbitrio è un’illusione, ma un’illusione molto produttiva.  L’intuizione di ritenersi liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di autoinganno, come tante altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne derivano anche per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base di un sistema di obblighi. Ovviamente questa strategia è modulata da specifiche condizioni ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa illusione si può espandere e diventare la base di sistemi anche molto progrediti per qualità di vita, come quelli occidentali, mentre in altri ambienti di vita sarà più adattativo che tale intuizione e illusione non maturi neppure, o maturi in forme che sono funzionali a all’accettazione di un comportamento consapevolmente eterodiretto.   L’intuizione di ritenersi liberi è una forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di responsabilità  Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale? Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano?  In che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze? Non è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del cervello che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che controllano la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che alcune condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con le proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione di un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio in generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone; ovvero che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere parentale o reciproco.  Mentre situazioni contrarie all’ordine morale appreso socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente reazioni di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o disprezzo).  Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali con altre persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un calcolo razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o calcolata.  Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare. Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti, che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o diverse. In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza ed entrano in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche livello, e quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla base della funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono far scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere deleterie.  In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo praticamente uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe spiegare come ci siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi decisionali tribali od oppressivi. Credits to Unsplash. Parliamo del legame tra violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto dall’aggressività nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili determinanti genetiche del comportamento aggressivo?   L’aggressività, come la cooperazione, è stata un fattore chiave per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra specie. Come tutti i tratti, l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono persone geneticamente più predispostedi altre all’aggressività.  È verosimile che la selezione sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni della cooperazione in alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo socio-culturale che nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul pianeta, e soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato lo stato di diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta contro la criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi. Pinker ha dimostrato questo fatto in un dettagliatissimo e acuto saggio, “Il declino della violenza”.   Nella storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi  E per quanto riguarda la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello maschile, cervello femminile e comportamento aggressivo? Le differenze di genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente aggressive anche più dei bambini. Queste differenze, come altre, dipendono verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e rispondono a strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente dell’evoluzione. Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile dipende molto dai contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e culturali che influenzano, ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci sono prove concrete del fatto che il patriarcato e la sua istituzione giuridica sono fattori importanti per la persistenza della violenza maschile ai danni delle donne, e del fatto che ridurre il dominio maschile attraverso delle adeguate politiche sociali riduce la violenza maschile e che la cooperazione tra donne riduce la violenza maschile sia contro le donne sia contro altri uomini. Parliamo ora delle differenze individuali nel controllo degli impulsi. Non ci sono moltissimi dati, ma uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel cervello quando si fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa ritardata, ovvero come viene rappresentata dinamicamente nel cervello la svalutazione del ritardo quando si sta aspettando e anticipando una ricompensapossibile che è stata desiderata e scelta. La corteccia prefrontale ventromedialemanifesta uno schema caratteristico di attività durante il periodo di ritardo nel ricevere la ricompensa, oltre a esercitare un’attività modulatoria durante la scelta, che è coerente con la codificazione del tempo durante il quale avviene una svalutazione del valore soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta uno schema di attività simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi. Un profilo contrastante di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata osservata nella corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone pazienti, cioè non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e corteccia prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire come – influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato ventrale. Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo post-scelta.  Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi lasci citare ancora Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura». La vera libertà, è autonomia e indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è tanto più liberi e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del nostro cervello, altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono autonomo e meno soggetto o costrizioni esterne.   Credits to Unsplash.com Quali sono le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e dei fattori ambientali sulla capacità decisionale (anche ai fini dell’imputazione penale)? Può condividere con noi qualche caso di studio? Casi di studio ce ne sono diversi, ma quelli al momento più esemplari riguardano gli effetti delle varianti alleliche del gene della mono-amin-ossidasi A, detto anche “gene del guerriero”, in quanto collegato all’aggressività su basi osservazionali mirate. In sostanza, le persone con la variante che produce meno mon-amino-ossidati A. rispondono in modi più aggressivi e violenti, rispetto a chi esprime livelli più alti.  Il fatto interessante è che se queste persone predisposte all’aggressività sono state allevate in ambienti accoglienti, esprimono un’aggressività minore rispetto a omologhi genetici cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati sperimentali in ambito psicologico e di economia comportamentale dimostrano che le aggressioni hanno luogo con maggiore intensità e frequenza, quando provocate in un contesto sperimentale, soprattutto in soggetti con una bassa attività di mono-amino-ossidati A.  Gli studi sperimentali mostrano anche che il mono-amin-ossidati A è meno associato con la comparsa dell’aggressione in una condizione di bassa provocazione, ma predice più significativamente il comportamento aggressivo in una situazione molto provocatoria.  Esiste ormai una letteratura sterminata anche sui casi di persone con anomalie morfologiche e funzionali dell’amigdala che regolarmente esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non provano emozioni negative quando provocano sofferenze in altri individui. Si conoscono inoltre casi di tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano la personalità individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in quanto un tumore cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali. La memoria del testimone: in particolare, come si accerta l’attendibilità della testimonianza e quali sono i principali metodi di verifica?  Il sistema giudiziario si fonda sulla memoria: interrogatorio/confronto, testimonianze, ricordo dei giurati al momento di discutere il verdetto. Ma la memoria umana è falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false memorie.  Gli stati emotivi influenzano la qualità della memoria. La nostra storia personale influenza il modo in cui ricordiamo. Gli psicologi e gli esperti studiano soprattutto il problema della testimonianza oculare, perché in ben tre casi su cinque le identificazioni si rivelano sbagliate.  Esistono diversi metodi di controllo/verifica e volti a ridurre gli errori nelle testimonianze. Uno di questi analizza per esempio l’accuratezzadella testimonianza oculare e delle modalità di interrogatorio del testimone, per arrivare a una probabilità relativa al caso.   Il sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma la memoria umana è falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false memorie.  Esiste anche un diritto alla riservatezza per i nostri ricordi. Nel senso che se io non intendo comunicare a qualcuno un ricordo, ho diritto a tenerlo per me. Un giudice deve avere forti ragioni per forzare l’accesso alla mia memoria, ed è comunque tenuto a rispettare i miei diritti fondamentali se ci prova. Se davvero si riuscirà a costruire affidabili brain lie detector, macchine della verità con accesso alle memorie cerebrali, si configurerà un problema sul fronte di normare i limiti del diritto di un giudice far rilevare impronte mnestiche del nostro cervello, i ai fini di un’indagine processuale. Non tanto per la riservatezza del dato di interesse, cioè se un imputato o un testimone mentono o dico la verità nel caso in specie, ma per il fatto che quell’accesso può rendere noti dei fatti che non hanno rilevanza con l’indagine e che potrebbero danneggiare la persona. Inoltre, alcuni farmaci e tecnologie possono potenziare la memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito consentire a o incentivare alcuni attori del procedimento giudiziario (giudici e giurati) a potenziare le loro memorie ai fini di un più efficiente funzionamento del sistema? La morale ha, o potrebbe avere, un fondamento biologico?  La morale ha un fondamento biologico. La morale serve a tenere insieme i gruppi umani sociali, e ha creato le premesse sociobiologiche per l’affermarsi della religiosità quale sistema di controllo incorporato nelle persone e alimentato socialmente per garantire che i valori morali adattativi in società meno complesse delle nostre siano mantenuti e trasmessi. In prospettiva: quali sono a suo avviso i possibili intrecci tra acquisizioni neuroscientifiche e diritto penale? Quale impatto potrebbero avere sugli attuali meccanismi di attribuzione della responsabilità e di applicazione della pena?  Su questo punto la penso come chi ha detto che con l’arrivo delle neuroscienze, nel diritto, cambia tutto e non cambia niente. Vale a dire che il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali. Mentre si potrebbe affermare un concetto consequenzialista(utilitarista) della concezione della pena, più vicino al diritto positivo.   Il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali  In Italia, come vengono accolte dalla magistratura le evidenze neuroscientifiche? E a livello internazionale? L’Italia è all’avanguardia, se così si può dire, nell’uso di prove neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in particolare, Trieste e Como, riconobbero il ruolo causale di tratti neurogenetici nel comportamento delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno sconto di pena.  Le sentenze italiane sono state accolte con allarme in diversi contesti internazionali. Ma c’è poco da fare: se queste conoscenze e tecnologie acquisiranno una base sperimentalmente solida e consentiranno di prevedere con buona attendibilità le predisposizioni a commettere reati, è inevitabile che entreranno a far parte dello strumentario di lavoro dei giudici.  Tuttavia, esiste un’ambivalenza in Italia, come in altri paesi, verso l’uso delle prove neuroscientifiche. Intanto in Italia non tutti i giudici hanno ancora chiaro cosa sia una perizia neuroscientifica e ignorano criteriepistemologicamente validi e formalmente definiti per scegliere periti che apportino davvero prove scientifiche e controllate nel contesto di un dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione abbia in sentenze recenti fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole di ammissibilità delle prove nei processi statunitensi.  Inoltre, si tratta comunque di definire cosa implica una diminuita imputabilità per colui che commette un reato, in quanto le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo di funzionare del cervello e dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è meno libero di altri e quindi anche meno responsabile, e quindi le sanzioni dovrebbero essere volte a ridurre al minimo le probabilità di reiterazione del o dei reati. Il riferimento è al noto scritto di Greene, J. Cohen, For the law, neuroscience changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci. Ricerca Storia del pensiero evoluzionista aspetti storici dell'evoluzionismo Lingua Segui Modifica Evoluzione CollapsedtreeLabels- simplified.svg Meccanismi e processi Adattamento Deriva genetica Equilibri punteggiati Flusso genico Mutazione Radiazione adattativa Selezione artificiale Selezione ecologica Selezione naturale Selezione sessuale Speciazione  Storia dell'evoluzionismo Storia del pensiero evoluzionista Lamarckismo Charles Darwin L'origine delle specie Neodarwinismo Saltazionismo Antievoluzionismo  Campi della Biologia evolutiva Biologia evolutiva dello sviluppo Cladistica Evoluzione della vita Evoluzione molecolare Evoluzione degli insetti Evoluzione dei vertebrati Evoluzione dei dinosauri Evoluzione degli uccelli Evoluzione dei mammiferi Evoluzione dei cetacei  Evoluzione dei primati Evoluzione umana Filogenetica Genetica delle popolazioni Genetica ecologica Medicina evoluzionistica Genomica della conservazione  Portale Biologia La prima traccia dell'idea di un'evoluzione biologicadegli esseri viventi è la teoria sull'origine della vitaattribuita ad Anassimandro di Mileto. Gli animali ebbero origine nell'acqua, dove erano tutti simili a pesci; con il tempo sono saliti sulla terraferma dove, liberati dalle scaglie, hanno continuato a vivere. Tale fu anche l'origine dell'uomo. Con l'avvento del Cristianesimo, e fino almeno all'evo moderno, l'indagine scientifica fu dominata dall'impianto filosofico essenzialista di derivazione aristotelica, nel quale la possibilità stessa della conoscenza si fonda sulla fissità della specie; inoltre, l'evoluzione non si armonizza con la Genesi e non trova collocazione in un sistema di riferimento che considera le specie immutabili perché perfette, in quanto create ex nihilo da Dio. Nel XVII secolo, col riaffiorare delle antiche concezioni, la parola evoluzione cominciò ad essere utilizzata come riferimento a un'ordinata sequenza di eventi, particolarmente quando un risultato si trovava, in qualche modo, già dall'inizio contenuto all'interno di essa. La storia naturale si sviluppò enormemente, mirando ad investigare e catalogare le meraviglie dell'operato di Dio. Le scoperte effettuate dimostrarono l'estinzione delle specie, che fu spiegata dalla teoria del catastrofismo di Cuvier, secondo cui gli animali e le piante venivano periodicamente annientati a causa di catastrofi naturali per poi essere rimpiazzate da nuove specie create dal nulla. In contrapposizione ad essa, la teoria dell'Uniformitarismo di James Hutton, del 1785, ipotizzava un graduale sviluppo della Terra, il cui aspetto non era dovuto ad eventi catastrofici ma a un lento processo perpetuatosi attraverso gli eoni.  Darwin, nonno di Charles, avanza delle ipotesi sulla discendenza comune affermando che gli organismi acquisivano "nuove parti" in risposta a degli stimoli e che questi cambiamenti venivano trasmessi alla loro discendenza; nel 1802 suggerì la selezione naturale. Lamarck sviluppò una teoria simile (l'"ereditarietà dei caratteri acquisiti"), la quale ipotizzava che tratti "necessari" venissero ereditati col passaggio da una generazione alla successiva. Queste teorie di trasmutazione furono sostenute in Gran Bretagna dai Radicali come Robert Edmond Grant. In questo periodo l'opera di Malthus, Saggio sul principio della popolazione, influenzò il libero pensiero mostrando come l'incremento della popolazione mondiale fosse correlato a un eccesso nelle risorse disponibili.  Varie teorie furono proposte per riconciliare la Creazione biologica con le nuove scoperte scientifiche, incluso l'attualismo di Charles Lyell secondo cui ogni specie aveva un suo "centro di creazione" ed era progettata per un particolare habitatil cui cambiamento portava inevitabilmente alla sua estinzione. Charles Babbage ritenne che Dio avesse creato le leggi per un programma divino che operava per la produzione delle specie e Owen seguì Johannes Müller nel pensiero che la materia vivente avesse un'"energia organizzativa", una forza vitale (Lebenskraft) che, dirigendo lo sviluppo dei tessuti, determinava l'arco di vita degli individui e delle specie.  Antichità Greci Ipotesi secondo cui un tipo di animale, perfino l'essere umano, potesse discendere da altri tipi di animali erano state formulate dai filosofi greci Presocratici. Anassimandro di Mileto suppose che i primi animali vivessero in acqua, durante una fase umida del passato della Terra, e che i primi avi viventi a terra della razza umana dovevano essere nati in acqua, e aver passato solo una parte della loro vita sulla terraferma. Intuì anche che il primo umano della forma conosciuta oggi doveva essere stato il figlio di un altro tipo di animale, perché l'uomo ha bisogno di un lungo periodo di accudimento per raggiungere l'autonomia. Empedocle di GIRGENTI; intuì che quello che noi chiamiamo nascita e morte degli animali sono solamente il mischiarsi e il separarsi degli elementi che formano "l'infinita tribù delle cose mortali". Più in particolare, i primi animali e le prime piante erano simili alle parti divise che formano quelli che vediamo oggi, qualcuna delle quali sopravvisse unendosi in differenti combinazioni, e poi mescolandosi di nuovo, finché "tutto riuscì come se fosse stato fatto di proposito, lì le creature sopravvissero, essendo accidentalmente composte in modo corretto". Altri filosofi diventarono più importanti nel Medioevo, fra cui Platone, Aristotele, ed esponenti della scuola stoica di filosofia, credevano che le specie di tutte le cose, non solo viventi, fossero state stabilite da un progetto divino.  Epicuro dell’ORTO ha anticipato l'idea della selezione naturale. Il filosofo romano e atomista LUCREZIO espone queste idee nel suo poema De rerum natura (Sulla natura delle cose). Nel sistema Epicureo, si è ipotizzato che molte specie siano state generate spontaneamente da Gea in passato, ma che solo le forme più funzionali siano sopravvissute e abbiano avuto progenie. Gli epicurei non sembrano aver anticipato l'intera teoria dell'evoluzione come la conosciamo oggi, ma sembra che abbiamo postulato una teoria abiogeneticaseparata per ciascuna specie, piuttosto che postulare un singolo evento abiogenetico con la differenziazione delle specie a partire da uno o più organismi progenitori originari.  Cinesi Antichi pensatori cinesi come Zhuang Zhou, un filosofo taoista, hanno espresso varie idee su come le specie biologiche si siano diversificate. Secondo Joseph Needham, il Taoismo nega esplicitamente la fissità delle specie biologiche, e filosofi taoisti ipotizzano che le specie abbiano sviluppato diversi attributi in risposta ad ambienti differenti. Il Taoismo insegna che gli esseri umani, la natura e il cielo sono in uno stato di "trasformazione costante" noto come il Tao, una visione della natura in contrasto con quella più statica tipica del pensiero occidentale.  Romani Il poema di Lucrezio De rerum natura fornisce la migliore spiegazione superstite del pensiero dei filosofi epicurei greci. Esso descrive lo sviluppo del cosmo, la Terra, gli esseri viventi, e la società umana attraverso meccanismi puramente naturalistici, senza alcun riferimento al coinvolgimento soprannaturale. De rerum natura potrebbe aver influenzato le speculazioni cosmologiche ed evolutive di filosofi e scienziati durante e dopo il Rinascimento. Il suo punto di vista è in forte contrasto con le opinioni di filosofi romani della scuola stoica come CICERONE, Seneca, e PLINIO il Vecchio che avevano una visione fortemente teleologica del mondo naturale che ha influenzato la teologia cristiana. CICERONE riporta che la visione peripatetica e stoica delle natura riguarda fondamentalmente il produrre vita "capace di sopravvivere nel migliore dei modi", cosa data per scontata tra l'élite ellenistica. Agostino. Agostino in un dipinto di Lippi In linea con il precedente pensiero greco, il vescovo e teologo del IV secolo, Agostino di Ippona, scrisse che la storia della creazione nel libro della Genesi, non doveva essere letta troppo alla lettera. Nel suo libro De Genesi ad litteram ("Sul significato letterale della Genesi"), ha dichiarato che in alcuni casi le nuove creature potrebbero essersi originate attraverso la "decomposizione" di precedenti forme di vita. Per Agostino — a differenza di quelle che considerava le forme teologicamente perfette degli angeli, il firmamento e l'anima umana — le "piante, uccelli e la vita animale non sono perfetti… ma creati in uno stato di potenzialità". L'idea di Agostino che le forme di vita siano state trasformate "lentamente nel corso del tempo" ha spinto padre Giuseppe Tanzella-Nitti, docente di teologia presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma, a sostenere che Agostino abbia suggerito una forma di evoluzione. Osborn scrisse in From the Greeks to Darwin:  "Se l'ortodossia di Agostino fosse rimasta una dottrina della Chiesa, la scoperta dell'evoluzione sarebbe avvenuta molto prima di quanto non abbia fatto, certamente nel corso del XVIII invece del XIX secolo, e la controversia su questa verità della Natura non sarebbe mai sorta… Chiaramente la creazione diretta o istantanea di animali e piante sembrava essere insegnata dalla Genesi, Agostino lesse questo alla luce del nesso di causalità primaria e il graduale sviluppo da imperfetto a perfetto spiegato da Aristotele. Questo influente insegnante ha così tramandato ai suoi seguaci pareri strettamente conformi alle vedute progressiste di questi teologi del nostro tempo che hanno accettato la teoria evoluzione. In Storia della lotta della scienza con la teologia nella cristianità (A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom), dove White scrisse sui tentativi di Agostino di preservare l'antico approccio evolutivo alla creazione:  "Per secoli una dottrina largamente accettata era che l'acqua, la sporcizia, e le carogne avevano ricevuto il potere dal Creatore per generare vermi, insetti, e una moltitudine di piccoli animali; e questa dottrina era stata accolta con particolare favore da Sant'Agostino e molti dei padri fondatori, in quanto solleva l'Onnipotente dal creare, Adamo dal nominare, e Noè dal vivere nell'arca con queste innumerevoli specie disprezzate. In De Genesi contra Manichæos, Agostino dice: "Supporre che Dio creò l'uomo dalla polvere con le mani è molto infantile… Dio non plasmò l'uomo con le mani né soffiò su di lui con la gola e le labbra…" Agostino suggerisce in altri lavori la sua teoria dello sviluppo degli insetti dalle carogne, e l'adozione della vecchia teoria dell'evoluzione, mostrando che "alcuni animali molto piccoli non possono essere stati creati nei giorni quinto e sesto, ma possono essere stati originati in seguito dalla putrefazione della materia." Per quanto riguarda l'agostiniana De Trinitate ("Sulla Trinità"), White ha scritto che Agostino "…sviluppa finalmente l'idea che dietro la creazione di esseri viventi c'è qualcosa di simile a un'evoluzione, di cui Dio è l'autore ultimo, che opera attraverso le cause seconde; e, infine, sostiene che alcune sostanze sono dotate da Dio del potere di produrre alcune classi di piante e animali.. Una pagina del Kitāb al-Hayawān (libro degli animali) di Al-Jāḥiẓ La filosofia islamica e la lotta per l'esistenzaModifica Anche se le idee evolutive di greci e romani si estinsero in Europa dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, non furono abbandonate dai filosofi e scienziati islamici. Nell'Epoca d'oro islamica, i filosofi esplorarono nuove idee nel campo della storia naturale, quali la trasmutazione dal non vivente al vivente: "dal minerale al vegetale, dalla pianta all'animale, e dall'animale all'uomo. Nel mondo islamico medievale, lo studioso al-Jahiz(776 -868) scrisse un libro sugli animali nel IX secolo, dove descrive la catena alimentare. Khaldun scrive il Muqaddimah in cui afferma che gli esseri umani si sono sviluppati dal "mondo delle scimmie", in un processo attraverso il quale "le specie diventano più numerose". Alcuni dei suoi pensieri, secondo alcuni commentatori, anticipano la teoria biologica dell'evoluzione. Nel primo capitolo si legge: "Il mondo con tutte le cose in esso create ha un certo ordine e la sua solida costruzione mostra nessi tra cause ed effetti, combinazioni fra alcune parti della creazione ed altre, trasformazioni di alcune cose esistenti in altre, in uno straordinario reticolo senza fine. Aquino in un dipinto di Carlo Crivelli Durante il Medioevo, la cultura classica greca decadde in Occidente. Tuttavia, il contatto con il mondo islamico, dove i manoscritti greci erano stati conservati e ampliati, ben presto portò a un'ondata massiccia di traduzioni latine, che re-introdussero in Europa le opere greche, nonché quelle del pensiero islamico.  La maggior parte dei teologi cristiani credeva che il mondo fosse progettato secondo una gerarchia immutabile, la grande catena dell'essere o scala naturae, che influenzò il pensiero della civiltà occidentale per secoli. Altri teologi erano più aperti alla possibilità che il mondo si fosse sviluppato attraverso processi naturali. AQUINO si spinse oltre il pensiero di Agostino nel sostenere che i testi sacri come la Genesi non dovessero essere interpretati in modo letterale, poiché ciò si poneva in conflitto con quello che i filosofi naturali avevano imparato sul funzionamento del mondo naturale, e li vincolava dallo scoprire nuove cose[non chiaro]. L'Aquinate pensava che l'autonomia della natura fosse un segno della bontà di Dio, e che non vi era alcun conflitto tra il concetto di un universo divinamente creato, e l'idea che l'universo si potesse essere evoluto nel tempo attraverso meccanismi naturali.Tuttavia, Tommaso contestava i sostenitori di Empedocle, che sostenevano che l'universo avrebbe potuto svilupparsi anche senza un obiettivo di fondo. Rinascimento e IlluminismoModifica  Comparazione di uno scheletro umano con uno scheletro di uccello ad opera di Belon La filosofia meccanica di Cartesio incoraggiò l'uso della metafora dell'universo come macchina, un concetto che avrebbe caratterizzato la rivoluzione scientifica. Alcuni naturalisti, come Benoît de Maillet, produssero teorie che sostenevano che l'universo, la Terra, e la vita, si erano sviluppati meccanicamente, senza una guida divina. Maupertuis virò verso un'idea più materialista, scrivendo che le modifiche naturali si verificano durante la riproduzione e si accumulano nel corso di molte generazioni, producendo razze e specie nuove; una descrizione che ha anticipato il concetto di selezione naturale. La parola evoluzione (dal latino evolutio, "srotolare, svolgere") è stata inizialmente utilizzata in riferimento allo sviluppo embrionale; il suo primo impiego in relazione allo sviluppo della specie è venuto nel 1762, quando Charles Bonnet la ha utilizzata per il suo concetto di "pre-formazione", in cui le donne portavano una forma in miniatura di tutte le generazioni future. Il termine ha poi guadagnato gradualmente il significato più generale di crescita o sviluppo progressivo. Più tardi nel XVIII secolo, il filosofo francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, uno dei più importanti naturalisti del tempo, ha suggerito che le specie erano in realtà solo delle varietà ben delineate, prodotte dalle modifiche, dovute a fattori ambientali, di un organismo originale. Ad esempio, credeva che leoni, tigri, leopardi e gatti di casa potessero avere tutti un antenato comune. Leclerc ha inoltre ipotizzato che le circa 200 specie di mammiferi conosciute in quel periodo potessero essere derivate da solo 38 forme animali originali. Le idee evolutive del conte erano però limitate; credeva che ciascuna delle forme originali fossero sorte per generazione spontanea e che ognuno fosse stata modellata da "muffe interne" che limitavano la quantità di cambiamenti possibili. Le opere di Buffon, Histoire Naturelle e Époques de la nature, contengono teorie ben sviluppate sull'origine materialista della Terra; la sua messa in discussione della fissità della specie è stata estremamente influente.[24]  Un altro filosofo francese, Denis Diderot, scrive che le cose viventi possono essere sorte per generazione spontanea, e che le specie sono in uno stato di costante evoluzione attraverso un processo in cui nuove forme di vita sorgono continuamente, e possono sopravvivere o meno in base al caso; un'idea che può essere considerata un'anticipazione parziale della teoria della selezione naturale. Burnett, Lord di Monboddo, incluse nei suoi scritti, non solo il concetto che l'uomo era disceso dai primati, ma anche che, in risposta all'ambiente, le creature avevano trovato metodi di trasformare le loro caratteristiche in lunghi intervalli di tempo. Il nonno di Darwin, Darwin, pubblicò Zoonomi, dove suggerì che "tutti gli animali a sangue caldo sono sorti da un filamento vivente".[26] Nel suo poema Tempio della Natura, Erasmus ha descritto il progredire della vita dai minuscoli organismi viventi nel fango fino a giungere alla biodiversità moderna. La nascita della teoria di Darwin All'Università di Edimburgo, durante gli studi, Charles Darwin fu coinvolto direttamente negli sviluppi della teoria evoluzionistica di Robert Edmund Grant, ispirata dalle idee di Erasmus Darwin e Lamarck. In seguito, all'Università di Cambridge, i suoi studi di teologia lo convinsero ad accettare le considerazioni di William Paley sul "disegno" di un Creatore, mentre il suo interesse nella storia naturale aumentò grazie al botanico John Stevens Henslow e al geologo Adam Sedgwick, entrambi fermamente credenti in una creazione divina e nell'antico uniformismo della terra. Durante il viaggio del Beagle, Darwin si convinse della fondatezza dell'attualismo di Lyell e cercò di conciliare le varie teorie creazionistiche con le prove che riuscì ad evidenziare. Al suo ritorno, Richard Owen dimostrò che i fossili che Darwin aveva trovato, appartenevano a specie estinte mostranti relazioni con delle specie viventi in alcune località. Gould rivelò con sorpresa che gli uccelli completamente diversi ritrovati nelle Isole Galápagos erano, in realtà, 13 specie diverse di fringuelli (conosciuti ora, volgarmente in tutto il mondo, come i Fringuelli di Darwin). Schizzo di un albero filogeneticodisegnato da Darwin negli appunti preparatori del suo First Notebook on Transmutation of Species. Darwin medita sulla trasmutazionein una serie di appunti segreti. Si occupò inoltre della selezione artificiale delle razze domestiche, consultando William Yarrell e leggendo un opuscolo scritto da un amico, Sebright, il quale commentava come "con un severo inverno, o una scarsità di cibo, attraverso l'uccisione degli individui deboli e malaticci, si avessero tutti i migliori effetti della più abile selezione". Nel 1838, in uno zoo, vide per la prima volta una scimmia antropomorfa: il bizzarro comportamento di un orango lo impressionò per la somiglianza con quello di un "bambino dispettoso" e, dalla sua esperienza sui nativi della Terra del Fuoco, lo portò a pensare che non ci fosse poi un grande abisso tra gli uomini e gli animali, a dispetto della dottrina teologica che considera solo la specie umana possedente un'anima. Darwin comincia a leggere la sesta edizione del Saggio sul principio della popolazione di Malthus, con la quale ricordò la dimostrazione statistica secondo cui la popolazione umana, riproducendosi al di sopra dei propri mezzi, competesse per la sopravvivenza. In questo periodo tentò di applicare per primo questi principi alle specie animali. Darwin applicò nella sua ricerca il pensiero liberista sulle leggi di Natura, considerando la pura lotta per la vita priva di sostegni esterni. Dal dicembre 1838 intravide una somiglianza tra il concetto della selezione artificiale e la Natura Malthusiana che selezionava, attraverso il cambiamento, le varianti da eliminare, in modo che ogni parte delle nuove strutture acquisite fosse pienamente pratica e perfetta.  L'origine delle specieModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: L'origine delle specie. La sintesi evolutiva modernaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Neodarwinismo.Anassimandro di Mileto afferma che dall'acqua e dalla terra riscaldate sarebbero nati dei pesci o degli animali molto simili a pesci; in questi concrebbero gli uomini, e i feti vi rimasero rinchiusi fino alla pubertà. Quando questi si spezzarono, allora finalmente ne uscirono uomini e donne che potevano già nutrirsi." (Censorino, De die natali) Anassimandro dice pure che da principio l'uomo fu generato da animali di altra specie." (Plutarco, Doxa) ^ Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Colin A. Ronan, The Shorter Science and Civilisation in China: An Abridgement by Ronan of Needham's Original Text, Cambridge; New York, Cambridge, Miller James, Daoism and Nature, su jamesmiller.ca Sedley, Lucretius, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, Stanford, CA, Stanford, Bowler, The Earth Encompassed: A History of the Environmental Sciences., in Norton History of Science, New Yorki, Norton, CICERONE (si veda), De Natura Deorum. Sant'Agostino, La genesi alla lettera. ^ Gill, Meredith J., Augustine in the Italian Renaissance: Art and Philosophy from Petrarch to Michelangelo, Cambridge; New York, Cambridge, Owen, Vatican buries the hatchet with Charles Darwin, su Times, Bergoglio, "Teoria del Big Bang non contraddice la creazione divina. Dio non è stato un mago", su huffingtonpost.it, Huffington Post, Fairfield, From the Greeks to Darwin: An Outline of the Development of the Evolution Idea, New York, Macmillan, Dickson White, Storia della lotta della scienza con la teologia nella cristianità, edizione inglese: A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom, vol. 1, New York, Londra, D. Appleton et Company, Gutenberg. ^ Ben Waggoner, Medieval and Renaissance Concepts of Evolution and Paleontology, su ucmp.berkeley.edu, University of California Museum of Paleontology. Egerton, A History of the Ecological Sciences, Arabic Language Science Origins and Zoological Writings, in Bulletin of the Ecological Society of America, Washington, D.C., Teodros, Explorations in African Political Thought: Identity, Community, Ethics, in New Political Science Reader Series, New York, Routledge, Khaldūn: "Sixth Prefatory Discussion, in Muqaddimah. 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In the few years of the pre-  Christian period that remained the teaching of Empedocles, and of Epicurus as the mouthpiece of the  y atomic theory, was revived by LUCREZIO in his “De Rerum Natura.” Of that remarkable man but little is recorded, and the record is untrustworthy. LUCREZIO died by his own  hand, Jerome says, but of this there is no proof. It is difficult, taking up LUCREZIO’s wonderful poem, to resist the temptation to make copious extracts from it, since, even through the  vehicle of Munro's annotations, it is  probably little known to the Oxford pupil in Literae Humaniores in these evil days of snippety philosophy. But the temptation  must be resisted, save in moderate degree. With the dignity which his high mission inspires, LUCREZIO appeals to us in the threefold character of teacher, reformer, and poet. First, by reason of  the greatness of my argument, and because I set the  mind free from the close-drawn bonds of your Roman superstitions; and next because, on so dark a theme, I compose such lucid verse, touching every point with the grace of poesy. As a teacher, LUCREZIO expounds the doctrines of The Garden (L’Orto) concerning life and nature. As a reformer, LUCREZIO attacks the Roman superstitions. As a philosophical poet, LUCREZIO informs both the atomic philosophy and its moral application with harmonious and beautiful verse swayed by a fervour that is akin to religious emotion. Discussing at the outset various theories of origins, and dismissing these, notably that which asserts  that things came from nothing for if so, any kind might be born of anything, nothing would require seed," LUCREZIO proceeds to expound the teaching  of the atomists as to the constitution of things by particles of matter ruled in their  movements by unvarying laws. This theory LUCREZIO works all round, explaining the processes by which  the atoms unite to carry on the birth, growth, and  decay of things, the variety of which is due to variety  of form of the atoms and to differences in modes  of their combination; the combinations being deter-  mined by the affinities or properties of the atoms  themselves, " since it is absolutely decreed what each  thing can and what it cannot do by the conditions of  Nature." Change is the law of the universe;. what  is, will perish, but only to reappear in another form.  Death is "the only immortal"; and it is that and  what may follow it which are the chief tormentors  of men. " This terror of the soul, therefore, and this  darkness, must be dispelled, not by the rays of the  sun or the bright shafts of day, but by the outward  aspect and harmonious plan of Nature." LUCREZIO explains that the soul, which he places in the centre of the breast, is also formed of very minute atoms of  heat, wind, calm air, and a finer essence, the pro-  portions of which determine the character of both  men and animals. It dies with the body, in support of which statement LUCREZIO advances XVIII arguments, so determined is he to " deliver those  who through fear of death are all their lifetime subject to bondage. These themes fill the first three books. In the  fourth he grapples with the mental problems of sensation and conception, and explains the origin of belief in immortality as due to ghosts and appari-  tions which appear in dreams. " When sleep has  prostrated the body, for no other reason does the  mind's intelligence wake, except because the very  same images provoke our minds which provoke them  when we are awake, and to such a degree that we  seem without a doubt to perceive him whom life has  left, and death and earth gotten hold of. This Na-  ture constrains to come to pass because all the senses  of the body are then hampered and at rest throughout the limbs, and cannot refute the unreal by real  things."   In the fifth book Lucretius deals with origins —  of the sun, the moon, the earth (which he held to be  flat, denying the existence of the antipodes); of life  and its development; and of civilization. In all this  he excludes design, explaining everything as pro-  duced and maintained by natural agents, "the masses,  suddenly brought together, became the rudiments of  earth, sea, and heaven, and the race of living things."  He believed in the successive appearance of plants  and animals, but in their arising separately and di-  rectly out of the earth, " under the influence of rain  and the heat of the sun," thus repeating the old  speculations of the emergence of life from slime,  " wherefore the earth with good title has gotten and  keeps the name of mother." He did not adopt Empedocles's theory of the " four roots of all things,"  and he will have none of the monsters — ^the hippo-  griflFs, chimeras, and centaurs — ^which form a part of  the scheme of that philosopher. These, he says,  ** have never existed," thus showing himself far in  advance of ages when unicorns, dragons, and such-like fabled beasts were seriously believed to exist.  In one respect, more discerning than Aristotle, he  accepts the doctrine of the survival of the fittest as  taught by the sage of GIRGENTI. For he argues that since upon "the increase of some Nature set a  ban, so that they could not reach the coveted flower  of age, nor find food, nor be united in marriage,"  many races of living things have died out, and  been unable to beget and continue their breed." LUCREZIO speaks of GIRGENTI in terms scarcely less exaggerated than those which he applied to Epi-  curus. The latter is " a god " who first found out  that plan of life which is now termed wisdom, and  who by tried skill rescued life from such great billows and such thick darkness and moored it in so  perfect a calm and in so brilliant a light, ... he  cleared men's breasts with truth-telling precepts, and  fixed a limit to lust and fear, and explained what  was the chief good which we all strive to reach." As  to GIRGENTI," that great country (Sicily) seems  to have held within it nothing more glorious than  this man, nothing more holy, marvellous, and dear.  The verses, too, of this godlike genius cry with a  loud voice, and make known his great discoveries,  so that he seems scarcely bom of a mortal stock."  Continuing his speculations on the development  of living things, Lucretius strikes out in bolder and     l.^    original vein. The past history of man, he says, lies  in no heroic or golden age, but in one of struggle  out of savagery. Only when "children, by their  coaxing ways, easily broke down the proud temper  of their fathers," did there arise the family ties out  of which the wider social bond has grown, and soft-  ening and civilizing agencies begin their fair offices.  In his battle for food and shelter, " man's first arms  were hands, nails and teeth and stones and boughs  broken off from the forests, and flame and fire, as  soon as they had become known. Afterward the  force of iron and copper was discovered, and the use  >^. ' of copper was known before that of iron, as its nature is easier to work, and it is found in greater quantity.  With copper they would labour the soil of the earth  and stir up the billows of war. Then by slow  steps the sword of iron gained ground and the make  of the copper sickle became a byword, and with iron  they began to plough through the earth's [soil, and  the struggles of wavering man were rendered equal."  As to language, " Nature impelled them to utter the  various sounds of the tongue, and use struck out the  names of things." Thus does Lucretius point the  road along which physical and mental evolution have  since travelled, and make the whole story subordi-  nate to the high purpose of his poem in deliverance  of the beings whose career he thus traces from super-  stition. Man " seeing the system of heaven and the  different seasons of the years could not find out by  what causes this was done, and sought refuge in handing over all things to the gods and supposing  all things to be guided by their nod." Then, in the  sixth and last book, the completion of which would  seem to have been arrested by his death, LUCREZIO explains the law of winds and storms, of earth-quakes and volcanic outbursts, which men " foolishly  lay to the charge of the gods," who thereby make  known their anger. So, loath to suffer mute,  We, peopling the void air,  Make Gods to whom to impute  The ills we ought to bear ;  With God and Fate to rail at, suffering easily.   And what a motley crowd of gods they were on  whose caprice or indifference he pours his vials of  anger and contempt! The tolerant pantheon of  Rome gavie welcome to any foreign deity with respectable credentials; to Cybele, the Great Mother,  imported in the' shape of a rough-hewn stone with  pomp and rejoicings from Phrygia 204 b. c; to Isis,  welcomed from Egypt; to Herakles, Demeter, As-  klepios, and many another god from Greece. But these are dismissed from a man's thought when the prayer or sacrifice to them had been offered at the  due season. They had less influence on the Roman's  life than the crowd of native godlings who were  thinly disguised fetiches, and who controlled every  action of the day. For the minor gods survive the changes in the pantheon of every race. Of the Greek  peasant of to-day Mr. Rennel Rodd testifies, in his Custom and Lore of Modern Greece, that much as  he would sliudder at the accusation of any taint of  paganism, the ruling of the fates is more immediately real to him than divine omnipotence. Mr.  Tozer confirms this in his Highlands of Turkey. He  says: " It is rather the minor deities and those as-  sociated with man's ordinary life that have escaped  the brunt of the storm, and returned to live in a dim  twilight of popular belief. In India, Lyall tells us that, " even the supreme triad of Hindu  allegory, which represents the almighty powers of  creation, preservation, and destruction, have long  ceased to preside actively over any such correspond-  ing distribution of functions. Like limited monarchs, they reign, but do not govern. They are  superseded by the ever-increasing crowd of godlings  whose influence is personal and special, as shown by  Mr. Crooke in his instructive Introduction to the  Popular Religion and Folk-lore of Northern India. The old ROMAN CATALOGUE of spiritual beings,  abstractions as they were, who gfuarded life in minute  detail, is a long one. From the indigitamenta^ as  such lists are called, we learn that no less than forty-  three were concerned with the actions of a child.  When the farmer asked Mother Earth for a good  harvest, the prayer would not avail unless he also  invoked " the spirit of breaking up the land and the  spirit of ploughing it crosswise; the spirit of furrow-  ing and the spirit of ploughing in the seed; and the  spirit of harrowing; the spirit of weeding and the spirit of reaping; the spirit of carrying com to the  barn; and the spirit of bringing it out again." The  country, moreover, swarmed with Chaldaean astrolo-  gers and casters of nativities; with Etruscan harus-  pices full of " childish lightning-lore, who foretold  eve'tits from the entrails of sacrificed animals; while  in competition with these there was the State-supported college of augurs to divine the will of the  gods by the cries and direction of the flight of birds.  Well might the satirist of such a time say that the place was so densely populated with gods as to  leave hardly room for the men."   It will be seen that the justification for including  Lucretius among the Pioneers of Evolution lies in  his two signal and momentous contributions to the  science of man; namely, the primitive savagery of  the human race, and the origin of the belief in a  soul and a. future life. Concerning the first, an-  thropological research, in its vast accumulation of  materials during the last sixty years, has done little  more than fill in the outline which the insight of LUCREZIO enabled him to sketch. As to the second,  he anticipates, well-nigh in detail, the ghost-theory  of the origin of belief in spirits generally which Her-  bert Spencer and Dr. Tylor, following the lines laid  down by Hume and Turgot, have  formulated and sustained by an enormous mass of  evidence. The credit thus due to Lucretius for the  original ideas in his majestic poem — Greek in con-  ception and Roman in execution — has been obscured in the general eclipse which that poem suf-  fered for centuries through its anti-theological spirit.  Grinding at the same philosophical mill, Aristotle,  because of the theism assumed to be involved in his  " perfecting principle," was cited as " a pillar of the  faith" by the Fathers and Schoolmen; while Lucre-  tius, because of his denial of design, was “anathema  maranatha.” Only in these days, when the far-reach-  ing effects of the theory of evolution, supported by  observation in every branch of inquiry, are apparent,  are the merits of Lucretius as an original seer, more  than as an expounder of the teachings of GIRGENTI and L’ORTO, made clear.   Standing well-nigh on the threshold of the Chris-  tian era, we may pause to ask what is the sum of  the speculation into the causes and nature of things  which, begun in Ionia (with impulse more or less  slight from the East), by Thales, ceased, for many centuries, in the  poem of Lucretius, thus covering an active period  of about five hundred years. The caution not to see  in these speculations more than an approximate ap-  proach to modern theories must be kept in mind. There is a primary substance which abides  amidst the general flux of things.   All modern research tends to show that the various  combinations of matter are formed of some prima ma-  teria. But its ultimate nature remains unknown.   2. Out of nothing comes nothing.  Modern science knows nothing of a beginnings and, moreover, holds it to be unthinkable. In this it stands  in direct opposition to the theological dogma that God  created the universe out of nothing; a dogma still  accepted by the majority of Protestants and binding on  Roman Catholics. For the doctrine of the Church of Rome thereon, as expressed in the Canons of the  Vatican Council, is as follows: " If any one confesses  not that the world and all things which are contained  in it, both spiritual and mental, have been, in their  whole substance, produced by God out of nothing; or  shall say that God created, not by His free will from  all necessity, but by a necessity equal to the necessity  whereby He loves Himself, or shall deny that the  world was made for the glory of God: let him be  anathemaJ'  The primary substance is indestructible. The modern doctrine of the Conservation of Energy  teaches that both matter and motion can neither be ere-  ated nor destroyed. The universe is made up of indivisible particles  called atoms, whose manifold combinations, ruled  by unalterable affinities, result in the variety of  things. With modifications based on chemical as well as  mechanical changes among the atoms, this theory of  Leucippus and Democritus is confirmed. (But recent  experiments and discoveries show that reconstruction  of chemical theories as to the properties of the atom may  happen.) Change is the law of things, and is brought  about by the play of opposing forces.   Modern science explains the changes in phenomena  as due to the antagonism of repelling and attracting  modes of motion; when the latter overcome the former,  equilibrium will be reached, and the present state of  things will come to an end.   6. Water is a necessary condition of life.  Therefore life had its beginnings in water; a theory   wholly indorsed by modern biology, Life arose out of non-living matter. Although modern biology leaves the origin of life   as an insoluble problem, it supports the theory of  fundamental continuity between the inorganic and the  organic.  Plants came before animals: the higher organ-  isms are of separate sex, and appeared subsequent  to the lower. Generally confirmed by modern biology, but with  qualification as to the undefined borderland between  the lowest plants and the lowest animals. And, of  course, it recognises a continuity in the order and  succession of life which was not grasped by the Greeks. Aristotle and others before him believed that some of  the higher forms sprang from slimy matter direct.   9. Adverse conditions cause the extinction of  some organisms, thus leaving room for those better  fitted.   Herein lay the crude germ of the modern doctrine  of the survival of the fittest. Man was the last to appear, and his primi-  tive state was one of savagery. His first tools and  weapons were of stone; then, after the discovery of  metals, of copper; and, following that, of iron. His  body and soul are alike compounded of atoms, and  the soul is extinguished at death. The science of Prehistoric Archceology confirms the  theory of man's slow passage from barbarism to civili-  zation; and the science of Comparative Psychology de-  clares that the evidence of his immortality is neither stronger nor weaker than the evidence of the immortality of the lower animals. Such, in very broad outline, is the legacy of sug-  gestive theories bequeathed by the Ionian school and  its successors, theories which fell into the rear when  Athens became a centre of intellectual life in which  discussion passed from the physical to those ethical  problems which lie outside the range of this survey.  Although Aristotle, by his prolonged and careful  observations, forms a conspicuous exception, the  fact abides that insight, rather than experiment, ruled Greek speculation, the fantastic guesses of parts of  which themselves evidence the survival of the crude and falsei deas about earth and sky long prevailing. The more wonderful is it, therefore, that so much  therein points the way along which inquiry travelled after its subsequent long arrest; and the more apparent is it that nothing in science or art, and but  little in theological speculations, at least among us Westerns, can be understood without reference to Greece. Approxi-Namb. Place. mate Speciality. Thales. Miletus.Cosmological (Ionia).Ae Pri f Water.Substance Anaximender. the Boundless. Anaximenes.Air. Pythagoras. Samos Numbers: the Ionian a Cosmos built coast). up of geometrical figures or(Grote, Plato) generated out of  number. Xenophanes. Colophon. Founder of the (Ionia). Eleatic school. Heraditus. Ephesus Ionia Fire. Empedocles. Agrigentum Fire, Air,Earth, (Sicily). And Water ruled by Love  and Strife. Anaxagoras. Clazomenae (Ionia). Nous. Leucippus Democritus. Abdera. Formulators of the Atomic Thrace Theory Aristotle.  Stagira  (Macedonia). Naturalist.  i Epicurus. Samos. Expounder of the Atomic  Theory and Ethical Philosopher. LUCREZIO.  Roma Interpreter of Epicurus and  EMPEDOCLE DI GIRGENTI: the first Anthropologist. Gilberto Corbellini. Keywords: darwinismo politizzato, Dawkins’ selfish gene – read selfish gene – medicina in Roma antica -- evoluzione, emergentismo, biologia filosofica, grammatical del vivente, cooperazione, altruismo, razionalita, utilitarismo, darwinismo sociale, evolluzione, filosofia dell’evoluzione, progresso ed evoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corbellini” – The Swimming-Pool Library. 

 

Luigi Speranza -- Grice e Cordeschi: la ragione conersazionale e l’implicatura conversazionale della logica della guerra – scuola dell’Aquila –filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (L’Aquila). Filosofo abruzzes. Filosofo italiano. L’Aquila, Abruzzo. Grice: “Cordeschi is fine if you are into how we can model a pirot from an automaton – Descartes’s old idea!” -- Roberto Cordeschi (L'Aquila) filosofo.  Si laurea a Roma sotto Somenzi. Si appassiona subito alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i primi studiosi e contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice discute una tesi sui Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino, Avezzano, Torino, Roma, e Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La cibernetica in Italia” (Roma: Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a internet: etica e politica tra mondo reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico al corpo sintetico. Roma: Carocci); “Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione Banca Agricola Mantovana); “Natura, machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia delle macchine: dalla cibernetica alla robotica bellica” (Roma: Armando); “Rap-resentare il concetto: filosofia e modello computazionale”. Sistemi Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il metodo sintetico e la scienza cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove prospettive nell’Intelligenza Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani), “Quale coscienza artificiale? Sistemi intelligenti, “Adattamento” e “selezione” nel mondo della natura” (Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa al Documento di Dartmouth, Sistemi Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli; “Forme e strutture della comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia dell’intelligenza artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca, SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum SWIF. C Vecchi problemi filosofici per la nuova Intelligenza Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia dell’Intelligenza Artificiale e Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale” (Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e macchine intorno alla cibernetica, Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone, E., Mangione, C., a cura di. Geymonat L., Storia del pensiero scientifico. Il Novecento,  Milano: Garzanti); Somenzi, La filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati Boringhieri); Indagini meccanicistiche sulla mente: la cibernetica e l’intelligenza artificiale. In: Somenzi, V., Cordeschi, R., a cura di. La filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati Boringhieri: Qualche problema per l’IA classica e connessionista. Lettera matematica PRISTEM, Una macchina protoconnessionista. Pisa: ETS: Le radici moderne del recupero scientifico della teologia. Nuova Civiltà Delle Macchine); Scienza e filosofia della scienza; La mente nuova dell’imperatore. La mente, i computer, le leggi della fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, Milano: Marzorati, Turing. In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti,  Milano: Marzorati: Significato e creatività: un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale: Menti, Cervelli e Computer, Cervello, mente e calcolatori: précis storico dell’intelligenza artificiale. In: Corsi, P., a cura di. La fabbrica del pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Milano: Electa: L’intelligenza artificiale tra psicologia e filosofia. Nuova Civiltà delle Macchine, Mente, linguaggio e realtà. Milano: Adelphi. Linguaggio mentalistico e modelli meccanici della mente. Osservazioni sulla relazione di Boden. L’evoluzione dei calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli “sperimentalisti”. Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro una recensione crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la risoluzione dei problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica e critica della psicologia, Manuscript. La psicologia tra scienze della natura e scienze dello spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi, a cura di. Gli studi di psicologia in Italia: Aspetti teorici scientifici e ideologici, Quaderni di storia critica della scienza. Nuova serie. 9, Pisa: Domus Galileana); Una critica del naturalismo: note sulla concezione crociana delle scienze. Critica marxista; Introduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Predicati. In: CIntroduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Elementi di logica matematica. Roma: Riuniti); Bilancio dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La filosofia di Leibniz: esposizione critica con un’appendice antologica. Roma: Newton Compton Italiana); Filosofia e informazione. Padova: La Cultura; Validità e reiezione nella logica aristotelica. Il problema della decisione. Report: Storia della Filosofia Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript. In generale, nella implicatura robotica c’è la tendenza a ricorrere al vocabolario delle rappresentazioni solo quando, per così dire, non se ne può fare a meno, ovvero, più precisamente, quando si lascia il livello puramente reattivo nel quale il lessico delle rappresentazioni sarebbe banale, per passare a quello topologico e, a maggior ragione, a quello metrico o delle mappe cognitive. Due robot puramente reattivi sono capaci di risolvere alcuni compiti per i quali, nella ricerca su animali (la squarrel Toby di Grice), si erano invocate rappresentazioni complesse come le mappe cognitive. Questi stessi robot reattivi, man mano che si riducono le restrizioni sull’ambiente, diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli stessi compiti, che possono essere risolti solo da agenti dotati di stati interni (attitudine psicologica) ai quali essi riconoscono lo status di rappresentazioni. La massima sarebbe in questi casi quella di esaminare tutti i modi possibili di spremere l’ultima goccia di informazione dal livello reattivo prima di parlare dell’influenza della rappresentazione, modello del mondo o mappa sul comportamento intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni, una volta ammesse, le opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei punti di vista ormai usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza naturale, classica o nouvelle che sia. Si può parlare di rappresentazione anche per i pattern connessionisti, a patto di distinguere la relativa computazione. La rappresentazione e solo simbolica, quale che sia la loro complessità, e un pattern connessionista, non essendo considerato simbolico, non e una rappresentazione. Si parla di una rappresentazione che possono essere di diversa complessità e accuratezza, esplicita (spliegatura) o implicita (impiegatura), metrica o topologica, centralizzata o distribuita. E in generale si parla di ra-presentazione simbolica quando si è in presenza di un costrutto dotato di proprietà ritenuta analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni polemiche da parte di alcune tendenze dell’IA nouvelle identificano nell’Ipotesi del Sistema Fisico di Simboli il paradigma linguistico per eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un confronto di qualche anno fa tra sostenitori e critici di questa ipotesi mostra come questa interpretazione sia quanto meno opinabile. Sarebbe opportuno tenerne conto, per evitare di porre in un modo troppo sbrigativo l’identificazione tra simbolo e  il concetto piu generale di segno in IA classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi che stanno alla base della costruzione di un modello di conversazione, tra i quali quello della natura della rappresentazione. Mi riferisco all’interpretazione in termini di un sistema di elaborazione simbolica dell’informazione (dunque in termini di un sistema fisico materiale di simboli) di sistemi tradizionalmente non considerati tali, come quelli proposti dai teorici dell’azione situata. L’idea di simbolo che sta alla base di questa ipotesi è che un simbolo è un pattern che denota, e la nozione di denotazione è quella che dà al simbolo la sua capacità rappresentazionale. Il pattern puo denotare altro pattern, sia interni al Si veda per una formulazione particolarmente esplicita (Gallistel). Detto in breve, tali proprietà riguardano, tra l’altro, la produttività, ovvero la capacità di generare e capire un insieme illimitato di frasi, e la sistematicità, ovvero la capacità di capire ad esempio tanto aRb quanto bRa. Fodor ne ha fatto la base per la sua controversa ipotesi del “linguaggio del pensiero” Per una introduzione all’argomento, si veda (Francesco). Per pattern si intende, come sarà più chiaro nel seguito, una struttura fisica, biologica o inor- ganica, che può essere oggetto di processi computazionali—codifica, decodifica, registrazione, cancellazione, cambiamento, confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in un calcolatore e nel sistema nervoso, anche se in quest’ultimo caso non sappiamo nei dettagli come. Questa tesi provocò diverse reazioni (si vedano Cognitive Science). Si noti che nelle intenzioni di Simon e Vera la tesi non comporta che ogni pattern sia dotato di meccanismo  sistema che esterni ad esso (nel mondo reale), e anche stimoli sensoriali e azioni motorie. Processi tanto biologici quanto inorganici possono essere simbolici in questo senso e, dal punto di vista sostenuto da Simon e Vera, i relativi sistemi sono sempre sistemi fisici di simboli, ma a diversi livelli di complessità. Per esempio, nel caso più semplice che riguarda gli organismi, anche l’azione riflessa (subcorticale) è un processo simbolico: la codifica di un simbolo provocata da un ingresso sensoriale, poniamo la bruciatura di una mano, dà luogo alla codifica di un simbolo motorio, con la conseguente rapida effettuazione dell’azione, in questo caso il ritirare la mano. Più precisamente, l’idea è che “il sistema nervoso non trasmette certo la bruciatura, ma ne comunica l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la brucia- tura] viene trasmesso al midollo spinale, che a sua volta trasmette un simbolo ai mu- scoli, i quali esercitano la contrazione che consente di ritirare la mano.” Nel caso degli artefatti, già il solito termostato è un sistema fisico di sim- boli, sebbene particolarmente semplice: il suo livello di tensione è un simbolo che denota uno stato del mondo esterno. Come ho ricordato, anche Brooks ha finito per riconoscere alle rappresentazioni un loro ruolo nel comportamento dei suoi robot, se non altro alle rappresentazioni “relati- ve al particolare compito per il quale sono usate” (i “modelli parziali del mondo”), quali potrebbero essere, a diversi livelli di complessità, quelle usate da agenti naturali come Cataglyphis o da agenti artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra ri- cordato. Simon e Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come sistemi fisici di simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto sofisticata, anche se specializzata a un compito particolare. Ma essi includono tra i sistemi fisici di simboli anche artefatti molto più semplici, come il ricordato termostato, e agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al livello del taxon system (che, seguendo Prescott, era stato definito come una catena di associazioni consistenti in coppie <stimolo, risponsa>). Secondo i due autori, i primi robot alla Brooks sono (un tipo relativamente sem- plice di) sistemi fisici di simboli: anche l’interazione senso-motoria diretta di un agen- te con l’ambiente nella misura in cui dà luogo a un comportamento coerente alle rego- larità dell’ambiente, non può essere considerata se non come manipolazione simboli- ca. Ho ricordato sopra il semplice comportamento reattivo di Allen, che tramite sonar evita ostacoli presenti in un ambiente reale. In questo caso, i suoi ingressi sensoriali danno luogo a un processo di codifica, e i costrutti in gioco (i simboli, secondo la definizione sopra ricordata) che risultano da tale interazione sensoriale, e poi motoria, dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni interne (degli ostacoli esterni da evitare) in un senso non banale: l’informazione sensoriale captata dal robot è converti- ta in simboli, i quali sono manipolati al fine di determinare gli appropriati simboli motori che evocano o modificano un certo comportamento. L’assenza di memoria in questo tipo di agente comporta che l’azione sia eseguita senza una rappresentazione esplicita del piano e dell’obiettivo che orienta l’azione stessa (senza pianificazione), ma non che non ci sia attività rappresentazionale simbolica. Qual è la natura di questi simboli, di queste rappresentazioni simboliche? denotazionale, cosa che evidentemente renderebbe banale questa definizione di simbolo: ci sono pattern che non denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla sufficienza della denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di rappresen- tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici si tratta di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la relazione funzionale del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero per il solito termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi connessionisti, o che includono sistemi connessioni- sti), tali rappresentazioni (analogiche) hanno carattere temporaneo (senza intervento di memoria) e distribuito (non sono sottoposte a controllo centralizzato). In questi casi, una rappresentazione certo imprecisa ma sufficientemente efficace è fornita da un sonar sotto forma di un pattern interno fisico (un pattern di nodi della rete, nel caso di un sistema connessionista): essa denota o rappresenta per il robot un ostacolo o una certa curvatura di una parete o di un percorso. Una volta che tale pattern venga comu- nicato a uno sterzo, esso determina l’angolo della ruota sterzante del carrello del robot. Per quanto diversa a seconda dei casi, è sempre presente un processo di codifica- elaborazione-decodifica non banale, che stabilisce una ben precisa relazione funziona- le tra il sistema e l’ambiente, e spiega il comportamento coerente dell’agente nell’interazione con il mondo. Non parlare di rappresentazioni interne, e limitarsi a dire che un agente “intrattiene certe relazioni causali con il mondo, non spiega come tali relazioni vengano mantenute. E’ del tutto ragionevole sostenere che un agente mantiene l’orientamento verso un oggetto tramite una relazione causale (Grice, “La teoria causale della percezione”) con esso e che tale relazione è un pattern di interazione, ma non ha senso pensare che tale pattern venga prodotto per magia, senza un corrispondente cambiamento di stato rappresenta- zionale dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo senza una rappresentazione interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più complesse, che sono alla base di un’attività non semplicemente percettiva diretta, sono presenti in altri casi, quando entrano in gioco la me- moria, l’apprendimento, il riconoscimento di oggetti e l’elaborazione di concetti, la formulazione esplicita di una mappa o di piani alternativi, sotto forma di rappresentazioni off-line, e ancora. In molte di queste attività “alte” intervengono rappresentazioni esplicite, linguistiche e metriche, ma se si riconosce che la cognizione richiede questo tipo di rappresentazioni, è difficile mettere in dubbio che tali attività non condividono con attività più “basse” come la percezione, sulle quali esse vengono elaborate, il meccanismo denotazionale, sia pure in una forma minimale. A meno di restringere arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo, non c’è ragione di riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai costrutti della semantica denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si possa sottoscrivere questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di rappresentazione] è effettivamente minimale, tale da rende- re le rappresentazioni più o meno ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz- zato che si è evoluto o è stato progettato in modo da coordinare il suo comportamento con le caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni nel regolatore, nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento di Bechtel al regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne faceva il prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica della co- gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a feedback negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik, che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle  Simon e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente. Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica, molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi termini: “Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un robot behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona una attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa base di dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità comportamentali di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può essere implementata in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di parallelismo, presenta doti di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo reale paragonabili a quelle di un dispositivo behavior-based. In questo senso, le regole di descrizione danno una modellizza- zione adeguata del comportamento di un agente situato. Oltre alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione riflessa o “innata” e di quella reattiva possono essere rese attraverso un’unica regola di produzione (qualcosa che corrisponda a una relazione comportamentista S→R), esistono le azioni automa- rappresentazioni, al ruolo dell’utente degli artefatti e alla natura della spiegazione cognitiva. L’articolo di Bechtel contiene una disanima efficace di questi problemi, rispetto a posizioni diverse come quella sostenuta da Clancey contro la tesi di Vera e Simon. In breve, le regole di produzione hanno la forma “se... allora”, o CONDIZIONE → AZIONE. La memoria a lungo termine di un sistema fisico di simboli è costituita da tali regole: gli antecendenti CONDIZIONE permettono l’accesso ai dati in memoria, codificati dai conseguenti AZIONE. tizzate a seguito dell’apprendimento, quando cioè le regolarità relative a un certo comportamento sono state memorizzate, o quelle che comportano una relazione “di- retta” con il mondo tramite le affordance alla Gibson. Un esempio sono le risposte immediate che fanno seguito a sollecitazioni improvvise o impreviste provenienti dall’ambiente Ora i teorici dell’azione situata (e, come si è visto, i nuovi robotici) insistono sul fatto che questi casi di interazione diretta con l’ambiente si svolgono in tempo reale, senza cioè che sia possibile quella presa di decisione, diciamo così, meditata che ri- chiede la manipolazione di rappresentazioni e la pianificazione dell’azione. Si pensi all’esempio di Winograd e Flores dell’automobilista che, guidando, affronta una curva a sinistra. In primo luogo, secondo i due autori, non è necessario che egli faccia continuamente riferimento a conoscenze codificate sotto forma di regole di produzione—non è necessario riconoscere una strada per accorgersi che è “percorribi- le” (la “percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella relazione diretta agente- ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa dall’agente, per così dire, senza pensarci (senza pensare di posizionare le mani, di contrarre i muscoli, di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a sinistra ecc.). Tutto ciò avviene automaticamente e immediatamente, dunque senza applicare qualcosa come una successione di regole di produzione “se p, q”. In conclusione, la tesi è che non è possibile modellizzare questo aspetto della presa di decisione istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che comporta codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni, regole di produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores è la teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha a che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul serio la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze, aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea, non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso l’apprendimento, la formazione di schemi automatici di comportamento (di risposte motorie, nell’esempio di sopra), finiscono per determinare l’esclusione immediata di certe alternative possibili (come, nell’esempio della guida, innestare la marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia, frenare ecc.), e tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza dell’ambiente stesso (fondo strada bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella terminologia di Gibson sono invarianti dell’ambiente che vengo- no “colte” (picked up) dall’agente “direttamente” nella sua interazione con l’ambiente stesso, e “direttamente” viene interpretato come: senza la mediazione di rappresentazioni e di computa- zioni su esse. Un esempio sono i movimenti dell’agente in un ambiente nel quale deve evitare oggetti o seguirne la sagomatura e così via: un po’ quello che fanno i robot reattivi di cui ho parlato. L’esempio del termostato è ricorrente in scienza cognitiva e in filosofia della mente dai tempi della cibernetica. E’ evidente che definire sistemi fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del tipo dei robot di Brooks, come vedremo) comporta rinunciare al requisito dell’universalità per tali sistemi (sul quale si veda Newell).  aspettative pertinenti.17 Secondo le stesse parole di Simon “il solutore di problemi non percepisce mai Dinge an sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i propri pre- concetti” (Simon). Di norma, dunque, l’informazione considerata dall’agente non è collocata in uno spazio bene ordinato di alternative, generato dalla formulazione del problema: tale informazione è generalmente incompleta, ma è pur sempre sostenuta dalla conoscenza della situazione da parte dell’agente. La proposta è, dunque, che la modellizzazione a regole di produzione di un’azione del genere, e in generale di una affordance, è un simbolo che, via il sistema percettivo di codifica, raggiunge la memoria del sistema per soddisfare la CONDIZIONE di una regola di produzione esplicita. In questo modo, soddisfatta la CONDIZIONE, si attiva la regola, e la produzione (la decodifica) del simbolo di AZIONE avvia la risposta motoria. Da questo punto di vista, le affordance sono rappresentazioni di pattern del mondo esterno, ma con una particolarità: quella di essere codificate in un modo particolar- mente semplice. Nell’esempio di sopra, una volta che si sia imparato a guidare, la regola è qualcosa come: “se la curva è a sinistra allora gira a sinistra”.Questa regola rappresenta la situazione al livello funzionale più alto nel quale la rappresentazione che entra in gioco è “minima”. Un termine del genere, a proposito delle rappresentazioni, lo abbiamo visto usato da Gallistel, ma per Simon e Vera il termine rimanda alla forma della regola indicata, che può essere rapidamente applicata: in questo caso, cioè, non c’è bisogno di evocare i livelli “bassi” o soggiacenti, quelli coinvolti con l’analisi dettagliata dello spazio del problema e con l’applicazione delle opportune strategie di soluzione, che comportano computazioni generalmente complesse, sotto forma di successioni di regole di produzione. Questi livelli intervengono nelle fasi dell’apprendimento (quando si impara come affrontare le curve), e possono essere evocati dall’agente quando la situazione si fa complicata (si pensi a una curva a raggio variabile, che rivela la complessità dell’interazione codi- fica percettiva-decodifica motoria). E tanto un apprendimento imperfetto quanto una carenza, per i più svariati motivi, dell’informazione percettiva rilevante possono anche ostacolare l’accesso ai livelli soggiacenti che potrebbero dare luogo alla risposta cor- retta (non tutti coloro che hanno imparato a guidare riescono ad affrontare tutte le curve con pieno successo in ogni situazione possibile). Insomma, in questa interpretazione di Simon e Vera l’interazione in tempo reale dell’agente con l’ambiente è data non dal fatto di essere non simbolica e di non poter essere modellizzata mediante regole di produzione, ma dal fatto di non dover accede- re, per dare la risposta corretta, alla complessità delle procedure di elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti a quello alto. E’ nell’attività cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si elaborano piani e strategie di soluzione di problemi, che viene evidenziata la consapevolezza dell’agente. Simon e Vera ponevano infine un problema che riguarda i limiti degli approcci reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e che mi sembra condivisibile: “E’ tuttora dubbio se questo approccio behavior-based si possa estendere alla soluzione di pro- blemi più complessi. Le rappresentazioni non centralizzate e le azioni non pianificate possono funzionare bene nel caso di creature insettoidi, ma possono risultare insuffi- cienti per la soluzione di problemi più complessi. Certo, la formica di Simon non ha 17 Su questo tipo di comportamento, che può essere visto in termini di “percezione attesa”, si veda bisogno di una rappresentazione centralizzata e stabile del suo ambiente. Per tornare al nido zigzagando essa non usa una rappresentazione della collocazione di ciascun gra- nello di sabbia in relazione alla meta. Ma gli organismi superiori sembrano lavo- rare su una rappresentazione del mondo più robusta, una rappresentazione più complessa di quella di una formica, più stabile e tale da poter essere manipolata per astrarre nuova informazione”. La successiva evoluzione della robotica sembra confermare questa osservazione.  Wikipedia Ricerca Entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale Dichiarazione di guerra dell'Italia verso gli alleati nella seconda guerra mondiale 1leftarrow blue.svg Voce principale: Storia del Regno d'Italia. A seguito dell'attacco tedesco contro la Polonia, il capo del governo Benito Mussolini, nonostante un patto di alleanza con la Germania, dichiarò la non belligeranza italiana. L'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale avvenne con una serie di atti formali e diplomatici solo dopo nove mesi,, e fu annunciata da Mussolini stesso con un celebre discorso dal balcone di Palazzo Venezia. Durante i nove mesi di incertezza operativa, il Duce, impressionato dalle folgoranti vittorie tedesche, ma conscio della grave impreparazione militare italiana, restò a lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte contrastanti fra loro, oscillando tra la fedeltà all'amicizia con Adolf Hitler, l'impulso a rinnegarne la soffocante alleanza, la voglia di indipendenza tattica e strategica, il desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia e la brama di essere ago della bilancia nello scacchiere della diplomazia europea. Mussolini annuncia la dichiarazione di guerra dal balcone di Palazzo Venezia a Roma AntefattiModifica Gli attriti con la Francia e l'avvicinamento alla GermaniaModifica  L'ambasciatore francese in Italia André François-Poncet. Il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop incontra a Roma MUSSOLINI e il ministro degli esteri italiano CIANO. Durante il colloquio, Ribbentrop parlò di un possibile patto di alleanza fra Germania e Italia, argomentando che, forse nel giro di tre o quattro anni, un confronto armato contro Francia e Regno Unitosarebbe stato inevitabile. Alle molte domande di Mussolini, il ministro degli esteri tedesco spiegò che esisteva un'alleanza fra inglesi e francesi, i quali avrebbero cominciato insieme a riarmarsi, che esisteva un patto di assistenza reciproca fra sovietici e francesi, che gli Stati Uniti d'America non erano nelle condizioni di intromettersi in prima persona e che la Germania era in ottimi rapporti con il Giappone, concludendo che «tutto il nostro dinamismo può dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la ragione fondamentale per cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso tempestivo. Il Duce non sembrava convinto e iniziò a tergiversare, ma Ribbentrop catturò la sua attenzione affermando che il mar Mediterraneo, nelle intenzioni di Adolf Hitler, sarebbe stato posto sotto il totale dominio italiano, aggiungendo che l'Italia aveva in passato dimostrato la sua amicizia verso la Germania e che adesso era «la volta dell'Italia di profittare dell'aiuto tedesco. L'obiettivo di Hitler, cogliendo l'importanza strategica di avere Roma dalla propria parte, consisteva nel ridurre il numero dei potenziali nemici in una futura guerra, scongiurando l'eventuale avvicinamento dell'Italia a Francia e Regno Unito, il che avrebbe significato il ritorno al vecchio schieramento della prima guerra mondiale e al blocco marittimo che aveva contribuito a piegare l'Impero tedesco di Guglielmo II. L'incontro fra Ribbentrop, MUSSOLINI e CIANO, però, si concluse con un momentaneo nulla di fatto.  Dopo la conferenza di Monaco del 1938 la Francia si era riavvicinata all'Italia, inviando a Roma un suo ambasciatore nella persona di André François-Poncet, e Mussolini ritenne di poter approfittare del periodo di buoni rapporti per farle tre richieste riguardanti il mantenimento della particolare condizione degli italiani in Tunisia, l'ottenimento di alcuni posti nel consiglio di amministrazione della compagnia del Canale di Suez e un arrangiamento relativo alla città di Gibuti, che era il terminale dell'unica ferrovia esistente per Addis Abeba, all'epoca capitale dell'Africa Orientale Italiana. Infatti, gli obiettivi del Duce non comprendevano la conquista di territori europei. Il primo ministro inglese Chamberlain e il suo ministro degli esteri, lord Halifax, si recarono a Parigi e ultimarono i dettagli per la collaborazione militare tra Francia e Regno Unito, mentre i rapporti fra Italia e Francia iniziavano a deteriorarsi. Il successivo 30 novembre, durante un discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, il ministro degli esteri Ciano pronunciò un discorso durante il quale, accennando alle rivendicazioni irredentistiche italiane, venne interrotto dalle acclamazioni Nizza!, Savoia!, Corsica!, partite da una trentina di deputati. In quel momento, nella tribuna diplomatica, assisteva alla seduta anche l'ambasciatore francese André François-Poncet, arrivato a Roma da appena una settimana. Una manifestazione simile si verificò il giorno stesso in piazza di Monte Citorio, dove un centinaio di dimostranti esternò le stesse acclamazioni. Nonostante la parvenza di spontaneità, si era trattato di iniziative organizzate da Ciano e da Achille Starace, i quali, chiedendo molto di più delle tre richieste di Mussolini per poi fingere di accontentarsi del poco ottenuto per via negoziale, avevano inscenato le manifestazioni per impressionare François-Poncet, il quale infatti avvisò immediatamente Parigi dell'accaduto.[8] Il governo francese gli ordinò allora di chiedere spiegazioni e arrivò alla conclusione che, se la situazione era quella, una futura guerra contro l'Italia sarebbe stata inevitabile. La sera stessa, durante una seduta del Gran consiglio del fascismo, Mussolini prese però le distanze da quanto accaduto in aula, dato che l'Italia aveva da poco ripreso buone relazioni con la Francia e che la protesta era stata intrapresa a sua insaputa. François-Poncet chiese a CIANO se le grida dei deputati potevano rappresentare gli orientamenti della politica estera italiana e se l'Italia riteneva ancora in vigore l'accordo franco-italiano. Ciano, dissimulando la propria paternità su quanto accaduto, rispose che il Governo non poteva assumersi la responsabilità delle affermazioni dei singoli, ma che le riteneva un chiaro campanello d'allarme del sentire comune nazionale, e che era auspicabile, secondo la sua opinione, una revisione dell'accordo.  Di fronte a risposte così poco rassicuranti, la Francia iniziò ad aspettarsi un attacco italiano. Tuttavia, lo stato d'animo dei vertici militari d'oltralpe era improntato all'ottimismo: il generale Henri Giraud affermò infatti che un eventuale conflitto sarebbe stato, per le truppe francesi, «una semplice passeggiata nella pianura del Po», mentre altri ufficiali parlavano di un'azione militare «facile come infilare un coltello nel burro. Il primo ministro francese Édouard Daladier, irrigidendo la propria posizione nei confronti dell'Italia, affermò che non avrebbe mai ceduto ad alcuna pretesa straniera, facendo così sfumare anche la speranza di accoglimento delle tre richieste del Duce su Tunisia, Suez e Gibuti. Lo Stato Maggiore francese, fin dal 1931, aveva disposto dei piani per l'invasione militare dell'Italia, ampliandoli dopo ma il generale Alphonse Georges fece notare che nessuna azione sarebbe stata possibile contro l'Italia se, sulla Francia, fosse pesata una minaccia tedesca. Mussolini decise di aderire al patto italo-germanico, comunicando a Ribbentrop il proprio impegno. Secondo Ciano, il Duce si convinse ad accettare la proposta tedesca a causa della comprovata alleanza militare tra Francia e Regno Unito, dell'orientamento ostile del governo francese nei confronti dell'Italia e dell'atteggiamento ambiguo degli Stati Uniti d'America, che mantenevano una posizione defilata, ma che sarebbero stati pronti a rifornire di armamenti Londra e Parigi. Il maresciallo Pietro Badoglio, ribadendo la linea mussoliniana tracciata l'anno precedente, riferì allo Stato Maggiore Generale il contenuto di un suo colloquio avuto con il Duce due giorni prima, durante il quale «il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di cessioni territoriali alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare: quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare una eventuale richiesta (e ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra -- e ciò non è nelle sue intenzioni. Gli sforzi sostenuti per la guerra d'Etiopia del 1935-36 e per il supporto alla guerra civile spagnola del 1936-39avevano comportato spese eccezionali per l'Italia, le quali, unite alla limitata capacità produttiva dell'industria, alla lentezza del riarmo e alla scarsa preparazione dell'esercito, spinsero il Duce ad annunciare al Gran consiglio del fascismo, il 4 febbraio 1939, che il Paese non avrebbe potuto partecipare a un nuovo conflitto. La firma del Patto d'AcciaioModifica  Italia e Germania, rappresentate rispettivamente dai ministri degli esteri Ciano e Ribbentrop, concretizzarono la proposta tedesca dell'anno precedente e firmarono a Berlino un'alleanza difensiva-offensiva, che Mussolini aveva inizialmente pensato di battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più prudentemente chiamato Patto d'Acciaio. Il testo dell'accordo prevedeva che le due parti contraenti fossero obbligate a fornirsi reciproco aiuto politico e diplomatico in caso di situazioni internazionali che mettessero a rischio i propri interessi vitali. Questo aiuto sarebbe stato esteso anche al piano militare qualora si fosse scatenata una guerra. I due Paesi si impegnavano, inoltre, a consultarsi permanentemente sulle questioni internazionali e, in caso di conflitti, a non firmare eventuali trattati di pace separatamente.[16]  Pochi giorni prima, Ciano aveva incontrato Ribbentrop per chiarire alcuni punti del trattato prima di firmarlo. In particolare la parte italiana, conscia della propria impreparazione militare, voleva rassicurazioni sul fatto che i tedeschi non avessero intenzione di iniziare a breve una nuova guerra europea. Il ministro Ribbentrop tranquillizzò Ciano, dicendo che «la Germania è convinta della necessità di un periodo di pace che dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni» e che le divergenze con la Polonia per il controllo del Corridoio di Danzica sarebbero state appianate «su una strada di conciliazione». Siccome la rassicurazione di nessun conflitto armato per quattro o cinque anni faceva arrivare al 1943 o al 1944e, quindi, coincideva con la previsione di Mussolini del 4 febbraio 1939 di essere militarmente pronto per il 1943, il Duce diede il suo assenso definitivo per la firma dell'alleanza. Vittorio Emanuele III, nonostante la decisione di Mussolini, continuò a manifestare i propri sentimenti antigermanici e il successivo 25 maggio, al ritorno di Ciano da Berlino, commentò che «i tedeschi finché avran bisogno di noi saranno cortesi e magari servili. Ma alla prima occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono». Dal 27 al 30 maggio il Duce fu impegnato nella stesura di un testo indirizzato ad Hitler, successivamente passato alla storia come memoriale Cavallero dal nome del generale che glielo consegnò ai primi di giugno, nel quale venivano inserite alcune interpretazioni italiane del Patto da poco stipulato. Nello specifico, Mussolini, nonostante ritenesse inevitabile una futura «guerra fra le nazioni plutocratiche e quindi egoisticamente conservatrici e le nazioni popolose e povere», ribadì che Italia e Germania avevano «bisogno di un periodo di pace di durata non inferiore ai tre anni» allo scopo di completare la propria preparazione militare, e che un eventuale sforzo bellico avrebbe potuto avere successo. Ciano si recò al Berghof, vicino Berchtesgaden, per un colloquio con Hitler. Quest'ultimo, parlando del Corridoio di Danzica, prospettò un eventuale confronto armato circoscritto a Germania e Polonia qualora Varsavia avesse rifiutato le trattative proposte dai tedeschi, specificando che, in base alle informazioni in suo possesso, né Parigi né Londra sarebbero intervenute. Inoltre, il Cancelliere tedesco accennò a delle trattative segrete in corso con l'Unione Sovietica per un'alleanza. Ciano ricordò che era stato definito, alla firma del Patto d'Acciaio, di far passare alcuni anni prima di intraprendere azioni belliche, ma il Führer lo interruppe dicendo che «li avrebbe attesi, secondo quanto era stato concordato. Ma le provocazioni della Polonia e l'aggravarsi della situazione» avevano «reso urgente l'azione tedesca. Azione però che non provocherà un conflitto generale. Hitler chiede al Capo del Governo italiano di quali mezzi e di quali materie prime avesse bisogno per riuscire a prendere parte a un'eventuale nuova guerra. Nella speranza che il Paese ne fosse esonerato, il Duce rispose con una lunghissima lista appositamente abnorme e impossibile da soddisfare, talmente esagerata da essere definita da Galeazzo Ciano «tale da uccidere un toro. L'elenco - soprannominato Lista del molibdeno a causa delle 600 tonnellate richieste di questo materiale - comprendeva, fra petrolio, acciaio, piombo e numerosi altri materiali, un totale di quasi diciassette milioni di tonnellate di rifornimenti e specificava che, senza tali forniture da ricevere subito, l'Italia non avrebbe potuto assolutamente partecipare a una nuova guerra. Il Führer, nonostante il sospetto che Mussolini lo stesse ingannando, rispose dicendo che comprendeva la precaria situazione italiana e che poteva inviare una piccola parte del materiale, ma che gli era impossibile soddisfare per intero le richieste nostrane. La Germania inviò alla Polonia un ultimatum per la cessione del Corridoio di Danzica e la Polonia ordinò la mobilitazione generale. La mattina del giorno successivo, nonostante la situazione fosse già disperata, Mussolini si offrì come mediatore presso Hitler affinché la Polonia cedesse pacificamente Danzica alla Germania, ma il ministro degli esteri inglese Halifax rispose che tale soluzione era inaccettabile. Appresa la notizia, nel pomeriggio dello stesso giorno il Duce propose allora a Francia e Regno Unito una conferenza per il successivo 5 settembre, «con lo scopo di rivedere quelle clausole del trattato di Versaglia che turbano la vita europea». Mussolini, precedentemente, aveva già tentato di instradare la situazione nell'alveo di una soluzione diplomatica. Ciano, nel suo diario, in più momenti annotò che il Duce «è d'avviso che una coalizione di tutte le altre Potenze, noi compresi, potrebbe frenare l'espansione germanica»; «Il Duce sottolinea la necessità di una politica di pace»; «si potrebbe parlare col Führer di lanciare una proposta di conferenza internazionale»; «Il Duce tiene molto a che io provi ai tedeschi che lo scatenare una guerra adesso sarebbe una follia [...] Mussolini ha sempre in mente l'idea di una conferenza internazionale. Il Duce raccomanda ancora ch'io faccia presente ai tedeschi che bisogna evitare il conflitto con la Polonia il Duce ha parlato con calore e senza riserve della necessità della pace»;«Vedo nuovamente il Duce. Tentativo estremo: proporre a Francia e Inghilterra una conferenza per il 5 settembre»; «facciamo cenno a Berlino della possibilità di una conferenza». Durante la sera del 31 agosto, però, Mussolini venne informato che Londra aveva tagliato le comunicazioni con l'Italia. La scelta della non belligeranzaModifica  Truppe tedesche, il 1º settembre 1939, rimuovono una sbarra di confine tra Germania e Polonia All'alba del 1º settembre le forze armate tedesche, utilizzando come casus belli l'incidente di Gleiwitz, diedero inizio alla campagna di Polonia, varcandone il confine alla volta di Varsavia. Mussolini, avendo firmato solo tre mesi prima l'alleanza con il Reich, fu messo di fronte alla scelta se scendere o meno in campo a fianco di Hitler. Ricevuta notizia dell'attacco tedesco e conscio dell'impreparazione italiana, la mattina dello stesso giorno il Duce telefonò subito all'ambasciatore italiano a Berlino, Bernardo Attolico, chiedendo che Hitler gli mandasse un telegramma per sganciarlo dagli obblighi del Patto, in modo da non passare per traditore agli occhi dell'opinione pubblica. Il Führer rispose immediatamente, in modo molto cortese, accogliendo senza problemi la posizione dell'Italia, dicendo che ringraziava Mussolini per l'appoggio morale e politico e rassicurandolo sul fatto che non aspettava il sostegno militare italiano. Il telegramma, però, probabilmente per punire la beffa italiana della Lista del molibdeno, non venne pubblicato da alcun quotidiano del Reich e non venne trasmesso alla radio, facendo successivamente nascere, nell'opinione pubblica tedesca, una crescente ostilità nei confronti degli italiani, percepiti come inaffidabili e traditori del Patto.[32] Galeazzo Ciano riferì che Mussolini, avendo percepito questa crescente avversione, ancora il 10 marzo 1940 disse a Ribbentrop di essere «molto riconoscente al Führer per il telegramma nel quale questi ha dichiarato che non aveva bisogno dell'aiuto militare italiano per la campagna contro la Polonia», ma che sarebbe stato meglio «se questo telegramma fosse stato pubblicato anche in Germania». Non potendo scegliere la neutralità per non tradire l'amicizia con Hitler, nella seduta del Consiglio dei Ministri delle 15:00 del 1º settembre 1939 il Duce rese nota ufficialmente la posizione di non belligeranza. La mancata consultazione dell'Italia da parte della Germania prima dell'invasione della Polonia e prima della firma del patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica, comunque, secondo l'interpretazione italiana erano violazioni dei tedeschi dell'obbligo di consultazione fra i due Paesi, previsto dal testo del Patto d'Acciaio, consentendo perciò a Mussolini di dichiarare la non belligeranza senza formalmente venir meno ai patti sottoscritti.  Il 2 settembre Mussolini ripropose l'idea di una conferenza internazionale: inaspettatamente, Hitler rispose dichiarandosi disposto a fermare l'avanzata tedesca e a intervenire in una conferenza di pace cui avrebbero partecipato Germania, Italia, Francia, Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica. Gli inglesi, tuttavia, posero come condizione inderogabile che i tedeschi abbandonassero immediatamente i territori polacchi occupati il giorno prima. Galeazzo Ciano riportò nel suo diario che «non tocca a noi dare un consiglio di tale natura a Hitler, che lo respingerebbe con decisione e forse con sdegno. Dico ciò ad Halifax, ai due Ambasciatori e al Duce, e infine telefono a Berlino che, salvo avviso contrario dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima luce di speranza si è spenta». Secondo lo storico Renzo De Felice: «Così, nelle prime ore tra il 2 e il 3 settembre, sulle secche dell'intransigenza inglese forse più che su quelle dell'intransigenza tedesca, naufragò la navicella della mediazione italiana». Il Regno Unito e Francia, in virtù di un trattato di alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla Germania. L’ambasciatore Attolico, facendo riferimento all'accordo fra Hitler e Mussolini per una non immediata entrata in guerra dell'Italia e al telegramma di conferma di Hitler, comunicò che nel Reich «le grandi masse popolari, ignare dell'accaduto, cominciano già a dar segno di una crescente ostilità. Le parole tradimento e spergiuro ricorrono con frequenza». A conferma dell'impreparazione italiana, il Commissariato Generale per le Fabbricazioni di Guerra sondò il grado di approntamento delle Forze Armate, ricevendo come risposta dagli Stati Maggiori che, salvo imprevisti, la Regia Aeronautica sarebbe riuscita a ripianare sufficientemente le proprie carenze entro la metà del 1942, la Regia Marina alla fine del 1943 e il Regio Esercito alla fine del 1944. Inoltre l'economia italiana risultava fortemente danneggiata dal blocco navale alle esportazioni tedesche di carbone, imposto da Regno Unito e Francia e dall'applicazione del diritto di angheria, il quale prevedeva che Londra e Parigi potessero non solo attaccare il naviglio nemico, ma anche controllare il naviglio neutrale (o non belligerante) e porre sotto sequestro merci e navi neutrali (o non belligeranti) provenienti da una nazione nemica o dirette verso di essa. Dall'agosto al dicembre 1939, infatti, gli inglesi fermarono a Gibilterra e a Suez, con vari pretesti, 847 navi mercantili e passeggeri italiane (cifra poi salita a 1.347 navi al 25 maggio 1940), rallentando fortemente i traffici di qualsiasi merce nel Mar Mediterraneo, arrecando grave danno alla produttività nazionale e peggiorando i rapporti fra Roma e Londra.[39]  Durante l'inverno il Regno Unito fece sapere di essere disposto a vendere carbone all'Italia, ma ad un prezzo stabilito unilateralmente da Londra, senza garanzia sulle tempistiche di consegna e a patto che l'Italia rifornisse di armamenti pesanti Regno Unito e Francia. Siccome l'accettazione di una simile proposta avrebbe comportato il crollo delle relazioni fra Italia e Germania e una sicura reazione di Hitler, Galeazzo Ciano comunicò il rifiuto del governo italiano. La cronica mancanza di carbone e di approvvigionamenti causata dal blocco navale anglo-francese, però, minava fortemente la stabilità nazionale e rischiava di portare il Paese all'asfissia economica. La Germania intervenne, rifornendo l'Italia del carbone necessario e rendendola così ancora più dipendente da Berlino, anche se la fornitura era molto rallentata perché, per aggirare il blocco marittimo, doveva obbligatoriamente avvenire via rotaie dal passo del Brennero. Per i generi di prima necessità, invece, l'Italia sopperì parzialmente mediante l'estensione delle politiche autarchiche adottate ai tempi della guerra d'Etiopia. Gli esorbitanti costi di gestione dell'Africa Orientale Italiana, uniti ai suoi magri guadagni, stavano però rivelando che la conquista dell'impero era stata più un aggravio che un beneficio per le casse dello Stato. Per quanto riguarda le risorse umane, le truppe italiane risultavano impreparate sotto ogni aspetto: nonostante le «otto milioni di baionette» millantate da Mussolini, la stragrande maggioranza dei soldati italiani non era motivata da alcun odio contro inglesi e francesi, non era addestrata a impieghi specifici come l'assalto a opere fortificate o l'aviotrasporto ed era cronica la mancanza di munizioni, mezzi motorizzati e indumenti adatti.  Il Duce, a conoscenza della crescente ostilità dei tedeschi nei confronti degli italiani, aveva paura di una possibile ritorsione di Hitler vincitore e si era posto il problema di quale sorte, in caso di vittoria tedesca, il Führer avrebbe riservato all'Italia qualora questa si fosse sottratta ai suoi doveri di alleata. Il generale Faldella, infatti, testimoniò che «più si profilava l'eventualità della vittoria germanica, più Mussolini temeva la vendetta di Hitler».Sulla situazione, poi, pesava la questione dell'Alto Adige, una zona di territorio italiano popolata prevalentemente da abitanti di lingua e cultura tedesca che, nonostante le rassicurazioni sull'inviolabilità dei confini, Hitler avrebbe potuto sfruttare come casus belli, nell'ottica pangermanista di unificare tutte le popolazioni di stirpe germanica, per annettere quel territorio al Reich e per invadere militarmente l'Italia settentrionale.[46]Addirittura, il Duce fu anche sfiorato dall'idea che convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Infatti, alludendo alla scarsità delle riserve di carburante necessarie per la guerra, commentò che, senza tali scorte, non sarebbe stato possibile impegnarsi «né col gruppo A né col gruppo B», facendo perciò supporre che, almeno in linea teorica, il Duce non escludeva a priori un ribaltamento delle alleanze. Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei tedeschi e preoccupato da una loro eventuale calata nella Penisola, il successivo 21 novembre Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo Alpino del Littorioanche sul confine con il Reich, nonostante l'alleanza fra Italia e Germania, creando il Vallo Alpino in Alto Adige. La zona, massicciamente fortificata a tempo di record, venne poi soprannominata dalla popolazione locale "Linea non mi fido", con evidente riferimento ironico alla Linea Sigfrido. Il problema della non belligeranzaModifica  La bandiera da guerra tedesca e la bandiera italiana sventolano insieme Gli esiti della campagna di Polonia, contraddistinta da una serie di impressionanti e fulminee vittorie dei tedeschi, contrastavano con la condizione di non belligeranza italiana, mettendo implicitamente in risalto il fallimento della politica militarista che Mussolini aveva condotto durante tutto il suo governo e dando l'inaccettabile impressione che l'Italia potesse essere considerata, in sede internazionale, come un Paese debole, ininfluente, secondario o codardo. Il Duce era infatti convinto che, nonostante l'insufficienza militare nostrana, l'Italia non avrebbe potuto astenersi dalla guerra. Secondo il cosiddetto Promemoria segretissimo, infatti, l'Italia non poteva restare non belligerante «senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per dieci». Il problema, secondo Mussolini, non consisteva nel decidere se il Paese avrebbe partecipato o no al conflitto, «perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra».[49] Nello stesso testo, il Duce tornò a riflettere sull'opportunità di denunciare il Patto d'Acciaio e di schierarsi al fianco di Londra e Parigi, concludendo però che si trattava di una strada non praticabile e che, anche «se l'Italia cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non eviterebbe la guerra immediata colla Germania», ritenendo uno scontro con il Reich un'eventualità più disastrosa di un conflitto contro Francia e Regno Unito.[49]  Nonostante ciò Mussolini stesso covava la speranza, ormai flebile, di riuscire ancora a riportare la situazione nell'alveo delle trattative diplomatiche, credendo possibile una sorta di ripetizione della conferenza di Monaco del 1938. Per alcuni mesi il Duce restò infatti dubbioso fra tre possibili alternative:[51] fungere da mediatore in una riconciliazione per via negoziale fra tedeschi e anglo-francesi, in modo da ottenere da tutti qualche sorta di ricompensa, oppure rischiare e scendere in guerra al fianco della Germania (ma solo quando quest'ultima sarebbe stata a un passo dalla vittoria finale), oppure condurre una sorta di guerra parallela a quella della Germania, in piena autonomia da Hitler e con obiettivi limitati ed esclusivamente italiani, che gli avrebbe consentito di sedersi al tavolo dei vincitori e di raccogliere qualche guadagno con il minimo sforzo, essendo costretto a centellinare le poche risorse disponibili,[52] e senza perdere la faccia.[53]  Scartata la prima ipotesi, dal momento che le richieste di trattative avanzate da Hitler erano state respinte, Mussolini si orientò allora sulla seconda e sulla terza, in realtà strettamente interconnesse fra loro, maturando questa convinzione almeno già dal 3 gennaio 1940, quando scrisse una lettera al Führer per comunicargli che l'Italia avrebbe preso parte al conflitto, ma solo nel momento che avrebbe ritenuto più favorevole:[54] non troppo presto per evitare una guerra logorante, e non troppo tardi da arrivare ormai a cose fatte.[55] Nella stessa lettera, però, nonostante l'impegno a entrare in guerra, Mussolini dimostrò di nuovo la propria titubanza, suggerendo contraddittoriamente a Hitler di trovare un accomodamento pacifico con Parigi e Londra, in quanto «non è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio gli alleati franco-inglesi senza sacrifici sproporzionati agli obiettivi». Dopo un incontro con il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop, il Duce confermò questa linea, come risulta dal contenuto di una sua telefonata con Claretta Petacci intercettata dagli stenografi del Servizio Speciale Riservato.[N 2] Nella telefonata, Mussolini parlò dell'eventuale entrata dell'Italia in guerra come di un fatto ineludibile, senza però precisare come e quando. I dubbi sul da farsiModifica  Mussolini e Hitler. Mussolini e Hitler si incontrarono per un colloquio al passo del Brennero. Secondo Galeazzo Ciano, l'obiettivo del Duce era dissuadere il Führer dal proposito di iniziare un'offensiva terrestre contro l'Europa occidentale. L'incontro, invece, finì in un lunghissimo monologo del Cancelliere tedesco, con il Duce che a stento riuscì ad aprire bocca. Fra marzo e aprile Hitler intensificò la sua pressione psicologica su Mussolini, mentre il fronte antitedesco sembrava crollare in una serrata sequenza di vittorie germaniche. Le Forze Armate del Reich, mettendo in atto l'efficace tattica del Blitzkrieg, travolsero infatti la Danimarca, la Norvegia, i Paesi Bassi, il Lussemburgo, il Belgio e iniziarono l'attacco alla Francia. I vertici militari italiani prevedevano, secondo il generale Paolo Puntoni, la «liquidazione della Francia entro giugno e dell'Inghilterra entro luglio». Le folgoranti vittorie tedesche, unite alle risposte tardive e inefficaci di inglesi e francesi,[59]fecero rimanere gli italiani col fiato sospeso, tutti più o meno consapevoli che dal conflitto sarebbero dipese le sorti dell'Europa e dell'Italia, e causarono in Mussolini una serie di reazioni contrastanti che, «con gli alti e bassi tipici del suo carattere», continuarono ad accavallarsi, rendendolo incapace di prendere una decisione che sapeva di dover prendere, ma alla quale cercava di sottrarsi. A chi gli chiedeva un parere sull'eventualità che l'Italia restasse fuori dal conflitto, Mussolini, riferendosi all'attacco tedesco in corso in quei mesi, rispondeva che: «se gli inglesi e i francesi reggono il colpo ci faranno pagare non una, ma venti volte, Etiopia, Spagna e Albania, ci faranno restituire tutto con gli interessi». Pio invia un messaggio al Duce per convincerlo a restare fuori dal conflitto. Ciano, riferendosi al messaggio, annotò sul suo diario che: «l'accoglienza di Mussolini è stata fredda, scettica, sarcastica». Il re Vittorio Emanuele III, accennando alla «macchina militare ancora debolissima», sconsigliò l'entrata in guerra, raccomandando al Duce di rimanere nella posizione di non belligeranza il più a lungo possibile. Contemporaneamente la diplomazia europea si impegnò per evitare che Mussolini scendesse in campo al fianco della Germania: per impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto rischiava di essere decisivo per piegare la resistenza francese e avrebbe potuto creare grosse difficoltà anche al Regno Unito. Il 14 maggio, su insistenza francese, il presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano Rooseveltindirizzò al Duce un messaggio dai toni concilianti, il quarto da gennaio, per dissuaderlo dall'entrare in guerra. Due giorni dopo anche il primo ministro inglese Winston Churchill seguì l'esempio, ma con un messaggio più intransigente, in cui avvertiva che il Regno Unito non si sarebbe sottratto alla lotta, qualunque fosse stato l'esito della battaglia sul continente. Il 26 maggio partì un quinto messaggio di Roosevelt al Duce. Tutte le risposte di Mussolini confermarono che voleva rimanere fedele all'alleanza con la Germania e agli "obblighi d'onore" che essa comportava, ma privatamente non aveva ancora raggiunto la certezza sul da farsi. Pur parlando continuamente di guerra con Galeazzo Ciano e con gli altri suoi collaboratori,ed essendo profondamente colpito dai successi tedeschi, almeno fino al 27-28 maggio (se si esclude un'improvvisa convocazione dei tre sottosegretari militari la mattina del 10 maggio) non risulta che il numero dei colloqui con i responsabili delle Forze Armate avesse avuto alcun incremento, e nulla faceva presagire un intervento a breve. Mentre i francesi si aspettavano un lento avanzare della fanteria tedesca attraverso il Belgio, o al massimo un improbabile attacco frontale contro le fortificazioni della Linea Maginot, circa 2.500 carri armati tedeschi penetrarono in Francia dopo aver attraversato in modo fulmineo la foresta delle Ardenne, una regione collinare caratterizzata da profonde vallate e da fitti arbusti che Parigi riteneva, fino a quel momento, del tutto inadatta a essere attraversata da carri armati. Alla sorpresa di un'azione tatticamente così brillante seguì il rapido e totale collasso delle Forze Armate francesi, che fece nascere la convinzione, nei vertici militari italiani, che il Regno Unito non sarebbe stato in grado di fronteggiare da solo un attacco tedesco e che sarebbe stato costretto a scendere a patti con Berlino e che gli Stati Uniti non avrebbero avuto la volontà né il tempo utile di impegnarsi direttamente nel conflitto, dato che non lo avevano fatto neanche per salvare la Francia e per servirsi di essa come una testa di ponte sul continente europeo.[68] Inoltre, la maggioranza dell'opinione pubblica statunitense era contraria alla guerra e Franklin Delano Roosevelt, impegnato nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali, non poteva non tenerne conto. Il direttore dell'OVRA, Guido Leto, dispose la raccolta di indiscrezioni, informazioni riservate e intercettazioni telefoniche per sondare i sentimenti degli italiani nei confronti della guerra, allo scopo di creare uno spaccato il più aderente possibile alla realtà da sottoporre al Duce, che chiedeva un quadro completo della situazione. Secondo tali relazioni, «i nostri informatori segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore frequenza ed ampiezza, uno stato di timore - che andava diffondendosi rapidamente - che la Germania fosse sul punto di riuscire a chiudere assai brillantemente e da sola la tremenda partita e che, di conseguenza, noi - se pure ideologicamente alleati - saremmo rimasti privi di ogni beneficio per quanto aveva tratto colle nostre aspirazioni nazionali. Che, a causa della nostra prudenza - di cui veniva attribuita la responsabilità a Mussolini - saremmo stati, forse, anche puniti dal tedesco e che, quindi, se ancora in tempo, bisognava bruciare le tappe ed entrare subito in guerra». Leto, inoltre, aggiunse che «pochissime voci, e non certo di politicanti delle due parti avverse e con debolissimi echi nel paese, si levarono ad ammonire sulle tremende incognite che la situazione presentava». In questo clima, perciò, anche Mussolini si convinse che l'Italia potesse «arrivare tardi», in quanto era opinione comune che il Regno Unito avesse i giorni contati e che la conclusione della guerra fosse ormai prossima. A nulla servirono le opposizioni del re e di Pietro Badoglio, motivate dall'impreparazione del Regio Esercito e da un giudizio prudente sulle vittorie tedesche in Francia. Il sovrano, inoltre, pose l'accento sull'importanza che avrebbe potuto avere nel conflitto un eventuale intervento armato statunitense, che sarebbe stato foriero di numerose incognite. Dello stesso avviso era anche il principe ereditario Umberto di Savoia. Galeazzo Ciano scrisse nel suo diario: «Vedo il Principe di Piemonte. È molto antitedesco e convinto della necessità di rimanere neutrali. Scettico, impressionantemente scettico sulle possibilità effettive dell'esercito nelle attuali condizioni, che giudica pietose, di armamento».  Secondo Mussolini, invece, le rapide vittorie tedesche erano il presagio dell'imminente fine della guerra, per cui l'insufficienza effettiva delle Forze Armate italiane assumeva ormai un'importanza trascurabile. Accanto al suo timore che l'Italia non avrebbe ricevuto alcun beneficio nella futura conferenza di pace qualora il conflitto fosse terminato prima dell'intervento nostrano,  nacque in Mussolini la convinzione che gli fosse necessario «solo un pugno di morti» per potersi sedere al tavolo dei vincitori e per avere diritto a reclamare parte dei guadagni, senza la necessità di un esercito preparato e adeguatamente equipaggiato in una guerra che, secondo l'opinione pubblica nella tarda primavera del 1940, sarebbe durata ancora solo poche settimane e il cui destino era già scritto in favore della Germania. L'entrata in guerra dell'ItaliaModifica Ultimi tentativi di mediazioneModifica  Il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt A fine maggio, nei giorni in cui i tedeschi vincevano la battaglia di Dunkerque contro gli anglo-francesi e il re del Belgio Leopoldo III firmava la resa del proprio paese, il Duce si convinse che fosse arrivato il «momento più favorevole» che attendeva da gennaio ed ebbe una decisiva virata verso l'intervento: il 26 ricevette una lettera dal Führer che lo sollecitava a intervenire e, contemporaneamente, un rapporto inviato a Roma dall'ambasciatore italiano a Berlino Dino Alfieri, che era succeduto a Attolico, su un suo colloquio con Hermann Göring. Quest'ultimo aveva suggerito all'Italia di entrare in guerra quando i tedeschi avessero «liquidata la sacca anglo-franco-belga», situazione che si stava verificando proprio in quei giorni. Entrambi produssero nel dittatore una forte impressione, tanto che Ciano annotò nel proprio diario che Mussolini «si propone di scrivere una lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la seconda decade di giugno». Ogni settimana, di fronte all'ampiezza della vittoria tedesca, poteva essere quella decisiva per la fine della guerra e l'Italia, secondo Mussolini, non poteva farsi trovare non in armi. Lo stesso giorno, in un estremo tentativo di scongiurare la partecipazione italiana al conflitto, il primo ministro inglese Winston Churchill aveva, previo accordo con il suo omologo francese Paul Reynaud, inviato al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt la bozza di un accordo, che quest'ultimo avrebbe dovuto successivamente trasmettere al Duce. Secondo tale documento, conservato presso i National Archives di Londra con il nome Suggested Approach to Signor Mussolini, Regno Unito e Francia ipotizzavano la vittoria finale della Germania e chiedevano a Mussolini di moderare le future richieste di Hitler. Nello specifico, secondo questa proposta di accordo, Londra e Parigi promettevano di non aprire alcun negoziato con Hitler qualora quest'ultimo non avesse ammesso il Duce, nonostante la mancata partecipazione italiana al conflitto, alla futura conferenza di pace in posizione uguale a quella dei belligeranti. Inoltre, Churchill e Reynaud si impegnavano a non ostacolare le pretese italiane alla fine della guerra (che principalmente consistevano, in quel momento, nell'internazionalizzazione di Gibilterra, nella partecipazione italiana al controllo del Canale di Sueze in acquisizioni territoriali nell'Africa francese). Mussolini, però, in cambio avrebbe dovuto garantire di non aumentare successivamente le proprie richieste, avrebbe dovuto salvaguardare Londra e Parigi frenando le pretese di Hitler vincitore, avrebbe dovuto revocare la non belligeranza e dichiarare la neutralitàitaliana e avrebbe dovuto mantenere tale neutralità per tutta la durata del conflitto. Roosevelt si dichiarò personalmente garante per il futuro rispetto di tale accordo. L'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, Phillips, recò a Ciano la missiva, indirizzata a Mussolini, con il testo dell'accordo. Lo stesso giorno il governo di Parigi, per rendere la proposta di Roosevelt ancora più allettante, mediante l'ambasciatore francese in ItaliaAndré François-Poncet fece sapere al Duce di essere disponibile a trattare «sulla Tunisia e forse anche sull'Algeria». Secondo lo storico Ciro Paoletti, «Roosevelt prometteva per un futuro incerto e lontano. Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato più presidente? L'Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni seguenti, delle notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919, come ci si poteva fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga scadenza, fatte per di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva presentarsi alla rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una Francia al collasso, da un'Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa avrebbe potuto fargli subito dopo la ormai certa vittoria in Francia - e assai prima di qualsiasi intervento americano - una Germania trionfante». Secondo gli storici Emilio Gin ed Eugenio Di Rienzo, inoltre, il Duce non avrebbe mai accettato di sedersi al futuro tavolo delle trattative di pace, accanto a un Hitler trionfante, solo "per concessione" degli Alleati, senza aver combattuto, in quanto la sua figura in sede internazionale ne sarebbe uscita debolissima e la sua autorità, paragonata a quella del Führer, sarebbe stata del tutto irrilevante. Ciano, nel suo diario riportò infatti che Mussolini «se pacificamente potesse avere anche il doppio di quanto reclama, rifiuterebbe». La risposta a Phillips, infatti, fu negativa. Gli atti formali e l'annuncio pubblicoModifica  La folla, radunata di fronte a Palazzo Venezia, assiste al discorso sulla dichiarazione di guerra dell'Italia a Francia e Gran Bretagna. Il Duce comunicò a Badoglio la decisione di intervenire contro la Francia e, la mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i quattro vertici delle Forze Armate, Badoglio e i tre capi di Stato Maggiore (Graziani, Cavagnari e Pricolo): in mezz'ora tutto fu definitivo. Mussolini comunicò ad Alfieri la sua decisione e il 30 maggio annunciò ufficialmente a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra mercoledì 5 giugno. Mesi prima, in realtà, il Duce aveva ipotizzato un'entrata in guerra per la primavera 1941, data poi avvicinata al settembre 1940 dopo la conquista tedesca di Norvegia e Danimarca e ulteriormente accorciata dopo l'invasione della Francia, fatto che faceva presagire un'ormai imminente fine del conflitto. Il 1º giugno il Führer rispose, chiedendo di posticipare di qualche giorno l'intervento per non costringere l'esercito tedesco a modificare i piani in corso di attuazione in Francia. Il Duce si mostrò d'accordo, anche perché il rinvio gli permetteva di completare gli ultimi preparativi. In un messaggio del 2 giugno, però, l'ambasciatore tedesco a Roma Mackensen comunicò a Mussolini che la richiesta di posticipare l'azione era stata ritirata e, anzi, la Germania avrebbe gradito un anticipo. Il Duce, tramite il generale Ubaldo Soddu, chiese a Vittorio Emanuele III che gli venisse ceduto il comando supremo delle forze armate che, in base allo Statuto Albertino, era detenuto dal sovrano. Secondo Galeazzo Ciano il re avrebbe opposto notevole resistenza, finendo con il concordare una formula di compromesso: il comando supremo sarebbe rimasto in capo a Vittorio Emanuele III, ma Mussolini lo avrebbe gestito in delega. Il 6 giugno il Duce, scontento di questa soluzione e irritato dalla difesa del sovrano delle proprie prerogative statutarie, sbottò: «Alla fine della guerra dirò a Hitler di far fuori tutti questi assurdi anacronismi che sono le monarchie».[89] Volendo evitare l'entrata in guerra venerdì 7 giugno, data che era stata superstiziosamente considerata di cattivo auspicio, si giunse a lunedì 10 giugno. Galeazzo Ciano fece convocare per le 16:30 a Palazzo Chigi l'ambasciatore francese André François-Poncet e, secondo la prassi diplomatica, gli lesse la dichiarazione di guerra, il cui testo recitava: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la Francia a partire da domani 11 giugno». Alle 16:45 dello stesso giorno venne ricevuto da Ciano l'ambasciatore britannico Percy Loraine, che ascoltò la lettura del testo: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la Gran Bretagna a partire da domani 11 giugno». Entrambi gli incontri si svolsero, secondo i diari di Galeazzo Ciano, in un clima formale, ma di reciproca cortesia. L'ambasciatore francese avrebbe detto che considerava la dichiarazione di guerra come un colpo di pugnale a un uomo già a terra, ma che si aspettava una tale situazione già da due anni, dopo la firma del Patto d'Acciaio fra Italia e Germania, e che comunque nutriva stima personale per Ciano e non poteva considerare gli italiani come nemici. L'ambasciatore inglese, invece, sempre secondo Ciano avrebbe partecipato all'incontro restando imperturbabile, limitandosi a domandare educatamente se quella che stava ricevendo dovesse essere considerata un preavviso o la vera e propria dichiarazione di guerra. Preceduto dal vicesegretario del Partito Nazionale Fascista Pietro Capoferri, che ordinò alla folla il saluto al Duce, alle 18:00 dello stesso giorno Mussolini, indossando l'uniforme da primo caporale d'onore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, di fronte alla folla radunatasi in Piazza Venezia, annunciò, con un lungo discorso trasmesso anche via radio nelle principali città italiane, che «l'ora delle decisioni irrevocabili» era scoccata, mettendo al corrente il popolo italiano delle avvenute dichiarazioni di guerra. Di seguito, l'incipit e explicit del discorso: «Combattenti di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno d'Albania. Ascoltate! Un'ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo. Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!». Le reazioni dell'opinione pubblicaModifica  La prima pagina de Il Popolo d'Italia dell'11 giugno 1940 La notizia fu accolta con entusiasmo dai gruppi industriali italiani, che vedevano l'inizio del conflitto come un'occasione per aumentare la produzione e la vendita di armi e macchinari, e da una buona parte dei vertici fascisti, nonostante le più alte personalità del regime avessero in precedenza espresso scetticismo sull'intervento italiano e avessero abbracciato la linea di condotta tracciata da Mussolini il 31 marzo 1940, che prevedeva di entrare in guerra il più tardi possibile allo scopo di evitare un conflitto lungo e insopportabile per il Paese. In ogni caso, fra le personalità che avevano espresso dubbi - se non veri e propri atteggiamenti ostili - sull'intervento militare italiano, nessuna palesò pubblicamente la propria opposizione al conflitto e sulla scrivania del Capo del Governo non vennero recapitate lettere di dimissioni.  La stampa italiana, condizionata da censura e controllo imposti dal regime fascista, diede la notizia con grande enfasi, utilizzando titoli a caratteri cubitali che facevano uso entusiasta di citazioni del discorso e manifestavano completa adesione alle decisioni prese: «Corriere della Sera: Folgorante annunzio del Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il Popolo d'Italia: POPOLO ITALIANO CORRI ALLE ARMI! Il Resto del Carlino: Viva il Duce Fondatore dell'Impero. GUERRA FASCISTA. L'Italia in armi contro Francia e Inghilterra. Il Gazzettino: Il Duce chiama il popolo alle armi per spezzare le catene del Mare nostro. L'Italia: I dadi sono gettati. L'ITALIA È IN GUERRA. La Stampa: Il Duce ha parlato. La dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia. Bertoldo: Londra non sarà piena di tedeschi, ma fra poco sarà piena di italiani.»  L'unica voce critica che si levò, oltre ai giornali clandestini, fu quella de L'Osservatore Romano: «E il duce (abbagliato) salì sul treno in corsa». Questo titolo fu accolto con grande disappunto dai vertici italiani, tanto che Roberto Farinacci, segretario del partito fascista, in un commento alla stampa affermò che: «La Chiesa è stata la costante nemica dell'Italia».  Il capo dell'OVRA, Guido Leto, prendendo atto della reazione dell'opinione pubblica italiana, riferì che: «Come la polizia rilevò e riferì il quasi unanime dissenso del paese verso un'avventura bellica, così nella primavera del 1940 essa segnalò il rovesciamento della pubblica opinione presa da un ossessionante timore di arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo operò come un termometro: non determinò, né influenzò, né menomamente alterò la temperatura del paese, ma semplicemente la misurò». Hitler, venuto a conoscenza dell'annuncio pubblico, inviò immediatamente due telegrammi di solidarietà e ringraziamento, uno indirizzato a Mussolini e uno a Vittorio Emanuele III, anche se, privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto avrebbe preferito che l'Italia attaccasse a sorpresa Malta e altre importanti posizioni strategiche inglesi anziché dichiarare guerra a una Francia già sconfitta. In sede internazionale l'intervento italiano contro la Francia fu visto come un gesto vile, al pari di una pugnalata alle spalle, in quanto l'esercito francese era già stato messo in ginocchio dai tedeschi e il suo comandante supremo, il generale Weygand, aveva già impartito ai comandanti delle forze superstiti l'ordine di ritirarsi per mettere in salvo il maggior numero possibile di unità. Il giudizio di Churchill sull'ingresso dell'Italia nel conflitto bellico e sull'operato di Mussolini fu affidato al commento pronunciato a Radio Londra: «Questa è la tragedia della storia italiana. E questo è il criminale che ha tessuto queste gesta di follia e vergogna». Quando venne raggiunto dalla notizia dell'intervento italiano contro un nemico ormai sconfitto, il presidente degli Stati Uniti Roosevelt rilasciò a Charlottesville una dura dichiarazione radiofonica: «In questo 10 giugno, la mano che teneva il pugnale l'ha affondato nella schiena del suo vicino».  Piani di guerraModifica  L'entrata in guerra fu la notizia principale su tutti i quotidiani italiani. I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo Stato Maggiore dell'esercito e prevedevano una condotta strettamente difensiva sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da iniziare solamente in condizioni favorevoli) in Jugoslavia, Egitto, Somalia francese e Somalia britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la dislocazione delle forze disponibili, non di piani operativi, per i quali veniva lasciata al Duce piena libertà di improvvisazione. I vertici militari riconobbero l'inadeguatezza del Paese ad affrontare una guerra ma, allo stesso tempo, non presero posizione dinanzi all'intervento, ribadendo la loro totale fiducia in Mussolini. L'approccio del Duce al conflitto appena iniziato dall'Italia si concretizzò in direttive più o meno frammentarie, che egli indirizzava ai vertici militari: furono formulate richieste di operazioni nei teatri più disparati, mai trasformatesi in scelte precise e piani concreti. Venivano a mancare, in questo quadro, una strategia complessiva e di ampio respiro, obiettivi reali e un'organizzazione razionale della guerra. Ciò fu evidente fin da subito, quando lo Stato Maggiore Generale notificò che: «A conferma di quanto comunicato nella riunione dei Capi di Stato Maggiore tenuta il giorno 5 ripeto che l'idea precisa del Duce è la seguente: tenere contegno assolutamente difensivo verso la Francia sia in terra che in aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi, si considerino tutte forze nemiche da attaccare; se si incontrano solo forze francesi, prendere norma dal loro contegno e non essere i primi ad attaccare, a meno che ciò ponga in condizioni sfavorevoli». In base a quest'ordine la Regia Aeronautica ordinò di non effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di compiere ricognizioni aeree mantenendosi in territorio nazionale, e altrettanto fecero il Regio Esercito e la Regia Marina, la quale non aveva intenzione di uscire dalle acque nazionali salvo per il controllo del canale di Sicilia, ma senza garantire le comunicazioni con la Libia. Come preannunciato nella corrispondenza con il governo tedesco, dall'11 giugno le truppe italiane cominciarono le operazioni militari al confine francese in vista della pianificata occupazione delle Alpi occidentali ed effettuarono bombardamenti aerei, di carattere puramente dimostrativo, su Porto Sudan, Aden e sulla base navale inglese di Malta. L'alto comando delle operazioni venne affidato al generale Graziani, un ufficiale esperto in guerre coloniali contro nemici inferiori per numero e per mezzi, che non aveva mai avuto il comando su un fronte europeo  e che non aveva alcuna familiarità con la frontiera occidentale. I vertici militari italiani, costretti a centellinare le poche risorse disponibili, decisero di muovere le truppe solo in concomitanza con i movimenti dei tedeschi:[108]l'aggressione alla Francia avvenne infatti solo quando la Germania l'aveva già praticamente sconfitta, poi ci fu un periodo di inattività italiana contemporaneo all'inattività tedesca nell'estate 1940, poi le azioni italiane ripresero quando la Germania iniziò la pianificazione dell'aggressione al Regno Unito. Secondo lo storico Ciro Paoletti: «Ogni volta che i Tedeschi si muovevano poteva essere quella decisiva per la fine vittoriosa del conflitto; e l'Italia doveva farsi trovare impegnata quel tanto che bastasse a dire che anch'essa aveva combattuto lealmente e godeva il diritto di sedersi al tavolo dei vincitori». L'atteggiamento dell'Italia, che «entrava in guerra senza essere attaccata» né sapeva dove attaccare, e che «addensava le truppe alla frontiera francese perché non aveva altri obiettivi», venne sintetizzato dal generale Quirino Armellini con la massima: «Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà. Il Promemoria segretissimo 328 era una relazione, stilata da Mussolini, con destinatari Vittorio Emanuele III, Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari, Francesco Pricolo, Attilio Teruzzi, Ettore Muti e Ubaldo Soddu. cfr. Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito Mussolini, su larchivio.  Il Servizio Speciale Riservato era un organo, istituito ai tempi di Giovanni Giolitti, per tenere sotto controllo le principali personalità del Paese. ^ Diversa, invece, la versione su toni e parole data dall'ambasciatore francese: «E così, avete aspettato di vederci in ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in voi non ne sarei affatto orgoglioso», e Ciano avrebbe risposto, arrossendo: «Mio caro Poncet, tutto questo durerà l'espace d'un matin. Ben presto ci ritroveremo tutti davanti a un tavolo verde», riferendosi a un futuro tavolo delle trattative al termine del conflitto. cfr. Niente pugnale alla schiena in Internet Archive., in Il Tempo. Di seguito i testi dei due telegrammi, qui fedelmente riportati secondo le fonti reperibili. cfr. La Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo. Berlino, telegramma di Hitler al Re  La provvidenza ha voluto che noi fossimo costretti contro i nostri stessi propositi a difendere la libertà e l'avvenire dei nostri popoli in combattimento contro Inghilterra e Francia. In quest'ora storica nella quale i nostri eserciti si uniscono in fedele fratellanza d'armi, sento il bisogno d'inviare a Vostra Maestà i miei più cordiali saluti. Io sono della ferma convinzione che la potente forza dell'ITALIA e della GERMANIA otterrà la vittoria sui nostri nemici. I diritti di vita dei nostri due popoli saranno quindi assicurati per tutti i tempi. Berlino, telegramma di Hitler a Mussolini Duce, la decisione storica che Voi avete oggi proclamato mi ha commosso profondamente. Tutto il popolo tedesco pensa in questo momento a Voi e al vostro Paese. Le forze armate germaniche gioiscono di poter essere in lotta al lato dei camerati italiani. Nel settembre dell'anno scorso i dirigenti britannici dichiararono al Reich la guerra senza un motivo. Essi respinsero ogni offerta di un regolamento pacifico. Anche la Vostra proposta di mediazione si ebbe una risposta negativa. Il crescente sprezzo dei diritti nazionali dell'ITALIA da parte dei dirigenti di Londra e di Parigi ha condotto noi, che siamo stati sempre legati nel modo più stretto attraverso le nostre Rivoluzioni e politicamente per mezzo dei trattati, a questa grande lotta per la libertà e per l'avvenire dei nostri popoli. Fonti ^ Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti, Acerbo, Paoletti, Paoletti, Le Moan, Ciano, Schiavon, Ciano, Ciano, Corpo di Stato Maggiore, Candeloro, Paoletti, Paoletti, Ciano, Collotti, Ciano, Paoletti, Bocca, Costa Bona, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti, Ciano, Bocca, De Felice, Ciano, Paoletti, Paoletti, Paoletti, Candeloro, Ciano, Candeloro, Bocca, Candeloro, Faldella, Paoletti, Bottai, Bernasconi e Muran, Rochat, Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito Mussolini, su larchivio.com, Candeloro, Paoletti, Rochat, Paoletti, Candeloro, Corrispondenza Mussolini – Hitler, su digilander.libero.it. Speroni, Ciano, Candeloro, Felice, Costa Bona, Ciano, Ciano, De Felice, De Felice, Vedovato, G., et Grandi. Grandi al Duce. Questo è il momento di astenersi dalla guerra». Rivista di Studi Politici, Felice, De Felice, Paoletti, Paoletti, Leto, Paoletti, Felice, Faldella, Speroni, Speroni, Faldella, Badoglio, De la Sierra, De Felice, Il carteggio Churchill-Mussolini? Una traccia nei National Archives di Londra, su nuovarivistastorica, Paoletti, Ciano, Ciano, Felice, Carteggio Hitler Mussolini L'Archivio "storia - history", su larchivio. Felice, Ciano, Lepre, Corpo di Stato Maggiore, Niente pugnale alla schiena, in Il Tempo, Speroni, Felice, La Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo, Pietrantonio, L’Italia dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna, su abitarearoma, Santis, Bocca, Fiori, Mussolini: il discorso che cambiò la storia d'Italia, in Repubblica, Campagna di Francia, su storiaxxisecolo, Rochat, Rochat, Faldella, Rochat, Cicchino. Il testo della dichiarazione di guerra, su larchivio.com, Bocca, Faldella, Battistelli, I rapporti militari italo-tedeschi, Paoletti, Rochat, p. 248. ^ Rochat, Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione, Rocca San Casciano, Cappelli, Grimaldi e Bozzetti, Il giorno della follia, Roma-Bari, Laterza, 1974, ISBN non esistente. Pietro Badoglio, L'Italia nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1946, ISBN non esistente. Alessandro Bernasconi e Giovanni Muran, Le fortificazioni del Vallo Alpino Littorio in Alto Adige, Trento, Temi, Bocca, Storia d'Italia nella guerra fascista, Milano, Mondadori, Bottai, Diario, a cura di Bruno Guerri, Milano, Rizzoli, Candeloro, Storia dell'Italia moderna, Volume 10, Milano, Feltrinelli, Ciano, L'Europa verso la catastrofe. La politica estera dell'Italia fascista, Verona, Mondadori, Ciano, Diario, a cura di Felice, Milano, Rizzoli, Collotti ed Enrica Collotti Pischel, La storia contemporanea attraverso i documenti, Bologna, Zanichelli, Corpo di Stato Maggiore, Bollettini della guerra, Roma, Stato Maggiore R. Esercito, Ufficio Propaganda, Corpo di Stato Maggiore, Verbali delle riunioni tenute dal Capo di S.M. Generale, Roma, Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico, Costa Bona, Dalla guerra alla pace: Italia-Francia, Milano, Angeli, Felice, Mussolini il duce. Lo stato totalitario, Milano, Einaudi, Sierra, La guerra navale nel Mediterraneo, Milano, Mursia, 1Santis, Lo spionaggio nella seconda guerra mondiale, Firenze, Giunti, Faldella, L'Italia e la seconda guerra mondiale, Bologna, Cappelli, Moal, La perception de la menace italienne par le Quai d'Orsay à la veille de la Seconde Guerre Mondiale, intervento alle «Journées d’études France et Italie en guerre. Bilan historiographique et enjeux mémoriels», Roma, Ecole Française, Lepre, Mussolini l'italiano. Il duce nel mito e nella realtà, Milano, Mondadori, Leto, OVRA-Fascismo e antifascismo, Rocca San Casciano, Cappelli, Paoletti, Dalla non belligeranza alla guerra parallela, Roma, Commissione Italiana di Storia Militare, Quartararo, Roma tra Londra e Berlino - La politica estera fascista, Roma, Bonacci, Rochat, Le guerre italiane, Milano, Einaudi, Schiavon, La perception de la menace italienne par l'État-Major français à la veille de la Seconde Guerre Mondiale, intervento alle «Journées d'études France et Italie en guerre. Bilan historiographique et enjeux mémoriels», Roma, Ecole Française, Speroni, Umberto II. Il dramma segreto dell'ultimo re, Milano, Bompiani, Voci correlate Battaglia delle Alpi Occidentali Lista del molibdeno Occupazione italiana della Francia meridionale Storia del Regno d'Italia Italia nella seconda guerra mondiale Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene il testo completo del carteggio del 1940 fra Hitler e Mussolini contiene il testo completo della dichiarazione di guerra dell'Italia a Gran Bretagna e Francia Istituto Nazionale Luce. La dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna: il discorso di Mussolini, su patrimonio.archivioluce. Portale Guerra   Portale Italia   Portale Seconda guerra mondiale   Portale Storia Ultima modifica 23 giorni fa di Franz van Lanzee PAGINE CORRELATE Patto d'Acciaio accordo di reciproco aiuto politico, diplomatico e militare tra i governi del Regno d'Italia e della Germania nazista  Lista del molibdeno richiesta italiana di materiale bellico nella II guerra mondiale  Memoriale Cavallero. Roberto Cordeschi. Cordeschi. Keywords: la logica della guerra, la guerra del fascismo, Croce, sperimentalismo italiano, mente, homo mechanicus, Turing, Craik, artificiale e naturale, filosofia, rappresentare il concetto, logica matematica, reiezione in Aristotele, predicate, significato, communicazione, creativita, informazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cordeschi” – The Swimming-Pool Library. Cordeschi.

 

Luigi Speranza -- Grice e Corleo: all’isola -- la ragione conversazionale – scuola di Salemi – filosofia trapanesi – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Salemi, Trapani, Sicilia. Grice: “Corleo is a genius --  His keyword is identity, the Hegelian type, and that’s why he attracted Gentile’s attention! But my favourite is his excursus on language! He talks like a veritable Griceian – about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the spontaneous cry to seek attention, Romolo from Remo, say – He very much elaborates on the subject and the predicate and the copula, and the other parts of speech – But he retains an empiricist, evolutionary viewpoint with which I wholly agree!” Studia nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana. Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”.  Durante la spedizione dei mille, fu nominato da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio: “Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di Salemi.  Altre opere: “Meditazioni filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente dall’esperienza e dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio affermativo (S e P) o giudizio negativo -- S non e P --, giudizio condizionale -- Se p, q --, giudizio tetico -- S e P --  giudizio ipotetico -- si p, q --, giudizio disgiuntivo -- p v q --  e via via. Poichè,ogni proposizione o giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto -- S e P -- o negare un predicato ad un soggetto -- S non e P --, e ciò non può farsi altrimenti che in forza della identità parziale o totale del predicato stesso col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso di giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una verità nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or, questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con attenzione, si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se S è connesso con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece che ambidue sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto S-P, di guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il loro legame necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale – “S e P” -- onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel tutto non sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti che lo costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti integranti di un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è identico con essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde non può esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non sarebbe vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi subalterni dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad esaminare ogni teorema geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in genere e delle varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione tra cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima. Essi non sono che le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di triangolo e delle sue specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto complessivo sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora nemmeno avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna delle sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di nesso a costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella identità di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni sul raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale riunire per necessità le parti fra di lor, senza di cui egli non potrebbe esser quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti: onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e se gli altri subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente* deve esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e non dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi* o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la *testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti, nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel conoscimento delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti subalterni, che sono del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza del raziocinio non può essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra; essa consiste nel passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che la costituiscono, o dalle identità parziali alla totale per mezzo della scoperta di quelle altre identità parziali che sono con loro connesse per compiere l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei concetti, della doppia identità delle parti e del tutto per avere ragionamenti rigorosi; e non potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene per mezzo della esperienza. In questi due soli modi è possibile il raziocinio. Chi cura soltanto la forma esteriore del ragionamento e ripone la logica nello studio delle leggi della FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del raziocinio, che è l'accertamento della identità de' giudizi connessi col tutto di cui sono parti; e perciò corre l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert, che non è mai garanzia sicura di esatti ragionamenti. Or, perchè mai i subbietti di tali giudizi son dive nuti concettuali e perciò includono necessariamente i loro pre. Tre sono state le più grandi logiche formali. La prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta dal particolare al particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari. La seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come Porfirio e BOEZIO, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone, e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie dalla classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che non posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano. Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi, o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo. Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second, si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente, perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse, non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni, non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica, e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea, come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo, un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gl’errori di esperimento si correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne occupano. Gl’errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed accurato esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità, universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare, sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola, nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali, concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee. Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto delle idee morali, col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte quelle idee che non potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i posteriori idealisti, visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che s'impongono alla nostra ragione, sia ritenendole verità prime indiscutibili ed indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune); sia supponendole forme assolute del pensiero  quidquid recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole innate e facienti parte del nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale, quella dell'essere (*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole giobertiane*), o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana ), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola di Schopenauher ), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè stesse, nei loro attuali elementi costitutivi, adducendo a prova della impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali ebbero bensì il buon volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai averne studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili. Laonde è d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment ammesse, per inferirne le bramate conseguenze. Or se è vero che percepire distintamente, sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare, ideare, giudicare, connettere e ragionare, non sono altro che più o men largamente identificare le parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente, in forma sperimentale o in forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur troppo evidente che, per potere scorgere l'identità più prontamente e con maggiore chiarezza, sarebbero assai utili due cose. Primo, abbreviare e ravvicinare tra loro con SEGNI le percezioni ed i loro elementi, le idee ed i loro elementi. Secondo indicare con segni le successive operazioni che vengon fatte spontaneamente o riflessivmente sui detti complessi e loro elementi. L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono scienza, ma sono potenti mezzi di scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano le idee e le operazioni su di esse fatte rendendo più facile e più sicuro il colpo d'occhio su di loro per scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè non sarà possibile una logica aritmetica o matematica per agevolare la conoscenza delle identità parziali e totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio della intelligenza? Non vale il dire che nell’aritmetica e la geometria si tratta di rapporti tra sole quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi e le operazioni identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero trattare molti altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente, e perciò l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire questo; poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune, l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra. Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno, costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente, potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno, eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo – la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali. Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale. Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco così la serie dei segni principali: + più, meno, =  uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’ simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in contatto, et etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso, percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e sintetizzato, !! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi spontanea e riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la parte a. | A la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da quello di riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei giudizii e nei raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i due spazî, che segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i suoi elementi si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè sieno più o meno distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha una delle due formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B? A A? Bİ, non è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica certamente, 1 -?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della percezione A? La risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde? с a hg an. Or, dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali, с de cioè l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli altri elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $ 56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici? Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due, o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò, lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale. Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter” -- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione* da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere, cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto, cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico, assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”), il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione, anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’ “onore”,  il “dovere”, ec. Cosi anche e il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno, particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice (“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa, come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”, “amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio (di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo nella sintesi,  nell’analisi e nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti. Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione, fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò, essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta. Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile: nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”), il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è quest'altro. Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un primo uso di un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di un'astrazione (o articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha bisogno dell'uso del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono a vicenda, in modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si guardano *sinteticamente* dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento, non pajono più naturalmente spiegabili, e comparisce quella specie di circolo vizioso, di cui si parla inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo sviluppo pieno dell’altra, ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non si sa più qual delle due debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal fatto bisogna incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento men complicato e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza mutua, e come mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo un’obbiezione ben facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per poter determinare qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare communicamente in Romolo e Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia una base sufficiente per poter sostenere che il segno communicativo più antico e più elevato e più ricco di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto del signare comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio  non mi credo autorizzato a dare una soluzione diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori, e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente, naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --, quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve essere per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del genero segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine necessita. Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico, assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare* (transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato, segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti. Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’) i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta (l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato (‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare, i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale --  che costituisee la communicazione e la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora (“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo “o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna, signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione comunicativa alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada conversazionale. Ciò che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento communicativo o intenzione communicativa, può la seconda volta esser voluto *di proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum in Aquino -- per la utilità che se n’è ricavata: ripetendosi dunque avvedutamente lo stesso segno, quello è divenuto un vocativo naturale. E noi osservammo che appunto questa vocale “o” è il vocative nella Roma di Remo (o tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio mutuo o duale dunque non nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di un'effetto o risponsa, che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per imitazione, consigue. Volendo di nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto o la stessa risponsa, non ci vuol’altro che ripetere un altro specimen del stesso genero di segno (“o”). L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando vi sono tante possibilità d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar luogo spontaneamente a un arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono assoluto che sia impossibile l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza della utilità del segno medesimo? Non dico che l’atto del signare communicativamente nacque in questo o in quell’altro modo. Dico che vi sono moltissime possibilità tutte *naturali*, nelle quali l'uomo può avvertire l'utilità dell'uso di un segno articolato per l’effetto o la risponsa spontanea, no intenzionata, che ne ottiene, e senza il bisogno di un preventivo arbitrio duale. Basta questo per distruggere a rigor di logica le basi tutte di quell'edificio che si vuol fondare sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa senza prima aver conosciuto l'uso e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto ebbero forse insegnato da Dio l'uso del atto di signare communicativamente, con che communica (o transferre) il suo bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la domanda del soccorso? Forse non vediamo fin dal loro nascere i varii animali communicarsi per mezzo di un segno, per lo più *istintivo* -- che causa una risponsa istintiva, i diversi loro stati? Non puo il brutto perfezionare il suo atto di signare communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di analizzare gli elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre, siccome vedremo a suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o stimolo, in esito al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta volontariamente; e tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la libertà del movimento per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi ha una specie di “tacito” arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto ottenuto o la risponsa ottenuta una volta, per ragion di associazione o co-relazione iconica istintiva associativa, fa appunto le veci di un arbitrio duale. Se dunque questo segno inferiore è possibile nel bruto, il quale non astragge, perchè lo stesso principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è possibile fra due uomini! Un uomo, che ha la piena capacità di astrarre, riconosce più facilmente l'utilità dell’effetti ottenuto o della risponsa ottenuta dall’altra parte della diada conversazionale, e si crea l'idea generica del arbitrio duale del segno, dalla quale discende poi come conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco, illimitato, creativo, e di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne, in ragion di questa o quella percezione, o in ragione di questo o quello concetto astratta. Concepita una volta l’utilità dell’uso del atto di signare communicativemente, del segno articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro che possedere in fatto la capacità di variare e combinare *indefinitamente* in modo aperto e illimitato, l'articolazione e la operazione di questo o quello segno primitivo, e l'uomo possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo adunque può, da un certo numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a *stabilire* un arbitrio duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale del segno, poichè da un fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e l'idea generica; e possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di questo o quello segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto il resto. Quantunque il segno che compone l’atto del signare communicativo e per arbitrio muto, pure siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre elementi delle medesime (S, e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi ritrarre le proprietà fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono avere fra ogni percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e diverso il segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il medesimo segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo, perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione risultante in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” – Varrone, verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in verità, tutto quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce, e perciò il segno del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni proposizione si aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene un'analisi, la mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un segno che non e un verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione risultante signata dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante* e non basica, e composte della combinazione di questa o quella azione sostanziali intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro fondamento in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo* (la copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla che nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della classe del segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in ogni atto di signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il verbo “essere”, al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo, decomponendoli in “copula e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante. Ed è notevole che ogni segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi, perchè denota un’azione che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti in un segno di verbo fondamentale che è intransitivo, o come i modisti dicono neutro – epiceno, mezza voce --, cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è veramente transitivo é la forma del risultato, ma ognuna delle azioni sostanziali componenti è intransitiva. La sintesi e necessaria e l'analisi e necessaria, perchè una percezioni e complessiva e costa di questo o quello elemento, che colla riproduzione, sovrapponendosi gli uni agli altri, si sintetizzano nel punto simile e si analizzano nel punto dissimile. Bisogna dunque che ogni segno indica un composto o complesso proposizionale, e che ogni segno articulato composito e de-compo nibili. Però, siccome gli elementi di ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò è necessario che ogni segno si puosciogliere in un segno solo che indica l’azione sostantiva, non come occulta (sub-stantia), ma come realtà, cioè come essere, onde il *nome* (nomen, onoma – nomen substantivum, nomen adjectivum) non meno che il segno del verbo, si sciolgono tutti nell'essere, il quale è verbo e nome allo stesso tempo, ed è appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione che sta per sè stessa, e che non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine addiettivo e ogni altro segno sin-categorematico che indica quantita, qualita, relazione, o modalità o relazione, ra-presentano la composizione, il risultato, la combinzione di questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè sole, ma ha bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su cui debbono appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque suo modo di essere non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro che la somma medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione è una forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi è che tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli avverbii, le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono riduttibili al solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del segno del verbo e del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo sostantivo “essere”. Nel tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han continuo bisogno di questo o quello essere (il S, il P), perchè la composizione non può stare senza di questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo la differenza che passa tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la relazione, e la modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione medesima, e quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di questa o quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e principalmente il verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono, indica la collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome aggettivo, il segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la preposzione (in latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e, adversative, ma), ec. indica come questa o quella azione e disposte, e che relazione ha fra loro, in ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di azioni è un *risultato* che subisce questa o quella modificazione (declinazione, congiuggazione) secondo i cangiamenti parziali del numero (singolare, duale, plurale) e della posizione di questo o quello componento, cosi vi ha una sintesi fondamentale in ogni parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una continua analisi di ogni parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e necessario il segno radicale che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè, il fondo permanente dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua desinenza (uomo, uomni, pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo definito (il – ille, la -- illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per indicare ogni variazione e accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale di questa o quella aziona si effettua. Il atto di signare monosillabica dei cinesi supplisce a ciò coll’accozzare diverse sillabe, cioè diverse segni, di cui ognuna esprime una idea, e tutte unite esprimono un complesso. Una idea fissa si esprime con un signo fisso. Una segnato variabile si esprime con un segno variantie. Sorge da ciò la necessità del segno derivativo, del segno della desinenza e del segno del prefisso, infisso, e suffisso, come anche la necessità di trasformare in maniera avverbiale un nome e un verbo, e di operare ogni cangiamento di preposizione in verbo ed in nome, dell’aggettivo in sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la forma fondamentale, ogni mutamento di forma debbe esprimersi con cangiarli secondo il bisogno e secondo la relazione che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni ed un'altra. Finalmente vi ha un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del discorso, ed è quella del giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo – indicativo, imperative -- in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da un giudizio all'altro per mezzo di una connessione, così la proposizione prende forma concatenata e compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo s'incatena con quello periodo e forman un discorso. Però è no ievole che l’operazione dell'analisi e l’operazione della sintesi spontanea non puo altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”, cioè di giudizio o volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo anche un segno solo, considerata nella sua radicale o nella sua derivazione, indica benissimo l’operazione analitica che vi è dentro. La ragione, per cui non si può annunziare ad altri, che sotto forma di giudizio, una completa operazione di sintesi e di analisi, si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri cotali operazione di sintesi o analisi, vi è di già il concorso della riflessione, e perciò non si annunzia altro che il risultato ultimo della sintesi e dell'analisi riflessa, il qual risultato e il giudizio e la volizione, ambe due con contenuto proposizionale. Onde si ha che nello singolo signo si rappresenta le sintesi e le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso si rappresenta il risultato totale, che perciò appunto veste la forma di giudizio o volizione con contenuto proposizionale. Da tutte queste osservazioni emerge che il segno e la sua costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese d’Italia -- debbe avere una forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme variabile (semiotica componenziale), siccome il risultamento organico subbiettivo ed il risultamento esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una forme variabile, poiché il segno debbe necessariamente prendere lo stesso aspetto del segnato. In ogni segno possono riguardarsi due parti distinte, cioè il segno e la costruzione del segno. Ogni segno è segno di una percezione, o di una parte di percezione, o di un'idea o concetto (signato). La costruzione del segno ra-presenta ogni relazione che ha questa o quella percezione, questa o quella idea, questo o quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro del grado delle conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la ricchezza del repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione indica quante percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente, ed in quante maniere sa  metterle in relazione fra di loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza studiata sino al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una percezione sola o una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere se mai una di tale segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo stare attento alla *forma* del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche dalla forma della costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare col segno che si adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma forse la causa del fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un segno sia adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato (equivocazione), è necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato solo; poichè non è presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico (equivocazione – para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di usare un segno solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per far nascere la dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare. Allorchè dunque si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno proprio, il segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o concevire un segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa svegliare l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare). Allora l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile novello ch' è ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più di tutto nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un emittente si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto più è possibile, somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del traslato: un segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo spirare), è adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa qualche somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente, quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte meditazioni, e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano, non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo, si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio, ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente, quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità, perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni (perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con ambidue uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo radicale che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere di radice originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono chiamarsi il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio delle forma con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la ricchezza delle forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente, molto più quando non è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i segni di più avanzati nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso numero di vocaboli proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà del segno: onde esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e adoperano al bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio all’esattezza scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde, poichè non si confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra qualunque segno avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente i di tal sorta non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò porta l' impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che appartennero all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo hanno acquistato segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un traslato o di una metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto proprio (By uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my pride and joy). Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre. L’emittente e ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel repertorio di forme poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo segna, e perciò le relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più semplici, e sempre più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o proposizione: soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur fare intorno a queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più abbondante di figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il segnato per come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è divenuta più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione stessa che ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye da ciò che al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha bisogno di esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni o nel calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella stessa costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la spontaneità dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si presta meglio alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e nell'oratoria ha bisogno di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare il loro effetto dalla varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo a particolari confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta semiotica generale. Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono dalla natura stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal corso delle loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente debbe esser quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile figurato e dei traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando è necessaria. L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme, se non che in un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla medesima lingua dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione, dall'epoca della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però in tal caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema: l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro.  Wikipedia Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il prossimo, di intensità minore della passione.  In filosofia il lemma indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione: l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza», ossia la condizione in cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].  AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si contrappone all' ἔργον, (azione): il πάϑος, il "patire", una delle dieci categorie che si possono predicare dell'essere. I sensi producono affezioni con i dati sensibili, che provengono dagli oggetti esterni, sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa, dando luogo così all'inizio del processo conoscitivo.   L'affezione può anche riguardare un cambiamento di stato, cioè «una modificazione o carattere sopravvenienti a una sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco per l'uomo»  In senso più ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli oggetti esterni provengono quegli elementi che provocano nell'anima modifiche non solo sensibili ma anche sentimentali come il piacere, il dolore, il desiderio...ecc., le affezioni coincidono con le "passioni" della sfera etica Quest'ultimo significato si ritrova anche in Cicerone, che adotta affectionescome sinonimo di perturbatio animi o concitatio animi. Anche Agostino d'Ippona usa i termini perturbationes, affectus, affectiones come sinonimi di passiones.  La funzione delle affezioni. Nella storia del pensiero la funzione delle affezioni viene considerata in tre diversi modi:  con Platone e il platonismo, poiché il comportamento buono si basa sulla conoscenza del vero, le affezioni sono dannose perché influiscono negativamente sia sulla conoscenza che sul comportamento morale. Su questa stessa linea di giudizio sono Cartesio, Spinoza, Leibniz, e soprattutto Hegel, che fanno rientrare le affezioni — sia per la conoscenza che per la moralità — nell'ambito della false o confuse idee. Nella filosofia aristotelica e in quella epicurea le affezioni sono valide nell'ambito conoscitivo, poiché i dati sensibili ricevuti passivamente dal soggetto sono sempre veri, mentre falsi sono i nostri giudizi anticipatori (prolessi) delle sensazioni vere e proprie. Le affezioni sono valutate positivamente anche dal punto di vista morale, poiché non esiste uomo senza passioni, quindi il problema non è quello di eliminarle ma di moderarle (μετριοπάϑεια). Con lo stoicismo le affezioni sono ineliminabili dal punto di vista del processo conoscitivo, mentre vanno messe da parte nei comportamenti morali, che non devono essere compromessi dalle passioni. Il saggio è colui che raggiunge l'apatia, l'indifferenza alle passioni. Kant Secondo Kant, per le nostre intuizioni è indispensabile che il nostro animo sia "afflitto" (affiziert, "affettato") dalle affezioni. Quella della ragione sarebbe una falsa conoscenza senza le affezioni sensibili. Se invece noi intendiamo le affezioni come passioni allora il loro ruolo è puramente negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva inteso Cartesio, «cancri della ragion pura pratica, per lo più inguaribili.  Il concetto di affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un problema relativo alla dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è tale nel senso per cui i sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto, poiché spazio e tempo sono parte della nostra intuizione sensibile come "a priori", indipendenti dall'esperienza, e il noumeno è per definizione inaccessibile ai sensi, dove mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra sensibilità? Kant per uscire dalla difficoltà parla allora di affezione come il risultato di un rapporto causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra l'oggetto e il soggetto percipiente. Le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione empirica senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza.  NoteModifica ^ Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente; Enciclopedia Garzanti di Filosofia alla voce corrispondente Aristotele, De Anima, Aristotele, Metaphisica, (in Sapere.it alla voce "Affezione") ^ Aristotele, Rhetorica, Cicerone, Tusculanae Agostino, De civitate Dei, La passioni sono una "malattia" della razionalità. Sono utili per la vita come l'istinto di sopravvivenza ma impediscono la serenità dell'uomo razionale. (In Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti, Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica della ragion pura, Estetica trascendentale Cfr. I. Kant, id.,  Dialettica trascendentale ^ I. Kant, Antropologia pragmatica Kant, Critica della Ragion pura, Analitica trascendentale, 24 Voci correlateModifica Modo (filosofia)  «affezione»   Portale Filosofia. Intelletto facoltà della mente di intendere e concepire  Critica della ragion pura libro del 1781 di Immanuel Kant  Pensiero di Kant Wikipedia Il contenutoSimone Corleo. Keywords: filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale, meditazione filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, noetica-estetica -- linguaggio ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza, l’universale ontologico, la categoria come universale ontologico, segno, signare communicativamente, segnabile, sensibile – nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu -- segnato, emettente, repertorio di segni, repertorio di forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio pre-convenzione, pre-consenso mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah, peccora, conversazione adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent communicative – signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea, scenario ii. Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e le categorie agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione, modalita. Il nome sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la congiunzione, il vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione semplice “S e P” – modelo filosofico dello svilupo del signare communicativamente – dello spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale, l’idea di un gesto come SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corleo” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cornelio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Giove, Ganimede, e Prometeo – scuola di Rovito – filosofia cosentina – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovito). Filosofo cosentino. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Rovito, Cosenza, Calabria. Grice: “I love Cornelio – he has a gift for titling his treatises: gyymnasma!” “My favourite of his gymnasmata is the one on what he calls the ‘generation’ of ‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud, humus – and this is strange because Prometeo created man out of mud – In Rome, the more Catholic your philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less Hegelian and Platonic – so trust an Italian philosopher to believe in the Graeco-Roman myth of the ‘generation of man’ than the story of Adam’s spare rib, etc.!” Si forma alla scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio, molto studiato nei salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie molte tesi galileiane. Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui fu erede il suo tutore Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio e di Gassendi. Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria filosofiche. Altre opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss. marchionem Marcellum Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad Marcum Aurelium Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. Quæ in hoc volumine continentur animalium conformatio ex inspectione er ex aque, ac terre expira ouorum percipi facile patest  tionibus ætheri permiftis con animalium ex semine conformatio de stituitur scribitur aer ob vsum respirationis recentari de animalium pars primigenia non iecur neque cor, neque fanguis ter præter modum diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus quandoque preffus vite animalium et ignis con filios generant. fernationi inutilis antiquorum varix de.rerum initijs opi aer nisi vaporibus aqueis permiſtus re niones spiritioni inutilis apoplecticorum et ftrangulatorum aer infra aquam demerſus à fuperftan mitis est exitus tis aqua pondere comprimitur Aqua frigore concreta rarefcit, et in ma. Aeris in reſpiratione quis vſus. iorem molem ampliatur. aeris per neceſitas tum ad vitam ani aqua quomodo in vapores foluatur malium tum ad ignem conferuan in glaciem concreſcat dum Aqua fenfu iudice neque contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris color caeruleus onde aqua triformis Arris, Aquarum pondus fub eifdem Aquis ineſſe non poteſtnotabilis quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris compreffio,ea diſtractio nifi æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin admiſſo nequit explicari ceps Aeris ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit in generatione Aztheris ſubſtantia omnino admitten diuiparorum fieri.conceptus ouifor da Alibilis fuccusad cor confluit Aristoteles ab attico platonico philo animalia amphibia cur sub aquis distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant Aristoteles cur priuationem inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi cipia numerauerit reſpiraverint citiffimemoriuntur Aristotelis de loco fententia improba animalia, quæ interclufo fpiritu fiiffa cantur dexterum cordis ventriculum, Ariſtotelis principia diffentanea. pulmones babent multo fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina de ge refertos. neratione animalium fanior ar mes tur arteriæin vteros prezrintinm perti mentuan mentes frequentiores, ampliores Calor omnis animalium eflà Janguine fiunt Aiteris non moventur à ri pulſifica eiſ- calor nonnunquam diſſimilis nature cor dem à corde communicata, fid ab im pore congregat pulfu fanguinis Calore corpora non femperrarefiunt, Arteriæ omnes eoderntemporis puncto Calore cur omnia diffoluantur, atque li. ab impulſu fanguinis mouentur, tam queſcant que cordis proximefunt, quam quæ à Caloris naturaex Platone explicatur corde longiſſimèabfunt. Cauernæ in quibushomines fuffocantur, arteriarum venarumqueplexus, atque ignisextinguithi' implicatio ibi eße folet vbi fit aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo ſecretio fiat. Aſtrologia conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies duobus li quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum ounem per lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo prodideruntiuniorcs Auftifichs ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad Thyſiologiam illis neruos in partes diffunditur ſirandam perutilis Auftificus fuccus ab Arabibus obfer- chymici magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus. &tioni attulere cibaria non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in iecinore fecerni B permanentin ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim elabitur Bilis nõ eſt fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue Bilis nutritiumfuccum diluit, et fluxum reddit ciborum concoétionem auctores diuerſa Bilis vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi- cibus in ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit  Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit. Cibus in ventriculo coctus non femper albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum more diu Calor cæleftis est eiufdem nature, atque tule fub aquis viuere potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit. tur. с Copernicus ab Italis mundani systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condensatio, et rarefaétiofine tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non po videtur teft F Elle nullum animal caret. notitiam arripuit quibus Copernicus maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu &tiones aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non habet à cerebro, fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur, cpalpitat Fermenti vis à calore excitatur. ibid. Cordis motus fit ab balitibusin eiuſdem Firmicus reprehenditur lofibras influentibus flamma cur fine pastu permanere ne Cordis motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis, vt Ariftoteli, Carteſio pla- Flamma cur faſtigietur in conum, ibid. Fæmina ſubminiſtrat materiam omnem Corpora je inuicem propellere poffunt, ex qua fætuscorporatur non autem attrahere Fæminæ genitura non carent D Feminarumgenitura an aliquid conferat Ifferentis inter conceptus ouip.rros, adgenerationem Fætus vita non pendet à vita matris Dɔny Volumen de natura hominis fætus cum propria tum parentis vi ab utero excluditur E Frigore nonnunquam diſſimilis nature Lectrum quomodofeſtucasattrahat. corpora ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum Alenus ab Ariſtotele maximis de orbiculorum in aqua alternatim a rebus diſſentit frendentium, defcendentium Galenus Platonis fententiam de circum secundum orbiculorum in tubo dque pulſione non eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque recurrena Galeni experimentum de fistula in arte. - tium ad nutum eius, qui tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias ab im digito obturat pulſie fanguinis moueri tertium orbiculorum in tubo retorto Galeni Secta cæpit deficere aſcendentium defcendentium pro Galenice fattioni magna clades d chy paria tubi inclinatione micis eſt illata quartum orbiculorum ex imo furfum galenice medicine summa aſcendentium propter diſtractionein Galilæus de atomis, inani aliter vidé aeris in eiſdem conclufi tur decernere, ac Democritus et Epi Experimentum quo Verulamius probat curus aquam comprimipole eſt fallax Galileus omnium primus physiologiam experimentum Torricelli de spario, com Geometria iugauie Ga Gevens ifotelemaximisde Galilcus aſtronomicarum rerum peritif Hippocratimulta tribuuntur, quecom. fimus improbauit aſtrologicas prædi mentitia funt ctiones" Hobbes fententia de ſubſtantia inter al GALILEI (si veda) Carteſi aliorumque iuniorum rem et aquam media. doctrina phyſicapræftantior quam homo à teneris annisita potefl educari, antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu Genituraquid,vnde prodeato tius viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto gignitur fpatio Genitura in procreatione animalium ef- Hominis genitura non est eiufdem ratio ficientis tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura non eſt pars, feu materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi conceptus: propoſita commentitia eft Genituræ craffamentum oua, et conte Humanusfætus recens formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica magnitudinem vix fum Geniturepars, quæ efficiendi vim habet, perat oculorum fugit aciem Geniture vis per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere. Ecinorisprecipuum munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil eft. cis diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que Glandulg cur maiores et frequentiores nam fint. in tenellis, et pinguibusanimalibus, Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus, &macilentis, in omni motu fit reciproca corporum  dla translatio Glandule fecernunt auctificum ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo fanguine Priſci. 4 Glandularum vtilitas. ibid. K Græci curdoctrine ſudijs cæteris natio nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora etiam à leuioribus ju. perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis feratur' ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes degeneratione lacervberibus virorum, &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius in obferuando diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans.. in iudicando Hippocratis de calore Paradoxum. lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co. hominibus infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi& tionibus aſtrologicis abſtinuit. Medicina Græcorum continet inanes conie turas et fallaces præceptiones, Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem excipit Medicina inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē et impuriorem ſuccum ex rietas. cibireliquisſecretum ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa Lienis vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon eft in rebus, fed fit in ipfo  Membranarum vtilitas, dentis oculo Motus ad fugam vacui vulgo relati pen Luminis naturaexplicatur dent à circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis diſimilis elektrick: Mund for printeriplexdifferentia mini. Men Maßarias iuniorum gloriæ infenſus  Mundi magnitudo incomprehenſa. ibid. Materia exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor ſinailis ouorum albus Aturæ ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ fummam inge paranda stü aciem defiderant Naturalis historie cognitio ad Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum notabile giam malde necellaria incrementum O Medici latina verba importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt imperitorum plaaſum aucupen. interiorem pentriculi tunicam.: tur biantibus. Medici periculofus, &ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri. rum curationes inftituunt, culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper. Obferuatio noua lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo exiſtentis Medici rationales quam profitentur', Obſeruatio viarum, que nouum alimentū. ſcientiam omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis familiare eft mutuainter fe ia. Oetimestris partus non minus pitalis Etare conuicia quam ſeptimeſtris Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in viviparis habet Medicorum inſcitia reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum gr Pusega Perguedus nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $ Strguis I i Ouum fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei mundan nis in ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus vtilitas Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici,aut politici. Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio defcribitur tem deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus obferuationibus quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione cordis æſlum temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi ratio inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex, nec culi auctoribus laudatur. tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer- Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis, quam nutrimen Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis non calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione tenaifimihalitus pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem, et experientiam requirit Sanguis non fuapte natura caliduseſt, Phyſiologia onde ordienda nec calorem accipit à corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus atque agitatione incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in iecinore, nec in corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur Phyſiologie obſcuritas onde proficifca. Sanguinis duapartes altera viuifica tera auctifica Phyſiologiæ perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis Eius randa potior pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis motusà corde a præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab Harueio de Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante Pizulus Mis aſequitur Sarpa, &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad ætheris liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq. tør. ſeis fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid. Venarum lymphaticarum progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus et oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola nouitate verborum abſtruſe do. tricationi inteftinorum et alui Etrina caliginem offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine propagatio compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,& inteftinorum motus  Stoicis materia corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ et Antiperiſia bus et cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius opes ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri. expurgantur Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè. motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo Testes priuerfo corpori robur conferunt. modo percipiatur Vitri denſitatem penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum, atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam profunditur. Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne moueantur inbibere Ztia.  Wikipedia Ricerca Ganimede (mitologia) personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e l’aquila, Nome orig.Γανυμήδης Sessomaschio Luogo di nascitaDardania Professionedio dell'amore omosessuale e principe dei Troiani Ganimede (in greco antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della mitologia greca. Fu un principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali del suo tempo.  «La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema significante per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio omoerotico[1].»  In una versione del mito viene rapito da Zeus in forma di aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca, visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era Catamitus, da cui deriva il termine catamite, indicante un giovane che assume il ruolo di partner sessuale passivo-ricettivo. Genealogia Figlio di Troo e di Calliroe (o di Acallaride).  Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di Ilo[8], per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo padre fu Erittonio[10] oppure Assarco.  Non risulta aver avuto spose o progenie.  Mitologia Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, GANIMEDE che indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.  Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che suo figlio era ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei, una posizione che era considerata di gran distinzione.  Zeus per sottrarre Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con la coppa in mano.  Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di Frigia. Tutti gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola quale è strettamente associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacale dell'Acquario.   Busto di Ganimede, opera romana d'epoca imperiale (Parigi, Museo del Louvre) Mito iniziatico Lo stesso argomento in dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio adulto e giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico (vedi la pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame sessuale - all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi amori "paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente un giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi rituali imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato, avveniva la sua iniziazione sessuale. Zeus e Ganimede, rappresentando la perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti. Il cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. Filosofia Platone rappresenta l'aspetto pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una critica dell'usanza della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi completamente la sua funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi inventati il mito di Zeus e Ganimede per giustificare i loro comportamenti[17].  Nel dialogo platonico poi Socrate nega che il bel giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli Dei, proponendone, invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus avrebbe amato l'anima e la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo corpo.  Il neoplatonismo ci offre una rappresentazione mistica del rapimento di Ganimede; esso sta a significare il rapimento dell'anima a Dio, e in questo senso è stato usato, anche in opere d'arte funerarie e anche durante il Neoclassicismo, sia nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un esempio, il Ganymed di Goethe. Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede (National Gallery, Londra) PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca narrante la vita e le gesta del dio Dioniso.  Virgilio ritrae con pathos la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente contro il cielo. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati disperati anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un motivo frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche Stazio.  Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo contro Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite si trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un principiante.  Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il personaggio di Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di Arden, scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio del rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava ben oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in questo caso omosessuale.   Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di epoca paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon Marius. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide, 1036 Ganymed.  Nelle arti Nella scultura una delle immagini più famose di Ganimede è il gruppo scultoreo di Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a cui viene attribuito anche l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio il Vecchio: «Leocare realizza un'aquila che trattiene con forza Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli nella sua veste.» Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa anche Marco Valerio Marziale.  La leggenda di Ganimede ha ispirato anche un gruppo in terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana.  Nella ceramica il tema di Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in immaginazione poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte pederastica (vedi nudità atletica).   Il ratto di Ganimede, di Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli rappresentazioni di questo mito, con artisti quali Michelangelo Buonarroti, Benvenuto Cellini e Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno dei temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay ante litteram.  Quando il pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma, i lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato contribuiscono a farlo rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti catturare verso l'alto senza opporre la minima resistenza.  Nel Ratto di Ganimede di Antonio Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è più contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter Paul Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo Ratto di Ganimede per un mecenate calvinista olandese, ecco che un'aquila scura porta in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e si fa la pipì addosso per lo spavento.   Ratto di Ganimede, di Gabbiani Gli esempi di Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono stati studiati da Worley. L'immagine raffigurata era invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila, mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente affrontati: in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata". Inoltre, l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel Rinascimento italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita alla condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo.  Jean-Baptiste Marie Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou, Pierre Julien, Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di Ganimede nell'arte francese.  La scultura che ritrae Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a Parigi, ha portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo come uno degli scultori più importanti del suo tempo.  L'artista Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli scultori danesi, ha scolpito una scultura dedicata alla scena di Ganimede e l'aquila.   Particolare di una scultura, da un modello tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del IV secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli. AltroModifica Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato a indicare un bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante omosessuale.   Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio, tenendo in mano un gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a figure rosse (Parigi, museo del Louvre).   Ganimede e Zeus, e Apollo e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale per le Metamorfosi di Ovidio (Venezia)   Illustrazione gli Emblemata di Alciati. Ganimede rappresenta allegoricamente l'anima che si "rallegra" in Dio.   Raffaello da Montelupo, Giove bacia Ganimede  (Ashmolean Museum, Oxford)   Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di Polidoro da Caravaggio, Giove bacia Ganimede. La borsa di denaro in mano al giovane allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano.   Il Ganimede di Antonio Canova  "Ganimede" (1804), di José Álvarez Cubero  Ganimede abbevera l'Aquila divina, di Thorvaldsen Albero genealogicoModifica AtlantePleioneScamandroIdea Elettra ZeusTeucro DardanoBatea Erittonio Ilo Troo Calliroe EuridiceIlo AssarcoIeromnene Ganimede Laomedonte Strimo (o "Leukyppe")TemisteCapi PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino EttoreParideCreusaEneaLavinia AscanioSilvio Silvius Enea Silvio Bruto di TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea Silvia ErsiliaRomolo Remo Età regia di RomaShe-wolf suckles Romulus and Remus. Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità omosessuale Fazi Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the English Language, catamite, Apollodoro, Biblioteca su theoi.com. Omero, Iliade XX, 213 e seguenti, su theoi Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, su theoi. Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane su penelope.uchicago.edu. Cicerone, Tusculanae disputationes, Tzetzes a Licofrone Clemente Alessandrino, su theoi.com. Igino, Fabulae Igino, Fabulae Iliade, Burkert; Burkert fa purtuttavia notare che non esiste un nesso diretto con l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi Platone, Leggi, Platone, Fedro, Platone, Simposio, Ovidio, Metamorfosi, Apuleio, L'asino d'oro, Virgilio, Eneide, Stazio, Tebaide, 1.549. ^ Marius/Schlör, Mundus Iovialis, Worley, The Image of Ganymede in France: The Survival of a Homoerotic Myth, in Art Bulletin, Chisholm, Alvarez, Don José, in Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge Ganimede), di Ferrier Apollonio Rodio, Le Argonautiche. Apuleio, L'asino d'oro. Cicerone, De natura deorum. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica. Euripide, Ifigenia in Tauride. Nonno di Panopoli, Dionisiache. Omero, Iliade. Omerico, Piccola Iliade. Ovidio, Le metamorfosi. Pausania, Periegesi della Grecia. Pindaro, Olimpiche, 1821. Platone, Fedro. Platone, Leggi. Platone, Simposio. Pseudo-Apollodoro, Biblioteca. Strabone, Geografia. Teognide, Frammenti. Virgilio, Eneide. AA.VV., Suda.  Christian Wilhelm Allers, Giove rapisce Ganimede, Veckenstedt, Ganymedes, Libau, Saslow, Ganymede in the Renaissance: Homosexuality in Art and Society, New Haven (Connecticut), Yale, Burkert, The Orientalizing Revolution: Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age, Cambridge (Massachusetts), Harvard, Graves e Elisa Morpurgo, I miti greci, Milano, Longanesi, Carassiti, Dizionario di mitologia greca e romana, Roma, Newton et Compton, Cerinotti, Miti greci e di Roma antica, Firenze-Milano, Giunti, Ferrari, Dizionario di mitologia, Torino, UTET, Eva C. Keuls, The Reign of the Phallus. Sexual Politics in Ancient Athens, Berkeley, University of California Press, Bernard Sergent, Homosexualité et initiation chez les peuples indo-européens, coll. « Histoire », Parigi, Payot, Gély, Ganymède ou l'échanson. Rapt, ravissement et ivresse poétique, Presses Universitaires de Paris, Guidorizzi (a cura di), Il mito greco, 1 (Gli dèi), Particolare di Zeus accanto a Ganimede, di Griepenkerl Voci correlateModifica Icona gay Mito di Etana Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia The Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN)  Peter R. Griffith, Visual arts: Gaymede. "Ganymed" (testo, in tedesco e italiano). (EN) Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute Iconographic Database Internet Archive. Portale LGBT   Portale Mitologia greca  Leda personaggio della mitologia greca, figlia di Testio e moglie di Tindaro  Estia dea greca del focolare, della casa e della famiglia. Figlia di Crono e Rea  Laomedonte re di Troia nella mitologia greca, figlio di Ilo  Wikipedia Il contenutoGrice: “It’s best to represent Cornelio as representing Cartesio – yes, the Cartesio that Ryle attacked! But Italy never had a Ryle, so that’s good!” Tommaso Cornelio. Cornelio. Keywords: Giove, Ganimede, e Prometeo, pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta, gymnasium, ginnasio, ginnasiale, nudo romano, nudita romana, corpo nudo, snudare, atleta, atletismo, lotta ginnastica, competizione ginnastica, implicatura ginnastica, l’implicatura ginnastica di Socrate, Socrate al ginnasio, implicatura ginnasiale, the eagle, Giove come aquila, aquila come impero romano, aquila come impero nazi – le due aquile -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cornelio” – The Swimming-Pool Library. Cornelio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cornello: la ragione conversazionale – scuola di Sorento – filosofia sorrentina – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo sorrentino. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Sorrento, Campania. Gabriele Tasso and his wife, Caterina, are cousins.They come of the Bergamesque family dei Tassi del Cornello. The family, originally from ALMENNO, can be traced with certainty to anOMODEO who established himself in the Brembana valley known as’del Cornello.’ Nearby is Mount Tasso, which gets its name from the yews (tassi) which cover the slopes. KEYWORD: DE’ TASSI DEL CORNELLO (feudo) – dai Torreggiani di Milano – tasso: badger – skin carried by horses. O CORNETTO --A branch of YEW originally appeared in the upp half oof the family crest The lower half is occupiedby the figure of a badger (tasso).  La sua opera più importante è la Gerusalemme liberate, in cui vengono cantati gli scontri tra cristiani e musulmani durante la prima crociata, culminanti nella presa cristiana di Gerusalemme. Ultimo dei tre figli di Bernardo TASSO, letterato e cortigiano nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca, poi al servizio del principe di Salerno Ferrante Sanseverino del regno di Napoli, compreso nella monarchia spagnola, e di Porzia de' Rossi, nobildonna napoletana di origini toscane, pistoiesi da parte paterna e pisane da parte materna. Di Sorrento e della «dolce terra natìa» il poeta conserverà sempre un magnifico ricordo, rimpiangendo  «... le piagge di Campagna amene, pompa maggior de la natura, e i colli che vagheggia il Tirren fertili e molli.»  (Gerusalemme liberata) Quando C. era ancora bambino, il principe di Salerno fu bandito dal regno e Bernardo seguì il suo protettore. All'età di 6 anni si recò in Sicilia e dalla fine del 1550 fu con la famiglia a Napoli, dove lo seguì il precettore privato Giovanni d'Angeluzzo. Frequentò per due anni la scuola dei Gesuiti appena istituita e conobbe Ettore Thesorieri con il quale poi restò in corrispondenza epistolare.  Ebbe un'educazione cattolica e da giovane frequentò spesso il monastero benedettino di Cava de' Tirreni (dove si trovava la tomba di Urbano II, il papa che aveva indetto la prima crociata), e ricevette il sacramento dell'Eucaristia quando «non avea anco forse i nov'anni», come scrisse egli stesso. Due anni dopo la sorella Cornelia, che nel frattempo si era sposata con il nobile sorrentino Marzio Sersale, rischiò di essere rapita durante un'incursione ottomana a Sorrento, e questo rimase impresso nella sua memoria.   Guidobaldo II Della Rovere. Rimase a Napoli fino ai dieci anni, poi seguì il padre a Roma, abbandonando con grande dolore la madre che fu costretta a rimanere nella città partenopea perché i suoi fratelli «rifiutavano di sborsarle la dote». Nella città pontificia fu Bernardo a educare privatamente il figlio, ed entrambi subirono un grave trauma quando vennero a sapere della morte di Porzia, probabilmente avvelenata dai fratelli per motivi d'interesse.  La situazione politica a Roma subì però uno sviluppo che preoccupò Bernardo: era scoppiato un dissidio tra Filippo II e Paolo IV e gli spagnoli sembravano sul punto di attaccare l'Urbe. Mandò allora Torquato a Bergamo presso Palazzo Tasso e la Villa dei Tasso da alcuni parenti e si rifugiò presso la corte urbinate di Guidobaldo II Della Rovere, dove fu raggiunto dal figlio pochi mesi dopo.  A Urbino C. studiò assieme a Rovere, figlio di Guidobaldo, e a Monte, poi illustre matematico. In questo periodo ebbe maestri di assoluto livello quali il poligrafo Girolamo Muzio, il poeta locale Galli e il matematico Federico Commandino. Torquato passava a Urbino solo l'estate, dal momento che la corte trascorreva l'inverno a Pesaro, dove Tasso entrò in contatto con il poeta Bernardo Cappello e con Dionigi Atanagi, e scrisse il primo componimento a noi noto: un sonetto in lode della corte.  Bernardo si sposta intanto a Venezia, indiscussa capitale dell'editoria, per occuparsi della pubblicazione del suo Amadigi. Poco tempo dopo, quindi, anche il figlio cambiò una volta di più città, stabilendosi in laguna. Sembra che proprio a Venezia, non ancora sedicenne, abbia cominciato a mettere mano al poema sulla prima crociata e al Rinaldo. Il Libro I del Gierusalemme (conservato dal Codice vaticano-urbinate 413) fu scritto dietro consiglio di Giovanni Maria Verdizzotti e Danese Cataneo, due poeti mediocri che allora frequentava e che già avevano scorto nel Tasso un talento straordinario. Si iscrisse per volere paterno alla facoltà di legge dello Studio patavino, raccomandato a Sperone Speroni, la cui casa frequentò più delle aule universitarie, affascinato dalla vastissima cultura dell'autore della Canace. Tasso non amava la giurisprudenza, tanto che attendeva più alla produzione poetica che allo studio del diritto. Così, dopo il primo anno ottenne dal padre il consenso per frequentare i corsi di filosofia ed eloquenza con illustri professori tra cui spicca il nome di Carlo Sigonio. Quest'ultimo rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche tassesche futureprime fra tutte quelle dei Discorsi dell'arte poetica, in cui si nota anche l'influsso dello Speronie lo avvicinò allo studio della Poetica aristotelica.  È in quest'epoca che si colloca il primo innamoramento del ragazzo, già molto sensibile e sognatore. Il padre era stato introdotto nella corte del cardinale Luigi d'Este, e nel settembre 1561 si era recato col figlio a fare la conoscenza dei familiari del suo protettore. Conobbe nell'occasione Lucrezia Bendidio, dama di Eleonora d'Este, sorella di Luigi.  Lucrezia, quindicenne, era molto bella ed eccelleva nel canto, anche se era piuttosto frivola. Avendo notato un interessamento della fanciulla, Tasso cominciò a dedicarle rime petrarcheggianti, ma dovette presto essere ricondotto alla realtà, poiché nel febbraio 1562 scoprì che la ragazza era promessa sposa al conte Baldassarre Macchiavelli. Non si arrese, continuando a cantarla in poesia, ma dopo le nozze si lasciò andare al risentimento e alla delusione.  Intanto, l'entourage cominciava ad avvedersi del talento del Tassino (come veniva chiamato per essere distinto dal padre), e gli furono commissionate delle rime per alcuni funerali. Confluendo in due raccolte, furono le prime poesie pubblicate da Torquato.  Ancora più notevoli erano gli sforzi prodigati per il Rinaldo, composto in soli dieci mesi e dedicato a Luigi d'Este. Il poema epico cavalleresco, incentrato sulle avventure del cugino di Orlando, fu stampato a Venezia nel 1562 e contribuì a diffondere il nome di Tasso, che aveva ancora soltanto diciotto anni.  Il padre intanto lo aveva messo nel 1561 al servizio del nobile Annibale Di Capua, e il duca d'Urbino gli aveva procurato una borsa di studio di cinquanta scudi annui per permettergli di continuare i corsi universitari. Dopo due anni a Padova, Tasso proseguì gli studi all'Bologna, ma durante il secondo anno di permanenza nella città felsinea, nel gennaio 1564, fu accusato di essere l'autore di un testo che attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e professori dello Studio. Espulso e privato della borsa di studio, fu costretto a ritornare a Padova, dove poté beneficiare dell'ospitalità di Scipione Gonzaga, che gli fornì il necessario per continuare il percorso di formazione.  Ritrovò tra i maestri Francesco Piccolomini e seguì le lezioni di Federico Pendasio. In casa del principe Gonzaga era appena stata istituita l'Accademia degli Eterei, ritrovo di seguaci dello Speroni che miravano alla perfezione della forma, non senza scadere nell'artificiosità. Tasso vi entrò assumendo il nome di Pentito e leggendovi molti componimenti, tra cui quelli scritti per Lucrezia Bendidio e per una donna che la critica ha per lungo tempo identificato in Laura Peperara.  Secondo questa versione Torquato conobbe Laura nell'estate del 1563, quando aveva raggiunto a Mantova Bernardo, nel frattempo messosi al servizio del duca Guglielmo Gonzaga. La delicatezza nei modi della giovane fece dimenticare presto al Nostro le ancor fresche pene amorose per Lucrezia Bendidio. Lo spirito del Petrarca rivisse allora nelle liriche del ragazzo nuovamente innamorato. L'anno dopo, rivedendola, fu però deluso, e pur continuando a cantarla dovette ben presto rassegnarsi al secondo scacco.  Ricerche recenti hanno tuttavia collocato la nascita della Peperara nel 1563, rendendo quindi impossibile che fosse lei la seconda musa del Tasso.  I due canzonieri amorosi andarono in parte a finire tra le Rime degli Accademici Eterei, stampate a Padova nel 1567, assieme ad alcune che scriverà nel primo anno ferrarese.  Si legò anche all'Accademia degli Infiammati.  A Ferrara  Torquato Tasso all'eta di 22 anni ritratto da Jacopo Bassano. Giunse a Ferrara in occasione del secondo matrimonio (quello con Barbara d'Austria) del duca Alfonso II d'Este, al servizio del cardinale Luigi d'Este, fratello del duca, spesato di vitto e alloggio, mentre dal 1572 sarà al servizio del duca stesso. I primi dieci anni ferraresi furono il periodo più felice della vita di Tasso, in cui il poeta visse apprezzato dalle dame e dai gentiluomini per le sue doti poetiche e per l'eleganza mondana.  Il cardinale lasciò al Nostro la possibilità di attendere solamente all'attività poetica, e Tasso poté così continuare il poema maggiore. Rapporti particolarmente intensi intercorsero con le due sorelle del duca, Lucrezia e Leonora. La prima era uno spirito libero e incarnava ideali di vivacità e vitalità, mentre la seconda, malata e fragile, fuggiva la vita mondana e conduceva un'esistenza ritirata. Per quanto Tasso fosse attratto da entrambe e per quanto si sia avallata l'ipotesi di una relazione amorosa con Leonora, la critica tassesca ha concluso che non si andò al di là di forti simpatie.  La ricchezza culturale della corte estense costituì per lui un importante stimolo; ebbe infatti modo di conoscere Battista Guarini, Giovan Battista Pigna e altri intellettuali dell'epoca. In questo periodo riprese il poema sulla prima crociata, dandogli il nome di Gottifredo. Nel 1566 i canti erano già sei, e aumenteranno negli anni appresso.  Nel 1568 diede alle stampe le Considerazioni sopra tre canzoni diPigna, dove emerge la concezione platonica e stilnovistica che il Tasso aveva dell'amore, con alcune note però affatto peculiari, che lo portavano a ravvisare il divino in tutto ciò che è bello, e a definire di matrice soprannaturale anche l'amore puramente fisico. I concetti vennero ribaditi nelle cinquanta Conclusioni amorose pubblicate due anni più tardi.  Compose anche i quattro Discorsi dell'arte poetica e in particolare sopra il poema eroico, anche se videro la luce solo nel 1587 a Venezia, per i tipi di Licino.  Nell'ottobre 1570 partì per la Francia al seguito del cardinale e, temendo gli potesse accadere qualche disgrazia nel lungo e pericoloso viaggio, volle dettare le proprie volontà all'amico Ercole Rondinelli, richiedendo la pubblicazione dei sonetti amorosi e dei madrigali, mentre precisava che «gli altri, o amorosi o in altra materia, c'ho fatti per servizio di alcun amico, desidero che restino sepolti con esso meco», ad eccezione di Or che l'aura mia dolce altrove spira.  Per il Gottifredo afferma di voler far conoscere «i sei ultimi canti, e de' due primi quelle stanze che saranno giudicate men ree», il che prova che il numero dei canti era salito almeno a otto.  Intanto, sempre nel 1570, Lucrezia d'Este sposò Francesco Maria II Della Rovere, compagno di studi di Torquato nel periodo urbinate.  Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome Luigi aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo francese sostanzialmente nell'ombra, con il solo onore di essere ricevuto da Caterina de' Medici, la moglie di Enrico II. Di ritorno a Ferrara, il 12 aprile 1571 decise di lasciare il seguito del cardinale.  Credeva incorrere in miglior fortuna presso Ippolito II, e scese pertanto a Roma. Anche il cardinale di villa d'Este però lo deluse, e Tasso decise di risalire la penisola, facendosi ospitare qualche tempo da Lucrezia e Francesco a Urbino, prima di entrare al servizio di Alfonso II.  In questo periodo continuò ad attendere al capolavoro, ma si diede anche al teatro, e scrisse l'Aminta, celebre favola pastorale che rientrava nei gusti delle corti cinquecentesche. Rappresentata con ogni probabilità all'isola di Belvedere, dov'era una delle «delizie» estensi, ebbe un grande successo e fu richiesta anche da Lucrezia d'Este a Urbino l'anno successivo. Nell'euforia del successo, scrive una tragedia, Galealto re di Norvegia, ma la abbandona  all'inizio del secondo atto, salvo rimettervi mano molto più tardi trasformandola nel Re Torrismondo.  Il capolavoro e la revisione L'impegno principale rimaneva comunque il poema epico, per il quale l'autore non aveva ancora stabilito un titolo. Nel novembre '74 l'opera era quasi completa, visto che «io aveva comincio quest'agosto l'ultimo canto», ma si deve aspettare per avere l'annuncio del completamento del testo, quando in una lettera al cardinale Giovan Girolamo Albano leggiamo: «Sappia dunque Vostra Signoria illustrissima, che dopo una fastidiosa quartana sono ora per la Dio grazia assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al fine il poema di Goffredo».  Completato quindi il poema maggiore, si apre il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge l'inquietudine del poeta: «Qui va pur intorno questo benedetto romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero. Scipione Gonzaga Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose.  I cinque erano il maestro ed erudito Speroni, il principe e cardinale Gonzaga, il cardinale Antoniano, il poeta Bargeo e il grecista Nobili.  Cndivise in parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di poetica né tanto meno di fede.  Ossessivo nell'apportare modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questao condotto finalmente al fine il poema di Goffredo. Completato quindi il poema maggiore, si aprì per Tasso il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge l'inquietudine del poeta. Qui va pur intorno questo benedetto romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero. Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose.  I cinque erano il maestro ed erudito Sperone Speroni, il principe e cardinale Scipione Gonzaga, il cardinale Silvio Antoniano, il poeta Pier Angelio Bargeo e il grecista Flaminio de' Nobili.  Torquato condivise in parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di poetica né tanto meno di fede.  Ossessivo nell'apportare modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questa particolare istoria di Goffredo si conveniva altra trattazione; e forse anco io non ho avuto tutto quel riguardo che si doveva al rigor de' tempi presenti. E le giuro che se le condizioni del mio stato non m'astringessero a questo, ch'io non farei stampare il mio poema né così tosto, né per alcun anno, né forse in vita mia; tanto dubito de la sua riuscita».[26] Nemmeno l'entusiastica ammirazione di Lucrezia d'Este cui leggeva il poema ogni giorno «molte ore in secretis»[27], né l'essere venuto a conoscenza del grande piacere con cui da più parti l'opera veniva letta, poterono placare le sue angosce. Scrive “Allegoria”, con cui rivisitava tutto il poema in chiave allegorica cercando di emanciparsi dalle possibili accuse di immoralità. Ma non bastava: gli scrupoli di carattere religioso assunsero la forma di vere e proprie manie di persecuzione. Per mettere alla prova la propria ortodossia nella fede cristiana si sottopose spontaneamente al giudizio dell'Inquisizione di Ferrara, ricevendo due sentenze di assoluzione.[29]   Barbara Sanseverino Disagi presso la corte estense e fughe Due belle signore, giunte alla corte nel 1575 e protrattesi presso il duca fino all'anno dopo, costituirono un intermezzo piacevoleforse l'ultimoin mezzo a tante preoccupazioni. Per loro, la contessa di Sala Barbara Sanseverino e la contessa di Scandiano Leonora Sanvitale, cantò gioiosamente in alcune rime amorose, che, com'era accaduto per Lucrezia e Leonora d'Este, obbediscono alle conventions de genre e non rivelano altro che una sincera amicizia. Ma il Tasso si era stancato anche di Alfonso, e sognava diandare a Firenze, presso la corte medicea. Non è chiaro perché volesse abbandonare Ferrara, ma i motivi adducibili sono vari e variamente intriganti, e tutti hanno in loro almeno una parte di verità. «Ch'io desideri sommamente di mutar paese, e ch'io abbia intenzione di farlo, assai per se stesso può essere manifesto, a chi considera le condizioni del mio stato», scrive a Gonzaga.  Le «condizioni del mio stato» possono avere una valenza materiale: Tasso riceveva dal duca solo cinquantotto lire marchesane mensili, che sommate alle centocinquanta percepite in qualità di lettore all'Università (carica che ricopriva per i soli giorni festivi) danno una cifra sicuramente bassa che a un poeta ormai affermato doveva parere stretta, anche solo per una questione di dignità, senza voler pensare a motivazioni di pretta bramosia L'espressione tassesca può assumere però anche una connotazione morale e psicologica: si erano in effetti verificati alcuni episodi spiacevoli presso la corte estense. Ha una lite con il cortigiano Ercole Fucci. Provocato, aveva rifilato uno schiaffo al Fucci, che in risposta lo colpì più volte con un bastone.  Un servo aveva inoltre rivelato al Tasso che, durante una sua assenza, un altro cortigiano, Ascanio Giraldini, aveva fatto forzare la porta della sua camera, nel tentativo di appropriarsi di alcuni manoscritti. Tasso sarebbe anche riuscito a rintracciare il magnano ottenendone una confessione, come risulta da un'altra lettera al Gonzaga, in cui si ipotizzano altre trame ordite alle sue spalle, anche se «io non me ne posso accertare».[33]  A far precipitare il rapporto con il duca e la corte furono però gli scrupoli religiosi del poeta. Si autoaccusò presso l'Inquisizione ferrarese (dopo l'autoaccusa presso il tribunale bolognese avvenuta due anni prima), attaccando inoltre influenti personaggi di corte. Si cercò allora di far desistere il poeta dall'intenzione di confermare le sue affermazioni negli interrogatori successivi, senza risparmiargli punizioni corporali che non riuscirono afar cambiare idea al Tasso, che si presentò altre due volte davanti all'inquisitore.[35]  Le accuseerano rivolte in particolare contro Montecatini, il segretario ducale. Siccome Torquato voleva recarsi a deporre presso il Tribunale capitolino, l'inquisitore ferrarese, conscio del fatto che una simile azione poteva mettere a repentaglio i rapporti con la Santa Sede,vitali per casa d'Esteinformò immediatamente il duca con una missiva del 7 giugno. Alfonso mise il poeta sotto sorveglianza, e C., ritenendosi spiato da un servo, gli scagliò contro un coltello.   Il Castello Estense Tasso rimase nella prigione del Castello fino all'11 luglio, quando Alfonso lo fece liberare e lo accolse presso la villeggiatura di Belriguardo, dove però rimase pochi giorni, venendo rimandato a Ferrara per essere consegnato ai frati del convento di S. Francesco.[37]  Il poeta supplicò allora i cardinali dell'Inquisizione romana affinché lo sollevassero da una situazione ormai insopportabile trovandogli una sistemazione nell'Urbe, e nel contempo si lamentava con Scipione Gonzaga per il trattamento ricevuto, ma pochi giorni dopo si ritrovò nuovamente nella prigione del Castello. Tentò quindi un'altra via e chiese invano perdono al suo signore. E indubbiamente provato dalle fatiche della Gerusalemme, e le lettere del periodo rivelano un animo inquieto e agitato, spesso preoccupato di smentire chi voleva vedere in lui i germi della pazzia. Le manie di persecuzione e l'instabilità si erano impadronite di lui, ma fino a qual punto? Fino a qual punto invece certe manifestazioni del poeta, che mantiene nelle missive una lucidità pressoché completa, funsero da pretesto per emarginare un personaggio divenuto pericoloso? Su questo punto i critici non sono mai riusciti a trovare un accordo.  Intanto la prigionia el Castello si prolungava, e non restava che la fuga: nella notte si travestì da contadino e fuggì nei campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento, dove, ancora sotto mentite spoglie e fisicamente distrutto, si recò dalla sorella, annunciandole la propria morte, così da vedere la sua reazione, e svelandole la sua vera identità solo dopo aver osservato la reazione realmente addolorata della donna.  A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo riprendere parte alla vita di corte, fece inviare da Cornelia una supplica al duca, in data 4 dicembre 1577, chiedendo di essere riammesso alle sue dipendenze, in un testo che fu certamente dettato, almeno in parte, dal poeta stesso: «La maggior colpa che io credo sia in lui, è la poca sicurezza, che ha mostrata d'avere nella parola di V.A., e il molto diffidarsi della sua benignità».[40]  Così, nell'aprile 1578 ritornò a Ferrara, ma, tempo tre mesi, era di nuovo in fuga; Mantova, Padova, Venezia. Presa la via di Pesaro, da Cattolica mandò ad Alfonso una missiva in cui cerca di spiegare i motivi dell'abbandono, che restano, anche nella testimonianza diretta del Tasso, criptici: «ora me ne dono partito. per non consentire a quello, a che non dee consentire uomo, che faccia alcuna professione d'onore, o ch'abbia nell'animo alcuno spirito di nobiltà. Paura, instabilità?  Quello che è certo è che nello stesso mese le parole di Maffio Venierche lo aveva incontrato a Veneziasembrano far perdere credibilità alle ipotesi di follia: «sebbene si può dire che egli non sia di sano intelletto, scuopre tuttavia più tosto segni di afflizione che pazzia». Anche gli scambi epistolari intrattenuti con Francesco Maria Della Rovere paiono rivelare una personalità afflitta e agitata più che folle. Il Leitmotiv, adesso più che mai, è il dolore. Il dolore si fa allora poiesis, creazione. È proprio questo il periodo in cui vengono composti i versi dell'incompiuta canzone Al Metauro, tra i più citati e famosi dell'opera tassesca. Qui, in una rievocazione della propria vita sub specie doloris[44], affiorano i ricordi delle proprie sofferenze e della morte dei genitori. Il poeta è un esiliato, concretamente e metaforicamente, sin da quando bambino dovette lasciare il luogo natìo:  «In aspro esiglio e 'n dura povertà crebbi in quei sì mesti errori; intempestivo senso ebbi a gli affanni: ch'anzi stagion, matura l'acerbità de' casi e de' dolori in me rendé l'acerbità degli anni»  Intanto continuava a vagare. Percorse a piedi il tratto che separa Urbino da Torino, ma non sarebbe riuscito a entrare nella cittàera stato respinto dai doganieri perché in stato pietosose Angelo Ingegneri, amico di Torquato da alcuni anni, non lo avesse riconosciuto e aiutato a entrare. A Torino ricevette l'ospitalità del marchese Filippo d'Este, genero del duca di Savoia, e godette di una certa tranquillità che gli permise di comporre poesie e iniziare tre dialoghi, la Nobiltà, la Dignità e la Precedenza. In seguito a nuovi pentimenti e nuove nostalgie della corte ferrarese, il poeta si adoperò ancora una volta per il rientro nella città ducale, facendo leva sulle intercessioni del cardinale Albano e di Maurizio Cataneo, e infine riguadagnò la capitale estense, proprio mentre fervevano i preparativi per le terze nozze di Alfonso, quelle con Margherita Gonzaga, figlia del duca di Mantova Guglielmo.  Fu ospitato da Luigi d'Este, ma nessuno badava a lui: «Ora le fo sapere, che io qui ho trovato quelle difficoltà che m'imaginava, non superate né dal favore di monsignor illustrissimo, né da alcuna sorte d'umanità ch'io abbia saputo usare», scrisse a Maurizio Cataneo. In una missiva al cardinale Albano, recante la data, Tasso chiede almeno gli si faccia riottenere lo stipendio precedente.[47]  A questo punto i fatti precipitano: «Iersera l'altra si mandò il povero Tasso a Sant'Anna, per le insolenti pazzie ch'avea fatte intorno alle donne del Signor Cornelio, e che era poi venuto a fare con le Dame di Sua Altezza, quali, per quanto m'è stato rifferto, furono così brutte e disoneste, che indussero il Signor Duca a quella risoluzione».[48] Non è chiaro quando accadesse esattamente il fatto, si oscilla tma è certo che in quest'ultima data il poeta fosse già stato recluso nella prigione di Sant'Anna.[ Pare sicuro anche che le parole offensive pronunciate in preda all'ira si siano indirizzate poi in modo esplicito allo stesso duca, ed è probabile che si trattasse di gravi accuse (forse legate ancora una volta alla vicenda dell'Inquisizione) che, fatte in pubblico, chiedevano una risoluzione drastica.  Il duca Alfonso II rinchiuse quindi Tasso nell'Ospedale Sant'Anna, nella celebre cella detta poi "del Tasso", dove rimase per sette anni. Qui, alle manie di persecuzione, si aggiunsero tendenze autopunitive.   Delacroix: Tasso all'ospedale di Sant'Anna Nell'Ospedale veniva trattato alla stregua dei «forsennati», ricevendo poche razioni di cibo scadente, privato di ogni comodità materiale e di ogni conforto spirituale, visto che il cappellano, «se ben io ne l'ho pregato, non ha voluto mai o confessarmi o comunicarmi».[50] È vero che dopo nove mesi ci fu un miglioramento del vitto, ma dovette trattarsi di ben poca cosa, e i primi tre anni coincisero con una sorta di isolamento.  Scrisse comunque ininterrottamente a principi, prelati, signori e intellettuali pregandoli di liberarlo e difendere la propria persona. Le suppliche erano rivolte al solito Gonzaga, alla mai dimenticata Lucrezia d'Este, a Francesco Panigarola (che sarebbe divenuto vescovo di Asti), a Ercole Tasso e molti altri. I primi anni di reclusione non impedirono a Torquato di scrivere; anzi, le tre canzoni del periodo rivelano una poesia essenziale, magistrale nella gestione delle armonie, simbolo di un'ormai indiscussa maturità e dimostrazione, una volta di più, di come le facoltà mentali del poeta fossero ancora intatte. Ecco quindi A Lucrezia e Leonora, con la celebre invocazione alle «figlie di Renata», in una nostalgico ricordo dei tempi sereni trascorsi a corte, messo in contrasto con la durezza del tempo presente, ecco Ad Alfonso, nuova supplica al duca che, rimasta inascoltata, diventò un inno Alla Pietà nell'omonima canzone.  Le condizioni mutarono con gli anni: gli fu permesso di uscire qualche volta e di ricevere visite, il vitto migliorò ulteriormente, mentre poté lasciare Sant'Anna più volte alla settimana, «accompagnato da gentiluomini e qualche volta fu condotto anche a corte».[52] Tuttavia il trattamento rimaneva molto duro e, a distanza di secoli, pare spropositato se il motivo dovesse ridursi alla pazzia o a delle offese personali.  Certo, il Tasso soffriva di turbe psichiche. A questo proposito è illuminante la lettera di aiuto che indirizzò il 28 giugno 1583 al celebre medico forlivese Girolamo Mercuriale. Qui troviamo un elenco e una descrizione dei mali che affliggono il poeta: «rodimento d'intestino, con un poco di flusso di sangue; tintinni ne gli orecchi e ne la testa, imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli: la qual mi perturba in modo ch'io non posso applicar la mente a gli studi per un sestodecimo d'ora», fino alla sensazione che gli oggetti inanimati si mettano a parlare. È da notare tuttavia come tutte queste sofferenze non l'abbiano reso «inetto al comporre. Si può poi ammettere che «il Tasso non fu semplicemente un melanconico, ma di tratto in tratto veniva sorpreso da eccessi di mania, da riescire pericoloso a sé ed agli altri»[54], ma, anche se questi squilibri dovessero essersi manifestati realmente, essi non giustificano né la tesi della pazzia né la necessità di allontanare il Tasso dalla corte per un periodo così lungo. Con buone probabilità, quindi, la ragione principale deve essere riallacciata ancora una volta ai tentativi tasseschi di ricorrere all'Inquisizione romana, e l'imprigionamento era il solo modo per non compromettere il rapporto con lo Stato Pontificio.  Dopo l'edizione veneziana "pirata" e mutila di Celio Malespini, sempre durante la prigionia, vennero pubblicatenel tentativo di porre rimedio alla sciagurata operazionea Parma e Casalmaggiore, ancora senza il suo consenso, due edizioni del poema iniziato all'età di quindici anni. Il titolo di Gerusalemme liberata fu scelto dal curatore di queste ultime versioni, Angelo Ingegneri, senza l'avallo dell'autore. L'opera ebbe un grande successo.  Siccome anche le stampe dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era ormai di dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile, ma per far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del Tasso. Così, seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo Bonnà, che diede alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara, restituendola in modo ancora più preciso pochi mesi dopo. Queste traversie editoriali addolorarono il Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in modo da renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le pubblicazioni seguì ben presto quella che gli fu causata dallapolemica con la neonata Accademia della Crusca. La diatriba non fu scatenata, per la verità, né dal poeta né dall'Accademia. La sua origine va ricercata nel dialogo Il Carrafa, o vero della epica poesia, che il poeta capuano Camillo Pellegrino stampò presso l'editore fiorentino Sermartelli. Nel dialogo Torquato viene esaltato assieme alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e fedele ai dettami aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a causa della leggerezza, delle fantasiose invenzioni e dell'eccessiva dispersione che si possono riscontrare nell'Orlando Furioso. Il testo provocò la reazione dell'Accademia, che rispose nel febbraio dell'anno seguente con la Difesa dell'Orlando Furioso degli Accademici della Crusca, stroncando il Tasso ed esaltando invece «il palagio perfettissimo di modello, magnificentissimo, ricchissimo, e ornatissimo» che era il Furioso. La Difesa fu fondamentalmente opera di Leonardo Salviati e di Bastiano de' Rossi. Tasso decise di scendere in campo con l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, edita a Ferrara dal Licino il 20 luglio. Rivendicando la necessità di un'invenzione che si fondi sulla storia, il poeta si opponeva alle opinioni dei paladini del volgare fiorentino, e respingeva le accuse di un lessico intriso di barbarismi e poco chiaro. La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato primo), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro, dopo di chese si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato secondo per qualche tempo le acque si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi e tasseschi proseguì fino al secolo successivo, e fu una delle più infiammate della storia della letteratura italiana.  Durante la reclusione Tasso scrisse principalmente discorsi e dialoghi. Fra i primi quello Della gelosia, Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo, Della virtù eroica e della carità, Della virtù femminile e donnesca, “Dell'arte del dialogo”; “Il Secretario” cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel regno di Francia e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è visto. Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o strettamente religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur nobile virtù eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si valutano i talenti specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di esperienze personali che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono affrontate anche questioni politiche, in special modo nel Secretario, diviso in due parti, la prima dedicata a Cesare d'Este, la seconda ad Antonio Costantini. Qui, nella descrizione del principe ideale, si enucleano alcune caratteristiche come la clemenza (chiaro il riferimento alla propria condizione), l'esser filosofo, e soprattutto «un gentiluomo a la cui fede ed al cui sapere si possono confidare gli Stati e la vita e l'onor del principe». Più copiosa ancora fu la composizione di dialoghi, scritti sotto il nume ideale di Platone, ma paragonabili più obiettivamente a quelli del sedicesimo secolo. Quasi ogni tematica morale viene sviscerata in una serie davvero lunga di opere più o meno prolisse e più o meno felici.  Tasso scrisse, nell'ordine, Il Forno, o vero de la Nobiltà, il Gonzaga, o vero del Piacer onesto, in seguito rivisto e stampato con il titolo Il Nifo, o vero del piacere; Il Messaggero. Qui immaginò di interagire amichevolmente con il folletto da cui si credeva perseguitato nella realtà. Questo dialogo ispirò la celebre operetta morale leopardiana Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), con una seconda lezione. Il padre di famiglia (ispirato a un gentiluomo che lo ospitò a Borgo Sesia prima dell'arrivo a Torino); Il cavalier amante e la gentildonna amata (con dedica a Giulio Mosti, giovane ammiratore del poeta); Romeo o vero del giuoco, rivisto e dato alle stampe con titolo Il Gonzaga secondo, o vero del giuoco; La Molza, o vero de l'Amore (prende spunto dalla conoscenza che il Tasso fece della celebre poetessa Tarquinia Molza a Modena, dedicato a Marfisa d'Este); Il Malpiglio, o vero della corte (con riferimento al gentiluomo ferrarese Lorenzo Malpiglio); Il Malpiglio secondo o vero del fuggir la moltitudine; Il Beltramo, overo de la Cortesia; Il Rangone, o vero de la Pace (in risposta a uno scritto di Fabio Albergati); Il Ghirlinzone, o vero l'Epitafio. Il Forestiero napolitano, o vero de la Gelosia; Il Cataneo, o vero de gli Idoli, e, infine, La Cavalletta, o vero de la poesia toscana. In tutto questo non aveva dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo idee piuttosto lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo Malpiglio espose intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che avrebbe apportato negli anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a ventiquattro canti (secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle stanze, tagliando anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione sarà molto minor de l'accrescimento. Qualche segnale, magari anche dettato da semplice interesse, lasciava intravedere un astio meno severo nei confronti del Nostro. Prima della reclusione  a Comacchio era stata rappresentata una commedia tassesca alla presenza della corte. Ora Virginia de' Medici voleva che il testo fosse perfezionato e completato per essere interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio con Cesare d'Este. Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera fu poi pubblicata e ricevette il titolo “Gli intrichi d'amor” edal Perini, uno degli attori dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia. L'opera, ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume dell'epoca, è sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed episodi ispirati all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che confluiranno nella commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando in dialetto e «profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla mente la futura maschera di Pulcinella. La critica è stata piuttosto concorde nel ritenerla infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superficiale, nel giudizio di Francesco D'Ovidio. F. Pourbus: Vincenzo Gonzaga Dopo la prigionia: le delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni. Finì la prigionia. Venne affidato a Vincenzo Gonzaga, che lo volle alla sua corte di Mantova. Nelle intenzioni di Alfonso, Tasso doveva restare presso il figlio di Guglielmo Gonzaga solo per un breve periodo, ma di fatto il poeta non tornò più a Ferrara, e restò presso Vincenzo, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de' Mori da Ceno, diventandone amico.  A Mantova ritrova qualche barlume di tranquillità; riprese in mano il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva lasciato interrotta alla seconda scena del secondo attoe che aveva frattanto avuto un'edizione nel 1582 -, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando nei primi due atti quanto aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e procedendo alla stesura dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque canonici. Quando nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si mise subito in azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura del Licino e per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo duca di Mantova. Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i fatti lo dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e preoccupato di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a Roma senza chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione del duca di Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio Costantini, sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e l'obiettivo di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione Gonzaga si mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare, rendendo impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo riportasse nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato dal Pontefice. Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci fosse una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane comunque un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della presunta follia di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del settentrione.  Il santuario di Loreto in un'incisione di Francisco de Hollanda (prima meta del sec. XVI) Nel corso del tragitto Tasso passò da Loreto, raccogliendosi in preghiera nel santuario e concependo quella canzone «a la gloriosa Vergine» che può forse richiamare il Petrarca della Canzone alla Vergine in qualche scelta lessicale, ma, in mezzo alla lode e alla supplica, è tanto più intessuta di travaglio e sofferenza:  «Vedi, che fra' peccati egro rimango, qual destrier, che si volve nell'alta polve, e nel tenace fango.»  Torquato fu a Roma. L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le lettere registrano le sue richieste di denaro e le lamentele per la propria condizione di salute. Il poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla possibilità che gli altri lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera del 14 novembre, gli uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi. Tuttavia, il Nostro è in preda al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi, scrivendo versi encomiastici per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza ottenere alcunché. Anche la speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene delusa, nonostante le lodi che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie, confluite assieme ad altre del periodo in un volumetto stampato a Venezia. Vista l'inutilità del soggiorno romano, il peregrinante poeta pensò trovare maggior fortuna nell'amata Napoli. Così, ritorna nella città vesuviana fortemente intenzionato a risolvere a proprio favore le cause contro i parenti per il recupero della dote paterna e di quella materna. Benché potesse contare su amici e congiunti, e sulle conoscenze altolocate partenopee, tra cui i Carafa (o Carrafa) di Nocera, i Gesualdo, i Caracciolo di Avellino, i Manso, preferì accettare l'ospitalità di un convento di frati olivetani. Qui conobbe l'amico più caro degli ultimi anni: Giovan Battista Manso, signore di Bisaccia e primo entusiasta biografo dell'autore dopo la sua morte.  Il clima amichevole in cui fu accolto, la stima di amici e letterati, e il conforto di una «bellissima città, la quale è quasi una medicina al mio dolore, riuscirono a risollevare per un breve periodol'infelice animo tassiano. Per ringraziare i monaci scrisse il poemetto, rimasto incompiuto, Monte Oliveto, in riferimento al convento in cui sorgeva il complesso monastico che attualmente ospita la caserma dei carabinieri (resta visitabile la chiesa Sant'Anna dei Lombardi). L'operaun resoconto encomiastico delle principali tappe esistenziali e delle principali virtù di Bernardo Tolomei, il fondatore della Congregazioneè fortemente intessuta di spirito cristiano, in un severo richiamo ad una vita sobria, lontana dalle vanità del mondo. Dedicata al cardinale Antonio Carafa, si interrompe alla centoduesima ottava. Al pari del Re Torrismondo e di molta parte dell'ultima produzione tassesca, il Monte Oliveto non ha goduto dei favori della critica. Guido Mazzoni vi vide più una predica che un poema, mentre Eugenio Donadoni utilizzò quasi le medesime parole che gli erano servite per stroncare il Torrismondo (v. Re Torrismondo): questa è «l'opera non più di un poeta, ma di un letterato, che cerca di dare forma e tono epico a una convenzionale vita di santo».[78] Come per la tragedia nordica, la rivalutazione è arrivata con l'analisi di Luigi Tonelli e di alcuni studiosi più recenti.  In ogni caso, anche questo periodo napoletano si rivelò problematico per Tasso, a causa delle precarie condizioni di salute e delle ristrettezze economiche, a cui si aggiunsero anche nuove polemiche letterarie e religiose sulla Gerusalemme liberata. Spostatosi a Bisaccia, Tasso poté vivere un periodo di maggiore tranquillità. Manso ricorda un episodio curioso: mentre sedeva con l'amico davanti al fuoco, questi disse di vedere uno «Spirito, col quale entrò in ragionamenti così grandi e meravigliosi per l'altissime cose in essi contenute, e per un certo modo non usato di favellare, ch'io rimaso da nuovo stupore sopra me inalzato, non ardiva interrompergli». Alla fine della visione, Manso confessò di non aver visto nulla, ma il poeta gli si rivolse sorridendo: «Assai più veduto hai tu, di quello che forse... E qui si tacque».[79] Viste le rare manifestazioni allucinatorie di cui abbiamo notizia, (si ricordino quelle che erano state descritte nel dialogo Il messaggero, in cui è descritto uno spirito amoroso che appare a Tasso sotto la figura di un giovanetto dagli occhi azzurri, simili a quelli che Omero alla dea d'Atene attribuisce), la risposta del Nostro assume una valenza indubbiamente ambigua, e non può escludersi che avesse voluto mettere alla prova il Manso per vedere se anche lui lo avrebbe considerato un "folle".  A dicembre era di nuovo a Roma, dove giunse nella speranza di poter essere ospitato dal Papa in Vaticano, confidando negli illusori pareri di alcuni amici.[80] Ad ospitare Tasso fu invece Scipione Gonzaga, e il poeta si sentì di nuovo «più infelice che mai». Ricominciava la routine: richieste d'aiuto a destra e a sinistra, con l'obiettivo di ricevere i cento scudi che gli erano stati promessi per la stampa delle sue opere: «vorrei in tutti i modi trovar questi cento ducati, per dar principio a la stampa, avendo ferma opinione che di sì gran volume se ne ritrarrebbero molto più», scrisse ad Antonio Costantini.[82] I destinatari erano ancora una volta i più disparati: il principe di Molfetta, il Costantini, il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, gli editori. Il Nostro si umiliò per l'ennesima volta anche con Alfonso, cui chiese nuovamente perdono, mentre al Granduca di Toscana Ferdinando I domandò l'intercessione del cardinal Del Monte, lo stesso che prenderà sotto la propria protezione Caravaggio. Tutte le speranze, però, furono disattese.  Al tempo stesso anche le missive ai medici si rifecero intense. Tuttavia, in mezzo a tante delusioni e a tanto affanno non venne meno la verve creativa: oltre ad aver raccolto le Rime in tre volumi, e avervi scritto il commento, Tasso compose anche un poema pastorale che riprende, anche se solo nel nome, alcuni personaggi dell'Aminta. È Il rogo di Corinna, dedicato a Fabio Orsino. La prima pubblicazione dell'opera fu postuma. Per quanto Grazioso Graziosi, agente del duca di Urbino, dicesse al suo signore del modo eccellente in cui il Tasso era trattato presso il cardinale Gonzaga, egli rilevava al contempo le infermità fisiche e mentali di Torquato, che privavano la sua età «del maggior ingegno che abbian prodotto molte delle passate. Tuttavia, è bene diffidare della prima quanto della seconda affermazione. Se «il povero Signor Tasso è veramente degno di molta pietà per le infelicità della sua fortuna»[85], come si legge in una missiva del Graziosi di due settimane dopo, perché cacciare il poeta in malo modo, mentre Scipione Gonzaga non era presente, e costringerlo a una nuova situazione di bisogno? In aiuto del Tasso vennero ancora i monaci della Congregazione del Tolomei, che lo ospitarono a Santa Maria Nuova degli Olivetani.[86]  Gli ultimi anni del Tasso, però, non conobbero pace duratura: le sofferenze psichiche si acuirono nuovamente, certo per le nuove delusioni derivanti da richieste di denaro non esaudite, dall'obbligo di piegarsi alla composizione di poesie a pagamento, e il poeta fu costretto a farsi ricoverare nell'Ospedale dei Pazzarelli, adiacente alla chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro dei Bergamaschi, la cui costruzione era appena stata ultimata. Il dolore emerge in modo chiaro in una lettera inviata il primo dicembre 1589 ad Antonio Costantini, divenuto ormai suo confidente. Ritornò presso Scipione Gonzaga, sempre lamentandosi per la scarsa considerazione in cui era tenuto e sempre scrivendo della propria infelicità.[88] Tasso premeva, come già più volte in passato, per essere accolto a Firenze dal Granduca di Toscana, e accettò quindi con gioia l'invito di Ferdinando de' Medici. A Firenze giunse in aprile, ospite prima dei fidati Olivetani, poi di ricchi e illustri cittadini quali Pannucci e Gherardi. Alla tranquillità necessaria per rivedere la Gerusalemme si aggiunsero anche relative soddisfazioni economiche (sempre comunque in cambio di versi encomiastici): dal Granduca ricevette centocinquanta scudi[89], da Giovanni III di Ventimiglia, marchese di Geraci, sembrerebbe, duecento scudi.[90]  Il motivo di gioia principale era tuttavia un altro, era l'avvicinarsi dell'evento più ambito da chi si sentiva, sopra ogni cosa, poeta: «Penso a la mia coronazione, la qual dovrebbe esser più felice per me, che quella de' principi, perché non chiedo altra corona per acquetarmi». Non ci fu nessuna incoronazione. C'è chi ha asserito che questa lettera contenesse solo una bislacca speranza del Tasso, senza alcun legame con la realtà.[92] Tuttavia, la sicurezza con cui l'evento viene ormai dato per certo lascia pensare che le illusioni del Nostro avessero un fondamento, e non fossero una pura chimera.  Un nuovo evento lo indusse all'ennesimo spostamento: papa Urbano VII era succeduto a Sisto V, incoraggiando il Tasso a fare nuovamente affidamento sugli aiuti pontifici. C. scese così a Roma, accolto dagli Olivetani di Santa Maria del Popolo. Giovanni Battista Castagna morì tredici giorni dopo l'elezione, lasciando il posto a Gregorio XIV. Anche questa volta le lettere del poeta registrano un amaro scacco: «Ho perduto tutti gli appoggi; m'hanno abbandonato tutti gli amici, e tutte le promesse ingannato», confidò, sempre più afflitto, a Niccolò degli Oddi. L'autore della Gerusalemme è ogni giorno che passa più confuso, sballottato qua e là dagli eventi come una barca in mezzo al mare. Tutto questo riflette la condizione interiore di una persona disincantata ma al tempo stesso ancora ingenuamente pronta a fidarsi delle fallaci promesse che giungono dal mondo intorno, riflette un'instabilità ormai cronica. È vero che la fede andò radicandosi sempre più in Tasso, ma il fatto che al duca di Mantova scrivesse di volersi ritirare in un monastero e pochi giorni dopo accettasse il suo invito a tornare a corte è l'evidente manifestazione di un'anima senza pace. Ritornato quindi sul Mincio, accolto con tutti gli onori, poté dedicarsi totalmente al lavoro letterario, e in particolare alla revisione del capolavoro. La missiva a Maurizio Cataneo del 4 luglio ci informa del fatto che il poeta era già a buon punto, e illustra le linee direttrici della propria opera correttrice: «sono al fine del penultimo libro; e ne l'ultimo mi serviranno molte di quelle stanze che si leggono nello stampeato. Desidero che la riputazione di questo mio accresciuto ed illustrato e quasi riformato poema toglia il credito a l'altro, datogli dalla pazzia de gli uomini più tosto che dal mio giudicio». Sono parole che possono parere sciagurate, ma riflettono gli scrupoli religiosi sempre più pressanti.  Non si era comunque concentrato solo sul poema: aveva raccolto le Rime in quattro volumi, e con l'editore veneziano Giolito parlava della possibilità di stampare tutte le opere (esclusa la Gerusalemme) in sei libri. A tutto questo va aggiunto un nuovo lavoro che aveva intrapreso, lasciandolo poi incompiuto. La genealogia di Casa Gonzaga, con dedica a Vincenzo, si interruppe dopo centodiciannove ottave, per essere pubblicato solo nel 1666, tra le Opere non più stampate dell'edizione romana Dragondelli.[96] Il poemetto è sicuramente trascurabile, fatto di una versificazione fredda, appesantita da nozioni e nomi. Tra le fonti il ruolo principale è stato svolto da un regesto di Cesare Campana, Arbori delle famiglie... e principalmente della Gonzaga, uscito a Mantova l'anno prima, e dall'Historia sui temporis di Paolo Giovio, accanto a cui va ricordata la tradizione orale legata alla battaglia del Taro. La calma, tuttavia, era ormai un ricordo di gioventù, e ogni soggiorno diventava insopportabile dopo un certo numero di mesi. Così, ridiscese la penisola, con l'intenzione di raggiungere nuovamente Roma. Il viaggio fu travagliato e appesantito dal fatto che Tasso si ammalò più volte durante il tragitto, costretto a sostare in varie località, fra cui Firenze. Giunto nell'Urbe, ricevette l'ospitalità di Cataneo. Poche settimane dopo era ancora in viaggio, diretto a Napoli  A questo punto, inaspettatamente, ci fu spazio per qualche luce e qualche reale soddisfazione. Il soggiorno napoletano non tradì, né per quanto riguarda l'accoglienza ricevuta (fu ospitato dal principe di Conca Matteo di Capua e poi da Manso con grandi onori e affetto), né sulle questioni letterarie, né su quelle relative alla salute dell'artista. In effetti, in virtù della «purità dell'aria, comincia a sentirsi meglio, e di conseguenza poté dedicarsi in modo più proficuo alle proprie attività. In questi mesi completò la Conquistata, e, sempre durante il soggiorno partenopeo, mise mano all'ultima opera significativa, Le sette giornate del Mondo creato. Gli ultimi tre anni di vita lo videro prevalentemente a Roma. L'elezione al soglio pontificio di Clemente VIII lo fece venire nell'Urbe, e anche qui ebbe un trattamento decisamente migliore rispetto alle recenti esperienze. Poté infatti alloggiare nel palazzo dei nipoti del Papa, Pietro e CinzioAldobrandini, in procinto di diventare cardinali. Cinzio sarà di fatto il vero mecenate dell'ultimo periodo. La produzione letteraria ebbe nuovi sussulti, consacrandosi ormai quasi esclusivamente agli argomenti sacri: compose i Discorsi del poema eroico e altri Dialoghi, carmi latini e rime religiose. Addolorato per la morte di Scipione Gonzaga, gli dedicò, nel marzo 1593, Le lagrime di Maria Vergine e Le lagrime di Gesù Cristo.Tasso aveva intanto finito di rivedere il poema, e sempre nel 1593 vide la luce a Roma, per i tipi di Guglielmo Facciotti, la Gerusalemme conquistata.  Esistono inoltre chiare testimonianze del fatto che ci fosse l'intenzione di incoronare Tasso in Campidoglio, nonostante alcuni studiosi si siano osti negarlo e a considerarla un'invenzione del poeta. È veramente degno il Signor Torquato Tasso di esser celebrato in questi medesimi tempi come raro per la sua poesia, ed è parimente degno della grandezza dell'animo del Signor Cinzio Aldobrandini di erigergli una statua laureata, con mill'altre cerimonie e specie, come dicono che tosto si vedrà, e dargli luogo in Campidoglio fra le più degne ed antiche cerimonie [...]», rivela Matteo Parisetti in una lettera ad Alfonso II, risalente all'agosto del Lo stesso Tasso è esplicito al riguardo: «Qui in Roma mi voglion coronar di lauro», scrive al Granduca di Toscana il 20 dicembre 1594, «o d'altra foglia». Sennonché, pur essendo ancora bisognoso di soldi e continuando a fare richiesta per ottenerli, il poeta sentiva sempre più lontane le preoccupazioni del mondo, e sempre meno si curava della vanità e dei successi terreni. La salute, dopo la parentesi napoletana, andava aggravandosi nuovamente, e Torquato cominciava a capire che la fine non era lontana. Per questo ritornò alle falde del Vesuvio, per concludere rapidamente in proprio favore la questione legata all'eredità materna: il risultato fu soddisfacente, acconsentendo il principe di Avellino a versargli duecento ducati all'anno, ai quali vanno aggiunti cento ducati annui che il Papa si risolverà a dargli a partire dal febbraio 1595.  A Napoli rimase dal giugno al novembre del 1594, alloggiato al monastero benedettino di san Severino, sempre più votato alla vita monastica e attratto ancora dalla letteratura agiografica. Fu probabilmente nei mesi trascorsi presso i benedettini che Tasso abbozzò l'incompiuta Vita di San Benedetto. Alla fine dell'anno ritornò a Roma.  Cambiò città per l'ultima volta: la fine era dietro l'angolo. Riconosciuta la definitiva infermità che gli rendeva ormai impossibile scrivere e correggere, non sentì più che un ultimo bisogno, tralasciando tutto il resto, il bisogno della «fuga dal mondo». Entra al monastero di S. Onofrio, sul Gianicolo, senza più nemmeno curarsi del fatto che il Mondo creato non era stato ancora rivisto. Tutto svaniva, di fronte all'importanza di prepararsi al trapasso: «Che dirà il mio signor Antonio, quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio avviso non tarderà molto la novella, perch'io mi sento al fine de la mia vita. Non è più tempo ch'io parli de la mia ostinata fortuna, per non dire de l'ingratitudine del mondo». Tutto perdeva importanza, a fronte della dolcezza della «conversazione di questi divoti padri», che cominciava «la mia conversazione in cielo. Monumento in Sant'Onofrio Il 25 aprile, all'«undecima ora». Tasso muore. E una morte serena, ricevuta con tutti i conforti dei sacramenti.La morte  del Tasso è stata accompagnata da una particolar grazia di Dio benedetto, perché in questi ultimi giorni le duplicate confessioni, le lagrime e insegnamenti spirituali pieni di pietà e di giudizio, mostrarono che fosse affatto guarito dall'umor malinconico, e che quasi uno spirito gli avesse accostato al naso l'ampolle del suo cervello. Venne sepolto nella Chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo.  Presso il monastero, accanto alla strada è ancora visibile la rampa della quercia, dove si trova il tronco nero di una quercia secolare sostenuto da un sopporto metallico. Secondo la tradizione locale si tratta della cosiddetta quercia del Tasso, l'albero alla cui ombra il poeta spesso sedeva per riposarsi.  Albero genealogico Reinerius de Tassis Sconosciuta Omedeo Tasso ( Sconosciuta Ruggero Tasso SconosciutaBenedetto Tasso SconosciutaPalazzo de Tassis Tonola de Magnasco, Pasimo (o Paxio) de Tassis. SconosciutaPietro Tasso. SconosciutaGiovanni Tasso  Catalina de Tassi Gabriel Tasso Porzia de RossiBernardo Tasso Torquato Tasso Opere  Un ritratto a Sorrento. Gerusalemme Scritto quando egli aveva solo 15 anni il Gierusalemme rappresenta il primissimo tentativo di Tasso di maneggiare il genere epico nonché il suo primo impegno letterario di rilievo. Se ne possiedono soltanto centosedici stanze del canto I. Oltre a condividere con la Liberata l'argomento (la prima Crociata), si notano pure alcune somiglianze tra il proemio di questo esordio poetico giovanile e quello del capolavoro della maturità.  Rinaldo All'età di diciotto anni Tasso riprese la materia del romanzo cavalleresco e pubblicò il Rinaldo, poema in ottave che narra in dodici canti la giovinezza del paladino della tradizione carolingia e le sue imprese di armi e di amori. Nella prefazione al poema Tasso dichiara di voler imitare in parte gli "antichi" (Omero e Virgilio), in parte i "moderni" (Ariosto). Si concentra però su un unico protagonista, secondo le esigenze di unità proposte dall'aristotelismo. Si tratta di un'opera tipicamente giovanile, ancora priva di originalità, ma compaiono già alcuni temi e toni fondamentali che caratterizzeranno il Tasso maturo e formato culturalmente.  Rime Torquato Tasso compose un gran numero di poesie liriche, lungo l'arco di tutta la sua vita. Le prime furono pubblicate col titolo di Rime degli Accademici Eterei. Uscirono Rime e prose. Tasso lavorò fino al 1593 ad un riordino complessivo dei testi, distinguendo rime amorose e rime encomiastiche. Previde poi una terza sezione, dedicata alle rime religiose e una quarta di rime per musica, ma non realizzò il progetto.  Nelle Rime amorose è ben riconoscibile l'influenza della poesia petrarchesca e della vasta produzione petrarchistica del Quattrocento e Cinquecento; contemporaneamente, però, il gusto per le preziosità linguistiche e l'intensa sensualità rivelano l'evoluzione verso un linguaggio nuovo che maturerà nel Seicento. L'uso frequente di forme metriche poco usate dai poeti precedenti, come il madrigale, e la raffinata musicalità dei versi fecero sì che molti di essi fossero musicati da grandi autori come Claudio Monteverdi e Gesualdo da Venosa.  Più solenni e classicheggianti le Rime encomiastiche, dedicate alle figure e alle famiglie signorili che ebbero rilievo nella vita del poeta. Per la loro creazione si ispira a Pindaro, Orazio e al celebre Monsignor della Casa. Fra tutte, la più famosa è la Canzone al Metauro, intessuta di elementi autobiografici.  Le Rime religiose sono caratterizzate dal tono cupo e plumbeo, forse dovuto al fatto che le scrisse negli ultimi anni di vita. Qui il poeta manifesta il desiderio di sconfiggere l'ansia esistenziale e il tormentoso senso del peccato attraverso la fede e l'espiazione.  Discorsi dell'arte poetica Attorno alla metà degli Anni Sessanta scrisse i quattro libri dei Discorsi dell'arte poetica ed in particolare sopra il poema eroico, letti all'Accademia Ferrarese e pubblicati molto più tardi, nel 1587, dal Licino. Il testo fornisce una chiara visione della concezione tassesca del poema eroico, piuttosto distante da quella ariostesca, che dava la prevalenza all'invenzione e all'intrattenimento del pubblico.  Perché possa essere giudicato di buon livello, deve basarsi su un evento storico, da rielaborare in modo inedito. Infatti, «la novità del poema non consiste principalmente in questo, cioè che la materia sia finta, e non più udita; ma consiste nella novità del nodo e dello scioglimento della favola. Al verosimile deve essere unito il meraviglioso, e Tasso trova l'unione perfetta di queste due componenti nella religione cristiana. Intiera, l'opera deve essere una, ossia prevedere l'unità d'azione, ma senza schemi rigidi: ci può essere largo spazio per la varietà, e per la creazione di numerosi racconti nel racconto, e in questo senso la Gerusalemme liberata costituisce una piena realizzazione delle idee dell'autore. Lo stile, infine, deve adeguarsi alla materia, e variare tra il sublime e il mediocre a seconda dei casi.  Aminta Magnifying glass icon mgx2.svg Aminta (Tasso).  Le sofferenze di Aminta, dipinto di Bartolomeo Cavarozzi «L'Aminta non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto lirico, narrazione drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le tragedie e le commedie e i così detti drammi pastorali in Italia … Essa è in fondo una novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco che dominava nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due protagonisti, Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a monologhi e capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei piace, ei lice". Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di caratteri e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni, sentenze, movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale, piena di grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima. Semplicità molta è nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di eleganza guadagna di naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo. Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un'apparenza pastorale a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la stessa semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di perfezione, e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.»  (De Sanctis) L'Aminta è una favola pastorale. Presenta un prologo, 5 atti, un coro. Ogni canto si conclude a lieto fine.  Ha ispirato la composizione della favola pastorale Flori di Maddalena Campiglia lodata dallo stesso Tasso. Sulle ali dell'entusiasmo per il successo dell'Aminta Tasso incominciò una tragedia, Galealto re di Norvegia, che però interruppe alla seconda scena del secondo atto. Il poeta la riprese e la completò a Mantova, subito dopo la liberazione dall'Ospedale di Sant'Anna cambiando però il titolo, diventato Re Torrismondo, e il nome del protagonista. L'ambientazione è nordica: in essa sono frequenti le immagini di distese boschive. In questo, il Tasso mostra la sua forte curiosità per le leggende nordiche, come ad esempio mostra la lettura dell'Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno.  L'editio princeps è quella bergamasca del 1587; seguirono a ruota le edizioni di Mantova, Ferrara, Venezia e Torino, ma poi ci fu un lungo silenzio. L'opera fu rappresentata per la prima volta soltanto al Teatro Olimpico di Vicenza.  Trama Torrismondo è intimamente segnato dal conflitto tra amore e amicizia: il sovrano (d'una ignota regione nordica, non di Norvegia) ama Alvida, che a causa di un debito passato (Germondo aveva salvato la vita a Torrismondo) deve sposarsi con l'amico Germondo, re di Svezia, regno nemico a quello di Alvida poiché Germondo stesso era stato accusato di omicidio del fratello di Alvida. Germondo dunque non può sposarsi con la donna amata poiché il padre di quest'ultima lo odia. Germondo decide allora che Torrismondo per sdebitarsi avrebbe dovuto chiedere la mano di Alvida e al momento delle nozze avrebbe dovuto scambiare la sposa. Ottenuta da Torrismondo la mano di Alvida i due consumano l'amore. La storia prenderà un'altra china quando Torrismondo scoprirà che la donna amata non è altri che la sorella, la situazione culminerà nel suicidio dei due. Il Re Torrismondo è molto importante perché anticipa le tragedie barocche, nelle quali si riprendono alcune caratteristiche fondamentali delle tragedie senecane: la meditatio mortis (il Memento mori) e il gusto dell'orrido. Nel Tasso, però, ciò che compare fortemente e caratterizza le sue tragedie è il conflitto intimo che dilania l'animo dei personaggi: l'uomo si sente intrappolato dal fato, poiché impossibilitato all'agire, a modificare il corso degli eventi ormai già predisposti.  Tuttavia, la critica non si è espressa positivamente in merito all'opera: Solerti ed Ovidio si sono mostrati ostili verso il Torrismondo come lo erano stati nei confronti degli Intrichi d'amore, e severo si è dimostrato anche Umberto Renda, che alla tragedia ha dedicato una monografia.  Ancora più duro il giudizio di Eugenio Donadoni, che arrivò a parlare di «opera di un ex-poeta, non più di un poeta,  e nemmeno Giosuè Carducci, pur apprezzando lo sforzo di unire elementi pagani e religiosi, classici ed esotici, ha ritenuto il dramma degno dell'ingegno tassesco. Solo Tonelli fa presente che superava pur sempre «la maggior parte delle tragedie cinquecentesche e rivaleggiava con le migliori del tempo. Gerusalemme liberata Gerusalemme liberata.  Tasso con la sua Gerusalemme liberata La Gerusalemme liberata è considerata il capolavoro di Tasso. Il poema tratta di un avvenimento realmente accaduto, ossia la prima crociata. Tasso iniziò a scrivere l'opera con il titolo di Gierusalemme durante il soggiorno a Venezia. L'opera fu pubblicata integralmente con il titolo di Gerusalemme liberata. In seguito alla pubblicazione del poema il poeta rimise mano all'opera e la riscrisse eliminando tutte le scene amorose e accentuando il tono religioso ed epico della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme conquistata. In realtà la Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad avere grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri, fu la Liberata.  Trama Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra raduna i crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio Gerusalemme. Uno dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato Tancredi. Chi vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per il sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui Tancredi, in un castello incantato. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro crociato che lo aveva offeso viene cacciato via dal campo. Il giorno del duello arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli eroi imprigionati liberati da Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una torre per dare l'assalto a Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama, Tancredi, che non l'aveva riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo l'apparizione in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire la torre. L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero della maga Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e alla fine lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e permette ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme. I Dialoghi La stesura di prose dialogiche impegnò Tasso fin dal 1578, anno della composizione del Forno overo de la Nobiltà.  La dialogistica tassiana è stata da sempre relegata al margine dalla critica: De Sanctis accenna soltanto al Minturo overo della Bellezza, limitandosi ad asserire che Tasso da giovane fu “infetto dalla peste filosofica”. Un giudizio a dir poco sminuente se si considera che il poeta compose venticinque dialoghi (e questa è solo la cifra canonica; non si fa riferimento, infatti, agli abbozzi e ai rimaneggiamenti) e vi pose il suo impegno fino alla morte.  Una valutazione più precisa è fornita da Donadoni: lo studioso dedica un intero capitolo della sua monografia ai Dialoghi indagandone trame, fonti e suggestioni. La prima edizione moderna del corpus dialogico tassiano è quella di Guasti, il quale, però, non riuscendo a reperire tutti i manoscritti dei Dialoghi si basa sui testimoni a stampa, dando vita ad un’edizione, che presenta corruttele da far rabbrividire i moderni filologi.  Un grande passo in avanti nella fortuna dei Dialoghi è rappresentato dall’edizione critica di Ezio Raimondi pubblicata nel 1958, di capitale importanza per gli studiosi tassiani i quali, ancora oggi, continuano a considerarla punto di riferimento. Raimondi considerò i Dialoghi tassiani come opere postume, scegliendo la versione più attendibile fra manoscritti e stampe in base alla loro storia individuale.  Questo criterio non è stato accettato da Stefano Prandi e Carlo Ossola, i quali hanno proposto un’edizione storica dei Dialoghi che tenesse conto dei testi effettivamente circolanti all’epoca dello scrittore. L’edizione in realtà non ha mai visto la luce e si è fermata ad uno specimen che avrebbe dovuto anticipare una successiva edizione completa.  Negli ultimi anni gli studiosi della prosa tassiana sono aumentati: si è posta attenzione al Tasso politico, con due edizioni commentate della Risposta di Roma a Plutarco e al Tasso egittologo di cui si è occupato Bruno Basile. Non mancano letture dei singoli dialoghi: Basile e Arnaldo Di Benedetto si sono occupati del Padre di Famiglia (rispettivamente, Fonti culturali e invenzione letteraria nel «Padre di famiglia» di Torquato Tasso; e Torquato Tasso, «Il padre di famiglia»); Emilio Russo del Manso (Amore e elezione nel "Manso" di Tasso), Massimo Rossi del Malpiglio Secondo e del Rangone (Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei "Dialoghi" di Tasso); Maiko Favaro, dopo la monografia di Prandi/Ossola, ha offerto una puntuale lettura del Forno, premiata con il premio Tasso  (Le virtù del tiranno e le passioni dell’eroe. Il “Forno overo de la Nobiltà” e la trattatistica sulla virtù eroica); Angelo Chiarelli si è, invece, occupato del Malpiglio overo de la corte (Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana), preceduto dal contributo di Massimo Lucarelli sullo stesso argomento (Il nuovo «Libro del Cortegiano»: una lettura del «Malpiglio» di C.) e del Costante («Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso).  L'edizione critica di Raimondi fornisce il testo dei venticinque dialoghi tassiani, con un'appendice che ci permette di conoscere i manoscritti superstiti e le stampe. Questo il titolo dei vari dialoghi:  Il Forno overo de la Nobiltà; Il Beltramo overo de la cortesia; Il Forestiero Napoletano overo de la gelosia; Il N. overo de la pietà; Il Nifo overo del piacere; Il messaggiero; Il padre di famiglia; De la dignità; Il Gonzaga secondo overo del giuoco; Dialogo; Il Rangone overo de la pace; Il Malpiglio overo de la corte; Il Malpiglio secondo overo del fuggir la moltitudine; La Cavalletta overo de la poesia toscana; Il Gianluca overo de le maschere; Il Cataneo overo de gli idoli; Il Ghirlinzone overo l'epitaffio; La Molza overo de l'amore; Il Costante overo de la clemenza; Il Cataneo overo de le conclusioni amorose; Il Manso overo de l'amicizia; Il Ficino overo de l'arte; Il Minturno overo de la bellezza; Il Porzio overo de le virtù; Il Conte overo de le imprese. Le sette giornate del mondo creato È un poema in endecasillabi sciolti, accanto ad altre opere di contenuto religioso di impronta chiaramente controriformistica. Il poema venne pubblicato postumo. Si fonda sul racconto biblico della creazione ed è suddiviso in sette parti, corrispondenti come dice il titolo ai sette giorni nei quali Dio creò il mondo, e presenta una continua esaltazione della grandezza divina della quale la realtà terrena è un pallido riflesso.  Le lacrime di Maria Vergine e Le lacrime di Gesù Cristo Si tratta, come nel caso de Le sette giornate del mondo creato, di due scritti facenti parte delle cosiddette "opere devote" del Tasso. Nello specifico, sono due poemetti in ottave che riprendono la tradizione della "poesia delle lacrime", in voga nella seconda metà del Cinquecento, appena qualche anno prima della morte.  Influenze culturali  Statua di Tasso a Sorrento La figura del Tasso, anche per la sua pazzia, divenne subito popolare. La lucidità delle opere scritte durante il periodo di prigionia nell'Ospedale di Sant'Anna fece diffondere la leggenda secondo cui il poeta non era veramente pazzo ma fu fatto passare per tale dal duca Alfonso che voleva punirlo per aver avuto una relazione con sua sorella, imprigionandolo (anche se, come si è visto, è assai più probabile che la vera ragione della reclusione consistesse nell'autoaccusa del poeta di fronte al tribunale dell'Inquisizione). Questa leggenda si diffuse rapidamente e rese particolarmente popolare la figura del Tasso, fino a ispirare a Goethe il dramma C..  In età romantica il poeta divenne il simbolo del conflitto individuo-società, del genio incompreso e perseguitato da tutti coloro che non sono in grado di comprendere il suo talento straordinario. In particolare Giacomo Leopardi, che quando si recò a Roma il giorno venerdì 15 febbraio del 1823 pianse sul sepolcro del Poeta in S. Onofrio (commentando in una lettera che quella esperienza era stata per lui "il primo e l'unico piacere che ho provato in Roma"), considerava Torquato Tasso come un fratello spirituale, ricordandolo in numerosi passi dei propri scritti (tra cui quello citato) e nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (una delle Operette morali).  Molta parte della poesia recanatese è impregnata di stile tassesco: i notturni di alcuni canti, come La sera del dì di festa o Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, richiamano quelli della Gerusalemme, mentre nella canzone Ad Angelo Mai Leopardi crea una forte empatia con il «misero Torquato, spirito fraterno «concepito come un alter ego. I due nomi femminili più celebri presenti nei Canti, Silvia e Nerina, furono ripresi dall'Aminta.  In generale, l'attenzione si spostò dai personaggi della Liberata al dramma esistenziale vissuto dal suo autore. Ferretti scrisse le parole del Torquato Tasso, melodramma in tre atti musicato da Gaetano Donizetti e rappresentato per la prima volta al Teatro Valle. Il "mito" conquistò anche Franz Liszt: era quando l'apostolo del Romanticismo metteva in musica l'opera byroniana Il lamento del Tasso, dando vita al poema sinfonico Tasso. Lamento e Trionfo.  Il poeta vicentino ottocentesco Jacopo Cabianca ha dedicato al Tasso un poema in dodici canti intitolato appunto Il Torquato Tasso.  Nei primi anni del ventesimo secolo il compositore catanese Pietro Moro si concentrò sugli ultimi momenti di vita del poeta con Ultime ore di Torquato Tasso, carme in un atto sulle parole di Giovanni Prati (riviste per l'occasione da Rojobe Fogo).  Torquato Tasso nel cinema Torquato Tasso, regia di Luigi Maggi, Torquato Tasso, regia di Roberto Danesi. Adattamenti cinematografici de La Gerusalemme liberata Il primo regista a girare un film sull'opera fu Enrico Guazzoni. Ne farà due remake;  Gerusalemme liberata, di Enrico Guazzoni; La Gerusalemme liberata, di E. Guazzoni); La Gerusalemme liberata, di Carlo Ludovico Bragaglia; I due crociati, parodia di Giuseppe Orlandini con Franco e Ciccio. Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus, Laurea poetica nastrino per uniforme ordinariaLaurea poetica (postuma) — Roma. Giovan Pietro D'Alessandro, Vita di Torquato Tasso, ed. da C. Gigante, in «Giornale storico della Letteratura Italiana», Giovan Battista Manso, Vita di Torquato Tasso, B. Basile, Roma, Salerno Editrice, Pier Antonio Serassi, La vita di Torquato Tasso, Bergamo, Stamp. Locatelli, 2 to. Solerti, Vita di C., Torino-Roma, Loescher, Tonelli, C., Torino, Paravia, Giulio Natali, Torquato Tasso, Roma, Tariffi, Capitoli di storie letterarie Ettore Bonora, in Storia della letteratura italiana, dir. E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti, Marziano Guglielminetti, in Storia della civiltà letteraria italiana, dir. G. 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Dal petrarchismo a Torquato Tasso, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Massimo Colella, «Parmi ne’ sogni di veder Diana». Emersioni seleniche nelle Rime di Torquato Tasso, in «Griseldaonline», 1Sull'«Aminta» Mario Fubini, L'«Aminta»: intermezzo alla tragedia della «Liberata», in Studi sulla letteratura del Rinascimento, Accorsi, «Aminta»: ritorno a Saturno, Soveria Mannelli, Rubbettino, Arnaldo Di Benedetto, Il sorriso dell'«Aminta», in «Giornale storico della letteratura italiana», Arnaldo Di Benedetto, Tasso, Haller, Ungaretti, in «Studi tassiani», Sui Dialoghi A. Benedetto, Torquato Tasso, «Il padre di famiglia», in L'«incipit» e la tradizione letteraria italiana. Dal Trecento al tardo Cinquecento, Pasquale Guaragnella e Stefania De Toma, Lecce-Brescia, Pensa MultiMedia, Chiarelli, «Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in «Filologia e Critica», Angelo Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura italiana»,  Raimondi Ezio, Il Problema Filologico e Letterario dei Dialoghi di T. Tasso, in Rinascimento Inquieto, Einaudi, Torino. Bozzola Sergio, «Questo quasi arringo del ragionare». La Tecnica dei «Dialoghi» Tassiani, in «Italianistica, Rivista di Letteratura Italiana», Baldassarri Guido, L’arte del dialogo in Torquato Tasso, in «Studi Tassiani»,  Guido Armellini e Adriano Colombo, Torquato TassoL'uomo, in Letteratura italianaGuida storica: Dal Duecento al Cinquecento, Zanichelli Editore, Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palumbo, L. Tonelli, C., Torino); Lettere di Torquato Tasso (Firenze, Le Monnier); L. Tonelli, G. Natali, Torquato Tasso, Roma, G. Natali, cA. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino. Altri pensano invece che queste sperimentazioni risalgano al periodo patavino o addirittura a quello bolognese.  G. Natali, cit.,   Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palumbo, G. Natali, cG. Natali, Tonelli, cit.68  G. Natali,  L. Tonelli, Durante, A. Martellotti, «Giovinetta Peregrina». La vera storia di Laura Peperara e Torquato Tasso, Firenze, Olschki,   W. Moretti, C., Roma-Bari Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Milano: Paravia,  L. Tonelli, cil rapporto amoroso è stato ipotizzato in particolare da Angelo de Gubernatis in T. Tasso, Roma, Tipografia popolare, L. Tonelli, c Lettere, cit., I22  L. Tonelli, cit.89  L. Tonelli, Lettere, cit., I49  Secondo Doglio la data non è casuale e si inserirebbe nella tradizione petrarchesca. Petrarca avrebbe infatti visto per l'unica volta Laura, cfr. Doglio, Origini e icone del mito di C., Roma Lettere, c Lettere,  Lettere, Si tratta di un'epistola al Gonzaga; Lettere, cit.,  L. Tonelli S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario, Milano, Principato, L. Tonelli, Lettere,  Si trattava comunque di uno stipendio oggettivamente basso, che a una persona comune avrebbe garantito a stento la sopravvivenza; L. Tonelli, cit.172  Lettere, L. Chiappini, Gli Estensi, Milano, Dall'Oglio, A. Solerti, cA. Solerti, cit., II,  120-121  A. Solerti, L. Tonelli, cit. G. B. Manso, Vita del Tasso, in Opere del Tasso, Firenze, M. Vattasso, Di un gruppo sconosciuto di preziosi codici tasseschi, Torino, M. Vattasso, cA. Solerti, L. Tonelli, c M. L. Doglio, I. De Bernardi, F. Lanza, G. Barbero, Letteratura Italiana,  2, SEI, Torino, Lettere, cit., I298  Lettere, cit., I299  A. Solerti, ccosì scrive al cardinale Luigi un suo informatore L. Tonelli, Lettere, Tonelli, Solerti,  Lettere, Guasti, Napoli, Rondinella,  A. Corradi, Delle infermità di Torquato Tasso, Regio Instituto Lombardo, Tonelli, M. L. Doglio, cit.,  41 e ss.  Opere di Torquato Tasso, Firenze, Tartini e Franchi, L. Tonelli, cInfarinato era il nome accademico assunto dal Salviati  Tra parentesi sono indicate le date di pubblicazione  L. Tonelli, Opere, cit., Tra parentesi si indicano due date, quella di composizione e quella di pubblicazione  Lettere.  La prima versione di quelli che saranno Gli intrichi d'amore non ci è pervenuta  L. Tonelli, L. Tonelli, Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, Non fu più tenero il Solerti; L. Chiappini, c L. Tonelli, cit.188  L.Tonelli,  Solerti, cLettere, L. Tonelli, cit.,  266-267  Lettere, c L. Tonelli, Mazzoni, Del Monte Oliveto e del Mondo creato di C., in Opere minori in versi di Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli,  E. Donadoni, C., Firenze, Battistelli,  G. B. Manso, Vita di T. Tasso, in Opere di C., Firenze; Lettere, Così al Costantini; Lettere,   Lettere,  L. Tonelli, Passo riportato in A. Solerti, A. Solerti,   L. Tonelli, Lettere,  Lettere, cit.,Lettere, cit., Lettere, A niuno sono più obligato che a Vostra Eccellenza, ed a niuno vorrei essere maggiormente; perché è cosa da animo grato l'esser capace de le grazie e de gli oblighi. Laonde non ho voluto più lungamente ricusare il secondo suo dono di cento scudi, bench'io non abbia mostrato ancora alcuna gratitudine del primo; ma la conservo ne l'animo, e ne le scritture: e ne l'uno sarà forse eterna, e ne l'altre durerà tanto, quanto la memoria de le mie fatiche. Niuno de' presenti o de' posteri saprà chi mi sia, che non sappia insieme quant'io sia debitore a la cortesia di Vostra Eccellenza, ed a la sua liberalità; con la quale supera tutti coloro che possono superar la fortuna." Così scrive il Tasso al marchese Giovanni Ventimiglia da Firenze. Soltanto C. dedica al marchese due composizioni encomiastiche, non portando però a compimento il promessogli poema Tancredi normando.  Lettera a Scipione Gonzaga, Lettere. E. Rossi, Il Tasso in Campidoglio, in Cultura, Lettere, cit., V6  L. Tonelli, cit.278  Lettere, cit., V62  L. Tonelli, Cipolla, Le fonti storiche della «Genealogia di Casa Gonzaga», in Opere minori in versi di Torquato Tasso, cit.,  I  L. Tonelli, G. B. Manso, L.Tonelli, L. Tonelli, E. Rossi, c A. Solerti, Lettere, cit., Lettere, cLettera ad Antonio Costantini, in Lettere, Lettera di Maurizio Cataneo a Ercole Tasso; A. Solerti, cit., II363  Lettera di monsignor Quarenghi a Giovan Battista Strozzi, A. Solerti, cAlmanach du gotha, de J.-H. de Randeck, Les plus anciennes familles du monde: répertoire encyclopédique des 1.400 plus anciennes familles du monde, encore existantes, originaires d'Europe,   de Karl Hopf, Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de A. M. H. J. Stokvis, Manuel d'histoire: Les états de Europe et leurs colonies, de Pierantonio Serassi, La vita de Torquato Tasso8.  de Niccolò Morelli di Gregorio, Della vita di Torquato Tasso, de Pierantonio Serassi, La vita di Torquato Tasso10.  (DE) de Karl Hopf, Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de Heinrich Léo Dochez, Histoire d'Italie pendant le Moyen-âge C., Discorsi dell'arte poetica, I, 12 in Le prose diverse di Torquato Tasso (C. Guasti), Firenze, Monnier, Discorsi dell'arte poetica, cit., I, 15  A. Solerti, F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, U. Renda, Il Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica nel Cinquecento, Teramo, E. Donadoni, G. Carducci, Il Torrismondo, testo premesso all'ed. Solerti delle Opere minori in versi di Torquato Tasso, L. Tonelli, C., Risposta di Roma a Plutarco, Res, Risposta di Roma a Plutarco e marginalia | Edizioni di Storia e Letteratura, su storiaeletteratura. Angelo Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura italiana». Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in «Filologia e Critica», Sul muro esterno della Chiesa di S. Onofrio, a Roma, una tavola con iscrizione tedesca ricorda il soggiorno di Goethe e l'ispirazione che lo portò a scrivere il dramma, dopo aver veduto la tomba del poeta custodita all'interno dell'edificio sacro  Ad Angelo Mai, v. 124  Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo, Milano, Paravia, Failla, Ante Musicam Musica. C. nell'Ottocento musicale italiano, Acireale-Roma, Bonanno, Emersioni seleniche nelle Rime di C. Colella | Griselda Online, su griseldaonline. 2Torquato Tasso, commedia goldoniana Tasso, dramma di Goethe, Torquato Tasso, opera di Gaetano Donizetti Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, dalle Operette morali di Giacomo Leopardi Thurn und Taxis, ramo austriaco della famiglia Tasso di Bergamo, fondatori delle prime poste europee Museo tassiano, museo dedicato a Torquato Tasso Accademia dei Catenati Cella del Tasso, attuale ubicazione a Ferrara. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Torquato Tasso, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Torquato Tasso, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  To Tasso, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Torquato Tasso, su Liber Liber.  Opere di C., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Torquato Tasso,. Opere Progetto Gutenberg. Libri Vox. C., in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Spartiti o libretti di Torquato Tasso, su International Music Score Library Project, Project Petrucci Tasso, su Internet Movie Database, IMDb.com.  Torquato Tasso Testi completi e cronologia delle opere. Opere integrali in più volumi dalla collana digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza Opere di C., testi con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza Due segregazioni: il Cantico spirituale di Giovanni della Croce e Il Re Torrismondo di C., su midesa). Opere di C. colle controversie sulla Gerusalemme poste in migliore ordine, ricorrette sull'edizione fiorentina, ed. illustrate dal professore Gio. Rosini, Pisa, presso Niccolò Capurro, Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di tempo e illustrate da Cesare Giusti, 5 voll., Firenze, Felice Le Monnier, I dialoghi, Cesare Guasti, Firenze, Felice Le Monnier, Le rime di Torquato Tasso. Edizione critica su i manoscritti e le antiche stampe Angelo Solerti, Bologna, presso Romagnoli-Dall'Acqua, Opere di C..  DELL'ARTE DEL DIALOGO. Voi mi pregate, pad* molto reverendo, nelle vostre lettere, eh' io voglia darvi alcuno ammaestramento: e i chiedete, se non m'inganno,  dello scrivere i dialoghi, perchè son quelle medesime nelle quali m'avvisate d' aver ricevuti quelli della poesia toscana e della pace. E se  propriamente ragionale, io non posso compiacervi, perchè tanto a me  disdioevol sarebbe la persona di maestro, quanto a voi quella di scolare: né rifiutandola io temo di poterne esser biasimato, come Giotto, perch'agli ricusò convenevole onore: io non accetto ufficio non conveniente. Bla se volete onorarmi con questo nome, e ammaestramento  chiamate l' opinione» io la scriverò; perchè niuna cosa debbo tenervi celata, la qual possa giovar agli altri, oppure a me stesso'; ed allora stimerò buone le mie ragioni» che dal vostro giudicjo saran confermate.  E se -delle regola avviene quel che delie leggi : siccome altre leggi hanno  i Genovesi diverse da quelle oV Veneziani o de/ Ragusei, oasi potrebbero avere altri precetti nell'artificio del bene scrivere» Ma io non gli  voglio dar questo nome, nò voi gliele scrivete in fronte ; perciocché io  l'ho raccolte in un'operetta assai breve per assomigliar alcuni dottori  cortigiani, i quali' non potendo sostener persona così grave, vestono di  corto. E a' in questo abito potranno sensa fastidio esser lette dagli amid  ' e da parenti, non v' incresca di leggere.Nell'imitazione o s'imitano l' azioni degli uomini o i ragionamenti:  e quantunque poche operazioni si facciano alla mutola, e pochi discorsi  senza operazione, almeno dell' intelletto, nondimeno assai diverse giudico quelle da questi : e degli speculativi è proprio il discorrere, siccome degli attivi l'operare. Due sàran dunque i primi generi dell'imitazione: l'un dell'azione, nel quale son rassomigliati gli operanti:  l' altro delle parole, nel quale sono introdotti i ragionanti. E. 1 primo  genere si divide in altri, che sono la tragedia e la commedia, ciascuna  delle quali patisce alcune divisioni: e '1 secondo si può divider parimente. Ed Aristide un de' più famosi Greci, i quali scrissero e non  parlarono, così parve che gli dividesse, dicendo che Platone avea comicamente rappresentato Ippia, Prodico, Protagora, Gorgia, Eutedemo,  Bonisidoro, Agatone, Cinesia e gli altri: e ch'egli medesimo chiama le  sue leggi tragedia, e si confessa ottimo tragico. Ma tra' moderni v*è  chi gli divide altramente, facendone tre specie: l'una delle quali può  montare in palco, e si può nominare rappresentativa, perciocché in essa   vi siano persone introdotte a ragionare cioè in alto, com' è usanza   di farsi nelle commedie e nelle tragedie: e simil maniera è tenuta da  Platone nei suoi Ragionamenti, e da Luciano ne' suoi; ma un'altra ce  n' è, che non può montare in palco, perciocché conservando1' autore  la" sua persona, come isterico narra quel che disse il tale e '1 cotale:  e questi due ragionamenti si possono domandare istorici o narrativi, e  tali sono per- lo più quelli di Cicerone. E c'è ancora la terza maniera  ed è di quelli, che son mescolati della prima e della seconda maniera,  conservando l'autore la sua prima persona, e narrando come istorio):  e poi introducendo a favellar tyafiarix&s come s'usa <fi far nelle tragedie e nelle commedie: e può e non montare in palco, cioè non può  montarvi, in quanto l' autore conserva la sua persona ed è come 1* istorico: e può montarvi in quanto s'introducono le persone rappresentativamente a favellare: e Cicerone fece alcuni ragionamenti sì fatti. E  quantunque questa- divisione sia tolta dagli antichi e paia diversa dall' altra, nondimeno l'intenzione forse è l'istessa; perchè la tragedia si  divide in quella che si dice tragedia propriamente, e nell'altra nella  qual parla il poeta: e tragedia sì fatta compose Omero. E questa divistone perchè è fatta in due membri, è più perfetta; nondimeno i àiaIoghi sono stati detti tragici e comici per similitudine, perchè le tragedie e le commedie propriamente sono l'imitazione dell'azione; però  tragici si posson chiamar sopra tutti gli altri il Critone e 1 Fedone: Dell' un de' quali Socrate condannato alla morte, ricusa di fuggirsene  con gli amici: nell'altro dopo lunga deputazione dell' immortalità dell'anima bee il veleno. E comico è il convito nel quale Aristofane è  impedito dal rutto nel favellare; ed Alcibiade ubriaco si mescola fra i  convitati. Ma il Menesseno par misto di queste due specie: perciocché  Socrate battuto dalla maestra Aspasia è persona comica; ma lodando  i morti ateniesi innalza il dialogo all' altezza della tragedia. Pur questi  medesimi dialoghi non son vere tragedie, ovvero commedie; perchè  nell' une e nelT altre le quistioai e i ragionamenti son descritti per  l'azione; ma ne' dialoghi l'azione è quasi giunta de' ragionamenti : e  8' altri la rimovesse, il dialogo non perderebbe la sua l'orma. Dunque  in lui queste differenze sono accidentali piuttosto che • altramente ; ma  le proprie si terranno dal ragionamento jslesso e da' problemi in lui  contenuti, cioè dalle cose ragionate, non sol dal modo di ragionare.  Per eh' i ragionamenti sono o di cose che appartengono alla contemplazione, oppur di quelle che son convenevoli all' azione e negli uni sono  i problemi intenti all' elezione e alla fuga, negli altri quelli che riguardano la scienza, e là verità; laonde alcuni dialoghi debbono esser detti  civili e costumati,, altri speculativi. E '1 soggetto degli uni e degli altri;  o sarà la quistione infinita, come se la virtù si possa insegnare; o la  finita che debba far Socrate condannato alla morte. E perciocché gran  parte de' platonici dialoghi sono speculativi e quasi in tutti la quistione  è infinita, non pare che lor si convenga la scena in modo alcuno, né  meno agli altri che son de' costumi, perchè son pieni d' altissime speculazioni. Anzi piuttosto non si conviene ad alcun dialogo, se non forse  per rispetto dell'elocuzione, la quale alcuna volta pare istrionica, siccome disse il Falereo, awengachè nella scena si rappresenti l'azione o  atto dal quale son denominate le favole e le rappresentazioni dramma-*  tiche. Ma nel dialogo principalmente s' imita il ^ragionamento il qual  non ha bisogno di palco: e quantunque vi fosse recitato qualche dialogo di Platone, l'usanza fu ritrovata dopo lui senza necessità. Perchè  se in alcuni luoghi l'elocuzione pare accomodata all'istrione, come nell'Eridemo, può leggersi dallo scrittore medesimo, ed aiutarsi colla pronuncia.  Né egli conviene ancora il verso, come hanno detto, mala prosa ; perciocché  la prosa è parlar conveniente allo speculativo e all' uomo civile, il qual ragioni degli uffici e delle virtù. E i sillogismi, e l'induzioni, e gli entimemi  e gli esempi non potrebbono esser convenevolmente fatti in versi. E se  leggiamo alcun dialogo in versi, come è l'amicizia bandita di Ciro  predentissimo, non stimeremo lodevole per questa cagione, ma per al*  tra: e diremo, che il dialogo- sia imitazione di ragionamento scritto in  prosa senza rappresentazione per giovamento degli uomini civili e speculativi : e ne porremo due specie, 1' una contemplativa, e Y altra costumata : e 1 soggetto nella prima specie sarà la quistione infinita o  la finita : e quale è la invola nel poema, tale è nel dialogo la quistione : e dico la sua forma, e quasi Y anima. Però se una è la  favola, uno dovrebbe essere il soggetto, del quale si propongono i  problemi. E nel dialogo sono oltre di ciò T altre parti, cioè la  sentenza^ e '1 costume,* e Y elocuzione ; ma trattiamo prima della  prima. Dico adunque, che la quistione si forma della dimanda e  della risposta; e perchè 1 dimandare s'appartiene particolarmente al  dialettico, par, che lo scrivere il dialogo sia impresa di lui : ma '1 dialettico non dee richieder più cose d' uno, oppur una cosa di molti ;  perchè se altri rispondesse non sarebbe una V affermitene o la negazione: e non chiamo una cosa quella, ch'ha un nome solo se  non si fa una cosa di quelle: come l'uomo è animai con dne  piedi e mansueto : ma di tutte questo si fa una sola cosa ; ma dell' esser bianco e dell'essere uomo e del camminare, come dice Aristotile, non se ne fa uno; però s' alcuno affermasse qualche cosa,  non sarebbe, una affermazione ; ma una voce, e molte l' affermazioni. Se dunque l'interrogazione dialettica ò una dimanda della risposta, ovvero della proposizione, ovvero dell'altra parto della contradizione: e la proposizione è una parte della contradizione, a queste cose non sarà una risposta, né una dimanda. Ma se al dimostrativo  non s' appartiene il dimandare, a lui non converrà di scriver dialogo. E par, che Aristotile assai chiaramente faccia questa differenza  nel primo delle prime risoluzioni fra la proposizkm dimostrativa e la  dialettica, dicendo, che la dimostrativa prende l'altra parte della  contradizione; perciocché 'colui, il qual dimostra, non dimanda, ma  piglia ; ma la dialettica è dimanda della contradlzione. Nondimeno  nel primo delle posteriori egli dice, che s' è il medesimo l' interrogazione sillogistica e la proposizione : e le proposizioni si fanno in ciascuna scienza, ancora si posson fare le dimando. Laonde io raccolgo,  che si posson fare i dialoghi nell'aritmetica, nella geometria, nella  musica e nell' astronomia e nella morale e nella naturale e netta  divina filosofia, e in tutte F arti e in tutte le scienze si posson fu  le richieste e conseguentemente i dialoghi. E se oggi fossero in looe dell'arte del dialogo i dialoghi scritti da Aristotile, non ce ne sarebbe perawentura dubbio  alcuno. Ma leggendo quei di Platone, i quali son pieni di proposizioni appartenenti a tutte le scienze, potremo chiaramente conoscere  lMstcsso. Nondimeno siccome il dimandare è proprio al dialettico, così a lui si conviene il dialogo più; che a tutti gl’altri. Laonde  Aristotele nel capitolo seguente pare, che faccia differenza fra le matematiche e ì dialoghi, dicendo, che se fosse impossibile mostrar dal  falso il vero,  sarebbe facile il risolvere, perchè, si convertirebbono  di necessità. Ma si convertono più quelle, che son nelle matematiche, perchè non ricevono alcuno accidente, e in ciò son differenti  da quelle, che son ne’ dialoghi. E dialoghi chiama i parlari dialettici, i quali son composti della dimanda e della risposta. Al dialetttico dunque converrà principalmente di scrivere il dialogo, o a colui, che vuol rassomigliarsi. E'1 dialogo sarà imitazione d' una disputa dialettica. Va perchè quattro sono i generi delle dispute, il  dottrinale, il dialettico, il tentativo e il contenzioso, l'altre dispute  ancora si possono imitare ne' dialoghi. E forse in quelli d'Aristotele  sono tutte IV. Ma in quelli di Platone si troverebbono similmente, perchè Socrate per via d' ammaestramento e d'esortazione  parla con Alcibiade, con Fedro e con Fedone, e come dialettico  disputa con Zenone, e con Parmenide;. e come tale riprova Ippia,  GORGIA, Trasimaco e gli altri sofisti e talora gli tenta. Ma i sofisti  son contenutosi, e vaghi di gloria, come appare nell' Eutiemo, detto  altramente il Litigioso. Nondimeno questi IV generi non sono così partitamente distinti dagl’interpreti di Platone i quali pongono  tre mdftUre di dialoghi; l'una, nella quale Socrate esorta i giovanetti; nell’altra riprova i sofisti; la terza è mescolata dell' una e  dell' altra, la qual senza dubbio è più soave per la mescolanza. Ma  chi volesse scriver dialoghi secondo la dottrina ó? Aristotele e arricchir di questo ornamento le scuole peripatetiche, potrebbe scriverli  in tutte IV le maniere. Ma principalmente son lodevoli le due  prime: la dottrinale e la dialettica, l'artificio della quale consiste  principalmente nella dimanda usata con mollo artificio di Socrate  ne’ libri di Platone, come appare nel primo dialogo nel quale Socrate  richiede ad Ipparco quel, che sia la cupidigia del guadagno; e in tutti  gli altri simiglianlt, non eccettuando quelli, ne’ quali sotto la persona di forestiero ateniese dà le nuove leggi d’una città: e 'n quelli  di Senofonte ancora con arte molto simile Socrate chiede a Critobulo  se l'economia è nome di scienza, come la medicina e l'architettura.  E nel Tirreno Simonide a Jerone, che differenza aia fra la vita reale e la privata: e dalla risposta, eh' è fatta, prendono occasione d'insegnare. Ma da questo artificio si dipartì M. Tullio, Il quale nelle  partizioni oratorie pone la dimanda in bocca, non di quel, eh' insegna,  ma di colui, ch'impara. Ed. egli medesimo ci dimostra la diversità  fra i ROMANI in quelle parole di CICERONE: figlinolo, tuo)  dunque eh' io ti dimandi scambievolmente IN LINGUA LATINA di quelle  cose medesime, delle quali tu mi suoli addomandare nella Greca ordinatamente? Laonde pare, che la dimanda, fatta dal discepolo, 6ia  derivata da CICERONE, e l' artificio sia proprio de’ROMANI, il quale  s’usò dal Possevino e da altri nella dottrina peripatetica, perchè forse  è più facile. Ma è non così lodevole, né fu, eh' io mi ricordi, usata dagl’antichi. E per questa ragione M. Tullio nelle Quistioni Tuscalane più s' avvicina all' arte de’ Greci ; perciocch' egli comandava,  che alcun de' suoi famigliari ponesse quello, che gli pareva, ed egli  contraddiceva alla conclusione in questo modo. Auditore. La morte  mi pare esser male. M. A quelli che son morti o a quelli eh' han da  morire P La quale è vecchia e Socratica ragione di disputar contra  l' altrui opinione. Tuttavolta il por la conclusione ha dello scolastico: e però dice d'aver poste ne' V libri le scuole de' V giorni. Tanto potè l' amor della filosofia in un vecchio senator romano, padre della patria, il qual quistiona secondo il costume de' Greci  forse per ingannar se stesso in questo modo e consolarsi nella servitù. Ma non si dimenticò ne’ libri dell' oratore di quel, eh' era convenevole a' romani Senatori; laonde CRASSO e MARC’ANTONIO in altra maniera  introduce a favellare. Ma fra tutti i dialoghi Greci, lodevorrssimi sono  que' di Platone; perciocché superano gl’altri d'arte, di SOTTILITÀ, d'acume,  e d'eleganza e di varietà di concetti e d'ornamento di parole. E pel secando luogo son quei di Senofonte; e quei di LUCIANO nel terso. Ma CICERONE è  primo fra' LATINI, il quale volle forse assomigliarsi a Platone: nondimeno nelle quistioni, e nelle dispute alcuna volta è più simile agli oratori, che a' dialettici. Ma nel secondo luogo non so che se gli avvicini, o chi possa paragonare a' Greci. E NELLA NOSTRA LINGUA coloro, che  hanno scritto dialoghi, per la maggior parte hanno seguita la maniera meno artificiosa, nella quale dimanda quegli, che vuole imparare, non quel, che riprova. E se alcuno s'è dipartito da questo modo  di scrivere, merita lode maggiore: e tanto basti della prima parie, che è la quistione. Ma perchè il dialogo è imitazione del ragionamento, e il dialogo dialettico imitazione della disputa, è necessario, che i ragionanti e i disputanti abbiano qualche opinione delle cose disputate, e qualche costume, il qual si manifesta  alcuna volta nel disputare. Da quelli derivano l'altre due parti nel  dialogo, io dico la sentenza, e il costume: e lo scrittore del dialogo  deve imitarlo non altramente, che faccia il poeta ; perchè egli è quasi  mezzo fra il poeta e ri dialettico. E niun meglio l'imita, e meglio  l'espresse di Platone, che, descrive nella persona di Socrate il costume d'un uomo dabbene, che ammaestra la gioventù, e risveglia gli  ingegni taidl e raffrena i precipitosi, e richiama gli erranti, e riprova  la falsità de' sofisti, e confonde l'insolenza e la vanità, amator del  giusto e del vero, magnanimo, non che. mansueto nel tollerar l'ingiurie, intrepido nella guerra, costante nella morte. Ma in quella d'Ippia, e di GORGIA DI LEONZIO, e d'Eutidemo, e degl’altri sì fatti si descrivono gl’avari, e ambiziosi, e amatori di gloria, i quali non hanno vera scienza  d'alcuna cosa, ma parlano per opinione. In quella di Menoue e di  Grifone descrive il buon padre e il buon amico, e in quella d'Alcibiade, di Fedro, e di Carmide i costumi de' nobili son descritti maravigliosamente. Oltra queste parti del dialogo ci sono le digressioni, come nel poema gli episodj : e tale è quella d' Eaco, e di  Minos, e di Radamanto nel GORGIA, e quella di Teutdemone degl’Egizi nel Fedro, d'Ero Panfilio ne' dialoghi della Repubblica. Ma perchè abbastanza s'è ragionato del soggetto del dialogo, e della sentenza,  e de' costumi di coloro, che sono introdotti a favellare; resta, che  parliamo dell'ultima parte, la quale è l'elocuzione: e se crediamo  ad Artemone, che ricopiò l'epistole d'Aristotele, bisogna scriver col  medesimo stilo il dialogo e l'epìstola, perchè il dialogo è quasi una  sua parte. Ma Demetrio Falereo dice, che il dialogo è imitazione del  ragionare all'improvviso. Ma l'epistola si scrive, e si manda in dono  in qualche modo. Però dee esser fatta e polita con maggiore studio. Tultavolta nò Platone, ne M. Tullio pare, che sempre avessero questa considerazione. Perchè ne' dialoghi l'elocuzione dell'uno e dell'altro non è meno ornata, che quella dell'epistole: e in tutti gli altr’ornamenti i dialoghi paiono superiori. E ciò non par fatto senza molta  ragione. Conciossiacosaché i dialoghi di Platone e di M. Tullio sono imitazione de' migliori, e nell'imitazioni sì fatte, le persone e le cose imitate debbono piuttosto accrescere che diminuire, come ci insegna Demetrio medesimo, il qual vuole, che la magnificenza sia nelle cose, se  il parlare è del cielo o della terra. Oltre di ciò laddov/egli parla od  periodo ne fa tre generi : il primo isterico, il secondo dialogico» il teno oratorio: e vuole, che ristorico sia nel meno dell'uno e dell'altro,  non molto ritondo, né molto rimesso: ma la forma dell'oratorio sia  contorta e circolare: e quella del dialogico più semplice dell'istoria)  in guisa che appena dimostri d' esser periodo. I quali ammaestramenti  sono stati meglio osservati da' Greci, che, da M. Tullio, che imitò Platone solamente; perchè egli così nel periodo, come in tiascun'-altra  parte, ricercò la grandezza più dr Senofonte e degli altri. Laonde usa  le metafore pericolosamente in luogo delle Immagini, che sono osate da  Senofonte: e somiglia colui, 11 quale cammina in luogo, dove è pericolo di Bdrucciolare, compiacendo a se medesimo, e avendo molto ardire, siccome è proprio delle nature sublimi ; talché fu detto di lai,  ch'egli molto s'innalzava sovra il parlar pedestre: e che il suo parlare non era in tutto, simile al verso, né in tutto simile alla prosa : e  ch'egli usava l'ingegno non altramente, che i re facciano la podestà:  e insomma niun ornamento di parole, niun color rettorico, ninn lume  d'orazione par, che sia rifiutato da Platone. Ma s’in alcuna parte del  dialogo dobbiamo aver risguardo agli avvertimenti di Demetrio, è in  quella, nella qual si disputa, perchè in lei si conviene la purità, e la  simplicità dell'elocuzione, e '1 soverchio ornamento par che impedisca  gli argomenti, e che rintuzzi, per così dire, l'acume, e la sottilità. Ma l' altre parti debbono essere ornate con maggior diligenza : e dovendo  lo scrittore del dialogo assomigliare i poeti nell'espressione, e nel per  le cose innanzi agli occhi, Platone meglio di ciascuno ce le fa quasi  vedere, il qual nel Protagora parlando d'Ippocrate, che s' era arrossito,  essendo ancora di notte, soggiunge: Già appariva la luce, onde il color  pareva esser veduto e la chiarezza, die evidenza è chiamata dai Latini, nasce dalla cura usata nel parlare, essersi ricordato, che Ippo-  crate era da lui veduto di notte. E nel medesimo dialogo leggiamo  con maraviglioso diletto, che l'eunuco portinaio, perchè i sofisti gli erano  venuti a noia, serra con ambe le mani la porta a Socrate e al com-  pagno : e appena l' apre, udendo, che non erano di loro. E ci piace il  passeggiar di Protagora e degli altri, che passeggiando con tanto or-  dine ascoltavano il ragionare : e ci par vedere lppia seder nel trono, e  Prodico giacere avviluppato. E con piacer incredibile leggiamo simil-  mente che due giovanetti appoggiati sovra il gomito descrivessero ccr-3!i, e altre inclinazioni della sfera : e che Socrate pur col gomito, di-  mandasse, di chi ragionavano. Né con minor espressione ci pone in-  nanzi agli occhi Garmide e gli amici : e quasi veggiamo gli estremi,  che sedevano da questa parte e da quella, l'uno cadere e l'altro es-  ser costretto a levarsi. Ma sopra tutte le cose c'empie di compassione  e di maraviglia il venir di Garmide alla prigione innanzi al giorno, e  l'aspettar, che si destasse Socrate, condannato alla morte: e poi, che  il medesimo raccolga la gamba, la quale era stata legata, e grattandosi discorra del dolore e del piacere, l'estremità de' quali son con-  giunte insieme : e distendendosi, e postosi a sedere sovra la lettiera dia  principio a maggiore e più alta contemplazione. E nel medesimo dialogo  tempera il dolore, quando scherza colle belle chiome di Fedone, le quali  dovevano il giorno tagliarsi : e nella descrizione parimente è maravi-  glioso. E se leggiamo i ragionamenti di Socrate sotto il platano, e quelli  del forestiero ateniese all'ombra degli alberi frondosi, mentre col La-  cedemonio e col Gandiano vanno all'antro di Giove, ci par di vedere,  e ascoltare quello, che leggiamo. Queste son le perfezioni di Platone,  veramente maravigliose: le quali, sebben saranno considerate, non ci  rimarrà dubbio alcuno, che lo scrittore del dialogo non sia imitatore,  o quasi mezzo fra il poeta e il dialettico. Àbbiam dunque, che IL DIALOGO sia imitazione di ragionamento, fatto in prosa per giovamento de-  gli uomini civili e speculativi, per la qual cagione egli non ha bisogno  di scena o di palco : e che due sian le specie, l' una nel soggetto della  quale sono i problemi, che risguardano l'elezione e la fuga: l'altra  speculativa, la qual prende per subietto quistione, jche appartiene alla  verità e alla scienza; e nell'una e nell'altra non imita splamente la  disputa, ma il costume di coloro, che disputano, con elocuzioni in alcune parti piene di ornamento, in altre di purità, come par, che si convenga alla materia. Tasso. Tasso. Cornello. Keywords: l’arte del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tasso”, “Grice e Cornello” – The Swimming-Pool Library. Cornello.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cornificio:  la ragoone conversazionae e la vera etimologia -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Autore di un’opera etimologica in tre libri, composta fra il tempo di Cicerone e Ottaviano. Das Werk des C. Longus de etymis deorum. a) Prise. GLK, C. in 1 de etymis deorum. Macr. C. etymorum libro tertio. Cornificius in etymis: vgl. noch wo Anschlufs an die stoische Philosophie (vgl. W. A. Baehrens, Hermes; K. Reinhardt, Kosmos und Sympathie, München); Arnob., Festus, M. bemerkt bezüglich der Etymologie von Minerva: C. vero, quod fingatur pingaturque minitans armis, eandem dictam putat. (nare); (nuptiae); (oscillare); (Rediculus; s. Ed. Meyer, Herm.  (lalassus). Der bloße Name Cornificius ohne Glosse erscheint. Das diese Glossen aus dem Werk „de etymis deorum" geflossen sind, vermuten R. Merkel.  Ovids Fasten, Berlin.; Th. Bergk, Kl. phil. Schr. Willers, De Verrio Flacco glossarum interprete disput. crit., Halle. C. hat dann auch andere als Götteretymologien behandelt, vermutlich wenn er von Kultusgebräuchen und Kultus-einrichtungen sprach. Wahrscheinlich dürfen wir den gleichen Schriftsteller finden auch in dem C. Longus bei Serv. Aen., wo es sich ebenfalls um Etymologien handelt: invenitur tamen apud C. Longum lapydem et Icadium profectos a Creta in diversas regiones venisse, lapydem ad Italiam, Icadium vero duce delphino ad montem Parnasum et a duce Delphos cognominasse et in memoriam gentis, ex qua profectus erat, subiacentes campos Crisaeos vel Cretaeos appellasse et aras constituisse.  Dieser kann dann aber nicht  identisch sein mit dem Dichter und Feldherrn C.  (Bergk.), der nie den Beinamen Longus trug, den außerdem die Zeitverhältnisse unmöglich machen. Denn der Verfasser der etymo'ogischen Schrift zitiert nach Macr.das Werk Ciceros de natura deorum, das im J. 44 erschien, so das sie in den folgenden drei Jahren von dem stark beschäftigten Statthalter Afrikas hätte geschrieben sein müssen. Benutzt hat dann Verrius die Abhandlung 'de etymis deorum'. — J. Becker, C.Longus und C. Gallus, Ztschr. für die Altertumsw. Wissowa, Realenz.; Funaioli 473. A stoic wrote a book on etymology. Cornificio Lungo. Cornificio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cornuto: la ragione conversazionale a Roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A slave in Rome, he became one of the city’s leading intellectuals. A member of the porch. The name Anneo points to a connection of some kind with the family of Seneca. He taught rhetoric and philosophy, his pupils including Agathino, Petronio Aristocrate, Lucano, and Persio. In his will, Persio left C. his books, which he accepted, and his money, which he rejected. He was sent into exile by Nerone. He wrote an influential commentary on Aristotle’s Categories. He argues that the categories reflect divisions within language, rather than within reality. In a different essay, the Epidrome, he surveys the myths and by means of linguistic analysis and allegorical interpretation he seeks to extract what he considers to be their true meaning. Lucio Anneo Cornuto Cornuto. Cornuto.

 

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