Luigi Speranza -- Grice e Contri: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del Napoleone di Hegel
– scuola di Cazzano di Tramgina – filosofia veronese – filosofia veneta --filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cazzano di Tramigna). Filosofo veronese.
Filosofo Veneto. Cazzano di Tramigna, Verona, Veneto. Grice: “I like Contri –
he reminds me of my days at Rossall! Of course Contri
is interested in Hegel – “a la ricerca del segreto sofisma di Hegel” – and
attempts to reveal it as Stirling never could! But Contri is also interested in
‘il bello’ – being an Italian! – The interesting thing is that he goes back to
Italy – Aquino! He has a good exploration on ‘verum’ in Aquino, too, which
reminds me of Bristol, Revisited!” Allievo di Zamboni, elabora una minuziosa
critica alla logica di Hegel di cui mise in rilievo le incongruenze
gnoseologiche e metodologiche che portano alla errata concezione hegeliana della
realtà come vita dell'idea. Rovesciando l'immanentismo hegeliano, scopre un
mondo di realtà sviluppando una concezione di filosofia della storia che denomina
“storiosofia”. Studia a Verona. Si laurea a Padova. Discepolo fervente di
Zamboni, di cui accolse e sostenne la dottrina della gnoseologia pura. In
alcune occasioni si descrisse come elaboratore in contemporanea al suo maestro
Zamboni di alcune teorie, collegate all’estetica ma non solo. Insegna a
Bologna. Zamboni fu espulso dall'Università Cattolica con la motivazione di
allontanamento dalla ortodossia tomistica e con accusa di non conformità al
Magistero della Dottrina Cattolica Romana. C. definì la posizione della
Cattolica con il termine da lui coniato di “archeo-scolastica”. La posizione
“archeo-scolastica” della Cattolica di Milano, di una conoscenza indimostrata,
a priori, dell’essere e degl’esseri era bersaglio di critiche da parte di
filosofi cristiani e non che la ritenevano inadeguata nell’ambito del pensiero
moderno. Contri sostenne che la dimostrazione della conoscenza dell’essere e
degl’esseri data dalla Gnoseologia Pura di Zamboni superava definitivamente
tali critiche e ridava certezza dimostrata della conoscenza e dell’esistenza di
Dio. Accusa di plagio Gemelli per aver pubblicato nella monografia Il mio
contributo alla filosofia neoscolastica (Milano) pagine già scritte da Mercier
e Wulf, senza indicare le citazioni. Gemelli diede le dimissioni da Rettore
della Università Cattolica ma rimase in carica. Insegna Bologna. Il prof.
Ferdinando Napoli, Generale dei Barnabiti, cultore di scienze naturali, venne
depennato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, allora presieduta dal
Gemelli. Venne dato ordine di non pubblicare articoli a firma di C.. Continuando
la difesa della dottrina di Zamboni, fondò la rivista quadrimestrale di
polemica e di dottrina neoscolastica “Criterion”. Il confronto con l’Università
Cattolica di Milano continuò negli anni successivi con relazioni a numerosi
congressi di cui C. da resoconto sulla rivista. Insegna a Ivrea. Sulla
rivista Criterion apparvero intanto i saggi del C. sui suoi studi hegeliani che
prelusero all'opera definitiva dLa Genesi fenomenologica della Logica
hegeliana. Partecipa attivamente agli organi culturali del fascismo. Sscrisse
su giornali quali Il Secolo Fascista, Quadrivio, Il Regime Fascista, Il
meridiano di Roma e La Crociata Italica. Contri si avvalse della tribuna
offerta da queste testate per promuovere i suoi studi filosofici e critica
filosoficamente l’ ebraismo di Spinoza, di Durkheim e di Bergson. Insegna a Milano
e tenne conferenze su studi hegeliani. Sorse una disputa con Zamboni in seguito
all'articolo Il campo della gnoseologia, il campo della storiosofia, in
risposta alla pubblicazione del Contri Dallo storicismo alla storiosofia. Prese
parte attiva a congressi tomistici internazionali e a congressi
rosminiani. Partecipa attivamente alla “Missione di Milano”, lanciata
dall’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini. Come riconoscimenti
ai suoi studi conseguì alcuni premi fra i quali uno indetto dall'Angelicum sul
tema “Quid est veritas”, e una segnalazione all'Accademia dei Lincei per
l'opera: Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, Milano, LSU. Discepolo
e geniale continuatore di Zamboni. Così potrebbe definire la situazione
filosofica di oggi. Il mondo del pensiero, perduta la bussola non teologica
d'orientamento, è costituito da una miriade di metafisiche che cozzano le une
contro le altre tanto da definirsi che heghelianicamente come il divenire in
sè, che è puro fenomenismo. A tale fenomenismo corrispondono molteplici
fenomenologie. Per esempio quella di
Heidegger, afferma che il reale è un solo, una totalità onniafferrante
(Hegel direbbe begriff), tanto come essere quanto come niente. Anche Hidegger
poi tenta la via della salvezza ammettendo la realtà del mondo esterno come di
un che, che resiste al soggetto, ponendosi nel solco del pensiero di Zamboni.
In questo modo Hidegger tocca il problema che si volle e che si vuole eludere:
la realtà del mondo esterno. Esistono queste realtà, come la mia realtà, indipendentemente
dal pensarle? Per dare risposta a questo interrogativo cruciale, è necessaria
la gnoseologia pura. La gnoseologia secondo C., scoprì la risoluzione
definitiva del problema della certezza della conoscenza umana. Essa permise di
risolvere il problema dell'esistenza di Dio, riavvalorando criticamente le
cinque vie della dimostrazione Aquino. Sono meriti del metodo filosofico di
Zamboni il poter affermare la sostanzialità del mio “io” personale, la mia
realtà individua e dimostrare l'esistenza di Dio, trascendente, personale. Il
metodo zamboniano distingue gli elementi della conoscenza umana tra la
sensazione, che e sempre oggettiva, e lo stato d'animo e tra questi
"quello stato d'animo che è anche atto: l'attenzione". Ogno stato
d'animo e sempre soggettivo. La gnoseology riesce a cogliere la realtà del
proprio “io”, nei suoi atti e stati. Essi sono reali, perché immediatamente
presenti all'”io”, e se sono reali gli accidenti dell'io, perché essi sono modo
di essere dell'io, reale è l'io, come sostanza, cui essi ineriscono. Perciò
dall'immediata certezza della realtà degli accidenti di un ente si giunge alla
certezza della realtà sostanziale dell'io." La critica alla posizione
della neoscolastica di Gemelli, Olgiati e Masnovo sulla conoscenza indimostrata
dell'ente e la soluzione tramite la gnoseologia pura. Rispetto alla dimostrazione
della realtà dell'ente, si fonda così nell'esperienza immediata ed integrale il
concetto di essere e ‘esseri’ che non è più necessario assumere acriticamente,
come qualcosa di razionalmente immediato, pena l'impossibilità di una logica
razionale. L'assunzione acritica del concetto di essere ed esseri è propria del
neotomismo dell'Università Cattolica, che in un suo autore, Masnovo, perviene
alla sua massima teorizzazione nel "mio hic et nunc diveniente atto di pensiero".
Ma con questo l'essere e gli esseri è solo pensato e ammesso acriticamente come
pensiero, è un presupposto, mentre nella gnoseologia zamboniana è il risultato
di un processo di astrazione, che deriva da una realtà immediatamente presente
all'autocoscienza dell'io, che non ha la natura del pensiero, non è pensiero
essa stessa, ma qualcosa di diverso. Si può pertanto uscire dalla formula
logica della ragion sufficiente, che è sempre e comunque razionalista e riduce
al razionalismo anche il neotomismo. Nell'ambito dell'esperienza immediata ed
integrale si scopre invece non la ragion sufficiente, ma la sufficienza ad
esistere o no. E la fondazione ed il ripensamento delle prove dell'esistenza di
Dio, e in particolare della terza via tomistica, diventano inoppugnabili.
Nessuno più può dubitare dell'esistenza del sufficiente ad esistere, che è
Dio." Secondo Peretti la fondazione gnoseologica della metafisica è
il più grande merito di Zamboni. L'ambiente filosofico dell'Università Cattolica
non accetta la gnoseologia zamboniana e fonda la metafisica sul concetto di
ente, assunto acriticamente, come un presupposto indimostrabile. Esso finì per
identificarsi con l'ente di ragione (ens rationis), non sfuggendo all'insidia
hegeliana, che lo aveva dialettizzato sia come essenza che come esistenza. La
dialettica negativa di Hegel produsse ben presto nella corrente neotomista di
Milano (ma anche in altre università cattoliche) i suoi effetti devastanti. Aveva
messo in guardia i neotomisti dalla fraus hegeliana, che si svela nell'antitesi
(contra-posizione) come negazione. Seguendo la metodologia gnoseologica,
Contri affronta Hegel, il "padre del fenomenismo" compiendo una
minuziosa e sistematica analisi della fenomenologia hegeliana. Dopo averle
individuate ha messo in rilievo le incongruenze gnoseologiche e perciò
metodologiche che sfocia nella concezione della realtà come vita dell'idea,
presentandola come uno svolgimento dialettico del ‘begriff’, come qualche cosa
che non mai in sé, ma diviene eternamente in sé e per sé. C. resa evidente
questa impostazione, anima del fenomenismo, e scoperta nella deficienza
gnoseologica e pertanto metodologica, derivata dall'impostazione razionalista
ed empirista che al fondo dello stesso criticismo, rovescia l'immanentismo
hegeliano, che si gli scopre non più come mondo di idee, ma di realtà, di cui
ognuna è altro del suo altro, in un ordito cosmologico, di cui la storia
dell'uomo rappresenta l'essenza. Ed ecco la storiosofia, che reclama,
al posto dell'immanentismo gnoseologicamente insostenibile, la
trascendenza della trama di questo ordito, che a questo punto in sé e per sé
non può più essere spiegato (si ricordi che l'anima della spiegazione hegeliana
è la "negazione"!). Tale trascendenza prova l'esistenza di un Dio
trascendente, che ha concepito la trama creando le realtà ordito di questa
trama, di realtà in reciproca relazione, in cui non c'è membro che sia fermo.
In questo ordine si risolvono in modo nuovo i rapporti tra le realtà, che per
esempio tra l'anima e il corpo, superando così gli scogli di una spinosa
questione di eredità aristotelica, di grande importanza anche oggi, in cui le
realtà terrene e spirituali non trovano la sintesi equilibratrice. La
storiosofia rappresenta uno sviluppo del metodo di Zamboni, considerandolo la
via per rinnovare tutta la filosofia poiché esso non è storicismo filosofico,
non è naturalismo, è avanti positivistico, non è speculazione, ma metodo
appunto, (metodo) che da secoli la filosofia europea ha cercato, perdendolo
oggi nella disperazione del momento." Altri saggi: “Il concetto
aristotelico della verità in Aquino” (Torino, SEI); “Gnoseologia” (Bologna,
L.Cappelli); “Il concetto d’armonia” (Bologna); “Il tomismo e il pensiero
moderno secondo le recenti parole del Pontefice, Bologna, Coop. tipografica
Azzoguidi): “Del bello” (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina); “La filosofia
scolastica in Italia nell' era presente” (Bologna, Cuppini); “L’essere e
gl’esseri” (Bologna, C. Galleri); Un confronto istruttivo: Mercier, Gemelli, De
Wulf ed altri ancora, Bologna, C. Galleri); “Pane al pane: riassunto d'una
situazione, Bologna, Costantino Gallera. “Neo-scolastici e archeo-scolastici”
(palaeo-scholastici) sulla rivista Italia letteraria; “Il segreto sofisma di
Hegel” (Bologna, La Grafolita), “Mussoliniana: il discorso del duce” (Bologna,
La Diana scolastica); “Gnoseologia pura di A. Hilckmann; Il segreto di Hegel di
S. Contri, Bologna, Stabilimento Tipografico Felsineo); “Hegel, Ivrea, ed.
Criterion); “La genesi fenomenologica della logica hegeliana” (Bologna,
ed.Criterion; Ambrogino o della neoscolastica, dialogo filosofico,
Bologna); “La soluzione del nodo centrale della filosofia della storia,
Bologna, Criterion); “Complementi di storiosofia, Bologna, Criterion); “Punti
di storiosofia, Bologna, Criterion; Lettera a S.S. Pio XII sulla filosofia
della storia, Bologna, Criterion; Il Reiner Begriff (=concetto puro) hegeliano
ed una recensione gesuitica, Bologna, Criterion; Dallo storicismo alla
storiosofia. Lettura prima, Verona, Albarelli; I tre chiasmi della storia del
pensiero filosofico. Inquadratura unitotale della controversia sulla
storiosofia, Milano, ed. Criterion); “Rosmini” (Domodossola, La cartografica C.
Antonioli); Ispirazione da dei” divina della S. Scrittura secondo
l'interpretazione storiosofica” (Milano, Criterion); “La sapienza di Salomone,
Milano, ed. Criterion; “La riforma della metafisica” (Milano, ed. Criterion); Filosofia
medioevale. Raggiungere la forma nuova, Fiera Letteraria; Punti di
trascendenza nell'immanentismo hegeliano, alla luce della momentalità
storiosofica” (Milano, Libreria Editrice Scientifico Universitaria); “Rosmini”
(Milano, Centro di cultura religiosa); “Posizioni dello spiritualismo
Cristiano: La dottrina della poieticita in un quadro rosminiano” (Domodossola,
Tip. La cartografica C. Antonioli); “Assiologia ed estetica”, Theorein; Posizione
dello spiritualismo cristiano. La dottrina della poieticità, in un quadro
rosminiano, Rivista rosminiana; Heidegger in una luce rosminiana: la favola di
Igino e il sentimento fondamentale, Domodossola, La cartografica); Missione di
Milano. Chiosa storico-filosofica, Ragguaglio); “Heidegger in una luce rosminiana,
Rivista rosminiana); La coscienza infelice nella filosofia hegeliana” (Palermo,
Manfredi); “Husserl edito e Husserl inedito” (Palermo, Manfredi); “Kierkegaard:
profeta laico dell'interiorità umana”; “Saggio di una poetica vichiana” (Milano,
Il ragguaglio librario); La fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Rivista
rosminiana; L'unità del pensiero filosofico, Sapienza; Il pluralismo filosofico
nell'ambito di una concezione cristiana, Sapienza; In margine al centenario
dantesco, Sapienza; La negazione come principio metodologico di unificazione
speculativa, Theorein; Vita e pensiero di Hegel, Rivista rosminiana; Possibilità
di un accordo tra la dottrina rosminiana del sentimento fondamentale e le
concezioni moderne sull'inconscio, Rivista rosminiana; Morale e
religione nella Fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Palermo); “Parallelo
tra Hegel e Rosmini, Palermo, Mori); “Metafisica e storia, Palermo, Mori); “Il
sofisma di Hegel” (Milano, Jaca book). “Il caso Contri”; “Gnoseologia”;
noseologia, storiosofia; Contri, Note mazziane; La propedeutica metafisica
hegeliana al problema del pensare e la lettura rosminiana di S. Contri, Contri
tra gnoseologia e storiosofia, Punti di trascendenza in S. Contri, in Sophia,
Crociata Italica, Fascismo e religione nella Repubblica di Salò, L'Estetica di
Benedetto Croce. Certi gestiscriveva la Vanni Rovighiche gli furono
rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi
in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di
difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere
politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte
alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben
più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di
grande ingegno e di purezza adamantina: Zamboni, un gesto che non può non
essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in
bocca. Contri, (Circa il volume di Croce 'La storia come pensiero e come
azione. Siro Contri Presidente dell' Istituto di Cultura Fascista. CONDOTTA POLITICO-MILITARE ESPRESSA
DAI FATTI UNIVERSALMENTE NOTI, I QUALI CELEBRANO COTANTO LA SINGOLARITÀ DI
BONAPARTE. Paralello degli uomini ipiù celebrati dalla Storia dei
Secoli. Non è del mio proposito il qui premettere alle azioni di NAPOLEONE
le cause che rivoluzionarono la Francia, e i fatti che a danno proprio, o
di altrui operarono i Francesi, poiché questi sono noti a tutti, o
se qualcuno' vi è, che non li sappia, da quelli stessi, che io
dirò, operati da Lui, meglio si rileverà la grandezza degli altri
distinguendosi troppo bene riunite in un solo quelle grandi
ia qualità, con le quali si va a riordinare, e regolare in
pace il cittadino, come in guerra a vincere e superare l'inimico.
Nè vi voleva di meno: conobbe BONAPARTE opportunamente, che non si ha la
pace, se non si fa la guerra, che non può tornare all'ordine il Francese,
se non è vittorioso, subito che la gloria di aver vinto altrui
richiama, per goder dei frutto, al dovere di vincere se stesso se non si
dipende? Col dipendere dagl'ordini di BONAPARTE nel campo di battaglia,
si volò dal Francese alla vittoria: che meraviglia, se all'un fatto
autorevole perciò riesci agevole inculcare con altri i doveri di
giustizia, nell'osservanza de' quali, rimesso l'ordine pubblico, si passò
ad unire a quelli di conquista i frutti preziosi della pace.
Troppo è singolare NAPOLEONE BONAPARTE nella storia dei
secoli. Quegli uomini che arrichirono di beni, che fornirono di
gloria la Patria, ed i regni, di cui erano signori, di cui erano cittadini,
con le loro imprese in guerra, con i loro consigli in pace, daranno a
me tutto quel meglio che ciascuno di essi possedeva parzialmente,
per provarlo riunito in BONAPARTE a riordinare la Francia, a
pacificare V Europa. Non si vuol qui osservare l'ordine dei fatti,
nei quali BONAPARTE si mostrò da prima grande Capitano, ma presa sibbene
l'epoca del Consolato tanto glorioso per Lui, e dove Egli si mostrò
grande politico, si faranno servire i fatti nell 9 uno, e
nell'altro stato operati all'espressione di quella condotta, la quale praticata
da Lui solo, celebra veracemente la sua Singolarità. Dirò
pertanto, con tutto che io non ignori, che Giulio Cesare fu l'uomo
in Roma, il quale più d'ogni altr'uomo delle storie antiche può dare a me
una qualche simigliala di NAPOLEONE in Francia, pure i fatti che me
lo descrivono per grande, non sono quegli stessi che ora mi dimostrano
grandissimo BONAPARTE. 11 ritorno di GIULIO CESARE dal Governo della
Spagna non è simile a quello di BONAPARTE dopo V occupazione dell'
Egitto; Cesare trovò la Repubblica Romana divisa in due fazioni, una di GNEO
POMPEO, e l'altra di MARIO CRASSO. BONAPARTE trova la Repubblica non divisa in
fazioni, ma in tanto disordine e confusione, che più non è divisibile, poiché
l'eccesso dell'anarchia produce la serie indefinita delle divisioni
sempre rinascenti e rovinose; pure non altri vi fu, se non che Egli,
tanto potente, che la divise per trarla dalla sua confusione. GIULIO
CESARE vien pregato da ognuno dei due rivali a farsi del suo partito, e
Cesare si fa mediatore di pace. BONAPARTE non pregato va da
se a rimproverare d'ingiustizia, e di oppressione i Governanti, e a nome
del Popolo Francese ingiustamente oppresso intima la loro
destituzione. Giulio Cesare si fa pacificatore di chi voleva la
pace. BONAPARTE assicura la pace a fronte di coloro che volevan la
guerra. Giulio Cesare dee vincere con la persuasione due nemici, che erano
nel seno della Patria a promovere con la divisione l'interna discordia. BONAPARTE
dee vincere con la forza i nemici esterni della Francia, e dee persuadere
la Francia in disordine della necessità di un nuovo ordine di cose
per felicitarla. Giulio Cesare accetta l' incarico di
mediatore non per servire, ma per regnare; perchè coll'esser così fra Crasso
e Pompeo, ambidue li vedeva dipendenti da Lui; regna chi non
dipende, non dipende chi giudica, e quello che giudica si fa arbitro dei
due nemici: non voleva Cesare con la sua dipendenza rendere più
forte uno dei rivali, ma voleva col pretesto della sua mediazione
indebolire ambidue. Trattò la pace non per unirli fra di loro, ma per unirli a
se, non perchè fossero amici, ma perchè fossero disarmati.
BONAPARTE instruito dei disordini della Francia e delle sue perdite,
con eroica risoluzione veste il carattere di guerriero, di
pacificatore; si mostrò così al Consiglio dei Cinquecento, dove era
maggiore l'autorità, e dove erano tanti che volevano governare; non si
ritiene da dirli indegni di quest'ufficio, quando per due anni
avevano così male governata la Francia. Il rimprovero di un simile
delitto, la fermezza di chi rimprovera, ed il coraggio, avvilì e disperse
i delinquenti, (molto più di Trasibulo che cacciò d'Atene i trenta suoi
tiranni): si rimi* se allora BONAPARTE al voto del Popòlo Francese, che
lo acclamò Liberatore; ed assicurato di lealtà, annunziò il Consolato, e
la sua Costituzione. Fatta la pace fra Pompeo, e Crasso per opera di
Cesare, tutti due concorsero a farlo Console, e in tutto il tempo n
Consolato il di Lui Collega non comparve mai a palazzo. Si
vide BONAPARTE Primo Console, e gli altri due furono sempre con Lui nel
Consolato. Se fu solo Cesare a comandare fu con usurpazione.
Se ha BONAPARTE nel comando la primazia, glie la concede la
costituzione: Cesare non soffriva che gli applausi di buon governo
fossero attribuiti ad alcun altro che a Lui: per tal modo andava
avvezzando Roma al governo di un solo, e disponeva gli animi ad approvare
nel Consolato la Monarchia. BONAPARTE sebbene il primo
nel Consolato, ed il maggiore nella autorità; è però sempre insieme
con gli altri a governare; non sprezza l'opera altrui, non sfugge
l'altrui consiglio, e vuole che tutti abbiano parte al merito della sua bontà,
della sua aggiustatezza; non vuol cambiar governo nei momenti che tanto
si opera per stabilirlo; tutto quello che si fa, si fa per
conoscere, 3e il Francese può essere buon repubblicano: il grido
della libertà democratica non è un voto valevole per la esclusione della
monarchia; quantunque siansi veduti i Francesi eletrizzati andare
incontro alla morte per vendicare la libertà; si deve dar ciò alla
forza di quel barbaro terrore difuso per avvilimento universale con la
oppressione dell'innocente; sostenuto con la franchigia ed esaltazione
del malvagio per accrescere il numero dei terroristi; non già ad un maturo
consiglio, ad una risoluzione giudiziosa, unanime, universale, che però
il procedere di BONAPARTE fu assai prudente per richiamare all'ordine i
Francesi in rivoluzione, e metterli veracemente in libertà, col
costituire la forma di un buon governo. Cesare ha finito il
Consolato. BONAPARTE viene dichiarato a Vita Primo
Console. Cesare dopo il Consolato si elesse il Governo delle Gallie
dove andò con E-sercito, e fece guerra a molte nazioni. Vide pesare che
le fazioni lo potevano fare il primo della Repubblica, ma non
bastavano a farlo padrone, per cui era necessario un esercito: come
armarsi però senza scoprire il suo disegno? Ecco l'arte di Cesare;
si armò per servizio della Repubblica, la servì valorosamente per poterla
signoreggiare, la esaltò per poterla opprimere: nel regnare l'arte del
segreto non è tacere, ma consiste in rivelare una intenzione
verisimile che nasconda la vera, ma che non sia la principale: la
più fina simulazione del mondo consiste nel sapersi ben servire
della verità. BONAPARTE fu fatto Primo Console non dalle fazioni, ma dal
voto libero di una gran nazione: i meriti della guerra, e quelli
maggiori della pace precedettero la sua perpetuità nel Consolato; non
servì alla Francia per signoreggiarla, non la esaltò per opprimerla,
quando con averla levata da suoi disordini, e fatta amica di tutte
le nazioni 5 non cercò di escludere i tanti dall'onore di questa
grand'opera, i quali ora sono con Lui nel governo vigilantissimi per conservarla. Per
dare però una maggior rilevanza al paragone di BONAPARTE con Giulio
Cesare, mi farò a tracciar questi nè suoi principj per condurmi così a
provar meglio la singolarità dell'altro; e giusta la diversità di tante sue
virtuose azioni, mi farò pure a dir di quelli, i quali nei bei
secoli della Grecia, e di Roma onorarono la loro patria, perchè i più
valorosi nell' arte della guerra, i più sapienti nel governo dei popoli
tra coloro tutti, che il precedettero, scorrendo la vita de' medesimi,
dimostrerò, senza osservare l'ordine dei tempi, giacché non è ciò del mio
soggetto, riunite in BONAPARTE le grandi virtù di tutti quelli
celebratissimi nella storia delle nazioni. CeSare nella sua più fresca età
passò la prima volta a militare sotto Marco Minucio GermOj allora Pretore
in Asia., e mandato in Bitinia all'assedio di Mitiiene, la sola città che
ricusava sottomettersi ai Romani, si distinse tanto nella sua presa, che
meritò diverse corone civiche, le quali davansi a chi aveva salvata la vita ad
alcun cittadino romano. BONAPARTE che nel principio della
Rivoluzione Francese trovavasi in Parigi tutto intento a coltivare i
grandi suoi talenti nella scuola militare, e nella vera filosofia, fu
mandato all'assedio di Tolone Ufficiale in una compagnia d'artiglieri,, allora
di soli ventitre anni, ed ivi le prove del suo valore furono tanto
luminose e così sollecite, che i Rappresentanti del popolo ivi presenti, non
tardarono a promoverlo Generale di Brigata, nel qual posto più
d'ogn'altro suo pari si mostrò esperto nell'arte difficilissima di
condur i soldati alla vittoria; e singolarmente intrepido si rendette in
quei terribili momenti di assalto, sotto l'impeto del quale ebbe a tornar
Tolone in potere dei Repubblicani. Giulio Cesare fu accusato da L.
Vezio cavalier romano complice nella cospirazione di
Catilina. BONAPARTE fu accusato, e fatto arrestare a Nizza dal
Convenzionale Befroi come terrorista. Il terrore allora era diretto a
dominare sugli uomini per disordinarli, per perderli. La Congiura di
Catilina si volgeva a fare un dominatore di Roma per felicitarla. Il
Valore mostrato nell'armi da BONAPARTE mosse l'invidia di tanti ad
accreditarne l'accusazione. Fu accusato Giulio Cesare di troppa
parzialità per Lentulo, Gabinio, Cetego, Statilio capi dei congiurati.
Questi per salvar la vita ebbe bisogno di un CICERONE; fuggì gli occhi di
tutti; si rinserrò nella propria casa timoroso d'incontrare
nuovamente il risentimento dei Padri. BONAPARTE va da se a Parigi per fare
delle rimostranze al Comitato di salute pubblica contro una simigliante
ingiustizia, ha cuore di orare la propria causa in faccia a quel
Tribunale istesso eretto per distruggere gli innocenti; e non avendo più
dove ricorrere per denegata giustizia, chiede il permesso di
ritirarsi a Costantinopoli, perchè soverchiamente delicato, non vuol
vivere a fronte di un'accusa troppo ingiusta. Il patrocinio delle
Vestali, l'amor del Popolo tant'altre volte come in questa capriccioso,
perchè mosso dall'ingenita avversione al volere dei grandi, richiama
Giulio Cesare al suo uffizio. Affidato BONAPARTE al patrocinio più
sicuro della sua giustizia, attende da filosofo il momento propizio alla
sua gloria, poiché il Vendemiatore vide BONAPARTE col comando di un
corpo numeroso di linea tanto ben disposto, e regolato, trarre
dall'estremo periglio la Convenzione, e salvar Parigi dal furore di
un nuovo disordine, che urtando liberamente, poteva nelle sue rovine aprire
la tomba a tutti i Cittadini : un'operazione tanto salutare, li procurò dei
potenti amici, li meritò la pubblica ammirazione, la riconoscenza
nazionale; in questo giorno egli trionfò di tutti i cuori: gli
amici lo amavano teneramente, lo temevano grandemente gl'inimici : il suo
trionfo fu molto dissimile a quello di Mario, di Siila, di Cesare, e di
Pompeo; questi volevano, trionfando, signoreggiare, ed avvilire
tutti i Romani: BONAPARTE riponeva nella grandezza dei Francesi, e
nella maggiore loro felicità il suo trionfo, la sua gloria era di vincere., lasciando
alla nazione di trionfare. La prima azione di questo Giovine Guerriero fu
quella di sostenere nella Patria i diritti delle supreme podestà
contro un forte partito dei suoi, il qual voleva nella morte dei
Governanti assicurare al disordine la sua dominazione, che è quanto dire,
a Lui viene affidata la grande impresa di frenare, di avvilire
gl'inimici interni della Patria, che sono i più potenti, i più terribili,
perchè i più sicuri di unire alla forza aperta i funesti progressi
di una domestica prodizione. Per tutto questo era mal sicuro
dell'istes^ ssl sua vita, perchè Comandante di tanti altri armati
troppo facili a cedere alla seduzione di alcuni di quelli, coi quali oltre ad
aver comune la patria, erano del medesimo sangue, divisi soltanto di
sentimento per la formazione di questo, o dell'altro Governo pure
BONAPARTE superiore ad ogni pericolo, va, come si disse, condotto
dal suo genio a farsi il terrore dei sediziosi, il salvatore dei Governanti:
molto più grande questa impresa di quella di Petrejo contro Catilina, poiché
questi comandava all'aperto a piè dell'Alpi i suoi Armati, dove la cognizione
del luogo, e la sua ampiezza dava al Capitano in caso di perdita il
piano per una gloriosa ritirata. Quando per BONAPARTE il campo di
battaglia era Parigi; aveva pertanto comune con gl'inimici
gFistessi ostacoli, i medesimi pericoli, che anzi si facevano
maggiori per Lui; perchè doveva esser sempre nel sospetto, che
quella immensa popolazione rivoluzionata, inquieta per l'incertezza di un
felice destino, potesse fornire ad ogni momento di un maggior
numero di soldati le legioni dei ribelli: con tutto questo le sue
disposizioni furono così giudiziose, il suo coraggio tanto sorprendente, che
con poco sangue sparso vinse interamente la fazion nemica, e levò ad essa
ogni speranza di risorgere, per tornare contro di Lui a nuova pugna. Egli
adunque, come Filopemene mandato a guerreggiare contro gFistessi
Greci suoi, non si disse per Lui ventura il trionfar di loro, ma una soda
virtù, mentre quelli, che eguali han tutte le cose, non possono che per
virtù primeggiare sugli altri, e distinguersi più di loro. Se fu capace
BON APARTE di trionfare sugl'istessi suoi Francesi, e ciò non per se, ma
per il solo bene dei vinti, ragion voleva, che i Governanti ad una prova
tanto singolare d'amore, scegliesscio Lui Comandante in Capo dell'Armata
d'Italia, siccome gl'interpreti sicuri del voto universale dei Francesi,
per aprire cosi un nuovo campo di gloria ai suo valore, ed
assicurare a loro il bene della vittoria sugl'esterni nemici della
Francia. NAPOLEONE va senza ritardo al luogo, ^ove lo attende la
grandezza de' suoi destini; quivi essendo si mostra a tutti i suoi,
come Marc'Autonio mirabilissimo nella idea delle sue imprese, le
concepisce quali dovevano essere nella mente di un regnante; e più di Marc’Antonio
l'eseguisce con facilità, mentre questi mancava di una pronta
attività per una felice esecuzione. È dunque BONAPARTE, dove nasce
l'Appennino e mancan l'Alpi, fra strette gole ed inaccessibili dirupi, in
quei luoghi istessi praticati altra volta con bravura da un Flaminio, da un
Postumio celebratissimi Capitani di Roma; quivi egli è a fronte di
un inimico, che si avanza vittorioso da Voltri per battere Monteligino,
ultimo trinceramento repubblicano, di dove poi andar più oltre con
maggior speditezza, perchè minori gli ostacoli del luogo, ed arrivare una volta
a por piede sul terreno Francese, per risvegliare così, ed animare
il partito nemico delia libertà. Con tutto questo che pareva tanto
prossimo ad eseguirsi, BONAPARTE nelle concepite disposizioni guerresche, vede
sicura l'occupazione dell'Italia; e più oltre andando, non vede tanto
incerto l'approssimarsi alla Capitale dell'Alemagna: le grandi distanze,
gl'infiniti pericoli, che si frappongono, non lo distraggono un momento dal
porsi sulle mosse per dar principio all'opera, e giungere ad
occupare la grandezza del suo fine: i modi sono presti per vincere; in
caso di mancanza, sono pronti gli altri per trarre dalla sua difesa
gli utili di una grande vittoria. Sagace nella previdenza di tutte
le cose, passa con risolutezza dallo stato di difesa, a quello di offesa;
e mentre si occupava rinimico a vincere le resistenze del Capo di Brigata
Rampon, BONAPARTE, seguitato dai prodi Generali Berthier, e Massena,
dirige le truppe dei suo centro, e della sua sinistra sul fianco, e alle
spalle degli Alemanni. Questa manovra tanto difficile nel luogo., ed
eseguita sugl'occhi di un inimico vigilantissimo, preparò la memorabile
vittoria di Montenotte, e la decise; poiché simile ad Alessandro, e
a Pirro nella prestezza delle disposizioni, nell'impeto, e violenza del
conflitto, divise il corpo di Beaulieu dagli Austro-Sardi; e mentre
batteva un corpo, l'altro era tenuto a bada, e poi piombando su di
questo, ambedue furon vinti, disordinati, dispersi; la conseguenza di ciò
fu l'essersi reso padrone del Cairo, di Dego, e della posizione
importantissima di santa Margherita, per cui trovossi al di là delle cime
dell'Alpi, su i declivi, che guardano la bella Italia. La impresa
non fu strepitosa soltanto per essere stata eseguita nel breve
corso di quattro giorni, ma perchè opera di un Capitano di
soli ventisette anni, come Pompeo nell'Affrica contro Domizio della
Fazion Mariana, e Jarba Re de' Mori suo aleato, per cui questi ebbe da
Siila, allora Dittatore in Roma, il titolo di Grande. BONAPARTE però più grande
di Pompeo per aver superatigli ostacoli della natura in un con quelli
opposti dall'arte militare la più studiata, la più perfetta. A che
ricordarsi più con meraviglia del passaggio dell'Alpi fatto da Annibale?
sebben'egli partito dal Rodano con la sua armata di Numidi, e di
Spagnuoli per passar le Gole transalpine, e le Alpi* per nove
giorni di cammino fino alle sue vette combatter dovesse ad ogni passo i Galli
che in imboscata e con prodizione attraversavano, estremamente molesti,
la sua gita; e negli altri sei giorni impiegati nella discesa,
niuno essendovi più, che il molestasse, pure le nevi altissime, i
ghiacci, e le bufere rendessero tanto più malagevole, e pericoloso il suo
tragitto: ciò non pertanto più maraviglioso fu il salire, e il
discendere di BONAPARTE, quando in questo si deve aggiugnere il
dover vincere passo passo un inimico, che in un momento era pronto alla
difesa, e nell'altro prontissimo all'Offesa; per cui gli avvenne di
essere una qualche volta respinto; lo che sembrava, e ciò a tutti,
una volontaria ritirata, tant'era presto a riprendere il
combattimento con più veemenza, e risoluzione; come chi, per
accrescere il colpo contro le mura nemiche, par si discosti per
levar più alto l'ariete, e la mazza ferrata a far maggiore la
gravità del colpo, e più sollecita la sua distruzione: ed è per questo
che il General Augereau forza le Gole di Millesimo; Menard, e Joubert
discaccian l'inimico da tutte le posizioni di quei contorni; ma l'inimico
è sulle alture a riprenderne delle nuove, e più formidabili per cui i Francesi
in ogni ora sono chiamati a nuovi disastrosissimi conflitti essi vi
vanno non un movimento pronto, ben regolato e risoluto, in ogni luogo
perciò sormontano il potere dell'inimico. Dopo fatiche così eccedenti,, e
sì luminosi vantaggi più non si teme della vittoria; in fatti quando
sugl'albori del sesto dì della battaglia Beaulieu gli attacca, supera il
villaggio del Dego, respinge il general Massena per tre volte assalitore,
Victor, e Lannes per ordine di BONAPARTE piombano sulla sinistra
dell'inimico; ma l'inimico è più forte; le truppe repubblicane vacillano
per un istante; indi ritornano all'assalto; raddoppiano il
coraggio, e Dego è nuovamente in lor potere. Il piano delle operazioni dei
diversi corpi d'armata è troppo concorde perchè il risultato non lasci mai
d'essere utilissimo al loro avanzamento: i suoi capi sono sempre insieme a
combinare su d'un piano troppo attivo e giudizioso, mosso e regolato
dal capo supremo, che lo ideò, che lo compose. La valle pertanto di
Borimela, e quella del Tanaro sono aperte ai repubblicani; le
trincee di Montezimo, e di Ceva sono superate; passano questi il Tanaro,
e rinimico è in piena ritirata per la strada del Mondovì: sul far del
giorno i due eserciti sono a fronte l'uno dell'altro; comincia nel villaggio di
Vico la zuffa, Fiorella, e Dammartin attaccano con impeto il ridotto, che
cuopre il centro del nemico, questi abbandona il campo, passa la Stura, e
si pone fra Cuneo, e Cherasco entro un recinto bastionato; Massena si muove
contro, e rovescia le gran guardie nemiche. Dopo questa operazione i
Francesi si trovano vicino a Turino: il General Colli propone una sospension
d'armi; BONAPARTE vi acconsente con la condizione, che vengano a lui
rimesse Cuneo, e Tortona; il Re non sa non approvarlo, e BONAPARTE con
ciò dà alla sua armata in Italia una situazione sicura ed imponente, e
vede aperta senz'altri ostacoli la sua libera comunicazione con la
Francia. Ogni giorno pertanto crescono gli armati,, BONAPARTE gl'impiega
al passo del Pò nella grande battaglia di Lodi; con marce, e contromarce cuopre
air inimico i veri suoi movimenti, si fa strada tra l'Adda, e il
Ticino per dirigere la sua marcia sopra Milano, mentre Beaulieu
ingannato, si affaticava a fortificarsi tra il Ticino, e la Sesia.
Il resultato di queste felici operazioni non aveva in se tutto, che si voleva,
per andare senz'altro intoppo dritto dritto alla capitale della
Lombardia. Sono eccellenti le disposizioni del generale inimico per apporne dei
nuovi. Questi ritardarono la marcia, non l'impedirono', Beaulieu col suo corpo
d'armata dall'opposta parte dell'Adda guarda con numerosa
artiglieria l'estremità del ponte di Lodi, che lo cavalca per l'estensione di
cento tese; non volle tagliare il ponte, lusingandosi cosi di meglio
dirigere il fuoco alla distruzione di tanti nemici insieme strettamente riuniti
al suo passaggio. Il soldato francese, sotto un tanto Duce, conosce
il grande pericolo, ma troppo è animato a superarlo; vede che il
passo del ponte è angusto e micidiale, ma ad impadronirsene ve li sprona
l'onore, e gl'interessi della patria: la morte di alcuni aprirà il varco
a molti, si muoja, dicevan essi, purché si vinca. Quanti mai sono
che vogliono essere i primi, contenti di assicurare ai superstiti col
loro sangue gli utili d'una grande vittoria: il secondo hattaglione
de'carahinieri precede l'armata francese serrata in colonna: i prodi si
presentano sul ponte, il fuoco dell'inimico è tanto terribile e
continuato, che la testa della colonna stette in forse per alcuni momenti a
fronte di un sì alto pericolo, e se un solo istante di più s'indugiava,
tutto era perduto:Berthier, Massena, Cervoni, Duprat si precipitarono
alla testa delle truppe, e fissarono la fortuna ancor vacillante: l'inimico
nell'istante è rovesciato, l'Adda è aperta alla cavalleria, la vittoria è
definitivamente decisa. Più di Cesare glorioso BONAPARTE poiché
quello sostenne il ponte sul Aisne contro Galba, che con le sue forze
numerosissime tentava superarlo; quando l 'a i t ro acquistò il ponte di
Lodi contro gli Alemanni, che lo guardavano tanto forti: Noyon atterrita
apre le porte a Cesare. Milano festeggiante incontra BONAPARTE; in quello Noyon
teme il suo tiranno; in questo Milano ama il suo benefattore: Cesare vinceva
per far schiavi i vinti: BONAPARTE trionfa per farli liberi.
Dalle divisate azioni guerresche chi non vede riunito in BONAPARTE
il cova ^gio, l'operativa prontezza di Marcella; ìa circospezione, ed il
provedimento Fabio Massimo? Conobbe troppo be> bON APARTE la
importanza delle <e imprese; e potè dire molto avanti to quello,
che solo aveva pensato di . Si valse opportunamente dei suoi .ta^i
con non lasciarsi alle spalle altrui inimico: vinto uno dalle sue
armi, gli altri maravigliati, ed atterriti dalle sue vittorie
fecero delle proposizioni di pace, che furono accordate con i vantaggi
dovuti al vincitore; i quali però non portavano il vinto ad un odioso
avvilimento. Riunì BONAPARTE in queste operazioni la esecuzione dei
pensieri di Marcello in Siracusa; di Fabio Massimo nella capitale de'
Tarentini, popolazioni da loro debellate. Marcello per
trattato leva molti bel1 issimi simulacri, perchè servissero di ornamento
alla sua patria; la quale siuo allora non aveva, ne avuti, nè veduti
abbigliamenti cosi gentili ed isquisiti. Fabio Massimo trasse fuori denari e
ricchezze, lasciando ai Tarentini i loro numi sdegnati che eran di marmo.
Marcello fu applaudito dal popolo e condannato dagli uomini di
probità. Fabio Massimo fu celebrato da questi, e non curato dagli
altri. Siro Contri, «Il regime fascista». Siro Contri. Contri. Keywords: il
Napoleone di Hegel, del bello, il bello, assiologia, poetica vichiana,
Mussolini, discorso, duce, logica di Hegel, filosofia dell’essere, l’essere e
gli esseri, Hegel contraddetto, il bello, pulchrum, archeo-scolastici,
paleo-scolastici, Aquino, aristotele, il vero, l’errore di Croce, l’equivoco di
Croce, percezione del bello, l’armonia e il bello, del storicismo alla
storiosofia, storiosofia o filosofia della storia, interpretazione dommatica di
Aquino, la negazione di hegel, il concetto puro di Hegel, la negazione come
metodo in Hegel, nihilismo e negazione in Hegel, l’errore di Hegel, il sofisma
di Hegel, Gentile e il bello. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contri” – The
Swimming-Pool Library. Contri.
Luigi Speranza -- Grice e Corbellini:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del darwinismo
politizzato – scuola di Cadeo – filosofia piacentina – filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cadeo). Filosofo piacentino. Filosofo
emiliano. Filosofo italiano. Cadeo, Piacenza, Emilia-Romagna. Grice: “I like Corbellini; of course he has to defend science versus
what he calls – alla Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy, which he calls ‘il
paese della pseudoscenza’ – I thought that was Oxford!” I sui interessi riguardano
la grammatical del vivente, la storia della medicina e la bioetica. Insegna
Roma. Si laurea con “L’epistemologia evoluzionistica”.I suoi interessi di
studio hanno riguardato la storia e la filosofia della biologia
evoluzionistica, delle immunoscienze e delle neuroscienze, per includere poi
anche lo studio della storia della malaria e della malariologia in Italia,
delle ricadute della genetica molecolare, delle implicazioni dell’evoluzione e
l'evoluzione. L'approccio storico-epistemologico all'evoluzione trovato una
sintesi nella ricostruzione della storia delle idee di “salute” e malattia e
delle trasformazioni metodologiche a cui è andata incontro la ricerca delle
spiegazione causale della salute. La sua ricerca si è orientata anche verso
l'esame delle radici delle controversie bioetiche. Difende un'idea non
confessionale della bioetica, che ha radici filosofiche in uno scetticismo
morale radicale, naturalistico e non relativista (Bioetica per perplessi. Una
guida ragionata, Mondadori). Coltiva anche
un interesse per la percezione sociale e il ruolo della scienza nella
costruzione del valore civile. Sostiene che l'invenzione e l'espansione del
metodo scientifico hanno consentito e favorito l'evoluzione del libero mercato
e della stato di diritto, ovvero che la scienza ha funzionano come
catalizzatore nella costruzione e manutenzione dei valori critico-cognitivi e
morali che rendono possibile il funzionamento del sistema liberal-democratico. Altre opere: “Nel Paese della Pseudoscienza.
Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie?
Sperimentazione e diritti animali” (Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del
cervello: un'introduzione alla neuro-etica” (Milano, Mondadori Università,;
Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla cura alla scienza” (Milano,
Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi democrazia, Torino, Einaudi); “Perché
gli scienziati non sono pericolosi” (Milano, Longanesi); “La razionalità
negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con Giovanni Jervis), Torino,
Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina basata sull'evoluzione” (Roma-Bari,
Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino, Einaudi); “Breve storia delle idee di salute
e malattia” (Roma, Carocci); “La grammatica del vivente. Storia della biologia
e della medicina molecolare” (Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero
immunologico” (Bollati Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione;
Dall’etica medica alla bioetica; Il senso morale umano e le controversie
bioetiche; 3. Sperimentazione sull’uomo e consenso informato; Scelte di fine
vita; Scelte di inizio vita; Medicina genetica; Sperimentazione animale; Medicina
dei trapianti e definizione di morte; Etica della ricerca responsabile;
Medicina rigenerativa e staminali; Neuroetica; Etica ambientale e OGM; Etica
della comunicazione scientifica, della percezione della scienza e del «gender»;
Indice dei box; Indice analitico; Indice dei nomi. Come nota C. nella
prefazione all’edizione italiana del libro di Ru- bin, il tentativo di
applicare l’approccio evoluzionistico alla filosofia politica spesso rischia di
venire frainteso. Il fraintendimento più comune e pericoloso deriva dalla
mancata distinzione tra il darwinismo politicizzato e la politica darwiniana:
il primo è costituito, come è accaduto nel caso del “social darwinismo”, dall’nterpretazione
strumentale e priva di coerenza logica o di basi scientifiche delle idee
darwiniane per difendere qualche particolare ideologia politica»; la seconda,
invece, consiste nell’«uso delle conoscenze evoluzionistiche sulla natura umana
per meglio comprendere le origini delle preferenze politiche individuali, la
loro distribuzione sociale e le dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e
l’ambiente attuale. Ridley si mostra ben consapevole del rischio di trasformare
la politi- ca darwiniana in ideologia. Questo, tuttavia, non gli impede di
avanzare alcuni suggerimenti di politica economica Cfr. Skyrms, The Evolution
of Social Contract, e Festa “Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali e
filosofia della politica”, Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto, consenso).
Alcune immani tragedie che hanno segnato la storia degli ultimi due secoli
sembrano dovute, almeno in parte, all’ignoranza – e, talvolta, alla ne- gazione
– di alcune caratteristiche essenziali della natura umana. Per esempio, Ridley osserva
che Marx vagheggia un sistema sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo
stati degli angeli, ed è fallito perché siamo invece degli animali. Singer, Una
sinistra dawiniana. Politica, evoluzione e CO0OPERAZIONE, Torino, Edizioni di
Comunità, Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint Academic,
Rubin, La politica secondo Darwin; Corbellini, “Politica darwiniana vs
darwinismo politicizzato”, prefazione a Rubin, La politica secondo Darwin; Ridley.Origini.Virtu.indd
Le origini della virtùsi vedano soprattutto gl’ultimi tre capitoli del saggio –
che gli sembrano compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva
filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche,
che non sarebbe inappropriato chiamare anarco-liberalismo. Tale prospettiva,
ispirata dalla grande fiducia di Ridley negl’ISTINTI CO-OPERATIVI e altruistici
degl’esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine politico-economico
nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico è ridotto ai minimi
termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che immaginava un mondo di liberi
individui. Non sono così ingenuo da pensare che ciò possa accadere da un giorno
all’altro, o che qualche forma di governo non sia necessaria. Ma metto se-
riamente in dubbio la necessità di uno Stato che decide ogni minimo dettaglio
della nostra vita e si attacca come una gigantesca pulce alla schiena della
nazione. D’altra parte, Ridley si rende conto che, mentre le soluzioni
politico-economiche da lui favorite si accordano con alcune tendenze evolutive
umane, confliggono però con altre. Per esempio, egli osserva che certe istituzioni
economi- camente adeguate nella società moderna, come la proprietà privata,
possono entrare in tensione con le tendenze primi- tive all’egualitarismo, alla
redistribuzione e al rifiuto dell’accumulazione di ricchezza. L’analisi dei
conflitti tra le moderne istituzioni politico-economiche e le nostre ten- denze
primitive è uno degli argomenti centrali del già citato libro di Rubin.Le
“Imperfezioni umane” di Pani e C. Covato Mailing Le “Imperfezioni umane” di
Pani e C. Fornire un punto di vista innovativo, cioè evoluzionistico, di tutto
quello che riguarda la salute e le disfunzioni comportamentali, e suggerire
qualche punto di vista originale sul perché nonostante le dissonanze evolutive,
la condizione umana è globalmente migliorata. È questo l’obiettivo del libro
dal titolo “Imperfezioni umane. Cervello e dissonanze evolutive: malattie e
salute tra biologia e cultura” (Rubbettino), scritto da Luca Pani e C., Roma, Centro
studi americani a Via Caetani. Dopo i saluti di Messa, direttore Centro
studi americani, interverranno alla presentazione moderata da Palmieri (Tg1)
monsignor Leuzzi, Vescovo ausiliare di Roma, Mingardi, direttore generale
Istituto Leoni, Ippolito, professore di storia della Filosofia a Roma. Negli
ultimi vent’anni una nuova ipotesi di lavoro si è fatta strada in ambito medico
sanitario, definita nel mondo anglosassone «evolutionary mismatch» (dissonanza
evoluzionistica) – raccontano gl’autori -. Questa teoria assume, in pratica,
che l’ambiente nel quale la nostra specie ha acquisito i suoi tratti adattativi
sia drammaticamente cambiato in un tempo troppo breve perché predisposizioni o
tratti genetici e fenotipici dell’organismo fossero in grado di adeguarsi, per
selezione naturale, alle novità”. Le conseguenze di queste dissonanze?
“Disfunzioni o disturbi o rischi che richiedono un approccio medico”. “Il
libro è diviso in tre parti – spiegano Pani e Corbellini – Si inizia con
un’illustrazione dei presupposti di qualunque strategia motivazionale, cioè dei
meccanismi che sono alla base del piacere e delle ricompense, e da cui deriva –
in ultima istanza – la possibilità di acquisire nuove conoscenze che consentono
di affrontare le incertezze psicologiche che si accompagnano a qualunque
comportamento esplorativo. La riflessione prosegue con esemplificazioni di
risposte comportamentali che in particolari (o mutate) condizioni si
manifestano come malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo specifico al
comportamento alimentare e discute l’esempio più eclatante di dissonanza
evoluzionistica: il mismatch metabolico. Gl’ultimi due capitoli affrontano una
serie d’imperfezioni e predisposizioni comportamentali umane che scaturiscono
da compromessi evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel contesto
dell’adattamento evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali determinati
dall’evoluzione culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori fenomeni
disadattativi”. Nel dettaglio gli autori descrivono le dissonanze create
dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda cicli del sonno, accesso al
cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento sociale, oppure di
comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o l’altruismo; ma anche
le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi capitoli del volume
emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive e innovazioni che
hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili cambiamenti
comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica che sussista
nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale, la capacità
di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative disponibili, senza
essere condizionati da fattori fisici o biologici di qualunque genere. Si
assume, in altri termini, che le persone maturino una cosiddetta “agenticità”,
cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di consapevolezza degli
effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla base dei processi
neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi fisiche che li governano.
Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti modi e da diverse
prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica, etc. Nel
corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato strutture cerebrali che
ci fanno appunto credere di essere liberi e poter decidere in completa
autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario
successo di animali sociali Negli ultimi decenni le neuroscienze
cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio, con una quantità
crescente di prove, la visione classica di libero arbitrio, aprendo un
dibattito scientifico ancora in corso. Qual è la sua posizione
all’interno del dibattito? La mia posizione è che il libero arbitrio è
una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle
neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il libero
arbitrio, allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo
immaginare. Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della specie,abbiamo
sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto credere di essere liberi e
poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il
nostro straordinario successo di animali sociali. Il libero arbitrio è
un’illusione, ma un’illusione molto produttiva. L’intuizione di ritenersi
liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di autoinganno, come tante
altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel tempo è stata
socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso
individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne derivano anche
per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base di un sistema
di obblighi. Ovviamente questa strategia è modulata da specifiche
condizioni ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa illusione si
può espandere e diventare la base di sistemi anche molto progrediti per qualità
di vita, come quelli occidentali, mentre in altri ambienti di vita sarà più
adattativo che tale intuizione e illusione non maturi neppure, o maturi in
forme che sono funzionali a all’accettazione di un comportamento
consapevolmente eterodiretto. L’intuizione di ritenersi liberi è
una forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente addomesticata per
inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di
responsabilità Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale?
Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano? In
che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze? Non
è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del cervello
che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che controllano
la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che alcune
condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con le
proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione di
un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio in
generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone; ovvero
che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere
parentale o reciproco. Mentre situazioni contrarie all’ordine morale
appreso socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente
reazioni di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o
disprezzo). Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali
con altre persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un
calcolo razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o
calcolata. Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione
entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare.
Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che
mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti,
che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo
le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o diverse.
In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza ed entrano
in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche livello, e
quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla base della
funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono far
scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle
prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando
che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere
deleterie. In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo
praticamente uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe
spiegare come ci siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi
decisionali tribali od oppressivi. Credits to Unsplash. Parliamo del
legame tra violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto dall’aggressività
nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili determinanti genetiche
del comportamento aggressivo? L’aggressività, come la cooperazione,
è stata un fattore chiave per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra
specie. Come tutti i tratti, l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono
persone geneticamente più predispostedi altre all’aggressività. È
verosimile che la selezione sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni
della cooperazione in alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo
socio-culturale che nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul
pianeta, e soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato
lo stato di diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta
contro la criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai
stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in
generale, rispetto a oggi. Pinker ha dimostrato questo fatto in un
dettagliatissimo e acuto saggio, “Il declino della violenza”. Nella
storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non
solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi E per quanto
riguarda la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello
maschile, cervello femminile e comportamento aggressivo? Le differenze di
genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente
l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente
aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto
alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul
piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente
aggressive anche più dei bambini. Queste differenze, come altre, dipendono
verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e rispondono a
strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente dell’evoluzione.
Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile dipende molto dai
contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e culturali che influenzano,
ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci sono prove concrete del fatto
che il patriarcato e la sua istituzione giuridica sono fattori importanti per
la persistenza della violenza maschile ai danni delle donne, e del fatto che
ridurre il dominio maschile attraverso delle adeguate politiche sociali riduce
la violenza maschile e che la cooperazione tra donne riduce la violenza
maschile sia contro le donne sia contro altri uomini. Parliamo ora delle
differenze individuali nel controllo degli impulsi. Non ci sono moltissimi
dati, ma uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel cervello
quando si fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa ritardata,
ovvero come viene rappresentata dinamicamente nel cervello la svalutazione del
ritardo quando si sta aspettando e anticipando una ricompensapossibile che è
stata desiderata e scelta. La corteccia prefrontale ventromedialemanifesta
uno schema caratteristico di attività durante il periodo di ritardo nel
ricevere la ricompensa, oltre a esercitare un’attività modulatoria durante la
scelta, che è coerente con la codificazione del tempo durante il quale avviene
una svalutazione del valore soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta
uno schema di attività simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi.
Un profilo contrastante di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata
osservata nella corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone
pazienti, cioè non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e
corteccia prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire
come – influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato
ventrale. Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e
l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future
ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo
post-scelta. Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi
lasci citare ancora Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e
agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura». La vera libertà,
è autonomia e indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è
tanto più liberi e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del
nostro cervello, altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono
autonomo e meno soggetto o costrizioni esterne. Credits to
Unsplash.com Quali sono le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e
dei fattori ambientali sulla capacità decisionale (anche ai fini
dell’imputazione penale)? Può condividere con noi qualche caso di
studio? Casi di studio ce ne sono diversi, ma quelli al momento più
esemplari riguardano gli effetti delle varianti alleliche del gene della mono-amin-ossidasi
A, detto anche “gene del guerriero”, in quanto collegato all’aggressività su
basi osservazionali mirate. In sostanza, le persone con la variante che produce
meno mon-amino-ossidati A. rispondono in modi più aggressivi e violenti,
rispetto a chi esprime livelli più alti. Il fatto interessante è che se
queste persone predisposte all’aggressività sono state allevate in ambienti
accoglienti, esprimono un’aggressività minore rispetto a omologhi genetici
cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati sperimentali in ambito psicologico
e di economia comportamentale dimostrano che le aggressioni hanno luogo con
maggiore intensità e frequenza, quando provocate in un contesto sperimentale,
soprattutto in soggetti con una bassa attività di mono-amino-ossidati A. Gli studi sperimentali mostrano anche che il mono-amin-ossidati
A è meno associato con la comparsa dell’aggressione in una condizione di bassa
provocazione, ma predice più significativamente il comportamento aggressivo in
una situazione molto provocatoria. Esiste ormai una letteratura
sterminata anche sui casi di persone con anomalie morfologiche e funzionali
dell’amigdala che regolarmente esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non
provano emozioni negative quando provocano sofferenze in altri individui. Si
conoscono inoltre casi di tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano
la personalità individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in
quanto un tumore cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali. La memoria
del testimone: in particolare, come si accerta l’attendibilità della
testimonianza e quali sono i principali metodi di verifica? Il sistema
giudiziario si fonda sulla memoria: interrogatorio/confronto, testimonianze,
ricordo dei giurati al momento di discutere il verdetto. Ma la memoria umana è
falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a
false memorie. Gli stati emotivi influenzano la qualità della memoria. La
nostra storia personale influenza il modo in cui ricordiamo. Gli psicologi e
gli esperti studiano soprattutto il problema della testimonianza oculare,
perché in ben tre casi su cinque le identificazioni si rivelano
sbagliate. Esistono diversi metodi di controllo/verifica e volti a
ridurre gli errori nelle testimonianze. Uno di questi analizza per esempio
l’accuratezzadella testimonianza oculare e delle modalità di interrogatorio del
testimone, per arrivare a una probabilità relativa al caso. Il
sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma la memoria umana è falsata: il
cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false memorie.
Esiste anche un diritto alla riservatezza per i nostri ricordi. Nel senso che
se io non intendo comunicare a qualcuno un ricordo, ho diritto a tenerlo per
me. Un giudice deve avere forti ragioni per forzare l’accesso alla mia memoria,
ed è comunque tenuto a rispettare i miei diritti fondamentali se ci prova. Se
davvero si riuscirà a costruire affidabili brain lie detector, macchine della
verità con accesso alle memorie cerebrali, si configurerà un problema sul
fronte di normare i limiti del diritto di un giudice far rilevare impronte
mnestiche del nostro cervello, i ai fini di un’indagine processuale. Non tanto
per la riservatezza del dato di interesse, cioè se un imputato o un testimone
mentono o dico la verità nel caso in specie, ma per il fatto che quell’accesso
può rendere noti dei fatti che non hanno rilevanza con l’indagine e che
potrebbero danneggiare la persona. Inoltre, alcuni farmaci e tecnologie
possono potenziare la memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito consentire a
o incentivare alcuni attori del procedimento giudiziario (giudici e giurati) a
potenziare le loro memorie ai fini di un più efficiente funzionamento del
sistema? La morale ha, o potrebbe avere, un fondamento biologico? La
morale ha un fondamento biologico. La morale serve a tenere insieme i gruppi
umani sociali, e ha creato le premesse sociobiologiche per l’affermarsi della
religiosità quale sistema di controllo incorporato nelle persone e alimentato
socialmente per garantire che i valori morali adattativi in società meno
complesse delle nostre siano mantenuti e trasmessi. In prospettiva: quali
sono a suo avviso i possibili intrecci tra acquisizioni neuroscientifiche e
diritto penale? Quale impatto potrebbero avere sugli attuali meccanismi di
attribuzione della responsabilità e di applicazione della pena? Su questo
punto la penso come chi ha detto che con l’arrivo delle neuroscienze, nel
diritto, cambia tutto e non cambia niente. Vale a dire che il concetto di
libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione
(caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati,
perché privi di basi teorico-fattuali. Mentre si potrebbe affermare un concetto
consequenzialista(utilitarista) della concezione della pena, più vicino al
diritto positivo. Il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo
di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono
destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali In
Italia, come vengono accolte dalla magistratura le evidenze neuroscientifiche?
E a livello internazionale? L’Italia è all’avanguardia, se così si può
dire, nell’uso di prove neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in
particolare, Trieste e Como, riconobbero il ruolo causale di tratti
neurogenetici nel comportamento delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno
sconto di pena. Le sentenze italiane sono state accolte con allarme in
diversi contesti internazionali. Ma c’è poco da fare: se queste conoscenze e
tecnologie acquisiranno una base sperimentalmente solida e consentiranno di
prevedere con buona attendibilità le predisposizioni a commettere reati, è
inevitabile che entreranno a far parte dello strumentario di lavoro dei
giudici. Tuttavia, esiste un’ambivalenza in Italia, come in altri paesi,
verso l’uso delle prove neuroscientifiche. Intanto in Italia non tutti i
giudici hanno ancora chiaro cosa sia una perizia neuroscientifica e ignorano
criteriepistemologicamente validi e formalmente definiti per scegliere periti
che apportino davvero prove scientifiche e controllate nel contesto di un
dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione abbia in sentenze recenti
fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole di ammissibilità delle
prove nei processi statunitensi. Inoltre, si tratta comunque di definire cosa
implica una diminuita imputabilità per colui che commette un reato, in quanto
le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo di funzionare del cervello e
dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è meno libero di altri e quindi
anche meno responsabile, e quindi le sanzioni dovrebbero essere volte a ridurre
al minimo le probabilità di reiterazione del o dei reati. Il riferimento è al noto scritto di Greene, J. Cohen, For the law,
neuroscience changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol
Sci. Ricerca
Storia del pensiero evoluzionista aspetti storici dell'evoluzionismo Lingua
Segui Modifica Evoluzione CollapsedtreeLabels- simplified.svg Meccanismi e
processi Adattamento Deriva genetica Equilibri punteggiati Flusso genico
Mutazione Radiazione adattativa Selezione artificiale Selezione ecologica
Selezione naturale Selezione sessuale Speciazione Storia dell'evoluzionismo
Storia del pensiero evoluzionista Lamarckismo Charles Darwin L'origine delle
specie Neodarwinismo Saltazionismo Antievoluzionismo Campi della Biologia
evolutiva Biologia evolutiva dello sviluppo Cladistica Evoluzione della vita
Evoluzione molecolare Evoluzione degli insetti Evoluzione dei vertebrati
Evoluzione dei dinosauri Evoluzione degli uccelli Evoluzione dei mammiferi
Evoluzione dei cetacei Evoluzione dei primati Evoluzione umana
Filogenetica Genetica delle popolazioni Genetica ecologica Medicina
evoluzionistica Genomica della conservazione Portale Biologia La prima
traccia dell'idea di un'evoluzione biologicadegli esseri viventi è la teoria
sull'origine della vitaattribuita ad Anassimandro di Mileto. Gli animali ebbero
origine nell'acqua, dove erano tutti simili a pesci; con il tempo sono saliti
sulla terraferma dove, liberati dalle scaglie, hanno continuato a vivere. Tale
fu anche l'origine dell'uomo. Con l'avvento del Cristianesimo, e fino almeno
all'evo moderno, l'indagine scientifica fu dominata dall'impianto filosofico
essenzialista di derivazione aristotelica, nel quale la possibilità stessa
della conoscenza si fonda sulla fissità della specie; inoltre, l'evoluzione non
si armonizza con la Genesi e non trova collocazione in un sistema di
riferimento che considera le specie immutabili perché perfette, in quanto
create ex nihilo da Dio. Nel XVII secolo, col riaffiorare delle antiche
concezioni, la parola evoluzione cominciò ad essere utilizzata come riferimento
a un'ordinata sequenza di eventi, particolarmente quando un risultato si
trovava, in qualche modo, già dall'inizio contenuto all'interno di essa. La
storia naturale si sviluppò enormemente, mirando ad investigare e catalogare le
meraviglie dell'operato di Dio. Le scoperte effettuate dimostrarono
l'estinzione delle specie, che fu spiegata dalla teoria del catastrofismo di
Cuvier, secondo cui gli animali e le piante venivano periodicamente annientati
a causa di catastrofi naturali per poi essere rimpiazzate da nuove specie
create dal nulla. In contrapposizione ad essa, la teoria dell'Uniformitarismo
di James Hutton, del 1785, ipotizzava un graduale sviluppo della Terra, il cui
aspetto non era dovuto ad eventi catastrofici ma a un lento processo
perpetuatosi attraverso gli eoni. Darwin, nonno di Charles, avanza delle
ipotesi sulla discendenza comune affermando che gli organismi acquisivano
"nuove parti" in risposta a degli stimoli e che questi cambiamenti
venivano trasmessi alla loro discendenza; nel 1802 suggerì la selezione
naturale. Lamarck sviluppò una teoria simile (l'"ereditarietà dei
caratteri acquisiti"), la quale ipotizzava che tratti
"necessari" venissero ereditati col passaggio da una generazione alla
successiva. Queste teorie di trasmutazione furono sostenute in Gran Bretagna
dai Radicali come Robert Edmond Grant. In questo periodo l'opera di Malthus,
Saggio sul principio della popolazione, influenzò il libero pensiero mostrando
come l'incremento della popolazione mondiale fosse correlato a un eccesso nelle
risorse disponibili. Varie teorie furono proposte per riconciliare la
Creazione biologica con le nuove scoperte scientifiche, incluso l'attualismo di
Charles Lyell secondo cui ogni specie aveva un suo "centro di
creazione" ed era progettata per un particolare habitatil cui cambiamento
portava inevitabilmente alla sua estinzione. Charles Babbage ritenne che Dio
avesse creato le leggi per un programma divino che operava per la produzione
delle specie e Owen seguì Johannes Müller nel pensiero che la materia vivente
avesse un'"energia organizzativa", una forza vitale (Lebenskraft)
che, dirigendo lo sviluppo dei tessuti, determinava l'arco di vita degli
individui e delle specie. Antichità Greci Ipotesi secondo cui un tipo di
animale, perfino l'essere umano, potesse discendere da altri tipi di animali
erano state formulate dai filosofi greci Presocratici. Anassimandro di Mileto suppose
che i primi animali vivessero in acqua, durante una fase umida del passato
della Terra, e che i primi avi viventi a terra della razza umana dovevano
essere nati in acqua, e aver passato solo una parte della loro vita sulla
terraferma. Intuì anche che il primo umano della forma conosciuta oggi doveva
essere stato il figlio di un altro tipo di animale, perché l'uomo ha bisogno di
un lungo periodo di accudimento per raggiungere l'autonomia. Empedocle di
GIRGENTI; intuì che quello che noi chiamiamo nascita e morte degli animali sono
solamente il mischiarsi e il separarsi degli elementi che formano
"l'infinita tribù delle cose mortali". Più in particolare, i primi
animali e le prime piante erano simili alle parti divise che formano quelli che
vediamo oggi, qualcuna delle quali sopravvisse unendosi in differenti
combinazioni, e poi mescolandosi di nuovo, finché "tutto riuscì come se
fosse stato fatto di proposito, lì le creature sopravvissero, essendo
accidentalmente composte in modo corretto". Altri filosofi diventarono più
importanti nel Medioevo, fra cui Platone, Aristotele, ed esponenti della scuola
stoica di filosofia, credevano che le specie di tutte le cose, non solo viventi,
fossero state stabilite da un progetto divino. Epicuro dell’ORTO ha
anticipato l'idea della selezione naturale. Il filosofo romano e atomista
LUCREZIO espone queste idee nel suo poema De rerum natura (Sulla natura delle
cose). Nel sistema Epicureo, si è ipotizzato che molte specie siano state
generate spontaneamente da Gea in passato, ma che solo le forme più funzionali
siano sopravvissute e abbiano avuto progenie. Gli epicurei non sembrano aver
anticipato l'intera teoria dell'evoluzione come la conosciamo oggi, ma sembra
che abbiamo postulato una teoria abiogeneticaseparata per ciascuna specie,
piuttosto che postulare un singolo evento abiogenetico con la differenziazione
delle specie a partire da uno o più organismi progenitori originari.
Cinesi Antichi pensatori cinesi come Zhuang Zhou, un filosofo taoista, hanno
espresso varie idee su come le specie biologiche si siano diversificate.
Secondo Joseph Needham, il Taoismo nega esplicitamente la fissità delle specie
biologiche, e filosofi taoisti ipotizzano che le specie abbiano sviluppato
diversi attributi in risposta ad ambienti differenti. Il Taoismo insegna che
gli esseri umani, la natura e il cielo sono in uno stato di
"trasformazione costante" noto come il Tao, una visione della natura
in contrasto con quella più statica tipica del pensiero occidentale.
Romani Il poema di Lucrezio De rerum natura fornisce la migliore spiegazione
superstite del pensiero dei filosofi epicurei greci. Esso descrive lo sviluppo
del cosmo, la Terra, gli esseri viventi, e la società umana attraverso
meccanismi puramente naturalistici, senza alcun riferimento al coinvolgimento
soprannaturale. De rerum natura potrebbe aver influenzato le speculazioni
cosmologiche ed evolutive di filosofi e scienziati durante e dopo il
Rinascimento. Il suo punto di vista è in forte contrasto con le opinioni di
filosofi romani della scuola stoica come CICERONE, Seneca, e PLINIO il Vecchio che
avevano una visione fortemente teleologica del mondo naturale che ha
influenzato la teologia cristiana. CICERONE riporta che la visione peripatetica
e stoica delle natura riguarda fondamentalmente il produrre vita "capace
di sopravvivere nel migliore dei modi", cosa data per scontata tra l'élite
ellenistica. Agostino. Agostino in un dipinto di Lippi In linea con il
precedente pensiero greco, il vescovo e teologo del IV secolo, Agostino di
Ippona, scrisse che la storia della creazione nel libro della Genesi, non
doveva essere letta troppo alla lettera. Nel suo libro De Genesi ad litteram
("Sul significato letterale della Genesi"), ha dichiarato che in
alcuni casi le nuove creature potrebbero essersi originate attraverso la
"decomposizione" di precedenti forme di vita. Per Agostino — a
differenza di quelle che considerava le forme teologicamente perfette degli
angeli, il firmamento e l'anima umana — le "piante, uccelli e la vita
animale non sono perfetti… ma creati in uno stato di potenzialità". L'idea
di Agostino che le forme di vita siano state trasformate "lentamente nel
corso del tempo" ha spinto padre Giuseppe Tanzella-Nitti, docente di
teologia presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma, a sostenere
che Agostino abbia suggerito una forma di evoluzione. Osborn scrisse in From
the Greeks to Darwin: "Se l'ortodossia di Agostino fosse rimasta una
dottrina della Chiesa, la scoperta dell'evoluzione sarebbe avvenuta molto prima
di quanto non abbia fatto, certamente nel corso del XVIII invece del XIX
secolo, e la controversia su questa verità della Natura non sarebbe mai sorta…
Chiaramente la creazione diretta o istantanea di animali e piante sembrava
essere insegnata dalla Genesi, Agostino lesse questo alla luce del nesso di
causalità primaria e il graduale sviluppo da imperfetto a perfetto spiegato da
Aristotele. Questo influente insegnante ha così tramandato ai suoi seguaci
pareri strettamente conformi alle vedute progressiste di questi teologi del
nostro tempo che hanno accettato la teoria evoluzione. In Storia della lotta
della scienza con la teologia nella cristianità (A History of the Warfare of
Science with Theology in Christendom), dove White scrisse sui tentativi di
Agostino di preservare l'antico approccio evolutivo alla creazione:
"Per secoli una dottrina largamente accettata era che l'acqua, la
sporcizia, e le carogne avevano ricevuto il potere dal Creatore per generare
vermi, insetti, e una moltitudine di piccoli animali; e questa dottrina era
stata accolta con particolare favore da Sant'Agostino e molti dei padri
fondatori, in quanto solleva l'Onnipotente dal creare, Adamo dal nominare, e
Noè dal vivere nell'arca con queste innumerevoli specie disprezzate. In De
Genesi contra Manichæos, Agostino dice: "Supporre che Dio creò l'uomo
dalla polvere con le mani è molto infantile… Dio non plasmò l'uomo con le mani
né soffiò su di lui con la gola e le labbra…" Agostino suggerisce in altri
lavori la sua teoria dello sviluppo degli insetti dalle carogne, e l'adozione
della vecchia teoria dell'evoluzione, mostrando che "alcuni animali molto
piccoli non possono essere stati creati nei giorni quinto e sesto, ma possono
essere stati originati in seguito dalla putrefazione della materia." Per
quanto riguarda l'agostiniana De Trinitate ("Sulla Trinità"), White
ha scritto che Agostino "…sviluppa finalmente l'idea che dietro la creazione
di esseri viventi c'è qualcosa di simile a un'evoluzione, di cui Dio è l'autore
ultimo, che opera attraverso le cause seconde; e, infine, sostiene che alcune
sostanze sono dotate da Dio del potere di produrre alcune classi di piante e
animali.. Una pagina del Kitāb al-Hayawān (libro degli animali) di Al-Jāḥiẓ La
filosofia islamica e la lotta per l'esistenzaModifica Anche se le idee
evolutive di greci e romani si estinsero in Europa dopo la caduta dell'Impero
romano d'Occidente, non furono abbandonate dai filosofi e scienziati islamici.
Nell'Epoca d'oro islamica, i filosofi esplorarono nuove idee nel campo della
storia naturale, quali la trasmutazione dal non vivente al vivente: "dal
minerale al vegetale, dalla pianta all'animale, e dall'animale all'uomo. Nel
mondo islamico medievale, lo studioso al-Jahiz(776 -868) scrisse un libro sugli
animali nel IX secolo, dove descrive la catena alimentare. Khaldun scrive il
Muqaddimah in cui afferma che gli esseri umani si sono sviluppati dal
"mondo delle scimmie", in un processo attraverso il quale "le
specie diventano più numerose". Alcuni dei suoi pensieri, secondo alcuni
commentatori, anticipano la teoria biologica dell'evoluzione. Nel primo
capitolo si legge: "Il mondo con tutte le cose in esso create ha un certo
ordine e la sua solida costruzione mostra nessi tra cause ed effetti,
combinazioni fra alcune parti della creazione ed altre, trasformazioni di
alcune cose esistenti in altre, in uno straordinario reticolo senza fine. Aquino
in un dipinto di Carlo Crivelli Durante il Medioevo, la cultura classica greca
decadde in Occidente. Tuttavia, il contatto con il mondo islamico, dove i
manoscritti greci erano stati conservati e ampliati, ben presto portò a
un'ondata massiccia di traduzioni latine, che re-introdussero in Europa le
opere greche, nonché quelle del pensiero islamico. La maggior parte dei
teologi cristiani credeva che il mondo fosse progettato secondo una gerarchia
immutabile, la grande catena dell'essere o scala naturae, che influenzò il
pensiero della civiltà occidentale per secoli. Altri teologi erano più aperti
alla possibilità che il mondo si fosse sviluppato attraverso processi naturali.
AQUINO si spinse oltre il pensiero di Agostino nel sostenere che i testi sacri
come la Genesi non dovessero essere interpretati in modo letterale, poiché ciò
si poneva in conflitto con quello che i filosofi naturali avevano imparato sul
funzionamento del mondo naturale, e li vincolava dallo scoprire nuove cose[non
chiaro]. L'Aquinate pensava che l'autonomia della natura fosse un segno della
bontà di Dio, e che non vi era alcun conflitto tra il concetto di un universo
divinamente creato, e l'idea che l'universo si potesse essere evoluto nel tempo
attraverso meccanismi naturali.Tuttavia, Tommaso contestava i sostenitori di
Empedocle, che sostenevano che l'universo avrebbe potuto svilupparsi anche
senza un obiettivo di fondo. Rinascimento e IlluminismoModifica
Comparazione di uno scheletro umano con uno scheletro di uccello ad opera di
Belon La filosofia meccanica di Cartesio incoraggiò l'uso della metafora
dell'universo come macchina, un concetto che avrebbe caratterizzato la
rivoluzione scientifica. Alcuni naturalisti, come Benoît de Maillet, produssero
teorie che sostenevano che l'universo, la Terra, e la vita, si erano sviluppati
meccanicamente, senza una guida divina. Maupertuis virò verso un'idea più
materialista, scrivendo che le modifiche naturali si verificano durante la
riproduzione e si accumulano nel corso di molte generazioni, producendo razze e
specie nuove; una descrizione che ha anticipato il concetto di selezione
naturale. La parola evoluzione (dal latino evolutio, "srotolare,
svolgere") è stata inizialmente utilizzata in riferimento allo sviluppo
embrionale; il suo primo impiego in relazione allo sviluppo della specie è
venuto nel 1762, quando Charles Bonnet la ha utilizzata per il suo concetto di
"pre-formazione", in cui le donne portavano una forma in miniatura di
tutte le generazioni future. Il termine ha poi guadagnato gradualmente il
significato più generale di crescita o sviluppo progressivo. Più tardi nel
XVIII secolo, il filosofo francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, uno
dei più importanti naturalisti del tempo, ha suggerito che le specie erano in
realtà solo delle varietà ben delineate, prodotte dalle modifiche, dovute a
fattori ambientali, di un organismo originale. Ad esempio, credeva che leoni,
tigri, leopardi e gatti di casa potessero avere tutti un antenato comune.
Leclerc ha inoltre ipotizzato che le circa 200 specie di mammiferi conosciute
in quel periodo potessero essere derivate da solo 38 forme animali originali.
Le idee evolutive del conte erano però limitate; credeva che ciascuna delle
forme originali fossero sorte per generazione spontanea e che ognuno fosse
stata modellata da "muffe interne" che limitavano la quantità di
cambiamenti possibili. Le opere di Buffon, Histoire Naturelle e Époques de la
nature, contengono teorie ben sviluppate sull'origine materialista della Terra;
la sua messa in discussione della fissità della specie è stata estremamente
influente.[24] Un altro filosofo francese, Denis Diderot, scrive che le
cose viventi possono essere sorte per generazione spontanea, e che le specie
sono in uno stato di costante evoluzione attraverso un processo in cui nuove
forme di vita sorgono continuamente, e possono sopravvivere o meno in base al
caso; un'idea che può essere considerata un'anticipazione parziale della teoria
della selezione naturale. Burnett, Lord di Monboddo, incluse nei suoi scritti,
non solo il concetto che l'uomo era disceso dai primati, ma anche che, in
risposta all'ambiente, le creature avevano trovato metodi di trasformare le
loro caratteristiche in lunghi intervalli di tempo. Il nonno di Darwin, Darwin,
pubblicò Zoonomi, dove suggerì che "tutti gli animali a sangue caldo sono
sorti da un filamento vivente".[26] Nel suo poema Tempio della Natura,
Erasmus ha descritto il progredire della vita dai minuscoli organismi viventi
nel fango fino a giungere alla biodiversità moderna. La nascita della teoria di
Darwin All'Università di Edimburgo, durante gli studi, Charles Darwin fu
coinvolto direttamente negli sviluppi della teoria evoluzionistica di Robert
Edmund Grant, ispirata dalle idee di Erasmus Darwin e Lamarck. In seguito,
all'Università di Cambridge, i suoi studi di teologia lo convinsero ad
accettare le considerazioni di William Paley sul "disegno" di un
Creatore, mentre il suo interesse nella storia naturale aumentò grazie al
botanico John Stevens Henslow e al geologo Adam Sedgwick, entrambi fermamente
credenti in una creazione divina e nell'antico uniformismo della terra. Durante
il viaggio del Beagle, Darwin si convinse della fondatezza dell'attualismo di
Lyell e cercò di conciliare le varie teorie creazionistiche con le prove che
riuscì ad evidenziare. Al suo ritorno, Richard Owen dimostrò che i fossili che
Darwin aveva trovato, appartenevano a specie estinte mostranti relazioni con
delle specie viventi in alcune località. Gould rivelò con sorpresa che gli
uccelli completamente diversi ritrovati nelle Isole Galápagos erano, in realtà,
13 specie diverse di fringuelli (conosciuti ora, volgarmente in tutto il mondo,
come i Fringuelli di Darwin). Schizzo di un albero filogeneticodisegnato
da Darwin negli appunti preparatori del suo First Notebook on Transmutation of
Species. Darwin medita sulla trasmutazionein una serie di appunti segreti. Si
occupò inoltre della selezione artificiale delle razze domestiche, consultando
William Yarrell e leggendo un opuscolo scritto da un amico, Sebright, il quale
commentava come "con un severo inverno, o una scarsità di cibo, attraverso
l'uccisione degli individui deboli e malaticci, si avessero tutti i migliori
effetti della più abile selezione". Nel 1838, in uno zoo, vide per la
prima volta una scimmia antropomorfa: il bizzarro comportamento di un orango lo
impressionò per la somiglianza con quello di un "bambino dispettoso"
e, dalla sua esperienza sui nativi della Terra del Fuoco, lo portò a pensare
che non ci fosse poi un grande abisso tra gli uomini e gli animali, a dispetto
della dottrina teologica che considera solo la specie umana possedente
un'anima. Darwin comincia a leggere la sesta edizione del Saggio sul
principio della popolazione di Malthus, con la quale ricordò la dimostrazione
statistica secondo cui la popolazione umana, riproducendosi al di sopra dei
propri mezzi, competesse per la sopravvivenza. In questo periodo tentò di
applicare per primo questi principi alle specie animali. Darwin applicò nella
sua ricerca il pensiero liberista sulle leggi di Natura, considerando la pura
lotta per la vita priva di sostegni esterni. Dal dicembre 1838 intravide una
somiglianza tra il concetto della selezione artificiale e la Natura Malthusiana
che selezionava, attraverso il cambiamento, le varianti da eliminare, in modo
che ogni parte delle nuove strutture acquisite fosse pienamente pratica e
perfetta. L'origine delle specieModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: L'origine delle specie. La sintesi evolutiva
modernaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Neodarwinismo.Anassimandro di Mileto afferma che dall'acqua e dalla terra
riscaldate sarebbero nati dei pesci o degli animali molto simili a pesci; in
questi concrebbero gli uomini, e i feti vi rimasero rinchiusi fino alla
pubertà. Quando questi si spezzarono, allora finalmente ne uscirono uomini e
donne che potevano già nutrirsi." (Censorino, De die natali) Anassimandro dice
pure che da principio l'uomo fu generato da animali di altra specie." (Plutarco, Doxa) ^ Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche,
Colin A. Ronan, The Shorter Science and Civilisation in China: An Abridgement
by Ronan of Needham's Original Text, Cambridge; New York, Cambridge, Miller
James, Daoism and Nature, su jamesmiller.ca Sedley, Lucretius, in Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Stanford, CA, Stanford, Bowler, The Earth
Encompassed: A History of the Environmental Sciences., in Norton History of
Science, New Yorki, Norton, CICERONE (si veda), De Natura Deorum.
Sant'Agostino, La genesi alla lettera. ^ Gill, Meredith J., Augustine in the
Italian Renaissance: Art and Philosophy from Petrarch to Michelangelo,
Cambridge; New York, Cambridge, Owen, Vatican buries the hatchet with Charles
Darwin, su Times, Bergoglio, "Teoria del Big Bang non contraddice la
creazione divina. Dio non è stato un mago", su huffingtonpost.it,
Huffington Post, Fairfield, From the Greeks to Darwin: An Outline of the
Development of the Evolution Idea, New York, Macmillan, Dickson White, Storia
della lotta della scienza con la teologia nella cristianità, edizione inglese:
A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom, vol. 1, New
York, Londra, D. Appleton et Company, Gutenberg. ^ Ben Waggoner, Medieval and
Renaissance Concepts of Evolution and Paleontology, su ucmp.berkeley.edu,
University of California Museum of Paleontology. Egerton, A History of the
Ecological Sciences, Arabic Language Science Origins and Zoological Writings,
in Bulletin of the Ecological Society of America, Washington, D.C., Teodros, Explorations
in African Political Thought: Identity, Community, Ethics, in New Political
Science Reader Series, New York, Routledge, Khaldūn: "Sixth Prefatory
Discussion, in Muqaddimah. Johnston, And Still We Evolve: A Handbook for the
Early History of Modern Science, 3ª ed., Nanaimo, British Columbia, Liberal
Studies Department, Vancouver Island University, Carrol, Creation, Evolution,
and Thomas Aquinas, in Revue des Questions Scientifiques, Namur, Belgium,
Scientific Society of Brussels. ^ Tommaso d'Aquino, Commentario al "De
Anima". Bowler, Evolution: The History of an Idea, Berkeley, CA,
University of California Press, Pallen, The Rough Guide to Evolution, in Rough
Guides Reference Guides, Londra, Rough Guides, Larston, Evolution: The
Remarkable History of a Scientific Theory, New York, Modern Library, Henderson,
The Emperor's Kilt: The Two Secret Histories of Scotland, Edinburgh, Erasmus
Darwin, Zoonomia o Le leggi organiche della vita, Londra, Joseph Johnson,
Erasmus Darwin, Tempio della Natura, ossia L'origine della Società: Un poema
con note filosofiche, Londra, Joseph Johnson, Voci correlate Evoluzione
Creazionismo Dibattito fra creazionismo ed evoluzionismo Storia del pensiero
evoluzionista, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
Wikidata Portale Biologia Portale Filosofia
Portale Storia L'origine delle specie saggio di divulgazione scentifica
di Charles Darwin Darwinismo teoria dell'evoluzione proposta da Charles
Darwin Evoluzionismo teista dottrina. In the few years
of the pre- Christian period that remained the teaching of Empedocles,
and of Epicurus as the mouthpiece of the y atomic theory, was revived by LUCREZIO
in his “De Rerum Natura.” Of that remarkable man but little is recorded,
and the record is untrustworthy. LUCREZIO died by his own hand, Jerome
says, but of this there is no proof. It is difficult, taking up LUCREZIO’s wonderful
poem, to resist the temptation to make copious extracts from it, since,
even through the vehicle of Munro's annotations, it is probably
little known to the Oxford pupil in Literae Humaniores in these evil days
of snippety philosophy. But the temptation must be resisted, save in
moderate degree. With the dignity which his high mission inspires, LUCREZIO
appeals to us in the threefold character of teacher, reformer, and poet. First,
by reason of the greatness of my argument, and because I set the
mind free from the close-drawn bonds of your Roman superstitions; and next
because, on so dark a theme, I compose such lucid verse, touching every point
with the grace of poesy. As a teacher, LUCREZIO expounds the doctrines of
The Garden (L’Orto) concerning life and nature. As a reformer, LUCREZIO attacks
the Roman superstitions. As a philosophical poet, LUCREZIO informs both the
atomic philosophy and its moral application with harmonious and beautiful verse
swayed by a fervour that is akin to religious emotion. Discussing at the
outset various theories of origins, and dismissing these, notably that which asserts
that things came from nothing for if so, any kind might be born of
anything, nothing would require seed," LUCREZIO proceeds to expound
the teaching of the atomists as to the constitution of things by
particles of matter ruled in their movements by unvarying laws. This
theory LUCREZIO works all round, explaining the processes by which the
atoms unite to carry on the birth, growth, and decay of things, the
variety of which is due to variety of form of the atoms and to
differences in modes of their combination; the combinations being
deter- mined by the affinities or properties of the atoms
themselves, " since it is absolutely decreed what each thing can and
what it cannot do by the conditions of Nature." Change is the law of
the universe;. what is, will perish, but only to reappear in another
form. Death is "the only immortal"; and it is that and
what may follow it which are the chief tormentors of men. " This
terror of the soul, therefore, and this darkness, must be dispelled, not
by the rays of the sun or the bright shafts of day, but by the
outward aspect and harmonious plan of Nature." LUCREZIO explains
that the soul, which he places in the centre of the breast, is also formed
of very minute atoms of heat, wind, calm air, and a finer essence, the
pro- portions of which determine the character of both men and
animals. It dies with the body, in support of which statement LUCREZIO
advances XVIII arguments, so determined is he to " deliver those who
through fear of death are all their lifetime subject to bondage. These themes
fill the first three books. In the fourth he grapples with the mental
problems of sensation and conception, and explains the origin
of belief in immortality as due to ghosts and appari- tions which
appear in dreams. " When sleep has prostrated the body, for no other
reason does the mind's intelligence wake, except because the very
same images provoke our minds which provoke them when we are awake, and
to such a degree that we seem without a doubt to perceive him whom life
has left, and death and earth gotten hold of. This Na- ture
constrains to come to pass because all the senses of the body are then
hampered and at rest throughout the limbs, and cannot refute the unreal by
real things." In the fifth book Lucretius deals with
origins — of the sun, the moon, the earth (which he held to be
flat, denying the existence of the antipodes); of life and its
development; and of civilization. In all this he excludes design,
explaining everything as pro- duced and maintained by natural agents,
"the masses, suddenly brought together, became the rudiments
of earth, sea, and heaven, and the race of living things." He
believed in the successive appearance of plants and animals, but in their
arising separately and di- rectly out of the earth, " under the
influence of rain and the heat of the sun," thus repeating the
old speculations of the emergence of life from slime, "
wherefore the earth with good title has gotten and keeps the name of
mother." He did not adopt Empedocles's theory of the " four roots of
all things," and he will have none of the monsters — ^the
hippo- griflFs, chimeras, and centaurs — ^which form a part of the
scheme of that philosopher. These, he says, ** have never existed,"
thus showing himself far in advance of ages when unicorns, dragons, and
such-like fabled beasts were seriously believed to exist. In one respect,
more discerning than Aristotle, he accepts the doctrine of the survival
of the fittest as taught by the sage of GIRGENTI. For he argues that
since upon "the increase of some Nature set a ban, so that they
could not reach the coveted flower of age, nor find food, nor be united
in marriage," many races of living things have died out, and
been unable to beget and continue their breed." LUCREZIO speaks of GIRGENTI
in terms scarcely less exaggerated than those which he applied to
Epi- curus. The latter is " a god " who first found out
that plan of life which is now termed wisdom, and who by tried skill
rescued life from such great billows and such thick darkness and moored it in
so perfect a calm and in so brilliant a light, ... he cleared men's
breasts with truth-telling precepts, and fixed a limit to lust and fear,
and explained what was the chief good which we all strive to reach."
As to GIRGENTI," that great country (Sicily) seems to have
held within it nothing more glorious than this man, nothing more holy,
marvellous, and dear. The verses, too, of this godlike genius cry with
a loud voice, and make known his great discoveries, so that he
seems scarcely bom of a mortal stock." Continuing his speculations
on the development of living things, Lucretius strikes out in bolder
and l.^ original vein. The past history of man,
he says, lies in no heroic or golden age, but in one of struggle
out of savagery. Only when "children, by their coaxing ways, easily
broke down the proud temper of their fathers," did there arise the
family ties out of which the wider social bond has grown, and soft-
ening and civilizing agencies begin their fair offices. In his battle for
food and shelter, " man's first arms were hands, nails and teeth and
stones and boughs broken off from the forests, and flame and fire, as
soon as they had become known. Afterward the force of iron and copper was
discovered, and the use >^. ' of copper was known before that of iron,
as its nature is easier to work, and it is found in greater
quantity. With copper they would labour the soil of the earth and
stir up the billows of war. Then by slow steps the sword of iron gained
ground and the make of the copper sickle became a byword, and with
iron they began to plough through the earth's [soil, and the
struggles of wavering man were rendered equal." As to language,
" Nature impelled them to utter the various sounds of the tongue,
and use struck out the names of things." Thus does Lucretius point
the road along which physical and mental evolution have since
travelled, and make the whole story subordi- nate to the high purpose of
his poem in deliverance of the beings whose career he thus traces from
super- stition. Man " seeing the system of heaven and the
different seasons of the years could not find out by what causes this was
done, and sought refuge in handing over all things to the gods and
supposing all things to be guided by their nod." Then, in the
sixth and last book, the completion of which would seem to have been
arrested by his death, LUCREZIO explains the law of winds and storms, of
earth-quakes and volcanic outbursts, which men " foolishly lay to
the charge of the gods," who thereby make known their
anger. So, loath to suffer mute, We, peopling the void air,
Make Gods to whom to impute The ills we ought to bear ; With God
and Fate to rail at, suffering easily. And what a motley crowd of
gods they were on whose caprice or indifference he pours his vials
of anger and contempt! The tolerant pantheon of Rome gavie welcome
to any foreign deity with respectable credentials; to Cybele, the Great Mother,
imported in the' shape of a rough-hewn stone with pomp and rejoicings
from Phrygia 204 b. c; to Isis, welcomed from Egypt; to Herakles,
Demeter, As- klepios, and many another god from Greece. But these are
dismissed from a man's thought when the prayer or sacrifice to them had
been offered at the due season. They had less influence on the
Roman's life than the crowd of native godlings who were thinly
disguised fetiches, and who controlled every action of the day. For the
minor gods survive the changes in the pantheon of every race. Of the
Greek peasant of to-day Mr. Rennel Rodd testifies, in his Custom and
Lore of Modern Greece, that much as he would sliudder at the accusation
of any taint of paganism, the ruling of the fates is more immediately
real to him than divine omnipotence. Mr. Tozer confirms this in his
Highlands of Turkey. He says: " It is rather the minor deities and
those as- sociated with man's ordinary life that have escaped the
brunt of the storm, and returned to live in a dim twilight of popular
belief. In India, Lyall tells us that, " even the supreme triad of
Hindu allegory, which represents the almighty powers of creation,
preservation, and destruction, have long ceased to preside actively over
any such correspond- ing distribution of functions. Like limited
monarchs, they reign, but do not govern. They are superseded by the
ever-increasing crowd of godlings whose influence is personal and
special, as shown by Mr. Crooke in his instructive Introduction to
the Popular Religion and Folk-lore of Northern India. The old ROMAN
CATALOGUE of spiritual beings, abstractions as they were, who gfuarded
life in minute detail, is a long one. From the indigitamenta^ as
such lists are called, we learn that no less than forty- three were
concerned with the actions of a child. When the farmer asked Mother Earth
for a good harvest, the prayer would not avail unless he also
invoked " the spirit of breaking up the land and the spirit of
ploughing it crosswise; the spirit of furrow- ing and the spirit of
ploughing in the seed; and the spirit of harrowing; the spirit of weeding
and the spirit of reaping; the spirit of carrying com to the barn;
and the spirit of bringing it out again." The country, moreover,
swarmed with Chaldaean astrolo- gers and casters of nativities; with
Etruscan harus- pices full of " childish lightning-lore, who
foretold eve'tits from the entrails of sacrificed animals; while in
competition with these there was the State-supported college of augurs to
divine the will of the gods by the cries and direction of the flight of
birds. Well might the satirist of such a time say that the place was
so densely populated with gods as to leave hardly room for the
men." It will be seen that the justification for
including Lucretius among the Pioneers of Evolution lies in his two
signal and momentous contributions to the science of man; namely, the
primitive savagery of the human race, and the origin of the belief in
a soul and a. future life. Concerning the first, an- thropological
research, in its vast accumulation of materials during the last sixty
years, has done little more than fill in the outline which the insight
of LUCREZIO enabled him to sketch. As to the second, he anticipates,
well-nigh in detail, the ghost-theory of the origin of belief in spirits
generally which Her- bert Spencer and Dr. Tylor, following the lines
laid down by Hume and Turgot, have formulated and sustained by an
enormous mass of evidence. The credit thus due to Lucretius for the
original ideas in his majestic poem — Greek in con- ception and Roman in
execution — has been obscured in the general eclipse which that poem suf-
fered for centuries through its anti-theological spirit. Grinding at the
same philosophical mill, Aristotle, because of the theism assumed to be
involved in his " perfecting principle," was cited as " a
pillar of the faith" by the Fathers and Schoolmen; while
Lucre- tius, because of his denial of design, was “anathema
maranatha.” Only in these days, when the far-reach- ing effects of the
theory of evolution, supported by observation in every branch of inquiry,
are apparent, are the merits of Lucretius as an original seer, more
than as an expounder of the teachings of GIRGENTI and L’ORTO, made clear.
Standing well-nigh on the threshold of the Chris- tian era, we may
pause to ask what is the sum of the speculation into the causes and
nature of things which, begun in Ionia (with impulse more or less
slight from the East), by Thales, ceased, for many centuries, in the poem
of Lucretius, thus covering an active period of about five hundred years.
The caution not to see in these speculations more than an approximate
ap- proach to modern theories must be kept in mind. There is a
primary substance which abides amidst the general flux of things.
All modern research tends to show that the various combinations of
matter are formed of some prima ma- teria. But its ultimate nature
remains unknown. 2. Out of nothing comes nothing. Modern
science knows nothing of a beginnings and, moreover, holds it to be
unthinkable. In this it stands in direct opposition to the theological
dogma that God created the universe out of nothing; a dogma still
accepted by the majority of Protestants and binding on Roman Catholics.
For the doctrine of the Church of Rome thereon, as expressed in the Canons
of the Vatican Council, is as follows: " If any one confesses
not that the world and all things which are contained in it, both
spiritual and mental, have been, in their whole substance, produced by
God out of nothing; or shall say that God created, not by His free will
from all necessity, but by a necessity equal to the necessity
whereby He loves Himself, or shall deny that the world was made for the
glory of God: let him be anathemaJ' The primary substance is
indestructible. The modern doctrine of the Conservation of Energy
teaches that both matter and motion can neither be ere- ated nor
destroyed. The universe is made up of indivisible particles called
atoms, whose manifold combinations, ruled by unalterable affinities,
result in the variety of things. With modifications based on
chemical as well as mechanical changes among the atoms, this theory
of Leucippus and Democritus is confirmed. (But recent experiments
and discoveries show that reconstruction of chemical theories as to the
properties of the atom may happen.) Change is the law of things, and
is brought about by the play of opposing forces. Modern
science explains the changes in phenomena as due to the antagonism of
repelling and attracting modes of motion; when the latter overcome the
former, equilibrium will be reached, and the present state of
things will come to an end. 6. Water is a necessary condition of
life. Therefore life had its beginnings in water; a theory
wholly indorsed by modern biology, Life arose out of non-living
matter. Although modern biology leaves the origin of life as
an insoluble problem, it supports the theory of fundamental continuity
between the inorganic and the organic. Plants came before animals:
the higher organ- isms are of separate sex, and appeared subsequent
to the lower. Generally confirmed by modern biology, but with
qualification as to the undefined borderland between the lowest plants
and the lowest animals. And, of course, it recognises a continuity in the
order and succession of life which was not grasped by the
Greeks. Aristotle and others before him believed that some of the
higher forms sprang from slimy matter direct. 9. Adverse conditions
cause the extinction of some organisms, thus leaving room for those
better fitted. Herein lay the crude germ of the modern
doctrine of the survival of the fittest. Man was the last to appear, and
his primi- tive state was one of savagery. His first tools and
weapons were of stone; then, after the discovery of metals, of copper;
and, following that, of iron. His body and soul are alike compounded of
atoms, and the soul is extinguished at death. The science of
Prehistoric Archceology confirms the theory of man's slow passage from
barbarism to civili- zation; and the science of Comparative Psychology
de- clares that the evidence of his immortality is neither stronger
nor weaker than the evidence of the immortality of the lower
animals. Such, in very broad outline, is the legacy of sug- gestive
theories bequeathed by the Ionian school and its successors, theories
which fell into the rear when Athens became a centre of intellectual life
in which discussion passed from the physical to those ethical
problems which lie outside the range of this survey. Although Aristotle,
by his prolonged and careful observations, forms a conspicuous exception,
the fact abides that insight, rather than experiment, ruled Greek
speculation, the fantastic guesses of parts of which themselves evidence
the survival of the crude and falsei deas about earth and sky long
prevailing. The more wonderful is it, therefore, that so much
therein points the way along which inquiry travelled after its subsequent long
arrest; and the more apparent is it that nothing in science or art, and
but little in theological speculations, at least among us Westerns, can
be understood without reference to Greece. Approxi-Namb. Place. mate
Speciality. Thales. Miletus.Cosmological (Ionia).Ae Pri f Water.Substance
Anaximender. the Boundless. Anaximenes.Air. Pythagoras. Samos Numbers: the
Ionian a Cosmos built coast). up of geometrical figures or(Grote, Plato)
generated out of number. Xenophanes. Colophon. Founder of the (Ionia).
Eleatic school. Heraditus. Ephesus Ionia Fire. Empedocles. Agrigentum Fire,
Air,Earth, (Sicily). And Water ruled by Love and Strife. Anaxagoras.
Clazomenae (Ionia). Nous. Leucippus Democritus. Abdera. Formulators of the
Atomic Thrace Theory Aristotle. Stagira (Macedonia).
Naturalist. i Epicurus. Samos. Expounder of the Atomic Theory and
Ethical Philosopher. LUCREZIO. Roma Interpreter of Epicurus and
EMPEDOCLE DI GIRGENTI: the first Anthropologist. Gilberto Corbellini. Keywords:
darwinismo politizzato, Dawkins’ selfish gene – read selfish gene – medicina in
Roma antica -- evoluzione, emergentismo, biologia filosofica, grammatical del
vivente, cooperazione, altruismo, razionalita, utilitarismo, darwinismo
sociale, evolluzione, filosofia dell’evoluzione, progresso ed evoluzione.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corbellini” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Cordeschi:
la ragione conersazionale e l’implicatura conversazionale della logica della
guerra – scuola dell’Aquila –filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (L’Aquila).
Filosofo abruzzes. Filosofo italiano. L’Aquila, Abruzzo. Grice: “Cordeschi is
fine if you are into how we can model a pirot from an automaton – Descartes’s
old idea!” -- Roberto Cordeschi (L'Aquila) filosofo. Si laurea a Roma sotto Somenzi. Si appassiona subito
alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i primi studiosi e
contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice discute una tesi sui
Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino, Avezzano, Torino, Roma, e
Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo
mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La cibernetica in Italia” (Roma:
Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza
Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a
internet: etica e politica tra mondo reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico
al corpo sintetico. Roma: Carocci); “Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione
Banca Agricola Mantovana); “Natura, machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia
delle macchine: dalla cibernetica alla robotica bellica” (Roma: Armando);
“Rap-resentare il concetto: filosofia e modello computazionale”. Sistemi
Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il metodo sintetico e la scienza
cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove prospettive nell’Intelligenza
Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana
Treccani), “Quale coscienza artificiale? Sistemi intelligenti, “Adattamento” e
“selezione” nel mondo della natura” (Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo
sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa al Documento di Dartmouth, Sistemi
Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli;
“Forme e strutture della comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia
dell’intelligenza artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca,
SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo
e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum SWIF. C Vecchi problemi filosofici per
la nuova Intelligenza Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia
dell’Intelligenza Artificiale e Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio
Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale
per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza
Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale”
(Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e
macchine intorno alla cibernetica, Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero
meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della
Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I
modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia
della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone,
E., Mangione, C., a cura di. Geymonat L., Storia del pensiero scientifico. Il
Novecento, Milano: Garzanti); Somenzi, La
filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati
Boringhieri); Indagini meccanicistiche sulla mente: la cibernetica e
l’intelligenza artificiale. In: Somenzi, V., Cordeschi, R., a cura di. La
filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati
Boringhieri: Qualche problema per l’IA classica e connessionista. Lettera
matematica PRISTEM, Una macchina protoconnessionista. Pisa: ETS: Le radici
moderne del recupero scientifico della teologia. Nuova Civiltà Delle Macchine);
Scienza e filosofia della scienza; La mente nuova dell’imperatore. La mente, i
computer, le leggi della fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di.
Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, Milano: Marzorati, Turing.
In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico.
Protagonisti, Milano: Marzorati: Significato
e creatività: un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale:
Menti, Cervelli e Computer, Cervello, mente e calcolatori: précis storico
dell’intelligenza artificiale. In: Corsi, P., a cura di. La fabbrica del
pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Milano: Electa: L’intelligenza
artificiale tra psicologia e filosofia. Nuova Civiltà delle Macchine, Mente,
linguaggio e realtà. Milano: Adelphi. Linguaggio mentalistico e modelli
meccanici della mente. Osservazioni sulla relazione di Boden. L’evoluzione dei
calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia
meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione
umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori
Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e
Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno
Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del
concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della
Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli
“sperimentalisti”. Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro
una recensione crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la
risoluzione dei problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica
e critica della psicologia, Manuscript. La psicologia tra scienze della natura
e scienze dello spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi, a cura di. Gli
studi di psicologia in Italia: Aspetti teorici scientifici e ideologici,
Quaderni di storia critica della scienza. Nuova serie. 9, Pisa: Domus Galileana);
Una critica del naturalismo: note sulla concezione crociana delle scienze.
Critica marxista; Introduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Predicati.
In: CIntroduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Elementi di logica
matematica. Roma: Riuniti); Bilancio dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La
filosofia di Leibniz: esposizione critica con un’appendice antologica. Roma:
Newton Compton Italiana); Filosofia e informazione. Padova: La Cultura;
Validità e reiezione nella logica aristotelica. Il problema della decisione.
Report: Storia della Filosofia Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript.
In generale, nella implicatura robotica c’è la tendenza a ricorrere al
vocabolario delle rappresentazioni solo quando, per così dire, non se ne può
fare a meno, ovvero, più precisamente, quando si lascia il livello puramente
reattivo nel quale il lessico delle rappresentazioni sarebbe banale, per
passare a quello topologico e, a maggior ragione, a quello metrico o delle
mappe cognitive. Due robot puramente reattivi sono capaci di risolvere alcuni
compiti per i quali, nella ricerca su animali (la squarrel Toby di Grice), si
erano invocate rappresentazioni complesse come le mappe cognitive. Questi
stessi robot reattivi, man mano che si riducono le restrizioni sull’ambiente,
diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli stessi compiti, che possono
essere risolti solo da agenti dotati di stati interni (attitudine psicologica)
ai quali essi riconoscono lo status di rappresentazioni. La massima sarebbe in
questi casi quella di esaminare tutti i modi possibili di spremere l’ultima
goccia di informazione dal livello reattivo prima di parlare dell’influenza
della rappresentazione, modello del mondo o mappa sul comportamento
intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni, una volta ammesse, le
opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei punti di vista ormai
usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza naturale, classica o nouvelle
che sia. Si può parlare di rappresentazione anche per i pattern connessionisti,
a patto di distinguere la relativa computazione. La rappresentazione e solo
simbolica, quale che sia la loro complessità, e un pattern connessionista, non
essendo considerato simbolico, non e una rappresentazione. Si parla di una
rappresentazione che possono essere di diversa complessità e accuratezza,
esplicita (spliegatura) o implicita (impiegatura), metrica o topologica,
centralizzata o distribuita. E in generale si parla di ra-presentazione
simbolica quando si è in presenza di un costrutto dotato di proprietà ritenuta
analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni polemiche da parte di alcune
tendenze dell’IA nouvelle identificano nell’Ipotesi del Sistema Fisico di
Simboli il paradigma linguistico per eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un
confronto di qualche anno fa tra sostenitori e critici di questa ipotesi mostra
come questa interpretazione sia quanto meno opinabile. Sarebbe opportuno
tenerne conto, per evitare di porre in un modo troppo sbrigativo l’identificazione
tra simbolo e il concetto piu generale
di segno in IA classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi
che stanno alla base della costruzione di un modello di conversazione, tra i
quali quello della natura della rappresentazione. Mi riferisco
all’interpretazione in termini di un sistema di elaborazione simbolica
dell’informazione (dunque in termini di un sistema fisico materiale di simboli)
di sistemi tradizionalmente non considerati tali, come quelli proposti dai
teorici dell’azione situata. L’idea di simbolo che sta alla base di questa
ipotesi è che un simbolo è un pattern che denota, e la nozione di denotazione è
quella che dà al simbolo la sua capacità rappresentazionale. Il pattern puo
denotare altro pattern, sia interni al Si veda per una formulazione particolarmente
esplicita (Gallistel). Detto in breve, tali proprietà riguardano, tra l’altro,
la produttività, ovvero la capacità di generare e capire un insieme illimitato
di frasi, e la sistematicità, ovvero la capacità di capire ad esempio tanto aRb
quanto bRa. Fodor ne ha fatto la base per la sua controversa ipotesi del
“linguaggio del pensiero” Per una introduzione all’argomento, si veda
(Francesco). Per pattern si intende, come sarà più chiaro nel seguito, una
struttura fisica, biologica o inor- ganica, che può essere oggetto di processi
computazionali—codifica, decodifica, registrazione, cancellazione, cambiamento,
confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in un calcolatore e nel sistema
nervoso, anche se in quest’ultimo caso non sappiamo nei dettagli come. Questa
tesi provocò diverse reazioni (si vedano Cognitive Science). Si noti che nelle
intenzioni di Simon e Vera la tesi non comporta che ogni pattern sia dotato di
meccanismo sistema che esterni ad esso (nel mondo reale), e anche stimoli
sensoriali e azioni motorie. Processi tanto biologici quanto inorganici possono
essere simbolici in questo senso e, dal punto di vista sostenuto da Simon e
Vera, i relativi sistemi sono sempre sistemi fisici di simboli, ma a diversi
livelli di complessità. Per esempio, nel caso più semplice che riguarda gli
organismi, anche l’azione riflessa (subcorticale) è un processo simbolico: la
codifica di un simbolo provocata da un ingresso sensoriale, poniamo la
bruciatura di una mano, dà luogo alla codifica di un simbolo motorio, con la
conseguente rapida effettuazione dell’azione, in questo caso il ritirare la
mano. Più precisamente, l’idea è che “il sistema nervoso non trasmette certo la
bruciatura, ma ne comunica l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la
brucia- tura] viene trasmesso al midollo spinale, che a sua volta trasmette un
simbolo ai mu- scoli, i quali esercitano la contrazione che consente di ritirare
la mano.” Nel caso degli artefatti, già il solito termostato è un sistema
fisico di sim- boli, sebbene particolarmente semplice: il suo livello di
tensione è un simbolo che denota uno stato del mondo esterno. Come ho
ricordato, anche Brooks ha finito per riconoscere alle rappresentazioni un loro
ruolo nel comportamento dei suoi robot, se non altro alle rappresentazioni
“relati- ve al particolare compito per il quale sono usate” (i “modelli
parziali del mondo”), quali potrebbero essere, a diversi livelli di
complessità, quelle usate da agenti naturali come Cataglyphis o da agenti
artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra ri- cordato. Simon e
Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come sistemi fisici di
simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto sofisticata, anche se
specializzata a un compito particolare. Ma essi includono tra i sistemi fisici
di simboli anche artefatti molto più semplici, come il ricordato termostato, e
agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al livello del taxon system
(che, seguendo Prescott, era stato definito come una catena di associazioni consistenti
in coppie <stimolo, risponsa>). Secondo i due autori, i primi robot alla
Brooks sono (un tipo relativamente sem- plice di) sistemi fisici di simboli:
anche l’interazione senso-motoria diretta di un agen- te con l’ambiente nella
misura in cui dà luogo a un comportamento coerente alle rego- larità
dell’ambiente, non può essere considerata se non come manipolazione simboli-
ca. Ho ricordato sopra il semplice comportamento reattivo di Allen, che tramite
sonar evita ostacoli presenti in un ambiente reale. In questo caso, i suoi
ingressi sensoriali danno luogo a un processo di codifica, e i costrutti in
gioco (i simboli, secondo la definizione sopra ricordata) che risultano da tale
interazione sensoriale, e poi motoria, dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni
interne (degli ostacoli esterni da evitare) in un senso non banale:
l’informazione sensoriale captata dal robot è converti- ta in simboli, i quali
sono manipolati al fine di determinare gli appropriati simboli motori che
evocano o modificano un certo comportamento. L’assenza di memoria in questo
tipo di agente comporta che l’azione sia eseguita senza una rappresentazione
esplicita del piano e dell’obiettivo che orienta l’azione stessa (senza
pianificazione), ma non che non ci sia attività rappresentazionale simbolica.
Qual è la natura di questi simboli, di queste rappresentazioni simboliche?
denotazionale, cosa che evidentemente renderebbe banale questa definizione di
simbolo: ci sono pattern che non denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla
sufficienza della denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di
rappresen- tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici
si tratta di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la
relazione funzionale del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero
per il solito termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi
connessionisti, o che includono sistemi connessioni- sti), tali
rappresentazioni (analogiche) hanno carattere temporaneo (senza intervento di
memoria) e distribuito (non sono sottoposte a controllo centralizzato). In
questi casi, una rappresentazione certo imprecisa ma sufficientemente efficace
è fornita da un sonar sotto forma di un pattern interno fisico (un pattern di
nodi della rete, nel caso di un sistema connessionista): essa denota o
rappresenta per il robot un ostacolo o una certa curvatura di una parete o di
un percorso. Una volta che tale pattern venga comu- nicato a uno sterzo, esso
determina l’angolo della ruota sterzante del carrello del robot. Per quanto
diversa a seconda dei casi, è sempre presente un processo di codifica-
elaborazione-decodifica non banale, che stabilisce una ben precisa relazione
funziona- le tra il sistema e l’ambiente, e spiega il comportamento coerente
dell’agente nell’interazione con il mondo. Non parlare di rappresentazioni
interne, e limitarsi a dire che un agente “intrattiene certe relazioni causali
con il mondo, non spiega come tali relazioni vengano mantenute. E’ del tutto
ragionevole sostenere che un agente mantiene l’orientamento verso un oggetto
tramite una relazione causale (Grice, “La teoria causale della percezione”) con
esso e che tale relazione è un pattern di interazione, ma non ha senso pensare
che tale pattern venga prodotto per magia, senza un corrispondente cambiamento
di stato rappresenta- zionale dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo
senza una rappresentazione interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più
complesse, che sono alla base di un’attività non semplicemente percettiva
diretta, sono presenti in altri casi, quando entrano in gioco la me- moria,
l’apprendimento, il riconoscimento di oggetti e l’elaborazione di concetti, la
formulazione esplicita di una mappa o di piani alternativi, sotto forma di
rappresentazioni off-line, e ancora. In molte di queste attività “alte”
intervengono rappresentazioni esplicite, linguistiche e metriche, ma se si
riconosce che la cognizione richiede questo tipo di rappresentazioni, è
difficile mettere in dubbio che tali attività non condividono con attività più
“basse” come la percezione, sulle quali esse vengono elaborate, il meccanismo
denotazionale, sia pure in una forma minimale. A meno di restringere
arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo, non c’è ragione di
riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai costrutti della semantica
denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si possa sottoscrivere
questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di rappresentazione] è
effettivamente minimale, tale da rende- re le rappresentazioni più o meno
ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz- zato che si è evoluto o è
stato progettato in modo da coordinare il suo comportamento con le
caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni nel regolatore,
nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento di Bechtel al
regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne faceva il
prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica della co-
gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a feedback
negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi
rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik,
che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli
la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina
calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non
entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle Simon
e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della
realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente.
Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale
che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di
codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica,
molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli
ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si
conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di
questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra
ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da
quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono
essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come
livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato
sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il
funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che
con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da
un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso
sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa
in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi
termini: “Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un
robot behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona
una attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa
base di dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere
confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della
sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di
tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o
modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se
distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua
modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del
mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno
sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento
di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con
l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità
comportamentali di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può
essere implementata in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di
parallelismo, presenta doti di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo
reale paragonabili a quelle di un dispositivo behavior-based. In questo senso,
le regole di descrizione danno una modellizza- zione adeguata del comportamento
di un agente situato. Oltre alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione
riflessa o “innata” e di quella reattiva possono essere rese attraverso un’unica
regola di produzione (qualcosa che corrisponda a una relazione comportamentista
S→R), esistono le azioni automa- rappresentazioni, al ruolo dell’utente degli
artefatti e alla natura della spiegazione cognitiva. L’articolo di Bechtel
contiene una disanima efficace di questi problemi, rispetto a posizioni diverse
come quella sostenuta da Clancey contro la tesi di Vera e Simon. In breve, le
regole di produzione hanno la forma “se... allora”, o CONDIZIONE → AZIONE. La
memoria a lungo termine di un sistema fisico di simboli è costituita da tali
regole: gli antecendenti CONDIZIONE permettono l’accesso ai dati in memoria,
codificati dai conseguenti AZIONE. tizzate a seguito dell’apprendimento,
quando cioè le regolarità relative a un certo comportamento sono state
memorizzate, o quelle che comportano una relazione “di- retta” con il mondo
tramite le affordance alla Gibson. Un esempio sono le risposte immediate che
fanno seguito a sollecitazioni improvvise o impreviste provenienti
dall’ambiente Ora i teorici dell’azione situata (e, come si è visto, i nuovi
robotici) insistono sul fatto che questi casi di interazione diretta con
l’ambiente si svolgono in tempo reale, senza cioè che sia possibile quella
presa di decisione, diciamo così, meditata che ri- chiede la manipolazione di
rappresentazioni e la pianificazione dell’azione. Si pensi all’esempio di
Winograd e Flores dell’automobilista che, guidando, affronta una curva a
sinistra. In primo luogo, secondo i due autori, non è necessario che egli
faccia continuamente riferimento a conoscenze codificate sotto forma di regole
di produzione—non è necessario riconoscere una strada per accorgersi che è
“percorribi- le” (la “percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella
relazione diretta agente- ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa
dall’agente, per così dire, senza pensarci (senza pensare di posizionare le
mani, di contrarre i muscoli, di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a
sinistra ecc.). Tutto ciò avviene automaticamente e immediatamente, dunque
senza applicare qualcosa come una successione di regole di produzione “se p, q”.
In conclusione, la tesi è che non è possibile modellizzare questo aspetto della
presa di decisione istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che
comporta codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni,
regole di produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores
è la teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha
a che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul
serio la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della
razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti
interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione
ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in
generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative
pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno
piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze,
aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea,
non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi
elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso l’apprendimento,
la formazione di schemi automatici di comportamento (di risposte motorie,
nell’esempio di sopra), finiscono per determinare l’esclusione immediata di
certe alternative possibili (come, nell’esempio della guida, innestare la
marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia, frenare ecc.), e
tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza dell’ambiente stesso (fondo strada
bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella terminologia di Gibson sono
invarianti dell’ambiente che vengo- no “colte” (picked up) dall’agente
“direttamente” nella sua interazione con l’ambiente stesso, e “direttamente”
viene interpretato come: senza la mediazione di rappresentazioni e di computa-
zioni su esse. Un esempio sono i movimenti dell’agente in un ambiente nel quale
deve evitare oggetti o seguirne la sagomatura e così via: un po’ quello che
fanno i robot reattivi di cui ho parlato. L’esempio del termostato è ricorrente
in scienza cognitiva e in filosofia della mente dai tempi della cibernetica. E’
evidente che definire sistemi fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del
tipo dei robot di Brooks, come vedremo) comporta rinunciare al requisito
dell’universalità per tali sistemi (sul quale si veda Newell). aspettative
pertinenti.17 Secondo le stesse parole di Simon “il solutore di problemi non
percepisce mai Dinge an sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i
propri pre- concetti” (Simon). Di norma, dunque, l’informazione considerata
dall’agente non è collocata in uno spazio bene ordinato di alternative,
generato dalla formulazione del problema: tale informazione è generalmente
incompleta, ma è pur sempre sostenuta dalla conoscenza della situazione da
parte dell’agente. La proposta è, dunque, che la modellizzazione a regole di
produzione di un’azione del genere, e in generale di una affordance, è un
simbolo che, via il sistema percettivo di codifica, raggiunge la memoria del
sistema per soddisfare la CONDIZIONE di una regola di produzione esplicita. In
questo modo, soddisfatta la CONDIZIONE, si attiva la regola, e la produzione
(la decodifica) del simbolo di AZIONE avvia la risposta motoria. Da questo
punto di vista, le affordance sono rappresentazioni di pattern del mondo
esterno, ma con una particolarità: quella di essere codificate in un modo
particolar- mente semplice. Nell’esempio di sopra, una volta che si sia
imparato a guidare, la regola è qualcosa come: “se la curva è a sinistra allora
gira a sinistra”.Questa regola rappresenta la situazione al livello funzionale
più alto nel quale la rappresentazione che entra in gioco è “minima”. Un
termine del genere, a proposito delle rappresentazioni, lo abbiamo visto usato
da Gallistel, ma per Simon e Vera il termine rimanda alla forma della regola
indicata, che può essere rapidamente applicata: in questo caso, cioè, non c’è
bisogno di evocare i livelli “bassi” o soggiacenti, quelli coinvolti con
l’analisi dettagliata dello spazio del problema e con l’applicazione delle
opportune strategie di soluzione, che comportano computazioni generalmente
complesse, sotto forma di successioni di regole di produzione. Questi livelli
intervengono nelle fasi dell’apprendimento (quando si impara come affrontare le
curve), e possono essere evocati dall’agente quando la situazione si fa
complicata (si pensi a una curva a raggio variabile, che rivela la complessità
dell’interazione codi- fica percettiva-decodifica motoria). E tanto un
apprendimento imperfetto quanto una carenza, per i più svariati motivi,
dell’informazione percettiva rilevante possono anche ostacolare l’accesso ai livelli
soggiacenti che potrebbero dare luogo alla risposta cor- retta (non tutti
coloro che hanno imparato a guidare riescono ad affrontare tutte le curve con
pieno successo in ogni situazione possibile). Insomma, in questa
interpretazione di Simon e Vera l’interazione in tempo reale dell’agente con
l’ambiente è data non dal fatto di essere non simbolica e di non poter essere
modellizzata mediante regole di produzione, ma dal fatto di non dover accede-
re, per dare la risposta corretta, alla complessità delle procedure di
elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti a quello alto. E’ nell’attività
cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si elaborano piani e strategie di
soluzione di problemi, che viene evidenziata la consapevolezza dell’agente.
Simon e Vera ponevano infine un problema che riguarda i limiti degli approcci
reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e che mi sembra condivisibile: “E’
tuttora dubbio se questo approccio behavior-based si possa estendere alla
soluzione di pro- blemi più complessi. Le rappresentazioni non centralizzate e
le azioni non pianificate possono funzionare bene nel caso di creature
insettoidi, ma possono risultare insuffi- cienti per la soluzione di problemi
più complessi. Certo, la formica di Simon non ha 17 Su questo tipo di
comportamento, che può essere visto in termini di “percezione attesa”, si veda bisogno
di una rappresentazione centralizzata e stabile del suo ambiente. Per tornare
al nido zigzagando essa non usa una rappresentazione della collocazione di
ciascun gra- nello di sabbia in relazione alla meta. Ma gli organismi superiori
sembrano lavo- rare su una rappresentazione del mondo più robusta, una
rappresentazione più complessa di quella di una formica, più stabile e tale da
poter essere manipolata per astrarre nuova informazione”. La successiva
evoluzione della robotica sembra confermare questa osservazione. Wikipedia
Ricerca Entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale Dichiarazione di
guerra dell'Italia verso gli alleati nella seconda guerra mondiale 1leftarrow
blue.svg Voce principale: Storia del Regno d'Italia. A seguito dell'attacco
tedesco contro la Polonia, il capo del governo Benito Mussolini, nonostante un
patto di alleanza con la Germania, dichiarò la non belligeranza italiana.
L'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale avvenne con una serie di atti
formali e diplomatici solo dopo nove mesi,, e fu annunciata da Mussolini stesso
con un celebre discorso dal balcone di Palazzo Venezia. Durante i nove mesi di
incertezza operativa, il Duce, impressionato dalle folgoranti vittorie
tedesche, ma conscio della grave impreparazione militare italiana, restò a
lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte contrastanti fra loro,
oscillando tra la fedeltà all'amicizia con Adolf Hitler, l'impulso a rinnegarne
la soffocante alleanza, la voglia di indipendenza tattica e strategica, il
desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia e la brama di essere ago
della bilancia nello scacchiere della diplomazia europea. Mussolini annuncia
la dichiarazione di guerra dal balcone di Palazzo Venezia a Roma
AntefattiModifica Gli attriti con la Francia e l'avvicinamento alla
GermaniaModifica L'ambasciatore francese in Italia André François-Poncet.
Il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop incontra a Roma MUSSOLINI e il
ministro degli esteri italiano CIANO. Durante il colloquio, Ribbentrop parlò di
un possibile patto di alleanza fra Germania e Italia, argomentando che, forse
nel giro di tre o quattro anni, un confronto armato contro Francia e Regno
Unitosarebbe stato inevitabile. Alle molte domande di Mussolini, il ministro degli
esteri tedesco spiegò che esisteva un'alleanza fra inglesi e francesi, i quali
avrebbero cominciato insieme a riarmarsi, che esisteva un patto di assistenza
reciproca fra sovietici e francesi, che gli Stati Uniti d'America non erano
nelle condizioni di intromettersi in prima persona e che la Germania era in
ottimi rapporti con il Giappone, concludendo che «tutto il nostro dinamismo può
dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la ragione fondamentale per
cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso tempestivo. Il Duce non
sembrava convinto e iniziò a tergiversare, ma Ribbentrop catturò la sua
attenzione affermando che il mar Mediterraneo, nelle intenzioni di Adolf
Hitler, sarebbe stato posto sotto il totale dominio italiano, aggiungendo che
l'Italia aveva in passato dimostrato la sua amicizia verso la Germania e che
adesso era «la volta dell'Italia di profittare dell'aiuto tedesco. L'obiettivo
di Hitler, cogliendo l'importanza strategica di avere Roma dalla propria parte,
consisteva nel ridurre il numero dei potenziali nemici in una futura guerra,
scongiurando l'eventuale avvicinamento dell'Italia a Francia e Regno Unito, il
che avrebbe significato il ritorno al vecchio schieramento della prima guerra
mondiale e al blocco marittimo che aveva contribuito a piegare l'Impero tedesco
di Guglielmo II. L'incontro fra Ribbentrop, MUSSOLINI e CIANO, però, si
concluse con un momentaneo nulla di fatto. Dopo la conferenza di Monaco
del 1938 la Francia si era riavvicinata all'Italia, inviando a Roma un suo
ambasciatore nella persona di André François-Poncet, e Mussolini ritenne di
poter approfittare del periodo di buoni rapporti per farle tre richieste
riguardanti il mantenimento della particolare condizione degli italiani in
Tunisia, l'ottenimento di alcuni posti nel consiglio di amministrazione della
compagnia del Canale di Suez e un arrangiamento relativo alla città di Gibuti,
che era il terminale dell'unica ferrovia esistente per Addis Abeba, all'epoca
capitale dell'Africa Orientale Italiana. Infatti, gli obiettivi del Duce non
comprendevano la conquista di territori europei. Il primo ministro inglese
Chamberlain e il suo ministro degli esteri, lord Halifax, si recarono a Parigi
e ultimarono i dettagli per la collaborazione militare tra Francia e Regno
Unito, mentre i rapporti fra Italia e Francia iniziavano a deteriorarsi. Il successivo
30 novembre, durante un discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, il
ministro degli esteri Ciano pronunciò un discorso durante il quale, accennando
alle rivendicazioni irredentistiche italiane, venne interrotto dalle
acclamazioni Nizza!, Savoia!, Corsica!, partite da una trentina di deputati. In
quel momento, nella tribuna diplomatica, assisteva alla seduta anche
l'ambasciatore francese André François-Poncet, arrivato a Roma da appena una
settimana. Una manifestazione simile si verificò il giorno stesso in piazza di
Monte Citorio, dove un centinaio di dimostranti esternò le stesse acclamazioni.
Nonostante la parvenza di spontaneità, si era trattato di iniziative
organizzate da Ciano e da Achille Starace, i quali, chiedendo molto di più
delle tre richieste di Mussolini per poi fingere di accontentarsi del poco
ottenuto per via negoziale, avevano inscenato le manifestazioni per
impressionare François-Poncet, il quale infatti avvisò immediatamente Parigi
dell'accaduto.[8] Il governo francese gli ordinò allora di chiedere spiegazioni
e arrivò alla conclusione che, se la situazione era quella, una futura guerra
contro l'Italia sarebbe stata inevitabile. La sera stessa, durante una seduta
del Gran consiglio del fascismo, Mussolini prese però le distanze da quanto
accaduto in aula, dato che l'Italia aveva da poco ripreso buone relazioni con
la Francia e che la protesta era stata intrapresa a sua insaputa. François-Poncet
chiese a CIANO se le grida dei deputati potevano rappresentare gli orientamenti
della politica estera italiana e se l'Italia riteneva ancora in vigore
l'accordo franco-italiano. Ciano, dissimulando la propria paternità su quanto
accaduto, rispose che il Governo non poteva assumersi la responsabilità delle
affermazioni dei singoli, ma che le riteneva un chiaro campanello d'allarme del
sentire comune nazionale, e che era auspicabile, secondo la sua opinione, una
revisione dell'accordo. Di fronte a
risposte così poco rassicuranti, la Francia iniziò ad aspettarsi un attacco
italiano. Tuttavia, lo stato d'animo dei vertici militari d'oltralpe era
improntato all'ottimismo: il generale Henri Giraud affermò infatti che un
eventuale conflitto sarebbe stato, per le truppe francesi, «una semplice
passeggiata nella pianura del Po», mentre altri ufficiali parlavano di
un'azione militare «facile come infilare un coltello nel burro. Il primo
ministro francese Édouard Daladier, irrigidendo la propria posizione nei
confronti dell'Italia, affermò che non avrebbe mai ceduto ad alcuna pretesa
straniera, facendo così sfumare anche la speranza di accoglimento delle tre
richieste del Duce su Tunisia, Suez e Gibuti. Lo Stato Maggiore francese, fin
dal 1931, aveva disposto dei piani per l'invasione militare dell'Italia,
ampliandoli dopo ma il generale Alphonse Georges fece notare che nessuna azione
sarebbe stata possibile contro l'Italia se, sulla Francia, fosse pesata una
minaccia tedesca. Mussolini decise di aderire al patto italo-germanico,
comunicando a Ribbentrop il proprio impegno. Secondo Ciano, il Duce si convinse
ad accettare la proposta tedesca a causa della comprovata alleanza militare tra
Francia e Regno Unito, dell'orientamento ostile del governo francese nei
confronti dell'Italia e dell'atteggiamento ambiguo degli Stati Uniti d'America,
che mantenevano una posizione defilata, ma che sarebbero stati pronti a
rifornire di armamenti Londra e Parigi. Il maresciallo Pietro Badoglio,
ribadendo la linea mussoliniana tracciata l'anno precedente, riferì allo Stato
Maggiore Generale il contenuto di un suo colloquio avuto con il Duce due giorni
prima, durante il quale «il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle
rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza
e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo
piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di
cessioni territoriali alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare:
quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare una eventuale richiesta (e
ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra -- e ciò non è nelle sue
intenzioni. Gli sforzi sostenuti per la guerra d'Etiopia del 1935-36 e per il
supporto alla guerra civile spagnola del 1936-39avevano comportato spese
eccezionali per l'Italia, le quali, unite alla limitata capacità produttiva
dell'industria, alla lentezza del riarmo e alla scarsa preparazione
dell'esercito, spinsero il Duce ad annunciare al Gran consiglio del fascismo,
il 4 febbraio 1939, che il Paese non avrebbe potuto partecipare a un nuovo
conflitto. La firma del Patto d'AcciaioModifica Italia e Germania,
rappresentate rispettivamente dai ministri degli esteri Ciano e Ribbentrop,
concretizzarono la proposta tedesca dell'anno precedente e firmarono a Berlino
un'alleanza difensiva-offensiva, che Mussolini aveva inizialmente pensato di
battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più prudentemente chiamato Patto
d'Acciaio. Il testo dell'accordo prevedeva che le due parti contraenti fossero
obbligate a fornirsi reciproco aiuto politico e diplomatico in caso di
situazioni internazionali che mettessero a rischio i propri interessi vitali.
Questo aiuto sarebbe stato esteso anche al piano militare qualora si fosse scatenata
una guerra. I due Paesi si impegnavano, inoltre, a consultarsi permanentemente
sulle questioni internazionali e, in caso di conflitti, a non firmare eventuali
trattati di pace separatamente.[16] Pochi giorni prima, Ciano aveva
incontrato Ribbentrop per chiarire alcuni punti del trattato prima di firmarlo.
In particolare la parte italiana, conscia della propria impreparazione
militare, voleva rassicurazioni sul fatto che i tedeschi non avessero
intenzione di iniziare a breve una nuova guerra europea. Il ministro Ribbentrop
tranquillizzò Ciano, dicendo che «la Germania è convinta della necessità di un
periodo di pace che dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni» e che le
divergenze con la Polonia per il controllo del Corridoio di Danzica sarebbero
state appianate «su una strada di conciliazione». Siccome la rassicurazione di
nessun conflitto armato per quattro o cinque anni faceva arrivare al 1943 o al
1944e, quindi, coincideva con la previsione di Mussolini del 4 febbraio 1939 di
essere militarmente pronto per il 1943, il Duce diede il suo assenso definitivo
per la firma dell'alleanza. Vittorio Emanuele III, nonostante la decisione di
Mussolini, continuò a manifestare i propri sentimenti antigermanici e il
successivo 25 maggio, al ritorno di Ciano da Berlino, commentò che «i tedeschi
finché avran bisogno di noi saranno cortesi e magari servili. Ma alla prima
occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono». Dal 27 al 30 maggio il
Duce fu impegnato nella stesura di un testo indirizzato ad Hitler, successivamente
passato alla storia come memoriale Cavallero dal nome del generale che glielo
consegnò ai primi di giugno, nel quale venivano inserite alcune interpretazioni
italiane del Patto da poco stipulato. Nello specifico, Mussolini, nonostante
ritenesse inevitabile una futura «guerra fra le nazioni plutocratiche e quindi
egoisticamente conservatrici e le nazioni popolose e povere», ribadì che Italia
e Germania avevano «bisogno di un periodo di pace di durata non inferiore ai
tre anni» allo scopo di completare la propria preparazione militare, e che un
eventuale sforzo bellico avrebbe potuto avere successo. Ciano si recò al
Berghof, vicino Berchtesgaden, per un colloquio con Hitler. Quest'ultimo,
parlando del Corridoio di Danzica, prospettò un eventuale confronto armato
circoscritto a Germania e Polonia qualora Varsavia avesse rifiutato le
trattative proposte dai tedeschi, specificando che, in base alle informazioni
in suo possesso, né Parigi né Londra sarebbero intervenute. Inoltre, il
Cancelliere tedesco accennò a delle trattative segrete in corso con l'Unione
Sovietica per un'alleanza. Ciano ricordò che era stato definito, alla firma del
Patto d'Acciaio, di far passare alcuni anni prima di intraprendere azioni
belliche, ma il Führer lo interruppe dicendo che «li avrebbe attesi, secondo
quanto era stato concordato. Ma le provocazioni della Polonia e l'aggravarsi
della situazione» avevano «reso urgente l'azione tedesca. Azione però che non
provocherà un conflitto generale. Hitler chiede al Capo del Governo italiano di
quali mezzi e di quali materie prime avesse bisogno per riuscire a prendere
parte a un'eventuale nuova guerra. Nella speranza che il Paese ne fosse
esonerato, il Duce rispose con una lunghissima lista appositamente abnorme e
impossibile da soddisfare, talmente esagerata da essere definita da Galeazzo
Ciano «tale da uccidere un toro. L'elenco - soprannominato Lista del molibdeno
a causa delle 600 tonnellate richieste di questo materiale - comprendeva, fra
petrolio, acciaio, piombo e numerosi altri materiali, un totale di quasi
diciassette milioni di tonnellate di rifornimenti e specificava che, senza tali
forniture da ricevere subito, l'Italia non avrebbe potuto assolutamente
partecipare a una nuova guerra. Il Führer, nonostante il sospetto che Mussolini
lo stesse ingannando, rispose dicendo che comprendeva la precaria situazione
italiana e che poteva inviare una piccola parte del materiale, ma che gli era
impossibile soddisfare per intero le richieste nostrane. La Germania inviò alla
Polonia un ultimatum per la cessione del Corridoio di Danzica e la Polonia
ordinò la mobilitazione generale. La mattina del giorno successivo, nonostante
la situazione fosse già disperata, Mussolini si offrì come mediatore presso
Hitler affinché la Polonia cedesse pacificamente Danzica alla Germania, ma il
ministro degli esteri inglese Halifax rispose che tale soluzione era
inaccettabile. Appresa la notizia, nel pomeriggio dello stesso giorno il Duce
propose allora a Francia e Regno Unito una conferenza per il successivo 5
settembre, «con lo scopo di rivedere quelle clausole del trattato di Versaglia
che turbano la vita europea». Mussolini, precedentemente, aveva già tentato di
instradare la situazione nell'alveo di una soluzione diplomatica. Ciano, nel
suo diario, in più momenti annotò che il Duce «è d'avviso che una coalizione di
tutte le altre Potenze, noi compresi, potrebbe frenare l'espansione germanica»;
«Il Duce sottolinea la necessità di una politica di pace»; «si potrebbe parlare
col Führer di lanciare una proposta di conferenza internazionale»; «Il Duce
tiene molto a che io provi ai tedeschi che lo scatenare una guerra adesso
sarebbe una follia [...] Mussolini ha sempre in mente l'idea di una conferenza
internazionale. Il Duce raccomanda ancora ch'io faccia presente ai tedeschi che
bisogna evitare il conflitto con la Polonia il Duce ha parlato con calore e
senza riserve della necessità della pace»;«Vedo nuovamente il Duce. Tentativo
estremo: proporre a Francia e Inghilterra una conferenza per il 5 settembre»; «facciamo
cenno a Berlino della possibilità di una conferenza». Durante la sera del 31
agosto, però, Mussolini venne informato che Londra aveva tagliato le
comunicazioni con l'Italia. La scelta della non belligeranzaModifica
Truppe tedesche, il 1º settembre 1939, rimuovono una sbarra di confine tra
Germania e Polonia All'alba del 1º settembre le forze armate tedesche,
utilizzando come casus belli l'incidente di Gleiwitz, diedero inizio alla
campagna di Polonia, varcandone il confine alla volta di Varsavia. Mussolini,
avendo firmato solo tre mesi prima l'alleanza con il Reich, fu messo di fronte
alla scelta se scendere o meno in campo a fianco di Hitler. Ricevuta notizia
dell'attacco tedesco e conscio dell'impreparazione italiana, la mattina dello
stesso giorno il Duce telefonò subito all'ambasciatore italiano a Berlino,
Bernardo Attolico, chiedendo che Hitler gli mandasse un telegramma per
sganciarlo dagli obblighi del Patto, in modo da non passare per traditore agli
occhi dell'opinione pubblica. Il Führer rispose immediatamente, in modo molto
cortese, accogliendo senza problemi la posizione dell'Italia, dicendo che
ringraziava Mussolini per l'appoggio morale e politico e rassicurandolo sul
fatto che non aspettava il sostegno militare italiano. Il telegramma, però,
probabilmente per punire la beffa italiana della Lista del molibdeno, non venne
pubblicato da alcun quotidiano del Reich e non venne trasmesso alla radio,
facendo successivamente nascere, nell'opinione pubblica tedesca, una crescente
ostilità nei confronti degli italiani, percepiti come inaffidabili e traditori
del Patto.[32] Galeazzo Ciano riferì che Mussolini, avendo percepito questa
crescente avversione, ancora il 10 marzo 1940 disse a Ribbentrop di essere
«molto riconoscente al Führer per il telegramma nel quale questi ha dichiarato
che non aveva bisogno dell'aiuto militare italiano per la campagna contro la
Polonia», ma che sarebbe stato meglio «se questo telegramma fosse stato
pubblicato anche in Germania». Non potendo scegliere la neutralità per non
tradire l'amicizia con Hitler, nella seduta del Consiglio dei Ministri delle
15:00 del 1º settembre 1939 il Duce rese nota ufficialmente la posizione di non
belligeranza. La mancata consultazione dell'Italia da parte della Germania
prima dell'invasione della Polonia e prima della firma del patto
Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica,
comunque, secondo l'interpretazione italiana erano violazioni dei tedeschi
dell'obbligo di consultazione fra i due Paesi, previsto dal testo del Patto
d'Acciaio, consentendo perciò a Mussolini di dichiarare la non belligeranza
senza formalmente venir meno ai patti sottoscritti. Il 2 settembre
Mussolini ripropose l'idea di una conferenza internazionale: inaspettatamente,
Hitler rispose dichiarandosi disposto a fermare l'avanzata tedesca e a
intervenire in una conferenza di pace cui avrebbero partecipato Germania,
Italia, Francia, Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica. Gli inglesi,
tuttavia, posero come condizione inderogabile che i tedeschi abbandonassero
immediatamente i territori polacchi occupati il giorno prima. Galeazzo Ciano
riportò nel suo diario che «non tocca a noi dare un consiglio di tale natura a
Hitler, che lo respingerebbe con decisione e forse con sdegno. Dico ciò ad
Halifax, ai due Ambasciatori e al Duce, e infine telefono a Berlino che, salvo
avviso contrario dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima
luce di speranza si è spenta». Secondo lo storico Renzo De Felice: «Così, nelle
prime ore tra il 2 e il 3 settembre, sulle secche dell'intransigenza inglese
forse più che su quelle dell'intransigenza tedesca, naufragò la navicella della
mediazione italiana». Il Regno Unito e Francia, in virtù di un trattato di
alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla Germania. L’ambasciatore
Attolico, facendo riferimento all'accordo fra Hitler e Mussolini per una non
immediata entrata in guerra dell'Italia e al telegramma di conferma di Hitler,
comunicò che nel Reich «le grandi masse popolari, ignare dell'accaduto,
cominciano già a dar segno di una crescente ostilità. Le parole tradimento e
spergiuro ricorrono con frequenza». A conferma dell'impreparazione italiana, il
Commissariato Generale per le Fabbricazioni di Guerra sondò il grado di
approntamento delle Forze Armate, ricevendo come risposta dagli Stati Maggiori
che, salvo imprevisti, la Regia Aeronautica sarebbe riuscita a ripianare
sufficientemente le proprie carenze entro la metà del 1942, la Regia Marina
alla fine del 1943 e il Regio Esercito alla fine del 1944. Inoltre l'economia
italiana risultava fortemente danneggiata dal blocco navale alle esportazioni
tedesche di carbone, imposto da Regno Unito e Francia e dall'applicazione del
diritto di angheria, il quale prevedeva che Londra e Parigi potessero non solo attaccare
il naviglio nemico, ma anche controllare il naviglio neutrale (o non
belligerante) e porre sotto sequestro merci e navi neutrali (o non
belligeranti) provenienti da una nazione nemica o dirette verso di essa.
Dall'agosto al dicembre 1939, infatti, gli inglesi fermarono a Gibilterra e a
Suez, con vari pretesti, 847 navi mercantili e passeggeri italiane (cifra poi
salita a 1.347 navi al 25 maggio 1940), rallentando fortemente i traffici di
qualsiasi merce nel Mar Mediterraneo, arrecando grave danno alla produttività
nazionale e peggiorando i rapporti fra Roma e Londra.[39] Durante
l'inverno il Regno Unito fece sapere di essere disposto a vendere carbone
all'Italia, ma ad un prezzo stabilito unilateralmente da Londra, senza garanzia
sulle tempistiche di consegna e a patto che l'Italia rifornisse di armamenti
pesanti Regno Unito e Francia. Siccome l'accettazione di una simile proposta
avrebbe comportato il crollo delle relazioni fra Italia e Germania e una sicura
reazione di Hitler, Galeazzo Ciano comunicò il rifiuto del governo italiano. La
cronica mancanza di carbone e di approvvigionamenti causata dal blocco navale
anglo-francese, però, minava fortemente la stabilità nazionale e rischiava di
portare il Paese all'asfissia economica. La Germania intervenne, rifornendo
l'Italia del carbone necessario e rendendola così ancora più dipendente da
Berlino, anche se la fornitura era molto rallentata perché, per aggirare il
blocco marittimo, doveva obbligatoriamente avvenire via rotaie dal passo del
Brennero. Per i generi di prima necessità, invece, l'Italia sopperì
parzialmente mediante l'estensione delle politiche autarchiche adottate ai
tempi della guerra d'Etiopia. Gli esorbitanti costi di gestione dell'Africa
Orientale Italiana, uniti ai suoi magri guadagni, stavano però rivelando che la
conquista dell'impero era stata più un aggravio che un beneficio per le casse
dello Stato. Per quanto riguarda le risorse umane, le truppe italiane
risultavano impreparate sotto ogni aspetto: nonostante le «otto milioni di
baionette» millantate da Mussolini, la stragrande maggioranza dei soldati
italiani non era motivata da alcun odio contro inglesi e francesi, non era
addestrata a impieghi specifici come l'assalto a opere fortificate o
l'aviotrasporto ed era cronica la mancanza di munizioni, mezzi motorizzati e
indumenti adatti. Il Duce, a conoscenza della crescente ostilità dei
tedeschi nei confronti degli italiani, aveva paura di una possibile ritorsione
di Hitler vincitore e si era posto il problema di quale sorte, in caso di vittoria
tedesca, il Führer avrebbe riservato all'Italia qualora questa si fosse
sottratta ai suoi doveri di alleata. Il generale Faldella, infatti, testimoniò
che «più si profilava l'eventualità della vittoria germanica, più Mussolini
temeva la vendetta di Hitler».Sulla situazione, poi, pesava la questione
dell'Alto Adige, una zona di territorio italiano popolata prevalentemente da
abitanti di lingua e cultura tedesca che, nonostante le rassicurazioni
sull'inviolabilità dei confini, Hitler avrebbe potuto sfruttare come casus
belli, nell'ottica pangermanista di unificare tutte le popolazioni di stirpe
germanica, per annettere quel territorio al Reich e per invadere militarmente
l'Italia settentrionale.[46]Addirittura, il Duce fu anche sfiorato dall'idea che
convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Infatti,
alludendo alla scarsità delle riserve di carburante necessarie per la guerra,
commentò che, senza tali scorte, non sarebbe stato possibile impegnarsi «né col
gruppo A né col gruppo B», facendo perciò supporre che, almeno in linea
teorica, il Duce non escludeva a priori un ribaltamento delle alleanze.
Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei tedeschi e
preoccupato da una loro eventuale calata nella Penisola, il successivo 21
novembre Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo Alpino del
Littorioanche sul confine con il Reich, nonostante l'alleanza fra Italia e
Germania, creando il Vallo Alpino in Alto Adige. La zona, massicciamente
fortificata a tempo di record, venne poi soprannominata dalla popolazione
locale "Linea non mi fido", con evidente riferimento ironico alla
Linea Sigfrido. Il problema della non belligeranzaModifica La bandiera da
guerra tedesca e la bandiera italiana sventolano insieme Gli esiti della
campagna di Polonia, contraddistinta da una serie di impressionanti e fulminee
vittorie dei tedeschi, contrastavano con la condizione di non belligeranza
italiana, mettendo implicitamente in risalto il fallimento della politica
militarista che Mussolini aveva condotto durante tutto il suo governo e dando
l'inaccettabile impressione che l'Italia potesse essere considerata, in sede
internazionale, come un Paese debole, ininfluente, secondario o codardo. Il
Duce era infatti convinto che, nonostante l'insufficienza militare nostrana,
l'Italia non avrebbe potuto astenersi dalla guerra. Secondo il cosiddetto
Promemoria segretissimo, infatti, l'Italia non poteva restare non belligerante
«senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello
di una Svizzera moltiplicata per dieci». Il problema, secondo Mussolini, non
consisteva nel decidere se il Paese avrebbe partecipato o no al conflitto,
«perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto
di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile,
compatibilmente con l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra».[49]
Nello stesso testo, il Duce tornò a riflettere sull'opportunità di denunciare
il Patto d'Acciaio e di schierarsi al fianco di Londra e Parigi, concludendo
però che si trattava di una strada non praticabile e che, anche «se l'Italia
cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non
eviterebbe la guerra immediata colla Germania», ritenendo uno scontro con il
Reich un'eventualità più disastrosa di un conflitto contro Francia e Regno
Unito.[49] Nonostante ciò Mussolini stesso covava la speranza, ormai
flebile, di riuscire ancora a riportare la situazione nell'alveo delle
trattative diplomatiche, credendo possibile una sorta di ripetizione della
conferenza di Monaco del 1938. Per alcuni mesi il Duce restò infatti dubbioso
fra tre possibili alternative:[51] fungere da mediatore in una riconciliazione
per via negoziale fra tedeschi e anglo-francesi, in modo da ottenere da tutti
qualche sorta di ricompensa, oppure rischiare e scendere in guerra al fianco
della Germania (ma solo quando quest'ultima sarebbe stata a un passo dalla
vittoria finale), oppure condurre una sorta di guerra parallela a quella della
Germania, in piena autonomia da Hitler e con obiettivi limitati ed
esclusivamente italiani, che gli avrebbe consentito di sedersi al tavolo dei
vincitori e di raccogliere qualche guadagno con il minimo sforzo, essendo
costretto a centellinare le poche risorse disponibili,[52] e senza perdere la
faccia.[53] Scartata la prima ipotesi, dal momento che le richieste di
trattative avanzate da Hitler erano state respinte, Mussolini si orientò allora
sulla seconda e sulla terza, in realtà strettamente interconnesse fra loro,
maturando questa convinzione almeno già dal 3 gennaio 1940, quando scrisse una
lettera al Führer per comunicargli che l'Italia avrebbe preso parte al
conflitto, ma solo nel momento che avrebbe ritenuto più favorevole:[54] non
troppo presto per evitare una guerra logorante, e non troppo tardi da arrivare
ormai a cose fatte.[55] Nella stessa lettera, però, nonostante l'impegno a
entrare in guerra, Mussolini dimostrò di nuovo la propria titubanza, suggerendo
contraddittoriamente a Hitler di trovare un accomodamento pacifico con Parigi e
Londra, in quanto «non è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio gli
alleati franco-inglesi senza sacrifici sproporzionati agli obiettivi». Dopo un
incontro con il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop, il Duce confermò
questa linea, come risulta dal contenuto di una sua telefonata con Claretta
Petacci intercettata dagli stenografi del Servizio Speciale Riservato.[N 2]
Nella telefonata, Mussolini parlò dell'eventuale entrata dell'Italia in guerra
come di un fatto ineludibile, senza però precisare come e quando. I dubbi sul
da farsiModifica Mussolini e Hitler. Mussolini e Hitler si incontrarono
per un colloquio al passo del Brennero. Secondo Galeazzo Ciano, l'obiettivo del
Duce era dissuadere il Führer dal proposito di iniziare un'offensiva terrestre
contro l'Europa occidentale. L'incontro, invece, finì in un lunghissimo
monologo del Cancelliere tedesco, con il Duce che a stento riuscì ad aprire
bocca. Fra marzo e aprile Hitler intensificò la sua pressione psicologica su
Mussolini, mentre il fronte antitedesco sembrava crollare in una serrata
sequenza di vittorie germaniche. Le Forze Armate del Reich, mettendo in atto
l'efficace tattica del Blitzkrieg, travolsero infatti la Danimarca, la
Norvegia, i Paesi Bassi, il Lussemburgo, il Belgio e iniziarono l'attacco alla
Francia. I vertici militari italiani prevedevano, secondo il generale Paolo
Puntoni, la «liquidazione della Francia entro giugno e dell'Inghilterra entro
luglio». Le folgoranti vittorie tedesche, unite alle risposte tardive e
inefficaci di inglesi e francesi,[59]fecero rimanere gli italiani col fiato
sospeso, tutti più o meno consapevoli che dal conflitto sarebbero dipese le
sorti dell'Europa e dell'Italia, e causarono in Mussolini una serie di reazioni
contrastanti che, «con gli alti e bassi tipici del suo carattere», continuarono
ad accavallarsi, rendendolo incapace di prendere una decisione che sapeva di
dover prendere, ma alla quale cercava di sottrarsi. A chi gli chiedeva un
parere sull'eventualità che l'Italia restasse fuori dal conflitto, Mussolini,
riferendosi all'attacco tedesco in corso in quei mesi, rispondeva che: «se gli
inglesi e i francesi reggono il colpo ci faranno pagare non una, ma venti
volte, Etiopia, Spagna e Albania, ci faranno restituire tutto con gli
interessi». Pio invia un messaggio al Duce per convincerlo a restare fuori dal
conflitto. Ciano, riferendosi al messaggio, annotò sul suo diario che:
«l'accoglienza di Mussolini è stata fredda, scettica, sarcastica». Il re
Vittorio Emanuele III, accennando alla «macchina militare ancora debolissima»,
sconsigliò l'entrata in guerra, raccomandando al Duce di rimanere nella
posizione di non belligeranza il più a lungo possibile. Contemporaneamente la
diplomazia europea si impegnò per evitare che Mussolini scendesse in campo al
fianco della Germania: per impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto
rischiava di essere decisivo per piegare la resistenza francese e avrebbe
potuto creare grosse difficoltà anche al Regno Unito. Il 14 maggio, su insistenza
francese, il presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano
Rooseveltindirizzò al Duce un messaggio dai toni concilianti, il quarto da
gennaio, per dissuaderlo dall'entrare in guerra. Due giorni dopo anche il primo
ministro inglese Winston Churchill seguì l'esempio, ma con un messaggio più
intransigente, in cui avvertiva che il Regno Unito non si sarebbe sottratto
alla lotta, qualunque fosse stato l'esito della battaglia sul continente. Il 26
maggio partì un quinto messaggio di Roosevelt al Duce. Tutte le risposte di
Mussolini confermarono che voleva rimanere fedele all'alleanza con la Germania
e agli "obblighi d'onore" che essa comportava, ma privatamente non
aveva ancora raggiunto la certezza sul da farsi. Pur parlando continuamente di
guerra con Galeazzo Ciano e con gli altri suoi collaboratori,ed essendo
profondamente colpito dai successi tedeschi, almeno fino al 27-28 maggio (se si
esclude un'improvvisa convocazione dei tre sottosegretari militari la mattina
del 10 maggio) non risulta che il numero dei colloqui con i responsabili delle
Forze Armate avesse avuto alcun incremento, e nulla faceva presagire un
intervento a breve. Mentre i francesi si aspettavano un lento avanzare della
fanteria tedesca attraverso il Belgio, o al massimo un improbabile attacco
frontale contro le fortificazioni della Linea Maginot, circa 2.500 carri armati
tedeschi penetrarono in Francia dopo aver attraversato in modo fulmineo la
foresta delle Ardenne, una regione collinare caratterizzata da profonde vallate
e da fitti arbusti che Parigi riteneva, fino a quel momento, del tutto inadatta
a essere attraversata da carri armati. Alla sorpresa di un'azione tatticamente
così brillante seguì il rapido e totale collasso delle Forze Armate francesi,
che fece nascere la convinzione, nei vertici militari italiani, che il Regno
Unito non sarebbe stato in grado di fronteggiare da solo un attacco tedesco e
che sarebbe stato costretto a scendere a patti con Berlino e che gli Stati
Uniti non avrebbero avuto la volontà né il tempo utile di impegnarsi
direttamente nel conflitto, dato che non lo avevano fatto neanche per salvare
la Francia e per servirsi di essa come una testa di ponte sul continente
europeo.[68] Inoltre, la maggioranza dell'opinione pubblica statunitense era
contraria alla guerra e Franklin Delano Roosevelt, impegnato nella campagna
elettorale per le elezioni presidenziali, non poteva non tenerne conto. Il
direttore dell'OVRA, Guido Leto, dispose la raccolta di indiscrezioni,
informazioni riservate e intercettazioni telefoniche per sondare i sentimenti
degli italiani nei confronti della guerra, allo scopo di creare uno spaccato il
più aderente possibile alla realtà da sottoporre al Duce, che chiedeva un
quadro completo della situazione. Secondo tali relazioni, «i nostri informatori
segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore frequenza ed ampiezza, uno
stato di timore - che andava diffondendosi rapidamente - che la Germania fosse
sul punto di riuscire a chiudere assai brillantemente e da sola la tremenda
partita e che, di conseguenza, noi - se pure ideologicamente alleati - saremmo
rimasti privi di ogni beneficio per quanto aveva tratto colle nostre
aspirazioni nazionali. Che, a causa della nostra prudenza - di cui veniva
attribuita la responsabilità a Mussolini - saremmo stati, forse, anche puniti
dal tedesco e che, quindi, se ancora in tempo, bisognava bruciare le tappe ed
entrare subito in guerra». Leto, inoltre, aggiunse che «pochissime voci, e non
certo di politicanti delle due parti avverse e con debolissimi echi nel paese,
si levarono ad ammonire sulle tremende incognite che la situazione presentava».
In questo clima, perciò, anche Mussolini si convinse che l'Italia potesse
«arrivare tardi», in quanto era opinione comune che il Regno Unito avesse i
giorni contati e che la conclusione della guerra fosse ormai prossima. A nulla
servirono le opposizioni del re e di Pietro Badoglio, motivate
dall'impreparazione del Regio Esercito e da un giudizio prudente sulle vittorie
tedesche in Francia. Il sovrano, inoltre, pose l'accento sull'importanza che
avrebbe potuto avere nel conflitto un eventuale intervento armato statunitense,
che sarebbe stato foriero di numerose incognite. Dello stesso avviso era anche
il principe ereditario Umberto di Savoia. Galeazzo Ciano scrisse nel suo
diario: «Vedo il Principe di Piemonte. È molto antitedesco e convinto della
necessità di rimanere neutrali. Scettico, impressionantemente scettico sulle
possibilità effettive dell'esercito nelle attuali condizioni, che giudica
pietose, di armamento». Secondo Mussolini, invece, le rapide vittorie
tedesche erano il presagio dell'imminente fine della guerra, per cui
l'insufficienza effettiva delle Forze Armate italiane assumeva ormai
un'importanza trascurabile. Accanto al suo timore che l'Italia non avrebbe
ricevuto alcun beneficio nella futura conferenza di pace qualora il conflitto
fosse terminato prima dell'intervento nostrano, nacque in Mussolini la convinzione che gli
fosse necessario «solo un pugno di morti» per potersi sedere al tavolo dei
vincitori e per avere diritto a reclamare parte dei guadagni, senza la
necessità di un esercito preparato e adeguatamente equipaggiato in una guerra
che, secondo l'opinione pubblica nella tarda primavera del 1940, sarebbe durata
ancora solo poche settimane e il cui destino era già scritto in favore della
Germania. L'entrata in guerra dell'ItaliaModifica Ultimi tentativi di
mediazioneModifica Il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt A
fine maggio, nei giorni in cui i tedeschi vincevano la battaglia di Dunkerque
contro gli anglo-francesi e il re del Belgio Leopoldo III firmava la resa del
proprio paese, il Duce si convinse che fosse arrivato il «momento più
favorevole» che attendeva da gennaio ed ebbe una decisiva virata verso
l'intervento: il 26 ricevette una lettera dal Führer che lo sollecitava a
intervenire e, contemporaneamente, un rapporto inviato a Roma dall'ambasciatore
italiano a Berlino Dino Alfieri, che era succeduto a Attolico, su un suo
colloquio con Hermann Göring. Quest'ultimo aveva suggerito all'Italia di
entrare in guerra quando i tedeschi avessero «liquidata la sacca
anglo-franco-belga», situazione che si stava verificando proprio in quei
giorni. Entrambi produssero nel dittatore una forte impressione, tanto che
Ciano annotò nel proprio diario che Mussolini «si propone di scrivere una
lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la seconda decade di
giugno». Ogni settimana, di fronte all'ampiezza della vittoria tedesca, poteva
essere quella decisiva per la fine della guerra e l'Italia, secondo Mussolini,
non poteva farsi trovare non in armi. Lo stesso giorno, in un estremo tentativo
di scongiurare la partecipazione italiana al conflitto, il primo ministro
inglese Winston Churchill aveva, previo accordo con il suo omologo francese
Paul Reynaud, inviato al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt
la bozza di un accordo, che quest'ultimo avrebbe dovuto successivamente
trasmettere al Duce. Secondo tale documento, conservato presso i National
Archives di Londra con il nome Suggested Approach to Signor Mussolini, Regno
Unito e Francia ipotizzavano la vittoria finale della Germania e chiedevano a
Mussolini di moderare le future richieste di Hitler. Nello specifico, secondo
questa proposta di accordo, Londra e Parigi promettevano di non aprire alcun
negoziato con Hitler qualora quest'ultimo non avesse ammesso il Duce,
nonostante la mancata partecipazione italiana al conflitto, alla futura
conferenza di pace in posizione uguale a quella dei belligeranti. Inoltre,
Churchill e Reynaud si impegnavano a non ostacolare le pretese italiane alla
fine della guerra (che principalmente consistevano, in quel momento,
nell'internazionalizzazione di Gibilterra, nella partecipazione italiana al
controllo del Canale di Sueze in acquisizioni territoriali nell'Africa
francese). Mussolini, però, in cambio avrebbe dovuto garantire di non aumentare
successivamente le proprie richieste, avrebbe dovuto salvaguardare Londra e
Parigi frenando le pretese di Hitler vincitore, avrebbe dovuto revocare la non
belligeranza e dichiarare la neutralitàitaliana e avrebbe dovuto mantenere tale
neutralità per tutta la durata del conflitto. Roosevelt si dichiarò
personalmente garante per il futuro rispetto di tale accordo. L'ambasciatore
degli Stati Uniti a Roma, Phillips, recò a Ciano la missiva, indirizzata a
Mussolini, con il testo dell'accordo. Lo stesso giorno il governo di Parigi,
per rendere la proposta di Roosevelt ancora più allettante, mediante
l'ambasciatore francese in ItaliaAndré François-Poncet fece sapere al Duce di
essere disponibile a trattare «sulla Tunisia e forse anche sull'Algeria». Secondo
lo storico Ciro Paoletti, «Roosevelt prometteva per un futuro incerto e
lontano. Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato
più presidente? L'Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni
seguenti, delle notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919,
come ci si poteva fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga
scadenza, fatte per di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva
presentarsi alla rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una
Francia al collasso, da un'Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa
avrebbe potuto fargli subito dopo la ormai certa vittoria in Francia - e assai
prima di qualsiasi intervento americano - una Germania trionfante». Secondo gli
storici Emilio Gin ed Eugenio Di Rienzo, inoltre, il Duce non avrebbe mai
accettato di sedersi al futuro tavolo delle trattative di pace, accanto a un
Hitler trionfante, solo "per concessione" degli Alleati, senza aver
combattuto, in quanto la sua figura in sede internazionale ne sarebbe uscita
debolissima e la sua autorità, paragonata a quella del Führer, sarebbe stata
del tutto irrilevante. Ciano, nel suo diario riportò infatti che Mussolini «se
pacificamente potesse avere anche il doppio di quanto reclama, rifiuterebbe». La
risposta a Phillips, infatti, fu negativa. Gli atti formali e l'annuncio
pubblicoModifica La folla, radunata di fronte a Palazzo Venezia, assiste
al discorso sulla dichiarazione di guerra dell'Italia a Francia e Gran Bretagna.
Il Duce comunicò a Badoglio la decisione di intervenire contro la Francia e, la
mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i quattro vertici delle
Forze Armate, Badoglio e i tre capi di Stato Maggiore (Graziani, Cavagnari e
Pricolo): in mezz'ora tutto fu definitivo. Mussolini comunicò ad Alfieri la sua
decisione e il 30 maggio annunciò ufficialmente a Hitler che l'Italia sarebbe
entrata in guerra mercoledì 5 giugno. Mesi prima, in realtà, il Duce aveva
ipotizzato un'entrata in guerra per la primavera 1941, data poi avvicinata al
settembre 1940 dopo la conquista tedesca di Norvegia e Danimarca e
ulteriormente accorciata dopo l'invasione della Francia, fatto che faceva
presagire un'ormai imminente fine del conflitto. Il 1º giugno il Führer
rispose, chiedendo di posticipare di qualche giorno l'intervento per non
costringere l'esercito tedesco a modificare i piani in corso di attuazione in
Francia. Il Duce si mostrò d'accordo, anche perché il rinvio gli permetteva di
completare gli ultimi preparativi. In un messaggio del 2 giugno, però,
l'ambasciatore tedesco a Roma Mackensen comunicò a Mussolini che la richiesta
di posticipare l'azione era stata ritirata e, anzi, la Germania avrebbe gradito
un anticipo. Il Duce, tramite il generale Ubaldo Soddu, chiese a Vittorio
Emanuele III che gli venisse ceduto il comando supremo delle forze armate che,
in base allo Statuto Albertino, era detenuto dal sovrano. Secondo Galeazzo
Ciano il re avrebbe opposto notevole resistenza, finendo con il concordare una
formula di compromesso: il comando supremo sarebbe rimasto in capo a Vittorio
Emanuele III, ma Mussolini lo avrebbe gestito in delega. Il 6 giugno il Duce,
scontento di questa soluzione e irritato dalla difesa del sovrano delle proprie
prerogative statutarie, sbottò: «Alla fine della guerra dirò a Hitler di far
fuori tutti questi assurdi anacronismi che sono le monarchie».[89] Volendo
evitare l'entrata in guerra venerdì 7 giugno, data che era stata
superstiziosamente considerata di cattivo auspicio, si giunse a lunedì 10
giugno. Galeazzo Ciano fece convocare per le 16:30 a Palazzo Chigi
l'ambasciatore francese André François-Poncet e, secondo la prassi diplomatica,
gli lesse la dichiarazione di guerra, il cui testo recitava: «Sua Maestà il Re
e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la
Francia a partire da domani 11 giugno». Alle 16:45 dello stesso giorno venne
ricevuto da Ciano l'ambasciatore britannico Percy Loraine, che ascoltò la
lettura del testo: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si
considera in stato di guerra con la Gran Bretagna a partire da domani 11
giugno». Entrambi gli incontri si svolsero, secondo i diari di Galeazzo Ciano,
in un clima formale, ma di reciproca cortesia. L'ambasciatore francese avrebbe
detto che considerava la dichiarazione di guerra come un colpo di pugnale a un
uomo già a terra, ma che si aspettava una tale situazione già da due anni, dopo
la firma del Patto d'Acciaio fra Italia e Germania, e che comunque nutriva
stima personale per Ciano e non poteva considerare gli italiani come nemici. L'ambasciatore
inglese, invece, sempre secondo Ciano avrebbe partecipato all'incontro restando
imperturbabile, limitandosi a domandare educatamente se quella che stava
ricevendo dovesse essere considerata un preavviso o la vera e propria
dichiarazione di guerra. Preceduto dal vicesegretario del Partito Nazionale
Fascista Pietro Capoferri, che ordinò alla folla il saluto al Duce, alle 18:00
dello stesso giorno Mussolini, indossando l'uniforme da primo caporale d'onore
della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, di fronte alla folla
radunatasi in Piazza Venezia, annunciò, con un lungo discorso trasmesso anche
via radio nelle principali città italiane, che «l'ora delle decisioni
irrevocabili» era scoccata, mettendo al corrente il popolo italiano delle
avvenute dichiarazioni di guerra. Di seguito, l'incipit e explicit del
discorso: «Combattenti di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere della
rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno
d'Albania. Ascoltate! Un'ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra
patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già
stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. La parola
d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed
accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare
finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al
mondo. Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo
coraggio, il tuo valore!». Le reazioni dell'opinione pubblicaModifica La
prima pagina de Il Popolo d'Italia dell'11 giugno 1940 La notizia fu accolta
con entusiasmo dai gruppi industriali italiani, che vedevano l'inizio del
conflitto come un'occasione per aumentare la produzione e la vendita di armi e
macchinari, e da una buona parte dei vertici fascisti, nonostante le più alte
personalità del regime avessero in precedenza espresso scetticismo
sull'intervento italiano e avessero abbracciato la linea di condotta tracciata
da Mussolini il 31 marzo 1940, che prevedeva di entrare in guerra il più tardi
possibile allo scopo di evitare un conflitto lungo e insopportabile per il
Paese. In ogni caso, fra le personalità che avevano espresso dubbi - se non
veri e propri atteggiamenti ostili - sull'intervento militare italiano, nessuna
palesò pubblicamente la propria opposizione al conflitto e sulla scrivania del
Capo del Governo non vennero recapitate lettere di dimissioni. La stampa
italiana, condizionata da censura e controllo imposti dal regime fascista,
diede la notizia con grande enfasi, utilizzando titoli a caratteri cubitali che
facevano uso entusiasta di citazioni del discorso e manifestavano completa
adesione alle decisioni prese: «Corriere della Sera: Folgorante annunzio del
Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il Popolo d'Italia: POPOLO
ITALIANO CORRI ALLE ARMI! Il Resto del Carlino: Viva il Duce Fondatore
dell'Impero. GUERRA FASCISTA. L'Italia in armi contro Francia e Inghilterra. Il
Gazzettino: Il Duce chiama il popolo alle armi per spezzare le catene del Mare
nostro. L'Italia: I dadi sono gettati. L'ITALIA È IN GUERRA. La Stampa: Il Duce
ha parlato. La dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia.
Bertoldo: Londra non sarà piena di tedeschi, ma fra poco sarà piena di
italiani.» L'unica voce critica che si levò, oltre ai giornali
clandestini, fu quella de L'Osservatore Romano: «E il duce (abbagliato) salì
sul treno in corsa». Questo titolo fu accolto con grande disappunto dai vertici
italiani, tanto che Roberto Farinacci, segretario del partito fascista, in un
commento alla stampa affermò che: «La Chiesa è stata la costante nemica
dell'Italia». Il capo dell'OVRA, Guido Leto, prendendo atto della
reazione dell'opinione pubblica italiana, riferì che: «Come la polizia rilevò e
riferì il quasi unanime dissenso del paese verso un'avventura bellica, così
nella primavera del 1940 essa segnalò il rovesciamento della pubblica opinione
presa da un ossessionante timore di arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo
operò come un termometro: non determinò, né influenzò, né menomamente alterò la
temperatura del paese, ma semplicemente la misurò». Hitler, venuto a conoscenza
dell'annuncio pubblico, inviò immediatamente due telegrammi di solidarietà e
ringraziamento, uno indirizzato a Mussolini e uno a Vittorio Emanuele III,
anche se, privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto
avrebbe preferito che l'Italia attaccasse a sorpresa Malta e altre importanti
posizioni strategiche inglesi anziché dichiarare guerra a una Francia già
sconfitta. In sede internazionale l'intervento italiano contro la Francia fu
visto come un gesto vile, al pari di una pugnalata alle spalle, in quanto
l'esercito francese era già stato messo in ginocchio dai tedeschi e il suo
comandante supremo, il generale Weygand, aveva già impartito ai comandanti
delle forze superstiti l'ordine di ritirarsi per mettere in salvo il maggior
numero possibile di unità. Il giudizio di Churchill sull'ingresso dell'Italia
nel conflitto bellico e sull'operato di Mussolini fu affidato al commento
pronunciato a Radio Londra: «Questa è la tragedia della storia italiana. E
questo è il criminale che ha tessuto queste gesta di follia e vergogna». Quando
venne raggiunto dalla notizia dell'intervento italiano contro un nemico ormai
sconfitto, il presidente degli Stati Uniti Roosevelt rilasciò a Charlottesville
una dura dichiarazione radiofonica: «In questo 10 giugno, la mano che teneva il
pugnale l'ha affondato nella schiena del suo vicino». Piani di
guerraModifica L'entrata in guerra fu la notizia principale su tutti i
quotidiani italiani. I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo
Stato Maggiore dell'esercito e prevedevano una condotta strettamente difensiva
sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da iniziare solamente in
condizioni favorevoli) in Jugoslavia, Egitto, Somalia francese e Somalia
britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la dislocazione delle
forze disponibili, non di piani operativi, per i quali veniva lasciata al Duce
piena libertà di improvvisazione. I vertici militari riconobbero l'inadeguatezza
del Paese ad affrontare una guerra ma, allo stesso tempo, non presero posizione
dinanzi all'intervento, ribadendo la loro totale fiducia in Mussolini. L'approccio
del Duce al conflitto appena iniziato dall'Italia si concretizzò in direttive
più o meno frammentarie, che egli indirizzava ai vertici militari: furono
formulate richieste di operazioni nei teatri più disparati, mai trasformatesi
in scelte precise e piani concreti. Venivano a mancare, in questo quadro, una
strategia complessiva e di ampio respiro, obiettivi reali e un'organizzazione
razionale della guerra. Ciò fu evidente fin da subito, quando lo Stato Maggiore
Generale notificò che: «A conferma di quanto comunicato nella riunione dei Capi
di Stato Maggiore tenuta il giorno 5 ripeto che l'idea precisa del Duce è la
seguente: tenere contegno assolutamente difensivo verso la Francia sia in terra
che in aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi, si
considerino tutte forze nemiche da attaccare; se si incontrano solo forze francesi,
prendere norma dal loro contegno e non essere i primi ad attaccare, a meno che
ciò ponga in condizioni sfavorevoli». In base a quest'ordine la Regia
Aeronautica ordinò di non effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di
compiere ricognizioni aeree mantenendosi in territorio nazionale, e altrettanto
fecero il Regio Esercito e la Regia Marina, la quale non aveva intenzione di
uscire dalle acque nazionali salvo per il controllo del canale di Sicilia, ma
senza garantire le comunicazioni con la Libia. Come preannunciato nella
corrispondenza con il governo tedesco, dall'11 giugno le truppe italiane
cominciarono le operazioni militari al confine francese in vista della
pianificata occupazione delle Alpi occidentali ed effettuarono bombardamenti
aerei, di carattere puramente dimostrativo, su Porto Sudan, Aden e sulla base
navale inglese di Malta. L'alto comando delle operazioni venne affidato al
generale Graziani, un ufficiale esperto in guerre coloniali contro nemici
inferiori per numero e per mezzi, che non aveva mai avuto il comando su un
fronte europeo e che non aveva alcuna
familiarità con la frontiera occidentale. I vertici militari italiani,
costretti a centellinare le poche risorse disponibili, decisero di muovere le
truppe solo in concomitanza con i movimenti dei tedeschi:[108]l'aggressione
alla Francia avvenne infatti solo quando la Germania l'aveva già praticamente
sconfitta, poi ci fu un periodo di inattività italiana contemporaneo
all'inattività tedesca nell'estate 1940, poi le azioni italiane ripresero
quando la Germania iniziò la pianificazione dell'aggressione al Regno Unito.
Secondo lo storico Ciro Paoletti: «Ogni volta che i Tedeschi si muovevano
poteva essere quella decisiva per la fine vittoriosa del conflitto; e l'Italia
doveva farsi trovare impegnata quel tanto che bastasse a dire che anch'essa
aveva combattuto lealmente e godeva il diritto di sedersi al tavolo dei
vincitori». L'atteggiamento dell'Italia, che «entrava in guerra senza essere
attaccata» né sapeva dove attaccare, e che «addensava le truppe alla frontiera
francese perché non aveva altri obiettivi», venne sintetizzato dal generale
Quirino Armellini con la massima: «Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà. Il
Promemoria segretissimo 328 era una relazione, stilata da Mussolini, con
destinatari Vittorio Emanuele III, Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Rodolfo
Graziani, Domenico Cavagnari, Francesco Pricolo, Attilio Teruzzi, Ettore Muti e
Ubaldo Soddu. cfr. Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra
redatto da Benito Mussolini, su larchivio. Il Servizio Speciale Riservato era un organo,
istituito ai tempi di Giovanni Giolitti, per tenere sotto controllo le
principali personalità del Paese. ^ Diversa, invece, la versione su toni e
parole data dall'ambasciatore francese: «E così, avete aspettato di vederci in
ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in voi non ne sarei affatto
orgoglioso», e Ciano avrebbe risposto, arrossendo: «Mio caro Poncet, tutto
questo durerà l'espace d'un matin. Ben presto ci ritroveremo tutti davanti a un
tavolo verde», riferendosi a un futuro tavolo delle trattative al termine del
conflitto. cfr. Niente pugnale alla schiena in Internet Archive., in Il Tempo. Di
seguito i testi dei due telegrammi, qui fedelmente riportati secondo le fonti
reperibili. cfr. La Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su
storiaxxisecolo. Berlino, telegramma di Hitler al Re La provvidenza
ha voluto che noi fossimo costretti contro i nostri stessi propositi a
difendere la libertà e l'avvenire dei nostri popoli in combattimento contro
Inghilterra e Francia. In quest'ora storica nella quale i nostri eserciti si
uniscono in fedele fratellanza d'armi, sento il bisogno d'inviare a Vostra
Maestà i miei più cordiali saluti. Io sono della ferma convinzione che la
potente forza dell'ITALIA e della GERMANIA otterrà la vittoria sui nostri
nemici. I diritti di vita dei nostri due popoli saranno quindi assicurati per
tutti i tempi. Berlino, telegramma di Hitler a Mussolini Duce, la
decisione storica che Voi avete oggi proclamato mi ha commosso profondamente.
Tutto il popolo tedesco pensa in questo momento a Voi e al vostro Paese. Le
forze armate germaniche gioiscono di poter essere in lotta al lato dei camerati
italiani. Nel settembre dell'anno scorso i dirigenti britannici dichiararono al
Reich la guerra senza un motivo. Essi respinsero ogni offerta di un regolamento
pacifico. Anche la Vostra proposta di mediazione si ebbe una risposta negativa.
Il crescente sprezzo dei diritti nazionali dell'ITALIA da parte dei dirigenti
di Londra e di Parigi ha condotto noi, che siamo stati sempre legati nel modo
più stretto attraverso le nostre Rivoluzioni e politicamente per mezzo dei
trattati, a questa grande lotta per la libertà e per l'avvenire dei nostri
popoli. Fonti ^ Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti, Acerbo, Paoletti,
Paoletti, Le Moan, Ciano, Schiavon, Ciano, Ciano, Corpo di Stato Maggiore,
Candeloro, Paoletti, Paoletti, Ciano, Collotti, Ciano, Paoletti, Bocca, Costa
Bona, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti, Ciano,
Bocca, De Felice, Ciano, Paoletti, Paoletti, Paoletti, Candeloro, Ciano,
Candeloro, Bocca, Candeloro, Faldella, Paoletti, Bottai, Bernasconi e Muran, Rochat,
Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito
Mussolini, su larchivio.com, Candeloro, Paoletti, Rochat, Paoletti, Candeloro,
Corrispondenza Mussolini – Hitler, su digilander.libero.it. Speroni, Ciano,
Candeloro, Felice, Costa Bona, Ciano, Ciano, De Felice, De Felice, Vedovato,
G., et Grandi. Grandi al Duce. Questo è il momento di astenersi dalla guerra».
Rivista di Studi Politici, Felice, De Felice, Paoletti, Paoletti, Leto,
Paoletti, Felice, Faldella, Speroni, Speroni, Faldella, Badoglio, De la Sierra,
De Felice, Il carteggio Churchill-Mussolini? Una traccia nei National Archives
di Londra, su nuovarivistastorica, Paoletti, Ciano, Ciano, Felice, Carteggio
Hitler Mussolini L'Archivio "storia - history", su larchivio. Felice,
Ciano, Lepre, Corpo di Stato Maggiore, Niente pugnale alla schiena, in Il
Tempo, Speroni, Felice, La Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo, Pietrantonio,
L’Italia dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna, su abitarearoma, Santis,
Bocca, Fiori, Mussolini: il discorso che cambiò la storia d'Italia, in
Repubblica, Campagna di Francia, su storiaxxisecolo, Rochat, Rochat, Faldella,
Rochat, Cicchino. Il testo della dichiarazione di guerra, su larchivio.com, Bocca,
Faldella, Battistelli, I rapporti militari italo-tedeschi, Paoletti, Rochat, p.
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1974, ISBN non esistente. Pietro Badoglio, L'Italia nella seconda guerra
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Trento, Temi, Bocca, Storia d'Italia nella guerra fascista, Milano, Mondadori,
Bottai, Diario, a cura di Bruno Guerri, Milano, Rizzoli, Candeloro, Storia
dell'Italia moderna, Volume 10, Milano, Feltrinelli, Ciano, L'Europa verso la
catastrofe. La politica estera dell'Italia fascista, Verona, Mondadori, Ciano,
Diario, a cura di Felice, Milano, Rizzoli, Collotti ed Enrica Collotti Pischel,
La storia contemporanea attraverso i documenti, Bologna, Zanichelli, Corpo di
Stato Maggiore, Bollettini della guerra, Roma, Stato Maggiore R. Esercito,
Ufficio Propaganda, Corpo di Stato Maggiore, Verbali delle riunioni tenute dal
Capo di S.M. Generale, Roma, Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico,
Costa Bona, Dalla guerra alla pace: Italia-Francia, Milano, Angeli, Felice,
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Quai d'Orsay à la veille de la Seconde Guerre Mondiale, intervento alle
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Mussolini l'italiano. Il duce nel mito e nella realtà, Milano, Mondadori,
Leto, OVRA-Fascismo e antifascismo, Rocca San Casciano, Cappelli, Paoletti,
Dalla non belligeranza alla guerra parallela, Roma, Commissione Italiana di
Storia Militare, Quartararo, Roma tra Londra e Berlino - La politica estera
fascista, Roma, Bonacci, Rochat, Le guerre italiane, Milano, Einaudi, Schiavon,
La perception de la menace italienne par l'État-Major français à la veille de
la Seconde Guerre Mondiale, intervento alle «Journées d'études France et Italie
en guerre. Bilan historiographique et enjeux mémoriels», Roma, Ecole
Française, Speroni, Umberto II. Il dramma segreto dell'ultimo re, Milano,
Bompiani, Voci correlate Battaglia delle Alpi Occidentali Lista del molibdeno
Occupazione italiana della Francia meridionale Storia del Regno d'Italia Italia
nella seconda guerra mondiale Altri progettiModifica Collabora a Wikisource
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alla Francia e alla Gran Bretagna: il discorso di Mussolini, su
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accordo di reciproco aiuto politico, diplomatico e militare tra i governi del
Regno d'Italia e della Germania nazista Lista del molibdeno richiesta
italiana di materiale bellico nella II guerra mondiale Memoriale
Cavallero. Roberto Cordeschi. Cordeschi. Keywords: la logica della guerra, la
guerra del fascismo, Croce, sperimentalismo italiano, mente, homo mechanicus,
Turing, Craik, artificiale e naturale, filosofia, rappresentare il concetto,
logica matematica, reiezione in Aristotele, predicate, significato,
communicazione, creativita, informazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cordeschi” – The Swimming-Pool Library. Cordeschi.
Luigi Speranza -- Grice e Corleo: all’isola
-- la ragione conversazionale – scuola di Salemi – filosofia trapanesi – filosofia
siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Salemi,
Trapani, Sicilia. Grice: “Corleo is a genius --
His keyword is identity, the Hegelian type, and that’s why he attracted
Gentile’s attention! But my favourite is his excursus on language! He talks
like a veritable Griceian – about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the
spontaneous cry to seek attention, Romolo from Remo, say – He very much
elaborates on the subject and the predicate and the copula, and the other parts
of speech – But he retains an empiricist, evolutionary viewpoint with which I
wholly agree!” Studia
nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un
seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana.
Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”. Durante la spedizione dei mille, fu nominato
da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio:
“Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di
Salemi. Altre opere: “Meditazioni
filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia
dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario
biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente dall’esperienza e
dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio affermativo (S
e P) o giudizio negativo -- S non e P --, giudizio condizionale -- Se p, q --, giudizio
tetico -- S e P -- giudizio ipotetico --
si p, q --, giudizio disgiuntivo -- p v q -- e via via. Poichè,ogni proposizione o
giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto --
S e P -- o negare un predicato ad un soggetto -- S non e P --, e ciò non può
farsi altrimenti che in forza della identità parziale o totale del predicato
stesso col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso
di giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto
condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso
di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una verità
nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il
raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce
l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad
un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve
esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir
l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e
molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or,
questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la
connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con
attenzione, si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se
S è connesso con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece
che ambidue sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto
S-P, di guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il
loro legame necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale
– “S e P” -- onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel
tutto non sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti
che lo costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti
integranti di un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è
identico con essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde
non può esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non
sarebbe vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi
subalterni dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad
esaminare ogni teorema geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in
genere e delle varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione
tra cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di
seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima.
Essi non sono che le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di triangolo
e delle sue specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto
complessivo sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora
nemmeno avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna
delle sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di
nesso a costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella
identità di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni
sul raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè
l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la
connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un
ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto
dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come
sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto
connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più
larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio
maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso
opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale
riunire per necessità le parti fra di lor, senza di cui egli non potrebbe esser
quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a
quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li
identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci
contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo
di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo
vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual
giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità
di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio
analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei
singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i
giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come
parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità
del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame
egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando
serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che
legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè
i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico
e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti:
onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo
soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo
soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo
subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è
identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere
alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e
se gli altri subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la
connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente*
deve esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e
non dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a
quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata
sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla
identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità
totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un
fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi
in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi*
o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che
tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui
identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità
con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed
allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli
elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha
perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad
accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo
renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o
supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla
trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio
dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la
*testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni
giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è
composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la
connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale
di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve
giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio
inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè
fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata
dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti,
nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il
giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno
divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta
dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle
parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli
elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque
passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità
assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel
conoscimento delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi
sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti
parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso
solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e
necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li
costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti
subalterni, che sono del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza
del raziocinio non può essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra;
essa consiste nel passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che
la costituiscono, o dalle identità parziali alla totale per mezzo della
scoperta di quelle altre identità parziali che sono con loro connesse per compiere
l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei concetti, della
doppia identità delle parti e del tutto per avere ragionamenti rigorosi; e non
potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene per mezzo della esperienza.
In questi due soli modi è possibile il raziocinio. Chi cura soltanto la forma
esteriore del ragionamento e ripone la logica nello studio delle leggi della
FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del raziocinio, che è l'accertamento
della identità de' giudizi connessi col tutto di cui sono parti; e perciò corre
l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert, che non è mai garanzia sicura di
esatti ragionamenti. Or, perchè mai i subbietti di tali giudizi son dive nuti
concettuali e perciò includono necessariamente i loro pre. Tre sono state le più
grandi logiche formali. La prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta
dal particolare al particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari.
La seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i
particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano
soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad
altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione
dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono
le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che
ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni
naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato
dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come
Porfirio e BOEZIO, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone,
e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato
la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come
idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di
universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie dalla
classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste
argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o
inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che non
posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al
vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare
all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di
particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè
questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine
fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o
identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un
altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano.
Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al
particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai
verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið
ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e
perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal
l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra
parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può
accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in
modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre
essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel
concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve
notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi,
o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e
volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo
in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto
vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto
ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o
di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo
di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che
hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali
abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È
allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo.
Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente
nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari
simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si
cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second,
si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto
particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè
moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque
selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione
baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo
numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo
generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di
parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed
all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli
elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione
di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene
l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano
anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è
necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma
delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il
tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai
all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di
ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente,
perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette
forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali
ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale
identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde
composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia
decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la
quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle
percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse,
non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un
doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente
e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da
sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria
riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge
dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per
non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da
sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto
concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto
riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in
mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi
l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il
predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in
tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati
dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni,
non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente
si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e
diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica,
e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela
borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di
elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono
per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca
o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola
della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli
elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta
nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale
idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del
raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea,
come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante
di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà
sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge
logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo,
un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa
con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel
ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gl’errori di esperimento si
correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne
occupano. Gl’errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed accurato
esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle
rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame
delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio
lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi
che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella
stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del
l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che
la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve
essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così
soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli
che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra
quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal
modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò
consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva
già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle
soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità,
universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al
complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare,
sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero
altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i
suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo
sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di
fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante
la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo
scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola,
nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati
scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero
al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali,
concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare
alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione
necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi
delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di
condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna
ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee.
Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera
origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso
supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto
delle idee morali, col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte
quelle idee che non potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla
credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i
posteriori idealisti, visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad
ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che
s'impongono alla nostra ragione, sia ritenendole verità prime indiscutibili ed
indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune); sia supponendole
forme assolute del pensiero quidquid
recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole
innate e facienti parte del nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale,
quella dell'essere (*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto
d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole
comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole
giobertiane*), o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri
di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana
), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola
di Schopenauher ), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti
supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per
dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè
stesse, nei loro attuali elementi costitutivi, adducendo a prova della
impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali
ebbero bensì il buon volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai
averne studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili.
Laonde è d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment
ammesse, per inferirne le bramate conseguenze. Or se è vero che percepire
distintamente, sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare,
ideare, giudicare, connettere e ragionare, non sono altro che più o men
largamente identificare le parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente,
in forma sperimentale o in forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur
troppo evidente che, per potere scorgere l'identità più prontamente e con
maggiore chiarezza, sarebbero assai utili due cose. Primo, abbreviare e
ravvicinare tra loro con SEGNI le percezioni ed i loro elementi, le idee ed i
loro elementi. Secondo indicare con segni le successive operazioni che vengon
fatte spontaneamente o riflessivmente sui detti complessi e loro elementi.
L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono scienza, ma sono potenti mezzi di
scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano le idee e le operazioni su di esse
fatte rendendo più facile e più sicuro il colpo d'occhio su di loro per
scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè non sarà possibile una logica
aritmetica o matematica per agevolare la conoscenza delle identità parziali e
totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio della intelligenza? Non vale il
dire che nell’aritmetica e la geometria si tratta di rapporti tra sole
quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi e le operazioni
identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero trattare molti
altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente, e perciò
l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire questo;
poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune,
l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa
crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra.
Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella
identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni
dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi
ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo
non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno,
costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le
operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non
occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere
alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i
loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere
minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri
conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente,
potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno,
eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o
aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo –
la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare
un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a
stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio
ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo
dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti
stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore
e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di
fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio
superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica
il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i
complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo
stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro
elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica
che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali.
Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale.
Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà
più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che
convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano
la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano
l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una
catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che
voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco
così la serie dei segni principali: + più, meno, = uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’
simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in
contatto, et etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè
riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso,
percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e sintetizzato,
!! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi spontanea e
riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la parte a. | A
la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da quello di
riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei giudizii e nei
raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i due spazî, che
segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i suoi elementi
si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè sieno più o meno
distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha una delle due
formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B? A A? Bİ, non
è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica certamente, 1
-?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della percezione A? La
risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde? с a hg an. Or,
dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali, с de cioè
l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli altri
elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della
connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è
l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è
necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero
il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con
le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e
possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione
e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di
connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento
erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $
56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa
dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un
altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio
ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h
g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono
parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici?
Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali
identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione
tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due,
o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei
due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o
per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha
passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno
d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità
col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello
di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento
prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il
formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di
mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son
limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di
reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli
con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del
concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro
eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in
tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso
in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in
questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile
la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò,
lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle
singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale.
Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere
qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o
un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter”
-- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo
esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome
il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser
pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione*
da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di
suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o
concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui
che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro
quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere,
cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia
volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion
di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o
pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio
co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto,
cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno
per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico,
assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione
convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima
espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di
communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato
segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee
co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una
proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”),
il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della
esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione
il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che
s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta
naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque
non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca
stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione
comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola
sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse
nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli
segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee
astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne
analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi
incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle
percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si
analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili
e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e
ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un
momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che
fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione,
anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e
di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno
articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un
segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta
per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per
altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il
concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza
confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per
signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco
sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni
che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno
per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o
il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un
colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di
essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un
segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per
richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han
bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’
“onore”, il “dovere”, ec. Cosi anche e
il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É
in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se
vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno,
particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere
reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene
l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il
legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice
(“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa,
come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille
modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma
indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni
derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per
citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo
vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno
sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno
come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il
segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”,
“amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il
mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al
recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza
grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e
siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una
proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno
articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio
(di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo
nella sintesi, nell’analisi e
nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per
mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il
sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il
suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti.
Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o
communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per
fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al
primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette
tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione,
fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma
genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii
innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem
col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa
dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in
tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione
dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica
religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del
segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a
dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al
linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo
appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò
adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il
quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque
guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre
bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe
questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai
uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò,
essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia
stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente
consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o
signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle
rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica
o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la
necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta
analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere
la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza
volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si
combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta.
Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi
voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al
problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si
domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente
esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile:
nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce
grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può
signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche
facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza
dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso
l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”),
il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col
porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio
completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza
l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha
preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa
mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è quest'altro.
Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un primo uso di
un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di un'astrazione (o
articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha bisogno dell'uso
del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono a vicenda, in
modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si guardano *sinteticamente*
dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento, non pajono più naturalmente
spiegabili, e comparisce quella specie di circolo vizioso, di cui si parla
inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo sviluppo pieno dell’altra,
ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non si sa più qual delle due
debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal fatto bisogna
incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento men complicato
e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza mutua, e come
mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo un’obbiezione ben
facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per poter determinare
qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare communicamente in Romolo e
Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia una base sufficiente per
poter sostenere che il segno communicativo più antico e più elevato e più ricco
di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto del signare
comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo
esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio non mi credo autorizzato a dare una soluzione
diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori,
e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non
entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il
primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita
di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame
storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato
filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente
arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per
mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente,
naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un
arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò
che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno
più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due
uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --,
quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve essere
per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del genero
segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine necessita.
Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico,
assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo
un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di
segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per
sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di
arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare*
(transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo
essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato,
segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti.
Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’)
i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow
wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino
italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come
la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma
anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che
l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma
quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le
possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una
cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella
può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono
qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta
(l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o
iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente
emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma
intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato
(‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento
l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare,
i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale
-- che costituisee la communicazione e
la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la
prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque
altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien
segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano
che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno
articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della
pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende
da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che
il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora
(“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do
alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso
potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito
la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un
pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono
qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che
potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più
involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o
pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo
la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo
“o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo
arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua
divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più
semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna,
signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e
presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che
cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale
il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è
ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione
comunicativa alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada
conversazionale. Ciò che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento
communicativo o intenzione communicativa, può la seconda volta esser voluto *di
proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum in Aquino -- per la utilità che
se n’è ricavata: ripetendosi dunque avvedutamente lo stesso segno, quello è
divenuto un vocativo naturale. E noi osservammo che appunto questa vocale “o” è
il vocative nella Roma di Remo (o tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio
mutuo o duale dunque non nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di
un'effetto o risponsa, che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per
imitazione, consigue. Volendo di nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto
o la stessa risponsa, non ci vuol’altro che ripetere un altro specimen del
stesso genero di segno (“o”). L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando
vi sono tante possibilità d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar
luogo spontaneamente a un arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono
assoluto che sia impossibile l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza
della utilità del segno medesimo? Non dico che l’atto del signare
communicativamente nacque in questo o in quell’altro modo. Dico che vi sono
moltissime possibilità tutte *naturali*, nelle quali l'uomo può avvertire
l'utilità dell'uso di un segno articolato per l’effetto o la risponsa
spontanea, no intenzionata, che ne ottiene, e senza il bisogno di un preventivo
arbitrio duale. Basta questo per distruggere a rigor di logica le basi tutte di
quell'edificio che si vuol fondare sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa
senza prima aver conosciuto l'uso e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto
ebbero forse insegnato da Dio l'uso del atto di signare communicativamente, con
che communica (o transferre) il suo bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la
domanda del soccorso? Forse non vediamo fin dal loro nascere i varii animali communicarsi
per mezzo di un segno, per lo più *istintivo* -- che causa una risponsa
istintiva, i diversi loro stati? Non puo il brutto perfezionare il suo atto di
signare communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di
analizzare gli elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre,
siccome vedremo a suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o
stimolo, in esito al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta
volontariamente; e tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la
libertà del movimento per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi
ha una specie di “tacito” arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto
ottenuto o la risponsa ottenuta una volta, per ragion di associazione o
co-relazione iconica istintiva associativa, fa appunto le veci di un arbitrio
duale. Se dunque questo segno inferiore è possibile nel bruto, il quale non
astragge, perchè lo stesso principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è
possibile fra due uomini! Un uomo, che ha la piena capacità di astrarre,
riconosce più facilmente l'utilità dell’effetti ottenuto o della risponsa
ottenuta dall’altra parte della diada conversazionale, e si crea l'idea
generica del arbitrio duale del segno, dalla quale discende poi come
conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco, illimitato, creativo, e
di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne, in ragion di questa o
quella percezione, o in ragione di questo o quello concetto astratta. Concepita
una volta l’utilità dell’uso del atto di signare communicativemente, del segno
articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro che possedere in fatto la
capacità di variare e combinare *indefinitamente* in modo aperto e illimitato,
l'articolazione e la operazione di questo o quello segno primitivo, e l'uomo
possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo adunque può, da un certo
numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a *stabilire* un arbitrio
duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale del segno, poichè da un
fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e l'idea generica; e
possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di questo o quello
segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto il resto. Quantunque
il segno che compone l’atto del signare communicativo e per arbitrio muto, pure
siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre elementi delle
medesime (S, e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi ritrarre le proprietà
fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono avere fra ogni
percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e diverso il
segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il medesimo
segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o
dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che
e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un
risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo,
perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che
equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione
sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che
è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare
communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione
risultante in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” –
Varrone, verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in
verità, tutto quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce,
e perciò il segno del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni
proposizione si aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene
un'analisi, la mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un
segno che non e un verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione
risultante signata dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante*
e non basica, e composte della combinazione di questa o quella azione
sostanziali intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro
fondamento in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo*
(la copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla
che nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della
classe del segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in
ogni atto di signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il
verbo “essere”, al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo,
decomponendoli in “copula e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante.
Ed è notevole che ogni segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi,
perchè denota un’azione che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti
in un segno di verbo fondamentale che è intransitivo, o come i modisti dicono
neutro – epiceno, mezza voce --, cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è
veramente transitivo é la forma del risultato, ma ognuna delle azioni
sostanziali componenti è intransitiva. La sintesi e necessaria e l'analisi e
necessaria, perchè una percezioni e complessiva e costa di questo o quello
elemento, che colla riproduzione, sovrapponendosi gli uni agli altri, si
sintetizzano nel punto simile e si analizzano nel punto dissimile. Bisogna
dunque che ogni segno indica un composto o complesso proposizionale, e che ogni
segno articulato composito e de-compo nibili. Però, siccome gli elementi di
ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò è necessario che ogni segno si
puosciogliere in un segno solo che indica l’azione sostantiva, non come occulta
(sub-stantia), ma come realtà, cioè come essere, onde il *nome* (nomen, onoma –
nomen substantivum, nomen adjectivum) non meno che il segno del verbo, si
sciolgono tutti nell'essere, il quale è verbo e nome allo stesso tempo, ed è
appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione che sta per sè stessa, e che
non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine addiettivo e ogni altro segno
sin-categorematico che indica quantita, qualita, relazione, o modalità o
relazione, ra-presentano la composizione, il risultato, la combinzione di
questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè sole, ma ha
bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su cui debbono
appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque suo modo di essere
non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro che la somma
medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione è una
forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi è che
tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli avverbii,
le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono riduttibili al
solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del segno del verbo e
del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo sostantivo “essere”. Nel
tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han continuo bisogno di questo o
quello essere (il S, il P), perchè la composizione non può stare senza di
questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo la differenza che passa
tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la relazione, e la
modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione medesima, e
quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di questa o
quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e principalmente il
verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono, indica la
collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome aggettivo, il
segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la preposzione (in
latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e, adversative, ma), ec.
indica come questa o quella azione e disposte, e che relazione ha fra loro, in
ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di azioni è un *risultato*
che subisce questa o quella modificazione (declinazione, congiuggazione) secondo
i cangiamenti parziali del numero (singolare, duale, plurale) e della posizione
di questo o quello componento, cosi vi ha una sintesi fondamentale in ogni
parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una continua analisi di ogni
parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e necessario il segno radicale
che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè, il fondo permanente
dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua desinenza (uomo, uomni,
pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo definito (il – ille, la --
illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per indicare ogni variazione e
accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale di questa o quella aziona si
effettua. Il atto di signare monosillabica dei cinesi supplisce a ciò coll’accozzare
diverse sillabe, cioè diverse segni, di cui ognuna esprime una idea, e tutte unite
esprimono un complesso. Una idea fissa si esprime con un signo fisso. Una
segnato variabile si esprime con un segno variantie. Sorge da ciò la necessità
del segno derivativo, del segno della desinenza e del segno del prefisso,
infisso, e suffisso, come anche la necessità di trasformare in maniera
avverbiale un nome e un verbo, e di operare ogni cangiamento di preposizione in
verbo ed in nome, dell’aggettivo in sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la
forma fondamentale, ogni mutamento di forma debbe esprimersi con cangiarli secondo
il bisogno e secondo la relazione che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni
ed un'altra. Finalmente vi ha un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del
discorso, ed è quella del giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo –
indicativo, imperative -- in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da
un giudizio all'altro per mezzo di una connessione, così la proposizione prende
forma concatenata e compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo
s'incatena con quello periodo e forman un discorso. Però è no ievole che
l’operazione dell'analisi e l’operazione della sintesi spontanea non puo
altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”, cioè di giudizio o
volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo anche un segno solo,
considerata nella sua radicale o nella sua derivazione, indica benissimo l’operazione
analitica che vi è dentro. La ragione, per cui non si può annunziare ad altri,
che sotto forma di giudizio, una completa operazione di sintesi e di analisi,
si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri cotali operazione di
sintesi o analisi, vi è di già il concorso della riflessione, e perciò non si
annunzia altro che il risultato ultimo della sintesi e dell'analisi riflessa, il
qual risultato e il giudizio e la volizione, ambe due con contenuto
proposizionale. Onde si ha che nello singolo signo si rappresenta le sintesi e
le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso si rappresenta il risultato
totale, che perciò appunto veste la forma di giudizio o volizione con contenuto
proposizionale. Da tutte queste osservazioni emerge che il segno e la sua
costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese d’Italia -- debbe avere una
forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme variabile (semiotica
componenziale), siccome il risultamento organico subbiettivo ed il risultamento
esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una forme variabile, poiché il segno
debbe necessariamente prendere lo stesso aspetto del segnato. In ogni segno
possono riguardarsi due parti distinte, cioè il segno e la costruzione del segno.
Ogni segno è segno di una percezione, o di una parte di percezione, o di
un'idea o concetto (signato). La costruzione del segno ra-presenta ogni
relazione che ha questa o quella percezione, questa o quella idea, questo o
quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro del grado delle
conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la ricchezza del
repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione indica quante
percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente, ed in quante
maniere sa metterle in relazione fra di
loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza studiata sino
al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una percezione sola o
una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere se mai una di tale
segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo stare attento alla *forma*
del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche dalla forma della
costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare col segno che si
adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma forse la causa del
fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un segno sia
adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato (equivocazione), è
necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato solo; poichè non è
presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico (equivocazione
– para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di usare un segno
solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per far nascere la
dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare. Allorchè dunque
si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno proprio, il
segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o concevire un
segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa svegliare
l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare). Allora
l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile novello ch' è
ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più di tutto
nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un emittente
si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto più è possibile,
somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del traslato: un
segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo spirare), è
adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa qualche
somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione
di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi
sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio
duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure
al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del
signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a
ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente,
quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza
del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla
precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che
propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma
il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte
meditazioni, e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre
gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto
più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano,
non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile
IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione
delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria
il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione
segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo,
si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio,
ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il
traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel
segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando
la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come
pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente,
quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la
corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un
segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità,
perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto
meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una
pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso
bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii
è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed
emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho
e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro
l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato
e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono
esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di
traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono
adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un
repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni
(perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma
stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata
nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o
allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un
segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni
indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con
ambidue uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo
radicale che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere
di radice originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono
chiamarsi il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio
delle forma con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la
ricchezza delle forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente,
molto più quando non è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i
segni di più avanzati nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso
numero di vocaboli proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà
del segno: onde esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e
adoperano al bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio
all’esattezza scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde,
poichè non si confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra
qualunque segno avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente
i di tal sorta non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò
porta l' impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che
appartennero all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo
hanno acquistato segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un
traslato o di una metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto
proprio (By uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my
pride and joy). Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre.
L’emittente e ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel
repertorio di forme poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo
segna, e perciò le relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più
semplici, e sempre più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o
proposizione: soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur
fare intorno a queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più
abbondante di figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il
segnato per come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro
costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione
sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in
ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato
coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte
trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più
abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più
ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del
giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un
emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo
la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più
conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è
divenuta più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione
stessa che ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye
da ciò che al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha
bisogno di esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni
o nel calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella
stessa costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la
spontaneità dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si
presta meglio alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e
nell'oratoria ha bisogno di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare
il loro effetto dalla varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo
a particolari confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta
semiotica generale. Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono
dalla natura stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal
corso delle loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente
debbe esser quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile
figurato e dei traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando
è necessaria. L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme,
se non che in un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla
medesima lingua dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione,
dall'epoca della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però
in tal caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema:
l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo
emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta
sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali
adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro. Wikipedia
Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino
affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato
di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il
prossimo, di intensità minore della passione. In filosofia il lemma
indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione:
l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza», ossia la condizione in
cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].
AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si
contrappone all' ἔργον, (azione): il πάϑος, il "patire", una delle
dieci categorie che si possono predicare dell'essere. I sensi producono
affezioni con i dati sensibili, che provengono dagli oggetti esterni,
sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa, dando luogo così all'inizio
del processo conoscitivo. L'affezione può anche riguardare un
cambiamento di stato, cioè «una modificazione o carattere sopravvenienti a una
sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco per l'uomo» In senso più
ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli oggetti esterni provengono quegli
elementi che provocano nell'anima modifiche non solo sensibili ma anche
sentimentali come il piacere, il dolore, il desiderio...ecc., le affezioni
coincidono con le "passioni" della sfera etica Quest'ultimo
significato si ritrova anche in Cicerone, che adotta affectionescome sinonimo
di perturbatio animi o concitatio animi. Anche Agostino d'Ippona usa i termini perturbationes,
affectus, affectiones come sinonimi di passiones. La funzione delle
affezioni. Nella storia del pensiero la funzione delle affezioni viene
considerata in tre diversi modi: con Platone e il platonismo, poiché il
comportamento buono si basa sulla conoscenza del vero, le affezioni sono
dannose perché influiscono negativamente sia sulla conoscenza che sul
comportamento morale. Su questa stessa linea di giudizio sono Cartesio,
Spinoza, Leibniz, e soprattutto Hegel, che fanno rientrare le affezioni — sia
per la conoscenza che per la moralità — nell'ambito della false o confuse idee.
Nella filosofia aristotelica e in quella epicurea le affezioni sono valide
nell'ambito conoscitivo, poiché i dati sensibili ricevuti passivamente dal
soggetto sono sempre veri, mentre falsi sono i nostri giudizi anticipatori
(prolessi) delle sensazioni vere e proprie. Le affezioni sono valutate
positivamente anche dal punto di vista morale, poiché non esiste uomo senza
passioni, quindi il problema non è quello di eliminarle ma di moderarle
(μετριοπάϑεια). Con lo stoicismo le affezioni sono ineliminabili dal punto di
vista del processo conoscitivo, mentre vanno messe da parte nei comportamenti
morali, che non devono essere compromessi dalle passioni. Il saggio è colui che
raggiunge l'apatia, l'indifferenza alle passioni. Kant Secondo Kant, per le
nostre intuizioni è indispensabile che il nostro animo sia "afflitto"
(affiziert, "affettato") dalle affezioni. Quella della ragione
sarebbe una falsa conoscenza senza le affezioni sensibili. Se invece noi
intendiamo le affezioni come passioni allora il loro ruolo è puramente
negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva inteso Cartesio, «cancri
della ragion pura pratica, per lo più inguaribili. Il concetto di
affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un problema relativo alla
dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è tale nel senso per cui i
sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto, poiché spazio e tempo sono
parte della nostra intuizione sensibile come "a priori", indipendenti
dall'esperienza, e il noumeno è per definizione inaccessibile ai sensi, dove
mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra sensibilità? Kant per uscire
dalla difficoltà parla allora di affezione come il risultato di un rapporto
causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra l'oggetto e il soggetto
percipiente. Le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione empirica
senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza. NoteModifica ^
Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente; Enciclopedia
Garzanti di Filosofia alla voce corrispondente Aristotele, De Anima,
Aristotele, Metaphisica, (in Sapere.it alla voce "Affezione") ^
Aristotele, Rhetorica, Cicerone, Tusculanae Agostino, De civitate Dei, La
passioni sono una "malattia" della razionalità. Sono utili per la
vita come l'istinto di sopravvivenza ma impediscono la serenità dell'uomo
razionale. (In Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti, Dizionario
Treccani di filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica della ragion
pura, Estetica trascendentale Cfr. I. Kant, id., Dialettica
trascendentale ^ I. Kant, Antropologia pragmatica Kant, Critica della Ragion
pura, Analitica trascendentale, 24 Voci correlateModifica Modo (filosofia) «affezione» Portale Filosofia. Intelletto
facoltà della mente di intendere e concepire Critica della ragion pura
libro del 1781 di Immanuel Kant Pensiero di Kant Wikipedia Il contenutoSimone
Corleo. Keywords: filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale,
meditazione filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, noetica-estetica
-- linguaggio ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza,
l’universale ontologico, la categoria come universale ontologico, segno,
signare communicativamente, segnabile, sensibile – nihil est in intellectu quod
prius non fuerit in sensu -- segnato, emettente, repertorio di segni,
repertorio di forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio pre-convenzione,
pre-consenso mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah,
peccora, conversazione adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent
communicative – signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea,
scenario ii. Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e
le categorie agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione,
modalita. Il nome sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la
congiunzione, il vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione
semplice “S e P” – modelo filosofico dello svilupo del signare
communicativamente – dello spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale,
l’idea di un gesto come SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Corleo” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Cornelio:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Giove, Ganimede,
e Prometeo – scuola di Rovito – filosofia cosentina – filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Rovito). Filosofo cosentino. Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Rovito, Cosenza, Calabria. Grice: “I love
Cornelio – he has a gift for titling his treatises: gyymnasma!” “My favourite of his gymnasmata is the one on what he calls the
‘generation’ of ‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud, humus – and
this is strange because Prometeo created man out of mud – In Rome, the more
Catholic your philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less Hegelian
and Platonic – so trust an Italian philosopher to believe in the Graeco-Roman
myth of the ‘generation of man’ than the story of Adam’s spare rib, etc.!” Si forma alla
scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio, molto studiato nei
salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie molte tesi galileiane.
Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui fu erede il suo tutore
Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio e di Gassendi.
Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria filosofiche. Altre
opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss. marchionem Marcellum
Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad Marcum Aurelium
Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. Quæ in hoc volumine
continentur animalium conformatio ex inspectione er ex aque, ac terre expira
ouorum percipi facile patest tionibus
ætheri permiftis con animalium ex semine conformatio de stituitur scribitur aer
ob vsum respirationis recentari de animalium pars primigenia non iecur neque cor,
neque fanguis ter præter modum diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus
quandoque preffus vite animalium et ignis con filios generant. fernationi
inutilis antiquorum varix de.rerum initijs opi aer nisi vaporibus aqueis
permiſtus re niones spiritioni inutilis apoplecticorum et ftrangulatorum aer
infra aquam demerſus à fuperftan mitis est exitus tis aqua pondere comprimitur Aqua
frigore concreta rarefcit, et in ma. Aeris in reſpiratione quis vſus. iorem
molem ampliatur. aeris per neceſitas tum ad vitam ani aqua quomodo in vapores
foluatur malium tum ad ignem conferuan in glaciem concreſcat dum Aqua fenfu
iudice neque contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris color
caeruleus onde aqua triformis Arris, Aquarum pondus fub eifdem Aquis ineſſe non
poteſtnotabilis quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris compreffio,ea
diſtractio nifi æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin admiſſo nequit
explicari ceps Aeris ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit in generatione
Aztheris ſubſtantia omnino admitten diuiparorum fieri.conceptus ouifor da
Alibilis fuccusad cor confluit Aristoteles ab attico platonico philo animalia
amphibia cur sub aquis distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant
Aristoteles cur priuationem inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi
cipia numerauerit reſpiraverint citiffimemoriuntur Aristotelis de loco
fententia improba animalia, quæ interclufo fpiritu fiiffa cantur dexterum
cordis ventriculum, Ariſtotelis principia diffentanea. pulmones babent multo
fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina de ge refertos. neratione animalium
fanior ar mes tur arteriæin vteros prezrintinm perti mentuan mentes
frequentiores, ampliores Calor omnis animalium eflà Janguine fiunt Aiteris non
moventur à ri pulſifica eiſ- calor nonnunquam diſſimilis nature cor dem à corde
communicata, fid ab im pore congregat pulfu fanguinis Calore corpora non
femperrarefiunt, Arteriæ omnes eoderntemporis puncto Calore cur omnia diffoluantur,
atque li. ab impulſu fanguinis mouentur, tam queſcant que cordis proximefunt,
quam quæ à Caloris naturaex Platone explicatur corde longiſſimèabfunt. Cauernæ in
quibushomines fuffocantur, arteriarum venarumqueplexus, atque ignisextinguithi'
implicatio ibi eße folet vbi fit aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo
ſecretio fiat. Aſtrologia conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies
duobus li quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum
ounem per lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo
prodideruntiuniorcs Auftifichs ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad
Thyſiologiam illis neruos in partes diffunditur ſirandam perutilis Auftificus
fuccus ab Arabibus obfer- chymici magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus.
&tioni attulere cibaria non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in
iecinore fecerni B permanentin ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim
elabitur Bilis nõ eſt fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue
Bilis nutritiumfuccum diluit, et fluxum reddit ciborum concoétionem auctores
diuerſa Bilis vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi-
cibus in ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non
à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur
Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit. Cibus in ventriculo coctus non femper
albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in
totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum
more diu Calor cæleftis est eiufdem nature, atque tule fub aquis viuere
potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus
eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit. tur. с Copernicus ab Italis mundani
systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condensatio, et rarefaétiofine
tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non
po videtur teft F Elle nullum animal caret. notitiam arripuit quibus Copernicus
maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu &tiones
aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non habet à cerebro,
fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur, cpalpitat Fermenti vis
à calore excitatur. ibid. Cordis motus fit ab balitibusin eiuſdem Firmicus
reprehenditur lofibras influentibus flamma cur fine pastu permanere ne Cordis
motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis, vt Ariftoteli, Carteſio pla-
Flamma cur faſtigietur in conum, ibid. Fæmina ſubminiſtrat materiam omnem
Corpora je inuicem propellere poffunt, ex qua fætuscorporatur non autem
attrahere Fæminæ genitura non carent D Feminarumgenitura an aliquid conferat
Ifferentis inter conceptus ouip.rros, adgenerationem Fætus vita non pendet à
vita matris Dɔny Volumen de natura hominis fætus cum propria tum parentis vi ab
utero excluditur E Frigore nonnunquam diſſimilis nature Lectrum
quomodofeſtucasattrahat. corpora ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum
Alenus ab Ariſtotele maximis de orbiculorum in aqua alternatim a rebus
diſſentit frendentium, defcendentium Galenus Platonis fententiam de circum secundum
orbiculorum in tubo dque pulſione non eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque
recurrena Galeni experimentum de fistula in arte. - tium ad nutum eius, qui
tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias ab im digito obturat pulſie fanguinis
moueri tertium orbiculorum in tubo retorto Galeni Secta cæpit deficere
aſcendentium defcendentium pro Galenice fattioni magna clades d chy paria tubi
inclinatione micis eſt illata quartum orbiculorum ex imo furfum galenice
medicine summa aſcendentium propter diſtractionein Galilæus de atomis, inani
aliter vidé aeris in eiſdem conclufi tur decernere, ac Democritus et Epi
Experimentum quo Verulamius probat curus aquam comprimipole eſt fallax Galileus
omnium primus physiologiam experimentum Torricelli de spario, com Geometria
iugauie Ga Gevens ifotelemaximisde Galilcus aſtronomicarum rerum peritif
Hippocratimulta tribuuntur, quecom. fimus improbauit aſtrologicas prædi mentitia
funt ctiones" Hobbes fententia de ſubſtantia inter al GALILEI (si veda) Carteſi
aliorumque iuniorum rem et aquam media. doctrina phyſicapræftantior quam homo à
teneris annisita potefl educari, antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu
Genituraquid,vnde prodeato tius viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto
gignitur fpatio Genitura in procreatione animalium ef- Hominis genitura non est
eiufdem ratio ficientis tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura
non eſt pars, feu materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi
conceptus: propoſita commentitia eft Genituræ craffamentum oua, et conte
Humanusfætus recens formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica
magnitudinem vix fum Geniturepars, quæ efficiendi vim habet, perat oculorum
fugit aciem Geniture vis per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere.
Ecinorisprecipuum munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil
eft. cis diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que
Glandulg cur maiores et frequentiores nam fint. in tenellis, et pinguibusanimalibus,
Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus, &macilentis, in omni motu
fit reciproca corporum dla translatio Glandule
fecernunt auctificum ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo
fanguine Priſci. 4 Glandularum vtilitas. ibid. K Græci curdoctrine ſudijs cæteris
natio nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora
etiam à leuioribus ju. perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis
feratur' ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes
degeneratione lacervberibus virorum, &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius
in obferuando diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans.. in
iudicando Hippocratis de calore Paradoxum. lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum
in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere
mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina
praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co. hominibus
infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur
nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi&
tionibus aſtrologicis abſtinuit. Medicina Græcorum continet inanes conie turas
et fallaces præceptiones, Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem
excipit Medicina inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē et impuriorem ſuccum
ex rietas. cibireliquisſecretum ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa
Lienis vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon eft in rebus, fed fit in ipfo Membranarum vtilitas, dentis oculo Motus ad
fugam vacui vulgo relati pen Luminis naturaexplicatur dent à
circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis diſimilis elektrick: Mund for
printeriplexdifferentia mini. Men Maßarias iuniorum gloriæ infenſus Mundi magnitudo incomprehenſa. ibid. Materia
exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor ſinailis ouorum albus Aturæ
ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ fummam inge paranda stü aciem
defiderant Naturalis historie cognitio ad Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum
notabile giam malde necellaria incrementum O Medici latina verba
importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt imperitorum plaaſum
aucupen. interiorem pentriculi tunicam.: tur biantibus. Medici periculofus,
&ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri. rum curationes
inftituunt, culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper. Obferuatio noua
lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo exiſtentis Medici
rationales quam profitentur', Obſeruatio viarum, que nouum alimentū. ſcientiam
omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis familiare eft mutuainter
fe ia. Oetimestris partus non minus pitalis Etare conuicia quam ſeptimeſtris
Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in viviparis habet Medicorum inſcitia
reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum gr Pusega Perguedus
nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $ Strguis I i Ouum
fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei mundan nis in
ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus vtilitas
Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici,aut politici.
Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio defcribitur tem
deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus obferuationibus
quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione cordis æſlum
temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi ratio
inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex, nec culi auctoribus
laudatur. tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in
liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif
Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer-
Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis, quam nutrimen
Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis non
calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione
tenaifimihalitus pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem, et experientiam
requirit Sanguis non fuapte natura caliduseſt, Phyſiologia onde ordienda nec
calorem accipit à corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus
atque agitatione incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in
iecinore, nec in corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur Phyſiologie
obſcuritas onde proficifca. Sanguinis duapartes altera viuifica tera auctifica
Phyſiologiæ perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis Eius
randa potior pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis
motusà corde a præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab
Harueio de Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante
Pizulus Mis aſequitur Sarpa, &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad
ætheris liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum
circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam
in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq. tør. ſeis
fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium
quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem
fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis
la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta
videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid. Venarum lymphaticarum
progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus
et oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis
ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola
nouitate verborum abſtruſe do. tricationi inteftinorum et alui Etrina caliginem
offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine propagatio
compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,&
inteftinorum motus Stoicis materia
corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ
et Antiperiſia bus et cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius opes
ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix
quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri. expurgantur
Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè.
motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo
Testes priuerfo corpori robur conferunt. modo percipiatur Vitri denſitatem
penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos
eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum, atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile
Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam
profunditur. Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum
neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne
moueantur inbibere Ztia. Wikipedia Ricerca Ganimede (mitologia)
personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua
Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e
l’aquila, Nome orig.Γανυμήδης Sessomaschio Luogo di nascitaDardania
Professionedio dell'amore omosessuale e principe dei Troiani Ganimede (in greco
antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della mitologia greca. Fu un
principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali
del suo tempo. «La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema
significante per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più
elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si
assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio
omoerotico[1].» In una versione del mito viene rapito da Zeus in forma di
aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo
riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca,
visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un
uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era Catamitus, da cui deriva
il termine catamite, indicante un giovane che assume il ruolo di partner
sessuale passivo-ricettivo. Genealogia Figlio di Troo e di Calliroe (o di
Acallaride). Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio
Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di
Ilo[8], per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo
padre fu Erittonio[10] oppure Assarco. Non risulta aver avuto spose o
progenie. Mitologia Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, GANIMEDE
che indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto
Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si
invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re
degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.
Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato
dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di
Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un
tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che suo figlio era
ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei,
una posizione che era considerata di gran distinzione. Zeus per sottrarre
Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale
aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge
sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò
quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere
d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a
essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con
la coppa in mano. Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il
mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana
di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni
viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante
dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di Frigia. Tutti
gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con
l'eccezione di Era; la consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un
rivale più che mai pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha
successivamente messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola
quale è strettamente associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno
zodiacale dell'Acquario. Busto di Ganimede, opera romana d'epoca
imperiale (Parigi, Museo del Louvre) Mito iniziatico Lo stesso argomento in
dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede
costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio adulto e
giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico (vedi la
pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame sessuale
- all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi amori
"paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente un
giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi rituali
imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato,
avveniva la sua iniziazione sessuale. Zeus e Ganimede, rappresentando la
perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti. Il
cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a
modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di
resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e
poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande
voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera
il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. Filosofia Platone
rappresenta l'aspetto pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e
ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una
critica dell'usanza della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi
completamente la sua funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi
inventati il mito di Zeus e Ganimede per giustificare i loro
comportamenti[17]. Nel dialogo platonico poi Socrate nega che il bel
giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli Dei, proponendone,
invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus avrebbe amato l'anima e
la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo corpo. Il neoplatonismo
ci offre una rappresentazione mistica del rapimento di Ganimede; esso sta a
significare il rapimento dell'anima a Dio, e in questo senso è stato usato,
anche in opere d'arte funerarie e anche durante il Neoclassicismo, sia
nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un esempio, il Ganymed di
Goethe. Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede (National Gallery, Londra)
PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del
desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La
leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo
a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il
poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi
Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e
infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca
narrante la vita e le gesta del dio Dioniso. Virgilio ritrae con pathos
la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di
trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente
contro il cielo. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati disperati
anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un motivo
frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche Stazio.
Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le Argonautiche di
Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo contro Eros per
averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite si trova così
costretta a rimproverare il figlio di barare come un principiante.
Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il personaggio di Rosalind si
traveste da uomo quando deve andare nella foresta di Arden, scegliendo il nome
di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio del rapporto che si era creato
tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava ben oltre la semplice
amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in questo caso
omosessuale. Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di epoca
paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e
Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più
grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione
latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon Marius.
Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide, 1036 Ganymed. Nelle arti Nella
scultura una delle immagini più famose di Ganimede è il gruppo scultoreo di
Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a cui viene attribuito anche l'Apollo del
Belvedere) e tanto ammirato da Plinio il Vecchio: «Leocare realizza un'aquila
che trattiene con forza Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli
nella sua veste.» Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato
spesso elogiato anche in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi
epigrammi, così come fa anche Marco Valerio Marziale. La leggenda di
Ganimede ha ispirato anche un gruppo in terracotta, probabilmente originario di
Corinto e oggi conservato nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei
pochi esempi di grande scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea
molto rara della coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana. Nella
ceramica il tema di Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei
crateri, quei particolari grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino
durante i banchetti (o simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli
ospiti gareggiavano in immaginazione poetica e filosofica per celebrare i
meriti dei loro rispettivi eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea
figure rosse che ritrae da un lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede
mentre sta giocando con un grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il
ragazzo è completamente nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine
in parte pederastica (vedi nudità atletica). Il ratto di Ganimede,
di Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli rappresentazioni di
questo mito, con artisti quali Michelangelo Buonarroti, Benvenuto Cellini e
Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno dei temi con più forte
significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay ante litteram.
Quando il pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante
il rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma, i
lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato contribuiscono a farlo
rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti catturare verso l'alto
senza opporre la minima resistenza. Nel Ratto di Ganimede di Antonio
Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è più
contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter Paul
Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo Ratto
di Ganimede per un mecenate calvinista olandese, ecco che un'aquila scura porta
in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e si fa la pipì addosso
per lo spavento. Ratto di Ganimede, di Gabbiani Gli esempi di
Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono stati studiati da Worley. L'immagine
raffigurata era invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato
da un'aquila, mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati
raramente affrontati: in realtà, la storia è stata spesso
"eterosessualizzata". Inoltre, l'interpretazione del mito data dal
Neoplatonismo, così comune nel Rinascimento italiano, in cui lo stupro di
Ganimede ha rappresentato la salita alla condizione di perfezione spirituale,
sembrava non essere di alcun interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo.
Jean-Baptiste Marie Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou,
Pierre Julien, Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire
le immagini di Ganimede nell'arte francese. La scultura che ritrae
Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a Parigi, ha portato
all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo come uno degli scultori più
importanti del suo tempo. L'artista Thorvaldsen, di gran lunga il più
notevole degli scultori danesi, ha scolpito una scultura dedicata alla scena di
Ganimede e l'aquila. Particolare di una scultura, da un modello
tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del IV
secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli. AltroModifica
Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato a indicare un
bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante omosessuale.
Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio, tenendo in mano un
gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a figure rosse (Parigi,
museo del Louvre). Ganimede e Zeus, e Apollo e Ciparisso,
illustrazione di due miti a carattere omosessuale per le Metamorfosi di Ovidio
(Venezia) Illustrazione gli Emblemata di Alciati. Ganimede
rappresenta allegoricamente l'anima che si "rallegra" in Dio.
Raffaello da Montelupo, Giove bacia Ganimede (Ashmolean Museum, Oxford)
Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di Polidoro da
Caravaggio, Giove bacia Ganimede. La borsa di denaro in mano al giovane allude
alla prostituzione, in spregio al mito pagano. Il Ganimede di
Antonio Canova "Ganimede" (1804), di José Álvarez Cubero
Ganimede abbevera l'Aquila divina, di Thorvaldsen Albero genealogicoModifica
AtlantePleioneScamandroIdea Elettra ZeusTeucro DardanoBatea
Erittonio Ilo Troo Calliroe EuridiceIlo AssarcoIeromnene Ganimede
Laomedonte Strimo (o "Leukyppe")TemisteCapi
PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino EttoreParideCreusaEneaLavinia AscanioSilvio
Silvius Enea Silvio Bruto di TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto
Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea
Silvia ErsiliaRomolo Remo Età regia di RomaShe-wolf suckles Romulus and
Remus. Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità
omosessuale Fazi Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the
English Language, catamite, Apollodoro, Biblioteca su theoi.com. Omero, Iliade
XX, 213 e seguenti, su theoi Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, su theoi. Dionigi
di Alicarnasso, Antichità romane su penelope.uchicago.edu. Cicerone, Tusculanae
disputationes, Tzetzes a Licofrone Clemente Alessandrino, su theoi.com. Igino,
Fabulae Igino, Fabulae Iliade, Burkert; Burkert fa purtuttavia notare che non
esiste un nesso diretto con l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^ Guidorizzi, Il mito
greco Volume primo - Gli dèi Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi
Platone, Leggi, Platone, Fedro, Platone, Simposio, Ovidio, Metamorfosi,
Apuleio, L'asino d'oro, Virgilio, Eneide, Stazio, Tebaide, 1.549. ^
Marius/Schlör, Mundus Iovialis, Worley, The Image of Ganymede in France: The
Survival of a Homoerotic Myth, in Art Bulletin, Chisholm, Alvarez, Don José, in
Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge Ganimede), di Ferrier Apollonio Rodio,
Le Argonautiche. Apuleio, L'asino d'oro. Cicerone, De natura deorum. Diodoro
Siculo, Bibliotheca historica. Euripide, Ifigenia in Tauride. Nonno di
Panopoli, Dionisiache. Omero, Iliade. Omerico, Piccola Iliade. Ovidio, Le
metamorfosi. Pausania, Periegesi della Grecia. Pindaro, Olimpiche, 1821.
Platone, Fedro. Platone, Leggi. Platone, Simposio. Pseudo-Apollodoro,
Biblioteca. Strabone, Geografia. Teognide, Frammenti. Virgilio, Eneide. AA.VV.,
Suda. Christian Wilhelm Allers, Giove rapisce Ganimede, Veckenstedt,
Ganymedes, Libau, Saslow, Ganymede in the Renaissance: Homosexuality in Art and
Society, New Haven (Connecticut), Yale, Burkert, The Orientalizing Revolution:
Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age, Cambridge
(Massachusetts), Harvard, Graves e Elisa Morpurgo, I miti greci, Milano,
Longanesi, Carassiti, Dizionario di mitologia greca e romana, Roma, Newton et Compton,
Cerinotti, Miti greci e di Roma antica, Firenze-Milano, Giunti, Ferrari,
Dizionario di mitologia, Torino, UTET, Eva C. Keuls, The Reign of the Phallus. Sexual Politics in Ancient Athens, Berkeley, University of California
Press, Bernard Sergent, Homosexualité et initiation chez les peuples
indo-européens, coll. « Histoire », Parigi, Payot, Gély, Ganymède ou
l'échanson. Rapt, ravissement et ivresse poétique, Presses Universitaires de
Paris, Guidorizzi (a cura di), Il mito greco, 1 (Gli dèi), Particolare di Zeus
accanto a Ganimede, di Griepenkerl Voci correlateModifica Icona gay Mito di
Etana Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia
The Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN) Peter R.
Griffith, Visual arts: Gaymede. "Ganymed" (testo, in tedesco e
italiano). (EN) Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute
Iconographic Database Internet Archive. Portale LGBT Portale
Mitologia greca Leda personaggio della
mitologia greca, figlia di Testio e moglie di Tindaro Estia dea greca del
focolare, della casa e della famiglia. Figlia di Crono e Rea Laomedonte
re di Troia nella mitologia greca, figlio di Ilo Wikipedia Il contenutoGrice:
“It’s best to represent Cornelio as representing Cartesio – yes, the Cartesio
that Ryle attacked! But Italy never had a Ryle, so that’s good!” Tommaso
Cornelio. Cornelio.
Keywords: Giove, Ganimede, e Prometeo, pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta,
gymnasium, ginnasio, ginnasiale, nudo romano, nudita romana, corpo nudo,
snudare, atleta, atletismo, lotta ginnastica, competizione ginnastica,
implicatura ginnastica, l’implicatura ginnastica di Socrate, Socrate al
ginnasio, implicatura ginnasiale, the eagle, Giove come aquila, aquila come
impero romano, aquila come impero nazi – le due aquile -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cornelio” – The Swimming-Pool Library. Cornelio.
Luigi Speranza -- Grice e Cornello: la ragione
conversazionale – scuola di Sorento – filosofia sorrentina – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo sorrentino. Filosofo campanese. Filosofo
italiano. Sorrento, Campania. Gabriele Tasso and his wife, Caterina, are
cousins.They come of the Bergamesque family dei Tassi del Cornello. The family, originally from
ALMENNO, can be traced with certainty to anOMODEO who established himself in
the Brembana valley known as’del Cornello.’ Nearby is Mount Tasso, which gets
its name from the yews (tassi) which cover the slopes. KEYWORD: DE’ TASSI DEL CORNELLO (feudo) – dai
Torreggiani di Milano – tasso: badger – skin carried by horses. O CORNETTO --A branch of YEW
originally appeared in the upp half oof the family crest The lower half is
occupiedby the figure of a badger (tasso). La
sua opera più importante è la Gerusalemme liberate, in cui vengono cantati gli
scontri tra cristiani e musulmani durante la prima crociata, culminanti nella
presa cristiana di Gerusalemme. Ultimo dei tre figli di Bernardo TASSO,
letterato e cortigiano nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca, poi al
servizio del principe di Salerno Ferrante Sanseverino del regno di
Napoli, compreso nella monarchia spagnola, e di Porzia de' Rossi,
nobildonna napoletana di origini toscane, pistoiesi da parte paterna e pisane
da parte materna. Di Sorrento e della «dolce terra natìa» il poeta conserverà
sempre un magnifico ricordo, rimpiangendo «... le piagge di Campagna
amene, pompa maggior de la natura, e i colli che vagheggia il Tirren fertili e
molli.» (Gerusalemme liberata) Quando C. era ancora bambino, il principe
di Salerno fu bandito dal regno e Bernardo seguì il suo protettore. All'età di
6 anni si recò in Sicilia e dalla fine del 1550 fu con la famiglia a Napoli,
dove lo seguì il precettore privato Giovanni d'Angeluzzo. Frequentò per due
anni la scuola dei Gesuiti appena istituita e conobbe Ettore Thesorieri con il
quale poi restò in corrispondenza epistolare. Ebbe un'educazione
cattolica e da giovane frequentò spesso il monastero benedettino di Cava de'
Tirreni (dove si trovava la tomba di Urbano II, il papa che aveva indetto la
prima crociata), e ricevette il sacramento dell'Eucaristia quando «non avea
anco forse i nov'anni», come scrisse egli stesso. Due anni dopo la sorella
Cornelia, che nel frattempo si era sposata con il nobile sorrentino Marzio
Sersale, rischiò di essere rapita durante un'incursione ottomana a Sorrento, e
questo rimase impresso nella sua memoria. Guidobaldo II Della
Rovere. Rimase a Napoli fino ai dieci anni, poi seguì il padre a Roma,
abbandonando con grande dolore la madre che fu costretta a rimanere nella città
partenopea perché i suoi fratelli «rifiutavano di sborsarle la dote». Nella
città pontificia fu Bernardo a educare privatamente il figlio, ed entrambi
subirono un grave trauma quando vennero a sapere della morte di Porzia,
probabilmente avvelenata dai fratelli per motivi d'interesse. La
situazione politica a Roma subì però uno sviluppo che preoccupò Bernardo: era
scoppiato un dissidio tra Filippo II e Paolo IV e gli spagnoli sembravano sul
punto di attaccare l'Urbe. Mandò allora Torquato a Bergamo presso Palazzo Tasso
e la Villa dei Tasso da alcuni parenti e si rifugiò presso la corte urbinate di
Guidobaldo II Della Rovere, dove fu raggiunto dal figlio pochi mesi dopo.
A Urbino C. studiò assieme a Rovere, figlio di Guidobaldo, e a Monte, poi
illustre matematico. In questo periodo ebbe maestri di assoluto livello quali
il poligrafo Girolamo Muzio, il poeta locale Galli e il matematico Federico
Commandino. Torquato passava a Urbino solo l'estate, dal momento che la corte
trascorreva l'inverno a Pesaro, dove Tasso entrò in contatto con il poeta Bernardo
Cappello e con Dionigi Atanagi, e scrisse il primo componimento a noi noto: un
sonetto in lode della corte. Bernardo si sposta intanto a Venezia,
indiscussa capitale dell'editoria, per occuparsi della pubblicazione del suo
Amadigi. Poco tempo dopo, quindi, anche il figlio cambiò una volta di più
città, stabilendosi in laguna. Sembra che proprio a Venezia, non ancora
sedicenne, abbia cominciato a mettere mano al poema sulla prima crociata e al
Rinaldo. Il Libro I del Gierusalemme (conservato dal Codice vaticano-urbinate
413) fu scritto dietro consiglio di Giovanni Maria Verdizzotti e Danese
Cataneo, due poeti mediocri che allora frequentava e che già avevano scorto nel
Tasso un talento straordinario. Si iscrisse per volere paterno alla
facoltà di legge dello Studio patavino, raccomandato a Sperone Speroni, la cui
casa frequentò più delle aule universitarie, affascinato dalla vastissima
cultura dell'autore della Canace. Tasso non amava la giurisprudenza, tanto che
attendeva più alla produzione poetica che allo studio del diritto. Così, dopo
il primo anno ottenne dal padre il consenso per frequentare i corsi di
filosofia ed eloquenza con illustri professori tra cui spicca il nome di Carlo
Sigonio. Quest'ultimo rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche
tassesche futureprime fra tutte quelle dei Discorsi dell'arte poetica, in cui
si nota anche l'influsso dello Speronie lo avvicinò allo studio della Poetica
aristotelica. È in quest'epoca che si colloca il primo innamoramento del
ragazzo, già molto sensibile e sognatore. Il padre era stato introdotto nella
corte del cardinale Luigi d'Este, e nel settembre 1561 si era recato col figlio
a fare la conoscenza dei familiari del suo protettore. Conobbe nell'occasione
Lucrezia Bendidio, dama di Eleonora d'Este, sorella di Luigi. Lucrezia,
quindicenne, era molto bella ed eccelleva nel canto, anche se era piuttosto
frivola. Avendo notato un interessamento della fanciulla, Tasso cominciò a
dedicarle rime petrarcheggianti, ma dovette presto essere ricondotto alla
realtà, poiché nel febbraio 1562 scoprì che la ragazza era promessa sposa al
conte Baldassarre Macchiavelli. Non si arrese, continuando a cantarla in
poesia, ma dopo le nozze si lasciò andare al risentimento e alla
delusione. Intanto, l'entourage cominciava ad avvedersi del talento
del Tassino (come veniva chiamato per essere distinto dal padre), e gli furono
commissionate delle rime per alcuni funerali. Confluendo in due raccolte,
furono le prime poesie pubblicate da Torquato. Ancora più notevoli erano
gli sforzi prodigati per il Rinaldo, composto in soli dieci mesi e dedicato a
Luigi d'Este. Il poema epico cavalleresco, incentrato sulle avventure del
cugino di Orlando, fu stampato a Venezia nel 1562 e contribuì a diffondere il
nome di Tasso, che aveva ancora soltanto diciotto anni. Il padre intanto
lo aveva messo nel 1561 al servizio del nobile Annibale Di Capua, e il duca
d'Urbino gli aveva procurato una borsa di studio di cinquanta scudi annui per
permettergli di continuare i corsi universitari. Dopo due anni a Padova, Tasso
proseguì gli studi all'Bologna, ma durante il secondo anno di permanenza nella
città felsinea, nel gennaio 1564, fu accusato di essere l'autore di un testo
che attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e
professori dello Studio. Espulso e privato della borsa di studio, fu costretto
a ritornare a Padova, dove poté beneficiare dell'ospitalità di Scipione
Gonzaga, che gli fornì il necessario per continuare il percorso di
formazione. Ritrovò tra i maestri Francesco Piccolomini e seguì le
lezioni di Federico Pendasio. In casa del principe Gonzaga era appena stata
istituita l'Accademia degli Eterei, ritrovo di seguaci dello Speroni che
miravano alla perfezione della forma, non senza scadere nell'artificiosità.
Tasso vi entrò assumendo il nome di Pentito e leggendovi molti componimenti,
tra cui quelli scritti per Lucrezia Bendidio e per una donna che la critica ha
per lungo tempo identificato in Laura Peperara. Secondo questa
versione Torquato conobbe Laura nell'estate del 1563, quando aveva raggiunto a
Mantova Bernardo, nel frattempo messosi al servizio del duca Guglielmo Gonzaga.
La delicatezza nei modi della giovane fece dimenticare presto al Nostro le
ancor fresche pene amorose per Lucrezia Bendidio. Lo spirito del Petrarca
rivisse allora nelle liriche del ragazzo nuovamente innamorato. L'anno dopo,
rivedendola, fu però deluso, e pur continuando a cantarla dovette ben presto
rassegnarsi al secondo scacco. Ricerche recenti hanno tuttavia collocato la
nascita della Peperara nel 1563, rendendo quindi impossibile che fosse lei la
seconda musa del Tasso. I due canzonieri amorosi andarono in parte a
finire tra le Rime degli Accademici Eterei, stampate a Padova nel 1567, assieme
ad alcune che scriverà nel primo anno ferrarese. Si legò anche
all'Accademia degli Infiammati. A Ferrara Torquato Tasso all'eta di
22 anni ritratto da Jacopo Bassano. Giunse a Ferrara in occasione del secondo
matrimonio (quello con Barbara d'Austria) del duca Alfonso II d'Este, al servizio
del cardinale Luigi d'Este, fratello del duca, spesato di vitto e alloggio,
mentre dal 1572 sarà al servizio del duca stesso. I primi dieci anni
ferraresi furono il periodo più felice della vita di Tasso, in cui il poeta
visse apprezzato dalle dame e dai gentiluomini per le sue doti poetiche e per
l'eleganza mondana. Il cardinale lasciò al Nostro la possibilità di
attendere solamente all'attività poetica, e Tasso poté così continuare il poema
maggiore. Rapporti particolarmente intensi intercorsero con le due sorelle del
duca, Lucrezia e Leonora. La prima era uno spirito libero e incarnava ideali di
vivacità e vitalità, mentre la seconda, malata e fragile, fuggiva la vita
mondana e conduceva un'esistenza ritirata. Per quanto Tasso fosse attratto da
entrambe e per quanto si sia avallata l'ipotesi di una relazione amorosa con
Leonora, la critica tassesca ha concluso che non si andò al di là di forti
simpatie. La ricchezza culturale della corte estense costituì per lui un
importante stimolo; ebbe infatti modo di conoscere Battista Guarini, Giovan
Battista Pigna e altri intellettuali dell'epoca. In questo periodo riprese il
poema sulla prima crociata, dandogli il nome di Gottifredo. Nel 1566 i canti
erano già sei, e aumenteranno negli anni appresso. Nel 1568 diede alle
stampe le Considerazioni sopra tre canzoni diPigna, dove emerge la concezione
platonica e stilnovistica che il Tasso aveva dell'amore, con alcune note però
affatto peculiari, che lo portavano a ravvisare il divino in tutto ciò che è bello,
e a definire di matrice soprannaturale anche l'amore puramente fisico. I
concetti vennero ribaditi nelle cinquanta Conclusioni amorose pubblicate due
anni più tardi. Compose anche i quattro Discorsi dell'arte poetica e in
particolare sopra il poema eroico, anche se videro la luce solo nel 1587 a
Venezia, per i tipi di Licino. Nell'ottobre 1570 partì per la Francia al
seguito del cardinale e, temendo gli potesse accadere qualche disgrazia nel
lungo e pericoloso viaggio, volle dettare le proprie volontà all'amico Ercole
Rondinelli, richiedendo la pubblicazione dei sonetti amorosi e dei madrigali,
mentre precisava che «gli altri, o amorosi o in altra materia, c'ho fatti per
servizio di alcun amico, desidero che restino sepolti con esso meco», ad
eccezione di Or che l'aura mia dolce altrove spira. Per il Gottifredo
afferma di voler far conoscere «i sei ultimi canti, e de' due primi quelle
stanze che saranno giudicate men ree», il che prova che il numero dei canti era
salito almeno a otto. Intanto, sempre nel 1570, Lucrezia d'Este sposò
Francesco Maria II Della Rovere, compagno di studi di Torquato nel periodo
urbinate. Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome Luigi
aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo
francese sostanzialmente nell'ombra, con il solo onore di essere ricevuto da
Caterina de' Medici, la moglie di Enrico II. Di ritorno a Ferrara, il 12 aprile
1571 decise di lasciare il seguito del cardinale. Credeva incorrere in
miglior fortuna presso Ippolito II, e scese pertanto a Roma. Anche il cardinale
di villa d'Este però lo deluse, e Tasso decise di risalire la penisola,
facendosi ospitare qualche tempo da Lucrezia e Francesco a Urbino, prima di
entrare al servizio di Alfonso II. In questo periodo continuò ad
attendere al capolavoro, ma si diede anche al teatro, e scrisse l'Aminta,
celebre favola pastorale che rientrava nei gusti delle corti cinquecentesche.
Rappresentata con ogni probabilità all'isola di Belvedere, dov'era una delle
«delizie» estensi, ebbe un grande successo e fu richiesta anche da Lucrezia
d'Este a Urbino l'anno successivo. Nell'euforia del successo, scrive una
tragedia, Galealto re di Norvegia, ma la abbandona all'inizio del secondo atto, salvo rimettervi
mano molto più tardi trasformandola nel Re Torrismondo. Il capolavoro e
la revisione L'impegno principale rimaneva comunque il poema epico, per il
quale l'autore non aveva ancora stabilito un titolo. Nel novembre '74 l'opera
era quasi completa, visto che «io aveva comincio quest'agosto l'ultimo canto»,
ma si deve aspettare per avere l'annuncio del completamento del testo, quando
in una lettera al cardinale Giovan Girolamo Albano leggiamo: «Sappia dunque
Vostra Signoria illustrissima, che dopo una fastidiosa quartana sono ora
per la Dio grazia assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al
fine il poema di Goffredo». Completato quindi il poema maggiore, si apre
il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non
gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio
di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge
l'inquietudine del poeta: «Qui va pur intorno questo benedetto romore de la
proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero.
Scipione Gonzaga Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli
personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la
moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma
principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose. I
cinque erano il maestro ed erudito Speroni, il principe e cardinale Gonzaga, il
cardinale Antoniano, il poeta Bargeo e il grecista Nobili. Cndivise in
parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di
stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive
quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e
continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire
principi di poetica né tanto meno di fede. Ossessivo nell'apportare
modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al
punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questao condotto
finalmente al fine il poema di Goffredo. Completato quindi il poema maggiore,
si aprì per Tasso il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a
termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità
estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una
lettera emerge l'inquietudine del poeta. Qui va pur intorno questo benedetto
romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna
di vero. Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi
romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la
moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma
principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose. I
cinque erano il maestro ed erudito Sperone Speroni, il principe e cardinale
Scipione Gonzaga, il cardinale Silvio Antoniano, il poeta Pier Angelio Bargeo e
il grecista Flaminio de' Nobili. Torquato condivise in parte i consigli
degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico,
ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che
mettono in luce un autore intimamente travagliato e continuamente bisognoso di
dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di
poetica né tanto meno di fede. Ossessivo nell'apportare modifiche al
testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al punto che
nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questa particolare
istoria di Goffredo si conveniva altra trattazione; e forse anco io non ho
avuto tutto quel riguardo che si doveva al rigor de' tempi presenti. E le giuro
che se le condizioni del mio stato non m'astringessero a questo, ch'io non
farei stampare il mio poema né così tosto, né per alcun anno, né forse in vita
mia; tanto dubito de la sua riuscita».[26] Nemmeno l'entusiastica ammirazione
di Lucrezia d'Este cui leggeva il poema ogni giorno «molte ore in
secretis»[27], né l'essere venuto a conoscenza del grande piacere con cui da
più parti l'opera veniva letta, poterono placare le sue angosce. Scrive
“Allegoria”, con cui rivisitava tutto il poema in chiave allegorica cercando di
emanciparsi dalle possibili accuse di immoralità. Ma non bastava: gli scrupoli
di carattere religioso assunsero la forma di vere e proprie manie di persecuzione.
Per mettere alla prova la propria ortodossia nella fede cristiana si sottopose
spontaneamente al giudizio dell'Inquisizione di Ferrara, ricevendo due sentenze
di assoluzione.[29] Barbara Sanseverino Disagi presso la corte
estense e fughe Due belle signore, giunte alla corte nel 1575 e protrattesi
presso il duca fino all'anno dopo, costituirono un intermezzo piacevoleforse
l'ultimoin mezzo a tante preoccupazioni. Per loro, la contessa di Sala Barbara
Sanseverino e la contessa di Scandiano Leonora Sanvitale, cantò gioiosamente in
alcune rime amorose, che, com'era accaduto per Lucrezia e Leonora d'Este,
obbediscono alle conventions de genre e non rivelano altro che una sincera
amicizia. Ma il Tasso si era stancato anche di Alfonso, e sognava diandare a
Firenze, presso la corte medicea. Non è chiaro perché volesse abbandonare
Ferrara, ma i motivi adducibili sono vari e variamente intriganti, e tutti
hanno in loro almeno una parte di verità. «Ch'io desideri sommamente di mutar
paese, e ch'io abbia intenzione di farlo, assai per se stesso può essere
manifesto, a chi considera le condizioni del mio stato», scrive a
Gonzaga. Le «condizioni del mio stato» possono avere una valenza
materiale: Tasso riceveva dal duca solo cinquantotto lire marchesane mensili,
che sommate alle centocinquanta percepite in qualità di lettore all'Università
(carica che ricopriva per i soli giorni festivi) danno una cifra sicuramente
bassa che a un poeta ormai affermato doveva parere stretta, anche solo per una
questione di dignità, senza voler pensare a motivazioni di pretta bramosia
L'espressione tassesca può assumere però anche una connotazione morale e
psicologica: si erano in effetti verificati alcuni episodi spiacevoli presso la
corte estense. Ha una lite con il cortigiano Ercole Fucci. Provocato, aveva
rifilato uno schiaffo al Fucci, che in risposta lo colpì più volte con un
bastone. Un servo aveva inoltre rivelato al Tasso che, durante una sua
assenza, un altro cortigiano, Ascanio Giraldini, aveva fatto forzare la porta
della sua camera, nel tentativo di appropriarsi di alcuni manoscritti. Tasso
sarebbe anche riuscito a rintracciare il magnano ottenendone una confessione,
come risulta da un'altra lettera al Gonzaga, in cui si ipotizzano altre trame
ordite alle sue spalle, anche se «io non me ne posso accertare».[33] A
far precipitare il rapporto con il duca e la corte furono però gli scrupoli
religiosi del poeta. Si autoaccusò presso l'Inquisizione ferrarese (dopo
l'autoaccusa presso il tribunale bolognese avvenuta due anni prima), attaccando
inoltre influenti personaggi di corte. Si cercò allora di far desistere il
poeta dall'intenzione di confermare le sue affermazioni negli interrogatori
successivi, senza risparmiargli punizioni corporali che non riuscirono afar
cambiare idea al Tasso, che si presentò altre due volte davanti
all'inquisitore.[35] Le accuseerano rivolte in particolare contro
Montecatini, il segretario ducale. Siccome Torquato voleva recarsi a deporre
presso il Tribunale capitolino, l'inquisitore ferrarese, conscio del fatto che
una simile azione poteva mettere a repentaglio i rapporti con la Santa
Sede,vitali per casa d'Esteinformò immediatamente il duca con una missiva del 7
giugno. Alfonso mise il poeta sotto sorveglianza, e C., ritenendosi spiato da
un servo, gli scagliò contro un coltello. Il Castello Estense Tasso
rimase nella prigione del Castello fino all'11 luglio, quando Alfonso lo fece
liberare e lo accolse presso la villeggiatura di Belriguardo, dove però rimase
pochi giorni, venendo rimandato a Ferrara per essere consegnato ai frati del
convento di S. Francesco.[37] Il poeta supplicò allora i cardinali
dell'Inquisizione romana affinché lo sollevassero da una situazione ormai
insopportabile trovandogli una sistemazione nell'Urbe, e nel contempo si
lamentava con Scipione Gonzaga per il trattamento ricevuto, ma pochi giorni
dopo si ritrovò nuovamente nella prigione del Castello. Tentò quindi un'altra
via e chiese invano perdono al suo signore. E indubbiamente provato dalle
fatiche della Gerusalemme, e le lettere del periodo rivelano un animo inquieto
e agitato, spesso preoccupato di smentire chi voleva vedere in lui i germi
della pazzia. Le manie di persecuzione e l'instabilità si erano impadronite di
lui, ma fino a qual punto? Fino a qual punto invece certe manifestazioni del
poeta, che mantiene nelle missive una lucidità pressoché completa, funsero da
pretesto per emarginare un personaggio divenuto pericoloso? Su questo punto i
critici non sono mai riusciti a trovare un accordo. Intanto la prigionia
el Castello si prolungava, e non restava che la fuga: nella notte si travestì
da contadino e fuggì nei campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento,
dove, ancora sotto mentite spoglie e fisicamente distrutto, si recò dalla
sorella, annunciandole la propria morte, così da vedere la sua reazione, e
svelandole la sua vera identità solo dopo aver osservato la reazione realmente
addolorata della donna. A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo
riprendere parte alla vita di corte, fece inviare da Cornelia una supplica al
duca, in data 4 dicembre 1577, chiedendo di essere riammesso alle sue
dipendenze, in un testo che fu certamente dettato, almeno in parte, dal poeta
stesso: «La maggior colpa che io credo sia in lui, è la poca sicurezza, che ha
mostrata d'avere nella parola di V.A., e il molto diffidarsi della sua
benignità».[40] Così, nell'aprile 1578 ritornò a Ferrara, ma, tempo tre
mesi, era di nuovo in fuga; Mantova, Padova, Venezia. Presa la via di Pesaro,
da Cattolica mandò ad Alfonso una missiva in cui cerca di spiegare i motivi
dell'abbandono, che restano, anche nella testimonianza diretta del Tasso,
criptici: «ora me ne dono partito. per non consentire a quello, a che non dee
consentire uomo, che faccia alcuna professione d'onore, o ch'abbia nell'animo
alcuno spirito di nobiltà. Paura, instabilità? Quello che è certo è che
nello stesso mese le parole di Maffio Venierche lo aveva incontrato a
Veneziasembrano far perdere credibilità alle ipotesi di follia: «sebbene si può
dire che egli non sia di sano intelletto, scuopre tuttavia più tosto segni di
afflizione che pazzia». Anche gli scambi epistolari intrattenuti con Francesco
Maria Della Rovere paiono rivelare una personalità afflitta e agitata più che
folle. Il Leitmotiv, adesso più che mai, è il dolore. Il dolore si fa allora
poiesis, creazione. È proprio questo il periodo in cui vengono composti i versi
dell'incompiuta canzone Al Metauro, tra i più citati e famosi dell'opera
tassesca. Qui, in una rievocazione della propria vita sub specie doloris[44],
affiorano i ricordi delle proprie sofferenze e della morte dei genitori. Il
poeta è un esiliato, concretamente e metaforicamente, sin da quando bambino
dovette lasciare il luogo natìo: «In aspro esiglio e 'n dura povertà
crebbi in quei sì mesti errori; intempestivo senso ebbi a gli affanni: ch'anzi
stagion, matura l'acerbità de' casi e de' dolori in me rendé l'acerbità degli
anni» Intanto continuava a vagare. Percorse a piedi il tratto che separa
Urbino da Torino, ma non sarebbe riuscito a entrare nella cittàera stato
respinto dai doganieri perché in stato pietosose Angelo Ingegneri, amico di
Torquato da alcuni anni, non lo avesse riconosciuto e aiutato a entrare. A
Torino ricevette l'ospitalità del marchese Filippo d'Este, genero del duca di
Savoia, e godette di una certa tranquillità che gli permise di comporre poesie
e iniziare tre dialoghi, la Nobiltà, la Dignità e la Precedenza. In seguito a
nuovi pentimenti e nuove nostalgie della corte ferrarese, il poeta si adoperò
ancora una volta per il rientro nella città ducale, facendo leva sulle
intercessioni del cardinale Albano e di Maurizio Cataneo, e infine riguadagnò
la capitale estense, proprio mentre fervevano i preparativi per le terze nozze
di Alfonso, quelle con Margherita Gonzaga, figlia del duca di Mantova
Guglielmo. Fu ospitato da Luigi d'Este, ma nessuno badava a lui: «Ora le
fo sapere, che io qui ho trovato quelle difficoltà che m'imaginava, non
superate né dal favore di monsignor illustrissimo, né da alcuna sorte d'umanità
ch'io abbia saputo usare», scrisse a Maurizio Cataneo. In una missiva al
cardinale Albano, recante la data, Tasso chiede almeno gli si faccia riottenere
lo stipendio precedente.[47] A questo punto i fatti precipitano: «Iersera
l'altra si mandò il povero Tasso a Sant'Anna, per le insolenti pazzie ch'avea
fatte intorno alle donne del Signor Cornelio, e che era poi venuto a fare con
le Dame di Sua Altezza, quali, per quanto m'è stato rifferto, furono così
brutte e disoneste, che indussero il Signor Duca a quella risoluzione».[48] Non
è chiaro quando accadesse esattamente il fatto, si oscilla tma è certo che in
quest'ultima data il poeta fosse già stato recluso nella prigione di
Sant'Anna.[ Pare sicuro anche che le parole offensive pronunciate in preda
all'ira si siano indirizzate poi in modo esplicito allo stesso duca, ed è
probabile che si trattasse di gravi accuse (forse legate ancora una volta alla
vicenda dell'Inquisizione) che, fatte in pubblico, chiedevano una risoluzione
drastica. Il duca Alfonso II rinchiuse quindi Tasso nell'Ospedale
Sant'Anna, nella celebre cella detta poi "del Tasso", dove rimase per
sette anni. Qui, alle manie di persecuzione, si aggiunsero tendenze
autopunitive. Delacroix: Tasso all'ospedale di Sant'Anna
Nell'Ospedale veniva trattato alla stregua dei «forsennati», ricevendo poche
razioni di cibo scadente, privato di ogni comodità materiale e di ogni conforto
spirituale, visto che il cappellano, «se ben io ne l'ho pregato, non ha voluto
mai o confessarmi o comunicarmi».[50] È vero che dopo nove mesi ci fu un
miglioramento del vitto, ma dovette trattarsi di ben poca cosa, e i primi tre
anni coincisero con una sorta di isolamento. Scrisse comunque
ininterrottamente a principi, prelati, signori e intellettuali pregandoli di
liberarlo e difendere la propria persona. Le suppliche erano rivolte al solito
Gonzaga, alla mai dimenticata Lucrezia d'Este, a Francesco Panigarola (che
sarebbe divenuto vescovo di Asti), a Ercole Tasso e molti altri. I primi anni
di reclusione non impedirono a Torquato di scrivere; anzi, le tre canzoni del
periodo rivelano una poesia essenziale, magistrale nella gestione delle
armonie, simbolo di un'ormai indiscussa maturità e dimostrazione, una volta di
più, di come le facoltà mentali del poeta fossero ancora intatte. Ecco quindi A
Lucrezia e Leonora, con la celebre invocazione alle «figlie di Renata», in una
nostalgico ricordo dei tempi sereni trascorsi a corte, messo in contrasto con
la durezza del tempo presente, ecco Ad Alfonso, nuova supplica al duca che,
rimasta inascoltata, diventò un inno Alla Pietà nell'omonima canzone. Le
condizioni mutarono con gli anni: gli fu permesso di uscire qualche volta e di
ricevere visite, il vitto migliorò ulteriormente, mentre poté lasciare
Sant'Anna più volte alla settimana, «accompagnato da gentiluomini e qualche
volta fu condotto anche a corte».[52] Tuttavia il trattamento rimaneva molto
duro e, a distanza di secoli, pare spropositato se il motivo dovesse ridursi
alla pazzia o a delle offese personali. Certo, il Tasso soffriva di turbe
psichiche. A questo proposito è illuminante la lettera di aiuto che indirizzò
il 28 giugno 1583 al celebre medico forlivese Girolamo Mercuriale. Qui
troviamo un elenco e una descrizione dei mali che affliggono il poeta:
«rodimento d'intestino, con un poco di flusso di sangue; tintinni ne gli
orecchi e ne la testa, imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli:
la qual mi perturba in modo ch'io non posso applicar la mente a gli studi per
un sestodecimo d'ora», fino alla sensazione che gli oggetti inanimati si
mettano a parlare. È da notare tuttavia come tutte queste sofferenze non
l'abbiano reso «inetto al comporre. Si può poi ammettere che «il Tasso non fu
semplicemente un melanconico, ma di tratto in tratto veniva sorpreso da eccessi
di mania, da riescire pericoloso a sé ed agli altri»[54], ma, anche se questi
squilibri dovessero essersi manifestati realmente, essi non giustificano né la
tesi della pazzia né la necessità di allontanare il Tasso dalla corte per un
periodo così lungo. Con buone probabilità, quindi, la ragione principale deve
essere riallacciata ancora una volta ai tentativi tasseschi di ricorrere
all'Inquisizione romana, e l'imprigionamento era il solo modo per non
compromettere il rapporto con lo Stato Pontificio. Dopo l'edizione veneziana
"pirata" e mutila di Celio Malespini, sempre durante la prigionia,
vennero pubblicatenel tentativo di porre rimedio alla sciagurata operazionea
Parma e Casalmaggiore, ancora senza il suo consenso, due edizioni del poema
iniziato all'età di quindici anni. Il titolo di Gerusalemme liberata fu scelto
dal curatore di queste ultime versioni, Angelo Ingegneri, senza l'avallo
dell'autore. L'opera ebbe un grande successo. Siccome anche le stampe
dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era ormai di
dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile, ma per
far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del Tasso. Così,
seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo Bonnà, che diede
alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara, restituendola in
modo ancora più preciso pochi mesi dopo. Queste traversie editoriali
addolorarono il Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in modo da
renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le pubblicazioni seguì
ben presto quella che gli fu causata dallapolemica con la neonata Accademia
della Crusca. La diatriba non fu scatenata, per la verità, né dal poeta né
dall'Accademia. La sua origine va ricercata nel dialogo Il Carrafa, o vero
della epica poesia, che il poeta capuano Camillo Pellegrino stampò presso
l'editore fiorentino Sermartelli. Nel dialogo Torquato viene esaltato assieme
alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e fedele ai dettami
aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a causa della
leggerezza, delle fantasiose invenzioni e dell'eccessiva dispersione che si
possono riscontrare nell'Orlando Furioso. Il testo provocò la reazione
dell'Accademia, che rispose nel febbraio dell'anno seguente con la Difesa
dell'Orlando Furioso degli Accademici della Crusca, stroncando il Tasso ed
esaltando invece «il palagio perfettissimo di modello, magnificentissimo,
ricchissimo, e ornatissimo» che era il Furioso. La Difesa fu fondamentalmente
opera di Leonardo Salviati e di Bastiano de' Rossi. Tasso decise di scendere in
campo con l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, edita a Ferrara dal
Licino il 20 luglio. Rivendicando la necessità di un'invenzione che si fondi
sulla storia, il poeta si opponeva alle opinioni dei paladini del volgare
fiorentino, e respingeva le accuse di un lessico intriso di barbarismi e poco
chiaro. La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la
Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato
primo), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro,
dopo di chese si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato
secondo per qualche tempo le acque si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi
e tasseschi proseguì fino al secolo successivo, e fu una delle più infiammate
della storia della letteratura italiana. Durante la reclusione Tasso
scrisse principalmente discorsi e dialoghi. Fra i primi quello Della gelosia,
Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo, Della virtù eroica e della
carità, Della virtù femminile e donnesca, “Dell'arte del dialogo”; “Il
Secretario” cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel
regno di Francia e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è
visto. Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o strettamente
religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur nobile virtù
eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si valutano i talenti
specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di esperienze personali
che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono affrontate anche questioni
politiche, in special modo nel Secretario, diviso in due parti, la prima
dedicata a Cesare d'Este, la seconda ad Antonio Costantini. Qui, nella
descrizione del principe ideale, si enucleano alcune caratteristiche come la
clemenza (chiaro il riferimento alla propria condizione), l'esser filosofo, e
soprattutto «un gentiluomo a la cui fede ed al cui sapere si possono confidare
gli Stati e la vita e l'onor del principe». Più copiosa ancora fu la
composizione di dialoghi, scritti sotto il nume ideale di Platone, ma
paragonabili più obiettivamente a quelli del sedicesimo secolo. Quasi ogni
tematica morale viene sviscerata in una serie davvero lunga di opere più o meno
prolisse e più o meno felici. Tasso scrisse, nell'ordine, Il Forno, o
vero de la Nobiltà, il Gonzaga, o vero del Piacer onesto, in seguito rivisto e
stampato con il titolo Il Nifo, o vero del piacere; Il Messaggero. Qui immaginò
di interagire amichevolmente con il folletto da cui si credeva perseguitato
nella realtà. Questo dialogo ispirò la celebre operetta morale leopardiana
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), con una seconda lezione.
Il padre di famiglia (ispirato a un gentiluomo che lo ospitò a Borgo Sesia
prima dell'arrivo a Torino); Il cavalier amante e la gentildonna amata (con
dedica a Giulio Mosti, giovane ammiratore del poeta); Romeo o vero del giuoco,
rivisto e dato alle stampe con titolo Il Gonzaga secondo, o vero del
giuoco; La Molza, o vero de l'Amore (prende spunto dalla conoscenza che il
Tasso fece della celebre poetessa Tarquinia Molza a Modena, dedicato a Marfisa
d'Este); Il Malpiglio, o vero della corte (con riferimento al gentiluomo
ferrarese Lorenzo Malpiglio); Il Malpiglio secondo o vero del fuggir la
moltitudine; Il Beltramo, overo de la Cortesia; Il Rangone, o vero de la Pace
(in risposta a uno scritto di Fabio Albergati); Il Ghirlinzone, o vero
l'Epitafio. Il Forestiero napolitano, o vero de la Gelosia; Il Cataneo, o vero
de gli Idoli, e, infine, La Cavalletta, o vero de la poesia toscana. In tutto
questo non aveva dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo
idee piuttosto lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo
Malpiglio espose intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che avrebbe
apportato negli anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a
ventiquattro canti (secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle
stanze, tagliando anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione
sarà molto minor de l'accrescimento. Qualche segnale, magari anche dettato da
semplice interesse, lasciava intravedere un astio meno severo nei confronti del
Nostro. Prima della reclusione a
Comacchio era stata rappresentata una commedia tassesca alla presenza della
corte. Ora Virginia de' Medici voleva che il testo fosse perfezionato e
completato per essere interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio
con Cesare d'Este. Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera
fu poi pubblicata e ricevette il titolo “Gli intrichi d'amor” edal Perini, uno
degli attori dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia.
L'opera, ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume
dell'epoca, è sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed
episodi ispirati all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che
confluiranno nella commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando
in dialetto e «profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla
mente la futura maschera di Pulcinella. La critica è stata piuttosto concorde
nel ritenerla infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superficiale, nel giudizio
di Francesco D'Ovidio. F. Pourbus: Vincenzo Gonzaga Dopo la prigionia: le
delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni. Finì la prigionia. Venne affidato
a Vincenzo Gonzaga, che lo volle alla sua corte di Mantova. Nelle intenzioni di
Alfonso, Tasso doveva restare presso il figlio di Guglielmo Gonzaga solo per un
breve periodo, ma di fatto il poeta non tornò più a Ferrara, e restò presso
Vincenzo, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de' Mori da Ceno, diventandone
amico. A Mantova ritrova qualche barlume di tranquillità; riprese in mano
il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva lasciato interrotta alla
seconda scena del secondo attoe che aveva frattanto avuto un'edizione nel 1582
-, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando nei primi due atti quanto
aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e procedendo alla stesura
dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque canonici. Quando
nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si mise subito in
azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura del Licino e
per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo duca di
Mantova. Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i fatti lo
dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e preoccupato
di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a Roma senza
chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione del duca di
Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio Costantini,
sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e l'obiettivo
di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione Gonzaga si
mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare, rendendo
impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo riportasse
nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato dal
Pontefice. Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci fosse
una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane comunque
un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della presunta follia
di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del settentrione. Il santuario
di Loreto in un'incisione di Francisco de Hollanda (prima meta del sec. XVI)
Nel corso del tragitto Tasso passò da Loreto, raccogliendosi in preghiera nel
santuario e concependo quella canzone «a la gloriosa Vergine» che può forse
richiamare il Petrarca della Canzone alla Vergine in qualche scelta lessicale,
ma, in mezzo alla lode e alla supplica, è tanto più intessuta di travaglio e
sofferenza: «Vedi, che fra' peccati egro rimango, qual destrier, che si
volve nell'alta polve, e nel tenace fango.» Torquato fu a Roma.
L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le lettere registrano le sue
richieste di denaro e le lamentele per la propria condizione di salute. Il
poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla possibilità che gli altri
lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera del 14 novembre, gli
uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi. Tuttavia, il Nostro è in preda
al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi, scrivendo versi encomiastici
per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza ottenere alcunché. Anche la
speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene delusa, nonostante le lodi
che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie, confluite assieme ad altre del
periodo in un volumetto stampato a Venezia. Vista l'inutilità del soggiorno
romano, il peregrinante poeta pensò trovare maggior fortuna nell'amata Napoli.
Così, ritorna nella città vesuviana fortemente intenzionato a risolvere a
proprio favore le cause contro i parenti per il recupero della dote paterna e
di quella materna. Benché potesse contare su amici e congiunti, e sulle
conoscenze altolocate partenopee, tra cui i Carafa (o Carrafa) di Nocera, i
Gesualdo, i Caracciolo di Avellino, i Manso, preferì accettare l'ospitalità di
un convento di frati olivetani. Qui conobbe l'amico più caro degli ultimi anni:
Giovan Battista Manso, signore di Bisaccia e primo entusiasta biografo
dell'autore dopo la sua morte. Il clima amichevole in cui fu accolto, la
stima di amici e letterati, e il conforto di una «bellissima città, la quale è
quasi una medicina al mio dolore, riuscirono a risollevare per un breve periodol'infelice
animo tassiano. Per ringraziare i monaci scrisse il poemetto, rimasto
incompiuto, Monte Oliveto, in riferimento al convento in cui sorgeva il
complesso monastico che attualmente ospita la caserma dei carabinieri (resta
visitabile la chiesa Sant'Anna dei Lombardi). L'operaun resoconto encomiastico
delle principali tappe esistenziali e delle principali virtù di Bernardo
Tolomei, il fondatore della Congregazioneè fortemente intessuta di spirito
cristiano, in un severo richiamo ad una vita sobria, lontana dalle vanità del
mondo. Dedicata al cardinale Antonio Carafa, si interrompe alla centoduesima
ottava. Al pari del Re Torrismondo e di molta parte dell'ultima produzione
tassesca, il Monte Oliveto non ha goduto dei favori della critica. Guido
Mazzoni vi vide più una predica che un poema, mentre Eugenio Donadoni utilizzò
quasi le medesime parole che gli erano servite per stroncare il Torrismondo (v.
Re Torrismondo): questa è «l'opera non più di un poeta, ma di un letterato, che
cerca di dare forma e tono epico a una convenzionale vita di santo».[78] Come
per la tragedia nordica, la rivalutazione è arrivata con l'analisi di Luigi
Tonelli e di alcuni studiosi più recenti. In ogni caso, anche questo
periodo napoletano si rivelò problematico per Tasso, a causa delle precarie
condizioni di salute e delle ristrettezze economiche, a cui si aggiunsero anche
nuove polemiche letterarie e religiose sulla Gerusalemme liberata. Spostatosi a
Bisaccia, Tasso poté vivere un periodo di maggiore tranquillità. Manso ricorda
un episodio curioso: mentre sedeva con l'amico davanti al fuoco, questi disse
di vedere uno «Spirito, col quale entrò in ragionamenti così grandi e
meravigliosi per l'altissime cose in essi contenute, e per un certo modo non
usato di favellare, ch'io rimaso da nuovo stupore sopra me inalzato, non ardiva
interrompergli». Alla fine della visione, Manso confessò di non aver visto
nulla, ma il poeta gli si rivolse sorridendo: «Assai più veduto hai tu, di
quello che forse... E qui si tacque».[79] Viste le rare manifestazioni
allucinatorie di cui abbiamo notizia, (si ricordino quelle che erano state
descritte nel dialogo Il messaggero, in cui è descritto uno spirito amoroso che
appare a Tasso sotto la figura di un giovanetto dagli occhi azzurri, simili a
quelli che Omero alla dea d'Atene attribuisce), la risposta del Nostro assume
una valenza indubbiamente ambigua, e non può escludersi che avesse voluto
mettere alla prova il Manso per vedere se anche lui lo avrebbe considerato un
"folle". A dicembre era di nuovo a Roma, dove giunse nella
speranza di poter essere ospitato dal Papa in Vaticano, confidando negli
illusori pareri di alcuni amici.[80] Ad ospitare Tasso fu invece Scipione
Gonzaga, e il poeta si sentì di nuovo «più infelice che mai». Ricominciava la
routine: richieste d'aiuto a destra e a sinistra, con l'obiettivo di ricevere i
cento scudi che gli erano stati promessi per la stampa delle sue opere: «vorrei
in tutti i modi trovar questi cento ducati, per dar principio a la stampa,
avendo ferma opinione che di sì gran volume se ne ritrarrebbero molto più»,
scrisse ad Antonio Costantini.[82] I destinatari erano ancora una volta i più
disparati: il principe di Molfetta, il Costantini, il duca di Mantova Vincenzo
Gonzaga, gli editori. Il Nostro si umiliò per l'ennesima volta anche con
Alfonso, cui chiese nuovamente perdono, mentre al Granduca di Toscana
Ferdinando I domandò l'intercessione del cardinal Del Monte, lo stesso che
prenderà sotto la propria protezione Caravaggio. Tutte le speranze, però,
furono disattese. Al tempo stesso anche le missive ai medici si rifecero
intense. Tuttavia, in mezzo a tante delusioni e a tanto affanno non venne meno
la verve creativa: oltre ad aver raccolto le Rime in tre volumi, e avervi
scritto il commento, Tasso compose anche un poema pastorale che riprende, anche
se solo nel nome, alcuni personaggi dell'Aminta. È Il rogo di Corinna, dedicato
a Fabio Orsino. La prima pubblicazione dell'opera fu postuma. Per quanto
Grazioso Graziosi, agente del duca di Urbino, dicesse al suo signore del modo
eccellente in cui il Tasso era trattato presso il cardinale Gonzaga, egli
rilevava al contempo le infermità fisiche e mentali di Torquato, che privavano
la sua età «del maggior ingegno che abbian prodotto molte delle passate.
Tuttavia, è bene diffidare della prima quanto della seconda affermazione. Se
«il povero Signor Tasso è veramente degno di molta pietà per le infelicità
della sua fortuna»[85], come si legge in una missiva del Graziosi di due
settimane dopo, perché cacciare il poeta in malo modo, mentre Scipione Gonzaga
non era presente, e costringerlo a una nuova situazione di bisogno? In aiuto
del Tasso vennero ancora i monaci della Congregazione del Tolomei, che lo
ospitarono a Santa Maria Nuova degli Olivetani.[86] Gli ultimi anni del
Tasso, però, non conobbero pace duratura: le sofferenze psichiche si acuirono
nuovamente, certo per le nuove delusioni derivanti da richieste di denaro non
esaudite, dall'obbligo di piegarsi alla composizione di poesie a pagamento, e
il poeta fu costretto a farsi ricoverare nell'Ospedale dei Pazzarelli,
adiacente alla chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro dei Bergamaschi,
la cui costruzione era appena stata ultimata. Il dolore emerge in modo chiaro
in una lettera inviata il primo dicembre 1589 ad Antonio Costantini, divenuto
ormai suo confidente. Ritornò presso Scipione Gonzaga, sempre lamentandosi per
la scarsa considerazione in cui era tenuto e sempre scrivendo della propria
infelicità.[88] Tasso premeva, come già più volte in passato, per essere
accolto a Firenze dal Granduca di Toscana, e accettò quindi con gioia l'invito
di Ferdinando de' Medici. A Firenze giunse in aprile, ospite prima dei fidati
Olivetani, poi di ricchi e illustri cittadini quali Pannucci e Gherardi. Alla
tranquillità necessaria per rivedere la Gerusalemme si aggiunsero anche
relative soddisfazioni economiche (sempre comunque in cambio di versi
encomiastici): dal Granduca ricevette centocinquanta scudi[89], da Giovanni III
di Ventimiglia, marchese di Geraci, sembrerebbe, duecento scudi.[90] Il
motivo di gioia principale era tuttavia un altro, era l'avvicinarsi dell'evento
più ambito da chi si sentiva, sopra ogni cosa, poeta: «Penso a la mia
coronazione, la qual dovrebbe esser più felice per me, che quella de' principi,
perché non chiedo altra corona per acquetarmi». Non ci fu nessuna
incoronazione. C'è chi ha asserito che questa lettera contenesse solo una
bislacca speranza del Tasso, senza alcun legame con la realtà.[92] Tuttavia, la
sicurezza con cui l'evento viene ormai dato per certo lascia pensare che le
illusioni del Nostro avessero un fondamento, e non fossero una pura
chimera. Un nuovo evento lo indusse all'ennesimo spostamento: papa Urbano
VII era succeduto a Sisto V, incoraggiando il Tasso a fare nuovamente
affidamento sugli aiuti pontifici. C. scese così a Roma, accolto dagli
Olivetani di Santa Maria del Popolo. Giovanni Battista Castagna morì tredici
giorni dopo l'elezione, lasciando il posto a Gregorio XIV. Anche questa volta
le lettere del poeta registrano un amaro scacco: «Ho perduto tutti gli appoggi;
m'hanno abbandonato tutti gli amici, e tutte le promesse ingannato», confidò,
sempre più afflitto, a Niccolò degli Oddi. L'autore della Gerusalemme è ogni
giorno che passa più confuso, sballottato qua e là dagli eventi come una barca
in mezzo al mare. Tutto questo riflette la condizione interiore di una persona
disincantata ma al tempo stesso ancora ingenuamente pronta a fidarsi delle
fallaci promesse che giungono dal mondo intorno, riflette un'instabilità ormai
cronica. È vero che la fede andò radicandosi sempre più in Tasso, ma il fatto
che al duca di Mantova scrivesse di volersi ritirare in un monastero e pochi
giorni dopo accettasse il suo invito a tornare a corte è l'evidente
manifestazione di un'anima senza pace. Ritornato quindi sul Mincio, accolto con
tutti gli onori, poté dedicarsi totalmente al lavoro letterario, e in
particolare alla revisione del capolavoro. La missiva a Maurizio Cataneo del 4
luglio ci informa del fatto che il poeta era già a buon punto, e illustra le
linee direttrici della propria opera correttrice: «sono al fine del penultimo
libro; e ne l'ultimo mi serviranno molte di quelle stanze che si leggono nello
stampeato. Desidero che la riputazione di questo mio accresciuto ed illustrato
e quasi riformato poema toglia il credito a l'altro, datogli dalla pazzia de
gli uomini più tosto che dal mio giudicio». Sono parole che possono parere
sciagurate, ma riflettono gli scrupoli religiosi sempre più pressanti.
Non si era comunque concentrato solo sul poema: aveva raccolto le Rime in
quattro volumi, e con l'editore veneziano Giolito parlava della possibilità
di stampare tutte le opere (esclusa la Gerusalemme) in sei libri. A tutto
questo va aggiunto un nuovo lavoro che aveva intrapreso, lasciandolo poi
incompiuto. La genealogia di Casa Gonzaga, con dedica a Vincenzo, si interruppe
dopo centodiciannove ottave, per essere pubblicato solo nel 1666, tra le Opere
non più stampate dell'edizione romana Dragondelli.[96] Il poemetto è
sicuramente trascurabile, fatto di una versificazione fredda, appesantita da
nozioni e nomi. Tra le fonti il ruolo principale è stato svolto da un regesto
di Cesare Campana, Arbori delle famiglie... e principalmente della Gonzaga,
uscito a Mantova l'anno prima, e dall'Historia sui temporis di Paolo Giovio,
accanto a cui va ricordata la tradizione orale legata alla battaglia del Taro.
La calma, tuttavia, era ormai un ricordo di gioventù, e ogni soggiorno
diventava insopportabile dopo un certo numero di mesi. Così, ridiscese la
penisola, con l'intenzione di raggiungere nuovamente Roma. Il viaggio fu
travagliato e appesantito dal fatto che Tasso si ammalò più volte durante il
tragitto, costretto a sostare in varie località, fra cui Firenze. Giunto
nell'Urbe, ricevette l'ospitalità di Cataneo. Poche settimane dopo era ancora
in viaggio, diretto a Napoli A questo
punto, inaspettatamente, ci fu spazio per qualche luce e qualche reale
soddisfazione. Il soggiorno napoletano non tradì, né per quanto riguarda l'accoglienza
ricevuta (fu ospitato dal principe di Conca Matteo di Capua e poi da Manso con
grandi onori e affetto), né sulle questioni letterarie, né su quelle relative
alla salute dell'artista. In effetti, in virtù della «purità dell'aria,
comincia a sentirsi meglio, e di conseguenza poté dedicarsi in modo più
proficuo alle proprie attività. In questi mesi completò la Conquistata, e,
sempre durante il soggiorno partenopeo, mise mano all'ultima opera
significativa, Le sette giornate del Mondo creato. Gli ultimi tre anni di vita
lo videro prevalentemente a Roma. L'elezione al soglio pontificio di Clemente
VIII lo fece venire nell'Urbe, e anche qui ebbe un trattamento decisamente
migliore rispetto alle recenti esperienze. Poté infatti alloggiare nel palazzo
dei nipoti del Papa, Pietro e CinzioAldobrandini, in procinto di diventare
cardinali. Cinzio sarà di fatto il vero mecenate dell'ultimo periodo. La
produzione letteraria ebbe nuovi sussulti, consacrandosi ormai quasi
esclusivamente agli argomenti sacri: compose i Discorsi del poema eroico e
altri Dialoghi, carmi latini e rime religiose. Addolorato per la morte di
Scipione Gonzaga, gli dedicò, nel marzo 1593, Le lagrime di Maria Vergine e Le
lagrime di Gesù Cristo.Tasso aveva intanto finito di rivedere il poema, e
sempre nel 1593 vide la luce a Roma, per i tipi di Guglielmo Facciotti, la
Gerusalemme conquistata. Esistono inoltre chiare testimonianze del fatto
che ci fosse l'intenzione di incoronare Tasso in Campidoglio, nonostante alcuni
studiosi si siano osti negarlo e a considerarla un'invenzione del poeta. È
veramente degno il Signor Torquato Tasso di esser celebrato in questi medesimi
tempi come raro per la sua poesia, ed è parimente degno della grandezza
dell'animo del Signor Cinzio Aldobrandini di erigergli una statua laureata, con
mill'altre cerimonie e specie, come dicono che tosto si vedrà, e dargli luogo
in Campidoglio fra le più degne ed antiche cerimonie [...]», rivela Matteo
Parisetti in una lettera ad Alfonso II, risalente all'agosto del Lo stesso
Tasso è esplicito al riguardo: «Qui in Roma mi voglion coronar di lauro»,
scrive al Granduca di Toscana il 20 dicembre 1594, «o d'altra foglia».
Sennonché, pur essendo ancora bisognoso di soldi e continuando a fare richiesta
per ottenerli, il poeta sentiva sempre più lontane le preoccupazioni del mondo,
e sempre meno si curava della vanità e dei successi terreni. La salute, dopo la
parentesi napoletana, andava aggravandosi nuovamente, e Torquato cominciava a
capire che la fine non era lontana. Per questo ritornò alle falde del Vesuvio,
per concludere rapidamente in proprio favore la questione legata all'eredità
materna: il risultato fu soddisfacente, acconsentendo il principe di Avellino a
versargli duecento ducati all'anno, ai quali vanno aggiunti cento ducati annui
che il Papa si risolverà a dargli a partire dal febbraio 1595. A Napoli
rimase dal giugno al novembre del 1594, alloggiato al monastero benedettino di
san Severino, sempre più votato alla vita monastica e attratto ancora dalla
letteratura agiografica. Fu probabilmente nei mesi trascorsi presso i
benedettini che Tasso abbozzò l'incompiuta Vita di San Benedetto. Alla fine
dell'anno ritornò a Roma. Cambiò città per l'ultima volta: la fine era
dietro l'angolo. Riconosciuta la definitiva infermità che gli rendeva ormai
impossibile scrivere e correggere, non sentì più che un ultimo bisogno,
tralasciando tutto il resto, il bisogno della «fuga dal mondo». Entra al
monastero di S. Onofrio, sul Gianicolo, senza più nemmeno curarsi del fatto che
il Mondo creato non era stato ancora rivisto. Tutto svaniva, di fronte
all'importanza di prepararsi al trapasso: «Che dirà il mio signor Antonio,
quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio avviso non tarderà molto la
novella, perch'io mi sento al fine de la mia vita. Non è più tempo ch'io parli
de la mia ostinata fortuna, per non dire de l'ingratitudine del mondo». Tutto
perdeva importanza, a fronte della dolcezza della «conversazione di questi
divoti padri», che cominciava «la mia conversazione in cielo. Monumento in
Sant'Onofrio Il 25 aprile, all'«undecima ora». Tasso muore. E una morte serena,
ricevuta con tutti i conforti dei sacramenti.La morte del Tasso è
stata accompagnata da una particolar grazia di Dio benedetto, perché in questi
ultimi giorni le duplicate confessioni, le lagrime e insegnamenti spirituali
pieni di pietà e di giudizio, mostrarono che fosse affatto guarito dall'umor
malinconico, e che quasi uno spirito gli avesse accostato al naso l'ampolle del
suo cervello. Venne sepolto nella Chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo.
Presso il monastero, accanto alla strada è ancora visibile la rampa della
quercia, dove si trova il tronco nero di una quercia secolare sostenuto da un
sopporto metallico. Secondo la tradizione locale si tratta della cosiddetta
quercia del Tasso, l'albero alla cui ombra il poeta spesso sedeva per
riposarsi. Albero genealogico Reinerius de Tassis Sconosciuta Omedeo
Tasso ( Sconosciuta Ruggero Tasso SconosciutaBenedetto Tasso SconosciutaPalazzo
de Tassis Tonola de Magnasco, Pasimo (o Paxio) de Tassis. SconosciutaPietro
Tasso. SconosciutaGiovanni Tasso
Catalina de Tassi Gabriel Tasso Porzia de RossiBernardo Tasso Torquato
Tasso Opere Un ritratto a Sorrento. Gerusalemme Scritto quando egli aveva
solo 15 anni il Gierusalemme rappresenta il primissimo tentativo di Tasso di
maneggiare il genere epico nonché il suo primo impegno letterario di rilievo.
Se ne possiedono soltanto centosedici stanze del canto I. Oltre a condividere
con la Liberata l'argomento (la prima Crociata), si notano pure alcune
somiglianze tra il proemio di questo esordio poetico giovanile e quello del
capolavoro della maturità. Rinaldo All'età di diciotto anni Tasso riprese
la materia del romanzo cavalleresco e pubblicò il Rinaldo, poema in ottave che
narra in dodici canti la giovinezza del paladino della tradizione carolingia e
le sue imprese di armi e di amori. Nella prefazione al poema Tasso dichiara di
voler imitare in parte gli "antichi" (Omero e Virgilio), in parte i
"moderni" (Ariosto). Si concentra però su un unico protagonista, secondo
le esigenze di unità proposte dall'aristotelismo. Si tratta di un'opera
tipicamente giovanile, ancora priva di originalità, ma compaiono già alcuni
temi e toni fondamentali che caratterizzeranno il Tasso maturo e formato
culturalmente. Rime Torquato Tasso compose un gran numero di poesie
liriche, lungo l'arco di tutta la sua vita. Le prime furono pubblicate col
titolo di Rime degli Accademici Eterei. Uscirono Rime e prose. Tasso lavorò
fino al 1593 ad un riordino complessivo dei testi, distinguendo rime amorose e
rime encomiastiche. Previde poi una terza sezione, dedicata alle rime religiose
e una quarta di rime per musica, ma non realizzò il progetto. Nelle Rime
amorose è ben riconoscibile l'influenza della poesia petrarchesca e della vasta
produzione petrarchistica del Quattrocento e Cinquecento; contemporaneamente,
però, il gusto per le preziosità linguistiche e l'intensa sensualità rivelano
l'evoluzione verso un linguaggio nuovo che maturerà nel Seicento. L'uso
frequente di forme metriche poco usate dai poeti precedenti, come il madrigale,
e la raffinata musicalità dei versi fecero sì che molti di essi fossero
musicati da grandi autori come Claudio Monteverdi e Gesualdo da
Venosa. Più solenni e classicheggianti le Rime encomiastiche,
dedicate alle figure e alle famiglie signorili che ebbero rilievo nella vita
del poeta. Per la loro creazione si ispira a Pindaro, Orazio e al celebre
Monsignor della Casa. Fra tutte, la più famosa è la Canzone al Metauro,
intessuta di elementi autobiografici. Le Rime religiose sono caratterizzate
dal tono cupo e plumbeo, forse dovuto al fatto che le scrisse negli ultimi anni
di vita. Qui il poeta manifesta il desiderio di sconfiggere l'ansia
esistenziale e il tormentoso senso del peccato attraverso la fede e
l'espiazione. Discorsi dell'arte poetica Attorno alla metà degli Anni
Sessanta scrisse i quattro libri dei Discorsi dell'arte poetica ed in
particolare sopra il poema eroico, letti all'Accademia Ferrarese e pubblicati
molto più tardi, nel 1587, dal Licino. Il testo fornisce una chiara visione
della concezione tassesca del poema eroico, piuttosto distante da quella
ariostesca, che dava la prevalenza all'invenzione e all'intrattenimento del
pubblico. Perché possa essere giudicato di buon livello, deve basarsi su
un evento storico, da rielaborare in modo inedito. Infatti, «la novità del
poema non consiste principalmente in questo, cioè che la materia sia finta, e
non più udita; ma consiste nella novità del nodo e dello scioglimento della
favola. Al verosimile deve essere unito il meraviglioso, e Tasso trova l'unione
perfetta di queste due componenti nella religione cristiana. Intiera, l'opera
deve essere una, ossia prevedere l'unità d'azione, ma senza schemi rigidi: ci
può essere largo spazio per la varietà, e per la creazione di numerosi racconti
nel racconto, e in questo senso la Gerusalemme liberata costituisce una piena
realizzazione delle idee dell'autore. Lo stile, infine, deve adeguarsi alla
materia, e variare tra il sublime e il mediocre a seconda dei casi.
Aminta Magnifying glass icon mgx2.svg Aminta (Tasso). Le sofferenze di
Aminta, dipinto di Bartolomeo Cavarozzi «L'Aminta non è un dramma pastorale e
neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto
lirico, narrazione drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le
tragedie e le commedie e i così detti drammi pastorali in Italia … Essa è in
fondo una novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco che
dominava nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il
Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due
protagonisti, Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si
accavallano con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a
monologhi e capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla
narrazione L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da
partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è
tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui
concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei piace, ei
lice". Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di
caratteri e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui,
comparazioni, sentenze, movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza
musicale, piena di grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima.
Semplicità molta è nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di
eleganza guadagna di naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è
artificio finissimo. Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà
un'apparenza pastorale a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo
raffinato, e la stessa semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un
miracolo di perfezione, e certo non ci è opera d'arte così finamente
lavorata.» (De Sanctis) L'Aminta è una favola pastorale. Presenta un
prologo, 5 atti, un coro. Ogni canto si conclude a lieto fine. Ha
ispirato la composizione della favola pastorale Flori di Maddalena Campiglia
lodata dallo stesso Tasso. Sulle ali dell'entusiasmo per il successo
dell'Aminta Tasso incominciò una tragedia, Galealto re di Norvegia, che però
interruppe alla seconda scena del secondo atto. Il poeta la riprese e la completò
a Mantova, subito dopo la liberazione dall'Ospedale di Sant'Anna cambiando però
il titolo, diventato Re Torrismondo, e il nome del protagonista.
L'ambientazione è nordica: in essa sono frequenti le immagini di distese
boschive. In questo, il Tasso mostra la sua forte curiosità per le leggende
nordiche, come ad esempio mostra la lettura dell'Historia de gentibus
septentrionalibus di Olao Magno. L'editio princeps è quella bergamasca
del 1587; seguirono a ruota le edizioni di Mantova, Ferrara, Venezia e Torino,
ma poi ci fu un lungo silenzio. L'opera fu rappresentata per la prima volta
soltanto al Teatro Olimpico di Vicenza. Trama Torrismondo è intimamente
segnato dal conflitto tra amore e amicizia: il sovrano (d'una ignota regione
nordica, non di Norvegia) ama Alvida, che a causa di un debito passato
(Germondo aveva salvato la vita a Torrismondo) deve sposarsi con l'amico
Germondo, re di Svezia, regno nemico a quello di Alvida poiché Germondo stesso
era stato accusato di omicidio del fratello di Alvida. Germondo dunque non può
sposarsi con la donna amata poiché il padre di quest'ultima lo odia. Germondo
decide allora che Torrismondo per sdebitarsi avrebbe dovuto chiedere la mano di
Alvida e al momento delle nozze avrebbe dovuto scambiare la sposa. Ottenuta da
Torrismondo la mano di Alvida i due consumano l'amore. La storia prenderà
un'altra china quando Torrismondo scoprirà che la donna amata non è altri che
la sorella, la situazione culminerà nel suicidio dei due. Il Re Torrismondo è
molto importante perché anticipa le tragedie barocche, nelle quali si
riprendono alcune caratteristiche fondamentali delle tragedie senecane: la
meditatio mortis (il Memento mori) e il gusto dell'orrido. Nel Tasso, però, ciò
che compare fortemente e caratterizza le sue tragedie è il conflitto intimo che
dilania l'animo dei personaggi: l'uomo si sente intrappolato dal fato, poiché
impossibilitato all'agire, a modificare il corso degli eventi ormai già
predisposti. Tuttavia, la critica non si è espressa positivamente in
merito all'opera: Solerti ed Ovidio si sono mostrati ostili verso il
Torrismondo come lo erano stati nei confronti degli Intrichi d'amore, e severo
si è dimostrato anche Umberto Renda, che alla tragedia ha dedicato una
monografia. Ancora più duro il giudizio
di Eugenio Donadoni, che arrivò a parlare di «opera di un ex-poeta, non più di
un poeta, e nemmeno Giosuè Carducci, pur
apprezzando lo sforzo di unire elementi pagani e religiosi, classici ed
esotici, ha ritenuto il dramma degno dell'ingegno tassesco. Solo Tonelli fa
presente che superava pur sempre «la maggior parte delle tragedie
cinquecentesche e rivaleggiava con le migliori del tempo. Gerusalemme liberata
Gerusalemme liberata. Tasso con la sua Gerusalemme liberata La
Gerusalemme liberata è considerata il capolavoro di Tasso. Il poema tratta di
un avvenimento realmente accaduto, ossia la prima crociata. Tasso iniziò a
scrivere l'opera con il titolo di Gierusalemme durante il soggiorno a Venezia.
L'opera fu pubblicata integralmente con il titolo di Gerusalemme liberata. In
seguito alla pubblicazione del poema il poeta rimise mano all'opera e la
riscrisse eliminando tutte le scene amorose e accentuando il tono religioso ed
epico della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme conquistata. In realtà
la Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad
avere grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri,
fu la Liberata. Trama Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra
raduna i crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio
Gerusalemme. Uno dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato
Tancredi. Chi vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per
il sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i
musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con
uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui
Tancredi, in un castello incantato. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro
crociato che lo aveva offeso viene cacciato via dal campo. Il giorno del duello
arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato
aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in
battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli
eroi imprigionati liberati da Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno
vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una
torre per dare l'assalto a Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è
innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e
viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama, Tancredi, che non l'aveva
riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo l'apparizione
in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno lancia un
incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire la torre.
L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero della maga
Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e alla fine lo
trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e permette ai
crociati di assalire e conquistare Gerusalemme. I Dialoghi La stesura di prose
dialogiche impegnò Tasso fin dal 1578, anno della composizione del Forno overo
de la Nobiltà. La dialogistica tassiana è stata da sempre relegata al
margine dalla critica: De Sanctis accenna soltanto al Minturo overo della
Bellezza, limitandosi ad asserire che Tasso da giovane fu “infetto dalla peste
filosofica”. Un giudizio a dir poco sminuente se si considera che il poeta
compose venticinque dialoghi (e questa è solo la cifra canonica; non si fa
riferimento, infatti, agli abbozzi e ai rimaneggiamenti) e vi pose il suo
impegno fino alla morte. Una valutazione più precisa è fornita da
Donadoni: lo studioso dedica un intero capitolo della sua monografia ai
Dialoghi indagandone trame, fonti e suggestioni. La prima edizione moderna
del corpus dialogico tassiano è quella di Guasti, il quale, però, non riuscendo
a reperire tutti i manoscritti dei Dialoghi si basa sui testimoni a stampa,
dando vita ad un’edizione, che presenta corruttele da far rabbrividire i
moderni filologi. Un grande passo in avanti nella fortuna dei Dialoghi è
rappresentato dall’edizione critica di Ezio Raimondi pubblicata nel 1958, di
capitale importanza per gli studiosi tassiani i quali, ancora oggi, continuano
a considerarla punto di riferimento. Raimondi considerò i Dialoghi tassiani
come opere postume, scegliendo la versione più attendibile fra manoscritti e
stampe in base alla loro storia individuale. Questo criterio non è stato
accettato da Stefano Prandi e Carlo Ossola, i quali hanno proposto un’edizione
storica dei Dialoghi che tenesse conto dei testi effettivamente circolanti
all’epoca dello scrittore. L’edizione in realtà non ha mai visto la luce e si è
fermata ad uno specimen che avrebbe dovuto anticipare una successiva edizione
completa. Negli ultimi anni gli studiosi della prosa tassiana sono aumentati:
si è posta attenzione al Tasso politico, con due edizioni commentate della
Risposta di Roma a Plutarco e al Tasso egittologo di cui si è occupato Bruno
Basile. Non mancano letture dei singoli dialoghi: Basile e Arnaldo Di Benedetto
si sono occupati del Padre di Famiglia (rispettivamente, Fonti culturali e
invenzione letteraria nel «Padre di famiglia» di Torquato Tasso; e Torquato
Tasso, «Il padre di famiglia»); Emilio Russo del Manso (Amore e elezione nel
"Manso" di Tasso), Massimo Rossi del Malpiglio Secondo e del Rangone
(Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei "Dialoghi" di
Tasso); Maiko Favaro, dopo la monografia di Prandi/Ossola, ha offerto una
puntuale lettura del Forno, premiata con il premio Tasso (Le virtù del tiranno e le passioni
dell’eroe. Il “Forno overo de la Nobiltà” e la trattatistica sulla virtù
eroica); Angelo Chiarelli si è, invece, occupato del Malpiglio overo de la
corte (Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di
aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa
tassiana), preceduto dal contributo di Massimo Lucarelli sullo stesso argomento
(Il nuovo «Libro del Cortegiano»: una lettura del «Malpiglio» di C.) e del
Costante («Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una
contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso).
L'edizione critica di Raimondi fornisce il testo dei venticinque dialoghi
tassiani, con un'appendice che ci permette di conoscere i manoscritti
superstiti e le stampe. Questo il titolo dei vari dialoghi: Il Forno
overo de la Nobiltà; Il Beltramo overo de la cortesia; Il Forestiero Napoletano
overo de la gelosia; Il N. overo de la pietà; Il Nifo overo del piacere; Il
messaggiero; Il padre di famiglia; De la dignità; Il Gonzaga secondo overo del
giuoco; Dialogo; Il Rangone overo de la pace; Il Malpiglio overo de la corte;
Il Malpiglio secondo overo del fuggir la moltitudine; La Cavalletta overo de la
poesia toscana; Il Gianluca overo de le maschere; Il Cataneo overo de gli
idoli; Il Ghirlinzone overo l'epitaffio; La Molza overo de l'amore; Il Costante
overo de la clemenza; Il Cataneo overo de le conclusioni amorose; Il Manso
overo de l'amicizia; Il Ficino overo de l'arte; Il Minturno overo de la
bellezza; Il Porzio overo de le virtù; Il Conte overo de le imprese. Le sette
giornate del mondo creato È un poema in endecasillabi sciolti, accanto ad altre
opere di contenuto religioso di impronta chiaramente controriformistica. Il
poema venne pubblicato postumo. Si fonda sul racconto biblico della creazione
ed è suddiviso in sette parti, corrispondenti come dice il titolo ai sette
giorni nei quali Dio creò il mondo, e presenta una continua esaltazione
della grandezza divina della quale la realtà terrena è un pallido
riflesso. Le lacrime di Maria Vergine e Le lacrime di Gesù Cristo Si
tratta, come nel caso de Le sette giornate del mondo creato, di due scritti
facenti parte delle cosiddette "opere devote" del Tasso. Nello
specifico, sono due poemetti in ottave che riprendono la tradizione della
"poesia delle lacrime", in voga nella seconda metà del Cinquecento,
appena qualche anno prima della morte. Influenze culturali Statua
di Tasso a Sorrento La figura del Tasso, anche per la sua pazzia, divenne
subito popolare. La lucidità delle opere scritte durante il periodo di
prigionia nell'Ospedale di Sant'Anna fece diffondere la leggenda secondo cui il
poeta non era veramente pazzo ma fu fatto passare per tale dal duca Alfonso che
voleva punirlo per aver avuto una relazione con sua sorella, imprigionandolo
(anche se, come si è visto, è assai più probabile che la vera ragione della
reclusione consistesse nell'autoaccusa del poeta di fronte al tribunale
dell'Inquisizione). Questa leggenda si diffuse rapidamente e rese
particolarmente popolare la figura del Tasso, fino a ispirare a Goethe il
dramma C.. In età romantica il poeta divenne il simbolo del conflitto
individuo-società, del genio incompreso e perseguitato da tutti coloro che non
sono in grado di comprendere il suo talento straordinario. In particolare
Giacomo Leopardi, che quando si recò a Roma il giorno venerdì 15 febbraio del
1823 pianse sul sepolcro del Poeta in S. Onofrio (commentando in una lettera
che quella esperienza era stata per lui "il primo e l'unico piacere che ho
provato in Roma"), considerava Torquato Tasso come un fratello spirituale,
ricordandolo in numerosi passi dei propri scritti (tra cui quello citato) e nel
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (una delle Operette
morali). Molta parte della poesia recanatese è impregnata di stile tassesco:
i notturni di alcuni canti, come La sera del dì di festa o Canto notturno di un
pastore errante dell'Asia, richiamano quelli della Gerusalemme, mentre nella
canzone Ad Angelo Mai Leopardi crea una forte empatia con il «misero Torquato,
spirito fraterno «concepito come un alter ego. I due nomi femminili più celebri
presenti nei Canti, Silvia e Nerina, furono ripresi dall'Aminta. In
generale, l'attenzione si spostò dai personaggi della Liberata al dramma
esistenziale vissuto dal suo autore. Ferretti scrisse le parole del Torquato
Tasso, melodramma in tre atti musicato da Gaetano Donizetti e rappresentato per
la prima volta al Teatro Valle. Il "mito" conquistò anche Franz
Liszt: era quando l'apostolo del Romanticismo metteva in musica l'opera
byroniana Il lamento del Tasso, dando vita al poema sinfonico Tasso. Lamento e
Trionfo. Il poeta vicentino ottocentesco Jacopo Cabianca ha dedicato al
Tasso un poema in dodici canti intitolato appunto Il Torquato Tasso. Nei
primi anni del ventesimo secolo il compositore catanese Pietro Moro si
concentrò sugli ultimi momenti di vita del poeta con Ultime ore di Torquato
Tasso, carme in un atto sulle parole di Giovanni Prati (riviste per l'occasione
da Rojobe Fogo). Torquato Tasso nel cinema Torquato Tasso, regia di Luigi
Maggi, Torquato Tasso, regia di Roberto Danesi. Adattamenti cinematografici de
La Gerusalemme liberata Il primo regista a girare un film sull'opera fu Enrico
Guazzoni. Ne farà due remake; Gerusalemme liberata, di Enrico Guazzoni;
La Gerusalemme liberata, di E. Guazzoni); La Gerusalemme liberata, di Carlo
Ludovico Bragaglia; I due crociati, parodia di Giuseppe Orlandini con Franco e
Ciccio. Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus, Laurea poetica nastrino
per uniforme ordinariaLaurea poetica (postuma) — Roma. Giovan Pietro
D'Alessandro, Vita di Torquato Tasso, ed. da C. Gigante, in «Giornale storico
della Letteratura Italiana», Giovan Battista Manso, Vita di Torquato Tasso, B.
Basile, Roma, Salerno Editrice, Pier Antonio Serassi, La vita di Torquato
Tasso, Bergamo, Stamp. Locatelli, 2 to. Solerti, Vita di C., Torino-Roma,
Loescher, Tonelli, C., Torino, Paravia, Giulio Natali, Torquato Tasso, Roma,
Tariffi, Capitoli di storie letterarie Ettore Bonora, in Storia della
letteratura italiana, dir. E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti, Marziano
Guglielminetti, in Storia della civiltà letteraria italiana, dir. G. Barberi
Squarotti, Torino, Pomba, Guido Baldassarri, in Storia generale della
letteratura italiana, N. Borsellino e W. Pedullà, V. L'età della Controriforma. Il tardo
Cinquecento, Milano, Motta,. Monografie: Francesco Falco, Dottrine filosofiche
di Torquato Tasso, Lucca, Serchio, 1895. Felice Vismara, L'animo di Torquato
Tasso rispecchiato ne' suoi scritti, Milano, Hoepli, Bianchini, Il pensiero
filosofico di Torquato Tasso, Verona, Drucker, A. Sainati, La lirica di
Torquato Tasso, Pisa, Nistri, E. Donadoni, C., Venezia, La Nuova Italia, Getto,
Interpretazione di C., Napoli, ESI, Mario Fubini, La poesia del Tasso, in Studi
sulla letteratura del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia, Walter Moretti,
Torquato Tasso, Roma-Bari, Laterza, Arnaldo Di Benedetto, Con e intorno a
Torquato Tasso, Napoli, Liguori, Franco Fortini, Dialoghi con T., Torino,
Bollati Boringhieri, «Nel mondo mutabile
e leggiero» Torquato Tasso e la cultura del suo tempo, Pasquale Sabbatino,
Dante Della Terza, Giuseppina Scognamiglio, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, Claudio Gigante, Tasso, Roma, Salerno, Aminta, Sozzi, in T. Tasso,
Opere, Torino, POMBA, Appendice alle opere in prosa, Solerti, Firenze,
Successori Le Monnier, Dialoghi, E. Raimondi, Firenze, Sansoni («Autori
classici e Documenti di lingua pubblicati dall'Accademia della Crusca»),
Discorsi dell'arte poetica e del poema eroico, L. Poma, Bari, Laterza («Scrittori
d'Italia»), Discorso della virtù feminile e donnesca, M.L. Doglio, Palermo,
Sellerio, Gerusalemme conquistata, L. Bonfigli, Bari, Laterza («Scrittori
d'Italia»), Gerusalemme conquistata. Ms. Vind. Lat. 72 della Biblioteca
Nazionale di Napoli, C. Gigante, Alessandria, Edizioni dell'Orso,. Gerusalemme
liberata, L. Caretti, Milano, Mondadori («I Meridiani»). Giudicio sovra la
‘Gerusalemme' riformata, C. Gigante, Roma, Salerno Editrice («Testi e documenti
di letteratura e di lingua», Il Gierusalemme, L. Caretti, Parma, Zara («Le
parole ritrovate»), Il Monte Oliveto, Lagomarzini, in «Studi tassiani», Il Re
Torrismondo, V. Martignoni, Parma-[Milano], Guanda-Fondazione Pietro Bembo
(«Biblioteca di scrittori italiani»),
Intrichi d'amore, E. Malato, Roma, Salerno Editrice («Testi e documenti
di letteratura e di lingua», I), Le Lettere di T. T. disposte per ordine di
tempo ed illustrate da C. Guasti, Firenze, Le Monnier, Le prose diverse, C.
Guasti, 2 voll., Firenze, Le Monnier, Le Rime, B. Basile, Roma, Salerno Editrice, Le Rime, edizione
critica su i manoscritti e le antiche stampe A. Solerti, Bologna,
Romagnoli-Dall'Acqua,Lettere poetiche, C. Molinari, Parma-[Milano],
Guanda-Fondazione Pietro Bembo («Biblioteca di scrittori italiani»), Mondo
creato, G. Petrocchi, Firenze, Le Monnier. Opere minori in versi, A. Solerti,
Bologna, Zanichelli, Prose, E. Mazzali, Milano-Napoli, Ricciardi, Rinaldo, L.
Bonfigli, Bari, Laterza («Scrittori d'Italia»), 1936. Risposta di Roma a
Plutarco, E. Russo, commento di E. Russo e C. Gigante, Torino, RES, Teatro, M.
Guglielminetti, Milano, Garzanti, Risposta di Roma a Plutarco e Marginalia,
Paola Volpe Cacciatore, Roma, ESL, Studi critici Sulla vita di Tasso e sulla
fortuna Arnaldo Di Benedetto, «La sua vita stessa è una poesia»: sul mito
romantico di Torquato Tasso, in Dal tramonto dei Lumi al Romanticismo.
Valutazioni, Modena, Mucchi, Doglio,
Origini e icone del mito di Torquato Tasso, Roma, Bulzoni, Anderson Magalhães,
«Uno scrittore di cose secrete»: la fortuna de Il Secretario di C. fra Italia e
Francia, in «Il Segretario è come un angelo». Trattati, raccolte epistolari,
vite paradigmatiche, ovvero come essere un buon segretario nel Rinascimento,
Atti del XIV Convegno Internazionale di Studio organizzato dal Gruppo di Studio
sul Cinquecento francese, Verona, Rosanna Gorris Camos, Fasano, Schena, Umberto
Lorenzetti, Cristina Belli Montanari, L'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di
Gerusalemme. Tradizione e rinnovamento all'alba del Terzo Millennio, Fano Sulle
Rime Arnaldo Di Benedetto, Fra petrarchismo e Barocco: le «Rime» di Torquato
Tasso, «A me versato il mio dolor sia tutto», Lo sguardo di Armida (Un'icona
della «Gerusalemme liberata»), Per un anonimo in meno: l'autore del dialogo «Il
Tasso», in Tra Rinascimento e Barocco. Dal petrarchismo a Torquato Tasso,
Firenze, Società Editrice Fiorentina, Massimo Colella, «Parmi ne’ sogni di
veder Diana». Emersioni seleniche nelle Rime di Torquato Tasso, in
«Griseldaonline», 1Sull'«Aminta» Mario Fubini, L'«Aminta»: intermezzo alla
tragedia della «Liberata», in Studi sulla letteratura del Rinascimento, Accorsi,
«Aminta»: ritorno a Saturno, Soveria Mannelli, Rubbettino, Arnaldo Di
Benedetto, Il sorriso dell'«Aminta», in «Giornale storico della letteratura
italiana», Arnaldo Di Benedetto, Tasso, Haller, Ungaretti, in «Studi tassiani»,
Sui Dialoghi A. Benedetto, Torquato Tasso, «Il padre di famiglia», in
L'«incipit» e la tradizione letteraria italiana. Dal Trecento al tardo
Cinquecento, Pasquale Guaragnella e Stefania De Toma, Lecce-Brescia, Pensa
MultiMedia, Chiarelli, «Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per
una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in
«Filologia e Critica», Angelo Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti
per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella
dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura
italiana», Raimondi Ezio, Il Problema
Filologico e Letterario dei Dialoghi di T. Tasso, in Rinascimento Inquieto,
Einaudi, Torino. Bozzola Sergio, «Questo quasi arringo del ragionare». La
Tecnica dei «Dialoghi» Tassiani, in «Italianistica, Rivista di Letteratura
Italiana», Baldassarri Guido, L’arte del dialogo in Torquato Tasso, in «Studi
Tassiani», Guido Armellini e Adriano
Colombo, Torquato TassoL'uomo, in Letteratura italianaGuida storica: Dal
Duecento al Cinquecento, Zanichelli Editore, Luperini, Cataldi, Marchiani, La
scrittura e l'interpretazione, Palumbo, L. Tonelli, C., Torino); Lettere di
Torquato Tasso (Firenze, Le Monnier); L. Tonelli, G. Natali, Torquato Tasso,
Roma, G. Natali, cA. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino. Altri pensano
invece che queste sperimentazioni risalgano al periodo patavino o addirittura a
quello bolognese. G. Natali, cit., Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e
l'interpretazione, Palumbo, G. Natali, cG. Natali, Tonelli, cit.68 G. Natali,
L. Tonelli, Durante, A. Martellotti, «Giovinetta Peregrina». La vera
storia di Laura Peperara e Torquato Tasso, Firenze, Olschki, W. Moretti, C., Roma-Bari Baldi, Giusso,
Razetti, Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Milano:
Paravia, L. Tonelli, cil rapporto
amoroso è stato ipotizzato in particolare da Angelo de Gubernatis in T. Tasso,
Roma, Tipografia popolare, L. Tonelli, c Lettere, cit., I22 L. Tonelli, cit.89 L. Tonelli, Lettere, cit., I49 Secondo Doglio la data non è casuale e si
inserirebbe nella tradizione petrarchesca. Petrarca avrebbe infatti visto per
l'unica volta Laura, cfr. Doglio, Origini e icone del mito di C., Roma Lettere,
c Lettere, Lettere, Si tratta di
un'epistola al Gonzaga; Lettere, cit.,
L. Tonelli S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario, Milano,
Principato, L. Tonelli, Lettere, Si
trattava comunque di uno stipendio oggettivamente basso, che a una persona
comune avrebbe garantito a stento la sopravvivenza; L. Tonelli, cit.172 Lettere, L. Chiappini, Gli Estensi, Milano,
Dall'Oglio, A. Solerti, cA. Solerti, cit., II,
120-121 A. Solerti, L. Tonelli,
cit. G. B. Manso, Vita del Tasso, in Opere del Tasso, Firenze, M. Vattasso, Di
un gruppo sconosciuto di preziosi codici tasseschi, Torino, M. Vattasso, cA.
Solerti, L. Tonelli, c M. L. Doglio, I. De Bernardi, F. Lanza, G. Barbero,
Letteratura Italiana, 2, SEI, Torino,
Lettere, cit., I298 Lettere, cit.,
I299 A. Solerti, ccosì scrive al
cardinale Luigi un suo informatore L. Tonelli, Lettere, Tonelli, Solerti, Lettere, Guasti, Napoli, Rondinella, A. Corradi, Delle infermità di Torquato
Tasso, Regio Instituto Lombardo, Tonelli, M. L. Doglio, cit., 41 e ss.
Opere di Torquato Tasso, Firenze, Tartini e Franchi, L. Tonelli,
cInfarinato era il nome accademico assunto dal Salviati Tra parentesi sono indicate le date di
pubblicazione L. Tonelli, Opere, cit.,
Tra parentesi si indicano due date, quella di composizione e quella di
pubblicazione Lettere. La prima versione di quelli che saranno Gli
intrichi d'amore non ci è pervenuta L.
Tonelli, L. Tonelli, Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, Non fu più tenero
il Solerti; L. Chiappini, c L. Tonelli, cit.188
L.Tonelli, Solerti, cLettere, L.
Tonelli, cit., 266-267 Lettere, c L. Tonelli, Mazzoni, Del Monte
Oliveto e del Mondo creato di C., in Opere minori in versi di Torquato Tasso,
Bologna, Zanichelli, E. Donadoni, C.,
Firenze, Battistelli, G. B. Manso, Vita
di T. Tasso, in Opere di C., Firenze; Lettere, Così al Costantini;
Lettere, Lettere, L. Tonelli, Passo riportato in A. Solerti, A.
Solerti, L. Tonelli, Lettere, Lettere, cit.,Lettere, cit., Lettere, A niuno
sono più obligato che a Vostra Eccellenza, ed a niuno vorrei essere
maggiormente; perché è cosa da animo grato l'esser capace de le grazie e de gli
oblighi. Laonde non ho voluto più lungamente ricusare il secondo suo dono
di cento scudi, bench'io non abbia mostrato ancora alcuna gratitudine del
primo; ma la conservo ne l'animo, e ne le scritture: e ne l'uno sarà forse
eterna, e ne l'altre durerà tanto, quanto la memoria de le mie fatiche. Niuno
de' presenti o de' posteri saprà chi mi sia, che non sappia insieme quant'io
sia debitore a la cortesia di Vostra Eccellenza, ed a la sua liberalità; con la
quale supera tutti coloro che possono superar la fortuna." Così scrive il
Tasso al marchese Giovanni Ventimiglia da Firenze. Soltanto C. dedica al
marchese due composizioni encomiastiche, non portando però a compimento il
promessogli poema Tancredi normando.
Lettera a Scipione Gonzaga, Lettere. E. Rossi, Il Tasso in Campidoglio,
in Cultura, Lettere, cit., V6 L.
Tonelli, cit.278 Lettere, cit., V62 L. Tonelli, Cipolla, Le fonti storiche della
«Genealogia di Casa Gonzaga», in Opere minori in versi di Torquato Tasso,
cit., I
L. Tonelli, G. B. Manso, L.Tonelli, L. Tonelli, E. Rossi, c A. Solerti,
Lettere, cit., Lettere, cLettera ad Antonio Costantini, in Lettere, Lettera di
Maurizio Cataneo a Ercole Tasso; A. Solerti, cit., II363 Lettera di monsignor Quarenghi a Giovan
Battista Strozzi, A. Solerti, cAlmanach du gotha, de J.-H. de Randeck, Les plus
anciennes familles du monde: répertoire encyclopédique des 1.400 plus anciennes
familles du monde, encore existantes, originaires d'Europe, de Karl Hopf, Historisch-genealogischer
Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de A. M. H. J. Stokvis, Manuel
d'histoire: Les états de Europe et leurs colonies, de Pierantonio Serassi, La
vita de Torquato Tasso8. de Niccolò Morelli
di Gregorio, Della vita di Torquato Tasso, de Pierantonio Serassi, La vita di
Torquato Tasso10. (DE) de Karl Hopf,
Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de
Heinrich Léo Dochez, Histoire d'Italie pendant le Moyen-âge C., Discorsi
dell'arte poetica, I, 12 in Le prose diverse di Torquato Tasso (C. Guasti),
Firenze, Monnier, Discorsi dell'arte poetica, cit., I, 15 A. Solerti, F. D'Ovidio, Saggi critici,
Napoli, Morano, U. Renda, Il Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica
nel Cinquecento, Teramo, E. Donadoni, G. Carducci, Il Torrismondo, testo
premesso all'ed. Solerti delle Opere minori in versi di Torquato Tasso, L.
Tonelli, C., Risposta di Roma a Plutarco, Res, Risposta di Roma a Plutarco e
marginalia | Edizioni di Storia e Letteratura, su storiaeletteratura. Angelo
Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di
aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa
tassiana, in «La Rassegna della letteratura italiana». Questa concordia è
sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo
de la clemenza» di Tasso, in «Filologia e Critica», Sul muro esterno della
Chiesa di S. Onofrio, a Roma, una tavola con iscrizione tedesca ricorda il
soggiorno di Goethe e l'ispirazione che lo portò a scrivere il dramma, dopo
aver veduto la tomba del poeta custodita all'interno dell'edificio sacro Ad Angelo Mai, v. 124 Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo alla
storia dalla storia al testo, Milano, Paravia, Failla, Ante Musicam Musica. C.
nell'Ottocento musicale italiano, Acireale-Roma, Bonanno, Emersioni seleniche
nelle Rime di C. Colella | Griselda Online, su griseldaonline. 2Torquato Tasso,
commedia goldoniana Tasso, dramma di Goethe, Torquato Tasso, opera di Gaetano
Donizetti Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, dalle Operette
morali di Giacomo Leopardi Thurn und Taxis, ramo austriaco della famiglia Tasso
di Bergamo, fondatori delle prime poste europee Museo tassiano, museo dedicato
a Torquato Tasso Accademia dei Catenati Cella del Tasso, attuale ubicazione a
Ferrara. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Torquato Tasso, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Torquato Tasso, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. To Tasso, su BeWeb, Conferenza Episcopale
Italiana. Opere di Torquato Tasso, su
Liber Liber. Opere di C., su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Torquato Tasso,. Opere Progetto Gutenberg.
Libri Vox. C., in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Spartiti o
libretti di Torquato Tasso, su International Music Score Library Project,
Project Petrucci Tasso, su Internet Movie Database, IMDb.com. Torquato Tasso Testi completi e cronologia
delle opere. Opere integrali in più volumi dalla collana digitalizzata
"Scrittori d'Italia" Laterza Opere di C., testi con concordanze,
lista delle parole e lista di frequenza Due segregazioni: il Cantico spirituale
di Giovanni della Croce e Il Re Torrismondo di C., su midesa). Opere di C.
colle controversie sulla Gerusalemme poste in migliore ordine, ricorrette
sull'edizione fiorentina, ed. illustrate dal professore Gio. Rosini, Pisa,
presso Niccolò Capurro, Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di
tempo e illustrate da Cesare Giusti, 5 voll., Firenze, Felice Le Monnier, I
dialoghi, Cesare Guasti, Firenze, Felice Le Monnier, Le rime di Torquato Tasso.
Edizione critica su i manoscritti e le antiche stampe Angelo Solerti, Bologna,
presso Romagnoli-Dall'Acqua, Opere di C.. DELL'ARTE DEL DIALOGO. Voi mi
pregate, pad* molto reverendo, nelle vostre lettere, eh' io voglia darvi alcuno
ammaestramento: e i chiedete, se non m'inganno, dello scrivere i
dialoghi, perchè son quelle medesime nelle quali m'avvisate d' aver ricevuti
quelli della poesia toscana e della pace. E se propriamente ragionale, io
non posso compiacervi, perchè tanto a me disdioevol sarebbe la persona di
maestro, quanto a voi quella di scolare: né rifiutandola io temo di poterne
esser biasimato, come Giotto, perch'agli ricusò convenevole onore: io non
accetto ufficio non conveniente. Bla se volete onorarmi con questo nome, e
ammaestramento chiamate l' opinione» io la scriverò; perchè niuna cosa
debbo tenervi celata, la qual possa giovar agli altri, oppure a me stesso'; ed
allora stimerò buone le mie ragioni» che dal vostro giudicjo saran
confermate. E se -delle regola avviene quel che delie leggi : siccome
altre leggi hanno i Genovesi diverse da quelle oV Veneziani o de/
Ragusei, oasi potrebbero avere altri precetti nell'artificio del bene scrivere»
Ma io non gli voglio dar questo nome, nò voi gliele scrivete in fronte ;
perciocché io l'ho raccolte in un'operetta assai breve per assomigliar
alcuni dottori cortigiani, i quali' non potendo sostener persona così
grave, vestono di corto. E a' in questo abito potranno sensa fastidio
esser lette dagli amid ' e da parenti, non v' incresca di
leggere.Nell'imitazione o s'imitano l' azioni degli uomini o i
ragionamenti: e quantunque poche operazioni si facciano alla mutola, e
pochi discorsi senza operazione, almeno dell' intelletto, nondimeno assai
diverse giudico quelle da questi : e degli speculativi è proprio il discorrere,
siccome degli attivi l'operare. Due sàran dunque i primi generi
dell'imitazione: l'un dell'azione, nel quale son rassomigliati gli
operanti: l' altro delle parole, nel quale sono introdotti i ragionanti.
E. 1 primo genere si divide in altri, che sono la tragedia e la commedia,
ciascuna delle quali patisce alcune divisioni: e '1 secondo si può
divider parimente. Ed Aristide un de' più famosi Greci, i quali scrissero e
non parlarono, così parve che gli dividesse, dicendo che Platone avea
comicamente rappresentato Ippia, Prodico, Protagora, Gorgia, Eutedemo,
Bonisidoro, Agatone, Cinesia e gli altri: e ch'egli medesimo chiama le
sue leggi tragedia, e si confessa ottimo tragico. Ma tra' moderni v*è chi
gli divide altramente, facendone tre specie: l'una delle quali può
montare in palco, e si può nominare rappresentativa, perciocché in essa
vi siano persone introdotte a ragionare cioè in alto, com' è usanza
di farsi nelle commedie e nelle tragedie: e simil maniera è tenuta
da Platone nei suoi Ragionamenti, e da Luciano ne' suoi; ma un'altra
ce n' è, che non può montare in palco, perciocché conservando1' autore
la" sua persona, come isterico narra quel che disse il tale e '1
cotale: e questi due ragionamenti si possono domandare istorici o
narrativi, e tali sono per- lo più quelli di Cicerone. E c'è ancora la
terza maniera ed è di quelli, che son mescolati della prima e della
seconda maniera, conservando l'autore la sua prima persona, e narrando
come istorio): e poi introducendo a favellar tyafiarix&s come s'usa
<fi far nelle tragedie e nelle commedie: e può e non montare in palco, cioè
non può montarvi, in quanto l' autore conserva la sua persona ed è come
1* istorico: e può montarvi in quanto s'introducono le persone
rappresentativamente a favellare: e Cicerone fece alcuni ragionamenti sì fatti.
E quantunque questa- divisione sia tolta dagli antichi e paia diversa
dall' altra, nondimeno l'intenzione forse è l'istessa; perchè la tragedia
si divide in quella che si dice tragedia propriamente, e nell'altra
nella qual parla il poeta: e tragedia sì fatta compose Omero. E questa
divistone perchè è fatta in due membri, è più perfetta; nondimeno i àiaIoghi
sono stati detti tragici e comici per similitudine, perchè le tragedie e le
commedie propriamente sono l'imitazione dell'azione; però tragici si
posson chiamar sopra tutti gli altri il Critone e 1 Fedone: Dell' un de'
quali Socrate condannato alla morte, ricusa di fuggirsene con gli amici:
nell'altro dopo lunga deputazione dell' immortalità dell'anima bee il veleno. E
comico è il convito nel quale Aristofane è impedito dal rutto nel
favellare; ed Alcibiade ubriaco si mescola fra i convitati. Ma il
Menesseno par misto di queste due specie: perciocché Socrate battuto
dalla maestra Aspasia è persona comica; ma lodando i morti ateniesi
innalza il dialogo all' altezza della tragedia. Pur questi medesimi
dialoghi non son vere tragedie, ovvero commedie; perchè nell' une e nelT
altre le quistioai e i ragionamenti son descritti per l'azione; ma ne'
dialoghi l'azione è quasi giunta de' ragionamenti : e 8' altri la rimovesse,
il dialogo non perderebbe la sua l'orma. Dunque in lui queste differenze
sono accidentali piuttosto che • altramente ; ma le proprie si terranno
dal ragionamento jslesso e da' problemi in lui contenuti, cioè dalle cose
ragionate, non sol dal modo di ragionare. Per eh' i ragionamenti sono o
di cose che appartengono alla contemplazione, oppur di quelle che son
convenevoli all' azione e negli uni sono i problemi intenti all' elezione
e alla fuga, negli altri quelli che riguardano la scienza, e là verità; laonde
alcuni dialoghi debbono esser detti civili e costumati,, altri
speculativi. E '1 soggetto degli uni e degli altri; o sarà la quistione
infinita, come se la virtù si possa insegnare; o la finita che debba far
Socrate condannato alla morte. E perciocché gran parte de' platonici
dialoghi sono speculativi e quasi in tutti la quistione è infinita, non
pare che lor si convenga la scena in modo alcuno, né meno agli altri che
son de' costumi, perchè son pieni d' altissime speculazioni. Anzi piuttosto non
si conviene ad alcun dialogo, se non forse per rispetto dell'elocuzione,
la quale alcuna volta pare istrionica, siccome disse il Falereo, awengachè
nella scena si rappresenti l'azione o atto dal quale son denominate le
favole e le rappresentazioni dramma-* tiche. Ma nel dialogo
principalmente s' imita il ^ragionamento il qual non ha bisogno di palco:
e quantunque vi fosse recitato qualche dialogo di Platone, l'usanza fu
ritrovata dopo lui senza necessità. Perchè se in alcuni luoghi
l'elocuzione pare accomodata all'istrione, come nell'Eridemo, può leggersi
dallo scrittore medesimo, ed aiutarsi colla pronuncia. Né egli conviene
ancora il verso, come hanno detto, mala prosa ; perciocché la prosa è
parlar conveniente allo speculativo e all' uomo civile, il qual ragioni degli
uffici e delle virtù. E i sillogismi, e l'induzioni, e gli entimemi e gli
esempi non potrebbono esser convenevolmente fatti in versi. E se leggiamo
alcun dialogo in versi, come è l'amicizia bandita di Ciro predentissimo,
non stimeremo lodevole per questa cagione, ma per al* tra: e diremo, che
il dialogo- sia imitazione di ragionamento scritto in prosa senza
rappresentazione per giovamento degli uomini civili e speculativi : e ne
porremo due specie, 1' una contemplativa, e Y altra costumata : e 1 soggetto
nella prima specie sarà la quistione infinita o la finita : e quale è la
invola nel poema, tale è nel dialogo la quistione : e dico la sua forma, e
quasi Y anima. Però se una è la favola, uno dovrebbe essere il soggetto,
del quale si propongono i problemi. E nel dialogo sono oltre di ciò T
altre parti, cioè la sentenza^ e '1 costume,* e Y elocuzione ; ma
trattiamo prima della prima. Dico adunque, che la quistione si forma
della dimanda e della risposta; e perchè 1 dimandare s'appartiene
particolarmente al dialettico, par, che lo scrivere il dialogo sia
impresa di lui : ma '1 dialettico non dee richieder più cose d' uno, oppur una
cosa di molti ; perchè se altri rispondesse non sarebbe una V affermitene
o la negazione: e non chiamo una cosa quella, ch'ha un nome solo se non
si fa una cosa di quelle: come l'uomo è animai con dne piedi e mansueto :
ma di tutte questo si fa una sola cosa ; ma dell' esser bianco e dell'essere
uomo e del camminare, come dice Aristotile, non se ne fa uno; però s' alcuno
affermasse qualche cosa, non sarebbe, una affermazione ; ma una voce, e
molte l' affermazioni. Se dunque l'interrogazione dialettica ò una dimanda
della risposta, ovvero della proposizione, ovvero dell'altra parto della
contradizione: e la proposizione è una parte della contradizione, a queste cose
non sarà una risposta, né una dimanda. Ma se al dimostrativo non s'
appartiene il dimandare, a lui non converrà di scriver dialogo. E par, che
Aristotile assai chiaramente faccia questa differenza nel primo delle
prime risoluzioni fra la proposizkm dimostrativa e la dialettica,
dicendo, che la dimostrativa prende l'altra parte della contradizione;
perciocché 'colui, il qual dimostra, non dimanda, ma piglia ; ma la
dialettica è dimanda della contradlzione. Nondimeno nel primo delle
posteriori egli dice, che s' è il medesimo l' interrogazione sillogistica e la
proposizione : e le proposizioni si fanno in ciascuna scienza, ancora si posson
fare le dimando. Laonde io raccolgo, che si posson fare i dialoghi
nell'aritmetica, nella geometria, nella musica e nell' astronomia e nella
morale e nella naturale e netta divina filosofia, e in tutte F arti e in
tutte le scienze si posson fu le richieste e conseguentemente i dialoghi.
E se oggi fossero in looe dell'arte del dialogo i dialoghi scritti da
Aristotile, non ce ne sarebbe perawentura dubbio alcuno. Ma leggendo quei
di Platone, i quali son pieni di proposizioni appartenenti a tutte le scienze,
potremo chiaramente conoscere lMstcsso. Nondimeno siccome il dimandare è
proprio al dialettico, così a lui si conviene il dialogo più; che a tutti
gl’altri. Laonde Aristotele nel capitolo seguente pare, che faccia
differenza fra le matematiche e ì dialoghi, dicendo, che se fosse impossibile
mostrar dal falso il vero, sarebbe
facile il risolvere, perchè, si convertirebbono di necessità. Ma si
convertono più quelle, che son nelle matematiche, perchè non ricevono alcuno
accidente, e in ciò son differenti da quelle, che son ne’ dialoghi. E dialoghi
chiama i parlari dialettici, i quali son composti della dimanda e della
risposta. Al dialetttico dunque converrà principalmente di scrivere il dialogo,
o a colui, che vuol rassomigliarsi. E'1 dialogo sarà imitazione d' una disputa
dialettica. Va perchè quattro sono i generi delle dispute, il dottrinale,
il dialettico, il tentativo e il contenzioso, l'altre dispute ancora si
possono imitare ne' dialoghi. E forse in quelli d'Aristotele sono tutte IV.
Ma in quelli di Platone si troverebbono similmente, perchè Socrate per via d'
ammaestramento e d'esortazione parla con Alcibiade, con Fedro e con
Fedone, e come dialettico disputa con Zenone, e con Parmenide;. e come
tale riprova Ippia, GORGIA, Trasimaco e gli altri sofisti e talora gli
tenta. Ma i sofisti son contenutosi, e vaghi di gloria, come appare nell'
Eutiemo, detto altramente il Litigioso. Nondimeno questi IV generi non
sono così partitamente distinti dagl’interpreti di Platone i quali
pongono tre mdftUre di dialoghi; l'una, nella quale Socrate esorta i
giovanetti; nell’altra riprova i sofisti; la terza è mescolata dell' una
e dell' altra, la qual senza dubbio è più soave per la mescolanza.
Ma chi volesse scriver dialoghi secondo la dottrina ó? Aristotele e
arricchir di questo ornamento le scuole peripatetiche, potrebbe scriverli
in tutte IV le maniere. Ma principalmente son lodevoli le due prime: la
dottrinale e la dialettica, l'artificio della quale consiste
principalmente nella dimanda usata con mollo artificio di Socrate ne’ libri
di Platone, come appare nel primo dialogo nel quale Socrate richiede ad
Ipparco quel, che sia la cupidigia del guadagno; e in tutti gli altri
simiglianlt, non eccettuando quelli, ne’ quali sotto la persona di forestiero
ateniese dà le nuove leggi d’una città: e 'n quelli di Senofonte ancora
con arte molto simile Socrate chiede a Critobulo se l'economia è
nome di scienza, come la medicina e l'architettura. E nel Tirreno
Simonide a Jerone, che differenza aia fra la vita reale e la privata: e
dalla risposta, eh' è fatta, prendono occasione d'insegnare. Ma da questo
artificio si dipartì M. Tullio, Il quale nelle partizioni oratorie pone
la dimanda in bocca, non di quel, eh' insegna, ma di colui, ch'impara.
Ed. egli medesimo ci dimostra la diversità fra i ROMANI in quelle parole
di CICERONE: figlinolo, tuo) dunque eh' io ti dimandi scambievolmente IN
LINGUA LATINA di quelle cose medesime, delle quali tu mi suoli
addomandare nella Greca ordinatamente? Laonde pare, che la dimanda, fatta dal
discepolo, 6ia derivata da CICERONE, e l' artificio sia proprio de’ROMANI,
il quale s’usò dal Possevino e da altri nella dottrina peripatetica,
perchè forse è più facile. Ma è non così lodevole, né fu, eh' io mi
ricordi, usata dagl’antichi. E per questa ragione M. Tullio nelle
Quistioni Tuscalane più s' avvicina all' arte de’ Greci ; perciocch' egli
comandava, che alcun de' suoi famigliari ponesse quello, che gli pareva,
ed egli contraddiceva alla conclusione in questo modo. Auditore. La
morte mi pare esser male. M. A quelli che son morti o a quelli eh' han
da morire P La quale è vecchia e Socratica ragione di disputar contra
l' altrui opinione. Tuttavolta il por la conclusione ha dello scolastico: e
però dice d'aver poste ne' V libri le scuole de' V giorni. Tanto potè l' amor
della filosofia in un vecchio senator romano, padre della patria, il qual
quistiona secondo il costume de' Greci forse per ingannar se stesso in
questo modo e consolarsi nella servitù. Ma non si dimenticò ne’ libri dell'
oratore di quel, eh' era convenevole a' romani Senatori; laonde CRASSO e MARC’ANTONIO
in altra maniera introduce a favellare. Ma fra tutti i dialoghi Greci,
lodevorrssimi sono que' di Platone; perciocché superano gl’altri d'arte,
di SOTTILITÀ, d'acume, e d'eleganza e di varietà di concetti e
d'ornamento di parole. E pel secando luogo son quei di Senofonte; e quei di LUCIANO
nel terso. Ma CICERONE è primo fra' LATINI, il quale volle forse
assomigliarsi a Platone: nondimeno nelle quistioni, e nelle dispute alcuna
volta è più simile agli oratori, che a' dialettici. Ma nel secondo luogo non so
che se gli avvicini, o chi possa paragonare a' Greci. E NELLA NOSTRA LINGUA coloro,
che hanno scritto dialoghi, per la maggior parte hanno seguita la maniera
meno artificiosa, nella quale dimanda quegli, che vuole imparare, non quel, che
riprova. E se alcuno s'è dipartito da questo modo di scrivere, merita
lode maggiore: e tanto basti della prima parie, che è la quistione. Ma
perchè il dialogo è imitazione del ragionamento, e il dialogo dialettico
imitazione della disputa, è necessario, che i ragionanti e i disputanti abbiano
qualche opinione delle cose disputate, e qualche costume, il qual si
manifesta alcuna volta nel disputare. Da quelli derivano l'altre due
parti nel dialogo, io dico la sentenza, e il costume: e lo scrittore del
dialogo deve imitarlo non altramente, che faccia il poeta ; perchè egli è
quasi mezzo fra il poeta e ri dialettico. E niun meglio l'imita, e
meglio l'espresse di Platone, che, descrive nella persona di Socrate il
costume d'un uomo dabbene, che ammaestra la gioventù, e risveglia gli
ingegni taidl e raffrena i precipitosi, e richiama gli erranti, e riprova
la falsità de' sofisti, e confonde l'insolenza e la vanità, amator del
giusto e del vero, magnanimo, non che. mansueto nel tollerar l'ingiurie,
intrepido nella guerra, costante nella morte. Ma in quella d'Ippia, e di GORGIA
DI LEONZIO, e d'Eutidemo, e degl’altri sì fatti si descrivono gl’avari, e
ambiziosi, e amatori di gloria, i quali non hanno vera scienza d'alcuna
cosa, ma parlano per opinione. In quella di Menoue e di Grifone descrive
il buon padre e il buon amico, e in quella d'Alcibiade, di Fedro, e di Carmide
i costumi de' nobili son descritti maravigliosamente. Oltra queste parti del
dialogo ci sono le digressioni, come nel poema gli episodj : e tale è quella d'
Eaco, e di Minos, e di Radamanto nel GORGIA, e quella di Teutdemone degl’Egizi
nel Fedro, d'Ero Panfilio ne' dialoghi della Repubblica. Ma perchè abbastanza
s'è ragionato del soggetto del dialogo, e della sentenza, e de' costumi
di coloro, che sono introdotti a favellare; resta, che parliamo
dell'ultima parte, la quale è l'elocuzione: e se crediamo ad Artemone,
che ricopiò l'epistole d'Aristotele, bisogna scriver col medesimo stilo
il dialogo e l'epìstola, perchè il dialogo è quasi una sua parte. Ma
Demetrio Falereo dice, che il dialogo è imitazione del ragionare
all'improvviso. Ma l'epistola si scrive, e si manda in dono in qualche
modo. Però dee esser fatta e polita con maggiore studio. Tultavolta nò
Platone, ne M. Tullio pare, che sempre avessero questa considerazione. Perchè
ne' dialoghi l'elocuzione dell'uno e dell'altro non è meno ornata, che quella
dell'epistole: e in tutti gli altr’ornamenti i dialoghi paiono superiori. E ciò
non par fatto senza molta ragione. Conciossiacosaché i dialoghi di
Platone e di M. Tullio sono imitazione de' migliori, e nell'imitazioni sì
fatte, le persone e le cose imitate debbono piuttosto accrescere che diminuire,
come ci insegna Demetrio medesimo, il qual vuole, che la magnificenza sia nelle
cose, se il parlare è del cielo o della terra. Oltre di ciò laddov/egli
parla od periodo ne fa tre generi : il primo isterico, il secondo
dialogico» il teno oratorio: e vuole, che ristorico sia nel meno dell'uno
e dell'altro, non molto ritondo, né molto rimesso: ma la forma
dell'oratorio sia contorta e circolare: e quella del dialogico più
semplice dell'istoria) in guisa che appena dimostri d' esser periodo. I
quali ammaestramenti sono stati meglio osservati da' Greci, che, da M.
Tullio, che imitò Platone solamente; perchè egli così nel periodo, come in
tiascun'-altra parte, ricercò la grandezza più dr Senofonte e degli
altri. Laonde usa le metafore pericolosamente in luogo delle Immagini,
che sono osate da Senofonte: e somiglia colui, 11 quale cammina in luogo,
dove è pericolo di Bdrucciolare, compiacendo a se medesimo, e avendo molto
ardire, siccome è proprio delle nature sublimi ; talché fu detto di lai,
ch'egli molto s'innalzava sovra il parlar pedestre: e che il suo parlare non
era in tutto, simile al verso, né in tutto simile alla prosa : e ch'egli
usava l'ingegno non altramente, che i re facciano la podestà: e insomma
niun ornamento di parole, niun color rettorico, ninn lume d'orazione par,
che sia rifiutato da Platone. Ma s’in alcuna parte del dialogo dobbiamo
aver risguardo agli avvertimenti di Demetrio, è in quella, nella qual si
disputa, perchè in lei si conviene la purità, e la simplicità
dell'elocuzione, e '1 soverchio ornamento par che impedisca gli
argomenti, e che rintuzzi, per così dire, l'acume, e la sottilità. Ma l'
altre parti debbono essere ornate con maggior diligenza : e dovendo lo
scrittore del dialogo assomigliare i poeti nell'espressione, e nel per le
cose innanzi agli occhi, Platone meglio di ciascuno ce le fa quasi
vedere, il qual nel Protagora parlando d'Ippocrate, che s' era arrossito,
essendo ancora di notte, soggiunge: Già appariva la luce, onde il color
pareva esser veduto e la chiarezza, die evidenza è chiamata dai Latini, nasce
dalla cura usata nel parlare, essersi ricordato, che Ippo- crate era da
lui veduto di notte. E nel medesimo dialogo leggiamo con maraviglioso
diletto, che l'eunuco portinaio, perchè i sofisti gli erano venuti a
noia, serra con ambe le mani la porta a Socrate e al com- pagno : e
appena l' apre, udendo, che non erano di loro. E ci piace il passeggiar
di Protagora e degli altri, che passeggiando con tanto or- dine ascoltavano
il ragionare : e ci par vedere lppia seder nel trono, e Prodico giacere
avviluppato. E con piacer incredibile leggiamo simil- mente che due
giovanetti appoggiati sovra il gomito descrivessero ccr-3!i, e altre
inclinazioni della sfera : e che Socrate pur col gomito, di- mandasse, di
chi ragionavano. Né con minor espressione ci pone in- nanzi agli occhi
Garmide e gli amici : e quasi veggiamo gli estremi, che sedevano da
questa parte e da quella, l'uno cadere e l'altro es- ser costretto a
levarsi. Ma sopra tutte le cose c'empie di compassione e di maraviglia il
venir di Garmide alla prigione innanzi al giorno, e l'aspettar, che si
destasse Socrate, condannato alla morte: e poi, che il medesimo raccolga
la gamba, la quale era stata legata, e grattandosi discorra del dolore e del
piacere, l'estremità de' quali son con- giunte insieme : e distendendosi,
e postosi a sedere sovra la lettiera dia principio a maggiore e più alta
contemplazione. E nel medesimo dialogo tempera il dolore, quando scherza
colle belle chiome di Fedone, le quali dovevano il giorno tagliarsi : e
nella descrizione parimente è maravi- glioso. E se leggiamo i
ragionamenti di Socrate sotto il platano, e quelli del forestiero
ateniese all'ombra degli alberi frondosi, mentre col La- cedemonio e col
Gandiano vanno all'antro di Giove, ci par di vedere, e ascoltare quello,
che leggiamo. Queste son le perfezioni di Platone, veramente
maravigliose: le quali, sebben saranno considerate, non ci rimarrà dubbio
alcuno, che lo scrittore del dialogo non sia imitatore, o quasi mezzo fra
il poeta e il dialettico. Àbbiam dunque, che IL DIALOGO sia imitazione di
ragionamento, fatto in prosa per giovamento de- gli uomini civili e
speculativi, per la qual cagione egli non ha bisogno di scena o di palco
: e che due sian le specie, l' una nel soggetto della quale sono i
problemi, che risguardano l'elezione e la fuga: l'altra speculativa, la
qual prende per subietto quistione, jche appartiene alla verità e alla
scienza; e nell'una e nell'altra non imita splamente la disputa, ma il
costume di coloro, che disputano, con elocuzioni in alcune parti piene di
ornamento, in altre di purità, come par, che si convenga alla materia. Tasso.
Tasso. Cornello. Keywords: l’arte del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Tasso”, “Grice e Cornello” – The Swimming-Pool Library. Cornello.
Luigi Speranza -- Grice e Cornificio: la ragoone conversazionae e la vera etimologia
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Autore di un’opera
etimologica in tre libri, composta fra il tempo di Cicerone e Ottaviano. Das Werk des C. Longus de
etymis deorum. a) Prise. GLK, C. in 1 de etymis deorum. Macr. C. etymorum libro
tertio. Cornificius in etymis: vgl. noch wo Anschlufs an die stoische
Philosophie (vgl. W. A. Baehrens, Hermes; K. Reinhardt, Kosmos und Sympathie,
München); Arnob., Festus, M. bemerkt bezüglich der Etymologie von Minerva: C. vero,
quod fingatur pingaturque minitans armis, eandem dictam putat. (nare);
(nuptiae); (oscillare); (Rediculus; s. Ed. Meyer, Herm. (lalassus). Der bloße Name Cornificius ohne
Glosse erscheint. Das diese Glossen aus dem Werk „de etymis deorum"
geflossen sind, vermuten R. Merkel. Ovids Fasten, Berlin.; Th.
Bergk, Kl. phil. Schr. Willers, De Verrio Flacco glossarum interprete disput.
crit., Halle. C. hat dann auch andere als Götteretymologien behandelt,
vermutlich wenn er von Kultusgebräuchen und Kultus-einrichtungen sprach.
Wahrscheinlich dürfen wir den gleichen Schriftsteller finden auch in dem C.
Longus bei Serv. Aen., wo es sich ebenfalls um Etymologien handelt: invenitur
tamen apud C. Longum lapydem et Icadium profectos a Creta in diversas regiones
venisse, lapydem ad Italiam, Icadium vero duce delphino ad montem Parnasum et a
duce Delphos cognominasse et in memoriam gentis, ex qua profectus erat,
subiacentes campos Crisaeos vel Cretaeos appellasse et aras constituisse. Dieser kann dann aber nicht identisch sein mit dem Dichter und Feldherrn
C. (Bergk.), der nie den Beinamen Longus
trug, den außerdem die Zeitverhältnisse unmöglich machen. Denn der Verfasser
der etymo'ogischen Schrift zitiert nach Macr.das Werk Ciceros de natura deorum,
das im J. 44 erschien, so das sie in den folgenden drei Jahren von dem stark
beschäftigten Statthalter Afrikas hätte geschrieben sein müssen. Benutzt hat
dann Verrius die Abhandlung 'de etymis deorum'. — J. Becker, C.Longus und C.
Gallus, Ztschr. für die Altertumsw. Wissowa, Realenz.; Funaioli 473. A stoic
wrote a book on etymology. Cornificio
Lungo. Cornificio.
Luigi
Speranza -- Grice e Cornuto: la ragione conversazionale a Roma antica -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). A slave in
Rome, he became one of the city’s leading intellectuals. A member of the porch.
The name Anneo points to a connection of some kind with the family of Seneca. He
taught rhetoric and philosophy, his pupils including Agathino, Petronio
Aristocrate, Lucano, and Persio. In his will, Persio left C. his books, which
he accepted, and his money, which he rejected. He was sent into exile by
Nerone. He wrote an influential commentary on Aristotle’s Categories. He argues
that the categories reflect divisions within language, rather than within
reality. In a different essay, the Epidrome, he surveys the myths and by means
of linguistic analysis and allegorical interpretation he seeks to extract what
he considers to be their true meaning. Lucio Anneo Cornuto Cornuto.
Cornuto.
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