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Tuesday, February 25, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z T TRA

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trabalza: grammatica razionale ed implicatura conversazionale – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Russell always made fun of our stone-age metaphysics. Physics, strictly. Ad there’s nothing funny about it, if we think of SYNTACTIC CATEGORIES as reflecting ONTOLOGICAL CATEGORIES – something that goes beyond Baron Russell’s mathematically-washed brain!” CIRO T. STORIA DELLA GRAMMATICA ITALIANA, Hoepli, EDITORE E LIBRAIO DELLA REAL CASA, IllM, MILANO. SEEf PF;icrWICES Imwmkm Milano, Allegretti, Via Orti. A CROCE. L'idea del saggio,  affacciatalisi alla mente di T. or sono parecchi anni nella conoscenza che fa degli studi grammaticali di SANCTIS (si veda), si rafferma quando appare l’estetica di CROCE (si veda), che, avvalorandomela,  l’offre insieme un criterio direttivo per metterla in atto. E ora puo ben dichiarare che, se un vasto materiale, tenuto sin qui in poco o  nessun conto o male utilizzato pella storia della filosofia, puo acquistare un prezzo e servire a una costruzione, ciò è  stato  principalmente  in virtù  di quell'organico SISTEMA FILOSOFICO, della cui verità e fecondità  esso vuole essere a sua volta  una conferma. Per tale stretta dipendenza, oltre che per omaggio di riverente e affettuosa gratitudine, il saggio di T. porta in fronte il nome illustre e caro di CROCE (si veda). Il principio idealistico, propugnato con tanta lucidità e originalità da CROCE (si veda)  nell'ESTETICA – nel senso medievale di SENSIBILIA, cioe, psicologia RAZIONALE -- e nella logica, guadagna moltissimi  filosofi e suscita un salutare e assai palese rinnovamento negli  studi  filosofici, così che le pagine di T. hanno la fortuna di trovare dinanzi a sé un terreno in gran parte sgombro di vecchi pregiudizi teorici sull’arte, sulla letteratura e sulla LINGUA ITALIANA; ma, avutoriguardo al vario e largo pubblico cui si rivolgono, non sognano neppure di passare senza discussioni. Qui l'estetica generale non soltanto è applicata in tutto il suo rigore allo studio dello svolgimento della GRAMMATICA (strettamente, letteratura), all'interpretazione cioè d'un movimento filosofico che,  alimentandosi e insieme ponendosi al servizio della creazione artistica, si volge con isforzi più o meno consci verso la vita della scienza. Ma, per mezzo appunto e in aiuto di codesta interpretazione, è portata necessariamente a sperimentarsi e farsi valere nella critica di tanti concetti e teoriche e problemi particolari della LINGUA ITALIANA, stilistica e storia, che i motivi e l’occasioni del dissenso da parte di chi non l'abbia familiare, saranno  frequenti  quanto  inevitabili. Ma il dissenso è tutt'altro che temibile: è da sperare, invece, che qualcuno ne sia spinto a rendersi ragione d'un principio di cui ha pur dovuto avvertire la efficacia nella dichiarazione e valutazione di tanti fatti e fenomeni. D’altra parte, chi non sente d'approvare l’idee che qui si sostengono, non potrà, suo auguro, disconoscere l'utilità de'ragguagli che il saggio porge su di un complesso non trascurabile d’opere e di questioni. Circa il modo poi ond'è stato raccolto e ordinato codesto vario materiale, T. crede quasi superfluo il far notare che, senza contravvenire ai canoni più rispettati dell'indagine erudita, esso ha dovuto soggiacere soprattutto al criterio della scelta e della  maggiore o minore considerazione, che logicamente s'impone a chi fa storia d' idee. Onde non desterà maraviglia che a volte ci siamo indugiati di più su documenti, che ad altra stregua non solo sarebbero giudicati di diversa importanza e con diverso metodo, ma che parrebbero esser fuori della cerchia stessa del nostro tema. Li sia lecito, infine, in questa pagina dove un gentile costume ha trovato sempre un posto anche agl’affetti che  s'accompagnano per fortuna alle nostre fatiche, esprimere i suoi ringraziamenti migliori ai carissimi amici il conte ANSIDEI (si veda) e  BRIGANTI (si veda), suo coadiutore, della Comunale di Perugia, all'ottimo  cav. Avetta e a tutti i suoi egregi ufficiali  dell' Universitaria di Padova, che facilitano con ogni maniera  di  cortesia  e  di dottrina le modeste ma non sempre agevoli ricerche, a cui, in queste due care città più lungamente che altrove, li è gradito l'attendere, e a VALCANOVER (si veda), studente di lettere, che volle con ingegno e disinteresse aiutarmi nella compilazione dell'indice e dei sommari. Padova. Una  STORIA DELLA GRAMMATICA ITALIANA è  un  lavoro  relativamente facile  per  chi  ha  fede nella  grammatica. Si muove d’un tipo, che si reputa RAZIONALE, di grammatica  scientifica, e s’espone la storia della grammatica della LINGUA d’Italia commisurandola a quel tipo, cioè: rispetto ai progressi fatti nell'escogitazioni delle CATEGORIE SINTATTICHE grammaticali; rispetto all'esattezza con cui, seguendo quelle categorie, sono state analizzate e comprese le  forme della LINGUA d’ITALIA. Ma la cosa diventa assai più difficile per chi non ha più quella fede semplicistica. E come  averla? Della dissoluzione della grammatica compiuta dallo spirito sono varie e tutte  evidenti le manifestazioni. Se il buon senso non manca mai di ribellarsi contro ciò che d'arbitrario è nel concetto d'una grammatica contenente i precetti del ben parlare, accettati a occhi chiusi dalla servile pedanteria letteraria o scolastica. Ricordisi l'esempio tipico di tali  ribellioni, il motto attribuito a Voltaire: tanto peggio pella grammatica. Oggi, mentre codesta servilità è presso che distrutta o se ne sta nascosta per paura del ridicolo, quella ribellione si può dire vittoriosa. Si parli o si scriva, quanti si sentono più stretti dalla camicia di forza della grammatica,  onde sono un tempo torturati anche i filosofi più seri? Quel penoso e un po’comico guardarsi d’attorno per non metter il piede sui roveti e nelle falle del temuto codice, chi lo sopporta più? La filosofia ha da travagliarsi in ben altri problemi che non sono quelli d'un impacciarne e infecondo verbalismo. Dinanzi a tanto turbinio di cose, al complicarsi e all'approfondirsi della vita, al sorger  perenne di tanti interessi spirituali, qual cervello può continuare a baloccarsi colle parole, le frasi e i costrutti di parata? Nelle CONVERSAZIONI e ne’ritrovi nei saggi il temerario che osi rinnovare le quisquilie che tanto appassionanoi nostri nonni e alimentano la chiacchiera delle nostre accademie, s'accorge subito di non aver più ascoltatori o d'averli mal disposti a seguirlo: e per  qualche impenitente che si pigli la briga di fargli eco, quanti gli si stringono addosso per zittirlo! La grammatica perde ogni importanza negl’animi di tutti, anche di coloro che non fan professione di filosofo. Anzi, quegli stessi che l'insegnano, non mancano d'avvertire che non colla grammatica s'impara a parlare, ma col tener vigile lo spirito all'osservazione, all’impressioni della vita,  e che lo studio d’essa non va fatto sistematicamente, ma praticamente sugli scrittori, che soli possono formare il gusto e l'abito del rettamente parlare. Sicché nelle nostre scuole la grammatica è ridotta, anche se se ne adottino i testi, a poche e saltuarie osservazioni riguardanti pello più la forma delle voci o il reggimento degl’elementi della proposizione o del periodo, quando le  suggeriscano o l’ispirino gl’esempi degl’autori che si leggono o gli spropositi onde s'infiorano i componimenti, esclusi perfino i paradigmi de'nomi e de'verbi e le liste dell’eccezioni. Ma la critica della grammatica prende ai nostri tempi forma scientifica, innestata naturalmente nei grandi sistemi della filosofia dello spirito. Tra questi è superfluo che T. ricordi quello che pella sua salda  unità ha così profonda efficacia sullo svolgimento della FILOSOFIA. T. intende quella di CROCE (si veda). Dalle due attività teoretiche dello spirito, l'intuitiva e la logica, non si producono che immagini e concetti, ch’arte e scienza: fuori di questi due, non ci sono altri prodotti teoretici che possano costituire per sé oggetto di speculazione filosofica; essi soli sono la realità in cui si  possa esprimere tutta l'attività nostra conoscitiva. Se dunque ci si presentano altri fatti apparentemente diversi colla pretesa d’essere studiati scientificamente in sede propria, noi sappiamo cpial è l'obbligo nostro: scoperto il procedimento artificiale per cui son venuti ad assumere aspetto di formazioni indipendenti, spogliatili delle esteriorità che danno loro apparenza di corpi, d’organismi  capaci di vita e d’evoluzione propria, ricondurli e ridurli  nella loro essenza nuda all'una o all'altra di quelle due forme d’attività. La lingua è tra questi il fatto che suscita le maggiori e più resistenti illusioni, perchè con tutti gli studi ai quali si presta nel terreno empirico, descrittivo, storico, didattico, come suono, voce, forma, costrutto, ritmo, mutamento, uso, rappresentazione, essa,  sciolta e raccolta come realtà in grammatiche e vocabolari, finisce col crearsi un proprio dominio, farsene assoluta padrona, e imporre autorità e rispetto e esigere un culto speciale. Ma studiata scientificamente, ossia come realmente jA\>\>ax?.. e non come la formiamo noi astraendo dall’oggetto reale in cui è incorporata, essa è inseparabile dal discorso vivo, dall'opera letteraria in cui s'incarna, ed è quell’opera stessa, quel discorso  stesso. Onde non vi ha luogo ad uno studio veramente scientifico ossia organico e filosofico  della lingua fuori dello studio della letteratura e dell'arte. Conseguenza di ciò, la filosofia della lingua fa tutt'uno colla filosofia dell'arte, ossia coll'estetica; la storia della lingua fa tutt'uno colla storia della letteratura. La lingua è sempre individualizzata, ed è quindi perpetua creazione, irriducibile a leggi  fisse. Ciò posto, la grammatica – strettamente, letteratura -- che cos'è? Espediente  didattico, privo di valore scientifico, perchè privo di problema scientifico. E una stona della grammatica si scolora agl’occhi dello studioso dello svolgimento della  scienza e della  letteratura, ed appare più che altro materia propria non  già della storia della FILOSOFIA, ma della storia dei costumi e dell’istituzioni, legata piuttosto alla storia dell'insegnamento che non a quella della letteratura, la filosofia e della  scienza. E com'è  anti-scientifico il suo fondamento, cosi  arbitrarie sono le sue CATEGORIE, variabili da grammatico e grammatico, e variate infatti d’Aristotile del LIZIO, che ne ammette due o tre, al  hSuommattei, che n ammi. se dodici, a noi moderni che siamo tornati alle nove tradizionali: variabili ancora, naturalmente, da lingua a lingua, potendo accadere ch’appaiano in esse alcune delle pretese parti del discorso che non appaiono (CROCE (si veda),  Estetica, Palermo; e in La Critica, per i rapporti tra grammatica e logicai, e] Vossler, Positivismus und Ideatisuius in der  Sprachiwssenschaft, Heidelberg. Anche prima di PRISCIANO se ne sono già elaborate tredici o quattordici in altre. Chi direbbe che qualche lingua s'è scoperta mancante del verbo, nientemeno la categoria del moto e dell'azione e dell'esistenza, che tutti i grammatici filosofici ritengono appunto la parte principale del discorso, la colonna che sostiene tutta la proposizione? Le categorie  grammaticali  sorgeno dal  bisogno di comprendere e spiegare la relazione intercedente tra gl’elementi della lingua e gl’elementi del pensiero, il rapporto tra i segni e le cose: sorgeno insomma, non si può disconoscere, dal bisogno di sciogliere un problema scientifico che la coscienza avverte; ma, non conquistato ancora il problema della conoscenza nel suo duplice aspetto d’intuizione  e intelletto, e ridotta l'attività dello spirito alla sola forma logica, è naturale che i prodotti di questa attività apparissero d'una sola natura, e tanto gl’estetici quanto i logici si cercassero di spiegare coll'unico principio logico: e ne deriva l'annullamento dell'espressione: questa, che è il prodotto dell'elaborazione fantastica, è sottoposta a un'elaborazione logica, sicché, distrutta l'espressione  dividendola ne'suoi pretesi elementi, su ciascuno di questi si foggia una categoria: si  hanno così tante astrazioni particolari, e a ciascuna è attribuita una funzione espressiva: ricavati i concetti di moto o azione, d’ente o di materia, se ne fecero le categorie di verbo e di nome, e si crede d'aver trovata l'espressione del moto e dell'ente, cioè la formula con cui esprimerli. Ora l'errore  scientifico è appunto non nel lecito trapasso dall'estetico al logico, ma in questo ripassare dal logico all'estetico, nel dare all'astrazione funzione espressiva, nel ridurre a norma, a legge ciò ch’è semplice conseguenza d'un’elaborazione arbitraria sì, ma consentita dalla pratica esigenza di raggruppare sotto determinati concetti determinate parole. M’una volta ottenuti questi raggruppamenti,  è facile avvertirne l'utile pel rispetto  didattico dell'apprendimenti della lingua d’ITALIA, ossia de'cosidetti mezzi d'espressione. E le categorie Iinduistiche si mantennero anrhp contro la loro inconsistenza scientifica, a soddisfare a giella--pratica  esigenza nioltiplicate e suddivise secondo i vari punti di vista didattici, e è prevedibile ch’almeno entro certi limiti si manterranno, s'intende per quel mèdesimo scopo: e si manterranno anche l’altre parti della grammatica, fonologia, sintassi, metrica, ecc., sorte analogamente, perchè anch'esse potranno aiutare l'apprendimento della lingua d’ITALIA, la raccolta del materiale da ri-elaborare nell’espressioni. Assolutamente necessarie il mantenerle, in fondo, non  sarebbe\ perchè a fornirci del materiale linguistico, può bastare  ascoltare chi parla, cioè a dire, studiare il discorso vivo, realmente parlato, senza tagliuzzarlo; ma, certo, alcuni raggruppamenti, specie delle forme flessive, di famiglie di vocaboli, di particelle relative, nonché avvertimenti sull'uso e i nessi delle parti del discorso, saranno sempre utili rome aiuti alla memoria, e più, s'intende, pelle  lingue straniere che pella materna. Lo studio degli  schemi grammaticali in tutta la loro esuberanza e varietà è dubbio che possa riuscire al proposito molto fecondo. I limiti qui sono segnati dalla pratica dell'insegnamento e dai bisogni individuali degl’auto-didatti. Ma nei libri dei grammatici non v'è  solo questo contenuto didattico, solo escogitazione d’espedienti, solo metodo. Tentativi, spesso vani, di razionalizzare l’empiriche  distinzioni; crubbi, spesso generatori d’affermazioni e intuizioni ragionevoli; confessioni spesso ingenue, e pure importanti come prove di stati di coscienza ch’hanno disposto alla scienza, se la tradizione non avesse così fortemente prepotuto; contradizioni che sarebbero state preziose, ove fossero state in tempo avvertite; ribellioni improvvise e reazioni a regole state generalmente accettate, questi e altrettanti documenti di progresso non mancano quasi mai anche in grammatici inerti, ripetitori di travamenti altrui. Insomma, nei libri de’grammatici appare una linea di progresso sui generis, il  jDrogTgssxi cibila, dissoluzione, il progresso della morte. E sotto questo riguardo ognun vede quale e quanta importanza acquisti subito lo studio d’essi, e come un tale studio  ri-entri nel dominio diretto della storia del pensiero e dell'arte. Si tratta di vedere come dalla grammatica empirica si passa alla grammatica filosofica e da questa all’estetica. È il medesimo interesse, la medesima portata ch’offre la storia della poetica. Che cos'è questa storia? È la descrizione di quel caratteristico processo per cui  la dottrina umanistica dell'imitazione, quale è plasmata  dal rinascimento italiano sulla poetica rediviva d’Aristotile nel LIZIO cristallizzata in regole dogmatiche, è dal classicismo italiano, gallo, britannico, riguardata prima sotto il rispetto dell'ingegno, poi di ragione, in fine di gusto, fino alla conquista romantica del principio critico dell'immaginazione creativa, ossia la storia d'una codificazione poetica completa e del suo progressivo e  totale disfacimento. Poetica e grammatica, disfacendosi dopo la loro evoluzione, mettono capo egualmente, toccando a lor volta e ciascuna ne'propri limiti e gradi l'attività critica concreta e la letteratura stessa, alla filosofia dell'arte, all'estetica. Da questo punto di vista par che concepisse SANCTIS (si veda) una STORIA DELLA GRAMMATICA RAZIONALE, a giudicar dai tentativi  che compì in proposito quando s'è dato con vero fervore agli studi grammaticali, e dal disegno d'una grammatica filosofica intorno a cui si travaglia senza venirne a capo pella difficoltà che ne presenta l'esecuzione e la sua stess preparazione filosofica. Svolgendo, esercitando e scaltrendo il pronto e vivace intelletto, disposto da natura a ripiegarsi su stesso, nelle varie correnti filosofiche  predominanti al suo tempo, nelle larghe e intense letture di grammatici, nella pratica dell'insegnamento e nella scuola di Puoti di cui è insieme collaboratore, non tarda a ribellarsi alla grammatica tradizionale e ad accorgersi che in questo campo è tutto d’innovare. Con quello della grammatica che viene trattando, concepì l'ardito disegno d’una storia delle forme grammaticali rifacendosi  dall'antichità; ma pella sua scarsa grecità e l'ignoranza delle cose orientali, dopo vani tentativi appresso a VICO (si veda) e Schlegel, si riduce a tracciare una storia dei grammatici da lui letti, criticando dapprima quelli che tutto derivavano dalla lingua del LAZIO, poi gli studiosi della lingua, copiosi di regole e d'esempi, poi i galli, la cui grammatica ragionata non lo soddisface che a  mezzo, perchè sente che quel  ragionare la grammatica non è ancora la scienza. Che egli intuisse già che la risoluzione del tormentoso problema è nell'identificazione del FATTO della lingua coll fatto estetico, appare chiaramente da questa esplicita dichiarazione. Sostene che quella de-composizione di amo in sono amante l'incadavera la parola, Spingarn, La critica letteraria nel  rinascimento, Bari. SANCTIS (si veda), frammento  autobiografico, pubbl. da  P.  Yn.i.AKi,  Napoli; Scritti inediti o rari, pubbl. cur. CROCE (si veda), Napoli; e, sopratutto, i saggi nei saggi critici, Napoli, col  titolo “Frammenti di scuola.” sottrae tutto quel moto che le viene dalla volontà in atto. Si senteno quei giudizi acuti con raccoglimento, e si credeno in tutta buona fede quell'uno  che dove oscurare i galli e irradiare l'Italia d’una altra scienza. E in verità in sostene che la grammatica non è solo un'arte, ma ch'è principalmente una scienza: è e dove essere. Questa scienza della grammatica, malgrado le tante grammatiche ragionate e filosofiche, è per lui ancora di là da venire. Non par dubbio che, se SANCTIS (si veda) avesse ripreso quel suo disegno di storia della  grammatica, l' avrebbe condotto dal punto di vista della critica, donde è condotto il saggio di T. Dato questo punto di vista è certo desiderabile fare, anziché la storia della grammatica della lingua d’ITALIA, quella della grammatica in genere, appunto secondo il disegno di SANCTIS [si veda]; e in Italia stessa, anziché limitarsi alla grammatica della lingua d’ITALIA, estendersi anche  alle costruzioni di grammatiche della LINGUA DEL LAZIO; e sarebbe stato anche bene congiungerla collo studio delle speculazioni sulla lingua, delle controversie intorno alla lingua ecc. Ma, senza dire che ciò abbiamo cercato di fare in parte, sempre quando il legame tra le dottrine grammaticali in genere, quelle costruzioni italiane e straniere e quello  studio e le grammatiche da noi  esaminate è strettissimo, essendo questo imprescindibile obbligo nostro di storici, a quel fine il materiale è vasto e ingrato, sì d’averci costretti per ora a studiare il solo svolgimento della grammatica della LINGUA D’ITALIA, la quale peraltro, non che riflettere in sé quasi con pienezza il procedimento di quella più ampia formazione, ce n’illustra la fase più interessante per noi, quella dello sfacimento, quella cioè della grammatica volgare, e di questa l'aspetto ancor più caratteristico, l'italiano. Poiché, mentre la grammatica, delle lingue classiche, sebbene connessa anch'essa a un sistema di dottrine poetiche, quello dell'antichità, e sbocciata da discussioni e per fini d'ordine logico, conserva pur sempre il suo carattere d’espediente didattico e ermeneutico pell'apprendimento della lingua e pella  interpretazione  degli  scrittori, per cui, non è sorta, m’erasi venuta  formando e l'avevano infine sistemata gl’alessandrini non senza ammirevoli tentativi di spiegarne filosoficamente le categorie, anche quando pretese concorrere alla formazione del perfetto oratore, come è specialmente presso i Romani; la grammatica volgare, non solo, perchè, nata col canone  dell'imitazione de'classici e strettamente congiunta colla poetica della rinascenza, che dove per suo fatale svolgimento soggiacere a  quel progresso di dissoluzione, ci permette di seguire un identico procedimento, tenendoci sempre in terreno scientifico per accompagnarci fino alle porte della scienza, ma, essendosi sviluppata quasi in compagnia e nel seno stesso delle letterature nel  periodo del loro maggiore fiorire, reca in sé più vivo e immediato il senso della lingua e dell'arte e quindi un più intimo e energico sforzo  di  conquistarne  e rivelarne il segreto; e la grammatica  dell'italiano, cioè della  letteratura più rigogliosa e più ricca di forme, tutto questo ci offre meglio che ciascun'altra delle lingue dell’Europa, perchè, a tacer d'altro, non solamente più varia e  complessa per luoghi e tempi, ma perchè, mentre congiunta col suo sistema, passa fuori d'Italia a plasmare il pensiero critico delle altre nazioni d’Europa, di queste poi e particolarmente della Gallia, segue alcuni grandi  indirizzi, come quello di Porto Reale e del razionalismo di H. P. Grice. Puo osservarsi, infine, che noi abbiamo parlato sin qui della grammatica normativa e non di  quella storica. Ma la grammatica storica non entra nel tema di T., perchè essa, sebbene adoperi gl’arbitrari schematismi grammaticali, ha un contenuto conoscitivo, e la storia d’esso rientra per tal modo nella storia dell'erudizione e delle ricerche storiche. E su- Parecchie delle definizioni ragionate d’Apollonio sono riprese interamente dalla grammatica generale del e continuano a esser  ammirate anche più tardi, Egger. Ma una grammatica filosofica nell'antichità non è neppur tentata. Pur consentendo con quanto dice BORGESE (si veda) nella  sua storia della critica romantica in Italia, Napoli, del carattere e degli spiriti dell’alessandrinismo umanistico, è facile riconoscere che la grammatica sorge e si sviluppa in condizioni più vantaggiose per i risultati scientifici che  non l'antica. L’antica si svolge in tempi di progrediente decadenza di pensiero e di coltura, quella in tempo di generale progresso. VOSSLER, Die Sprache als Schdpfum: nnd Entwickelunx,  Heidelberg. perfluo, peraltro, avvertire, anche qui, che non abbiamo trascurato d’occuparcene ogni volta che l'erudizione filologica muove da uno sforzo, T dice così, di sciogliere il problema  grammaticale, e si connetteva perciò intimamente colla grammatica  normativa: anzi, qualche volta, temiamo d’esserci inoltrati in questo campo troppo più in là che il tema di T. consente, come, p. es., a proposito di Castelvetro, la cui Giunta, di dominio certamente della grammatica storica, T. esamina con cura minuziosa. Ma l'eccessivo, se ci sarà, ci vede scusato; non tanto pel fatto che forse certe parti dell'opera di grammatici, come anche questa di Castelvetro, a non allontanarci dal esempio di T., non sono tenute nel debito conto neppur dagli storici, quanto pella considerazione che certi nuclei d'erudizione grammaticale-filologica, escogitati pel comodo pratico, interessano anche lo studioso della storia del costume e delle istituzioni scolastiche, alla quale abbiamo  pur sempre tenuto l'occhio e di cui T. da qui non poche linee. Sicché giova sperare che i lettori finiranno col  trovare nel saggio di T. più di quanto il titolo non  prometta, mentre, in fondo, nulla si pio dire superfluamente accoltovi che non serve ad illuminare l'oggetto che ne è l'argomento principale, e l'istesso punto di vista  al quale l'abbiamo considerato. La concreta e sistematica  compilazione delle regole della grammatica della LINGUA D’ITALIA è  insieme comune resultato di due degl’effetti prodotti sulla letteratura del rinascimento dal canone umanistico dell'imitazione de'classici della LINGUA DEL LAZIO DEI ROMANI, cioè, il culto e lo studio della forma esteriore e lo sviluppo della critica applicata o pratica, e conseguenza non ultima della trionfante  difesa del VOLGARE – tedesco, volgare, lingua d’ITALIA -- di contro alla LINGUA DEL LAZIO, ch’è a sua volta presentimento dell'importanza che nella coscienza assume definitivamente e vigorosamente la  lingua della NAZIONE d’ITALIA: prodotto, dunque, di due diverse tendenze, di due diversi indirizzi, il classico e il romantico. Né le sono estranee talune condizioni della  vita sociale, la diffusa cultura, p. es., e, in particolare, il sentimento della bellezza e della grazia, se non della gravita – Trudgill, Italian is the most beautiful language – ch’esige anco un'eloquio ornato e polito. Spinti dal bisogno di giustificare criticamente 1'immensa letteratura fantastica che il ri-fiorire degli studi ritorna alla luce e all'ammirazione, gl’umanisti, superando le dottrine  poetiche del Medioevo che suonano sprezzo o condanna della poesia, e procedendo di superamento in superamento, passando cioè attraverso le concezioni della natura della poesia in termini prima di teologia, poeta theologus, poi d’oratoria, poeta orator, poi di rettorica e filologia, poeta-rhetor e philologus, finirono col restituire la loro indipendenza d’ogni funzione allegorica ai  prodotti  dell'immaginazione e col rimettere la poesia al posto che le spetta nella vita e nell'arte, giungendo così insieme a riconsacrare la bellezza classica e a proclamare come base estetica della letteratura l'imitazione dei classici: quindi studio dell'artificio della poesia classica, quindi ricerca di principi e regole pratiche pella più perfetta  imitazione, e, tra queste,  anche le grammaticali. D'altra  parte, il VOLGARE – tedesco, volgare --, il che vuol dire la nostra gloriosa tradizione, non mai del tutto negletto pur nel periodo più febbrile e intemperante della indagine erudita sull'antichità classica, è venuto levando audacemente il capo sopra il sentimento stesso del proprio valore. Già l'umanesimo stesso non è mica, che non puo essere, ri-sorgimento, re-incarnazione dello spirito  classico: tutta la vita medioevale non è vissuta indarno e non se ne potevan con un tratto di penna cancellare non dice T. le tracce, ma gl’effetti sullo spirito!/ moderno: che è anzi essa se non ROMANESIMO, nella sua sostanza incorruttibile, più che non fosse o potesse essere il soffio inane onde si voleva ravvivare un presunto cadavere? E poiché quella vita è espressa in opere volgari  come la divina commedia, il decameron, il canzoniere, e ora ad altre correnti spirituali, alla dottrina e alla speculazione si vede pure che IL VOLGARE – tedesco, il volgare --  è più che bastevole, il difenderlo dove ben apparire vittoria sicura, l'affermarne la virtù un dovere, e un diritto l'estendere anche ai suoi precedenti monumenti letterari il canone dell’imitazione: i nostri massimi  fiorentini dovevan valere quanto i classici di ROMA: quindi studio e osservazione della loro forma esteriore, applicazione pratica delle loro regole: quindi anche grammatica volgare. Questo processo, d'intuitiva evidenza specie per chi tenga presente la storia della poetica del ri-nascimento, ci spiega esattamente il contenuto e le fogge della PRIMA GRAMMATICA, i germi in sé  concepiti del suo svolgimento, dice T  anche la sua mossa e il punto di partenza nel tempo e nello spazio. Vossler,  Poetische Theorien in  der  italienischen  FrUhrenaissance, Berlin. Spingarn. A renderne più convincente la dimostrazione, ci soccorre, per buona fortuna, un documento molto interessante, che ri-entra poi per sé stesso e proprio qui all'ingresso del nostro cammino, come  oggetto diretto della storia di T.: quelle regole della volger lingua fiorentina, che si trovavano manoscritte nella libreria medicea, e di cui T. pubblica il testo secondo una copia ricavatane conservata nella biblioteca vaticana, cod. vat. reg.. Codeste regole, come ben appare non solo dal titolo ma dal proemio e da tutta l'operetta, sono fondate con piena coscienza sull'uso vivo fiorentino,  mentre la prima grammatica italiana che viede la luce, Fortunio,  Bembo, ha il suo fondamento negl'imitandi  classici, che per i volgaristi sono quel che pegli’umanisti CICERONE e LIVIO. Basta questo fatto a dimostrare che la prima grammatica italiana ha la sua origine in quel movimento umanistico che consacra il  principio dell'imitazione dei classici ed è perciò connessa colla  poetica del ri-nascimento; muove cioè, quel che più importa osservare a T., verso il suo intento precettistico d’una spinta dice T. così estetica o, in qualche modo, d'ordine scientifico;  mentre la grammatica vaticana è, non solo espres- [MORANDI (si veda), Il primo vocabolario e la prima grammatiche della nostra lingua, Antologia. Sensi, Un libro che si crede perduto, ALBERTI (si veda) grammatico, in  //  Fanf. d. Dom. Al  Cian,  che nel suo bel saggio su Bembo, Un  decennio della vita di Bembo, Torino, dubitando della possibilità di ritrovar il libretto catalogato nell’inventario della libreria medicea, manifesta rincrescimento di non poter sapere che cosa sono quelle regole della lingua fiorentina, sfugge forse la segnalazione che della copia vaticana d’esse fa  Torri nell'edizione dell’opere minori d’ALIGHIERI (si veda), Livorno, sbagliando, però, come avverte Morandi, a cui non è sfuggita, nell'aftèrmare che l'originale senza dubbio appartene a Lorenzo de’MEDICI (si veda), Duca d'Urbino, quando invece l'avvertenza del copista, Sumptum ex bibliotecha  L. medices Romae anno  humanatj Dej. Decembris ultima exactum va riferita a  Lorenzo il mgnifico, Leon riscatta dai frati di San Marco in Firenze e fatto portare nel suo palazzo in Roma la biblioteca paterna. Ne è punto da dubitare che questa copia fatta in  Roma e passata da Bourdelot a sione d'un bisogno pratico già sentito in un momento di decadenza del volgare sotto l' irrompere della cultura umanistica e pel quale si collega perciò a quel particolare movimento in favore del volgare che culmina col certame coronario, ma specialmente dimostrazione e applicazione, fatte con fini polemici, d'un altro principio teorico di grande importanza, primamente scaturito dalle discussioni coeve sui rapporti tra LA LINGUA DEL LAZIO e il volgare. Mentre,  pertanto,  Xe^Jl regole di FORTUNIO (si veda) iniziano uno svolgimento che dura, per un rispetto,  ne concludono un’altro, di cui si potrebbero rintracciare i lontani precedenti nell'insegnamento de'dettatori di BOLOGNA e nell’elevate cure spese dall'ALIGHIERI (si veda) a vantaggio del volgar materno – Brook, Potter, Our mother tongue. Per ciò che concerne poi la motivazione critica, tra l’inedita grammatica vaticana e la prima nostra grammatica edita, per T. è quasi una soluzione  di continuità, se con quella non è congiunta d’una comune coscienza dell'importanza della lingua della nazione d’ITALIA, che è in se insita; e se volessimo trovarle una continuazione, meglio che riallacciarla colla grammatica dei toscani, Giambullari, che non è eseguita secondo i  principi pur additati da Gelli, dovremmo scendere addirittura alla  grammatica di MANZONI del Cristina  di Svezia, e quindi alla biblioteca vaticana, dove si trova in principio del cod. reg., a  ce., non è una copia dell'originale mediceo che col titolo di Regule lingue fiorentine, o di Regole della lingua  fiorentina, si trova indicato in tre esemplari dell'inventario d’essa Libreria, compilato, e da PICCOLOMINI (si veda) dato in luce, Arch. stor. Hai., Morandi. Il cod. che consta d’una raccolta  di codicetti diversi, contiene anche il  trattato d’ALIGHIERI,  DE VVLGARI ELOVENTIA, che appartenne a Bembo, e col quale la grammatichetta  scambia la guardia: infatti la guardia che precede il trattato dantesco reca Della THOSCANA SENZ’AUTTORE, e  davanti alla grammatichetta vi son due guardie, una delle quali reca sul recto Dante della Volo. Lino, e l'altra sul verso  Dantes de Vulgari  [diomate. Cir . Il trattato De vulgari eloquentia cur. R.AJNA,  Milano. È curioso che la grammatichetta sia venuta a trovarsi congiunta coll'insigne operetta di Dante copiata per Bembo, che quella grammatichetta non dove  mai vedere e ne dovette anzi ignorar  l'esistenza. uso vivo fiorentino. La nostra tradizione grammaticale benché resti sempre vero quel ch’è  osservato da Morandi: aver i letterati italiani in certi intervalli sostenuta la tesi di MANZONI (si veda), è classica, vale a dire fu dominata soprattutto dal principio del classicismo, che doveva necessariamente disfarla. E si potrebbe aggiungere, se fè il caso di discorrere di ciò che non avvenne, che la grammatica normativa avrebbe forse alla pratica rtsi maggiori servizi, s’avesse continuato nella forma e cogl'intenti  della grammatica vaticana, certo assai più consoni e praticamente utili a quell'esigenza pella quale è giustificabile, l'apprendimento della lingua. Ben diversa è la spinta teorica della grammatichetta, che l’assegna, sia rispetto ai suoi precedenti letterari, sia rispetto alle prossime produzioni consimili, un posto a sé, dandole una singolare importanza, assai maggiore di quella che possono  avere le prime grammatiche del classicismo, che non nacquero con un problema proprio, ma sono nutrite dello spirito che alimenta tutta la poetica. Sia o no d’ALBERTI (si veda), nel qual caso è da riportare indubitatamente di là dall’anno del De componendis cifris in cui ALBERTI (si veda) vi accenna come ad opera compiuta, la grammatichetta vaticana è senza alcun dubbio da  riconnettere all'azione che Alberti stesso ed altri degni di lui promossero in favore del volgare: tanto essa rispecchia il carattere delle dispute linguistiche ch’agitano i dotti, e tanto strettamente è congiunta con quella che ha a campioni Biondo e Bruni. Que’che affermano, questo è il proemio della grammatichetta, la lingua latina non essere stata comune a tutti e'populi latini, ma solo  propria di certi dotti scolastici, come hoggi la vediamo in pochi; credo deporanno quello errore, vedendo questo nostro opuscholo, in quale io racolsi l'uso [Sensi  sostiene che è d’Alberti, per molte somiglianze di pensiero e di forma che ha con passi dell’Operette morali e perchè è ben degna dell’alte vedute di quella niente altissima. Ma Morandi, ch’attende a un nuovo studio intorno  alle prime grammatiche e ai primi vocabolari, m’usa la cortesia d'avvertirmi ch’Alberti è d’escludere, e ch’è da pensare ad altri, accennandomi i nomi di Pulci e, nientemeno, di VINCI (si veda).] della lingua nostra in brevissime annotationi: qual cosa simile fecero gl'ingegni grandi e studiosi presso a’Latini: et chiamorno queste simili ammonitioni, apte a scrivere e favellare senza  corruptela, suo nome della LETTERATVRA. Quest’arte quale ella sia in la lingua nostra, leggietemi e intenderetela. È precisamente Bruni quegli che sostene essersi usate in Roma due lingue nettamente distinte, l'uma delle scritture e de'pochi dotti, l'altra comune a tutto il volgo, il quale non avrebbe inteso un'orazione forense o una commedia più che non intenda la messa, e non sa  ammettere che le femminette riuscissero a esprimersi naturalmente in una forma grammaticale, morfologica e sintattica di difficilissimo acquisto pei dotti di professione. E non ad altri ch’a Bruni e a suoi seguaci risponde Alberti quando altrove osserva. E dicono non potere credere che in  que'tempi le femmine sapessero quante cose oggi sono in quella lingua del LAZIO a molto e ben  dottissimi difficile e oscure. E per questo concludono la lingua nella quale scriveno i dotti essere una quasi arte ed invenzione scolastica piuttosto ch’intesa e saputa da molti. Ma questa è precisamente l'opinione di Biondo, a cui si deve appunto la scoperta e l'affermazione d'un fatto inchiudente quell'importante principio teorico che presede alla compilazione della grammatichetta  vaticana: uno de'non molti principi teorici di grande importanza critica pella nostra storia, che siano stati asseriti in tutto il nostro periodo grammaticale avanti il sorgere della critica della grammatica con BORDONI Scaligero e Sanzio e Portoreale. BIONDO (si veda) ha solo di recente la meritata giustizia. mentre a BRUNI (si veda) sono d’assai tempo tributati i massimi onori come a  un felice indicatore dell’origini del nostro volgare. L'oggetto della discussione avvenuta nelle anticamere pontificie tra i segretari della curia, presenti Lusco, Romano, Fiocchi, Bracciolini, Biondo e Bruni e che è poi trattata per iscritto In SENSI. Cfr. anche Rossi, Il rinascimento, Milano. D’un infelice quanto valoroso nostro corregkmario troppo presto rapito agli studi, MIGRIMI (si veda) di Perugia, il quale ri-stampa nel Propugnatore con da Biondo nel De locutione romana, da Bruni noli' Epistole, dal Poggio nelle Historiae convivales disceptativae , da Filelfo Ep. e d’ALBERTI (si veda) nel proemio al libro della famiglia, era stato il seguente, così definito da Biondo stesso: materno ne et passim apud rudem una lucida prefazioncella l'epistola di Biondo a Bruni De locutione romana, sempre rimasta alla sua edizione principe. Credo dì poter indicare come e per qual via fosse condotto Biondo a toccare il problema della lingua volgare e romana. Al tempo d’Eugenio, Roma è talmente rumata, che dieci altri anni, dice Biondo in una lettera al pontefice restauratore, premessa alla sua Roma instaurata, che ne foste stato absente, essendo ella già e per la sua antichità, e pelle tante passate affìitioni, mezza  minata, di certo, che la ne sarebbe del tutto ita per terra. Come il papa intese a restaurare con tanta liberalità e larghezza la città eterna, Biondo s'è dato a rinfrescar nelle memorie degl’uomini la notitza degl’antichi edificii; anzi delle mine, ch'ora si veggono nella città di Roma già capo e signora del mondo; ma  specialmente l'ha mosso l' ignoranza ne'secoli a dietro delle buone lettere, tale e tanta, che quel poco che si sa degl’antichi edifici,  è tutto con false e barbare voci sporcato e guasto. E con quest'animo s'è messo alla nobile fatica: Porrò dunque mano all'opera con speranza che i pochi hanno a giudicare, se la chiesa ed il palazzo di San Pietro, e di San Giovanni in Laterano riconci, e per  lo più rinovati, e se le porte di bronzo fatte alla chiesa di San  Pietro, e le riconcie mura di Vaticano, e di borgo, colle strade della città  rifatte, habbiano ad esser più stabili, ed a durare per più  tempo, per questa via d'opera di calcie, di pietre, di bronzo, che pella via delle lettere della scrittura: e medesimamente s'io m'habbia possuto co'1 rozzo stile imitare e giugnere niente a così belli  lavori con tante dispese fatte. Come degl’edilìzi, egli dunque dove osservare la corruzione della lingua, e attribuirne la causa alle medesime incursioni barbariche. Questa è la manchevolezza della sua tesi; ma, se nell'additar la causa dello scadimento Biondo erra, la materia di cui parla è però quella che veramente soggia all'evoluzione e s'è  tramutata nel volgare. Mi son giovato della  versione fatta da Fanno delle due opere di Biondo intorno a Roma e all'Italia, perchè essa, riprodotta in più stampe, ci spiega come il De locutione romana, edito primamente in fine alla Roma instaurata, non vede poi mai più la luce, non avendo seguito nella versione l'opera maggiore. Roma ristaurata, ed Italia illustrata di Biondo da Forlì. Tradotte in buona lingua volgare per Fanno, Venezia, i  ed.  Mehus. iS indoctamque multitudinem aetate nostra vulgato idiomate, an gramaticae artis usu, quod latinum appellamus, instituto loquendi more Romani orare fuerint soli. Bruni, che concepisce la grammatica non crede possibile ch’il popolo inflette nomi e verbi, quasi che, dice Mignini, la regolarità non è stata allora e poi assolutamente ex casti: sostene perciò esistere  una differenza sostanziale tra LA LINGUA DEL LAZIO de'dotti e il popolare, come tra due lingue diverse, né più né meno come tra LA LINGUA DEL LAZIO e il volgare d’altri tempi. I contemporanei magnificarono l’idee di Bruni, quasi dimostra l'origine del volgare: ma Bruni, come ben vede Mignini, fa solo una questione preliminare a questa, e la conclusione che ne scaturisce  logicamente è che la lingua volgare non  deriva  dalla LINGUA DEL LAZIO volgare, essendo state sempre immobili e inalterate le due lingue dei latini, la degl’OTTIMATI  e la plebea: LA LINGUA DEL LAZIO volgare o plebea per Bruni non è il padre della lingua volgare d’ITALIA, ma è questo stesso sempre vivo e verde e inalterato, senza che né le mutazioni naturali della  lingua,  né quelle delle popolazioni italiane avessero avuto su esso, la minima influenza. Biondo invece sostene che tra le due lingue non c’è differenza sostanziale: la differenza è solo di forma, prodotta dall’educazione domestica, dalla cura e dalla riflessione degli scrittori: e se non la deduce dall’iscrizioni e solo dalle testimonianze degli scrittori latini, ha però sempre di mira la reale condizione  della lingua degl’OTTIMATI e  popolare sotto I ROMANI, e non fa per suo conto, come parve a Schuchardt, una questione nominale. Ma quel che per noi vale assai di più è che, mentre sin allora la grammatica è stata concepita, come ancora Bruni la concipisce, una serie di regole stabilite a priori e per sempre, e quindi una lingua del tutto artificiale e immutabile, Biondo invece  avverte anche nella lingua popolare romana una sua propria regolarità, distinta naturalmente da quella che deriva dalla riflessione e dall'arte congiunta a quella che viene dalla natura. Egli voleva che ai suoi avversari questa risposta soddisface: nec naturae ac bonae consuetudinis munere regulas indoctam multitudinem scivisse, quibus grammaticam orationem omni ex partem congruam  i.m eret, ncque etiam tam longe a variationibtfs inclinationibusque et reliqua grammaticae orationis compositione illius latinitatem abfuisse, quin litterata, qualem mediocriter aetate nostra docti habent orario et videretur et esset. E una speciale regolarità venne a riconoscere conseguentemente nella lingua volgare de'suoi tempi, ponendo così il principio teorico della  possibilità d'una  grammatica del volgare, in parole ben chiare: omnibus ubique APVD ITALOS CORRVPTISSIMA etiam VVLGARITATE loquentibus idiomatis natura ìnsitum videmus, ut nemo tam rusticus, nemo tam rudis, tamque ingenio hebes sit, qui modo loqui possit, quin aliqua ex parte tempora casus modosque et numeros noverit dicendo variare, prout narrandae rei tempus ratioque videbuntur  postulare. Questa regolarità, osserva benissimo Migninij insitam idiomatis natura, è il primo Biondo, che io sappia, a notarla, e dopo di lui ripeteno l'osservazione Filelfo, Ep., ed Alberti, Proemio. Si fa così un'ottima correzione alle dottrine grammaticali, e insieme si muove un primo passo verso gli studi grammaticali sulla lingua volgare, impossibili a farsi, finché questa si crede  assolutamente ex casti. Tante vero che, è Alberti o altri, certo è un seguace di Biondo quegli che muove il secondo e ultimo passo e compone la grammatichetta vaticana, fondandola sull'uso vivo di Firenze. Ed è questo che distingue profondamente il significativo libretto dalla grammatica di Fortunio e la di Bembo, cioè il principio informatore: quello scaturisce dalla riconosciuta  regolarità insita nel volgare, cioè d’un chiaro principio che ammette la possibilità della legiferazione grammaticale; queste, sorte quando ormai la causa del volgare è vinta per quella via, cioè colla forza ch’esso stesso reca in sé e che non è se non la vita della nazione d’ITALIA, e quando è inalzato teoricamente al medesimo grado di nobiltà e di perfezione della LINGUA DEL LAZIO  e quindi la possibilità di regolarla non si puo più affacciar come discutibile, sono create col prin- [ed. Mignini. Nel discorso o dialogo, attribuito a MACHIAVELLO (si veda) MACHIAVELLI, dove pella prima volta avanti le regole  di FORTUNIO (si veda), e dopo, s'intende, il movimento che s'accentra nella grammatichetta vaticana, si discorre dell’VIII parti del discorso nella lingua  fiorentina, non è traccia alcuna di dubbio che codesta lingua non puo esser trattata grammaticalmente come la lingua del LAZIO. Si noti peraltro che Machiavelli in tanto parla di regolarità, in quanto ha cipio dell'imitazione, senz’alcuna coscienza del problema scientifico insito in questo prodotto pseudo-scientifico che è appunto la grammatica. Certo, senza un grande amore pel volgar  nativo, cioè senz’aver della letteratura un caldo sentimento di grandezza, quel riconoscimento di Biondo non basta a crear la prima grammatica, anche a non considerar che, s’egli una certa regolarità tutta sua, insita, naturale, gliela riconosce, non credo la ritenesse tale d’esser presa a modello: Biondo è un classico da quanto e più ancora di Bruni: bisogna veder nel volgare qualità  ancor  più nobili e virtuose, e d’efficacia e di bellezza, perchè si puo additarle, quasi classificarle e schematizzarle in una rassegna da porre di fronte alla nobile granitica della LINGUA DEL LAZIO, senza timore o vergogna veruna. Sicché, in sostanza, il classicismo viene anche qui a far valere i suoi diritti, come vedremo essere avvenuto in un problema consimile già agitato dalla mente  suprema d'Alighieri; ma il compilatore non puo esser ch’un estimatore convinto del volgare. Comunque, colla grammatica vaticana lo spregiato volgare viene, quasi di punto in bianco, come l'antica grammatica, inalzato all'onore di lingua  letteraria. Gli giova, s'intende, anche l'esser fiorentino, che non solo, per quei certi criteri formali che i credenti nella grammatica non possono non  far valere, è il più polito e sonante dialetto d'Italia, m’ha in suo attivo tutta la splendida tradizione letteraria antecedente. E certo quella pratica dimostrazione della regolarità del volgare dove valere assai meglio e più d'ogni e qualunque ragionamento in favore d’esso, e nel fiorentino  parlato viene così a essere specchiata la grammatica della lingua letteraria. Sul contenuto e il metodo d’essa, anche perchè  qui è integralmente riferita, non occorre dir troppe parole. Basterà ri in mente un'unità linguistica ben determinata, perchè, p. es., alla lingua della corte di Roma, d'un luogo dove si parla di tanti modi, di quante nationi vi sono, pensa che non se li puo dare in modo alcuno regola. Cito, col  Rajna, La lingua cortigiana, in Miscellanea linguistica in onore d’ASCOLI (si veda), Torino, dal  cod. orig. di Ricci, che è il Pai. E. B., io,ce. r.°  chiamar l'attenzione sull'uso didattico degli specchi, ordine delle lettere, e dei paradigmi, declinazioni e coniugazioni; sull'osservazione riguardante la nomenclatura, in molta parte identica a quella della grammatica della LINGUA DEL LAZIO; sugli accenni di grammatica storica, p. es. la formazione dei  nomi dall'ablativo latino; sugl’esempi che, come ha  già hen visto Morandi, sono concettosi e arguti. Su talune forme idiomatiche registrate come correnti -- savamo,  savate; eravamo, eravate --;  sui vitij del favellar, in cui si cade introducendo forestierumi o storpiando l'uso, e sulla dottrina dell'IDIOTISMO – Grice, idio-lect, idio-syncrasy]; sopra i richiami ad altri idiomi non italiani; sopra  il metodo di trattar non separatamente le forme e l'uso delle varie parti del discorso. Conviene anche notare poiché siamo davanti alla prima grammatica che de'nomi son fatte due sole declinazioni: masculini la cui ultima vocale si converte in i, femminini, la cui ultima vocale si converte in e, eccettuandosi “mano” che  fa  “mani”, e i femminini finienti al singolare in “-e”, che fanno al  plurale in “-i”;  e che i verbi son trattati più per paradigmi che per regole.  Quel che ci preme anche porre in rilievo è l'intento avuto di mira dal nostro autore nell'esecuzione, veramente felice perchè rapida e chiara, del suo trattatello, e il calore che  vi mette, tanto da farsene un merito patriottico, in altri termini il punto di vista donde ha raccolto le sue osservazioni. Egli intende sbozzare  la fisionomia grammaticale della lingua viva di Firenze, perchè dal confronto con quella della LINGUA DEL LAZIO, ne risultasse la bellezza e la perfezion dell'organismo: non è tanto intento precettivo quanto praticamente dimostrativo. Egli è tutt'altro che spregiatore della LINGUA DEL LAZIO,  di cui anzi accoglie la nomenclatura, gli schemi e adopera forme e nessi grafici; ma  sente tutta l'importanza e la virtù dell'idioma materno, che vorrebbe onorato di pari culto e maggiore. Sono da ricordare a questo proposito i rimproveri ch’Alberti dirige agl’umanisti che amano piuttosto piacere ai pochi  che cittadini miei, presovi, se presso di voj hano luogo le mie fatighe, riabbiate a  t^rado questo animo mio, cupido d’onorare la patria nostra, chiusa). giovare ai molti,  adoperando una lingua convenzionale e non la naturale intesa da tutti. Questi rimproveri ci richiamano facilmente alla memoria quelli più sonanti che l'autore del convito scaglia contro gli scelleratissimi che coltivano lo volgare altrui e lo proprio dispregiavano: né questo è ravvicinamento che fa per suo capriccio la memoria; perchè, evidentemente, tra, non  dice T. il  concetto filosofico,  ma l'interessamento pel volgare d’Alberti e quello d’Alighieri corre un intimo nesso, come la grammatichetta è, per un rispetto, ultimo anello d'una lunga catena che mette capo al primo  affermarsi del nostro volgare nella coscienza critica dei suoi primi studiosi: siamo insomma su quella linea della tradizione nazionale che congiunge appunto i dettatori di BOLOGNA e a quanti con  Dante coltivarono il volgare, ai difensori delle tre corone, ai propugnatori del volgare, tra i quali spetta ad Alberti il primo posto. Occorre appena avvertire che il più benemerito di tutti i rappresentanti di codesta tradizione, non solamente nella pratica ma anche nella teorica è Alighieri. Fosse un pensiero maturo, o un profondo presentimento, certo è ardito e degno della sua mente  altissima il concetto onde il volgare viene glorificato come sole il quale sorge ove  tramonta l'usato. Se il segreto intendimento di Dante è quello di far del volgare una  lingua come la lingua del LAZIO per detronizzar questo, è materia d’ardua discussione: indubitabile però è, quale dove esser la natura e la funzione del volgare così esaltato, che egli abbia voluto renderlo [Si ricordino  anche le fiere parole della nota protesta fattaci conoscere da Flamini e integralmente pubblicata da Mancini, Un documento del certame coronario di Firenze del  -//.  in Arc/t. si. il., S. 1  L'ha  forse già avvertito chi accozza  in un medesimo volume la grammatichetta attribuita ad Alberti e il trattatello dantesco? [Wesselofscky ha in brevi ma limpide linee indicato l'importanza dell'avvenimento della lingua italiana agl’onori della letteratura, e la parte che vi ha Alighieri, dal quale propriamente incomincia il ri-nascimento nel senso nazionale, da lui s'informa e da lui, piuttosto che da tutt'altro nome, noi vorremmo intitolare quel periodo che precede al ri-nascimento classico dei Medici. In Dante e Firenze di Zenatti, Firenze;/. per forza di lavoro crìtico e di  educazione artistica atto a ogni più elevata espressione d'arte e di pensiero. A codesta altissima meta, conseguita, è inutile l'osservarlo così eccellentemente nel fatto col poema divino l né altrimenti che nel fatto è conseguibile, poiché PARLARE È ESPRIMERE E ESPRIMERE E PARLAR BENE e bellamente, tende il magnanimo sforzo del De vulgari eloquentìa, che è o dove essere  \ix\ ars grammatica, rhetorica e poetica insieme sui generis. Che, sia pur affermato solo riguardo alla questione della lingua italiana, non vi si tratti di lingua italiana né punto né poco, che in ciò che è venuto fino a noi, e in ciò che ci manca, tutto s'aggiri intorno a canzoni, ballate, sonetti, tragedia, commedia, elegia, cose da cantarsi; sempre poesia, niente altro che poesia, è a torto  sostenuto da Manzoni, perchè bisogna non aver occhi per non vedere che non vi si parla e non vi si dove parlare che di lingua  e di  lingue e specie di lingue, le parole loqui, locutio, IDIOMA, Grice, idio-lect, idio-syncrasy, idio-tism, vi ricorrono da cima in fondo, e di lingua poetica e di lingua prosastica, e di lingua letteraria e di lingua parlata, inferiora vulgaria illuminare curabimus,  gradatim descendentes ad illud, quod unius solius familie propinili est;  ma che l'intento del trattato è precettistico non ne'riguardi del solo dire in rima, come manchevolmente intendeno e Capponi e Manzoni, che allega la testimonianza di Boccaccio, ma ne'riguardi d’ogni forma di dire e di comporre,  nessuno può ragionevolmente negare. Ciò si desume non solamente dallo stato  d'animo dell'autore che è, specie se messo in relazione con quello che si rivela nel Rajna, Il trattato De vulgari  eloquentia, lectura  Dantis, Firenze, e recensione d’un saggio di BELARDINELLI (si veda), La questione della lingua, ecc., in Bull. d. Soc. dant.; Parodi, Bull. d. Soc. dant.; Vossler, Die góttliche Komòdie. Entwickelungsgeschichte und  Erklàrung: religiose und philosophische  Entwickelungsgeschichte, Heidelberg, e Zingarelli, nella recens. di questo libro in La Cultura. Lettera ifitorno al De vulgari eloquio d’Alighieri, in  Manzoni, Poesie minori, lettere inedite e sparse, pensieri e sentenze, con note di Bertoldi, Firenze, Ed. Rajna. Mi son valso anche  dell'ed. minore, Firenze.  Prose minori. Convivio, di vivissima simpatia pel volgare, di trepido desiderio che  esso è la luce alle genti, e dal titolo che non può essere che De vulgari eloquentia, ma da più luoghi del trattato, ove quell'intento è esplicitamente asserito e dichiarato, e particolarmente nel primo paragrafo. Alighieri è mosso a scrivere dal vedere neminem de vulgaris eloquentie doctrina quicquam tractasse, che tale eloquenza è a tutti necessaria, osservandosi che perfino i fanciulli si sforzano di conseguirla, e si propone locutioni vulgarium gentìum prodesse, non soltanto attingendo alla fonte del proprio ingegno, ma accipiendo vel compilando ab aliis. Grammatici, retori, trattatisti di poetica è facile affermare che sono i suoi autori: e quando si vogliono cercar termini di paragone a misurare l'altezza della trattazione, il pensiero corre a grammatiche, metriche, Donatus proensalis, Las razos de frodar, a summe, Les leys d'amour, che sono appunto una grammatica, una rettorica e una poetica, e doctrive de compondre dìctats, ad Tempo, a Gidino, insomma a precettistiche e a precettisti: anche per quel libro  che non scrive, ma che si può matematicamente asserire dedica alla prosa ilhistre, il pensiero corre alle trattazioni concernenti LA LINGUA DEL LAZIO, che certo non è neppur concepibile che da lui si ricalcassero, come benissimo giudica chi tanto s'è reso benemerito degli studi sul trattato, ma che non sono se non trattazioni di rettorica e di grammatica. Trattar di lingua è dunque inevitabile, essendo quella la materia del discorso; ma fine è insegnarne non l'acquisto, l'apprendimento, sì bene un uso di maggiore o minor  grado artistico secondo le varie classi di parlanti, ma artistico, insomma un'espressione. Un intento siffatto, che è quello d'ogni arte poetica, è anti-scientifico, perchè l'espressione non s'insegna: ma lo sforzo che si compie per conseguirlo, può avere una portata scientifica: e grandissima  l'ha questo d'Alighieri, pella dottrina, l'acume, e la partecipazione interiore, che non è se non una  forte coscienza estetica, onde  l'ha compiuto, anche indipendentemente dalla cultura della sua età: sentire in quel modo così profondo, quale specialmente c’è svelato dal convivio, il volgar materne, vedasi specialmente il paragrafo dove si parla del naturale amore pella  i'i  Rajna,  Lect. nostra loquela, e sollevarlo nella teoria, con uno slancio d'entusiasmo non più avvertito tra noi, alla  medesima altezza a cui è stato o sarebbe stato portato nella pratica, e segnare le linee di svolgimento con mano così ferma e scultoria, questo è vero progresso scientifico d’un valore, starei per dire, anche più considerevole dell' altro di cui va egualmente superbo Alighieri, d'averci data cioè una descrizione storica del volgare romanzo, che pur ferma la maraviglia d'ogni grande filologo.  Perchè, come l'intendimento precettistico, così, sebbene sovranamente mirabile pell'uso che ne fa nel disegno del suo ideale artistico, anti-scientifica appare la concezioned’ALIGHIERI della lingua, della locutio: la quale in sé stessa non supera la scienza dell'età sua, che ha il suo fondamento  ella  Bibbia e nella lotta tra nominalisti e realisti riprende le discussioni dei sofisti, se la lingua  è per natura o per volontà. M’ALIGHIERI supera il suo tempo nel conciliare in un sistema solo la tradizione biblica e le teorie filosofiche, mettendo in rilievo lo stato originario della lingua, e quello che si determina dopo la torre di Babele; innumerevoli lingue variabili  continuamente d’una parte, e 1'artificiosa grammatica dall'altra. Il genere umano ha bisogno ad comunicandum inter  se conceptiones suas di un rationale signum et  SENSVALE [Croce, Estetica o Aesthesis – SENSIBILIA] in quantum sonus est; rationale in quantum aliquid SIGNIFICARE videtur AD PLACITVM, cioè SECONDOLA RAGIONE DALLA QUALE L’UOMO è mosso. Di quel SEGNO il primo uomo è dotato da Dio, ed è quale è richiesto dalla perfetta natura umana, cioè perfetto. In  vero, anche a non prescindere da questo che è poi un atto di fede, a stare alle parole [Vossler,  Die góttliche  Kòmodie, illustra in modo molto evidente quanto acuto questo disegno, seguendo il pensiero linguistico-filosofico d’ALIGHIERI dal suo primo sbocciare nella vita e nel convivio all'altezze del De vulg. E.., donde tuttavia non scopre il mistero delle terzine volgari della  Commedia. L’idee d’ALIGHIERI circa la voce e la parola, come suono, s'accordano più particolarmente coi due grandi espositori scolastici del LIZIO: Alberto ed AQUINO (si veda). Busetto, Saggi di varia psicologia dantesca, Giorn. dant., Pratom Toscana. Alberto definisce la voce percussio respirati aeris ad arteriam vocativam ab anima per immaginationem aliquam eam formantem,  quae est in partibus illis quæ ad respirationem congruunt. Vossler.] che ALIGHIERI (si veda)  adopera e al tono di tutto il discorso, pare lampeggiar qua e là quasi un vago concetto della sintesi interna di pensiero e parola, come quando dice certam formam locutionis a Deo cum anima prima concreatam fuisse; e già quell'esaltare la lingua come una dote data all'uomo perchè se ne  gloriasse ipse qui gratis dotaverat, eia facoltà divina che è in noi per cui actu nostrorum affectuum letamur, ci suscita l'idea d'un atto spirituale meglio che naturale e meccanico – H. P. Grice contro C. L. Stevenson – “mean” in scare quotes --; anche la prossimità, affermata nel convivio tra la lingua volgare parlata e LA PERSONA CHE LA PARLA – H. P. Grice, utterer’s meaning --,  ci spinge verso quella intuizione; così ancora, per addurre altri indizi, se non argomenti, quell'insistente relazione posta tra la irriducibilità del volgare a regole fisse e la mutabilità e variabilità dello spirito umano; il cenno della qualità della prima espressione che l'uomo preferiscee PROFERISCE avanti il peccato, la similitudine posta in Convivio tra la lingua e la bella donna, insomma  l'enfasi onde il poeta parla della parola umana; ma nel fatto la lingua è poi sempre concepita come SEGNO,  cioè un'esteriorità di cui la mente si giova per manifestarsi: quella certa forvia è tale quantum ad rerum vocabula, et quantum ad vocabulorum constructionem, et quantum ad constructionis PROLATIONEM, ed è la lingua che parlano Adamo ed il genere umano tutto prima  della confusione delle lingue, e che rimase poi al popolo ebreo, la lingua che, dopo la confusione,  riprodussero appunto artificialmente gl’inventores grammaticae facultatis, vale a dire la grammatica: una lingua dunque grammaticale, stereotipata, beli' e formata, non producibile, ad ogni espressione del pensiero. Con questa concezione della locutio e la nozione storica de'vari ydiomata che  tutti ammiriamo e il fine che s'è dichiarato, Dante continua a svolgere il suo trattato, che conduce fino al  principio  del seguente libro colla dottrina del volgare illustre applicata alla poesia: nel terzo, in immediatis libris, avrebbe detto del medesimo volgare applicato alla prosa, come s'è visto potersi con sicurezza congetturare; nel [Vossler già avverte che come poi questi dotti ottenessero questa grammatica, Dante non dice; e che d'altra parte grammatica non è solo LA LINGUA DEL LAZIO, per Dante, ma anche qualche altra lingua] quarto ^a un dantista veramente egregio, Zingarelli, nella recensione fatta nella Cultura) dell'opera cit. di Vossler,  Die  góttliche  Komòdie.  Vossler riprende la tesi ch’è già in germe nelle parole del Rajna {Lect.. Il volgare dunque  s’incammina a insediarsi dove sta LA LINGUA DEL LAZIO, o almeno accanto a lui; e per insediarvisi non solo, che è poco, ma potervi rimanere, gl’occorreranno in misura non troppo scarsa le doti di stabilità e universalità che LA LINGUA DEL LAIO ed ogni grammatica possiedono, e che sono inconciliabili con una parlata qualsiasi. Conseguibili non sono per Dante altro che da  una lingua fabbricata, e uscita dall'accordo di molte genti diverse, quale appunto egli crede essere LA LINGUA DEL LAZIO. E di certo, mettendo da parte la stabilità, che verrà a resultare di conseguenza, nulla pare poter rendere più agevole il consenso d’una moltitudine d’eteroglossi in una forma sola d’una lingua, che l'estrarre quella forma da tutti, in cambio di prenderla da taluno  e volerla imporre agl’altri. Si pensi ai tentativi di lingua universale, e che Parodi aveva accolta, dichiarando esplicitamente che,  insomma, Dante intende fondare una grammatica, Bull. d. Soc.  datit. Zingarelli sostiene che questo puo essere un presentimento profondo,  ma  non un pensiero, non un proposito recondito, a insegnar reg. di lingua. Rajna.]dizione di critici che ebbero del  idioma una piena e profonda coscienza, cioè della tradizione nazionale di contro alla classica; ma anche primo e non meno elevato rappresentante dell'altra ch’intende a rinnovarsi nell'imitazione dei classici: nella prima veste si ricongiunge all'autore della grammatica vaticana, ai toscani, a Manzoni; nella seconda a Bembo e alla lunga tratta de'suoi seguaci classicisti: capo e propulsore  delle due correnti in cui s’estrinseca lo spirito italiano nella critica letteraria, maggiore di tutti, come accade d'essere ai grandi, del suo tempo, per originalità e vastità di siero e mirabile accordo di facoltà. Ma con Dante il germe della grammatica italiana sboccia e avvizze, appunto perchè nessuno ebbe al pari di lui la coscienza della letteratura, e la comune concezione della lingua e  della grammatica e il germogliare dell'umanesimo sull'istesso tronco spezzato dell’altissima letteratura assicurano ancora alla lingua del LAZIO il predominio sul volgare come lingua della scienza e della coltura. Perfino Petrarca e Boccaccio, che pur tennero alla loro arte volgare quanto se non  più che alla lingua del LAZIO, rimaneno tutti estra Dante alimenta la contesa tra umanisti  e difensori del volgare; il suo spirito aleggia nei sostenitori del volgare che promuovono il certame e nell'autore della rammatichetta; col trattato De vulgari eloquentia sono connesse le prime nostre contese ortografiche e tutta, in genere, la questione della nostra lingua ne'suoi momenti più  salienti a  Manzoni. Bembo e Trissino d’ORO (vedasi), in fondo, non eseguirono ciascuno un  piano identico a quello di Dante? La dimostrazione data per Petrarca dal Cian {Nugellae vulgares  f  questione di Petrarca, in La Favilla di  Perugia, ciie cioè il nostro maggior lirico tenesse tutt'altro che in conto di Nugellae le sue Rime, si può ripetere  e me ne avverte  il Cian stesso per Boccaccio con eguale certezza. Che la’ecloga di PETRARCA sia una disputa intesa a dimostrare la  superiorità della poesia italiana sulla di quella della GALLIA  esclude  E.  Carrara Giorn. st. d. leti,  it., e conviene con lui Busetto,  PETRARCA (si veda)  satirico e polemista in  Padova in onore di  F.  P.,  Estr.  Padova. Boccaccio anche nell'esposizione in volgare della divina commedia, dove avrebbe potuto esser tratto facilmente a osservazioni anche di forma esteriore, non va oltre  la spiegazione di singoli boli, rimanendo sempre sotto l'influenza delle sue dottrine poetiche. Difende calorosamente Dante dell'aver poetato in volgare piuttosto nei a un qualsiasi movimento coscientemente teorico in favor dell'idioma nativo. Quel che si fa in questo per tutto il territorio romanzo, è diretto a intenti puramente pratici, di grammatica in servizio della poetica o degli  stranieri, di vera e propria metrica, di rettorica in servizio dell’epistolografìa, della notaria, e di chi dove tenere parlamenti e dicerie. Il Donatz proensal, composto da Faidit  prima in Italia a richiesta di Morra e Sterleto e tradotto anche nella LINGUA DEL LAZIO  per maggior utilità degl’italiani, è un ri-calco sull’Ars minor di Donato. Senz'accennar a teorie linguistiche, né a scopi  speciali, comincia subito a trattar dell’VIII parti del vulgar proensal, nom, pronom, verbe, adverbe, particip, conjunctios, prepositios, interjecios, e si chiude con un rimario abbondantissimo, De las Rimai. Qui il vulgar proensal è trattato come una lingua letteraria, come una grammatica pegl'italiani, quale dove appunto apparir loro la fiorente letteratura provenzale: è insomma il  provenzale letterario, anzi poetico, classificato e chiuso negli schemi della grammatica della LINGUA DEL LAZIO pell'apprendimento degli stranieri. Certo quel poterlo cosi trattare come la grammatica dove ben valere a dimostrare che dunque anche gl’altri volgari, non esclusi gl’italiani,   che nella lingua del LAZIO, non solo col criterio della fama, ma anche della bellezza e virtuosità  del volgare,  Zenatti, Dante  e  Firenze: eppure della regolarità del volgare neppur un cenno. Pe'più il volgare è una lingua dispregiata, e Boccaccio ricorda che appunto quella è la caligine sotto cui rimane nascosa la luce del valore di Dante, Dal Commento,  ed.  Zenatti,  Roma. E ragion vuol che si dica che, se Boccaccio aveva difeso, meglio di Petrarca, la poesia, perchè non aveva  fatta differenza tra la lingua del LAZIO  e la volgare, commentando la  divina  commedia concede, sia pure per non inasprire gl’avversari, che s’Alighieri avesse poetato nella LINGUA DEL LAZIO col l'eleganza onde tratta il volgar materno, avrebbe senza dubbio fatto opera più artificiosa e sublime; e con quest'opinione veniva tra poco a concordanza un altro ammiratore del poeta, Salutati \Ep., ed. Movati. Sull'attività critica ch’accompagna il sorgere della letteratura nazionale è da vedere La Critica  letteraria dall'Antichità  classica, di Bacci, Milano, alla quale T. rimanda anche per altre notizie di circostanze e fatti aventi qualche relazione col suo argomento. potevan esser ugualmente trattati, e non avremmo così dovuto aspettar Biondo perchè tosse intravvista  e riconosciuta una certa regolarità nel nostro idioma: pure all’ipotesi d'una  grammatica italiana non si venne. Las razos de frodar sono anch'esse una  grammatica, ma in servizio delle forme poetiche, e, appunto perchè nate in suolo provenzale, non eseguiscono tutta intera la trattazione grammaticale e contengono dichiarazioni simili a quelle dei primi nostri grammatici che, avendo  ancora in mente LA LINGUA DEL LAZIO e credendo molto fosse il conoscerla, dicono non esser necessario svolgere questa o quella categoria o esemplificazione. E notevole altresì che vi si trovano considerazioni intorno alla proprietà dei vari volgari e  vi si vada come in cerca d'un volgare illustre. La parladura PARLATURA galla vai mais et plus avinenz a far romanz e pasturellas;  ma cella de Lemosin vai mais per far vers e cansons e serventes. È un orientamento, come ben si vide, simile a quello del De vulgari eloquentia, e appunto per questo c’è davanti l'abbozzo d'una  grammatica provenzale, come materia grammaticale abbiamo nel trattato dantesco; ma quale  differenza! Quella che nelle Razos è un'osservazione fuggevole e quasi inconscia del pratico che  vuol giovare ai rimatori, qui è lo sforzo e l'ardimento di chi vuol creare una lingua pella vita e pelll'arte. Anche le Regles de trobar di Jaufré de Foixà, che sono un seguito dell'opera di Vidal, sono compilate per domanda del re di Sicilia, Giacomo. Osservazioni di metrica, parte forse di opera più vasta e perduta, contiene la doctrina de compondrc dìctats. E per tacer d'altri rimaneggiamenti  delle Razos e d’altre arti  metriche, grammatica, metrica e rettorica sono Las Leys d'Amors o Flors del gay saber che Molinier ha l'incarico, qual segretario o cancelliere, di comporre in Tolosa dalla compagnia della Gaya scie?isa, perchè fossero un codice della buona poesia, e dove il provenzale è appunto legiferato grammaticalmente come una lingua lette- [Vidal, Las razos de trobar,  ed. Stengel, Die beideìi  àltesten  provenz.  Gra/tim,,  Marburgo. Si confrontino a questo proposito anche Las leys d'amors. Anche per Donatz, questa  edizione. Su J.  de  Foixà  Meyer,  Romania,. raria. La  lingua GALLICA nella GALLIA non ha nulla di simile, allora, e le sue prime vere grammatiche le ha  appunto molto più tardi, dopo di noi, per effetto del medesimo movimento  critico che determina il sorger delle nostre. In terra italiana, oltre il trattato delle  Rime volgari di Tempo, e l'imitazione che un contemporaneo de'nipoti del giudice Sommacampagna ne fa in veronese di corte, pure arti metriche, e il trattatela metrico di Barberino, si ricorda un trattateli simile che avrebbe composto, ma che in realtà non compose. CAVALCANTI (si veda), secondo la  testimonianza di Villani che l'avrebbe avuto tra mano e di Fausto che 1'avrebbe visto e lo cita. Un confronto tra Las  razos e Donatz istituì Ovidio in  Giorn. st. d. lett.  il. Sugl’ammaestramenti  grammaticali  pella LINGUA GALLICA nel  medioevo,  Brunot, Hist. d. la langue gallique. L'abitudine, a lungo conservatasi nella Britannia, d’usare la lingua gallica (Honi soit qui mal y pense – “anglo-normanno” di H. P. Grice, originariamente ‘gris,’ grigio), fa sorgere tutta una serie di saggi, che rimaneno senza paragone per molto tempo sul continente d’Europa e costituiscono la sola letteratura grammaticale anteriore.  Delle rime volgari, trattato di Tempo, giudice  padovano, dato in luce integralmente per cura di Grion, Bologna. In rhetoricis delectatus studijs eandem  artem ad rhythmorum vulgarium compositionem eleganter traduxit. Villani, De Florentiae famosis civiòus. Fausto, Introduzione alla Untiuà volgare in Gkio, nel capitolo dell'ordinare la prosa: delle parole bisillabe e trisillabe sono alcune aspirate come honore, alcune hanno geminate le liquide, come novella, fiamma, anno, carro, lasso; consonante dopo muta doppia, fabbro; ovvero  muta in mezzo liquide, sepolcro: e cotali Dante chiama nella sua volgar Eloquenza, e Cavalcanti  nella sua Grammatica, irsute: chi fa combinazione di questa senza dubbie, seria dura e roggia orazione. Qui evidentemente la parola grammatica è usurpata per significar metrica: fatto comune nell'erudizione, tanto  che Bacchi  nel suo elogio di Cavalcanti, Elogia, Firenze, attribuisce a CAVALCANTI una vera e propria  grammatica: quod multa CAVALCANTI scripserit, non desunt qui affirment, ut de eloquentia sui seculi, de regulis linguae etruscae, de natura verborum, quibus fit oratio numeris astrictior, artifieijs ornatior. Il trattato di Tempo traduce nel suo dialetto Barati-Ila, sedicenne, figlio di Laureo.] Ma  NON GRAMMATICA, come la chiama appunto  Fausto, come GRAMMATICA NON È la sua Introduzione alla lingua volgare, ch’è invece metrica e RETORICA. Insomma, quanto di grammaticale o SINTASSI – MORFO-SINTASSI (“rules of formation” – “syntax” – H. P. Grice – SYSTEM G -- vi può essere in tutte queste somme romanze escluso Donatz è solo in servizio della metrica e della rettorica, senza alcuna vera funzione  propriamente grammaticale, e assolutamente indipendente dal realmente parlato; mentre Dante ha coscienza d'uno schietto criterio della regolarità grammaticale, onde anche sia disciplinabile sull'esempio del latino il volgare italiano, e l'applica: nel che egli differisce da Biondo in quanto questi riconosce nel volgare una regolarità di fatto, e Dante gliela riconosce solo in germe: resta di  fargliela acquistare. Così, e questo è tempo ornai di concludere, prima dell'autore della grammatichetta vaticana ch’integra i due criteri e fa il primo tentativo, una vera e propria grammatica dell'italiano non è stesa. Lo studio strettamente grammaticale è fatto esclusivamente ne'riguardi del latino sull'Ars minor di Donato: l'insegnamento ne'riguardi del volgare, quando l'arte de'Dictamina  è fatta  passare dal latino al volgare, rimane, com'era stato pel latino, di carattere  rettorico, alla H. P. Grice nella caratterizazione di G. N. Leech, ‘pramatic, not logical.’ Certo, in quelle Sutnmè dictaminis, in quelle Artes dictandi, ?w/ariae, concìonandi, non mancano osservazioni che potrebbero chiamarsi di dominio puramente grammaticale. Una parte di' viltà, che in principio della  Summa di FABA (si veda) si raccomandano d'evitare,  riguarda Loreggia. Nel  proemio di Tempo s’avverte che alla versificazione giova la conoscenza della  grammatica, s'intenda  IL LATINO; si nota che lingua tusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae linguae, et ideo magis est communis et intelligibilis. Item ultimo notandum est, s’avverte, quod quemadmodum in  oratione literali  [il  latino] debet vitari barbarismus et soloecismus, ita in vulgari rithimo. Ma si tene ben distinta la trattazione grammaticale dalla  metrica: Vocales autem literæ secundum grammaticos sunt V,  scilicet a e i o u, reliquae vero sunt literæ consonantes. Est tamen alia etiam differentia inter consonantes literas: de quo nihil ad praesens disputare intendo, quia satis per  grammaticas est ostensum. Invece il ragazzo compendiatore si distende sulle vocali, sulle sillabe, sui dittonghi, sull’elisione, il troncamento e altre figure: il bisogno della trattazione grammaticale s’è andato facendo sempre più vivo! Il compendio di Baratella sta insieme coll'ed. delle rime volgari di Tempo, ed. Grion. Guidonis  Fabe, Summa dictaminis in II Propugnatore, ed. Gaudenzi.    la collisio, il frenum, lo hiatus, il metacismus, il laudacìsmus, ossia figure grammaticali. Nella parte seconda, non tutto ciò che riguarda la pronuntiaiio è garbo, ma correttezza – H. P. Grice on stress as garbo, non corretteza.  Il dictamen è locutio ne'due aspetti di competens et decora: competens dicitur quantum ad congruitatem vel incongruitatem tam  bone sententie quam recte  gramatice. Il dictamen dicitur autem pròsaycum a proson, quod est longum, quia ne legi metrice vel rythmice subiacens, congrue se potest extendere. Circa dispositionem si vuole che il dictator laboret ut ordinetur sub verborum serie competenti, et postmodum ad colores – GRICE FREGE FARBUNG --  procedat rethoricos.  Poi vi sono le osservazioni de punctis et virgulis et regulis  eoruni; quelle della  constructio, in cui duplex est ordo: Naturalis est ille qui pertinet ad espositionem, quando nominativus cum determinatione sua precedit, et verbum sequitur cum sua, ut  ego amo te. Artificialis ordo est illa compositio que pertinet ad dictationem, quando partes pulcrius disponuntur; qui sic a CICERONE (si veda) diffinitur. Compositio artificialis est constructio  dictaminis equabiliter per polita. Si parla de regulis occurrentibus in dictamine: nello zeugma l'aggettivo concorda col nome più prossimo: es. Socrates et Berta est alba: nella concepito PREVALE IL MASCHIO:  vir et mulier – i promesi sposi -- sunt albi; il neutro prevale sul maschile e il femminile: mancipium vir et mulier sunt alba. Si tratta dei verbi trasmissivi, de origine, possessione  et significatione quofundam ver borimi, al de relativis et antecedentìbus; e quando anche s’è in pieno campo rettorico  De ornatu orationis et colorìbus – FREGE GRICE FARBUNG -- retkorìcis, si trova indirettamente tutta la declinazione perchè, parlando de  inseptione nominis per omnrs casus tanto al singolare, ((pianto al plurale, le forme vengon tutte fuori, e medesimamente accade  pei verbi e l’altre parti del discorso, gerundio, supino, participio, pro-nome,  pro-posizione, pre-posizione, avverbi, di cui si passano in  rassegna gl’usi che se ne fanno al principio e alla  fine dell'orazione – The exhibition was visited by the King of France. Sicché sotto l'efficacia de’due insegnamenti d'alta e umile grammatica, dei dettatori e dei grammatici, dove venirsi praticamente e  indirettamente elaborando anche la grammatica del volgare, la quale poi appare direttamente quando appunto il dictamen passa dal latino al volgare. Era un movimento,  insomma,  fecondo in favore del volgare quello dei dettatori di BOLOGNA, e in genere di quanti avevan che fare colle due lingue: e da qualunque aspetto le fossero coltivate, a qualsiasi fine fosse rivolto l'esercizio, la  grammatica del volgare spunta accanto a quella del latino, ombra d’essa. Quel di-rozzamento del volgare fatto dai maestri nelle scuole e nei libri a pratici fini rettorici, nelle prime come nell’ultime scuole, non poteva non far sorgere ne'principianti, negli studiosi, negli scrittori come la coscienza riflessa delle forme grammaticali del volgare, apprendendole loro senza che s’accorgessero,  senza somministrarne paradigmi, definizioni, classificazioni. Tra il  volgare e il latino e il latino e il volgare sono continui e necessari i confronti sia nella scuola letteraria che in quella giuridica. Tanto per chi s'avvia per i pubblici uffici, che richiedeno faconda e ornata  parola, e possesso dello stile epistolare, quanto per chi si dedica al notariato, lo studio del volgare sia pure pella via  della grammatica latina era una  necessità. Negli statuti che la società de’notaj di Bologna promulga, gl’aspiranti al diploma di notaro doveno dimostrare qualiter scirent scribere et qualiter legere scripturas quas fecerint vulgariter et literaliter, et qualiter latinare et dictare. E a ciò non poteva bastare uno studio stilistico, ma occorre anche lo studio delle  forme e delle relazioni sintattiche.  A un tale studio dovevan esser invitati o condotti anche i discepoli di quel Signa, che fu de'primi a far sentir l'influsso della Toscana alla sua scolaresca di BOLOGNA, e, meglio ancora, di quel Faba, il cui conato di  far trionfare il volgare sul latino non potè esser solamente individuale. Faba, osserva Monaci, viene a prendere il primo posto nella serie di quei maestri che, facendo passare  dal latino al volgare l'arte dei dictamina, contribuirono assai più di quel che non si creda alla formazione del nostro idioma letterario, e perciò alla determinazione sia pure orale delle regole d’esso. Che l'insegnamento fosse porto in volgare confermano anche i testi grammaticali esplorati da Thurot, il  (piale osserva: On einsegnait la gram- [È superfluo ch'io ricordi quanto e insegna su  questi argomenti  Xovati, di cui ora si può vedere il saggio, a Milano, su  Le Origini. Intorno alle Artes dictandi discorre anche Lisio, L'arte del periodo nell’opere volgari d’Alighieri, Bologna. Sulla Gemma purpurea e altri scritti volgari di FAVA (si veda) o FABA (si veda), maestro di grammatica in BOLOGNA, in Rend. Lincei.] maire aux petits enfants sous une forme tout  élémentaire,  d'après le Donatus minor, et mème en langue vulgaire; car, quoique je n'aie rencontré que deux manuscrits qui contiennent des grammaires élémentaires rédigées en francais, le traduction de casus par le substantif féminin case et de modus par meuf  montre que ces termes étaient assez souvent employés pour avoir été accomodés au genie de la langue vulgaire. Nel prepararsi inoltre a  pronunziare in volgare le dicerie preparate in latino, nel leggere nel testo volgare, dato per disteso o in compendio, le formule epistolari modellate in LATINO, ognuno era naturalmente tratto a osservare le regole del volgare. Medesimente gl'innumerevoli traduttori dal  latino e dal gallo, e anche dal  provenzale, come avrebbero potuto condurre l'opera loro, così minuta e analitica, senza  notare le differenze morfologiche e sintattiche fra l'una e l'altra  lingua? Codeste stesse volgarizzazioni, specie di opera di filosofia pratica e di varia erudizione storico-letteraria e retorica, così diffuse e popolari, venivano indirettamente ma non per questo meno efficacemente a propagare la conoscenza e l'uso della regolarità del nostro volgare. Anzi le riduzioni e le traduzioni dei testi  di rettorica Notices et extraits de diverses manuscrits latins, pour servir à l’histoire des doctrines grammaticales aie moyen àge, in Noi. et extr., ecc. dell'Istituto  imp. di Francia, Paris. Gli stessi testi di grammatica latina dapprima redatti, com'era naturale, in latino, e poi, quando e dove la conoscenza del latini' si era venuta facendo più scarsa, corredati della versione volgare almeno nelle parti più necessarie tvocaboli, verbi, nomi, avverbi, locuzioni, esempi, temi, finiron coll'esser redatti unicamente in volgare. Son note le vicende di quel fortunato trattatela di grammatica latina che fu tramandato di generazione in generazione, di paese in paese sotto il nome di Janna, e che usurpa spesso il nome a Donato e gli disputa la supremazia nelle scuole. Copiata e ri-copiata  e ri-stampata talvolta anche col titolo di Donato al Senno, adottata nel corso preparatorio di Guarino, edita da Mancinelli col titolo di grammaticae aditus tanna, fu ben per tempo volgarizzata non soltanto da un anonimo bergamasco, ma da Mancinelli stesso, e nuovamente in Milano col titolo di Donato al Senno con il Calo volgarizzalo; trad. in greco da Planude, servì ai Costantinopolitani per impararvi IL LATINO, come  agl’umanisti per impararvi nella versione di Planude il  greco. Sabbadini  Fior di rettorica, la Retorica di Tullio,  ecc., se non contenevano precetti di grammatica volgare, mirano però direttamente  a metter in grado gl'indotti che ignorano il latino, di parlare ornatamente nel volgar materno. E il compilatore del Fior di Retorica riduce in volgare gli  esempi latini. Chi non vede gl’effetti di simili libri e ammaestramenti? Ben a ragione Villani, parlando  nella  Cronica, Vili,  io, di Latini, lo chiama digrossatore de'fiorentini in farli scorti in bene parlare, ed in sapere guidare e reggere la repubblica secondo la politica; e con non minor verità la critica afferma di lui che mostra un certo presentimento degli alti e utili uiticj a'quali eran  chiamati i nuovi volgari  romanzi: lode che in parte spetta anche a Barberino. Per quanto concerne il latino, sorsero ben presto vocabolari e grammatiche latino-volgari, che rappre  [Ancona e Bacci, Manuale. Sull'insegnamento che potè aver impartito Latini a Firenze intorno all'ars dictandi, v.  Fr. Novati,  Lect.  cit., Le  epistole. Nei  Reggimenti e costume  delle  donne Onestate dice  a Elocjuenza:  E parlerai sol nel volgar toscano E porrai mescidare alcun volgar consonante ad esso di que'paesi dov'hai più usato pigliando i belli e i non belli lasciando. Cito, tanto per far qualche  esempio, il dizionarietto latino-volgare contenuto nel cod. della comunale di  Perugia; il VOCABOLARIO LATINO-ITALIANO contenuto nel cod. della Riccardiana, diviso per materia, o  meglio per gruppi di parole aventi un identico significato, una specie di vocabolario de'sinonimi: di contro, p. es., alla colonna di sepultura, tumulus, baralrum, sepulcrum, pilum, tumba, monimentum, monumentimi, colossus, cenothaphius abbiamo le corrispondenti voci volgari la sepoltura, el monimento; la grammatichetta latino-volgare contenuta nel  cod.  di Verona, Biadego,  Cai.  descr. d. mss. d. Bibl.  Coni,  di  V. Verona. Un frammento di grammatica latino-bergamasca ha illustrato negli Studi medievali Sabbadini, il quale ci ricorda l'osservazione fatta da Thurot che nelle grammatiche latine del Mezzogiorno d'Europa, dove era più scarsa la conoscenza del latino, sono interpretati in volgare i thaemata che servivano all'applicazione delle  regole. Una nuova  grammatica  latino-italiana  [veronese]  ex ha fatto cono sentano, in ogni modo, l'ingresso del volgare nelle scuole e nei libri scolastici, come strumento necessario allo studio del latino, e il primo passo d’esso mosso nel campo teorico sulla via dell'emancipazione da questo, dove procedette sì ostacolato ma senza mai fermarsi. Tuttavia, questo ed altro di che si potrebbe agevolmente  dire, non spinse alcuno a trattar di proposito la regolarità grammaticale ne nei libri né, a quanto si può sapere, nelle  scuole. Anzi quanto si fece a prò del volgare, agevolandone il naturai uso orale, può considerarsi come un ostacolo ad avvertir la necessità di quella trattazione. Il concetto teorico scere Stefani, Revue des langues romanes. È notevole, secondo T., che vi s’espongano significazioni e costruzioni irregolari e difficili. Un glossario latino-bergamasco è pubb. da Grion in  II  Propugn., e da Lorch ne'suoi Altbergamkischc  Sprachdenkmaler. Altri  testi  grammaticali indica Rajna,  Introd. cit. Per la spinosa questione,  v. Zenatti, Dante e Firenze. La tesi di Zenatti è che Dante a Ravenna potè aver insegnato nello studio retorica volgare. La Romagna annunzia che Amaducci pone fine a un lavoro in cui crede d’aver dimostrato che Dante in Ravenna tenne l'insegnamento della  rettorica. Noi ammettiamo la possibilità dell'insegnamento dantesco di retorica e anche di grammatica volgare, solo per ciò che abbiamo detto della dottrina d'Alighieri circa la grammatica, e del carattere precettistico del  De vulgari eloquentia; che, comunque s'andassero ormai modificando le condizioni e l’esigenze degli studi, un insegnamento di lingua, grammatica, retorica volgare con intenti letterari non è possibile. Se Dante lo imparte, fu solo, come solo fu a elevare l'edificio del De Vulgari Eloquentia in quanto ha di nuovo circa la lingua e la grammatica. Colgo qui l'occasione per dichiarare che dalla vasta letteratura dell'insegnamento pubblico nessuna luce ho potuto trarre pel mio argomento, non riguardando essa che fatti del tutto esteriori. Non giovò neppure il fatto die ormai nel corpo stesso della grammatica latina se ne veniva introducendo tanta parte di quella volgare da quasi bilanciarla, se s’eccettuino le definizioni. Le nostre biblioteche sono ricche non solo di Prisciani, di Servi e di Donati, e di grammatiche latine di  noti e ignoti, ma di compendi e trattati grammaticali latino-volgari veramente preziosi anche pella storia della lingua, come, p. es., quello contenuto nel cod. della  Riccardiana,  in  margine: Bucinensis Epistolae quinque de nonnullis Piscium, Avium,  Herbarum, Anima della grammatica identifica la grammatica col latino, la lingua immutabile, regolata: e checché si pensa dell' origine  e dello svolgimento del volgare, questo non appare al certo in quella sua anche troppo vistosa mobilità capace d'esser regolato; anzi i prodigiosi monumenti letterari che il genio dei tre coronati produce, di tanto superiori a quelli pur così ammirati del periodo precedente, distolsero vie più dall'idea che fosse necessario osservar le regole della grammatica d'una lingua in cui, senz'esse,  Dante, Petrarca e Boccaccio avevano assegniti, sì alti fastigi. Né alla grammatica si fa ricorso ne'momenti in cui, cessando il primato toscano, riaffermandosi le letterature regionali, che innanzi a quello avevano quasi d'un tratto ammutito, spezzatasi l'unità linguistica nella stessa Toscana, potè lium Artificium vocabuli, che raccoglie liste di vocaboli assai importanti (berlingozzi, insalata,  erbastrella, starna, fagiani, merla, giandaia, ecc. Il riccard. L, contenente una traduzione latina dell’Iliade, ne' Rudimenti grammaticali, ha lunghissime liste di avverbi, preposizioni e verbi con tutte le corrispondenze italiane; gli è simile il I3 della nazionale di Firenze; altre liste di verbi volgari contengono gli Ashburnam della Mediceo-Laurenziana, il riccard., il misceli. della Casanatense  frammento colle corrispondenze romanesche, vardare, robare, cengere: notevole, tra quanti ho potuto consultare di siffatto genere, il  riccard. contenente un tractatus grammaticalis ne'cui margini, in corrispondenza del paradigma latino, è, segnata sempre rosso per miglior uso e servizio mnemonico, la parte morfologica e sintattica del volgare, che, presa a sé, è abbondante quanto quasi  le regole di Fortunio. E gli esempi vanno dalla singola parola, el poeta, la musa, lo homo, la donna, la forestiera a costrutti participiali e gerundivi insegnando ogni dì, intesi bene principia, volendo il discepolo imparare, e periodici di più ampia tessitura, avendoti io amato e servito più volte, tu dovevi richordartene. Questi testi grammaticali, oltre che al comodo comune, servirono all'istituzione degl’appartenenti a famiglie di qualche importanza. Nell'ultima pagina del Prisciano contenuto nel cod. riccardiano, è detto: io Lorenzo de girolamo di Domenico di tingho o venduto q" Prisciano a Alexandre de Romigi degli Strozzi e al prezzo de lire nove e per fide, ecc. Noto qui, come per incidente, che molto sarebbe da raccogliere di prezioso materiale linguistico  dialettale o semi-letterario anche nelle grammatiche latine umanistiche, essendo che i loro autori, Guarino, Perotti, Scoppa,  ecc., abbiano fatto uso, pelle corrispondenze, del loro dialetto o del dialetto  italianizzato.] parere che la letteratura nazionale è signoreggiata come d’uno spirito d'indisciplina: il che veniva a ribadire il concetto tradizionale della grammatica. Gello racconta che i  literati, che primi  usano all'orto de'Rucellai si maravigliarono di alcuni literati poco avanti la loro età, che avevano composto in versi e in prosa di questa lingua senza alcuna osservazione: parendo loro impossibile che, avendo pur veduti gli scritti di que'tre famosi, e'non avessero aperti gli occhi alle loro osservazioni e non si fossero accorti in quanta corruzione fusse incorsa la bellissima  lingua che parliamo. Neppur la lettura pubblica nello studio, che pur non poteva non dar occasione ad avvertimenti grammaticali, suggerì l'idea della compilazione delle regole prima di Landino, che avvenne pelle ragioni che già vedemmo. Che più? Dalla morte, anzi dagl’ultimi anni di Dante, che dove ascoltare i rimpianti di Giovanni del Virgilio del non avere egli scritto in latino il  poema, sin oltre l’invettiva di Rinuccini, cioè fino agl’ultimi echi del giudizio di Niccoli, che ha dopo morte un difensore in Poggio la quistione sulla preferenza di Dante pel volgare, che è di quelle che parrebbero fatte apposta per fecondare la critica sulla natura e la struttura delle lingue e il modo di studiarle, fu a questo proposito inutilmente agitata: tanto le accuse come le difese non  andarono oltre i termini vaghi e generali di bruttezza e bellezza. Di fronte agl’attacchi e ai dispregi rivolti ad Alighieri pella forma e la lingua onde compone la commedia non cessati neppur dinanzi all'opera mirabile compiuta, Guido da PISA (si veda),  nel commento latino della dichiarazione poetica dell'Inferno, si scaglia contro gl’ignoranti che, perchè scritta in volgare fructum qui  latet in ipsa, quaerere negligimi et abhorrent. Corteccia è la lingua anche per BOCCACCIO (si veda), che in tre momenti per lui solenni, Epistola a Petrarca per accompa- [È discretamente abbondante anche la letteratura dei commentatori di Dante e di Petrarca, ma ben pochi elementi fornisce al nostro tema dal punto di vista teorico. È largamente trattata da Zenatti in Dante e Firenze,  I brani che T. cita in proposito son tutti di qui, e a questo saggio rimanda per molte altre notizie che gettano luce sul  nostro tema. gnar il testo della commedia, trattatello in laude d’ALIGHIERI (si veda), lettura in Santo Stefano, difese con tanto calore il suo ammirato poeta di tutte le accuse. E quando l'intemperante e intollerante umanista lancia contro Alighieri il titolo di poeta da  calzolai, Rinuccini risponde osservando che gl’umani fatti dipigne in volgare più tosto per far più utile a suo'cittadini che non farebbe in latino, e affermando ch’il volgar rimare è molto più malagevole e meritevole che'1 versificare litterale. Ser Domenico di maestro Andrea da Prato anda più in là. dicendo che esso volgare nel quale scrive Dante è più autentico e degno di laude che il  latino e'1 greco ch’essi hanno. Dopo questo stadio acuto della questione i giudizi s'andaron facendo più miti. E quegli stessi che vi partecipano d’avversari del poeta, finirono coll'ammirarlo: Bruni, p. es., che dichiara ne' noti dialogi ad Petrum Histrum, di pensarla come Niccoli, scrive contro questo 1'oratio in nebulonem maledicum e la vita di Dante e di Petrarca. Il  Eilelfo  non  isdegna  leggere tutte le domeniche al popolo la commedia. S' intende, anche ora detrattori non mancano, e Filelfo stesso dove purgare il poeta degli spregi d'ignorantissimi emuli. Ma ormai l'umanesimo trionfante poteva guardar la passata  letteratura senz'inimicizia, avvicinarla, ammetterla: il certame coronario fu pos- Il dissidio, s'intende, era più apparente che reale, era più nella mente de'  dotti colpita dall’esteriorità e imbevuta di pregiudizi che non nel fatto: quel latino e quel volgare sono legittimi prodotti dello spirito italiano, sono due modi d'esprimersi che apparentemente designano una doppia serie di spiriti diversamente conformati; ma non era né poteva esser cosi. Era un'età di transizione, e come tale presenta i suoi contrasti, che sembrano e sono più stridenti  quando il nuovo irrompe colla sfrenatezza e l'intemperanza che gli è consueta. Negli stessi singoli individui s’avvertono apparenti discordanze: anche nei tre maggiori non mancano a proposito di questa stessa questione, del riconoscimento cioè del volgare: semhrano contraddirsi, sembrano oscillare, ma in realtà essi son sempre d'accordo e coerenti con sé stessi e coll'età. Così avviene  per Bruni e per Niccoli: il primo muove dal latino per andar verso il volgare; il secondo dagl’entusiasmi pel volgare che gli fanno imparar a memoria la divina commedia, passa agli oltraggi contro il poeta divino. Poi tutta la gloriosa schiera degl’umanisti accoglie in sé latino e volgare, e Alberti,] sibile appunto, perchè le ire sono sbollite, e il volgare poteva presumere di misurarsi col  latino. È appunto, cred'io, per questi raffronti istituiti senza fiere opposizioni, se non in amichevole accordo delle parti contendenti, che le discussioni, che dovettero derivarne, poterono avviarsi a qualche conclusione utile; ora era proprio di lingua, che si poteva parlare, indipendentemente dalle persone e dalle dottrine poetiche. Il fatto è che appunto di questi tempi ha luogo, comunque  originata, la già accennata controversia di Biondo e di Bruni, donde abbiam visto uscire il concetto della regolarità grammaticale del volgare, concetto veramente rivoluzionario rispetto a quello che si aveva prima della grammatica. E coll'implicita affermazione della possibilità della grammatica del volgare, sorgere la grammatica. Anzi  ci fu anche qualcosa di più che quell'affermazione;  Landino, nell'orazione tenuta incominciando a leggere i sonetti di Petrarca, accenna esplicitamente al bisogno di scoprire e rissare le regole grammaticali del volgare, intorno appunto agl’anni in cui una mano stende la prima grammatica della lineria italiana. Poliziano,  Lorenzo, Sannazaro son glorie di tutt'e due le letterature. é Medesimamente, quando si parla dello scadimento della  lingua volgare, s’adopera un termine improprio, pelle ragioni che non importa ripetere. Per quel che concerne poi la copia della  produzione, basta, pella poesia, vedere il volume di Flamini, La lirica loscatia anteriore ai tempi del magnifico, Pisa, e pella prosa, quel che ne discorre Baco,  nel libro Prosa e Prosatori, Palermo, al qual volume rimando pell’abbondanti notizie bibliografiche  concernenti i rapporti tra il latino e il  volgare. E pell'interesse onde fu proseguita la tradizione nazionale, basta pensare alla lettura di Dante, al circolo di Coluccio, a quello del paradiso degl’Alberti, alle conversazioni del convento di  S. Spirito, all’improvvisazioni de'canterini in S. Martino, alle radunanze di  S. Maria  del Fiore, all'ufficio dell'araldo della  signoria, all'opera letteraria  de'giudici e notai della cancelleria, al circolo della bottega di Calimala, a quello della bottega del Bisticci, all’accademia senese, agl’Orti, e, in genere, all’esercitazioni poetiche mantenute tra le faccende giornaliere della vita, nelle cancellerie, nelle case signorili, nei ritrovi, ne'fondachi. In Corazzini, Miscellanea di cose inedite o rare, Firenze. LANDINO (si veda) è eletto professore pella poesia e l'oratoria. Ma il caso rimane isolato appunto perchè ormai il movimento a favore del volgare fu così intensificato, che non ci fu il tempo perchè la via segnata dalla grammatichetta vaticana potesse essere ila altri battuta. Si sa che dopo l'anno del certame, L’ITALIANO anda guadagnando sempre maggiori sim-[Avemmo tentativi parziali d’ortografia, e, anche più particolari di punteggiatura. Onesta precedenza nella costituzione di regole ortografiche e di punteggiatura ebbe due diverse cause, oltre quella del dissidio tra il latino e il volgare: le esigenze create dall'invenzione dell'arte della stampa, e il gusto che il classicismo veniva sempre più raffinando e che voleva dimostrare anche nei minimi particolari della scrittura. Per tale rispetto il costituirsi di  questa parte della grammatica in norme speciali era un avviamento di progresso, perchè moveva dal bisogno sentito dall'artista di conservare alla sua parola tutta quella vita o la parte di quella sua vita di cui egli aveva coscienza. È, al proposito, della  massima  importanza il vedere quello che recentemente s'è  scoperto praticasse  PETRARCA (si veda) in armonia con una teoria quasi  certamente sua nello stendere in definitiva forma il suo canzoniere, egli che da quel grande umanista che era e artista di squisitissimo sentimento, il più squisito che noi avemmo, ben è in grado d’avvertire le più impercettibili sfumature d'accento e di suono ne'suoi schietti e luminosi fantasmi. Egli, oltre il suspensivus  (/), la nostra  virgola, il colon  (.), il nostro punto, l' interrogativus  anche talora in forza d'esclamativo f., il nostro interrogativo, adopera per speciali atteggiamenti di pensiero DUE ALTRI SEGNI speciali: un punto sottostante a una virgola (.'), simile nella forma al nostro esclamativo, pella clausola non chiusa  nell’INTENZIONE (vide Grice, “I KNOW vs. I know” -dello scrittore – R. M. Hare sub-atomic particles of logic; e un punto attraversato da  una virgola (/), per esprimere un'idea  enfatica – cf. Grice on stress - di particolare interesse per lui. Do un esempio del primo segno. Da be rami scendea dolce nella memoria. Una pioggia di fior sovral suo grembo. Ed ella si sedea  Humile  7  tanta gloria couerta già de lamoroso nembo. Qual fior cadea sul lembo. Qual sulle trecce bionde Choro forbito e perle  Eran quel dì  a vederle.   Ed ecco un esempio del secondo. Voi cui fortuna a posto in mano il freno delle belle contrade Di che nulla pietà par che vi siringa. Codesti segni, che si trovano adoperati anche nel vat. hit., contenente il bucolicum cat'tnen e nel vat. lat., contenente  il de sui ipsius et multorum ignorantia, corrispondono perfettamente a quelli di cui si discorre in un’ars punctandi, attribuita a PETRARCA,  e che questi avrebbe esposto in una lettera a Salutati in risposta a un quesito di lui. L'edizione è fatta a Lipsia con i tipi d’Arnaldo da Colonia, e comprende tre opuscoli riuniti certo per uso scolastico: Il modus epistola/idi di Saphonenn, l'ars patie e aiuti da parte de'dotti, e dalla Toscana il moto si propaga con molta rapidità nelle altre regioni d'Italia, specie nel Veneto, dove scrissero o  insegnarono le regole della lingua volgare Augurello e Gabriello, e punctandi di Petrarca, e il Dyalogus de arte punctandi di Giovanni de lapide. Società filologica  romana, iI canzoniere di Petrarca riprodotto letteralmente dal cod. vat. lai., coti tre foto-incisioni, cur. Modigliani, in Roma, presso la Società. Ili, Prefazione. Per altro, devesi osservare che questi trattatelli di ars punctandi,  come altri d'altro argomento affine, quale il trattato De aspiratione di Pontano, erano dettati non in servizio del volgare, ma specialmente in servizio del latino. Il volgare v’entra in ispecie pelle varietà che veniva offrendo rispetto al latino, e l’osservazioni erano poi più o meno seguite dai nostri grammatici del volgare. P. es., Fortunio ci dice. Come che il dottissimo Pontano nel suo  trattato d'aspiratione dice, la pre-posizione di questa lettera g  a'vocali  [come  in Giano, gioco, Giove] nella volgar lingua esser processo da barbari: ma, la Tosca pronunciatione seguendo, a me par che vi si convenga. Se non s’ebbero speciali trattati ortografici, non manca peraltro chi nelle trascrizioni seguisse un sistema determinato di pronunzia. Mi basti citare 1'esempio messo in  luce da Rajna, Osservazioni fonologiche a proposito d’un ms. della  Magliab., il libro della storia di  Fioravanti, in  II  Propugu., Dell'insegnamento di Trifon  Gabriele, autore d'una Institutione della grammatica volgare, uno de'grammatici e critici più riputati, e chiamato il Socrate di quella età, Sanctis, Storia, ci lascia notizia in uno de'suoi dialoghi Speroni, dove introduce a parlare de'  propri studi Brocardo. Questo nostro buon padre primieramente mi fa noti i vocaboli, poi mi die regole da conoscere le declinazioni e coniugazioni di nomi e verbi toscani, finalmente gl’articoli, i pronomi, i participii, gl’avverbi e l’altre parti dell'orazione distintamente mi dichiara. Tanto clic accoltein uno le cose imparate, io ne composi una mia grammatica con la quale scrivendo io  mi reggevo. In Sanctis. Per ogni notizia riguardante  Augurello, Gabriello e altri, rimando al cit. libro di Cian, Un  decennio ecc. Per Augurello, in particolare, Serena, Attorno ad Augurello, Treviso, e Pavanello, Un maestro: Auguralo, Venezia. 11  P. non sa dirci  nulla se  l'A. scrive la grammatica; ma afferma l'esistenza dell'insegnamento a Padova, a Venezia, a Treviso, e dà altre  indicazioni importanti circa uomini e cose di questo periodo e di quanti sono  in  relazione con Bembo. Bembo anda meditando quelle che poi divennero le sue celebri prose, mettendo  insieme, a richiesta d'una sua amica, un libretto di Votazioni. La grammatica ormai cade sotto il dominio della poetica del ri-nascimento e si sottopone al principio dell'imitazione: la qualità di Toscano  non era più necessaria per occuparsi autorevolmente ed efficacemente del volgare, che veniva a esser considerato come lingua morta, e come tale studiato e regolato nella grammatica. E senza negare che pur in Toscana le cure spese intorno ad esso né s'arrestano né s'affiochirono, che anzi troveremo non pochi tra i Toscani escogitatori di concetti e di riforme veramente originali, pure  il movimento si svolge segnatamente fuor di Toscana, almeno nei rapporti della compilazione scritta delle regole. Ci basta il ricordare che a confessione stessa di Bembo, sono alquanti che scriveno della lingua volgare. Codesti dovevan esser certamente fuori di quel circolo cui egli dirige il manoscritto delle sue prose e che era composto di Trifon Gabriele, suo principale corrispondente,  d’Augurello, di Tiepolo, di Valerio, di Ramusio e di Navagero. Chi fossero non è ben chiaro, ma nella mente di Bembo dovevan esser con ogni probabilità, oltre il Calmeta, che accusa di plagio,  Fortunio, Liburnio,  Colocci. Se tutti costoro insegnassero o scrivessero, come Augurello e Trifone, regole della volgar lingua, non sappiamo; come non sappiamo se e come si concretassero  l’osservazioni della lingua che, secondo la testimonianza di Trissino, sarebbero andati facendo Dolfin, Fracastoro, Giulio Su Calmeta  v. specialmente  Rajna,  La lingua cortigiana Anche a Colocci sono attribuite d’Ubaldini regole della lingua, che però dovrebbero essere state confuse, come ben suppone Cian, non tanto col vocabolario, che effettivamente esiste nei due codd. vaticani,  sì bene coll’annotazioni su varii autori volgari e latini o  colla Colleclio vocum Petrarchae et aliorum, die realmente esistono ancora  Oggidì fra i codici vaticani. Per Colocci,  Rajna,  recens. cit. del libro di Belardinelli, nella quale  -ohm anche messi a profitto due altri scritti riguardanti Colocci, l'uno di Neri, Nota sulla letteratura cortigiana del Rinascimento, in Bull. il. di Bordeaux, e  l'altro di Debenedetti, Intorno ad alcune  postille di A. C, in  Zeit. f. rom. Philol.. 4S  Sforici  della  Grammatica  Camillo, e quel Amaseo di cui, mentre pronunzia una gonfia orazione a BOLOGNA in difesa del latino, ormai detronizzato, si sa che spiegava al proprio figliuolo e a un  altro scolaro le regole della volgar Ungila, e l'altro gruppo di letterati di cui ci tiene parola Dolce nelle  sue Osservazioni, Cappello, Veniero,  ZANE (si veda), Gradenigo, Baroer,  Amalteo,  ecc. – TUTTI VENETI. Ma se non tutti sono stati intenti a scriver e compilar grammatiche, di cose grammaticali certo s'occupano e molto s' intendevano, specie coloro a'quali Bembo richiede l'opera di correttori e di consiglieri, e, per tornare in Toscana, i frequentatori di quegli orti Oricellari, alle  cui discussioni presero parte, tra gli altri, TRISSINO (si veda), che vi espone le sue dottrine ortografiche, e il grande segretario fiorentino che bolla d'inonestissimi i seguaci di Trissino, sostenendo che quella tale lingua curiale non  esiste se non in quanto il fiorentino de'sommi si sarebbe imposto all'uso letterario di tutta Italia, arricchito nel vocabolario, ma invariato nella grammatica,  e che,  primo Per una grammatica  di Camillo  v. più  innanzi. Zambaldi,  Delle teorie ortografiche in Italia, estr. dagl’Atti del R. Istituto veneto, Venezia. Sensi  (M.  Claudio  Volo/nei e le controversie sull'ortografia  italiana, non è disposto a cedere la priorità e la maggior importanza del movimento grammaticale toscano di contro a quello delle altre regioni d'Italia, e raccomanda che  questo punto sia meglio riveduto. Egli anche a parer mio ha perfettamente ragione, (pianilo parla d’un interessamento dei Toscani vivo, continuo e intenso versoli loro idioma, che manifestano specie in radunanze e ritrovi, nello sforzo di parlarlo meglio che  possono; ma in fatto di produzione di grammatiche, fatto concreto e accertabile e accertato quella vaticana è l'eccezione che ha  il valore che abbiam visto il posto d'onore spetta a non toscani. Quella stessa testimonianza di Pazzi quel che noi ridiente diciavamo, loro si sono messi a far sul serio indica la coscienza che di questo fatto avevano i toscani; e vedremo che fino a Giambullari, la Toscana non ebbe un vero e proprio grammatico del volgare, e quando i Toscani vi posero mano tu proprio anche per un certo  sentimento di vergogna che li punse nel vedersi legiferare la loro lingua dagl’altri – “which reminds me of Otto Jersperson!” H. P. Grice. Su gl’Orti, Scott, The Orti Oricellari, Firenze. Pella composizione del Dialogo intorno alla  lingua di Machiavelli, v. Rajna, in  Rend. d. Acc. d. Lincei, fra tutti, intuì il valore dell'elemento sintattico nella  lingua, come fecero poi, tra gli altri, il   Martelli e Gelli. Tutto questo è detto per dimostrare che, quando Fortunio pubblica le sue regole, la necessità dello studio grammaticale del volgare era largamente  riconosciuta, sia come effetto della sorta coscienza dell'importanza della letteratura, sia in tanto in quanto a parlar bene nel patrio idioma occorr, in ordine al canone dell' imitazione formulato dal classicismo, osservare la  regolarità de'nostri sommi. Quando Fortunio pubblica le sue regole, due fatti si maturano, la vittoria definitiva del volgare sul LATINO e il comporsi della dottrina dell'imitazione in una salda unità di principi. Anzi  esse ne sono la  prima comune manifestazione. Primo e principale effetto di quella dottrina è lo studio della forma esteriore così nella  letteratura antica che nella moderna, elevata ai medesimi onori di quella: della forma nessun aspetto fu  trascurato,  parendo essa  quasi tutto il meglio  del- [Regole grammaticali della volgar lingua di  i/tesser  FORTUNIO (si veda), reviste, e con somma diligentia corrette. Aldus. La prima edizione ne è fatta in Ancona per Vercellese. In poco più di trentanni sono ristampate diciotto volte. Un'altra edizione da T. consultata  è quella di Vinegia, per Bindoni e Pasini compagni.  Una  bibliografia de’nostri antichi grammatici s’ha nella Biblioteca dell'eloquenza italiana di FONTANINI (si veda) annotata da Zeno, Venezia. Di grammatici s’occupa di proposito anche Tiraboschi nella sua storia della letteratura italiana, Roma. Grammatici italiani in volgare;  Contese ortografiche, sul titolo della  lingua, ecc.;    GRAMMATICI FILOSOFICI TOSCANI. Notizie a loro relative si possono raccogliere in tutte le storie letterarie: T. cita per tutte quella scritta d’una società di professori e edita per cura di Yallardi, ma ricordando in particolare la storia di Canello, Milano. Ai meriti di Sanctis anche verso la  storia, l'opera d'arte,  ivi  scoprendosi tutto l'artifìcio dello scrittore: quindi sceltezza di lingua,  correzione, regolarità, eleganza, armonia nel disegno totale e in ogiir-rniirimo particolare sono le doti volute alla perfezione d'un' opera: si discusse dove e come studiarle: sono studiate, poi legiferate, codificate in altrettanti particolari trattati: grammatiche, vocabolari, disamine linguistiche, metriche, rettoriche: l'osservazione è tradotta in legge: sorge così il purismo  classico: l'erudizione  cede il passo all'estetica. Di queste particolari trattazioni, se stiamo alle date delle principali  opere  critiche, sorge prima la grammatica: che le prose di BemboT  dove, oltre la grammatica, son trattati l'effetto poetico dei diversi suoni e il valore onomatopeico delle varie vocali e consonanti, sono del 25, il De Arte poetica di Vida, dove si danno le leggi d’armonia imitativa, è del 27, la  Poetica di Trissino, che discorre di lingua e metrica toscana, è del  29, del 35 è il  primo vero vocabolario toscano,  al  39  risale il tentativo di Tolomei d'introdurre i metri classici nella poesia volgare ecc. Se ciò non dipese dal caso, la ragione è da ricercare nel fatto che, come la regolarità grammaticale è la caratteristica che prima colpisce l'occhio del lettore e dello studioso ed è, diremo,  la dote essenziale della forma esteriore d'una scrittura, così è o sembra più  facile e nel tempo stesso più utile e necessario il codificarla. La grammatica inoltre, e questa della  grammatica ho già accennato, e torna a discorrerne direttamente a suo luogo. Notizie di grammatici s’hanno, naturalmente, in tutti i libri che trattano la questione della lingua: bastera che T.  ricordi qui: Caix, Die  Streitfrage ilber d. ital. Sprache, neh' Italia dell' Hillebrand; Ovidio, Le correzioni ai promessi sposi e la questione della lingua; Napoli; Vivaldi, Le controversie intorno alla nostra lingua; Catanzaro, Foffano, Giorn. si. d. leti. il., dove si tien conto de'grammatici con molta diligenza; Luzzatto, Pro e contro Firenze, Sensi, Pass. Bibl.; ora,  Belardinelli, La questione della lingua. Un  capitolo di storia della letteratura italiana. Da Dante a  Muzio. Con una fonte,  Roma, cit.  receus.  Rajna Su i primi grammatici della lingua italiana è scritto, oltre che da Morandi  già  cit., da Ferrari,  Rivista europea. Anche nel Canone è la prima scienza. è ragione forse di maggior peso che non la precedente, è in intima connessione con ognuna delle trattazioni che possono esser  condotte anche separatamente; perchè è linguistica, se indaga l'origine e lo sviluppo della lingua che studia, è vocabolario in quanto registra, nei paradigmi e negl’esempi, molte serie di  parole, è storia dove tratta d'etimologia, è metrica, e, fino a un certo segno anche  rettorica, specie dove discorre dell'uso e della collocazione delle parole e delle figure grammaticali. Lo sguardo del  grammatico, insomma, può spingersi in ogni aspetto della  forma, s’è largo e profondo. L'opera del nostro Fortunio, infatti, di cui abbiamo i primi due libri soltanto, l'uno del dirittamente parlare, morfologici, l'altro del correttamente scrivere, ortografia, comprende, secondo quant'egli afferma nel proemio, in altri tre libri, la trattazione delli più riposti vocaboli, etimologia, stilistica,    della costruttione varia delli  verbi, sintassi, e della volgare arte metrica, svolgendo così tutta o quasi la materia grammaticale, senza dire che nel primo e secondo libro sono spesso discusse delle questioncelle di critica ermeneutica, quasi saggio d'un'ampia appendice, che pure aveva tracciata nel suo disegno. Ad ogni modo, questo primo tentativo d'abbracciar tutta la forma della lingua  che s’offre ora allo studio e alla imitazione, rivela il calore onde la critica s'applica alla letteratura. Ma, in generale, all'elaborazione della grammatica volgare, com'è  già avvenuto per quella vaticana, presede il modello della latina. Dei grammatici latini quelli che conservano fino al ri-nascimento la maggiore autorità, sono Donato,  ch'alla prima arte volle pella mano, e Prisciano  Cesariense, della  turba grama dantesca: Donato specialmente, nell’Ars minor, pella prima istituzione grammaticale, e Prisciano, il più completo fra tutti, pello studio più elevato; ma il ri-nascimento sente il bisogno d’adattarli per i tironi riducendoli e integrando l'uno coll'altro. Un primo tentativo di riduzione ha eseguito per tempo Zonino da Pistoia, che è il primo a imporre il nome di  Reguìa~e~?i\\%. grammatica  latina; ma non ha molta  fortuna. Assai più largamente adottati sono invece Guarino e Perotti. Quest'ultimo gode ancora il vivo favore dei discenti, come vedremo sulla  testimonianza del Conte  di  S.  Martino, che lo copia letteralmente nelle sue osservazioni di grammatica toscana. T. da in nota, per comodità  dei  lettori e per evitarsi continui raffronti e  ripetizioni, un'indicazione sommaria delle due arti di  Donato e  dell’instituzioni di Prisciano, valendosi delle loro stesse  parole: di Prisciano, che non si presta pella sua abbondanza di  Ecco lo schema della Donati De partibus orationis ars minor, ed. Kiel, Lipsiae. Partes  orationis VIII – I nomen II pro-nomen III verbum IV adverbium V participium  VI coniunctio VII praepositio VIII interiectio.Nomen est =df pars orationis cum casu corpus aut rem  proprie communiterve SIGNIFICANS (Grice ; ‘shaggy.’) Nomini accidunt, sex: qualitas, proprium – FIDO --,  appellativum – shaggy conparatio positivo comparativo supperlativo, genus, maschile, femmenile commune promiscuo numerus singulare duale – ‘ambedue’ --, plurale, figura, simpice, conposta,  casus VI. Pro-nomen est =df pars orationis – Grice, “Someone, I, is hearing a noise, quæ pro nomine posita tantunden paene SIGNIFICAT PERSONAMque – Grice, “PERSONAL IDENTITTY: “Something is hearing a noise” -- interdum  recipit.  Pronomini accidunt, sex) :  qualitas, genus, numerus, figura.   Verbum est (=df) pars orationis cum tempore et persona sine casu aut agere aliquid aut pati aut neutrum SIGNIFICANS. Verbo accidunt septem qualitas in  modis indicativo imperativo ottativo coniuctivo infinitivo impersonale. In formis perfecta meditativa frequentativa inchoativa. Coniugatio PRIMA,  AM-o, -as, -bo, -bor;  SECONDA,  doceo;  TERZA,  lego genus attivo passivo neutro deponente com.ì; numerus f singolare, duale, plurale  figura  isimplice composta tempus praesens,  praeterito imperfetto perfetto plusquamperfectum;  futuro),  persona prima – Grice, “I am hearing a noise”, SECONDA TERZA “Someone is hearing a noise).   Adverbium – e. g. ‘non,’ compostodi ‘ne’ e ‘on’ – est =df pars orationis, quæ adiecta verbo SIGNIFICATIONEM eius explanat atque inplet. Adverbio accidunt tria: significano loci temporis numeri NEGANDI (‘non’) affirmandi demostrandi optandi hortandi ordinis interrogandi similitudinis qualitalis quantitatis dubitandi personæ vocandi respondendi separandi iurandi eligendi congruendi prohibendi eventus comparandi comparatiti figura. Participium est =df. pars orationis partem  capiens  nominis,  partem  verbi;  nominis genera et casus, verbi tempora  et  SIGNIFICATIONES,  utriusque numerimi et figuram. Participio accidunt sex: genus casus tempus  SIGNIFICATIO  numerus  figura. Coniunctio est =df. pars oratiois adnectens  ordinansque  sententiam. Coniuctioni  accidunt irta: potestas coppulativa – e -- disgiunctiva – o -- expl. – ‘se’ --,  caus., ration. figura ordo praep., subs., coiti. Prae-positio est =df. pars orationis quæ praeposita aliis  partibus orationis SIGNIFICATIONEM casum aut conplet aut mutat aut minuit. Praepositioni accidit unum: casus. Interiectio est =df. pars orationis SIGNIFICANS MENTIS [ANIMAE] AFFECTUM VOCE INCONDITA. Interiectioni accidit unum: SIGNIFICATIO (la  intelligimus cum multis aliis etiam comprehensivum, verbale, principale, adverbiale. de comparativis et sup. et eorum diversis  extremitatis: ex quibus positivis et qua ratinili formantur; de diminutivis: quot eorum species, ex quibus declinationibus nominimi, quomodo formantur de denominativis et verbalibus et part. et  adv.:  quot eorum species, ex quibus primitivis, quomodo nasenntur. de  generibus  dinoscendis  per  singulas  terminationes;  de  nunieris;  de  figuris  et  earum  compage;  de  casti.   Genera: masculinum, femininum, commune et neutrum vocis magis qualitade quam natura dinoscuntur, quae sunt sibi contraria, epicœna vel promiscua. clnbia. Numerus dictionis forma, quae discretionem quantitatis facere potest. singularis vel   pluralis. Figura  quoque  dictionis  in  quantitate  comprehenditur:  vel  eiiim  simplex,   vel  composita,   vel  decomposita. Casus  est  declinatio nominis vel aliarum casualium dictionum quae fit maxime in fine. de nominativo casu per singulas extremitates omnium nominnm, tam in vocales quam in consonantes desinentium, per ordinem; de genetivorum  tam  ultimis  quam  penultimis  syllabis,  de  ceteris  obliquis  casibus,  tam  singularibus  quam  pluralibus, de  verbo  et  eius  accidentibus. VERBVM est  pars  orationis  cum temporibus et modis, sine casu, agendi vel patiendi SIGNIFICATIVM. accidunt octo. Significatio sive genus, tempus, modus, species, figura, coniugatio et persona cum numero, quando  afifectus  animi  definiti. Significatio: activus, passivus, neutrum (absolutum i, deponens. tempus: praesens, prateritum et futurum: praeteritum in tria, imperi"., perf.,  plusquamp.   modi  sunt diversae inclinationes animi, varios eius affectus demonstrantes. sunt autem quinque: ind. sive definitivus, imp., opt., subiun., infinitus. ind.us, quo indicamus vel  definimus, quid agitur a nobis vel ab aliis, qui ideo primus ponitur, quia perfectus est in omnibus tam personis quam temporibus et quia ex ipso omnes modi accipiunt regulam et derivativa  nomina sive verba vel participia ex hoc nascuntur, et quia primo positio verbi, quae videtur ab ipsa natura esse prolata, in hoc est modo,  quemadmodum in nominibus est CASVS NOMINATIVS, et quia substantiam sive essentiam rei SIGNIFICAT, quod in aliis modis non est. neque enim qui imperat neque qui optat nequi qui dubitat in subiunctivo substantiam actus vel passionem significat, sed tantummodo varias animi voluntates de re cavente substantia. Species sunt verborum duae, primitiva et derivativa, quae inveniuntur fere in omnibus partibus orationi. diversae species inchoativa, -sco, meditativa, -urio, frequentativa, desiderativa, et aliæ a nominibus  (patrisso) et a verbis  (albico). Impersonalia Figura quoque accidit verbo, quomodo  nomini. Coniugatio est consequens verborum declinatio. Sunt igitur personae verborum tres. Numerus accidit verbis uterque, quomodo et omnibus casualibus, singularis, pluralis. de regulis generalibus omnium coniugationum. de praterito perfecto. de participio. de  pronomine. est pars orationis, quae pro nomine proprio  uniuscuiusque  accipitur  personasque  finitas  recipit.   accidunt  sex:  species,  personae,  genus,  numerus,  figura, casus. species: primitiva derivativa, persona prima et secunda persona singula habent pronomina, tertia sex  diversas voces. demonstrativa, hic, relativa, is, praesens iuxta, iste, absens vel longe posita, ille, demonstrativa et relativa. genus: m., f., n. figura: s., e. numerus: s., pi. casus: quemadmodum  nominibus. De præpositione. Apolloni auctoritam in omnibus    sequendam  putavi. pars orationis indecl., quae prep. aliis part. vel appositione vel comp. cognationes de potestate separatae praepositiones vel acc. vel  abl. adiunguntur. De adverbio et interiectione. Pars orationis ind., cuius significatio verbis adicitur. accidunt species,  significatio. figura species prim. der. conp. sup. dim. significatio  adverbiorum  diversas  species  liabet tempus locum dehortativa confirmativa figura: simpl. conp. deconp. iurativa dub. discretiva ord. intentiva comp. super,  etc. Interiectionem  Graeci inter adv. ponunt, quoniam haec quoque ve]  adiungitur  verbis  vel  verba  ei  subaudiuntur,  ut  si  dicam papae,  quid  video?',  vel  per  se  'papae',  etiamsi  non  addatur  'miror',  habet  in  se  ipsius  verbi  significationeni.  quae res maxime fecit, Romanorum artium scriptores separatim liane partem ab adverbiis accipere, quia videtur affectum habere in se verbi et plenam modus animi significationem, etiamsi non addatur verbum, demonstrare. interiectio tamen non  solum quem  dicunt græci oxerMao/uóv significat, sed etiam voces, quae cuiuscumque  passionis  animi  pulsa  per  exclamationem  intericiuntur.  habent  igitur  diversas  significationem:  gaudii,  doloris, timoris, etc  optime  tamen  de  accentibus  earum  docuit DONATO E PRISCIANO, quod non sunt certi, quippe, cura et abscondita voce, id est 6r non piane expressa, proferantur et prò affectus commati qualitate, confunduntur in eis accentus De coniunctione. e. est pars orationis ind. coniunctiva  aliorum o. quibus  consignìflcat, vini vel ordinationem demonstrans: vim, piando simul essires aliquas significat, ut et pius et fortis fnit Ænaeas; ordinem,  quando  consequentiam aliquarum  demonstrat  rerum,  ut si ambulat, movetur. accidunt: figura et species, quam alii poteitatem nominant, quae est in significatione coniunctionum, praeterea ordo. figura: s., e. species:  copulativa,  continuativa, subcontinuativa adiunctiva causalis effectiva approbativa disiunctiva subdis. disertiva abl. praesump. advers. abneg. collect. vel rationalis dub. completiva ordo: praeponuntur. subponuntur. de constructiono  sive  ordinatione  partium orationis, inter se. Quoniam  in  ante  expositis  libris de partibus orationis in plerisque Apolloni auctoritàtem sumus secuti, aliorum qtwque sive nostrorum sive Graecorum non intermittentes necessaria et si quid ipsi quoque novi potuerimus addere, nunc quoque eiusdem maxime de ordinatione sive constructione dictionum, quam Graeci ovvra^iv vocant, vestigia sequntes, si quid etiam ex aliis vel ex nobis congruum inveniantur, non  recusemus  intercipere.  necessariam  ad  auctorum  expositionem.   est oratio comprehensio dictionum aptissime ordinatarum, quomodo syllaba comprehensio literarum aptissime coniunctarum, et quomodo ex syllabarum coniunctione dictio, sic etiam ex dictionum coniunctione perfecta oratio constat. Exempla: per abundantiam: literae, relliquias, syllabae, tutudi, dictionis, me, me adsum qui feci; literae prorfest, syllabae, inafoperator, dictionis, sic ore  locuta est: per defectionem: literae, audacter, syllabae, commovit, dictionis, urbs antiqua fuit quam, Tyrii tenuere  coloni. Quomodo autem literarum rationem vel scripturae inspectione vel aurium sensu diiudicamus, sic etiam in dictionum ordinatione disceptamus rationem contextus, utrumque recta sii an non. nani si incongrua sit, soloecismum faciet, quasi elementis orationis inconcinne  coeuntibus, quomodo inconcinnitas literarum vel syllabarum vel eis accidentium in singulis dictionis facit barbarismum. sicut igitur recta ratio scripturae docet literarum congruam iuncturam, sic etiam rectam orationis compositionem ratio ordinationis ostendit: dementa, syllabae, dictiones, orationes praeponuntur et postponuntur, dividuntur et coniunguntur, transmutantur, aliae prò  aliis accipiuntur. Solet quaeri causa ordinis elementorum, quare a ante b et cetera; sic etiam de ordinatione casuum et generum et temporum et ipsarum partium orationis solet quaeri. restat igitur de supra dictis tractare, et primum de ordinatione,collocatio, partium, quamvis quidam suae solacium imperitiae quaerentes aiunt, non oportere de huiuscemodi rebus quaerere, suspicantes  fortuitas esse ordinationum positiones. sed quantum ad eorum opinionem, evenit generaliter nihil per ordinationum accipi nec contra ordinationem peccari, quod existimare penitus stultum. si autem in quibusdam concedunt esse ordinationem, necesse est etiam omnibus eam concedere, sicut igitur apta ordinatione perfecta redditur oratio, sic ordinatione apta traditati sunt a doctissimis  artium scriptoribus partes orationis, cum primo loco nomen, secundo verbum posuerunt, quippe cum nulla oratio sine iis completur, quod licet ostendere a constructione, quae continet paene omnes partes orationis. a qua si tollas nomen aut verbum, imperfecta rit oratio; sin autem cetera subtrahas omnia, non necesse est orationem deficere, ut si dicas: idem homo lapsus ben bodie concidit, en omnes insunt partes orationes ausane comunctione, quae si addatili, aliarti orationem exigit. Possumus autem et amplioribus rationibus de ordinatione partium demonstrare; sed quia non de ea propo sitimi nobis est, sumciat hucusque dicere. Quaestio quare interrogativa dictionum in duas partes orationis solas concesserunt, id est in nomen et in adverbium: an haec etiam approbatio est, principales duas esse partes orationis nomen et verbum, quae quando in notitia non sunt, habere de se interrogationem frequenter  accipiendam?  Ouoniam de bis, quae loco articulorum accipi possunt apud Latinos in supra dictis ostendimus et de generaliter infinitis vel relativis vel interrogativis nominibus, quae relationis causa stoici inter articulos ponere solebant, et de adverbiis, quae vel ex eis nascuntur vel eorum  diversas  sequuntur  SIGNIFICATIONES, consequens esse existimo, de pronuininimi quoque constructione disserere. Partes orationis ad aptam coniunctiones ferri debent. per figurarti, quam Graeci à.kkoiòxt\xa vocant, id est variationem, et per nQÓÀrjynv vel  ovMeipiv, id est praeceptionem sive conceptionem, et per geBypia, id est adiunctionem et concidentiam, quam  ovvé/ATtxcùOiv  Graeci  vocant,  vel  procidentiam,  id  est  àvrwirwow, et numeri diversi et diversa genera et diversi casus et tempora et personae non solum transitive et per reciprocationem. sed etiam intransitive copulanti, quae diversis auctorum exemplis tam nostrorum quam Gra osservarle, a insegnarle, a compilarle sono ormai una schiera, e il fine questo conta ancor più è in tutti unito: trovar i principi onde condur con profitto lo studio e la 1 Vó stretto; per la s dolce propose il 0, per il eh seguito da i atono il  k, per il suono gì la grafia Ij, lasciando il e e il g col suono gutturale dinanzi a tutte le vocali, e il eh e gh pel palatale, e il digramma se. Sicché il suo alfabeto, quale ci è messo sott'occhio nella Grammatichetta, presenta 33 rappresentazioni: a b e d e f g eh e gh k i 1 j m nopqr^stouz v § x y th ph h, delle  quali  fa  28 SIGNIFICATIV, cioè,  rappresentative  degl’elementi  della  voce,  V  oziose -- x, y, ph, th, h -- benché  “h” non  lo  consideri  una  *lettera*,  ma  un  accento aspirato.  Le SIGNIFICATIVE distingue  in VII vocali  (aeeiocju) e 2i  consonanti.  Colle vocali  forma  13 dipthomgi, ai au ei eu ei ia ie ie io ico iu oi uo e un triphthngG>  (iu 99 renze e a Siena se ne fosse parlato, non mancali prove che l’attestino. Lasciando dell'atteggiamento preso contro Trissino e quant'è di personale nella polemica, e la contestata possibilità di conseguir l'intento in materia siffatta, gl’oppositori accettarono la distinzione per  Vu  e il v, quella dell',  per convenzione. Tratta poi del nome, e non va più innanzi, perchè da  lui  rivegna a noi, di  tutte le cose conoscimento, forma e sostanza. Secondo il novero e il grado, secondo che SIGNIFICA Corpo o ver Cosa, che sia d'altrui qualità  propria  o  comune,  otto  ne  sono  gli  osservamenti: Specie Qualità Comparazione Geno Novero Forma Grado e  Terminazione. Date  tutte [È  la  vera  traduzione  dell' alviariKÓv  de’greci. Trattandosi  della prima  grammatica dove si affacci  un  intendimento classificatorio – o tassonomico, i. e., non-esplicativo – adequazione descrittiva --,  credo meriti la spesa il riferire le definizioni di quest’accidenti grammaticali. Specie ee, una natia disposizione, di che che sia voce; per cui de'1 primo suo essere discernimento riesca, o soccedente dopo. Geno ee egli, uno racconoscimento dell'un sesso all'altro, dallo anziposto articolo, naturalmente tratto, o dall'autorità degli scrittori, alle genti rimase. Novero e egli, uno accrescimento di quantità, d’uno a più procedente; per terminazione distinto. Forma ee ella, uno racconoscimento della parola sempiamente detta, o congiunta e apposta altrui. Grado fia egli, un certo movimento della  variazione,  ne  '1  Novero, racconoscimento per anziposto articolo sempiamente  addetto, o con preposizione riposto. I casi son detti: nominativo vocativo genitivo acquisitivo causa-] guaito le relative definizioni, porge i paradigmi delle terminazioni, declinazioni, di cui fa cinque classi a; o; e;  i; Gerì, Portici, Napoli; cons. David,  Babel e infine un Notamente vocabolarietto de Nomi di che sia detto nello costui  ragionamento. La  medesima  applicazione del concetto di TRISSINO D’ORO del volgare illustre al canzoniere fa un altro curioso seguace di Bembo, il conte di  S. Martino nelle sue osservazioni grammaticali e poetiche della lingua d’ITALIA, dove lo schematismo grammaticale acquista quanto e più che nella grammatica dell'Ateneo un considerevole sviluppo. Difendendosi dall'accusa rivoltagli d'incapace, qual  nato sul confine, a osservar le regole del volgare, egli fa intendere che non occorre esser toscani per comprender Petrarca, il quale non iscrive nel puro fiorentino, ma nell'ITALICOi, che rappresenterebbe per noi quel che per i Greci la Kotvfj  òià/.EKTos(l).  Egualmente dichiara d’attenersi ai modi facili e intesi da tutti, non tolti di mezzo la Toscana, e usando anche vocaboli latini un  m. Nicolò Tani dal Borgo a  S. Sepolcro che, pur trattando della nostra lingua toscana, scrive i  suoi avvertimenti sopra le regole toscane colla formazione de’1 verbi, e variatione delle voci, non pe'toscani, tivo, Terminativo. Qualità ee, un partimento di nomi, de gl’uni agl’altri, altri fatto commone o proprio, a cose divertevoli tratto.Comparazione ee un accrescere o scemare di qualificato accidente, con anziponimento di se: per l’additioni fattone, significanti diminuzione, o accrescimento d’appellazione che sia. Terminazione, osservamento sezzaio, una fine esser diciamo, di che che sia  Appellazione; variata per gradi, et in uno de vocali pello sempre finiente; con barbari alquanti in consonante formati. I nomi son divisi in essistenti, sostantivi, e adherenti, aggettivi, shaggy. La doppia uscita è chiamata geminamente  chiostro,  -a;  calle,  -a;  martire,  -o. Delle parti del  discorso fa nove classi: nome,  pronome, articolo, dittione, verbo, partecipante, additione, avverbio, preposizione, congiuntione, interposizione: che corrispondono press'a poco alle nostre, tranne che fa una classe del participio e non dell' 'aggettivo, che fonde col nome. A questo raffronto hanno ricorso altri propugnatori dell'italiano comune, a cominciar da CALMETA, che se ne sarebbe servito per persuadere, ma indarno, la sua dottrina a TRIFONE.  Cfr.  Ra.ina,  La  lingua  cortigiana  cit.In  Venezia,  per  Giovita  Ripario. Sono lodati da Fedeli  in una sua lettera posta dietro le rime di Torelli. E infatti pell'uso a cui la destina l'autore, sono esposti con certa bravura didattica, e ricchi principalmente  di paradigmi.    S'in- [ma per quei fuori d'Italia. Un bel riscontro alla precedente offre questa dichiarazione che Citolini, autore della Tipocosmìa, fa nella sua lettera in difesa della lingua volgare: io voglio starmi nella Toscana non come in una prigione,  ma come in una bella e spaziosa piazza, dove tutti i nobili spiriti d'Italia si riducono. Né mancarono de'seguaci di Trissino più trissiniani di lui – more Griceian than Grice -- come Arezzo nelle sue osservaniii della LINGUA SICILIANA  O e Achillini  nel dialogo dell’annotazioni della volgar lingua [Arezzo, partendo dal concetto che l'antico siciliano è lingua più pulita che non sia il moderno, e tale concetto appoggia coll'autorità di Dante, scrive la  grammatica _p_er icojr^  regger questo e ridurlo all'antico splendore, sicché i siciliani  possano adoperarlo come lingua propria letteraria. Non è una  grammatica completa, perù  che io non altro fari intendo chi purgar la nostra lingua mutando alcuni palori non ben usati. Cita l'autorità di poeti siciliani viventi; ammette per necessità l'uso di parole latine e fiorentine per ragioni di stile italianizzate. E dà una raccoltina di sue canzoni per mostrare come sarebbe da scrivere, ponendo in margine il commento. dugia molto sui mutamenti di vocali in principio, nel mezzo e nel fine delle parole; dei vocaboli composti; del troncamento e dell'accrescimento. E notevole l'osservazione riguardante i participi sincopati,che sono ancor  oggi una delle caratteristiche del dialetto della regione di cui è l'autore: ingombro, cerco, scuro, inchino, desto, franco, molesto, stanco, lasso, ecc. da ingombrato, cercato, scurato, inchinato, ecc. Oggi vi si sente, p. es., 'nsénto per insegnato. La lettera è datata da Roma; ed è edita in Venezia per Marcolini  da  Forlì.  Vi  si  dice  che  il  Citolini  conversava  con  m.  Trifone;  e  che  la  lettera  trovavasi  manoscritta  nelle  mani  di Zane.  Fu  ripubblicata  in  compagnia  d'una  lettera  del  Ruscelli  al   Muzio,   in  Venezia al segno del Pozzo Osservaniii; Della lingua siciliana ecanzoni,  j  in  lo,  proprio idioma,  Arezzo,  | gititi/'  Homo, sa | ragusano. Ad instantia di  Siminara. In Missina per Spira. Annotationi della volgar lingua d’Achillino, Bologna da Bonardo da Parma e Marcantonio da Carpo dall'originale dell'Autore. Eccone un  esempio: Vinci  disdegno d'ogni amor la forza: Volsi diri: chi  cosa  Muta lo cori, e trasforma la vogla: nixuna pò mutar [Achillini loda ed esalta Dante, Petrarca e Boccaccio perchè lo meritano, e quando gl’accade volentiera  gVimita: gli piace anche il fiorentino quando è pronunziato bene, ma ritiene più corretta, in qualche parte, la comune e bolognese nostra: perchè derogar' alle più belle parole nostre non intendo, non sol alle nostre bolognesi,  ma di quale altra si voglia patria, che sono delle thosche migliori, le piglio, e le thosche abbandono. Non però di libertà  privando coloro, che thoscanamente vogliono  procedere. E con pieno sentimento della bontà della parola viva, argutamente soggiunge;  A noi ìntraviene come a coloro ch'hanno in casa bianco e ben cotto pane, e vanno in prestanza dal vicino a tuorne de'1 negro et  mal cotto. E s' argomenta rafforzare questo sentimento estetico della lingua colla ragione storica. Così preferisce Olempo ad Olimpo, perchè questi due elementi i ed e hanno sì grande insieme l'amicitia che quando quella  /  dalla romana  ovvero latina si parte per farsi volgare, ed ella in molti dittioni in e si trasforma, come in ancella da anelila; più Olempo gli fa comodo perchè rima  con tempo! E preferisce zeloso, che viene da  zelo,  -as, a geloso, perchè noi bolognesi, toscanizzando geloso,  si fa come il gentil che butta via la gentil moglie, e ne piglia una bastardella. Bologna docet dal tempo di Teodosio: dunque Bologna è la madre, dunque a Bologna la lingua volgare nostra il suo rifugio sempre mai d'aver deve, specialmente ne'1 bene, e che li figli cordialmente    ama.  Achillini  è  E lo mio cori mai forzao: nen forza: lo cori so, di lo amor Ne lo rimossi di l'antica  dogla: della sua donna,  Anzi la vidi vigurosa smorza stanti la  fidi e Foco, chi di disdegno si  ricogla, la constantia,  E la costantia: chi di novo sforza: la qual costringi la  Costringi la radici a nova soglia. radici di l'arboro di lo amori a novi effetti.  Pulejo  Ettore,  Sul più antico abbozzo  di grammatica siciliana, Atti e rend. dell' accad. dafnica d’Acireale;  e Sabbadini,  Studi medievali. Con questi criteri Achillini compone un suo poema didascalico ad imitazione del Dittamondo, intitolato il Fedele. Frati, Giorn. st. d. leti, it. Ad Achillini dobbiamo quelle Collettame grece, latine e vulgari sulla morte dell'ardente AQUILANO (si veda) in un corpo redutte, che  Ancona  illustra, Studi, e dove sono rappresentate quasi tutte le città della  pe- [l'unico che voglia parlar la propria lingua, lasciando piena libertà agl’altri, ai toscani di parlar la loro. Ed è il più logico. O meglio, chi mostra anche più buon senso in tanto variar d'opinioni e meno vaga coscienza di quel  che  sia la lingua, è Bolzani, il cui dialogo è male che non vede la luce che quasi un secolo  dopo da che era stato disteso, sotto l'impressione di dispute avvenute, presente Trissino. Lelio, uno degl’interlocutori,  a'  quali    nisola.  Non  possiam  forse  parlare  d'una  dottrina  del  volgare  illustre  dantesco  che  gli  serva  di  fondamento  ideale;  ma  nel  fatto  nulla  vieta  di  considerarlo  un  omaggio  a  tutte  le  parlate  di  Italia  che  l'Achillini  egualmente  rispettava.  Dialogo  della volgar lingua di Valeriano, Bellunese, non prima uscito in luce. In Venetia, nella Stamperia di  Gio.  Battista  Ciotti.  Fu  ristampato  dal  Ticozzi,  Storia  dei  lett.  e  degli  artisti  del  Dipartim.  della  Piave,  Belluno. La  composizione  di  questo  Dialogo,  il  secondo  dopo  quello  del  Machiavelli,  in  cui  si  riflettono  le  discussioni  sulla  lingua  che  il  Trissino avvivò  discorrendo  del  De  Vulgari  Eloquentia,  di  cui  possedeva  uno  de'  pochi  esemplari,  si  suol  riportare   (G.  Percopo,  Giorn.  st.  d.  lett.  il., cioè  a  un  tempo  di  poco  lontano  alla  composizione  del  dialogo  machiavelliano e  alla  breve  fermata fatta  dal  Trissino  in  Firenze  e  alla  probabile  visita  dell'anno successivo  alle  medesime  radunanze.  È  ben  noto  che  discussioni simili a quelle  degli  Orti  e  nelle  quali  medesimamente,  come  apprendiamo  in  ispecie  dal  Cesano,  il  trattato  dantesco  era  oggetto e  materia,  avvennero  in  Roma,  presente  anche  qui  il  Trissino,  che risiedette  colà. (Rajna,  Introduz.  eh.,  p.  L'I.  Ora,  il  Dialogo  del  Valeriano,  che,  come  ogni  scritto  consimile,  se  non  è  riproduzione  dal  vero,  è  finzione  che  nel  vero  deve  avere  qualche  radice,  a  me  sembra  che  rispecchi  assai  meglio  le  radunanze  romane  del  24  che  non  le  fiorentine  del  13  e  14.  La  scena  è  collocata  in  Roma  e  ne  sono  interlocutori  Lelio,  il  Marostica,  e  Angelo  Colotio  (il  Colocci):  e  il  Colocci  vi  riferisce  agli  altri  due  il  dialogo  avvenuto  la  sera  innanzi  in  altra  casa,  dove  egli  fu  trattenuto,  in  Roma  stessa.  Può  esser  tutta  finzione  questa  e  il  contenuto  del  riferito  Dialogo  appartenere alle  discussioni  fiorentine;  ma  l'allegazione  del  pensiero  del  Papa  e  il  richiamo  della  tirannide  che  il  fiorentinismo  aveva  impiantato  alla  capitale  e  le  macchiette  di  quei  canzonatori  fiorentini,  sono  indizi  a'  quali  mal  si  sa  dare  una  realtà  tutta  immaginaria.  Quel  che,  per  altro,  secondo  noi,  basta  a  dirimer  la  questione,  è  la  teoria  del  Tolomei  intorno  al  volgare,  la  quale  corrispondeva  perfettamente  a  quanto  il  Tolomei  veniva  pensando  e  scrivendo  appunto  in  quel  bat- il  Colocci  riferisce  il  Dialogo  avvenuto  tra  il  Trissino,  il  Tolomeij  il  Tibaldi  e  il  Poggi,  dice:  Io  non  sento  la  più  sciocca  cosa,  che  '1  parlar  toscano  da  uno,  che  non  sia  Toscano;  e  riesce  ridicolo  per  lo  più,  chi  vuol  parlar  la  lingua  d'altri,  perchè  non  può  star  tanto  sull'aviso,  che  a  lungo  andar  non  iscappi  nel  naturale, poiché  la  radice  tien  sempre  della  sua  natura    (p.  15).  Il  Marostica,  un  altro  interlocutore,  si  duole  in  modo  veramente  spiritoso  di  non  aver  assistito  al  dialogo. Dio,  perchè  non  mi  smi  io  trovato  a  questi  ragionamenti  per  poter  finalmente  risolvere, se  ho  da  parlar  con  la  mia  lingua,  o  con  quella  d'altri,  eh' è  una  compassione  il  fatto  mio,  ogni  volta,  che  ho  da  scrivere a  un  amico,  star  a  freneticar,  s' io  ho  da  usar  la  mia  lingua,  0  mandar  per  un'altra  al  macello.  Messer  Angelo,  non  si  può  più  vivere,  dapoichè  son  usciti  fuora  certi  soventi,  certi  eglino,  certi  uopi,  certi  chenti,  e  simili  strani  galavroni;  non  posso  passeggiar  per  Parione,  che  vengano  questi  giovanotti  dottarelli,  barbette  recitanti,  e  stanno  ascoltando,  quel  che  ragioniamo  insieme, e  ci  puntano  negli  accenti,  nelle  parole,  e  sulle  figure  del  dire,  che  non  sono  Toscane  senza  una  compassion  al  mondo,  ridendosi di noi, che se ben ha verno messo la barba   bianca    tagliero  24,  e  che  non  so  da  quale  altra  fonte,  se  non  dal  ricordo  delle  radunanze  romane, Valeriano  avrebbe  potuto  attingere.  E  anche  la  presenza  del  Pazzi  è  ben  significativa.  Cosicché  io  inchino  a  credere  che  questo  caratteristico  scritterello  sia  da  riferire  a  un  tempo  non  anteriore.  L'oggetto  della  disputa  che  vi  è  riferito  era  stato:    se  questa  lingua  Volgare  era  nostra,  o  d'altri,  e  se  l'era toscana,  e  di  che  paese,  e  se  si  poteva  scriver  in  volgare  altramente  che  con  forme  Toscane.  Poi  si  trattò,  se  per  Lingua  Toscana,  s'intendeva  solo  la  Fiorentina,  e  sopra  tutto  qual  convenisse  a  un  galant'homo.  La  disputa,  invece,  quale  è  rispecchiata  nel  Dialogo  del  Machiavelli,  che  da  ogni  accento  mostra  esser  vero,  è  ben  diversa.  E  anche  le  parole,  che  si  potrebbero  allegare  per  metter  il  Dialogo  del  Valeriano  in  relazione con  le  discussioni  degli  Orti: Misser  Giangiorgio  [disse],  che  stava  sopra  una  fantasia  di  certe  lettere,  che  mancavano  nel  nostro  alfabeto,  poiché  avendo  la  pronuntia  diversa,  si  notavano  con  la  medesima figura,  vanno  assai  meglio  pel  24,  l'anno  appunto  in  cui  la  riforma  trissiniana  fu  resa  pubblica. Noto  con  piacere  che  anche  Rajna  nella  già  cit.  recens.  (che  vedo  ora  nel  riveder  le  bozze)  del  saggio  di Belardinelli,  su  cui  parimenti  getto  lo  sguardo  ora  appunto  per  la  spinta  di  quella  recensione,  con  quest'ultimo  de'  miei  argomenti e  altre  parole propugnata  nuovamente dal  Belardinelli.] negli  studi,  non  sapemo  quello,  che  mai  non  ci  sognassemo  d'imparare.  Non  dico  già,  che,  poiché  havemo  un  Principe  Toscano, e  di  tal  dottrina,  virtù,  e  benignità  dotato,  non  debba  ogniuno  accomodarse,  ingegnarse,  arfaticarse  con  tutta  l'industria, che  può,  di  fargli  cosa  grata.  Ma  io  povero  vecchiarello,  come  posso  hora  imparar  di  nuovo  a  parlare,  che,  come  vedete,  m'incominciano  cascar  li  denti?  Certo,  che  m'è  venuta  qualche  volta  tentatione  di  partirmi  di  Roma  per  non  esser  tenuto  forse  per  ribello,  perchè  non  parlo  toscano,  e  mi  scappa  di  quando  in  quando  mi,  e  ti    (pp.  io-ii).  E  il  Colocci  risponde  con  altrettanta arguzia,  e  fors'anche  verità  storica: Messer  Antonio,  la  cosa  non  passa  in  questo  modo.  Il  Principe  non  ha  fantasia,  ne  pensier,  ne  interesse  alcuno  in  questa  materia;  è  homo  universale, dotto  come  sapete,  in  lettere  greche,  e  latine,  et  esercitato in  tutte  l'arti,  che  appartengono  a  un  vero,  e  gran  signore; e  si  prende  piacere  d'ogni  esercitio  d'ingegno,  ma  particolarmente  di  queste  dispute,  et  osservationi;  perchè  havendo  la  lingua  nativa,  e  libera,  se  ride  di  questi,  che  la  mendicano, ma  molto  più  di  quelli,  che  la  vogliono  restringere,  e  limitar  tutto  il  dì,  e  farla  star  a  regola  nelle  stinche,  si  che  non  pensate  che  questo  si  faccia  per  adularli,  che  tanto  amerà  egli  una  cosa  ben  detta  nella  Cappella  di  Bergamo,  quanto  un'altra  detta  sotto  la  Cuppola  di  Firenze.  La  quistion  è  fra  questi  begli  ingegni  e  scientiati  de',  nostri  tempi.  E  tale  quistione  è  riassunta  nel  Dialogo  con  molta  esattezza,  s'  intende  riguardo  allo  spirito:  le  dottrine  del  Tebaldo,  che  rappresenterebbe la  corrente  dialettale  non  toscana;  del  Pazzi,  sostenitore  del  fiorentino,  del  Tolomei,  propugnatore  del  Senese  o  meglio  del  Toscano  in  genere,  del  Trissino,  che  vagheggiava  dantescamente l'uso  cortigiano,  sono  con  obiettività  tale  riferite,  da  far  apparir  appena  che  il  Valeriano  stia  più  dalla  parte  del  Trissino che  non  de'  Toscani.  E  anche  l'ultimo  pensiero  messo  in  bocca  al  Trissino  a  conchiusione  del  dialogo  e  come  sintesi  dei  principi  da  seguire,  è  di  tal  forma  che  i  Toscani  stessi  avrebbero potuto  accettarlo.  Infatti,  ciascuno,  come  avrò  più  volte  osservato,  aveva  perfettamente  ragione  dal  suo  punto  di  vista,  e  tutti,  come  su  per  giù  convenivano,  per  quant'  era  possibile,  nella  pratica  (ciò  che  avviene  poi  in  ogni  secolo,  perchè  in  ogni  secolo  o  periodo  storico  gli  spiriti  sono  su  per  giù  tutti  conformati all'ìstesso  modo),  così,   tra  tante  divergenze  e  contradizioni  anche  con    stessi,  finivano  per  convenire  nella  teoria  d'una  lingua  letteraria  comune,  che,  fatta  ragione  di  particolari predilezioni  dialettali  o  letterarie,  era  e  non  poteva  non  essere  che  il  fiorentino  (piale  la  letteratura  nazionale  l'aveva  adoperato.  Il  Machiavelli  stesso  si  trovava  più  d'accordo  con  Dante,  di  quel  che  certo  egli  e  gli  altri  non  credessero.  Era  proprio  come  diceva  il  Colocci: La  quistione  è  fra  questi  begli  ingegni  e  scientiati  de'  nostri  tempi.  L'importanza  derivava  dal  modo  e  dalle  ragioni della  disputa:  e  anche  per  noi  quel  che  importa,  è  che  una  tale  questione  fosse  stata  agitata,  e  si  tenesse  così  vivo  l' interesse per  il  linguaggio.   Ma  i  più  camminavano  sulla  via  nella  quale  s'era  messo  il  Bembo,  trattando  nelle  grammatiche  la  regolarità  trecentesca, specialmente  del  Canzoniere,  e  raccogliendola  in  dizionari.   Annotazioni  su  vari  autori  volgari  e  latini  e  una  Colleclio  vocum  Petrarchae  et  aliorum  ,  intorno  a  cui  avrebbe  lavorato  nel  medesimo  tempo  in  cui  il  Bembo  stendeva  le  Prose,  ci  ha  lasciato,  come  vedemmo,  Angelo  Colocci  suo  grande  amico,  cui,  pertanto,  spetterebbe  il  merito  di  priorità  nella  compilazione  d'un  vocabolario  volgare  sul  Liburnio  {Le  tre  Fontane),  sul  Mi  nerbi  che diede  una  raccolta  di  voci  del  Decameron e  ne  prometteva  una  del  Canzoniere,  sul  Luna  che  nel  36  ne  diede  una  di  cinquemila vocabulì toschi del  Furioso,  Bocaccio,  Petrarcha  ed ALIGHIERI,  sul  Di  Falco,  autore  d'un  Rimario,  dove  rimanda  al    J  Vocabolario  della  Fingila  Volgara di  prossima  ma  non  mai  avvenuta  pubblicazione.   Osservazioni  sopra  Petrarca, puro  lessico  della  lingua,  come  lo  chiamano Carducci  e  Ferrari, del  resto  utilissimo,  ma    qua  e    arricchito  di  qualche  breve  spiegazione ,  come  aggiunge  il  Morandi,  compilò  Francesco  Alunno,  che  nel  50  ne  diede  fuori  una  seconda  edizione  meglio  ordinata  e  più  compiuta,  dopo  che  aveva  messo  in  luce  le  altre  due  voluminose raccolte  delle  Ricchezze  della  lingua  volgare  sopra  il  Boccaccio e  della  Fabbrica  del  mondo,    che  con- Sono  ancora  tra  i  codd.   vaticani.   Cfr.   Cian. Cfr.  Morandi] tiene  le  voci  di  Dante,  del  Petrarca  e  del  Boccaccio  e  di  altri,  ed  è  anche  una  specie  di  enciclopedia.  Di  grammaticale  nelle  opere  di  questo    eccellente  anatomista  delle  composizioni  volgari  ,  come  egli  stesso  modestamente  si  fa  chiamare  in  una  lettera  che  finge  direttagli  dal  Petrarca  medesimo,  c'è  poco  più  che  la  classificazione  dei  vocaboli  nelle  varie  categorie  delle  parti  del  discorso.  Il  di  più  consiste  in  qualche  notazione  etimologica  come  in    Donna,  quasi  domina  levata  la  /  et  mutata  la  M  in  N...;  nell'unione  degli  epiteti  o  agiettivi  ai  loro  sostantivi;  in  regolette  e  osservazioni  riguardanti  le  particelle;  e  nell'indicazione de'  vari  modi  in  cui  i  verbi    si  variano  secondo  le  variationi  de  i  suoi  tempi;  nelle  osservazioncelle  ortografiche  che  sono  in  fine  alla  raccolta;  non  entrando  nel  campo  strettamente  grammaticale,  non  dico  alcuni  cenni  biografici  o  storici,  ma    le  dichiarationi  delle  voci  ,  onde  le  voci  sono  accompagnate.  Le  Ricchezze  furono  ristampate  da  Aldo  in  Venezia,  con  le  dichiarazioni,  regole,  osservazioni,  cadenze  e  desinenze  di  tutte  le  voci  del  Boccaccio  e  del  Petrarca  per  ordine  d'alfabeto,  e  col  Decameron  secondo  l'originale  ecc. La  forma  tipica  di  questi  zibaldoni  tra  lessicali  e  grammaticali e  spositivi  quali  eran  richiesti  dai  bisogni  di  chi  s'  introduce nello  studio  e  nel  culto  del  volgare  con  la  guida  del  Bembo,  ci  è  data  nella  sua  opera  intitolata  Vocabolario,  Grammatica et  Orthographia  de  la  Lingua  volgare,  con  ispositioni  di MORANDI. Lombardelli  giudica  così  l'Alunno: Fin'oggi,  è  il  più  facile,  più  comune,  e  più  utile  scrittor  di  questa  schiera,  per  quanto  però  da  una  semplice  e  debol  Teorica  si  penda  alla  pratica,  per  ordinario può  far  benefizio  ai  Giovani  e  a'  principianti;  a  certe  occasioni  levar  fatica  a'  bene  introdotti;  e  per  dubbi  che  nascono  all'improvviso intorno  all'uso  delle  voci  Toscane  giovare  ugualmente  a'  nostri,  forestieri,  deboli,  gagliardi.  Nelle  osservazioni  sopra  il  Petrarca  esamina principalmente  le  voci,  e  le  locuzioni  poetiche;  nelle  Ricchezze  i  parlari,  che  alla  prosa  convengono;  nella  Fabbrica  le  voci  e  le  guise  di  dire  comuni,  e  popolaresche,  scelte  però  da  lui  con  assai  buon  giudizio  da  tre  principali  scrittori  Toscani  e  talvolta  dal  Sannazaro,  dall'Ariosto  e  dal  Bembo.  In  certe  dichiarazioni  se  ben  per  lo  più  vi  è  gito  pesato,  o  sospeso,  non  è  la  più  sicura  cosa  del  Mondo.  /  fonti,  pp.  55-6.  Delle  opere  lessicografiche  dell'Alunno  riconosceva  l'opportunità  il  Giraldi,  Scritti  estetici,  Milano.  Cfr.  L.  Arrigoni,   F.  Alunno  da  Ferrala,  ecc.,  Firenze.] molti  luoghi  di  /laute,  di Petrarca e Boccaccio,  d’Accarisio,  che  già  nel  38  aveva  mandato  Cuori  separatamente  una  grammaticheita, certe    regolette    latte  leggendo  il  Bembo  e  grammatici,    spositioni  delle  prose  del  Bembo  in  brevità  redotte, et  tale  che  chiunque  vorrà  imparare,  piglierà  speranza  in  breve  di  vedere  il  fine.   L'Accarisio  ha  cura  di  tener  distinto  il  linguaggio  della  prosa  da  quello  della  poesia,  come  aveva  inteso  di  fare  il  Minerbi  col  vocabolario  petrarchesco  da  lui  annunziato,  e  come  su  per  giù  intendevano  ormai  far  tutti  più  o  meno  esplicitamente:  Regole,  osservanze,  e  avvertimenti  sopra  lo  scrivere  correttamente  Cento.  Una  seconda  edizione  con  Privilegio  di  N.  S.  et  d'altri  Principi  per  anni  A"  ne  fu  fatta  in  Venetia  alla  bottega  d' Erasmo  di  Vincenzo   Valgrisio. La  Grammatica  volgare  di  M.  Alberto  de  Gl'Acharisi  da  Cento.  In  Venezia  per  Nicolini  da  Sabio.  Ad  instantia  di  M.  Merchiore  Sessa.  Fu  ristampata  più  volte.  Di  questo  libriccino  io  ho  potuto  vedere,  per  cortesia  del  prof.  Teza,  l'edizione  del  43:  La  Grommati  ca  volgare  di  M.  Al  |  berto  de  gli  Acha  |  risi  da  Cento.  Dopo  II  fine:  stampata  in  Vinezia  per  Francesco  Bindoni  e  Mapheo  Pasini, piccolissimo  di  fogli  4.  È  dedicata  al  sig.  Conte  Giulio  Boiardo  signore  di  Scandiano.  Alti  lettori  l'A.  dice  di  non  aver  voluto  essere  scrittore  di  regole  volgar,  ma  che    per  imparar  leggendo  le  prose  del  Bembo  e  altri  auttori,  da  i  loro  scritti  per  mia  utilità  questa  brevissima  regoletta  mi  feci...  saranno  spositioni  delle  prose  del  Bembo  in  brevità  redotte.  Raccomanda di  studiar  Bembo, Boccaccio, Petrarca e Dante: apprendete la  facilità  del  dire,  l'abondantia,  le  belle  sententie,  le  clausole  numerose,  et  fuggite  gli  antichi  vocaboli,  che  hoggi  se  eglino  vivessero non  userebbono,  per  lo  nuovo  uso  mutatisi,  et  scrivendo  thoscanamente,  scrivete  con  tale  facilità,  et  vocaboli  sì,  che  da  chi  gli  scritti  vostri  leggerà,  siate  intesi,  acciocché  del  vitio  deiraffettione  non  siate  ripresi.  Poi  scrive:    Incominciamo  le  regoli  (sic)  volgari  dell' Acharisio  ,  e  tratta  degli  Articoli,  del  Nome,  del  Pronome.  È  notevole  che  nella  trattazione  de'  pronomi  parli  della  forma  latina,  che  declina  in  tutti  i  casi,  sicché  si  ha  una  doppia  declinazione  italiano-latina  di  ipse,  ille  =  quegli  (per  Egli  non  trova  la  corrispondente  latina),  iste,  alius,  idem,  nullus,  quis.  Poi  espone  le  quattro  regole  o  maniere  del  verbo,  e  toccato  dei  Gerundi  e  Partecipi,  tratta  Degl'avverbi  locali,  e  qui  ritorna  la  corrispondente  latina,  hic,  huc,  hinc,  ecc.    Molt'altre  ne  lascio  facili  d'apprendersi  da  sé.  Accenna,  al  proposito  di  tornar  sopra  all'argomento  per  mostrar  che  sia  da  fuggire  ciò  che  non  è  toscano.    S    la  li?igìia  Toscana,  indifferente (l'aquila, il  passero),  comune  (portatore,  -trice).   i')  Definisce  l'accento  temperamento,  et  armonia  di  ciascuna  sillaba,  o  lettera  significante,  dividendolo  in  grave,'  acuto,  misto  "•),  converso  (',  apostrofo).    Capitolo  quarto  127    espressivo.  Il  che  accade  sempre  quando  si  perdono  i  contatti  con  la  parola  viva.    Fra  tutte  le  parti,  due  sono  di  maggior  pcrtettione,  che  l'altre.  Il  nome,  et  verbo,  li  quali  giunti  insieme  fanno  per    stessi  concludere  una  perfetta  sententia  come  Rinaldo scrive. T.  Dico  per  tanto  il  nome  esser  tra  le  parti,  diesi  variali,  quello,  per  cui  l'essenza,  et  la  qualità  di  ciascuna  cosa  corporale,  o  non  corporale  che  sia  particolarmente  et  in  universale si  discerne:  corporali  son  quelle  cose  che  toccar  si  possono,  et  vedere  come  libro.  Rinaldo.  Homo.  Non  corporali  son  quelle,  che  con  l'intelletto  solo  si  comprendono,  come  studio.  Ingegno  et  valore.  Da  questa  funzione  logica  attribuita  alle  categorie  grammaticali  e  dalla  conseguente  interpretazione  di  regolarità  data  alle  forme,  deriva  l'accoglimento  fatto  dal  Corso  ne'  suoi  fondamenti  alla  parte    della  concordia  delle  parti  principali  insieme    (sintassi  di  concordanza),  e  delle  figure,  che  sono  deviazioni di  pronunzia,  di  forma,  di  costrutto,  di  ortografia  dalla  regolarità  tipica.   Per  la  strada  in  cui  s'era  messo  il  Corso,  ritroviamo  un  altro  poligrafo  assai  più  prolifico,  Lodovico  Dolce,  del  quale  il  Lomdardelli  disse  che    può  dare  una  facile  introduzzione,  e  commoda  assai  per  li  principianti  ,  e  che  da    si  rannoda  al  Fortunio  che    poteva  esser  più  copioso  nelle  cose  necessarie  ,  e  al  Bembo,  che    volendo  vestir  questa  materia  con  i  ricchi  panni  della  eloquenza,  ragionò  solamente  a  Dotti.  Egli  si  rivolge, pertanto,  ai  principianti,  e  tratterà  la  grammatica  volgare,  come  gli  antichi  grammatici  trattarono  della  latina.   Le  osservazioni  constano  di  quattro  parti:  la  I  contiene    le  regole  della  volgar  gramatica;  la  II  l'ortografia,  nel  modo  che  c'è  insegnata  dalla  ragione,  dimostrata  dall'uso,  e  conlermata  dall'autorità;  la  III  X ordine  del  puntare  e  gli  accenti;  la  IV  poetica,  metrica  e  ritmica.    Della  concordanza  delle  parti    discorre  nella  I  sezione,  dove  non  tralascia  le  figure  grammaticali :  di  fonologia  discorre  sotto  l'ordine  dell'accento.    Di  molta  importanza  è  anchora  l'ordine   e  la  testura    delle    parole; Dove,  quando  fosse  chi  della  Volgar  Grammatica  trattasse  in  quel  modo,  che  gli  antichi  Grammatici  trattarono  della  Latina;  senza  dubbio  essi  quel  medesimo  profitto  ne  trarrebbero,  che  ne  hanno  tratto  molti  appo  i  Latini,  senza  niuna  contezza  haver  della  Greca.  Pref.  all'ottava  ediz.  di  Gabriel  Giolito  de'  Ferrari.] ma  questa  è  parte,  che  appartiene  al   Rhetore,  e  non  a  scrittore  di  Grammatica.   Si  propone  anche  il  Dolce  il  quesito  se    La  volgar  lingua  si  dee  chiamare  italiana  o  thoscana  ,  e  lo  risolve  nel  senso  voluto  dal  Bembo,  cui  prodiga  grandi  lodi  anche  di  scrittore  e  poeta,  ripetendo  per  lui  il  detto  di  Quintiliano:    ille  se  proferisse sciat  cui  Cicero  valde  placebit;  crede  perciò  che  si  debba  chiamare  volgare  e  thoscana,  ma  non  in  modo  che  i  Toscani  se  ne  insuperbiscano  !   La  facultà  di  lettere,  com'anche  è  chiamata l'arte  di  parlare  e  scriver  bene,  si  divide  in  lettera,  sillaba,  parola,    che  da  i  latini  è  chiamata  Dittione  ,  e  parlamento,  detto  da'  medesimi oratione.  Ammette  (citando  particolari  trattatisti,  non  escluso  Pontano)  22  lettere:  a b e d e  f g h i 1 m n o p q r s t v x y z,  di  cui  V vocali  e  XV consonanti  (escludendone  l' “h” e  il  “v” semivocale),  così  distribuite:  8  mutole,  bcdgpqtz;  7  mezzevocali,  f 1 m n r s x,  di  cui  4  liquide,  1  m  n  r.  Delle  parti  del  discorso  due  sono  principali,  il  nome  e  il  verbo,  le  altre  secondarie,  pronome,  participio,  avverbio,  preposizione,  interiezione, congiunzione.  A proposito del nome, distinto in sostantivo e aggettivo (shaggy),  che  a  sua  volta  si  suddistingue in generale e particolare, tocca il problema dell'origine  della  favella se per natura o per convenzione.  Discorre  poi,  pur  non  avendone  fatta  una  categoria,    de  gli  articoli,  e  di  quei  segni  che  a  i  nomi  invece  di  casi  si  danno  :  a  di  da  valgono  per  i  casi  retto,  strumentale  o  effettivo  o  operativo,  e  locale.  Molto  assottigliata,  rispetto  al  Bembo,  è  la  trattazione  de'  pronomi,  distinti  semplicemente  in  principali  (io)  e  derivati  (mio).  Al  verbo,  parte  principale  e  più  nobile  del  parlamento  ,  indicante    o  operazione,  o  cosa  operata,  attribuisce  cinque  tempi:  pres.,  impf.,  pass.,  pperf.,  avvenire;  cinque  modi,  dimostrativo,  inip.,  desiderativo,  cong.,  in/.;  tre  figure:  semplice,  composta,  ricomposta;  due  numeri;  tre  pe?'sone;  due  ma?iiere  (coniugazioni),  secondo  il  criterio  della  3  ps.  ind.  pres.    i  paradigmi  dalle  due  maniere,  degli  irregolari (come  sono  e  vado),  degl'  impersonali;  tratta  de'  g erondi  e  participi,  e  degli  anomali.  Parla  degli  avverbi  secondo  le  significazioni (tempo,  qualità,  affermare,  accrescere,  paragonare,  luogo);  delle  preposizioni,  divise  in  separate  o  aggiunte,  e  delle  loro  combinazioni;  dell'  intergettione,  che  esprime  vari  sentimenti, come  mostra    con    molti   esempi  di  versi;  della  congiun  Capitolo  quarto  129    tionc  che    va  incatenando  e  ordinando  il  parlamento.  Le  figure  grammaticali  sono  villose  o  bellezze:  le  prime  dipendono  dal  cattivo  suono  (onde  si  ha  il  bischizzo,  che  qualche  volta  ha  grazia  come  nel  v.    del  fiorir  queste  inanzi  tempo  tempie  ),  dall'ai- giunqer  paro/e  di  soverchio,  dal  tacerle,  dall'  invertirle,  dall' usarle  iniproprianiente  (ellissi,  pleonasmo,  inversione  ecc.);  le  bellezze  dall'uso  dell'ai,  alla  greca  (  h umida  gli  occhi  ),  della  parte  per  il  tutto,   della  ripetizione,   del  polisindeto  ecc.   Nella  trattazione  dell'ortografia  segue  un  criterio  opposto  a  quello  del  Trissino,  che  chiama  eretico,  senza  nominarlo,  ma  limitandosi  alle  cose  più  elementari:    Basta  haver  dimostro  come  si  debba  fuggir  il  porre  insieme  alcune  consonanti;  come  le  lettere  si  cangino  l'ima  nell'altra;  come  si  ha  ad  usar  1' h,  come  a  raddoppiar  esse  consonanti    ne'  nomi  come  ne'  verbi.   Nel  terzo  libro  segue    la  bellissima  inventione    del  Bembo.  Tratta  dell'  accento  (da  ad-ca?itus,    concento  ),  che  è  acido,  grave  e  rivolto  (apostrofo).  Sulla  scorta  delle  dottrine  degli  antichi  (Donato,  Sergio,  Fortunantiano,  Diomede)  sul  puntare,  tratta  della  distinzione,  suddistinzione,  mezzadistinzione,  che  si  hanno  secondo  che  il  periodo  (  clausola  )  è  terminato  in  tutto,  in  metà,  o  in  parte.  Illustra  così  l'uso  del  punto, .,  della  coma,,, del  punto  coma, ;, de'  due  punti, :, dell 'interrogativo, ?,  della  parentesi  o  traposizione  (()).  Raccomanda  infine  lo  studio  del  Petrarca  e  del  Boccaccio,  ma  non    lascino  da  parte  Dante.  Perciocché  anchora  che  egli  non  sia,  (come  nel  vero  non  si  può  negare)  molte  volte,  delle  regole  osservatore;  dal  suo  divino  Poema  molte  belle  forme  di  dire  si  potranno  apprendere.   Il  libro  IV  sulla  Poetica,  che  occupa  quasi  un  terzo  dell'opera (pp.  87-115)0  si  fonda  principalmente  su  Antonio  da  Tempo  e  sul   Bembo. L'opera  di  Dolce,  specie  nella  sua  prima  edizione  ("),  non      Osservazioni  nella  volgar  lingua.  Di  31.  Lodovico  Dolce  divise  m  quattro  libri.  Con  privilegio.  In  Vinegia  appresso  Gabriel  Giolito  de  Ferrari.  La  più  completa  e  corretta  è  la  seguente:  I quattro  libri  delle  osservationi  di  m.  Lodovico  Dolce  di  nuovo  ristampate  et  con  somma  diligenza  corrette.  Con  le  postille  e  due  tavole:  una  de'  capitoli  e  l'altra  delle  voci,  et  come  si  deono  usare  nello  scrivere.  In  Vinegia  presso Salicato.    Nuove  osservazioni  C    Trabalza.  q    Storia  de/la  Grammatica    andò  esente    da  critiche    da  beffe,  da  parte  soprattutto  del  Ruscelli,  col  quale  ebbe  una  fiera  polemica,  e  dal  Muzio,  ai  quali  certo  non  potevano  mancar  appigli:  essa  è  una  compilazione abborracciata  secondo  il  costume  del  Dolce,  che  vi  mise  di  suo  ciò  che  poteva  metterci  un  compilatore  in  questo  periodo,  la  parte  schematica  e  1'  ordinamento,  favorendo  il  processo  di  cristallizzazione delle  osservazioni  condotte  personalmente  dai  primi  grammatici  con  discreto  senso  della  lingua  sulle  opere  degli  scrittori.  Un  piemontese,  Matteo    Conte  di  S.  Martino  e  di  Vische  ,  riattaccandosi  egualmente  al  Fortunio,  al  Bembo,  da  cui    forse  più  di  luce  prende  ,  e  al  Trissino,  delle  cui  dottrine  abbiam  visto  1'  applicazione  fatta  alla  forma  petrarchesca,  nelle  sue  Osservazioni  grammaticali  e  poetiche  della  lingua  ita/iana  (1),  adottò  interamente,  con  piccolissime  varianti,  lo  schematismo  dei  Rudimenta  gramatices  di  Perotti   divulgatissimi(!)/  Basti  recar  l'esempio  della  trattazione  del  nome.  Esso  è  diviso:  A  secoyido  la  sustanzia:  I  proprio;  II  comune:  1.  -a)  primitivo  (es.  Giulio),    primitivo-appellativo  (terra),  derivativo  proprio  (Giuliano); derivativo-appellativo; corporale  proprio  (Pietro),  corporale  appellativo  (huomo);  incorporale proprio  e  appellativo;  5.  univoco  proprio  e  appellativo;  6.  equivoco  proprio  o  sinonimo  appellativo;  B  secondo  la  qualità:  1.  sustanziale  a)  proprio;  b)  aggiuntivo  (epiteto);  2.  (il  sostanziale e  l'aggiuntivo  comprendono  poi)  17  classi  di  appellativi:  I.  intelligibile  al  detto  (patre,  tìglio);  2.  id.  (giorno,  notte);    della  lingua  volgare  scelte  da  Lodovico  Dolce  con  gli  artifici  usati  dal T Ariosto  nel  suo  Poema.  In  Venezia  per  li  Sessa (-8n).  Si  devono  al  Dolce  anche  Modi  a/figurati^  e  voci  scelti  et  eleganti, Venezia,   1564.     In  Roma  presso  Valerio  Dorico  e  Luigi  fratelli.  Le  osservazioni  poetiche  (che  l'autore  intitola  //  Poeta)  sono  una  poetica  che  l'autore  stesso  dichiara  compilata  sul  Filosofo  e  sui  nostri  principali trattatisti,  Dante,  Antonio  da  Tempo,  Bembo  e  Trissino;  ma  riguardano  particolarmente  l'elocuzione  e  la  metrica.  1  Nicolai  Perotti,  ed.  cit.   (:t)  Quod  est  ad  aliquid  dietimi?   Quod  sine  intellectu  eius  ad  quod  dicitur  proferre  non  potest:  ut  fiiius:  pater.  (Perotti).     Quasi  ad  aliquid  dictum  quod  est?   Quod  quamvis  habeat  contrarium  et  quasi  semper  adherens:  tamen  neq.  ipso  nomine  significat  etiam  illud:  nec  secum  interimit:  ut  nox:  dies.  (Perotti.). gentilizio  (greco);  patrio  (torinese);  interrogativo  (chi?);  infinito  (quale);  relativo  (larga  esemplificazione);  collettivo (volgo);  distributivo  o  dividilo  (ciascuno);  io.  faciisio  (crich); generale  (animale);  speciale  (elefante); ordinale  (primo);  numerale  (ventuno); assoluto (Dio); temporale  (ora); locale  (vicino);  C  secondo  la  qua?itità,  dal  derivativo  uscendo  9  maniere: patronimico;  comparativo;  superlativo;  possessivo;  diminutivo;  denominativo; verbale;  partecipiate; adverbiale.  Abbiamo  dunque  una  cinquantina  di  classi  o  categorie  solo  del  nome  !  Il  quale  ha  cinque  accidenti:  genere  (m.  e  f.),  mimerò  (s.  e  p.),  caso  (diritto  e  obliquo  in  sei  forme),  specie  (primitiva  o  derivata),  figura  (sempl.  o  comp.);  sette  regole  (declinazioni):  i.a  sing. -a,  pi. -e,  opp.  sing.  -a,  pi.  -i;  i.a  -e,  -i,  opp.  -o,  -i;  3."  -o,  -a  opp.  -ora;  4."  eterocliti;  5.11  -a  o  -e,  -i;  6.a  comuni;  7/1  di  doppia  forma  {lodo,   loda).   Una  vera  ridda.   Di  contro  a  tale  interesse  per  lo  schematismo,  che  corrispondeva, anzi  derivava  dall'esaurimento  dell'attività  osservatrice  delle  forme  realmente  prodotte  dagli  scrittori,  dalla  infecondità  stessa  del  criterio  d'osservazione  assunto  fin  da  principio  e  che  aveva  dato  quanto  aveva  potuto  dare  e  da  tutte  le  circostanze  alle  quali  siamo  venuti  alludendo,  sorse  il  bisogno  non  che  di  ristampare  le  grammatiche  più  o  meno  originali  che  s'erano  desunte  dalla  diretta  osservazione  delle  opere  letterarie,  non  che  di  ridurle  a  metodo,  di  raccoglierle  come  in  un  corpo  unico  d'erudizione  grammaticale,  dove  le  une  integrassero  le  altre  e  sodisfacessero  così  all'esigenze  ancor  vive  e  urgenti  dell'apprendimento della  lingua  e  del  complicato  maneggio  di  essa  richiesto  dalle  teoriche  poetiche  e  rettoriche.  Per  tal  modo  si  ebbero  ben  presto  le  Osservazioni  della  lingua  volgare  di  diversi  uomini  illustri,  cioè  del  Bembo,  del  Gabbriello,  del  Fortunio,  dell'  Accarisio  e  d'altri  scrittori^)  (che  si  riducono  tutti  al  Corso),  per  opera  del  Sansovino,  distinte  in  cinque  libri,  quant' erano  appunto  le  grammatiche  integralmente  ristampate,  con  brevi  relative  notizie  caratteristiche:  del  Bembo  (lib.  I),  riprodotto  specialmente  per  la  questione  dell'origine  e  del  nome  della  lingua,  vi  è  detto  che  imitò  YOrator;   del  Fortunio  (II),   che  imitò    i  Grammatici      In  Venezia  per  Francesco  Sansovino;  più  volte  ristampate.    132  Storia  della  Grammatica   antichi  della  lingua  latina  :  del  Gabriello,  che  ebbe  le  regole  da  suo  zio  Trifone;  del  Corso  (IV),  di  cui  è  dato  il  giudizio  che  già  conosciamo;  dell' Accarisio  (V),  che  ha  tenuto  l'ordine  de'  latini  o  per  meglio  dir  di  Donato...  Ma  io  direi  che  innanzi  che  altri  leggesse  le  cose  del  Bembo,  o  del  Gabriele,  o  del  Corso,  si  arrecasse  innanzi  quelle  dell' Accarisio,  conciosia  che  risolutamente abbozza  nella  mente  degl'  imparanti  le  regole  pure  et  semplici  de'  nomi,  de'  verbi,  e  de  gli  altri  membri  di  questa  lingua,  li  quali  appresso  ria  poi  agevol  cosa  il  capir  ciò  che  ne  ragionali  gli  altri  scrittori.  Voglio  anco  che  lo  studioso,  habbia  innanzi  /'osservatone  del  Petrarca  fatte  dall'Alunno,  la  Fabrica  e  le  Ricchezze  pur  del  medesimo...    Più  tardi  un  f.  Giovanni  da  S.  Demetrio,  Aquilano,  O.F.M.,  diede  un  manuale  di  Regole  della  lingua  toscana  con  brevità,  chiarezza,  et  ordi?ie  raccolte,  e  scielte  da  quelle  del  Bembo,  del  Corso,  del  Fortunio,  del  Gabriele, del  Dolce,  e  dell'  Accarisio  (son  gli  stessi  del  Sansovino,  aggiuntovi  il  Dolce)  che  trattano  quelle  parli  che  ?iella  seguente  faccia  si  notano:  Nome,  Articolo,  Pronome,  \erbd,  Gerundio,  Participio,  Verbo  passivo,  impersonale.  Avverbio,  Preposizione,  Interiezione,  Congiunzione,  Lettere.  Punti.  Accenti,  Ortografia,  forma  di  comporre  o  vero  scrivere.  Le  Prose  del  Bembo,  già  ristampate  con  indici  e  tavole,  furono  ridotte  a  metodo  sotto  il  nome  di  M.  A.  Flaminio  a  Napoli.  Prima  degli  Avvertimenti del  Salviati,  appena  due  o  tre  grammatichette (")  dell'indirizzo che  fin  qui  abbiamo  esaminato,  furon  pubblicate:  (*)  meritano  appena  tra  queste  d'esser  particolarmente   menzionate      Venezia. Minturno  e  il  Tiraboschi  ricordano  un'Opera  divina  sulla  toscana  favella  di  Giambattista  Bacchili i  modenese  (Vivaldi,  Le  Controversie),  che  io  non  ho  potuto  vedere.   (iraniniatiche  vere  e  proprie  non  si  posson  chiamare    la  Regola  della  lingua  losca  dell'ortografia  volgare  e  latina  raccolta  da  m.  Girolamo  Labella  dalli  discorsi  fatti  dal  diligentissimo  //umanista Girolamo  Gafaro  nella  Accad.  Cafarea.  Novamente  mandata  in  luce.  In  Venetia,  Appresso  Fr.  Rampazetto  (vi  si  danno  avvertimenti vari  sull'art.,  sui  nomi  sost.  e  agg.,  sui  pronomi,  sulle  coniugazioni:  poi  alcune  regole  ortografiche:  1.  santo  da  sanctus;  2.  dotto  da  doctus,  ecc.),    II  Tesoro  della  votgar  lingua  di  Reginaldo  Acceto.  In  Napoli  per  Cacchi (contiene  appena  XXIII  regole  grammaticali  delle  CLVIII  che secondo Zeno dove contenere).    Capitolo  quarto  133    le  Regole  della  Thoseana  lingua  di  m.  Yinckntio  Menni  Perugino, con  un  Breve  modo  di  Comporre  varie  sorti  di  RimeQ),  sunterello  elementare  del  terzo  libro  delle  Prose  del  Bembo  e  poco  più'(e).  Rimasero  inediti  alcuni  scritti  grammaticali  di  Alberto Lollio(3)  e  nuli' altn  che  zibaldoni  latino-volgari  sono  al[In  Perugia  per  Andrea  Bresciano  (di  pp.  40  un.  nel  recto).  Al  M.  dobbiamo  la  versione  della  Bucolica  (Perugia,  Bianchini)  e  dei  primi  sei  libri  dell' Eneide  (Perugia,  Bresciano. M.  esalta  su  tutti  il  Bembo    di  supreme  lodi  dignissimo  veramente....  Ma  perciocché  [le  regole  in  cui  egli  ridusse  la  lingua  toscana]  paiono  a  molti  ardue,  et  difficili,  mi  è  caduto  nell'animo  di  riducere....  le  regole  della  Toscana  lingua  in  brevissimo  volume,  con  tale  facilità,  che....  qual  si  voglia  persona  senza  alcun  principio  di  latina  grammatica  potrà  facilmente  apprendere  il  modo  del  parlare,  et  scrivere  Thoscanamente:  Alla  quale  opera  ho  voluto  aggiungere  alcuni  brevissimi  precetti  circa  il  modo  del  comporre  varie  sorti  di  rime,  acciocché  da  questa  mia  fatica  si  possano  cogliere  vari),  et  diversi frutti.    Senza  l'aiuto  [de'  Grammatici]  non  possiamo  venire  ad  apprendere  scienza  alcuna.  Del  Bembo  conserva  anche  la  dicitura  dei  termini  grammaticali,  e  tutti  i  criteri  d'armonia,  ma  meccanizzandoli al  punto  da  specificare  quali  sono  le  vocali  più  buone  e  quelle  meno  buone.  Un  punto  è  tolto  dal  Cesano  del  Tolomei,  quello  cioè  in  cui  si  parla  dell'eccezione  di  alcune  parolette  terminanti  in  consonante piuttosto  che  in  vocale  {in,  con,  per,  ecc.).  Come  il  Petrarca  è  il  modello  degli  antichi,  co sì  il  Sannazzaro  e  '1  Bembo  sono    vivacissimi lumi  della  moderna  poesia.  Chiude  ponendo  per  ordine  di  Grammatica  e  d'Alfabeto  quelle  voci  che  sono  del  verso  et  non  della  prosa,  et  così  anchora  quelle  che  alla  prosa  et  non  al  verso  si  concedono. Cf.  Filippo  Cavicchi,  Scritti  grammaticali  inediti  di  A.  Lollio  in  Rass.  bibl.  d.  lett.  it.  Sono  in  due  cedici  della  Com.  di  Ferrara: a\  tav.  di  alcune  voci  delle  Prose  del  Bembo  (dalla  Historia  vinitiana:  a  doppia  colonna,  vocaboli  e  frasi,  confrontata  col  latino,  osservazioni  ortografiche  e  sintattiche,  dichiarazioni storiche,  quasi  un  indice  analitico);  b)  brevi  regolette  sopra  la  volgar  lingua  (sono  79  senz'ordine,  ma  riferentesi  a  tutte  le  parti  del  discorso,  con  esempi  tratti  dall'uso  vivo,  e  riferimenti  al  latino,  le  più  di  morfologia,  poche  di  sintassi);  e)  due  lunghi  spogli  di  Dante  e  Petrarca  (questioncelle  metriche);  d)  Osservazioni  di  M.  Giulio  Costantino sopra  la  volgar  lingua; Compendio  di  alcune  voci  proprie  della  lingua  toscana  e  provenzale  (ma  delle  voci  provenzali  promesse  non  ci    nulla  affatto:  il  resto  è  un  vocabolarietto  italiano-ferrarese ì;  b)  Proverbi  e  motti.  A  stampa  abbiamo  un'Orazione  della  lingua  toscana,  Venezia,  ripubblicata  nel  63  e  poi  in  Prose  fiorentme  del  Dati.  Il  L.  è  per  l'opinione  del  Tolomei,  che  vuole  doversi  chiamar  toscana  la  lingua.    134  Storia  della   Grammatica   cune  delle  molte  abborracciate  compilazioni  di  cui  riempì  il  mondo  letterario  per  più  d'un  ventennio  Orazio  Toscanella,  e  elucubrazioni  superricialissime  quelli,  in  genere,  epistolari  del  Citolini,  il  noto  miracolo  di  natura,  cui  già  s'è  accennato.   Le  ristampe  come  le  raccolte  e  le  riduzioni  a  metodo,  che  tennero  il  campo  in  vece  di  più  recenti  grammatiche  dove  quasi  nullo  era  il  contenuto  e  sviluppatissimo  lo  schematismo,  e  che  anzi  impedirono  il  moltiplicarsi  di  siffatte  manipolazioni,  se  da  una  parte  attestano  d'una  diminuzione  di  fervore  e  d'interesse nella  ricerca  diretta  o,  per  lo  meno,  d'un'  incapacità  ad  allargare  e  ad  approfondire  il  campo  dell'  osservazione,  sono  indizio  però,  dall'altra  parte,  d'un  certo  bisogno  di  mantenersi  a  contatto  almeno  con  la  voce  e  l'esempio  degli  scrittori  che  più  erano  stati  studiati,  d'un  interessamento  confa  dire  estetico,  più  o  meno  fervente  e  cosciente,  verso  l'opera  d'arte,  piuttosto  che  verso  lo  schema  per    stesso.  Il  cinquecento  è  secolo  di  passione artistica,  che  la  critica  formalistica  non  riesce  a  smorzare,  e  pur  sotto  l'imperio  sempre  più  assoluto  di  essa  e  tra  lo  svolgersi d' una  letteratura  grammaticale-retorica  conserva  sempre  j  vivo  il  sentimento  della  bellezza  sia  pure  esteriore:  passione  I  multiforme,  che  intendeva  sodisfarsi  pienamente  nel  possesso  cTP^   I  soli  titoli  delle  opere  del  T.  ci  rivelano  i  caratteri  di  certa  produzione  scolastica  del  tempo:  Istituzioni  grammaticali  volgari,  et  latine  a  facilissima  intelligenza  ridotte  da  O.  T.  della  famiglia  di  maestro Luca  fiorentino:  et  dichiarate  per  tutto  dove  è  stato  necessario,  con  piena  chiarezza  dal  medesimo,  fatica  utilissima  a  tutti  quelli  che  ad  imparare Greco,  Latino  e  volgare  si  datino.  Et  con  una  tavola  copiosissima. In  Vinegia  Appresso  Gabriele  Giolito  de'  Ferrari.  Nella  chiusa,  pp.  507-23,  è  un  trattatello  Dell'ortografia  volgare  e  punti,  e  in  fine  dichiara  che  stamperà  a  parte  la  metrica,  e  la  grammatica greca  che  egli  insegna  con  la  lingua  latina.  Ma  in  codeste  Istituzioni,  d' italiano  non  e'  è  che  la  traduzione  dei  vocaboli  e  frasi  latine,  e  la  grammatica  è  soprattutto  in  servizio  del  latino.  L'ortografia è  divisa  in  a)  parola;  b)  punti;  e)  accenti.    Delle  congiugationi  dei  verbi  qui  non  scrivo;  perchè  ne  ho  scritto  a  pieno  nel  volgareggiare  le  congiugationi  dei  verbi  latini;  come  si  può  veder  più  su  al  luoco  loro.    Concetti  e  forme  di  Cicerone,  del  Boccaccio,  del  Bembo,  Venezia  per  Lodovico  degli  Avanzi, Eleganze  latine  con  i  suoi  volgari.  Venezia  per  Bariletto. Dictionariolum  latino  gallicuvi,  Ciceroniana  Epitheta,  Parisiis  per  Michaelem  Sonnium.] tutti  gli  clementi  formali  della  prosa  e  del  verso,  e  della  lingua  voleva  saggiare  tutte  le  essenze.   Un  libro  che  mirava  ad  appagare  codesta  passione,  qualunque  sia  il  suo  valore  speciale  come  esecuzione,  e  che  è  sulla  linea  di  svolgimento  che  abbiamo  seguita  sin  qui,  sono  i  Commentari della  lingua  italiana^)  d'  un  fecondo  quanto  abborracciante  poligrafo,  Girolamo  Ruscelli,  usciti  postumi  per  cura  del  nipote  nel  15H1,  ma  terminati  almeno  un  decennio  innanzi,  e  composti  tra  il  55  e  il  70,  nel  periodo  cioè  in  cui  si  conchiudeva  l'attività grammaticale  esercitata  sull'opera  dei  primi  grammatici  originali, quando  già  erano  usciti  i  Tre  discorsi  a Dolce,  coi  quali  il  Ruscelli  aveva  preso  posto  fra  i  grammatici  del  suo  tempo.   Questi  Commentari  sono  un  grosso  zibaldone  di  574  pagine  in-8":  de'  sette  libri  onde  si  compongono,  solo  il  secondo,  che  però  è  il  più  lungo,  tratta  di  vera  e  propria  grammatica: il  primo  discorre  dell'origine  e  dell'eccellenza  della  favella ;  il  terzo  è  un'    epitome    del  secondo,  in  servizio  de'  meno  introdotti;  il  quinto  è  un  ricettario  degli  vitii  da  fuggire,  ma  non  di  quelli  commessi  da'  forestieri  o  dagT  Italiani  delle  varie  Provincie,    bene  da'  Toscani  o  Toscanizzanti,  e  ne  parla  sistematicamente seguendo  l'ordine  delle  parti  del  Discorso  (Articolo  '  parte  principale  del  Nome  ',  Nome,  ecc.),  per  ciascuna  delle  quali  fioccano  i  vitii,  libro  ben  caratteristico  del  purismo  grammaticale del  Ruscelli  (?);  gli  altri  sono  un  miscuglio  di  precetti  di  ret    In  Venezia  per  Damian  Zenari.  Dei  Commentarti  della  lingua  italiana  del  sig.  Girolamo  Ruscelli  Viterbese,  Libri  VII.  In  Venetia,  appresso  Zenaro,  alla  Salamandra. Dobbiamo  al  Ruscelli  Tre  discorsi  al  Dolce:  Atmotazioni  sopra  il  Decamerone,  Annotazioni  al  Furioso,  un  Vocabolario:  più  un  Dialogo  ove  si  ragiona  della  ortografia,  cioè  del  modo  di  regolatamente  scrivere,  così  nelle  parole  come  ne  gli  accenti,  et  ne'  punti.  Cavato  novamente  dalle  scritture  di  m.  Girolamo  Ruscelli.  Et  agiuntovi  la  sottoscrittione,  et  soprascrittione  di  componimenti  di  lettere.  In  Venetia,  Appresso  Pietro  de'  Franceschi.   (")  De'  vitii  son  fatte  due  categorie:  a)  contro  l'eufonia  (il spirito,  il  studio  non  lo  spirito,  lo  studio;  ma  li  scogli  non  gli  scogli);  b)  contro  la  grammatica  ('vitii  espressi'):  l'osservo/gli  osservo,  con  il/col,  con  i/coi,  dalli/da  i,  d' i/de  i,  per  i/per  li,  de  '1/del,  el/il,  gli,  o  li/a  loro,  a  lei,  i/li,  o  gli/a  lui,  cotesto  per  questo/questo, le  gente/le  genti,  dua/due,  leggeno/eggono,  pariamo/par- [torica  grammaticale  (Dell'ornamento):  specchio,  per  quanto  appannato,  se  non  riassunto,  delle  varie  indagini  condotte  sull'organismo della  lingua  dai  precedenti  grammatici  e  retori,  le  cui  opinioni  vi  sono  spesso  richiamate,  con  le  antiche  e  nuove  definizioni di  termini,  con  la  loro  varia  nomenclatura;  ricco  di  confronti  dell'italiano  con  altre  lingue,  specie  la  ebraica;  discorsivo, frondoso.  Da  alcuni  luoghi  della  trattazione  degli  articoli  e  de'  verbi,  parrebbe  che  il  Ruscelli  avesse  dovuto  aver  sott'occhio  la  prima  Giunta  castel vetrina  (1562),  ma  del  metodo  del  grammatico  modenese,  egli  è  la  negazione:  la  sua  è  grammatica empirica;  il  suo  principale  maestro  e  autore  è  il  Bembo.  Fu  raccomandato  dal  Lombardelli    con  qualche  riserva,  e  dal  Meduna,  ma  biasimato  da  altri,  e  specialmente  da  un  intendente  sicuro  di  cose  linguistiche,  il  Borghesi.  Ma  non  è  sull'ordinamento e  la  compagine  del  libro    sulle  trasgressioni  contro  la  lingua,  che  si  ferma  la  nostra  attenzione,    bene  sul  principio  che  serve  di  fondamento  alla  grammatica,  logica  e  necessaria  conchiusione  dell'elaborazione  a  cui  avea  dovuto  soggiacere:  il  principio della  perfetta  regolarità,  dell'  ordine  più  assoluto  della  nostra  divina  favella,  col  quale  è  accolto  nel  corpo  della  gram  liamo  {havemo,  senio  si  possono  adoperar  con  discrezione,  perchè  li  adoperano  anche  i  Trecentisti),  amono  =  amano,  andavo  =  andava,  andorno,  andassimo,  andaressimo,  andarci,  venesti,  contenirà,  odesti,  habbi,  facci,  ecc.  Questa  trattazione  rettorica  incorporata  in  un  trattato  grammaticale dimostra  che  ormai  la  poetica  in  quanto  elocuzione  si  era  staccata  dalla  rettorica  e  che  la  prosa  richiedeva  una  trattazione  a  parte.  R.  altresì  può  giovare  et  a'  principianti,  ed  a  gli  introdotti,  parlo,  ne'  Commentari;  perchè  tratta  la  nostra  Gramatica  distesamente  declinando,  e  dando  molti  avvertimenti  comuni,  e  utili.  Ha  ben  certe oppenioni che se non gli passano agevolmente, e spende anche molte parole nel suo discorrere, riavendo hauto per natura dell'Asiatico. Ne'discorsi a Dolce ricerca di belle sottigliezze,  e  contengono  un  certo  gastigo  di  coloro,  che  troppo  ardita,  e  baldanzosamente  si  mettono  a  scrivere  in  questa  lingua.  Nell'Annotazioni  al  Furioso,  e  sopr'  al  Decamerone,  e  nel  detto  Vocabolario,  dichiara  e  voci  e  modi  di  dire,  ove  un  forestiero  può  imparare  assai.  Fu  studioso  di  più  lingue, e  di  questa  particolarmente:  onde  mi  sovvien  d'avvertire,  che  egli  corresse,  o  illustrò  molti  scrittori:  per  lo  che  si  potranno  quasi  legger  sicuramente,  quando  nel  principio  si  troverà  suo  proemio,  giudizio,  censura,  o  elogio.   I  fonti.] matìca  tutto  ciò  che  è  regolato  (l),  e  ripudiato,  cacciato  nel  vocabolario,  come  in  luogo  di  pena,  tutto  il  resto  che  non  si  presta  a  misurazione,  o  abbandonato  a    stesso:  lo  spirito  estetico animatore  della  favella  è  così  completamente  distrutto,  e  conservata  dell'espressione  soltanto  la  forma  geometrica.  La  ripugnanza  all'  irregolare  si  esprime  nel  Ruscelli  in  una  forma  che  ha  del  comico,  come  (piando  se  la  prende  coi  moltiplicatori  delle  difficoltà    con  dir  Muta  in  questo,  Togli  in  quello,  Aggiungi in  quell'altro.    codesto  principio  è  professato  così  all'ingrosso:  anzi  è  dedotto  a  fil  di  logica,  in  un  ragionamento che  vai  la  pena  di  riassumere,  e  porre  qui  come  pietra  miliare  sul  cammino  della  nostra  storia. Prima  fu  il  parlamento  che  le  leggi  sue.  L'  uomo  ha  da  Dio o LA NATURA (GRICE) il  dono  di  comprender  coll’intelletto  e  ESPRIMER COLLA FAVELLA quanto  si  contiene  nella  gran  macchina  dell'universo  in  forma  perfettamente ordinata,  ripugnando  la  mente  nostra  dal  disordine.  Onde  nell'osservazione delle  lingue,  i  grammatici  scartarono  tutto  ciò  che  è  scorrezione d'ignoranti,  usando  dello  stesso  criterio  de’giudiziosi  che  nel  fare  le  regole  delle  bellezze  d'un  corpo,  o  d'un  volto,  elessero  o  i  volti  più  belli,  e  più  conformi  con  l'ordine,  riuscendo a  prevalere  sull'USO SCORRETTO  (Grice: meaning not = use) di  chi  neh' usarla  o  nel  porla  in  regola  s'attenne  al  peggio.  La  nostra  grammatica  si  stampò  sulla  latina  per  la  dipendenza  della  nostra  lingua  e  anche  della  greca,  e  l'averla  compilata  primi  il  Bembo  e  altre  persone  rare,  fa  che  non  gioverebbe  rinnovarla.    Perciocché,  s'ella  fosse  lingua  [l'italiana],  che  hor  nascesse,  et  che  noi  fossimo  i  primi  che  la  riducessimo  in  osservatione,  et  in  regole,  ci  governeremmo con  la  ragione,  et  con  l'ordine  della  Natura,  come  fanno  gli  Ebrei,  et  come  nella  Greca  era  opinione  d'Aristotele,  cioè  che  le  parti  del  parlamento  fossero  solamente  tre...  Et  in  queste  potean  veramente  contentarsi  di  divider  la  loro  i  nostri  Latini,  et  ogn'altra  natione.  Nondimeno,  perchè,  come  cominciai  a  dire,  non  scriviamo  hora  regole  di  lingua,  che  hor  nasca  nella  sua  grammatica,   et  perchè  ancora  questa  nostra  ha  fondamento,  imi  Nel  secondo  de'  Tre  discorsi  al  Dolce  (Venezia,  cioè  nelle  Osservazioni  di  lingua  volgare,  infierisce  contro  l'autore  delle  Osservazioni  anche  perchè  oltre  ai  discutibili  errori  di  grammatica vi  aveva  trovato  scorrezioni  di  questo  genere:  lotto  per  lóto,  ametto  per  ammetto  e  Ameto,  bevvo  per  bevo.    13S  Storia  della   Grammatica   tatione,  ornamento,  et  forma  dalla  Latina,  per  questo  parve  a  i  nostri  di  volerle  tenere  congiunte,  et  conformi  tra  esse  quanto  più  sia  possibile  ne  i  modi  principali,  et  nell'ordine  universale  di  tutto  il  composto  con  le  sue  parti    (pp.   72-6).   Insomma,  il  Ruscelli  in  omaggio  alla  venerabile  antichità,  all'  imperio  della  tradizione,  mantiene  la  grammatica  così  come  lui  T  ha  trovata,  ma  se  la  cosa  dipendesse  da  lui,  ne  divorerebbe  per  lo  meno  due  terzi:  tanti  ne  sono  superflui,  e  la  ridurrebbe  a  due  o  tre  categorie,  sotto  le  quali  dovrebbe  ubbidire  servilmente l'umano  pensiero,  inquadrandovisi  nel  più  perfetto  ordine. Giustificare  e  difendere,  di  fronte  e  di  contro  il  latino,  la  lingua  volgare,  studiare  i  mezzi  adatti  a  condurla  alla  perfezione, secondo  la  corrente  concezione  del  linguaggio,  era  ornai  intento  comune  de'  letterati  italiani:  la  differenza  sorgeva  ne'  criteri  da  adottarsi  per  conseguir  codesto  intento,  differenza  che  corrispondeva  alla  varietà  della  cultura,  delle  disposizioni,  e  delle  condizioni  etniche  de'  letterati  medesimi.   La  dottrina  bembesca  raccoglieva  le  maggiori  adesioni,  anche  presso  i  Toscani,  i  quali,  però,  come  quelli  che  sapevano  di  non  essere  stati  punto  estranei  al  movimento  in  favor  del  volgare    e,  si  badi,  al  tentativo  di  una  legiferazione  grammaticale  di  esso    nel  fatto,  codesto  movimento  nel  Quattrocento  era  stato  quasi  esclusivamente  toscano,  anzi  fiorentino,    tra  il  chiudersi dell' un  secolo  e  l'aprirsi  dell'altro,  rispetto  alla  sorta  attività  degli  altri  Italiani,  era  punto  diminuito  l'interesse  de'  Toscani   per  la  loro  lingua non    potevano    aver   caro  che  [Sensi,  M.  Claudio  Tolomei  e  le  controversie  sull'ortografia  italiana.  Nota  da  tener  presente  anche  per  altri  luoghi  di  questo  capitolo.   (2)  A  non  rammentar  molte  prove,  basti  la  cit.  lettera  di  Alessandro de'  Pazzi  a  Francesco  Vettori, e  il  Dialogo du  Machiavelli,  donde  appare  quanto  vivo  fosse  in  Toscana  e  in  Firenze  il  culto  dell'  idioma  natio  e  l' interesse  che  si  poneva  nello  studiarlo  anche  analiticamente.  Tra  i  criteri  onde  negli    Orti  si    140  Storia  della   Grammatica    i  non  Toscani  si  fosser  mossi  e  gareggiassero  a  discorrer  di  lingua  toscana  e  a  dettarne  le  regole:  una  tale  legiferazione  non  poteva  non  risolversi  in  una  violenza  contro  il  loro  senso  linguistico,  tanto  maggiore  quando  a  fondamento  di  quelle  regole  non  era  assunta  la  toscanità  trecentesca,  ma  l' italiano  parlato  presentemente  nelle  varie  corti    d'  Italia.    Sicché,   tra  le    cercava  di  determinare  le  affinità  e  le  differenze  tra  le  varie  lingue  e  i  vari  dialetti,  si  applicò  anche  quello  strettamente  grammaticale.  Il  Machiavelli,  appunto,  ci  dice:  e  dicono  che  chi  considera  bene  le  otto  parti  dell'orazione,  nelle  quali  ogni  parlar  si  divide,  troverà  che  quella  che  si  chiama  verbo,  è  la  catena,  ed  il  nervo  della  lingua,  ed  ogni  volta  che  in  questa  parte  non  si  varia  [cioè  non  c'è  differenza  tra  la  lingua  e  lingua],  ancoraché  nelle  altre  si  variasse  assai,  conviene che  le  lingue  abbiano  una  comune  intelligenza,  perchè  quelli  nomi  che  ci  sono  incogniti,  ce  li  fa  intendere  il  verbo,  il  quale  infra  loro  è  collocato,  e  così  per  contrario  dove  li  verbi  sono  differenti,  ancoraché vi  fusse  similitudine  ne'  nomi,  diventa  quella  lingua  differente:  e  per  esemplo  si  può  dire  la  provincia  d'Italia,  la  quale  è  in  una  minima  parte  differente  nei  verbi,  ma  nei  nomi  differentissima,  perchè  ciascuno  Italiano  dice  amare,  stare  e  leggere,  ma  ciascuno  di  loro  non  dice  già  deschetto,  tavola,  e  guastada.  Intra  i  pronomi  quelli  che  importano  più,  sono  variati,  siccome  è  mi,  in  vece  di  io,  e  ti,  per  tu.  Quello  che  fa  ancora  differenti  le  lingue,  ma  non  tanto  che  elle  non  s'intendano,  sono  la  pronunzia,  e  gli  accenti.  Li  Toscani  fermano tutte  le  loro  parole  in  sulle  vocali,  ma  li  Lombardi,  e  li  Romagnoli quasi  tutte  le  sospendono  sulle  consonanti,  come  Patte,  Pan.  Discorso. Qui  abbiamo  un  germe,  se  non  un  cenno  schematico  di  grammatica  italiana,  ed  è  il  primo,  come  s'è  già  osservato, nel  Cinquecento  avanti  delle  Regole  del  Fortunio.  Il  più  notevole è,  oltre  la  verità  estetica,  che  con  questo  e  con  altri  argomenti  il.Machiavelli  dimostra  acutamente  l'origine  fiorentina  della  lingua  letteraria d'Italia.    Quella  lingua  si  chiama  d'una  patria,  la  quale  converte  i  vocaboli  ch'ella  ha  accattati  da  altri,  nell'uso,  ed  è    potente  che  i  vocaboli  accattati  non  la  disordinano,  ma  ella  disordina  loro,  perchè  quello  ch'ella  reca  da  altri  lo  tira  a  se  in  modo,  che  par  suo....  Ma  tinello  che  inganna  molti  circa  i  vocaboli  comuni,  è,  che  tu  [Dante],  e  gli  altri  che  hanno  scritto,  essendo  stati  celebrati,  e  letti  in  varj  luoghi,  molti  vocaboli  nostri  sono  stati  imparati  da  molti  forestieri,  ed  osservati  da  loro,  talché  di  propri  nostri  son  diventati  comuni.  Quanto  poi  sia  calzante  la  dimostrazione  che  Dante  scrisse  in  fiorentino, è  cosa  già  ben  assodata.  Non  così  esatta  è  l' interpretazionidel  trattato  dantesco,  ma  il  dedottone  ammaestramento,  gli  uomini  che  scrivono  in  quella  lingua,  come  amorevoli  di  essa,  debbono  far  quello  ch'hai  fatto  tu  [Dante],  ma  non  dir  quello  ch'hai  detto  tu,  è  tra  le  cose  più  acute  che  siano  state  osservate  in   tanto  e  tale  dibattito.    Capito/a  quint  14  [    voci  ili  protesta  impregnata  talvolta  di  sarcasmo,  venner  fuori  ben  presto  anche  inviti  ad  accingersi  alla  compilazione  della  grammatica.  Il  Norchiati  nel  dedicare    al  suo  molto  honorando  messer  Pierfrancesco  Giambullari    il  Trattato  dei  Dittonghi^,  constatando  che  rin  allora molti  non  Toscani  avevano  scritto  ordini,  regole  e  modi  d'imparar  la  lingua,  senza  voler  giudicare,  pur  ringraziandoli,  se  avessero  giovato  o  no,  ammoniva che  era  ormai  tempo  che  i  Toscani  si  ponessero  a  dettar  essi  quelle  regole:  ciò  che  egli  intanto  faceva  per  i  dittonghi.  E  nel  trattatello  notevole,  nell' esaltare  sui  Greci  e  Latini  i  suoni  Toscani,  assai  più  abbondanti,  perchè    rendono  gratia  et  leggiadria  inestimabile  all'orecchio  ,  osserva  che    al  pronuntiar  bene  quadrisona  {tuoi)  bissogna  grandissima  pratica  et  attitudine  a  far  sonare  in  essa  gli  quattro  suoni  delle  sue  quattro  vocali,  senza  lassarne  adietrio  o  gittarne  via  alcuno:  e  che  tutti  si  sentino  chiari  speditamente  in  tal  pronuntia,  come  noi  in  Firenze,  e  gli  altri toscani  con  grandissima  facilità,  sonorità,  et  dolcezza  perfettamente  pronuntiano;  e  avvertiva  che  nell'elisione  i  fiorentini non  gettai:  via  nulla,  pronunziando  assa'  meglio  1'  i  che  non  sappian  fare  i  non  Toscani.  Il  Lenzoni  nella  sua  Difesa  della  lingua  fiorentina  se  la  prendeva  più  tardi coi  grammatici non  Toscani  che  pretendevano  insegnar  la  grammatica,  e,  con  una  certa  bravura  schermistica,  postillava  in  margine  le  sue  osservazioni  con  questi  motti:  questo  va  al  Ruscelli  et  all'Alunno,   et  questo  al   Bembo.   Ma  all'elaborazione  della  grammatica  volgare  i  Toscani  avevano contribuito    anche  a  prescinder  dalla  grammatichetta  vaticana    e  contribuirono  più  di  quanto  essi  stessi  non  credessero, e  certo  con  effetti  assai  migliori  per  lo  sviluppo  delle  idee  sul  linguaggio.    (M  Trattato  de  Diphthongi  Toscani,  di  messer  Giovanni  Norchiati canonico  di  S.  Lorenzo.  In  Vinezia  per  Giovanni  Antonio  di  Nicolini  da  Sabio.  Ad  instantia  di Sessa. Difesa  della  lingua  fiorentina,  e  di  Dante  con  le  regole  di  far  bella,  e  numerosa  la  prosa.  In  Firenze  per  Lorenzo  Torrentino.  Fu  pubbl.  da  Cosimo  Bartoli,  e  avrebbe  dovuto  esser  pubblicata  dal  Giambullari,  che  preparò  per  la  stampa,  gli  appunti  lasciati  dal  Lenzoni.  La  p.  Ili  è  costituita  tutta  di  frammenti.  Dalla  pag.   76  incomincia  la  mano  del  Giambullari.    142  Storia  della   Grammatica   I  Toscani,  che  si  trovavano  in  possesso  della  lingua  adottata dalla  letteratura,  non  sentirono  mai  il  bisogno  d' apprenderla dai  libri,  e  nello  sforzo  di  perfezionarla,  secondo  l'esempio  dell'Alighieri,  perchè  potesse  competere  con  le  lingue  classiche,  non  solo  non  perdevano  il  senso  della  parola  viva,  ma  eran  condotti  a  dar  assai  minor  importanza  al  precetto  grammaticale,  che  seguiva  non  produceva  il  fatto  linguistico:  questo  affermarono il  Tolomei,  il  Gelli  e  il  Salviati  medesimo.  Essi,  vedremo,  ammettevano  la  possibilità  e  l'opportunità  della  grammatica  sol  quando  si  fosse  potuto  giudicar  giunta  alla  sua  perfezione,  la  lingua,  e  le  attribuivano  ufficio  di  conservazione,  più  che  di  regola. Questa  riconosciuta  forza  intima  del  linguaggio,  la  sua  capacità  a  svolgersi  e  perfezionarsi  sotto  il  soffio  delle  idee  e  della  civiltà  progredienti  è  il  vanto  della  scuola  toscana,  anche  se  la  grammatica  che  ne  usci,  quella  del  Giambullari,  non  supera d'un  grado  solo  la  contemporanea  letteratura  grammaticale,  e  tutto  il  movimento  toscano  non  potè  sottrarsi  al  dominio  dello  spirito  classico.  Alcune  delle  idee  espresse  nel  suo  Dialogo  dal  Machiavelli,  vero  principe,  per  l'altezza  del  suo  punto  di  vista,  di  questa  scuola,  valgono  assai  più  di  parecchie  grammatiche  di  questo  periodo  prese  insieme:  come  quella  già  riferita  sulla  forza  che  ha  la  lingua  particolare  d'un  popolo  intellettualmente  forte,  di  convertire  in  proprio  uso  i  vocaboli  accattati  da  altri,  non  solo  senza  rimanerne  disordinata  ma  in  modo  da  disordinar  essa  loro,    perchè  quello  ch'ella  reca  da  altri  lo  tira  a    in  modo,  che  par  suo:  concetto  a  cui  non  mancherebbe  nulla  per  esser  profondamente  estetico,  se  nella  mente  del  Segretario  fiorentino il  linguaggio  fosse  stato  tutt'uno  con  l'espressione,  perchè,  nel  vero,  il  realmente  parlato  non  è  se  non  il  vecchio  materiale  linguistico  rielaborato  nelle  nuove  espressioni.   Nello  studio  grammaticale,  storico  e  poetico  della  lingua  che  si  fece  per  oltre  un  trentennio,  dal  sorgere  delle  controversie  ortografiche  all'inaspriménto  della  battaglia  linguistica  provocata  dalla  famosa  Canzone  de'  Gigli  d'oro,  il  senese  Claudio  Tqlprnei,  si  può  dire  che  faccia  parte  per    stesso  in  virtù  della  sua  maggior  cultura  e  penetrazione  filologica,  onde  anche'a  ragione è  reputato  uno  de'  più  fecondi  precursori  della  grammatica storica.  Non  digiuno  di  filosofia,  cultore  appassionato  delle  muse,  oratore  politico  di  qualche  nerbo,  epistolografo  de'  meno  sonnolenti,  egli  cercò  sempre  di  slanciarsi  a  più    alto  volo   che le  penne  del  puro  grammatico  non  consentano,  benché  la  grammatica restasse  pur  sempre  la  sua  principale  occupazione,  e  alle  scoperte  e  innovazioni  ivi  fatte,  ortografiche,  metriche,  fonologiche, sia  legata  la  sua  rinomanza.  Stando  alle  testimonianze  che  si  posson  raccoglier  dalle  sue  lettere,  il  suo  animo  fu  sempre  diviso  tra  le  compiacenze  che  pur  gli  procuravano  i  resultati  in  gran  parte  nuovi  delle  sue  ricerche  e  il  fastidio  che  un  tale  studio  recava  con  sé.  In  una  lettera    al  signor  Alessandro V.    dichiara  d'aver  trovato    per  li  campi  della  grammatica... più  tosto  spine  che  fiori  ,  e  chiama  la  grammatica    cosa  fastidiosissima.  Non  che  non  la  ritenga  una  scienza  vera  e  propria  come  le  altre;  non  che  giudichi  inutile  l'apprenderla  come  corpo  di  dottrina  e  come  mezzo  indispensabile  alla  piena  intelligenza  degli  scrittori;  ma  nega  che  possa  mai  apprendersi  indipendentemente  dallo  studio  degli  autori,  e  annette  la  più  grande  importanza  a    la  destrezza  del  maestro,  il  qual  deve  con  bei  modi  infiammare  il  discepolo  a  li  studij,  sforzandosi  di  agevolarli,  e  addolcirli  queste  vie  spinose  de  la  Grammatica,  acciocché si  possa  senza  troppo  offesa  caminare.   Lo  scritto  che  ora  tocca  più  davvicino  il  nostro  tema,  è  il  Cesano, divulgatissimo,  e  meditato,  se  non  abbozzato,  contemporaneamente  alla  collaborazione  al  Polito  del  Franci.  Consta  nella      Delle  lettere  di  m.  Claudio  Tolomet,  libri  sette.  In  Venetia,  Appresso  i  Guerra.  Cesano,  Dialogo  di  m.  Claudio  Tolomei,  nel  quale  da  più  dotti  Huotnini  si  disputa  del  Nome,  col  quale  si  dee  ragionevolmetite  chiamare la  volgar  lingua.  In  Vinegia  Appresso  Gabriel  Giolito  De  Ferrari,  et  Fratelli,  MDLV,  pp.  198-9.  Sulla  composizione,  la  fortuna  e  i  manoscritti del  Cesano,  e  le  sue  relazioni  col  trattato  dantesco,  è  da  vedere  l'importante  %  2,  Le  allegazioni  di  Tolomei  della  più  volte  cit.  Introduz.  del  Rajna  alla  'sua  ediz.  crit.  del  De  Vu/g.  Eloq..  p.  LX  sgg.  Il  Dialogo  ci  riporta  a  Roma  e  agli  anni  1524-5;  il  signor mio  Illustrissimo    a  cui  il  Cesano  è  diretto,  sarebbe  il  card.  Ippolito de'  Medici,  patrono  del  Tolomei,    che  apparisce  propriamente  a'  suoi  servigi  da  una  lettera;    è    probabile  che  a  scrivere  il  Cesano  deva  il  Tolomei  essersi  messo  per  effetto  del  mancato  Concilio  di  cui  s'è  parlato.  Del  Cesano,  a  conoscenza del  Rajna,  sono    quattro  testi  a  penna:  uno  è  a  Firenze  (Magliabech.),  due  si  trovano  a  Siena  (Bibl.  Com.,  G.   e  K,   e  il  quarto  è  a  Roma,  alla  Vittorio  Emanuele  (Fondo  S.  Pantaleo,  S6  [5.8].     Il  romano  fu  nelle  mani  di  Celso  Cittadini,  il  quale,  per    144  Storia  della  Grammatica   '-1  esposizione  del  Cesano  di  due  parti  oltre  l'obbiettiva  esposizione  delle  teorie  del  Bembo,  del  Castiglione,  del  Trissino,  del  Pazzi:  T  una,  generale,  riguarda  il  linguaggio  e  il  nome  da  dare  alla  lingua  volgare,  l'altra,  speciale,  il  confronto  tra  le  forme  del  latino  e  quelle  del  toscano,   propugnato  dal  Tolomei.     Il  parlare  ,  basterà  metter  in  rilievo  alcuni  particolari  pensieri  per  riassumere  la  questione  speculativa,    a  gli  huomini  è  naturale,  ma  i  vocaboli,  che  le  cose  ci  mostrano,  sono  non  dalla  natura:  ma  dall'arte,  o  dal  caso  in  sul  fondamento  della  natura  formati,  la  quale  ci  fece  tutti  et  disposti  al  parlare,  et  a  sceglier  la  lingua  in  queste  parole  et  in  quelle.      fu  mai  l'oppinione  di  Nigidio  Figulo  ricevuta  per  vera,  il  quale  istimava  che  tutti  i  vocaboli  fossero  naturali,  perchè  quantunque  alcuni  se  ne  trovino,  che  par  sieno  dalla  natura,  et  midolla  della  cosa,  che  significano,  cavati  fuori:  come  strepito,  crepito,  fischio,  tuono,  et  altri  simili  a  questi  non  però  il  monte  grande  de'  vocaboli si  governa  da  [questa  avvertenza.  E  come  sorgono  le  lingue  particolari?  Il  parlar  chiaro  ,  cioè  la  facoltà  di  esprimer chiaramente  i  propri  pensieri,  data  dalla  natura  all'  uomo  (  non  alli  angeli  per  non  esser  loro  necessaria,  non  alle  bestie  per  non  esserne  degne  ),  riceve  ne'  suoi  effetti  varie  modificazioni dalla    varietà  de  i  tempi,  et  la  differentia  de'  luoghi,  che  sono  sempre  di  diversi  vocaboli  et  di  diverse  lingue  produttrici .  E  superfluo  avvertire  qui  l'eco  delle  antiche  dispute  circa  l'origine  del  linguaggio:  a  noi  importa  rilevare  l'importanza  che  ha  l'averle  riprese,  e  l'applicazione  fattane.    Non  essendo  altro  vero  Idioma,  che  un  raccoglimento  di  più  e  più  vocaboli  ordinato  a  servire  a  una  diversità  di  più  huomini  per  potere  isprimere  i  secreti  de  gli  animi  loro,  certo  di  coloro  sarà  sempre,    compiacere,  a  quanto  pare,  al  desiderio  di  Belisario  Bulgarini,  che  doveva  esserne  il  possessore,  vi  segnò  molte  correzioni,  tenendo  a  riscontro  la  stampa  del  Giolito,  e  spesso  vi  restituì  le  usanze  linguistiche dell'autore  di  cui  nessuno  per  certo  poteva  avere  maggior  pratica di  questo  suo  grande  depredatore.  La  fonte  del  Tolomei  parrebbe risultare  il  codice  di  Grenoble  del  De  l'ulg.  Eloq.    La  prerogativa del  Tolomei  si  riduce  secondo  ogni  verosimiglianza  ad  essere  il  primo  studioso  a  cui  apparisca  noto  il  codice  del  D.  V.  E.  che  perverrà nelle  mani  del  Corbinelli,  e  forse  l'avrà  visto  a  Padova  nell'estate o  autunno  del  1532  nell'occasione  di  una  sua  andata  in  Austria. che  da  teneri  anni  con  le  madri  et  co  i  padri  hanno  imparato,  et  poscia  cresciuto  ad  ogni  movimento  del  pensier  loro,  con  gli  altri  di  quella  Città  parimente  usato.  Cosi  è  naturale  che  il  Tolomei  prenda  posizione  pel  se?iese,  lasciando  che  il  Bembo  adduca  le  ragioni  in  favor  del  nome  volgare,  il  Trissino  per  Vitaliano,  il  Castiglione  per  il  cortigiano,  e  Alessandro  de'  Pazzi  pel  fiorentino.  Affermato  il  carattere  peculiare  de'  vari  Idiomi,  esce  in  un'osservazione  acuta,  che,  se  meglio  meditata  e  fecondata, avrebbe  gettato  un  insolito  sprazzo  di  luce  sulla  natura  del  linguaggio,    dove  afferma  che  il  parlar  prima  dee  esser  notissimo  a  colui,  che  lo  parla,  perchè  con  lui  è  più  unito,  che  con  alcun  altro.  Di  qui  al  riconoscere  che  il  linguaggio  è  individua creazione  spirituale  il  passo  non  sarebbe  stato  davvero  lungo.   Dalla  questione  speculativa  passando  alla  storica,  il  Tolomei  si  fa  a  seguire  le  vicende  della  nostra  lingua,  derivandola  dalla  trasformazione  del  latino    operata,   come  si    credeva    general    Su  questo  punto,  che,  come  sappiamo,  non  è  una  scoperta  del  Tolomei,  mentre  è  suo  peculiar  vanto  l'aver  tracciate  alcune  ben  ferme  linee  di  grammatica  storica,  debbo  osservare  che  mi  sembra  caratteristico  l'atteggiamento  onde  il  Tolomei  guarda  il  problema. Il  filologo  moderno,  descrivendo  il  trasformarsi  della  parola  latina  nelle  varie  parole  romanze,  non  solo  tratta  il  suo  tema,  sereno,  senza  predilezione  per  il  latino  o  per  i  nuovi  volgari,  ma  vede  in  quella  trasformazione  un  fatto  che  si  svolge  naturalmente  con  le  sue  leggi  precise  e  costanti,  un  divenire  continuatamente  regolare,  che,  quasi  facendo  scomparire  agli  occhi  di  lui  l'esistenza  di  due  lingue  distinte,  attira  sopra  di    tutto  il  suo  interesse  e  glielo  esaurisce.  Invece,  il  Tolomei,  volendo  dimostrare  che  la  lingua  toscana  è  propria lingua,  indipendente  dal  latino,  bella  per  conto  proprio,  e  libera  da  ogni  debito  verso  quello,  ha    coscienza  di  quella  trasformazione  e,  se  non  nel  Cesano,  ne'  suoi  trattati  inediti,  ne  addita  e  ne  determina le  leggi,  ma  guarda  il  fatto  non  come  una  necessità,  in  cui  il  latino  almeno  come  materia  ha  la  sua  funzione,  ma  quasi  come  un  continuo  sforzo  di  riazione  e  di  ribellione  compiuto  dal  volgare  per  differenziarsi  dal  latino,  staccarsene,  anzi  voltargli  bruscamente  le  spalle,  per  ricomparirgli  poi  dinanzi,  sotto  forme  nuove  e  in  abito  di  gala  per  dirgli,  tra  il  gnive  e  il  canzonatorio,  '  eccomi  qua,  ci  sono  anch'io,  e  posso  anche  misurarmi  teco'.  Questa  è  l'impressione  che  desta  la  lettura  del  Cesano;  onde  non  è  maraviglia  che  chi  potè  esser  informato  dei  discorsi  del  Tolomei  o  direttamente  o  indirettamente,  fosse  tratto  ad  attribuirgli  l'erronea  opinione  che  il  toscano  non  derivasse dal  latino:    Non  vi  concedo  ,  si  fa  dire  al  Tolomei  nel  Diati. Trabalza.  io    146  Storia  della  Grammatica   mente,  dalle  incursioni  barbariche  e  dalla  questione  storica  è  condotto  a  comparare  le  caratteristiche  del  toscano  con  quelle  I  del  latino,  concludendo  che,  se  bella  è  la  lingua  latina,  nulla  /  deve  invidiarle  la  nostra  che,  pur  essendo  stata  manomessa  dai  barbari,  si  piegò  mirabilmente  a  esprimer  con  arte  efficace  i|  nuovi  pensamenti  del  popolo  e  si  concretò  e  si  organò  in  opere  di   letteratura  immortali.   Ecco  i  risultati  di  tale  comparazione   dedotta   per   tutti    gli -4  ordini  della  grammatica,   e  che  riesce,  però,  quasi  a  un  abbozzo  della  grammatica  stessa  del  toscano:   1.  I  suoni  e  gli  '  elementi  '  (lettere),  come  fu  dimostrato  dal  Polito,  non  son  più  nel  Toscano  gli  stessi  che  eran  nel  latino, perchè  alcuni  di  quelli  si  perdettero  ed  altri  se  ne  produssero di  nuovi.   2.  Nella  testura  degli  elementi  il  Toscano  fugge  l'asprezza  come  non  fa  il  Latino:   a)  due  mute  diverse  che  fanno  aspra  testura  il  Toscano  non  le  tollera;   ò)    ogni  muta  può  trovarsi   innanzi  alla.S;   e)  lo  /  e  lo  V  liquido  si  usa  dopo  ciascuna  consonante,    che  addolcisce  con  quel  distruggersi  et  liquefarsi  tutta  la  parola :   nel  latino  questo  avviene  solo  in  due  casi. IL LATINO fugge  generalmente  il RADOPPIAMENTO delle  consonanti. Nulla  di  questo  aggrada  più  al  Toscano.    logo  del  Valeriano,    messer  Giangiorgio,  che  LA LINGUA TOSCANA si'  peggior  della  cortigiana,  o  come  voi  dite,  della  commune,  perchè  si  discosti  più  della  latina;  ne  vi  concedo,  che  la  toscana  venga  dal  latino, perchè  è  lingua  propria  e  separata,  e  indipendente,  et  ha  le  sue  proprie  inflessioni,  e  forme,  e  figure,  et  eleganze  di  dire  forse  assai  più,  che  non  ha  la  latina.  Et  come  questa  vostra  commune,  Italica  dite  esser  derivata  dalla  latina,  così  la  toscana  moderna  potemo  creder, che  venga  dall'antica  lingua  Etrusca,  ecc.  Aggiungerò  che  il  tentativo  di  riformar  la  nutrica  italiana,  secondo  quella  classica, mosse  nel  Tolomei  dal  medesimo  principio  della  virtuosità  e  dell'eccellenza del  toscano  rispetto  al  latino.  Ora  questo  atteggiamento  in  uno  che  pur  seppe  stabilire  qualche  principio  irrefutabile  di  grammatica storica,  da  che  era  determinato  se  non  dalla  coscienza  della  bellezza  della  nuova  lingua,  cioè  dall'attribuire  alla  parola  viva  la  virtù  artistica  propria  dell'espressione?  Ma  qui  debbo  avvertire  che,  come  vedremo  parlando  del  Cittadini,  codesto  atteggiamento  muta  nelle  operette  grammaticali  inedite,  dove  di  proposito  s'indaga  il  modo  della  derivazione  dell'italiano. Lo  L  in  mezzo  delle  mute  e  delle  vocali  cambiasi  nel  Toscano  in  un  /  liquido  ('pieno,  chiave,  fiato'):  e  i  vocaboli  in  cui  lo  L  si  trova  (come  in  '  Plora,  implora,  splende,  plebe')    non  furono  presi  dal  mezzo  delle  piazze  di  Te scana:  ma  posti   innanzi  da  gli  scrittori  :  il  popolo  avrebbe  detto  '  piora,  implora, spiende,  pieve',  come  di  quest'ultimo  ne  habbiamo  manifesto segno,  che  volgarmente  pieve  si  chiama  quella  sorte  di  Chiesa  ordinata  alla   Religione  d'una   Plebe.  I  vocaboli  latini  finiscono  spesso  in  consonante,  o  mute,  o  liquide,  o  mezze  vocali:  il  Toscano  termina  sempre  in  vocale,  tranne  alcuni  pochi  monosillabi  ('  non,  in,  con,  per,  il,  ver  =  verso,  pur,  ancora  che  il  Boccaccio  usi  pure  ').  Questi  fenomeni  avvengono  nelle  '  pure  dittioni  ',  ossia  in  quelle  di  formazione  popolare.   6.  I  vocaboli  si  partono  da  la  natura  o  per  prolungamento o  accrescimento  e  per  accorciamento  (cfr.  il  d  eufonico  e  epentetico;  i  suffissi  '  facissigliene    gli  si  ce  ne  fa  ',  nel  primo  caso;  nel  secondo,  oltre  la  sinalefe,  comune  ai  Latini,  Greci  e  Toscani,  il  troncamento  delle  sillabe  in  liquida  /  m  n  r,  spesso  anche  quando  la  liquida  sia  doppia:  '  augel,  han  =  augello,  hanno  '):   a)  codesto  troncamento  non  può  aver  sempre  luogo  in  causa  dell'accento:    nel  Toscano  non  si  patisce  mai  che  per  qualunque  o  accrescimento,  o  sminuimento  della  medesima  dittione  l'accento  trapassi  di  una  sillaba  in  un'  altra  ;  non  è  possibile  il  troncamento  nel  fine  de'  nomi  femminili  in  a,  tanto  nel  sing.  che  nel  plur.  Gli  altri  casi    raccogliere con  ogni  cura  minutamente  lascieremo  a  coloro,  che  la  Toscana  Grammatica  ci  vogliono  interamente  insegnare.  A  noi  basta  per  hora  intender,  come  questa  usanza  dello  sminuir  così  le  parole  nel  fine,  è  bella  et  varia,  et  de'  Toscani  molto  propria.  Ma  passiamo  più  oltre  a  ragionare  di  quegli  ornamenti,  che  vestono la  parola,  che  sono  tempo,  accento  et  fiato,  overo  aspiratone, et  veggiamo  per  Dio  se  in  questa  parte  ha  la  nostra  lingua  ricchezza  alcuna  propria,   che  a'   Latini  renderla  non  bisogni.   La  quantità.  Noi  non  abbiam  più  lunghe  e  brevi,    benché  et  forse  non  senza  ragione  io  non  istimi,  che  ancora  nella  lingua  nostra  vi  sia  la  misura,  tempo  lungo  et  breve,  lo  quale  se  conosciuto  ben  fusse  a  musiche  regole  temperato,  vie  più  dolce  renderebbe  il  parlare  et  il  comporre  de'  Toscani.  Vedremo  dell'esito  della  folta  caccagio?ie  alla  quale  annunziava il  Tolomei  di  porsi  per  ritrovarli  e  dell'uso  che  dei  trovamenti  egli  fece  nella  sua  nuova  poesia.   \J  accento.    Più  largo  certo  et  più  spazioso  è  '1  corso  de  gli  accenti  Toscani,  che  non  è  quel  de'  Latini  ,  che  non  s'estende  più    dell'antipenultima,  mentre  i  Toscani  si  sospendon    lontan  dalla  line  otto  sillabe,  quattro  per  conto  della  prima  parola,  et  tre  per  conto  delle  affisse:  es.  '  favolanosicenegliene '.  E  torna  a  ribadir  la  regola  dell'immutabilità  dell'accento,   ancora,  che  vi  si  aggiunghino  quattro  particole,  ciò  che  non  avvien  del  Latino,  dove  l'enclitica  que  basta  a  trasportar  l'accento  di  pattern  all'ultima  sillaba:  patremque. L '  aspiratio?ie  è  anche  diversa,  perchè  i  Latini  aspiravano il  principio  delle  sillabe,  se  pur  honor  e  hieri  e  simili  non  succedessin  dal  greco,  mentre  i  Toscani  non  aspirano  niuna  sillaba   che  habbia  in  principio  la  vocale,  ma  quelle  sole,  che  incominciano  da  quattro  lettere,  et  l'altre  due  giunte  dal  Polito,  secondo  eh'  egli  brevemente  et  per  verissime  regole  ne  parla,  nelle  quali  non  si  trova  simiglianza  alcuna  con  l' aspiratione  latina.   io.  I  dittonghi  toscani  o  non  si  spatriano  per  la  Toscana  quali  erano  i  cinque  latini,  o  molti  più  di  questi  senza  dubbio  alcuno.  Gli  articoli.  Usangli  anchora  i toscani, come  i  greci, e  ne'  maschi  et  nelle  femmine  e  nel  maggior  numero,  et  nel  minor  differenti.  Li  quali  oltre,  che  distinguono  l'un  sesso  dall'altro, et  questo  numero  da  quello,  hanno  forza  di  terminare  et  far  più  certa  quella  cosa,  alla  quale  sono  applicati.  Et  evi  differenza  di  sentimento  in  quelle  parole,  che  hanno  l'articolo  in  quelle,  che  non  lo  hanno.  I  casi.    Variasi  per  cagione  de'  casi  molto  più. La  struttura  (sintassi  de'  casi). Et  ordina  senza  dubbio  diverso  in  tutto  et  differente  forma  di  struttura. La  tela  et  V orditura  delle  nostre  parole  (costruzione)  son  diversissime  nell'una  e  nell'altra  lingua,  com'è  dimostrato dalle  traduzioni,  perchè  chi  voglia  far  toscano  Cicerone  o  latino  il  Boccaccio    col  medesimo  filo  e  corso  di  parole,  s' avvedrà  chiaramente  quanto  la  prima  fatica  sia  sciocca,  la  seconda  fasti-'  diosa.   E  sintetizzando  le  riassunte   osservazioni,    conclude:    Che direni  dunque?  non  esser  questa  propria  lingua,  (piando  et  ne'  suoni.Ielle  voci  sue,  et  nella  struttura  delle  sue  lettere  insieme,  et  nel  finimento  delle  parole,  et  nel  modo  dell'accrescere,  o  sminuire  quelle,  ne'  gli  accenti,  et  ne’tempi,  nell' aspirationi.  Che  più?  ne'  dittonghi,  ne'  gli  articoli,  ne'  casi,  nelle  costruttioni,  et  ordinatimi  delle  parole,  nelle  figure  del  dire,  et  finalmente nella  maggior  parte  delle  cose  sia  dall'antica  Romana  cotanto  differente?  Forse  perchè  ella  serba  molti  Latini  vocaboli,  ma  epiesto  che  ci  noia,  per  Dio,  non  ha  ella  nel  thesoro  suo  cpiasi  infiniti,  ancora,  che  non  dirò  forma,  propria  pur  ritengono  dal  Latino?  Leggasi  Dante,  trascorrasi  il  Boccaccio,  odansi  gli  huomini  parlar  da'  paesi  nostri,  e  vedrassi  quanto  quella  heredità,  che  gli  fu  da'  Latini  lasciata,  ella  fusse  riccamente  vestita....  ben  si  può  dire  quasi  della  vecchia  moneta  esserne  nella  Zecca  stampata  moneta  nuova.  E  all'obiezione  dell'alfabeto  risponde  che  questo  è  un  meccanismo,  un  espediente  qualsiasi  inventato  dall'arte,    dove  la  lingua  è  dono  della  natura  per  aprire  le  fantasie  di  ciascuno  a  coloro,   che  intorno  gli  sono.   Dall'aver  descritti  i  caratteri  naturali  del  Toscano,  passa  a  magnificarne  l'eccellenza,  la  bellezza,  la  ricchezza,  la  dolcezza,  scagliandosi  contro  tutti  i  pedanti  che  s'astengono  dallo  scrivere perchè  i  loro  pensieri  non  nacquero  già  nella  mente  de'  tre  sommi  trecentisti  da  poterli  dipingere  col  loro  colore. Che  ci  bisognerebbe  fare  se  '1  Boccaccio  non  havesse  il  suo  Decamerone  scritto,  o  Petrarca  i  suoi  versi?  tacer  forse  per  questo,  o  punto  non  scrivere?    Insomma  la  nostra  lingua  non  è  tutta  ne'  libri:  le  sue  ricchezze  ella    con  la  viva  voce  le  va  a  parte  a  parte  discoprendo.  La  misura  della  ricchezza  è  nell'avere  per  ogni  cosa  un  distinto  vocabolo.  Così  è  condotto  a  far  l'elogio  della  nostra  letteratura,  dove  trova  che  ciascuno  scrittore    nel  grado  suo,  et  nello  stil  suo  arriva  a  ogni  maggior  finezza  di  pregiata  eccellenza.   All'obiezione  che  la  lingua  Toscana  non  obbedisce  a  regole  di  grammatica,  il  Tolomei  risponde  che  è  la  Grammatica  che  nasce  dalla  lingua  e  non  questa  da  quella,  e  che  se  non  sono  state  trovate  le  regole  ancora  (il  che  tutto  non  si  può  dire,  essendoci stato  già  il  Fortunio  e  aspettandosi  le  Prose  del  Bembo),  le  si  troveranno,  e  saranno  complete  quando    altri  tragedie,  altri  Comedie,  Satire  altri,  et  altri  altissime  Poesie  partoriranno:    mancherà   chi    l'infiammato    stile    dell' Oratione,  il    piano    e l'aperto  della  Historia,  il  familiare  della  Epistola  faccia  illustre,  adornarsi  con  questa  lingua  quella  parte  di  Philosohia,  che  a'  costumi  s'appartiene,  quella  che  al  disputare,  et  l'altra  forse,  che  alla  natura,  et  finalmente  non  fia  o  arte  nobile,  o  bella  disciplina, che  dipinta  con  le  parole  di  Toscana  non  si  mostri  agli  occhi  de'  riguardanti  vaghissima,  et  '1  potersi  con  quelle  honoratamente  le  cose  scrivere,  facendo  segno  non  oscuro  i  nostri  antichi  scrittori,  i  quali  quello,  che  volsero  così  facilmente  con  la  penna  scolpirono,  che  si  conosce  esser  più  tosto  insino  alla  nostra  età  mancata  copia  di  eccellenti  scrittori,  che  ella  sia  già  alli  scrittori  mancata  .   A  questo  accrescimento,  a  questo  perfezionamento  del  volgare, il  Tolomei  veniva  pazientemente  dissodando  il  terreno  della  fonetica,  per  ritrovar  i  principi  su  cui  fondar  la  nuova  poesia  onde  doveva  aumentarsi  la  patria  letteratura,    che  non  avesse  nulla  da  invidiare  alla  latina,  pagando  così  il  suo  tributo  a  quel  classicismo,  contro  cui  intendeva  innalzare  l'edificio  delle  nuove  lettere.  Furono  indagini  laboriose,  e  di  cui  aveva  piena  coscienza.  E  notevole  ciò  che  scrisse  al  Benvoglienti  circa  taluni belli  ingegni  co'  quali  ebbe  a  ragionare  dell'  inve?itione  della  nuova  poesia,  e  che    crederono,  e  dissero  che  tutta  quest'arte  si  doveva  risolvere  in  queste  poche  regolette,  che  voi  udirete.  Tutte  le  sillabe,  dove  è  l'accento  acuto  son  longhe.  Tutte  le  sillabe,  che  son  dinanzi  a  l'accento  acuto  son  brevi,  se  già  non  v'  è  l'addoppiamento.  Tutte  le  sillabe,  che  son  dopo  l'accento  acuto  son  brevi,  ancora  che  vi  sia  l'addoppiamento,  e  così  volevano, che  tessonsi,  romperne,  volgerlo   havessero  la  sillaba  di   mezzo  breve Io  alhora  assomiglia'  costoro  a  medici,  che  da     stessi  si  chiamavan  Metodici,  li  quali  per  lo  contrario  Galeno  soleva  chiamare  àjiièvoòovs;  perchè  con  quattro,  o  sei  regolette  volevano,  insegnar  tutta  la  medicina,  omne  laxum  astringendum,  omne  strictum  laxandum,  omne  cavum  implendum:  e  in  ciò  non  considerava!!    età,    veruna  altra  cosa  buona.  Ma  veramente    come  ne  la  medicina  fa  mestiero  riguardar  tutte  queste  cose  distintamente,  così  nella  nostra  inventione  bisogna  contemplar  tutta  la  lingua   insieme,   le  parti    separatamente,   e   veder    molto        Concluderemo  più  presto  esser  mancati  alla  lingua  uomini,  che  l'esercitino,  che  la  lingua  as;ii  uomini  e  alla  materia.    Lorenzo  de'  Medici,  Commento  alle  rime,  in  Torraca,  Manuale  d.  I.  bene  da  qual  fonte  nasce  la  Longhezza,  o  la  brevità  del  tempo,  e  come  ciascuna  parola  con  l'altre  e  con    stessa  si  misuri  e  si  contrapesi;  e  per  qual  riferimento  e  jroog  to  il  longo  sia  longo,  e  '1  breve  sia  breve,  e  come  in  questa  contemplazione  si  pigli  il  mezzo  e  l'estremo.  Che  più?  bisogna  sottilmente  considerar,  se  tutte  le  sillabe  longhe,  sono  egualmente  longhe,  e  le  brevi,  brevi,  e  le  communi,  communi  parimenti:  il  che  è  principio  e  origine  di  grande  intendimento.  E  oltre  di  ciò  è  forza  scoprir  alcuni  segreti,  li  quali  insieme  con  l'altre  cose  spero  vederete  distintamente dichiarate  ne  la  nostra  operetta  sopra  di  ciò  fatta  .  L'operetta  usci col  titolo  Versi  e  Regole  de  la  nuova  poesia  toscana^),  contrassegnando,  come  è  stato  ben  avvertito,   un'epoca  nelle  lettere  del  secolo  XVI  ,  per  il  movimento che  presto  se  ne  propagò  in  tutta  l'Europa  occidentale  ().  Scopo  dell'operetta  era  di  difendere  l'uso  de'  metri  classici  nella  lingua  volgare,  offrendone  le  regole  e  gli  esempi,  forniti  da  un  gruppo  di  letterati  riuniti  in  un  circolo,  Y  Accademia  della  nuova  poesia,  di  cui  il  Tolomei  doveva  esser  ritenuto  fondatore  e  espositore dell'innovazione.  All'  inventione  non  dovè  esser  estraneo  quel  medesimo  spirito  aristocratico,  che  palesemente  affermarono  in  Francia  il  Du  Bellav,  l'autore  della  Défence  et  illustration  de  la  langue  fra?icaise),  il  programma  della  nuova  scuola  che  si  chiamò  la  Pleiade,  e  Jean  de  la  Taille,  autore  di  La  manière  de  faire  de  vers  en  franfois,  comme  en  grcc  et  in  latin  e  che  ispirò  Jean  Antoine  de  Bai'f  a  istituire  sull'esempio  appunto  de\Y  Accademia  della  nuova  poesia,  un'  Académie  de  poesie  et  de  musique,  accettando  le  riforme  fonetiche  propugnate  da  Ramus  nella  sua  Grammar.  La  concezione  aristocratica  che  della  poesia  si  sarebbe  fatta  il  Tolomei  non  sfuggì  agli  stessi  cinquecentisti :  così  il  Ruscelli  raccontava  che    la  facilità  di  far  versi  volgari....  comune  ad  artegiani,  femminelle,  et  perfino  a  fanciulli di  X  o  XII  anni  fu  prima  et  perfetta  cagione  di  muovere Tentativi  d'introdurre  i  metri  classici  nella  poesia  volgare  e  relativi  saggi  risalgono,  è  noto,  in  Italia  al  Quattrocento.  Carducci,  La  poesia  barbara,  Bologna. Nel  voi.  carducciano  ora  citato.  E  cfr.  G.  Mignini,  Saggio  di  gramm.  st.  it.:  i  versi  italiani  in   metrica  latina,  Perugia Spingarn Spingarn Tolomei,  et  tutta  quella  bellissima  schiera  a  ritrovare  una  sorte  di  versi  nella  lingua  nostra,  per  li  quali  si  conoscessero  i  dotti  da  gli  indotti,  che  per  far  versi  il  Molino,  il  Veniero,  il  Contile,  il  Varchi,  il  Costanzo,  il  Rota,  il  Tansillo,  il  Tolomei, il  Caro,  il  Cinthio  et  ogn'altro  dotto,  et  giudicioso  scrittore, non  venissero  a  farsi  fratelli,  et  d'una  schiera,  o  scuola  stessa  con  Baldassare  Olimpo  e  mille  altri  tali  .   Con  la  De f enee  del  Du  Bellay  il  Cesano  ha  non  pochi  punti  di  simiglianza,  non  solo  quanto  alla  condotta  e  tessitura  generale, ma  anche  ai  vari  elementi  classici  e  romantici  che  vi  sono  egualmente  contemperati,  come  dove,  rispetto  alla  lingua,  di  contro  alla  necessità  che  l' idioma  volgare  s'elevi  alla  perfezione  de'  classici,  si  afferma  l' indipendenza  dagli  scrittori,  decidendosi  in  quella  contro  les  tradictions  des  règles,  in  questo  contro  l'avversione dei  timidi  a  parlare  e  a  scrivere  per  non  essere  altrettanti Boccacci  e  Danti.  Più  notevole  è  la  corrispondenza  nella  motivazione  di  queste  decisioni:  il  non  esserci  regole  che  si  possano  accettare,  non  essendosi  raggiunto  ancora  quel  grado  di  perfezione  che  sarebbe  desiderabile.  Quanto  al  problema  capitale le  due  opere  mostrano  un'altra  corrispondenza:  nella  prima  parte  esso  consiste  in  questa  tesi,  che  niente  vieta  alla  lingua  volgare  di  conseguir  la  sua  perfezione;  nella  seconda,  riguardante  i  mezzi,  la  corrispondenza  non  è  altrettanto  piena:  pure  se  nella  determinazione  di  essi  il  Du  Bellay  non  vede  altra  via  che  l' imitazione  del  greco  e  latino,  in  molte  premesse  e  in  certi  altri  resultati  l'accordo  è  abbastanza  notevole.  Entrambi  sostengono  che  la  diversità  delle  lingue  ne'  vari  paesi  si  deve  ascrivere  al  capriccio  degli  uomini  (il  Tolomei  aggiunge  anche  quello  del  caso  e  le  modificazioni  d ell'ambiente),  e  che  perciò  il  perfezionarla  è  dovere  di  quei  che  la  parlano,  e  a  nessuno  è  lecito  esimersi  dall' obbligo  di  concorrere  al  perfezionamento  dell'idioma  nativo:  che  non  basta  attenersi  agli  antichi  autori  nazionali, perchè  altrimenti  non  ci  sarebbe  progresso.  Qui  il  Du  Bellay  consiglia  di  studiare  i  greci,  i  latini  e  gl'italiani,  astenendosi dal  comporre  rondò,  ballate,  strambotti  e  épiceries,  che  corrompono  il  gusto,  e  di  adoperare  le  migliori  forme  poetiche,  epigrammi,  elegie,  odi,  ecloghe,  sonetti;   il  Tolomei  non  insiste    (1j  Discorsi.] troppo  su  queir  imitazione,  ma,  oltreché  pel  verso,  p.  es.,  propugna la  quantità  degli  antichi,  fa  derivar  la  perfezione  della  lingua  dal  trattar  tragedie,  commedie,  satire,  orazioni,  istorie,  epistole  ecc.,  che  vuol  dire  le  forme  più  elevate  delle  letterature  classiche.  La  lingua,  la  poesia,  la  letteratura, la filosofia, dei  moderni  devono venire,  insomma,  per  vivere  e  prosperare,  a  patti  con  quelle  degli  antichi,  nonostante  l'affermata  totale  indipendenza  della   struttura  del  toscano  dal  latino.   Altri  resultati  delle  ricerche  del  Tolomei  venivano  comunicati occasionalmente  agli  amici  nelle  lettere,  spesso,  com'era  l'usanza,  scritte  con  lo  scopo  della  pubblicazione,  e  che  furono      Questo  ravvicinamento    occorrerebbe  dirlo?    non  importa  che  la  Défence  derivi  dal  Cesano;  ma,  poiché  lo  Spingarn  ha  additato come  probabile  fonte  della  Défence  il  De  Vulvari  Eloquentia  e  il  Yossler  ha  sollevato  de'  dubbi  su  tale  derivazione,  e  il  Farinelli  li  ha  confermati  di  sue  ricerche,  senza  che  però  lo  Spingarn  abbia  rinunziato alla  sua  tesi,  che  anzi  ha  ribadito  col  dire  che    l'affinità  è  tale  che  merita  ulteriori  studi  e  più  particolari,  il  nostro  ravvicinamento  potrebbe  gettar  un  po'  di  luce  sulla  questione,  e  servire  a  dimostrar  che  il  problema  del  volgare,  quale  era  stato  impostato  dall'Alighieri,  veniva  ora  ripreso,  con  e  senza  l'aiuto  dell'operetta dantesca,  alle  medesime  basi  da  più  parti,  per  le  condizioni  in  cui  di  contro  alle  lingue  classiche  permaneva  ancora  il  volgare.  Quel  problema è  in  fondo  una  gagliarda  espressione  della  coscienza  della  nuova  letteratura  e  da  Dante  al Salviati,  per  tutto  cioè  il  periodo  in  cui  si  maturò  la  dottrina  poetica  del  Rinascimento,  tutti  i  maggiori  letterati  vi  si  travagliarono  intorno.  In  ogni  modo,  che  al  Cesano  dia  molta  materia  il  trattato  dantesco  è  fuor  d'ogni  dubbio:  anzi,  si  può  affermare  che,  seguendo  le  varie  esposizioni  che  ciascun  interlocutore  (Bembo,  Castiglione, Trissino,  De'  Pazzi)  fa  della  propria  dottrina  appoggiandola  con  passi  del  trattato  che  sembrano  confermarla,  siamo  per  un  buon  pezzo  in  compagnia  dell'Alighieri;  e  con  esso  ci  ritroviamo  ancora  coll'ultimo  interlocutore,  il  Cesano,  il  quale,  fatto  il  dilemma  che  il  trattato  (come  aveva  sostenuto  il  Martelli  non  è  di  Dante,  o,  se  è  di  Dante,  non  prova  nulla  contro  i  Toscani  per  la  promiscuità  dei  termini  da  lui  adoperati  a  designar  il  toscano,  penetra  nella  sostanza  della  distinzione  circa  il  latino  e  il  volgare  e  nel  significato  stesso  dell'operetta,  nel  modo,  secondo noi,  più  acuto:    quand'ella  [la  lingua]  è  chiamata  Volgare,  è  all'  hora  da  coloro,  che  così  la  chiamano  considerata,  come  distinta  dalla  latina,  la  quale  in  questi  tempi  non  era  più  nelle  bocche  del  Volgo,    naturalmente  da  ciascuno  si  parlava,  ma  per  arte  e  studio  solo  s'acquistava.  Parmi  finalmente  che  il  Tolomei  avesse  veduto  anche  il  Discorso  del  Machiavelli,  specie  per  la  parlata  che  mette  in  bocca  al  De'  Pazzi  e,   in  genere,   per  l'opposizione  a  Dante.] pubblicate  infatti  in  un  grosso  volume.  Sono  tra  esse  assai  notevoli,  oltre  le  citate  al  Firenzuola  e  ad  Alessandro  V.  per  quanto  concerne  il  Congresso  bolognese  e  l' insegnamento  della  grammatica,  quella  al  Caro,  dove    avvertisce  alcune  cose  sopra  l'ortografìa  grammatica  Toscana,  come  dir  s'egli  è  meglio  dir  celarò  nel  frutto  [futuro]  che  celerò,  et  altri  simili,  una  al  Citolini,  dove  dichiara    che  cosa  sia  H  in  Toscano,  e  dove  si  proferisca  con  aspiratione,  e  quale  uso  sia  d'essa  ,  e  quella  al  Benvoglienti,  dove    ragiona  di  una  disputa  fatta  sopra  l'inventione  nuova  del  verso  Hesametro  in  Toscana  .  Tolomei  morì  nell’anno  stesso  in  cui  il  Giolito  gli  pubblica  il  Cesano,  che  forse  sarebbe  rimasto  inedito,  quantunque il  Giolito  dicesse  d'averlo  pubblicato  per  sottrarlo  a  una  cattiva  stampa,  come  inedite  rimasero  le  molte  operette  grammaticali del  filologo  senese.  Perdute  del  tutto  gli  andarono,  vivo  ancor  il  Tolomei,  un'opera  de  V eccellenza  de  la  lingua  Toscana  (svolgimento,  forse,  d' idee  già  sostenute  nel  Cesano)  ed  altre  scritture,  durante    quello  scellerato  sacco  di  Roma,  il  quale  oltre  agli  altri  gravi  danni  che  mi  fece,  non  si  vergognò  por  la  brutta  mano  ne  le  scritture,  e  dispergermi  questa  insieme  con  alcune  altre  mie  povere,  e  misere  fatiche.  Frequenti  sono  i  cenni  e  i  richiami  nelle  sue  lettere  ad  altre  scritture.  Nella  lettera  al  Caro in  cui  rispondeva  circa  l'uso  di  celarò  per  celerò  e  simili  e  di  alcune  forme  ortografiche,  diceva  che  l'avrebbe  giustificato  a  suo  tempo,  quando  avesse  condotto  a  compimento  altri  suoi  lavori:    onde  mi  sarà  forza  finir  prima  e  poi  stampar  que'  libri,  ch'io  ho  incominciato  de'  principi '/,  e  de  gli  altri  delle  nature,  e  que'  terzi  delle  forme  della  lingua  Toscana,  oltre  a  certi  piccoli  volumi  di  grammatica,  che  io  ho  scritti  sopra  questa  nostra  lingua.  Dell'anno  della  pubblicazione delle  due  Orazioni  è  un'altra  sua  lettera  al  Citabili  da  Parma,  nella  quale  gli  annunziava  di  acconciarsi    per  iscriver  una  operetta  de  le  quattro  lingue  di  Toscana  ,  da  mandare  a  M.  Annibal  Caro,    la  quale  aprirà  una  grandissima  finistra  per  illuminar  il  corpo  de  la  nostra  lingua,  e  crediate  per  certo  che  senza  questo  lume  ci  si  cammina  al  buio. Notevole  è  anche  sotto  il  rispetto  grammaticale  l'altra  al  Caro  sopra  l'abuso  del  dire  altrui  Sua  Signoria,  Sua  Eccellenza,  intorno  a  cui  molto  allora  si  disputò.  È  riprodotta  nella  bella  raccolta  del  Faxfam.  Lettere  precettive  di  eccellenti  scritturi,  Firenze. Le  operette  grammaticali  che  ci  restano  del  Tolomei  e  formano il  noto  cod. della  Comunale  di  Siena,  vertono  tutte  su  questioni  di  fonetica,  anche  quando  riguardino  la  morfologia e  la  metrica:  Grammatica  Toscana (lettere  dell'alfabeto  e  loro  classificazione);  Tratta/o  delle  forme  (passaggi  de'  suoni  latini  negl'italiani   la  teoria  de'  suoni  in  relazione  con  le  loro  rappresentazioni  grafiche);  3.  La  rima  che  cosa  sia  e  quante  lettere  bisogna  rimare;  Delle  rime  proprie  e  delle  improprie;  De  lo  e  chiaro  e  fosco;  De  l'o  chiaro  e  fosco  (che  sono  i  due  trattati  che  andarono  a  costituire il  cap.  VI  delle  Origini  del  Cittadini);  Stili'*  sordo  e  sonoro;  Stillo  z  sordo  e  sonoro.  Su  di  esse,  che  certo  rappresentano il  maggior  titolo  di  lode  pel  Tolomei  e  gli  assegnano  un  posto  eminente  nella  storia  della  filologia  romanza,  crediamo  opportuno  discorrere  quando  incontreremo  il  Cittadini  col  quale  vedono  in  qualche  modo  la  luce,  entrando  direttamente  nel  circolo delle  idee.  Intanto  osserviamo  che  fu  male  che  questi  trattatelli,  che  avrebbero  potuto  fecondare  un  più  intenso  e  metodico studio  storico  della  lingua,  non  vedessero  la  luce;  ma  una  discreta  parte  si  deve  credere  che  ignota  del  tutto  non  rimanesse  al  mondo  letterario,  date  le  relazioni  del  Tolomei  e  il  costume  letterario  dell'età.  In  ogni  modo  l'opera  del  Tolomei,  considerata nel  suo  complesso,  avanza  in  valore  la  comune  produzione  grammaticale  del  tempo,  per  le  idee  critiche  generali  sul  linguaggio e  gì'  idiomi  in  particolare  e  le  conoscenze  positive  circa  l'evoluzione  del  Toscano.   Se  non  così  notevoli,  certo  importanti,  non  pel  fatto  della  grammatica  concreta  che  ne  derivò,  ma    per  i  canoni  linguistici ripresi  in  discussione  e  le  vedute  per  cui  die  luogo  circa  la  possibilità  della  grammatica,  furono  i  resultati  a  cui  menò  l'iniziativa  presa  dall' 'Accademia  fiorentina  l'anno  stesso  in  cui  si  rinnovellava sul  tronco  non  vecchio  ma  infrenato  degli  Umidi,  allegroni  ben  degni  di  godere  il  frizzo  del  Lasca,  che  dai  solenni  uomini  della  riformazione  generale  fu  con  l'espulsione punito  de'  suoi  ribelli  sdegni  contro  la  pedanteria  stravincente sulla  giovialità.  Gelli  e  Giambullari  furono  de'  quattro  che  l'Accademia  elesse  all'ordinamento  grammaticale  della  lingua,  divenuta  l'oggetto  della  sua  attività  dalla  compiuta riforma.   E  l'uno  e  l'altro  si  diedero  infatti  a  osservare  e  a  comporre  le  leggi  della  lingua  fiorentina.  Ma Gelli, dopo un anno di  studio  amoroso,  rinunziò  all'impresa,  che  gli  parve  fortemente  difficile,  anzi    quasi  impossibile    ad  essere  attuata.  Egli,  se  non  fu  un  filosofo,  esercitò  però  il  pensiero  sui  problemi morali  meglio  di  molti  suoi  contemporanei  :  da  questi  suoi  amori  con  la  filosofia  dovette  esser  tratto  naturalmente  a  considerare  il  difficile  problema  d'una  grammatica  toscana,  e,  con  acume  degno  del  suo  fine  intelletto,  lo  risolse  negativamente;  in  ciò  è  sopratutto  il  suo  merito,  anzi  per  questo  merita  una  nota  particolare  in  una  storia  come  questa,  anche  se  a  codesta  soluzione  non  giunse  con  ragioni  critiche  sempre  e  in  tutto  fondate e  dedotte  da  un  criterio  scientifico.   Egli  ne  fece  l'esposizione  (a  richiesta  del  Giambullari  stesso,  che  nella  prima  tornata  era  stato  rieletto    nel  numero  di  quegli  uomini,  che  debbono  riordinare  et  ridurre  a  regola  la  nostra  lingua  fiorentina  ,  e  dell'esposizione  si  valse  come  di  acconcia  prefazione  alla  sua  grammatica  già  da  tre  anni  composta e  in  quello  stesso  della  rielezione  pubblicata)  in  un  Ragionamento, che  egli  finge  avvenuto  o  che  avvenne  il  giorno  stesso  di  quella  tornata  e  poi  distese  per  iscritto,  infra  Bartoli  et  Gelli  (sé  stesso)  sopra  le  diffìcultà  del  mettere  in  Regole,  la  nostra  lingua.     Le  ragioni  ,  comincia  col  confessare  il  nostro  critico,    et  le  diffìcultà  che  non  solo  mi  hanno  fatto  levar  via  l'animo  da  questa  impresa;  ma  ancora  giudicarla  quasi  impossibile,  sono  et  molte,  et  molto  potenti:  et  quanto  più  vi  pensava  intorno,  più  mi  se  ne  offerivano  sempre  alla  mente,  dell'altre  nuove.  Così   mentre  che  io  stava  lontano  al  mettere  in  atto  questa  formazione   delle   Regole;    me    le    imaginava    piccola   cosa.    Ma Egli  apprende  ed  applica  tenacemente;    che  un'  idea  sola,  il  contrasto  fra  so/so  e  ragione,  regge  tutta  l'opera  sua,  nei  dialoghi  morali  e  ne'  commenti,  anch'essi  morali,  a  Dante  e  al  Petrarca;  ma  non  è  ingegno  che  avanzi,  nemmeno  d'un  punto,  che  sulle  cognizioni  apprese  operi  attivo  per  arricchirle,  per  trasformarle  in  sé,  per  acuirle  a  nuovi  concetti.  F.  Ne.,  recens.  delle  pubblicazioni  gelliane  dell'Ugolini  e  del  Fresco  in   Giorn.  st.  d.  lett.   il. Giambullari,  Della  lingua  che  si  parla  e  scrive  in  Firenze, e  un  Dialogo  di  Gelli,  Sopra  la  difficoltà  dell'ordinare detta  lingua,   In   Firenze,  per  Torrentino.] quando  poi  tentammo  porla  ad  effetto,  quanto  più  la  considerai,  tanto  più  mi  parve  difficile.  L' impresa  anzi  sarebbe    al  tutto  impossibile  per  la  diversità  di  nomi  et  delle  pronunzie  che  si  trovano  per  le  città  di  Toscana:  ciascuna  delle  quali  pregiando  più  le  sue  cose,  che  quelle  d'altri,  stimerebbe  et  terrebbe  errore  quello  che  in  Firenze  sarebbe  regola  :  che  è  già  un  bel  principio positivo  contro  la  possibilità  d'una  grammatica  che  voglia  abbracciare  un  nucleo  di  linguaggio  più  ampio  di  quel  che  sia  il  proprio  d'una  sola  città,  e  dal  quale  non  era  difficile  dedur  l'altro  che,  un  fiorentino  non  essendo  l'altro,  la  grammatica  d'uno  non  può  esser  la  grammatica  dell'altro.    Ma  per  meglio  esplicarvi  ancora  questo  capo,  mi  bisogna  cominciarmi  da  un  altro  principio.  Ditemi  chi  fa  l'ima  l'altra,  o  le  regole  le  lingue,  o  le  lingue  le  regole?  E  chi  non  sa  che  le  lingue  fanno  le  regole, essendo  quelle  innanzi  che  queste:  et  non  essendo  fondate  queste  in  altro    avendo  altra  pruova  chi  le  confermi,  se  non  la  autorità  di  esse  lingue?  Et  da  questo  essendo  egli  com'egli  è  vero,  nasce  che  e'  non  si  può  far  regola  alcuna  che  sia  veramente regola:  non  solo  alla  lingua  Toscana;  ma  anche  alla  Fiorentina .  Solo  delle  lingue  invariabili  come  quella  sacra  della  Bibbia,    certamente  cosa  fuori  di  Natura;  et  che  non  può  attribuirsi se  non  a  Dio  ,  si  posson  far  regole:  e  è  pur  cosa  certa    che  anche    si  posson  agevolmente  metter  in  regola  le  variabili  morte,  come  sarebbe  la  lingua  latina:  ma  de  le  vive  che  e'  non  sia  solamente  difficile  il  farvi  regola  alcuna  perfetta  e  vera;  ma  che  e'  sia  quasi  al  tutto  impossibile.  Perchè  le  lingue  vive  progrediscono  fino  a  un  massimo  di  perfezione  e  poi,  dopo  una  certa  stasi,  come  avviene  del  sasso  che  lanciato  a  una  certa  altezza,  per  calare,  deve  pur  fermarsi  un  istante,  decadono;  ma,  non  potendosi  conoscere  questa  loro  stasi  di  perfezione, perchè,  la  civiltà  continuamente  avanzando,  non  e'  è  grado  di  perfezione  che  non  possa  esser  superato  da  un  grado  più  eccellente,  viene  a  mancare  la  fonte  più  pura  donde  si  cavino regole  perfette  ed  intere.  Dice  molto  meglio  di  noi  il  Gelli>    Non  si  potendo  sapere  nelle  lingue  vive,  quando  sia  questo  loro  stato  et  questo  colmo  della  loro  perfezione:  Egli  non  si  può  ancora  conseguentemente  farne  regole  perfette  ed  intere.  Perchè  sebbene  e'  si  può  sapere  mediante  gli  scrittori  di  quelle  quando  meglio  che  mai,  elle  si  sierto  favellate  per  il  passato:  Nessuno  è  però  che  si  possa  promettere  per  il  futuro, che  insino  a  che  elle  non  mancano,  elle  non  si  possino  favellar  meglio;  Et  così  che  e'  non  possino  surgere  ancora  alcuni  scrittori, ch e  le  iscrivino  molto  meglio.  Qui  appaiono  evidenti  tutti  i  concetti  erronei  che  servono  di  base  al  ragionamento  del  Gelli:  quello  della  lingua  considerata  come  organismo  staccato  dal  pensiero,  quello  della  sua  evoluzione  coi  relativi  gradi  di  ascensione,  perfezione,  decadenza,  quello  della  lingua  perfetta  o  modello  e  l'altro,  che  ne  conseguita,  della  facoltà  acquisibile  di  parlar  con  piena  correttezza  mediante  regole  perfette  ed  intere  cavate  da  una  lingua  nel  colmo  della  sua  perfezione.  Qui  l'atto del  linguaggio  come  cosa  viva  non  è  più  libera  creazione  spirituale, e  la  grammatica  viene  argomentata  possibile:  conclusione assolutamente  contraria  alla  tesi  annunziata:  la  grammatica è  ineseguibile  ignorandosi  il  grado  di  perfezione  della  lingua e  mancando  altre  condizioni,  come  una  ricca  letteratura;  ma,   eliminati  questi  ostacoli,   è  possibile.   L'altra  difficoltà  è  la  seguente.  Quel  che  fu  concesso  ai  Grammatici  latini  non  si  può  fare  nella  lingua  Fiorentina,  et  molto  meno  nella  Toscana,  che  et  vivono  ancora,  et  non  hanno  scrittori  da  fondarvi  lo  intento  suo,  non  si  sapendo,  se  elle  sono  ancor  pervenute  a  '1  colmo  dello  Arco.  Et  se  questo  non  si  può  fare  per  via  de  gli  scritti;  chi  vieta  che  e'  non  si  faccia  almanco  per  via  dello  uso?  Et  di  quale  uso?  Oh  questa  è  l'altra  difficoltà, et  non  punto  minore  della  precedente.  Et  perchè?    In  sostanza,  perchè  i  Romani,  padroni  del  mondo,  potevano  imporre la  loro  lingua,  e  noi  Fiorentini  che  si  vale?    Noi  non  ci  abbiamo  Imperio  alcuno  così  grande,  che  e'  muova  (come  i  Romani) le  città  sottoposteli,  a  cercare  spontaneamente  di  favellare et  onorare  quella  lingua,  che  favelli  che  le  comanda. Nientedimanco  e'  si  vede  pur  manifestamente  ne'  tempi  nostri  che  molte  persone  di  qualche  spirito,  così  fuor  d'Italia  come  in  Italia,  s' ingegnano  con  molto  studio,  di  apprendere,  et  di  favellare questa  nostra  lingua,   non  per  altro  che  per  amore.   A  questo  punto  il  Gelli  tira  il  ragionamento  a  sostenere  garbatamente  il  primato  di  Firenze,  nella  lingua,  non  che  sul1'  Italia,  sulla  Toscana  stessa,  e  a  dar  ragione  del  decadimento  di  esso  dai  tempi  del  Triumvirato  e  del  suo  risorgimento  presente avvenuto  per  effetto  della  rinascenza,  dell'amore  e  del  culto,  cioè,  degli  studi  classici,  latini  e  greci.    Et  da  che  vi  pensate  che  nasca  questo?  Se  non    da   l'essere   oggi  in  Firenze così  gran  numero  di  Persone  che  hanno  bonissima  cognizione)  della  lingua  Latina:  La quale essendo  state  necessitate  nello  impararle,  a  vedere  i  veri  Poeti  hanno  assai  chiaramente  conosciuto,  che  cosa  sia  Poesia;  et  quanto  sia  verbigrazia  contro  i  precetti  dell'Arte,  il  ridurre,  tutta  la  vita  di  un  huomo,  o  pur  le  azzioni  di  XXV  o  XXX  anni,  in  due,  o  tre  ore  di  tempo  che  si  consuma  nel  recitare. Oltre  a  questo,  avendo  appreso per  via  di  Regole,  quelle  due  lingue,  conoscendo  quante  e  quali  sieno  le  parti  del  Parlare,  et  in  che  modo  elle  debbino  accompagnarsi j  cominciano  a  favellare  tanto  rettamente,  et  con  tanta  leggiadria,  che  io  mi  persuado  gagliardamente  la  nostra  lingua  esser  molto  vicina  a  quel  sommo  grado  della  perfezione, oltre  il  quale  non  si  può  salire.  I  nostri  tre  massimi  scrittori  stessi,  aggiunge  il  Gelli,  furono  i  primi  in  questi  Paesi  ad  aver  notizia  e  a  diffondere  la  conoscenza  del  latino  e  del  greco,  essi  stessi  cominciando    a  parlare  rettamente  et  ordinatamente, migliorando  et  inalzando  tanto  il  nostro  Idioma  da  quello  che  egli  era   Ma  che  e'  non  furon  già  poi  seguiti    imitati  nello  allevarla,  secondo  i  modi  posti  da  loro  ,  come  ora  s'è  tornato  a  fare  in  gloria  della  lingua.  Inoltre  concorrono  a  ciò  altre  cause:  l'imitazione  di  coloro  che  non  voglion  esser  da  meno  e  nel  parlare  e      co  '1  tradurre,  arrecandoci  le  scienze  et  l'arti  che  elli  imparano  nelle  altre  lingue;  l'uso  più  esteso  della  lingua  materna  fatto  da  parte    dei  principi  e  gli  uomini  grandi  et  qualificati,  a  scrivere  in  questa  lingua,  le  importantissime cose  de'  Governi  degli  Stati,  i  maneggi  delle  Guerre,  e  gli  altri  negotij  gravi  delle  faccende  che  da  non  molto  indietro  si  scrivevano  tutti  in  lingua  latina.  Perchè  non  vi  date  a  intendere che  una  lingua  diventi  mai  ricca  et  bella,  per  i  ragionamenti de'  Plebei,  et  delle  Donnicciuole,  che  favellali'  sempre  (rispetto  a  lo  avere  concetti  vilissimi)  di  cose  basse:  che  e'  sono  solamente  gli  huomini  grandi  e  virtuosi,  quelli  che  inalzano,  et  tanno  grandi  le  lingue.  Imperoche  avendo  sempre  concetti  nobili et  alti,  et  trattando  et  maneggiando  cose  di  gran  momento,  et  ragionando  benespesso  et  discorrendo  sopra  quelle  in  prò  et  in  contro,  persuadendo  o  dissuadendo,  accusando  o  lodando:  Et  tal  volta  ancora  ammonendo  et  insegnando;  fanno  le  lingue  loro,  copiose,  onorate,  ricche,  et  leggiadre  .   Conseguentemente  il  Gelli  conclude  che  la  lingua  fiorentina  non  essendo  però    ancor  pervenuta  a  lo  stato   suo,  non   se  ne    i6o  Storia  della   Grammatica   possa  far  regola,  che  in  tempo  non  molto  lungo,  non  abbia  a  scoprirsi  defettuosa;  et  non  più  tale,  quale  oggi  forse  ci  apparirebbe .   Ma  si  fa  opportunamente  obiettare  dal  suo  interlocutore: Orsù,  ponghiamo  per  le  tante  cose  allegate  da  te,  che  alla  Accademia  non  si  convenga  il  fare  queste  Regole:  vuoi  tu  però  affermare  al  tutto,  che  una  Persona  privata  et  particulare;  lasciando favellare  ad  arbitrio  loro  qualunque  Città  et  luogo  della  Toscana,  senza  difettargli,  o  riputargli  da  meno  per  questo:  Non  possa  almanco  da  i  tre  primi  nostri  scrittori  et  da  l'uso  di  Firenze,  formare  le  Regole,  che  a'  tempi  d'oggi,  insegnino  favellare rettamente  a  Fiorentini  stessi,  et  a  chi  pur  volesse  imitargli ?  E  gli  risponde:    Oh  questo  Nò,  messer  Cosimo,  perchè  io  mi  credo  pure,  che  un'  solo,  in  suo  nome  proprio,  et  non  di  Accademia,  con  tutte  quelle  avvertenzie  che  voi  avete  dette,  sicuramente  le  possa  fare  .  Fattosi  poi  domandare    et  con  qual'ordine?  e  in  che  maniera?    quelle  regole  si  potrebber  formare,  risponde  distinguendo  nella  lingua    due  parti  principali, la  materia  ciò  è  et  la  forma:  la  materia  sono  le  parole  de  le  quali  ella  è  fatta:  et  la  forma  è  quel  modo  et  quell'ordine,  col  quale  son'  contestate  et  tessute  insieme  l'una  parola  con  l'altra,  che  si  chiama  ordinariamente  la  costruzzione  .  Quanto  alla  materia,  trova  facile  ordinarla  in  un  Vocabolario,  ricordando  a  questo  punto  il  lavoro  poi  perduto  del  Norchiati,  e  permettendoci cosi  da  questa  citazione  di  argomentare  che  il  Gel  li  avrebbe  voluto  un  Vocabolario  metodico.  Quanto  alla  forma,  dopo  aver  accennato  alla  maggior  dolcezza  del  periodo  e  delle  clausole  della  favella  fiorentina,  osserva  che  i  grammatici  anteriori troppo  s' indugiarono  e  si  distesero    nelle  declinazioni  solamente ,  passandosi  della  costruzione  senza  parlarne  se  non  pochissimo:  come  cosa  troppo  difficile;  et  ad  essi  forse  (appunto  perchè  forestieri!)  mal  riuscibile.    onde  circa  al  formar  queste  regole,  non  mi  affaticherei  molto  nella  prima  parte:  Ma  dichiarate le  parti  della  Orazione,  et  dimostrate  le  declinabili  et  le  indeclinabili,  et  gli  esempli  de'  verbi  massimamente  con  quella  diversità  che  è  tra  l'uso  moderno,  et  quello  che  è  dicono  de'  nostri  antichi,  me  n'andrei  tutto  alla  costruzione.  Nella  quale,  consistendovi  (come  ho  detto)  tutta  la  importanzia  eli  questa  lingua,  vorrei  io  certamente  usare  una  diligentia  più  la  che  estrema:  Togliendo  da'  tre  sopra  detti,  tutto  quel  che  fusse  ben detto.   Il  che  al  giudizio  mio  solamente  sarebbe  quello,  che  l'uso   di  oggi  si  ha  mantenuto:  Essendo  l'orecchio  nostro  inclinato  naturalmente  a  lasciar  sempre  le  cose  aspre,  dure,  et  difficili;  et  seguitare  le  dolci  e  le  facili  .   Ho  riportato  questo  brano  anche  perchè  mi  risparmia  un  più  lungo  discorso  sulla  grammatica  del  Giambullari,  in  quanto  che  il  Gelli  si  fa  dire  dal  Bartoli:    Questo  è  appunto  l'ordine  stesso,  et  il  modo  che  il  nostro  Giambullari,  tenne  in  quelle  sue  Regole,  che  egli  già  son  tre  anni,  donò  allo  illustrissimo  signor  Don  Francesco  de'  Medici  primogenito  di  S.  Eccellenza  .  E  il  Gelli  lo  conferma  aggiungendo  d'averle  viste,  poiché  il  Giambullari gliele  aveva  conferite  molte  volte    et  massimamente  l'anno  passato,  quando  eravamo  in  questo  maneggio  ,  e  parergli   che  egli  avesse  trovato  la  vera  via,  et  con  una  diligenzia  maravigliosa,  fatto  ciò  che  fusse  possibile  farsi  in  questa  materia  .  E  chiesta  la  ragione  per  cui    ormai  non  le  comunica  con  la  stampa  a  tutte  le  Genti  che  le  desiderano  ,  il  Bartoli  gli  annunzia  d'aver  finalmente  a  ciò  indotto  il  Giambullari:    et  così  fra  non  molti  giorni,  comincerò  a  farle  stampare,  che  di  tanto  son  convenuto  co  '1  Torrentino.   Nell'eseguire  però  il  programma  tracciatogli  dal  Gelli,  il  Giambullari,  secondo  quanto  anche  afferma  il  Lombardelli,  sulla  fede  del  Giambullari  stesso  proemiante  all'operetta,    tenne  per  quanto  gli  fu  lecito,  la  maniera  del  vostro  Linacro  in  quella  eccellente  opera  de  struchira  latini  sermonis,  e  seguitò  anco  la  strada  comune  de'  Gramatici  latini,  e  forse  di  Costantino  Lascari  greco;  onde  può  ammaestrare  i  principianti,  e  giovare  agl'introdotti;  e  io  per  me  gli  ho  grande  obbligo;  come  anco  voi  dite  di  avergliene,  persuaso  a  pigliarlo  in  pratico  da  quelle  lodi,  che  io  già  gli  diedi  nel  Proemio  della  Pronunzia  Toscana  .   Degli  otto  libri  onde  il  trattato  si  compone,  due  son  dedicati alla  morfologia,  e  non  senza  rincrescimento  dell'autore,  che  ne  avrebbe  voluto  far  un  solo  (p.  io),  e  gli  altri  sei  alla  sintassi. Definite  le  lettere,  le  sillabe,  le  parole,  l'orazione  (diceria,  parlare,  la  nostra  '  proposizione  ' )  che  divide  in  perfetta  o  imperfetta ('  elittica  '),  e  classificate  le  parti  di  essa  (nome,  pronome, articolo,  verbo,  avverbio,  participio,  preposizione,  inframesso  =  interiezione,   legatura  =  congiunzione),  passa  a  trattare    i  '  |  I  /otiti     delle  cinque  declinabili  nel  primo  libro,  e  delle  quattro  indeclinabili nel  secondo,  dando  di  tutto  poco  più  che  gli  schemi.  Così  nella  trattazione  del  nome,  son  quasi  del  tutto  abolite  le  declinazioni ;  del  pronome  ha  tagliato  via  tutta  l'esemplificazione  che  trovammo  nel  Fortunio  e  nel  Bembo;  dell'articolo  fa  una  sola  classe;  del  verbo  conserva  solo  la  distinzione di transitivo e intransitivo, distinguendo invece tra i modi l'esortativo, il desiderativo, il  potenziale; ammette una quinta coniugazione dei verbi che partecipano della terza e della  quarta,  come  porre;  del  participio  tratta  anche  il  passivo  futuro  {reverendo).  Più  rapida e  schematica  è  la  trattazione  del  secondo  libro.  Distingue  le  preposizioni  in  a)  segni  di  casi  (de,  di,  a,  da)  e  b)  preposizioni vere  e  schiette:  più  parla  delle  affisse;  enumera  le  varie  'specie'  e  'sottospecie'  di  avverbi,  dell' inframesso  (es.  d'inframessi  '  timidi  ':  sta  sta,  zi,  babà,  appartenenti  al  linguaggio  degli  uomini  bassi,  non  degli  scrittori);  chiude  con  alcune  poche  specie  di  legature.   E  viene  a  trattare  della  '  costruzione  '.  L'esposizione  è  notevole, perchè  ci  richiama  una  recente  distinzione  della  sintassi  in  regularis  e  figurata  nelle  relative  forme  di  ellissi,  pleonasmo,  inversione  o  per imitazione .  Infatti  Giambullari  ammette  della  costruzione  'due  spezie'  principalmente:  l'ima  delle  quali  non  manca  e  non  soprabbonda  di  cosa  alcuna,    ha  in    stessa  trasmutamento,  od  alterazione,  come  p.  es.,  la  bellezza  diletta  l'occhio:  Et  l'altra  per  l'opposito,  manca  [ellissi],  e  soprabbonda  [pieo?iasmo]  di  qualche  cosa,  o  riceve  alcun  mutamento  [inversione^, come  p.  es.    La  vita  il  fine,  e  '1    loda  la  sera  .  Chiama  la  prima  '  costruzzione  intera  '  ['  syntaxis  regularis  '],  la  seconda  '  figurata  '  ['  fgurata  '].  Quanto  al  giudizio  dell'una  e  dell'altra,  il  Giambullari  approva  e  raccomanda  ai  giovinetti  la  prima,  e  giustifica  l'altra  sull'esempio  de'  grandissimi  nostri  scrittori,  che  non  debbono  però  essere  imitati  dai  giovinetti.   La  costruzione  intera  è  trattata  in  tre  libri,  abbracciando  la  SINTASSI del  nome,  dell'articolo,  del  pronome,  nel  IV  quella  del  verbo,  nel  V  quella  delle  parti  indeclinabili:  hi  fgurata comprende  gli  ultimi  tre,  di  cui  il  VI  è  tutto  dedicato  allo  scambio   (enallage,    antimeria),   il    VII    alle  figure  di  parola,   (']  L'ordine  con  cui  tratta  dello  scambio,  è  questo:  comincia  da]  nome,   e  parla  di  tutti  gli  scambi   del   nome  (una    spezie  per   un'altra, l'YIII  alle  figure  di  sentenza:  oggetti  questi  del  rettorico,  ma  di  competenza  anche  del  grammatico,  perchè  anche  il  grammatico spiega  gli  scrittori  (enarratio  poetarum).  Delle  figure  ne  sono  inventariate  coi  loro  rispettivi  nomi  greci,  latini  e  italiani,  coniati  bizzarramente  dal   Giambullari,   circa  dugento!     Così,  teoricamente,  neppur  con  questo  valoroso  gruppo  di  Toscani,  che  avevano  invocato  per    il  diritto  di  legiferare  in  punto  grammatica,  nessun  punto  di  vista  nuovo  veniva  conquistato con  cui  meglio  scrutar  la  natura  del  linguaggio:  praticamente, la  grammatica  normativa,  diremo  così,  ufficiale  era  elaborata sul  vecchio  stampo,  ridotta  nella  parte  morfologica,  accresciuta in  quella  SINTATTICA,  gonfiata  a  dismisura  in  quella  retorica  delle  figure  (quella  che  fu  appunto  compilata  da  Giambullari,  non  esiterei  a  chiamar  un  regresso  rispetto  all'abbozzo  grammaticale che  troviamo  nel  Cesano  del  Tolomei,  appunto  perchè  qui  si  notavano  le  caratteristiche  del  toscano  vivo  senz'  intendimento precettistico):  teoria  e  pratica,  prese  a  trattare  con  certo  spirito  nuovo,  quasi  di  ribellione,  e  non  nascosto  intendimento di  progresso,  rimanevano  sostanzialmente  sotto  il  dominio del  classicismo  e  delle  regole.  Pure,  guadagni  se  n'ebbero e  non  scarsi.  Il  maggiore  e  più  positivo  fu  l' indagine  storica  condotta  con  così  bei  resultati  dal  Tolomei:  i  suoi  accertamenti  vanno  soggetti  a  correzioni  non  poche    lievi,  ma  contengono  un  elemento  conoscitivo  irrefutabile  per  la  filologia moderna,    del  tutto  disutile  per  la  stessa  ricerca  speculativa:   quei    fatti    linguistici   (come   li    chiamano)    da  lui    de  ovvero  il  proprio  per  lo  appellativo,  p.  es.  Imagine  per  Imaginazione:  Petrarca,  '  Et    diviso  |  da  la  imagine  vera  '  |;  lo  appellativo  per  il  parti/ivo;  il  proprio  per  il  possessivo,  ecc.),  e  del  nome  scambiato  per  un'altra  parte  del  discorso  (il  nome  per  il  participio,  per  la  preposizione, ecc.);  poi  dello  scambio  del  pronome,  e  così  di  seguito,  di  quello  di  tutte  le  altre  parti  del  discorso:  litania  interminabile  di  classificazioni, definizioni,   esempi. Come  a  Gelli  un  Trattatello  dell'origine  di  Firenze,  così  al  Giambullari  dobbiamo  un  Ragionamento,  intitolato  il  Getto,  della  prima  ed  antica  origine  della  Toscana  e  particolarmente  della  lingua  fiorentina,  dove,  com'è  risaputo,  il  famoso  storico  tanto  spropositò  nella  spiegazione di  quest'ultimo  problema.  Per  entrambi  i  libretti,  cfr.  M.  Barbi,  //  trattatello  sull'origine  di  Firenze  di  G.   G.   Gelli,  Firenze,  1894.   Sul  Giambullari,  cfr.  Valacca,  La  vita  e  le  opere  di  P.  F.  G.,  Bitonto.   scritti  non  sono  il  linguaggio  reale,  ma  non  sono  neppure  semplici  e  astratte  categorie:  e  certo  valgono  assai  più  del  precetto, delle  regole  come  aiuti  a  penetrare  la  natura  dell'atto  che  li  crea.  Nell'ordine  delle  idee,  germi  di  progresso  contengono  quella  calda  difesa  del  volgare,  e  particolarmente  di  quello  parlato in  Toscana  di  contro  al  latino  e  all'italiano  del  Trissino,  astrazione  d'un'astrazione,  che  il  Tolomei  fece  con  tanto  acume;  la  poca  simpatia  di  lui  per  la  grammatica  come  disciplina  precettiva, in  cambio  della  quale  era  consigliata  più  francamente  la  lettura  degli  scrittori;  quel  travagliarsi  del  Gelli  intorno  alla  difficoltà  e  all'  impossibilità  del  mettere  in  regola  la  lingua  viva  che  è  in  continuo  moto,  anche  se  il  fondamento  della  dimostrazione è  erroneo;  quel  riconoscer  necessaria  una  maggior  trattazione della  sintassi,  un'altra  categoria  di  più,  che  permette  di  veder  meglio  per  entro  lo  spirito  della  lingua;  il  riconoscere  che  la  lingua  s'accresce  e  si  perfeziona  non  tanto  per  la  virtù  del  precetto  quanto  pel  predominio  del  popolo  che  la  impone,  per  l'aumento  della  cultura,  il  dibattito  delle  idee,  il  coltivar  nuovi  generi  letterari;  e  quant'altro  s'  è  messo  particolarmente  in  rilievo:  lievito,  di  poca  forza  espansiva,  se  vuoisi,  ma  lievito, senza  cui  la  scienza  non  si  sviluppa. La  revisione  della  grammatica  e  il  consolidarsi  del  purismo.  Svolgimento  della  grammatica  storico-metodica.   (A.  Caro  L.  Castelvetro  B.  Varchi  G.  Muzio).    Il  naturale  determinarsi  e  permutarsi  del  principio  direttivo  della  critica  letteraria  del  Cinquecento  nelle  sue  forme  di  imitazione, teoria,  legge,  fu  rapido  quanto  intenso  era  il  movimento  che  il  ricomparire  delle  opere  classiche  e  segnatamente  della  Poetica  aristotelica  aveva  avvivato.  Col  codificarsi  delle  regole,  lo  spirito  critico  divenne,  come  doveva  accadere,  sempre  più  restrittivo  e  sottile,  e,  nelle  applicazioni,  pervicace  e  litigioso:  nacquero  così,  com'è  noto,  numerose  dispute  letterarie  e  polemiche personali  che,  peraltro,  giovarono  assai  allo  sviluppo  della  ritica  medesima:    la  grammatica,  meno  d'altre  discipline,  potè  rimanerne  immune.   Già  prima  che  il  Sansovino  nella  sua  raccolta  dei  principali  grammatici  della  prima  metà  del  secolo,  aveva  il  Varchi  ristampate le  Prose  del  Bembo:  ora,  se  tali  ristampe  erano,  come  abbiamo  mostrato,  una  conseguenza  dei  metodi  ond'era  stata  elaborata  la  grammatica  del  volgare,  questa,  in  quella  forma  tanto  poco  sistematica  e  tanto, incompleta  e  così  poco  imperativa, non  corrispondeva  più  al  nuovo  spirito  critico,  al  nuovo  orientamento:  quindi  doveva  necessariamente  soggiacere  a  un  lavoro  di  revisione  e  di  correzione.  E  l'uomo  proprio  ad  hoc  fu  Ludovico  Castelvetro,  che    impersona  e  incarna,  meglio  d'ogni    i66  Storia  della  Grammatica   altro  di  quei  gagliardi  letterati,  lo  spirito  e  la  cultura  della  sua  età.  E  dalla  ristampa  del  Varchi  mosse  appunto  a  rivedere  tutta  l'opera  bembesca  tanto  favorevolmente  accolta.  Ne  venne  fuori  un    volume  molto  grande  ,  in  cui,  a  detta  del  Castel  vetro  iuniore,    erano  minutissimamente  [trattate?]  tutte  le  parti  della  grammatica  della  lingua  volgare,  nella  guisa  che  fa  Prisciano  quelle  della  latina    .  Di  codesto  volume,  a  cui  l'autore  dovè  attendere parecchi  anni,  e  che  si  perde  a  Lione  di  Francia,  quando  si  ruppe  la  guerra  la  seconda  volta  tra  il  Re  ed  i  suoi  sudditi  per  conto  della  Religione,  una  parte,  la  Guaita  fatta  al  ragionamento  degli  articoli  et  de'  verbi,  era  già  venuta  fuori  anonima,  ma  con  l'indubbio  segno  della  paternità,  pei  tipi  del  Gadaldini  di  Modena :  altre,  non  sappiamo  se  rifatte  o  superstiti  alla  perdita,  riguardanti  il  secondo  e  il  terzo  libro  delle  Prose,  furono  pubblicate  postume  a  Basilea.  Sembra  che  l' incentivo  alla  edizione  della  prima  Ghinta  sia  stata  la  polemica  col  Caro,  che  non  aveva  ancor  permesso  al  Castelvetro  di  mostrare  tutta  la  sua  valentia  di  linguista  e  di  grammatico. Comunque,  è  certo  che  il  contenuto  di  questa  lunga  polemica  dal  primo  Parere del  Castelvetro  sulla  Canzone  de'  Gigli  d'oro  del  Caro  sino  all'ultima  sua  fase  esclusa  (Ercolano  del  Varchi,  composto  verso  il  1560  ma  pubblicato  solo  nel  70,  e  Correzione  del  Castelvetro),  è,  sotto  il  rispetto  puramente filologico  e  grammaticale,  molto  scarso.  Poiché  la  controversia   tranne,  s'intende,  nella  parte  diremo  personale,  che  è  senza  dubbio  divertente  e  anche,  pel  costume,  interessante    s'aggirò  tutta  e  sempre,  nelle  varie  scritture  dell'un  partito  e  dell'altro,  sul  potersi  o  no  usare  questa  o  quella  parola  nel  rispetto della  loro  legittimità  e  del  loro  significato  {falli  di  parole e  falli  di  sentimento  sono  le  due  categorie  della  Ragione^*)  del  Castelvetro);  e,  per  quanto  l'uno  e  l'altro  polemista  abbian      Nel  1536  aveva  recato    in  ordine  d'abicì  li  vocaboli  latini  di  Valerio  con  la  spositione  volgare,  fiducioso  che  tale  fatica  sarebbe  stata  a  ognuno  utile.  Castelvetro  jun.,  Biogr.  di  L.  C.  {Race.  Calogerà),  in  Bertoni,  op.  qui  appresso  cit..   C)  In  G.  Cavazzuti,  Lodovico  Castelvetro,  Modena,  1903,  p.  122.   (:i)  Giunta  fatta  al  Ragiona  \  mento  degli  articoli  et  \  de  verbi  di  Messer Bembo.  |  KEKPIKA. In  fine:  In  Modona,  Per  gli  Hcredi  di  Cornelio  Gadaldino. Parma] cercato  di  deviare  dalla  question  principale  nello  svolgersi  del  dibattito,  pure  il  carattere  di  essa  riman  sempre  quello  che  benissimo è  espresso  nelle  tanto  discusse  parole  del  Castelvetro:  il  Petrarca  [codeste  voci  adoperate  dal  Caro]  non  le  isserebbe.  La  polemica  verte  essenzialmente  sur  una  questione  di  elocuzione poetica:  argomenti  e  sofismi  son  sempre  cavati  dai  comuni  criteri  estrinseci  e  arbitrari  della  forma:  tra  l'aspra  selva  delle  osservazioni  del  Castelvetro  e  i  fiorami  umoristici  e  eleganti  del  Caro  e  compagni  di  difesa,  potete  sempre  scovare  il  serpentello  della  rettorica  corrente,  il  criterio  delle  voci  belle  e  delle  voci  brutte.  Valga  quest'esempio:    Inviolata.  Se  questa  voce  non  vi  piace,  vi  puzzano  le  viole,  e  le  rose.  Non  potendo  essere,  ne  la  più  soave,    la  più  moscata  di  questa.  Se  '1  Petrarca  non  l'annasò;  forse  quando  le  capitò  alle  mani,  era  infreddato.  Ma  il  Boccaccio, che  non  aveva  si  delicato  bocchino,      schifo  naso,  come  voi;  la  volle  pure  in  certe  sue  insalitine  (sic):  e  la  fiutò  volentieri.  Leggete  ne  l'Ameto.  E  però  con  solecitudine  i  fuochi  nostri,  che  di  qui  porterai,  fa  che  Inviolati  servi.  Et  appresso.  Acciocché  quelle  di  costumi,  e  d'arte,  Inviolata  serbandomi  ornassero  la  mia  bellezza. La  Ghmta  castelvetrina,  invece,  ha  ben  altra  importanza,  ed  è  veramente  a  dolere  che  le  sue  compagne  relative  alle  altre  parti  del  discorso  siano  andate  perdute,  perchè  avremmo  avuto  un  ammirevole  esempio  di  grammatica  metodica  e  storica:  essa  in  ogni  modo  è,  anche  così,  un  documento  de'  più  significativi!  perchè,  per  la  prima  volta,  viene  svolto  di  proposito  nella  grammatica normativa  l'elemento  propriamente  storico  e  introdotto  il  vero  metodo.  Questo  avea  già  ben  visto  un  giudice  di  grammatiche assai  autorevole,  come  quegli  che  le  leggeva  e  le  sapeva  leggere  da  un  punto  di  vista  elevato,  Francesco  De  Sanctis.  Il  quale,  dopo  aver  osservato  che  la  grammatica  italiana    dapprima  non  fu  se  non  una  raccolta  di  regole  ed  osservazioni  sulla  nostra  lingua  succedentisi  a  caso  ,  mette  bene  in  rilievo  i  pregi  delle  opere  grammaticali  di  grammatici  superiori  come  il  Bembo,  il  Castelvetro e  il  Salviati  per  quanto  concerne  la  parte  storica,  la  diligenza del  raccogliere,  la  conoscenza  delle  proprietà  de'  vocaboli, ecc.,  e  segnala  particolarmente  il  Castelvetro  e  il  Salviati    ('i  Apologia,   Parma,   pp.   52-^    i68  Storia    della   Grammatica   come  perfezionatori  della  grammatica  storica  e  avviatori  di  quella  metodica  .   E  su  questa  Guaita  fermeremo  in  particolare  la  nostra  attenzione, benché  a  chi  voglia  portar  un  giudizio  complessivo  sull'attività  filologica  del  Castelvetro,  quale    ricostruttore  e  interprete di  testi,  indagatore  dell'origine  e  della  natura  dei  linguaggi, esploratore  di  etimi  ignoti    ("),  convenga  tener  presenti,  oltre  la  Poetica,  tutte  le  altre  opere  di  lui. Castelvetro,  nella  grammatica  come  nella  poetica  e  nel  resto,  manifesta  assai  chiaramente  il  carattere  del  suo  ingegno.  L'avevano  ben  capito  gli  stessi  suoi  contemporanei,  tra  i  quali  mi  basti  citare  il  Lombardelli:    Il  Castelvetro,  con  le  sottigliezze di  sua  dottrina,  fa  star  sospesi  molto  dallo  scriver  toscano, tanto  in  teorica  quanto  in  pratica,  e  di  vero  può  molto  aiutare  i  fortemente  introdotti,    per  gli  avvertimenti  particolari, sì  per  la  finezza  del  giudizio,  che  altri  vien  acquistando  in  legger  le  costui  scritture,  fondate  nelle  scienze,  e  nelle  lingue  più  famose .  Lambiccato  e  falso  nelle  sue  sottigliezze  lo  disse  già  Sanctis.  Recentemente,  per  un  fortunato  incontro della  storia  letteraria  e  della  filosofia,  il  Castelvetro  ha  avuto  il  suo  degno  biografo  e  i  suoi  degni  critici,  sicché  ora  la  sua  figura  sorge  intera  e  vera:  le  analisi  del  Vivaldi e  del  Capasso da  un  lato,  la  biografia  critica  del  Cavazzuti  da  un  altro  e    per    un    terzo    i    cenni    del    Croce   e    dello   Spingarn    e  [Sulla  notevole  pagina  dei  Nuovi  Saggi  Critici  (Napoli),  riportata  opportunamente  dal  Fusco  nella  sua  Poetica  del  Castelvetro, Napoli,si  deve  peraltro  osservare  che  il  Bembo  trattò  la  parte  storica  della  lingua  non  nel  senso  di  Castelvetro:  il  Bembo  ci  mette  sott' occhio  V uso  storico  della  nostra  lingua;  il  Castelvetro  ci    la  storia,  dirò,  interna,  delle  forme,  quali  si  svolsero  dal  latino,  subordinandone  però  l'indagine  al  precetto  grammaticale che  veniva  così  incorporato  a  un  elemento  conoscitivo.  Fusco. Un  notevole  posto  tra  queste  occupa  la  Spositionc  a  XIX  canti  dell  Inferno  (Modena. I  fonti. SANCTIS. Una  polemica  e  le  controversie  intorno  alla  nostra  lingua,  Napoli. Note  critiche  su  la  Polemica  tra  il  Caro  e  il  Castelvetro,  Napoli. la  monografia  del  Fusco  hanno  ormai  messo  in  piena  luce  così  la  vita  come  l'attività  individuale  e  il  pensiero  vario  di  lui.    Acato  l'uomo  e  sottili  le  cose  da  lui  scritte  ,  torna  a  ripeter  l'ultimo  suo  critico,  il  Fusco,    sia  che  si  affatichi  a  dare  un  certo  che  d'armonico  al  sistema  e  a  farne  vedere  le  parti  legate  L'ima  all'altra  dal  vincolo  di  causalità;  sia  che  per  distinguersi  proponga  dimostrazioni  originali  di  tesi  in    sgangherate  e  interpetrazioni  bizzarre  di  problemi  insoluti  e  insolubili;  sia  finalmente che,  conscio  de'  vuoti,  cui  non  gli  riesce  di  colmare,  si  sforzi  di  dissimularli  e  di  coprirli    con   foglie  più  trasparenti   che  pietose dommatico    come    un    pontefice,  dottorale,  fiero,   soprattutto  insopportabilmente  lungo  e  secco,  innegabilmente    lambiccato  e  falso  nelle  sue  sottigliezze;  [sempre]  lui,  lo  scolastico  colla  somma  di  difetti  propria  degli  scolastici,  pe'  quali  la  presunzione  di  essere  a  priori  in  possesso  della  verità  è  ostacolo  a  trovarla,  arzigogolanti  in  un  mondo,  che  è  quello  delle  nuvole,  aventi  a  supremo  fine  la  forma,  non  la  sostanza  del  discorso;  di  tutto  sprezzanti  che  non  si  adagi  nel  rigido  schema  di  un  sillogismo:  lui,  il  critico  ottuso,  più  che  mai  ottuso alle  pure  e  immediate  impressioni  dell'arte;  lui,  "un  curioso miscuglio  di  dotto  acume    e  di  vuota  sofisticheria  che  ondeggiava tra  un  pedantesco  timore  e  un  linguaggio  scorretto,  artificiale  e  provincialesco,  come  nello  stile  riusciva  insieme  arido  e  prolisso,,    (").  Specialmente  in  fatto  di  poetica,    dalla  prima  all'ultima pagina  rivela  costante  l'oscillazione  del  pensiero,  la  perplessità psicologica,  l'incertezza  tra  il    e  il  no.    Il  risultato...    ein  bedenklicher  Rùckfall  in  die  Unklarheit  der  ersten  theoretischen  Versuche,  come  si  esprime  il  Klein  (3).  Ed  era  inevitabile  quando  il  metodo  della  ricerca  e  dell'esame,  comunque  allargato, restava  invariato  nella  sostanza:  al  fatto  particolare  e  mutabile dato  il  valore  di  legge  universale  e  meccanica:  il  capriccio  dell'artista  di  ieri  assegnato  come  norma  all'artista  di  oggi:  l'empirismo  sostituito  alla  scienza;  l'arte  messa  alla  dipendenza  immediata  del  lavoro  scientifico  e  della  storicità;  la  poesia,  che  si  appartiene  tutta  alla  fantasia,  edificata  e  giudicata  con  criteri      Son  parole  d’Ovidio,  Le  correz.)  Der    Chor    in  den    wichtig sten    Tragòdien    der  franzòsischen  Renaissance,  Erlangen  und  Leipzig] logici  o  pratici,  morali  o  intellettuali:  l'estetica  fondata  sempre  o  quasi  sempre  su  motivi  extra  od  anti-estetici  .  Sicché  il  volerlo   mettere  in  linea,  caratterizzarlo,  ridurlo  sotto  uno  degli  indirizzi  che  dominarono  nella  coltura  italiana  è  impossibile  o  difficile  e  non  senza  pericolo  di  confusione;  tutti  i  venti  lo  fecero  piegare  un  po',  nessuno  lo  vinse.  Non  classicista, non  romantico,  non  aristotelico,  pure  lascia  tracce  non  lievi  e  di  classicismo  e  di  romanticismo,    figura  multiforme,  a  diverse  facce,  changeante,  che  sta  sola  a    e  per    in  tutto  il  suo  secolo:  novatore  e  continuatore  di  pregiudizi;  progressista  ne'  gesti  e  retrogrado  nel  fatto...  ebbe  acuto  ingegno,  indipendenza di  giudizio,  superiorità  di  critico:  nondimeno  sopravvive  pedante  tra  pedanti:  primus  inter  aequales    .   Filosofo  del  linguaggio,  dunque,  il  Castelvetro  non  poteva  essere    fu:  anzi,  quant'egli  scrisse  intorno  al  lato  teorico  della  forma  poetica  e  intorno  al  lato  pratico  {precettistica),  non  lo  pone  certo  al  di  sopra  d'altri  grammatici  che,  come  vedemmo,  ebbero  più  d'una  felice  intuizione  circa  la  natura  dell'espressione.  N'ebbe  anch'egli,  a  dir  vero,  come  quando  scrisse  queste  che  sono  veramente come  il  Fusco  le  ha  chiamate  auree  parole:    Con  lo  splendore  della  favella  non  si  deve  oscurare  la  luce  della  sententia...;  perchè  deve  essere  stimato  vitio  che  la  favella  sia  in  guisa  vaga  che  altri  riguardi  più  in  ammirar  lei  che  in  considerare il  sentimento,  essendosi  trovata  la  favella  per  lo  sentimento  e  non  lo  sentimento  per  la  favella.  Ma  i  precetti  della  vecchia  rettorica,  teoria  dell'ornato  e  teoria  del  conveniente,  l'arbitraria  distinzione  di  prosa  e  versi,  ecc.  ecc.,  son  tutti  dal  Castelvetro  mantenuti,  anzi  moltiplicati.   Dove,  invece,  il  Castelvetro,  per  comune  consenso,  eccelle,  è  nella  filologia  (erudizione  linguistica  spicciola,  grammatica  storica)  e  nella  grammatica  normativa;  e  se  è  impresa  tutt'altro  che  facile  il  tirare  la  somma  di  tanti  suoi  accettabili  o  no  accertamenti e  dati  positivi  in  fatto  di  lingua,  fonologia,  etimologia,  morfologia,  ortografia,  lessico,  sintassi,  versificazione,  tuttavia  dalla  limacciosa  e  dilagante  corrente  di  tanta  sua  dottrina  quasi  tutta  d' intonazione  vivacemente,  ostinatamente,  sofisticamente  polemica,  balzano  fuori  in  tutta  la  loro  chiarezza  la  giusta  tesi      Fusco.] dell'origine  del  volgare  e  il  diritto  metodo  della  dimostrazione  e  della  relativa  indagine  delle  forme.  Egli,  infatti,   non  si  limita   ad  affermare  che  il  volgare  italiano  (e,  è  lecito  ammettere,  anche  il  provenzale  e  gli  altri  idiomi  romanzi)  ,  derivò  dal  latino  e  dal  latino  parlato,  che  non  era  quello  che  i  dotti  scrivevano  o  gli  oratori  adoperavano  ne'  pubblici  discorsi,  ma  osserva  che  la  diversità del  nostro  idioma  volgare  da  quel  volgare  latino  è  nella   declinazione,  principalmente,  non  nel  lessico,  ossia  nella  variazione che  le  voci  hanno  subito  e  non  in  una  diversità  di  etimi:  e,  prescindendo  per  ora  dalle  leggi  fonetiche  da  lui  poste,    ingegnosissimo   si  mostra  nello  spiegare  le  circostanze,  le  cause  esterne  delle  trasformazioni  del  volgare  (:ì):  e  la  nostra  ammirazione certo  aumenterebbe  se  di  molta  parte  de'  suoi  studi  sull'antico italiano  non  dovessimo  lamentare  la  perdita.  Non  è  cosa,  peraltro,  da  maravigliar  troppo  chi  ripensi  quanto  propizi  volgessero ormai  i  tempi  per  gli  studi  romanzi,  di  cui  bene  può  il  Castelvetro,  nei  rispetti  della  grammatica  italiana,  considerarsi uno  de'  principali  campioni  anche  a  fianco  del  Barbieri  e  del  Corbinelli,  per  citar  solo  i  maggiori,  i  quali,  per  l'uso  sapiente  fatto  del  criterio  comparativo,  godono,  l'uno  nell'ordine  storico  letterario,  l'altro  nell'ordine  linguistico,  un  vero  primato ( ").   Meno  coerente  e  avveduto  fu  forse  nella  famosa  que  ('    Cavazzuti. Delle  prove  dell'  esistenza  del  latino  volgare  il  Castelvetro  non  fu  ricercatore  compiuto,  poiché  non  ebbe  l'occhio  specialmente,  come  doveva,  al  materiale  epigrafico,  ma  quelle  che  indicò  in  vocaboli e  modi  di  dire  popolari  della  letteratura  scritta  e  massimamente  nelle  commedie,  colpiscono  nel  segno.  Cavazzuti. Castelvetro  non  ignorò  altri  idiomi  neolatini,  ma  in  essi  non  acquistò  una  speciale  competenza:  quanto  al  provenzale,  p.  es.,  sono  state  ridotte  a  cinque  o  sei  note  linguistiche  quella  che  dal  Canello  era  stata  chiamata  straordinaria  erudizione;  in  questo  campo  valse  assai  più,  non  dico  il  Barbieri,  che  a  dir  del  nipote  Ludovico  avrebbe  insegnato  il  provenzale  al  Castelvetro  e  se  lo  sarebbe  associato nel  trasportar  in  volgare  le  vite  de'  migliori  trovatori  (Cavazzuti),  ma  il  Bembo  stesso. Cfr.  V.  Crescini,  Di  J.  Corbinelli,  in  Riv.  crii.  d.  leti,  il.,  II,  col.  189  (cit.  dal  Bertoni  nell'op.  qui  appresso  cit.).    Per  la  storia  degli  studi  romanzi  in  Italia  nel  sec.  XVI,  v.  V.  Crescini,  J.  Corbinelli  in  Per  gli  studi  romanzi    Saggi  ed  appunti,  Padova, e  Bertoni,  Barbieri  e  gli  sludi  romanzi  nel  sec.  XVI,  Modena.  stione  della  lingua  italiana;  ma  ciò  dipese  dall'essere  in  sostanza, ossia  nella  veduta  e  nella  direttiva  principale  d'accordo  col  Bembo,  col  Caro  e  anche  col  Varchi,  e  dall'aver  voluto,  troppo  indulgendo  al  suo  bollente  genio,  combatterli  ad  ogni  costo  e  ad  oltranza,  per  abbattere  il  loro  edificio  e  costruirne  un  altro  con  diverso  materiale  e  diverso  metodo  ma  d'eguale  architettura  e  decorazione.  Il  D'Ovidio  dice:    La  sua  polemica  col  Caro  rientra  solo  di  sbieco  nella  questione  generale  della  lingua...  Se  si  prescinde  dal  modo  come  il  Castelvetro  scriveva  e  criticava  le  scritture  altrui,  se  si  riguarda  alla  sua  astratta  teoria  quale  si  disviluppa  dalle  infinite  perplessità  delle  sue  Giunte  alle  Prose  del  Bembo,  si  può  dire  che  col  Caro  egli  s'accordasse  interamente,  proclamando  che  si  debba  scrivere  nella  lingua  del  proprio  secolo  e  che  sia  impossibile  gareggiar  nella  lingua  del  Trecento  coi  trecentisti,  e  che  i  fiorentini  si  trovino  per  lo  scrivere in  condizioni  migliori  di  tutti  gli  altri  (Giunta.  Il  Castelvetro  non  era  ingegno  da  star  saldo  in  un  principio  e  concentrarvisi  tutto  intorno.   A  note  di  fonetica  lo  conduceva  da  una  parte  la  sua  passione per  l'etimologia,  dall'altra  il  proposito  di  combattere Bembo nelle questioni specialmente morfologiche. Codeste note, per altro, sono sparse un po’dappertutto. È  miracoloso,  scrive Castelvetro  iuniore, nel  DEDURRE L’ETIMOLOGIA DALLA LINGUA LATINA per servirsene nella lingua volgare. Il PARTICIPIALE DI SPERANZA-GRICE: “Etymologically speaking, ‘mean’ means ‘mind.’” Scelse  tutte  le  parole  oscure  e  non  intese  dagli  altri,  che  sono  nelle  Novelle  antiche e  l' interpretò  tutte  coll'etimologie,  e  le  mise  in  un  volume  sotto  ordine  dell'alfabeto,  il  qual  saggio s'è  perduto  con  altre  scritture  in  Lione.  Conviene pertanto  spigolare  le  sue  note  etimologiche. Cavazzuti   segnal,  illustrando  il  metodo  che  Castelvetro  segue nel  cavarle,  alcune  etimologie  di  lui,  quella  di  mai,  di  punto,  di  cavelle  o  cove/le,  dell'articolo  il,  di  arancia,  di  bozze,  di  niente,  e  altre. Ma  più  che  queste  e  le  moltissime  altre  che  con  speciale  predilezione  si  sofferma a  tirare,  è  da  ammirare  in  Castelvetro,  a  giudizio  di Vivaldi,  l'aver  ammessa  la  possibilità  della  scienza,  quando  altri,  come  Varchi,  contro  cui  validamente  la  sostenne,  la  nega.  Un  esem- [Le  correz.  V.  anche  Cavazzuti. In  Cavazzuti] pio  caratteristico  dell'acume  che  Castelvetro  adopera  nel  terreno della  fonetica,  è  la  spiegazione  ch'egli  da  del  futuro  italiano, dove puo  dimostrare  la  sua  dottrina  in  tatto  di  consonantismo. V  non  vuole,  egli  dice,  innanzi  a    C,  G,  P;  15.  D,  H;  LI,  M,  Nn,  Rn,  Ou,  T,  Tt,  Ct,  Nt,  V;  quindi  avviene che  accostandosi  le  predette  lettere  a  V  consonante,  essa  si  tramuta  in  S,  e  quelle  sono  costrette  a  tramutarsi  in  quelle  consonanti,  o  a  prendere  di  quelle,  che  possono  comportare  la  compagnia  della  S,  o  a  dileguarsi;    come  B  è  costretto  a  tramutarsi in  simile  caso  in  P  {scripsi),  o  in  S  (iussi);  D  in  S  (cessi),  H  in  C  (traxi);  M  in  S  {pressi);  Mn  in  Mp  (tempsi);  V  in  C  (yixi),  ecc. .Su  queste  basi  egli  osservava:    è  da  sapere  che  la  lingua  nostra  non  ha  voce  semplice  futura,  se  non  tre  sole  in  un  verbo  disusato,  o  non  usato  mai...  ma  le  ha  composte del  presente  del  verbo  avere,  e  dello  infinito  del  verbo,  il  cui  futuro  si  richiede;  dicendosi  dire  ho  nella  guisa  che  si  dice  appresso  i  Greci  Àsyrive^to,  e  appresso  i  Latini  dicere  habeo,  significandosi  il  futuro  Aé^oj,  dicam  , spiegazione  integrata  da  un  luogo  della  Correzione,  dove  riferisce  un  colloquio  avuto  su  tale  argomento  col  Varchi:    ....  mi  domandò  come  del  verbo  Amo  la  voce  del  tempo  imperfetto  Avi  ab  avi  veniva  in  vulgare.  Et  io  gli  dissi  che  mutata  B  in  V,  et  gittato  M  finale  riusciva  Amava.  Perchè,  adunque,  soggiunse  egli,  se  B  si  muta  in  V  in  Amava,  non  si  può  ancora  in  B  in  Amabo  vegnente in  vulgare  mutare  in  R  con  trasportamento  dell'accento,  et  dirsi  Amerò?  Non  si  può,  gli  risposi  io,  perciò  che  B  si  può  mutare,  e  si  muta  in  V,  conciosia  cosa  che  V,  B,  P,  F  sieno  lettere  pazienti  et  cambievoli  l'una  nell'altra,  della  schiera  delle  quali  non  è  R,  senza  che  non  si  potrebbe  mostrare  quando  anchora  concedessi  questo,  come  di  Legam  et  d'Audiam  si  potesse  dire  leggerò  et  udirò.  De'  mutamenti  fonetici  vide  la  causa  in  quei  principi  fisiologici  che  tentano  di  resistere  ancora  alla  critica  negativa  di  essi  Q:  Non  ha   dubbio,  scriveva,  che [In  Cavazzuti.  Corr.  /.éyeiv  è/o  secondo  l'Errata  Corride  del  Castelv.  stesso  non   vista  dal  Cavazzuti.  V.   più  innanzi.   Giunta  LXVIII,  in  Cavazzuti. In Cavazzuti. Croce,  La  Critica.] la  diversità  dell'aere  generi  diversità  di  lingue;  poiché    opererà che  si  proffereranno  le  parole  più  o  meno  addentro  nella  gola;  e  appresso  che  alcune  consonanti  si  distingueranno  o  più  o  meno  l'ima  dall'altra;  e  per  avventura  ancora  alcune  vocali;  e  si  darà  il  fine  alle  parole  o  più  o  meno  perfetto.  Questo  egli  scriveva  molti  anni  prima,  dunque,  che  del  massimo  fonologo  del  Cinquecento, Bartoli,  fosse  apparso  quel  mirabile  trattato  che  il  Teza  illustrò  da  par  suo  con  tanto  compiacimento.  E,  valga  o  non  valga  una  tale  dottrina,  non  si  può  lesinare  l'ammirazione che  il  Castelvetro  certo  si  merita,  anche  non  dimenticando i  progressi  del  Tolomei  su  questa  parte  della  grammatica storica.Vero  corpo  di  scienza  grammaticale,  storica  e  precettiva  e  metodica  insieme  è  la  prima  Gninta.  Consta  di  due  parti:  ia,  [15]  corpi  [de'  quali  la  maggior parte  suddivisi  in  paragrafi]  delle  cose  contenute  nella  Giunta  di  ciascuna  particella  degli  articoli  (pp.  2-16);  2a,  [70]  corpi  [suddivisi  parimenti  in  paragrafi]  delle  cose  contenute  nella  Giunta  di  ciascuna  particella  de'  verbi. In  tutto  dunque  85  giunte,  in  77 -h  273  (2U  parte)  =  350  paragrafi, ossia  osservazioni  (selva  selvaggia  ed  aspra  e  forte!);  che  son  poi  altrettante  contraddizioni  a  quelle  del  Bembo.   Nella  prima  parte,  Degli  Articoli,  non  parla  soltanto  di  questi,  come  parrebbe,  ma  trova  modo  di  toccare  anche  delle  parti  declinabili  del  discorso  (nomi,  [sostantivi  e  adiettivi],  vicenomi) ;  trattazione  metodica  perchè  condotta  quasi  sempre  sul  filo  conduttore  della  storia.   Dove  il  Bembo  aveva  chiamato  gli  articoli  parte  de'  nomi,  egli,  fondandosi  sull'origine  dell'articolo  dal  pronome  latino,  ne  rivendica  V  indipendenza.  Dove  il  Bembo  aveva  ammesso  i  vicecasi non  sapendoli  distinguere  dai  veri  proponimenti,  egli  par  escludere  l'esistenza  de'  vicecasi,  sostenendo  che  la  decimazione  volgare  ha  due  soli  casi  (il  diretto  e  l'oggetto),  e  riconoscere  solo  l'esistenza  de'  proponimenti  co'  quali  si  formano  tante  combinazioni (complementi)  quanti  essi  sono.  Tratta  ampiamente  della  declinazione  e  dell'uso  degli  articoli:  il,  lo,  1",  la,  i,  gli,  le,  che  deriva  non  solo  da  ille,  ma  da  hoc,  citando  per  i  pi.  da  hi  e  o  sing. (1 In CAVAZZUTI.] da  hoc  le  vecchie  stampe  e  l' iscrizione  a  un  quadro  esistente  in  una  sala  del  palazzo  Fulvio  Rangone  di  Modena  in  cui  era  dipinta  l'historia  della  Teseide  del  Boccaccio:  O  re  Theseo,  A  o  re  Theseo  =  il  re  Teseo,  al  re  Teseo,  della  cui  forma  afferma  esser  riscontri  nella  lingua gallica  più  antica  e  del  regno  di  Napoli  (o  re  =  il  re).   Qui  comincia  a  delinearsi  il  metodo  del  Castelvetro,  che  se  non  coincide  con  quello  della  filologia  moderna    facile  vederne le  differenze),  lo  precorre  però  almeno  per  l'uso  del  criterio  storico  genetico  e  comparativo  insieme,  e  in  ogni  modo  non  è  il  puro  empirico  degli  altri  grammatici.   Invece  di  seguire  passo  passo  il  Castelvetro  nella  sua  confutazione del  Bembo  e  di  istituire  un  confronto  perpetuo,  abbiamo creduto  meglio  di  ricavarne  una  specie  di  trattatello  grammaticale, onde  insieme  con  la  materia  da  lui  esposta  ne  appaia  anche  il  metodo  della  trattazione,  pienamente  sistematica  pur  tra  tanto  apparente  intrigo.   Dell'articolo.   J  articolo  è voce  separata  e  non  parte  di  nome perchè ha  origine  dal  vice-nome  ille  e  ne  conserva  la  forza,  tanto  che  può  esser  sostituito  da  quello,  ed è  declinabile.  Di  da  de,  al  da  ad,  da  da  de  non  sono  vicecasi  neppur  essi,  ma  proponimenti,  come  tutte  le  altre  propositioni  e  sono  d'altronde  altrettanti  supplimenti  de  segni  di  casi,  essendo  che  la  nostra  lingua  ha  due  soli  veri  casi,  l'operante  e  l'operato,  ne'  sostantivi  come  in  molti  vicenomi,  e  gli  altri  casi  essendo  tanti  quante  sono  le  combinazioni del  sostantivo  o  del  vicenome  con  i  proponimenti. Gli  articoli  vulgari  si  originano  dai vicenomi  latini  e  si  adoperano nel  modo  seguente:  o  da  lioc.  Es.  O  re  Theseo neh'  "  historia  della  Theseida  di Boccaccio  dipinta  non  molto  tempo  dopo  la  morte  di  lui  in  una  sala  del  conte  Fulvio  Rangone  in  Modena    Il  re  Theseo.  O  re  (nel  regno  di  Napoli  e  nell'ant.  frane.)  =  Il  re  b)  i,  pi.  m.,  dal  pi.  di  hoc,  cioè  hi   ').   S\ota.    Il  co  in  compagnia,  puro  o  mutato,  non  è  più  articolo,  perchè  non  si  declina  (cotale,  questo,  quello),  eccetto  in  uguanno  da      Così,  analogamente,    qui  da    hicqui,  qua  da   hacqua  (per  hoco  orig.  da  hocquo,  cfr.  hoco  +  ilio    quello. Non  è  biasimevole  chi  li  deriva  dai  greci  o  e  01!    176  Storia  detta   Grammatica    hoco-anno,  dove  rimane  in  forza  d'articolo,  perchè  uguanno    è  voce  fermata  in  su  un  senso  e  in  su  un  numero,    di  nuovo  può  ricevere altro  articolo,  anchora  che  io  l'habbia  per  voce  averbiale  di  tempo  . il  sing.  m.  dinanzi  a  cons.  nel    e  4"  caso,  da  ilio,  per  essersi  dovuto    restringere  sotto  l'accento  del  nome  come  bel  giovane, quel  giovane  da  bello  e  quello  giovane.   b)  lo  sing.  m.,  dinanzi  a  vocale,  o  s  impura,  o,  nei  casi    primo    quarto,  a  semplice  cons.,  come  non  si  può  troncare  bello  e  quello  davanti  a  Intorno  e  scelerato. Lo  si  usò  (cfr.  Petrarca e  Boccaccio)  in. tutte  e  due  i  casi,  e  come  rimase  nelle  combinazioni  con  mi  ti  si  ci  vi,  onde  melo,  telo,  ecc.,  dove  potè  troncarsi  dinanzi  a  cons.,  così  rimase  e  si  potè  troncare  in  tutte  le  proposizioni  articolate:  del  (=  delo),  al (=  alo),  dal,  col,  ecc.,  voci  che  non  si  devono  spiegare  con  di  -f  il,  ecc.,  perchè  da  di  +  il  verrebbe  dil  e  non  del.  Quindi  è  errato  scrivere  de  'l,  co  'l,  da  'l  cielo,  ecc. A.  i  da  hi,  pi.  m.  dinanzi  a  cons.,  non  comportandosi  il  contrario per  l'iati)  (l'it.  non  ha  voci  comincianti  da  ia,  ie,  ii,  io,  hi;  quindi  non  è  lecito  i  amori,  i  heretici,  i  italiani,  i  homicioli,  i  humidori;    i  stormenti,  perchè  potrebbe  confondersi  con  istormetiti).   B.  li  da  i/li,  pi.  m.,  dinanzi  a  voc,  a  s  impura,  a  semplice  cons.   di   nomi  non  usati  al  primo  e  quarto  caso. li  diventa  gli  dinanzi  a  vocale  per  la  forza  di  questa  (cfr.  vaglio,  voglio);  ma  dovrebbe  restar  //davanti  a  s  impura;  li  stormenti,  e  non  gli  stormenti.   Li,  come  lo  conservato  in  del,  ecc.  da  delo,  ecc.,  conservasi  nel  pi.  de'  casi  secondo,  terzo,  sesto:  quindi  deli,  ali,  dati,  ecc.,  riducibili a  de,  a,  da,  come  quali  si  riduce  a  qua,  e  elli  a  e,  e  tolti  a  to,  poiché  non  iscrivesi  de',  a',  da'  per  dei,  ai,  dai  da  de  i,  a  i.  da  i,  essendo questa  derivazione  errata. la  da  illa,  sing.  femm.; le,  pi.  di   la;   e)  sta  da  ista  in  stamane,  stamattina,  stasera,  stanotte,  benché  siano  avverbi.   2  4.  L'elisione  della  vocale  finale  dell'articolo  è  regolata  da  questa  legge":    che  la  lingua  nostra  non  comporta  ordine  di  vocali  per  accidente se  non  le  può  comportare  per  natura  ,  Spesso  si  elide,  invece  che  la  finale  voc.  dell'art.,  la  iniziale  del  nome  quando  comincia  per  in  o  im  disaccentata:   es.  lo  'nventore,   la  'mperfettione.    ('i  Monsignor  lo,  Messer  lo  son  comuni;  analogamente:  tutto  il  mondo,  ambe  le  mani  ecc.  Nel  Petr.  quattro  nomi  hanno  lo:  qua/,  cuor,  mio,  bel,  per  conservar  l'uso  antico. Boccaccio  n'ù  pieno.  I  lei   ha  sempre  //,   nel   Petrarca.    Capi  fola  sesto  Lo  e  //  o;7/  si  conservano  con  /éT  dinanzi  a  consonante  nei  casi  secondo,  terzo  e  sesto  analogamente  a  lo  delle  preposizioni  del,   al  e  da/,   ecc.   Es.  per  lo  petto,  per  li  fianchi. Per  quanto  s'è  detto,  non  si  deve  raddoppiar  17  in  de/o,  alo,  da/o,  ne  lo,  ecc.  (benché  anche  l'autore  segua  l'uso  invalso  di  raddoppiarlo: mirabile  e  raro  esempio  d'ossequio  in  un  tal  contradittore);  ma      in  collo  perchè  viene  da  con  e  lo. Il  d  di  ad  volgare  è  eufonico  e  non  d'origine  latina,  come  od,  sedi  ned,  c/ied.  A/lui,  asse,  dal/ui,  dassc  sono  errori,  ma  non  son  tali  accendere,  apportare  e  simili.   Il  ri  da  re,   in  composizione.   2  8.  Sottrazione  di  di  a  Colui,  Colei,  Coloro,  Costui,  Costei,  Costoro; di  a,  a  Lui  e  Lei  (da  il  li  /mie,  illae  ei);  di  di  e  a  a  Loro,  Altrui,  Lui;  di  con,  di,  a,  in,  per,  da  a  Che;  di  di  a  nome  dipendente  da  Casa,  a  Dio  dipendente  da  Mercè;  di  di  e  dell'ara,  a  Giudicio  dipendente da  Die  e  a  nomi  dipendenti  da  Metà,  e  a  nomi  delle  famiglie  dipendenti  da  nomi  propri  maschili,  e  a  Quattro  Tempora  dipendente  da  Digiuna:  di  per  a  Mercè,  a  Gratia,  a  Bontà;  di  per  a  Tempo;  di  a  a  Malgrado.  Nei  complementi  di  specificazione  l'uso  dell'articolo  (prep.  articolata)  è  determinato  dal  significato  o  forza  che  l'art.,  analogamente  al  vicenome  quello,  ha  di  preterito  (reiteramento),  futuro  (premostramento),  presente  (additamento),  dal  suo  scopo  di  particolareggiare  o  universalizzare  il  significato  del  nome,  e  dal  significato  particolare  o  universale  del  nome  disarticolato.  Ci  sono  poi  dei  nomi  (Capo,  Testa,  Collo,  Tavola  in  compagnia  d'  In  z:  Su;  Piede,  Dorso,  Gola  in  compagnia d'  In  =  Intorno)  che  rifiutano  l'art.;  altri  (Città,  Casa,  Piazza,  Palazzo,  Chiesa  in  compagnia  d'  A,  d'  In,  di  Di,  di  Da;  Mano  in  compagnia  di  Con,  e  Cintula  in  compagnia  di  Da,  e  Lato  in  compagnia di  A  e  di  Da,  e  Bocca  in  compagnia  d'  In  e  d'  A)  e  gli  aggettivi Mio,  Tuo,  Nostro,  e  Vostro  antiposti  a  nomi,  possono  lasciare  l'articolo.   \   io. I  nomi  propri  femminili  comportano  l'art,  det.;  de'  ma  X  schili solo  quelli  in  cui  operi una notabile   qualità   (antonomasia),    o  che  siano  preceduti  da  un   aggettivo  e  in  cui  l'agg.   funga  da  sostantivo   il  cattivello  d'Andriuccio).  Quando  l'aggiunto  si  pospone,   l'art.  segue  il  nome  sia  maschile  che  femminile. I  nomi  femminili  di  continente,  d'isole  maggiori  (eccetto  Lift~^  pari,  Cresi,  Ischia,  Maiorica,  Minorica  e  simili),  stati  e  regioni,  seguono la  regola  de'  nomi  propri  di  persona,  cioè  possono  ricevere  l'articolo.  I  maschili  non  seguono  la  regola  de'  nomi  propri  maschili;  ma  anch'essi  possono  ricevere  l'articolo. I  nomi  di  città  e  castelli  rifiutano l'articolo  (eccetto  gli  edificati  dopo  la  perdita  del  latino:  Il  Cairo,  La  Mirandola,  ecc.i;  de'  fium i,  possono  riceverlo  e  rifiutare;  de'  fonti,  i  più  lo  rifiutano.  Preceduti  da  un  aggiunto,  tutti  lo  ricevono. Fratelmo,  Patremo,  Matrema,  Mogliema,  Figliuolto,  Signorto,  Moglieta,   fiammata,  Signorso; Dio;   gli  honorativi  (Papa,  Sere,  ecc.); i  pronomi  personali  o  no  e  il  relativo  rifiutano  l'articolo; i  nomi  antonomastici  e  i  congiunti  con  tutti  e  numeri  seguenti, e  i  vocativi  possono  ricevere  l'articolo.  Ma  Vaghe  le  montanine e  pastorelle    è  dell'uso  della  favella  vile,  non  della  nobile. Le  quattro  coniugazioni  del verbo si  determinano  solo  dall'infinito  (-are,  -ère,  -ere,  -ire),  essendo  in  volgare  la  2a  ps.  ind.  uguale  in  tutt'  e  quattro. La  primiera  voce  (cioè,  meglio,  la  ia  ps.  pres.  ind.  att.)  ne'  verbi  volgari  varia.   Agli  esempi  del  Bembo:  Seggo  Seggio  Siedo,  Leggo  Leggio  Veggo  Veggio  Veo  Vedo,  Deggio  Debbo,  Vegno  Vengo,  Tegno  Tengo  Seguo  Sego,  Creo  Crio  Credo,  Voglio  Vo,  sono  da  aggiungere:   Muoro  Muoio,  Paro  Paio,  Salgo  Saio,  Doglio  Dolgo.  Toglio  Tolgo  Sono  Son  So,  Ho  Habbo  Haggio,  So  Saccio,  Fo  Faccio,  Deo  (Deggio  Debbo),  Supplico  Supplico,  Rimagno  Rimango,  Coglio  Colgo,  Chiedo  Chieggio,  Vado  Vo,  Scioglio  Sciolgo,  Scieglio  Scielgo,  Fiedo  Feggio  Beo Bibo Descrivo Describo Appruovo Approbo Ripiovo Repluo Priego Preco Miro Mirro Replico Replico Foe Fo Soe Sono Do Doe Vo Voe  (Vado) Haio  (Ho) Deio  (Debbo) Creio  (Credo) Cado Caggio Sospiro Sospir Uccido OccidoAncido Ubedisco Obedisco Allevio Alleggio Cambio  Caggio Manduco  Mangio  Manuco,  Giudico  Giuggio,  Vendico  Veggio,  Simiglio  Semblo  Sembro Annumero  Annovero, Ricupero Ricovero Valico  Varco,  Sepero    Scevro,  Delibero  Delivro Dimentico Dismento,  ecc. Ragioni  fonetiche:  D,   B  davanti  a  voc.  i  (da  e)  seguita  da  voc.  =  g  geminato:  Deggio  (Debeo),  Haggio    Habeo),  Seggio  (Sedeo).  Veggio  (Video;,   e,  per  analogia,  Creggio  (come  da  Credeo),  Feggio  (come  da  Fedeo),  Caggio  (come  da  Cadeo),  [Tu]  Regge  (Dante)  da  Redeo.  Il  gg  e  ce  si  dileguarono  nell'ant.   ital.   agevolmente. P  davanti  a  voc.   i  seguita  da  voc.   =  Ch:   Schiantare  (da  Piantare),  Schiazzare  (da  Piazza),  Saccio  per  Sacchio  (da  Sapio),  cfr.  prov.  Sapche.   e)  L,  N   \i  -j-'voc.  vogliono  g  avanti,  o  anche  L,  N  -je  -fvoc:  Nap.  Chiagnere Piangere. Consiglio,  Bologna,  Sanguigno,  Oglio.  Quindi  Saglio,  Vegno,  Tegno,  Rimagno  e,  per  analogia,  Voglio  (quasi  da  Voleo)  come  Doglio  (da  Doleo).   Il  g  e  1  si  possono  posporre:    Doglio,  Dolgo.   d)  R  prec.  da  A  o  O  e  seguita  da  I  o  E  prec.  da  voc,    si  dilegua  via:  Frimaio,  Cuoio,  Aia  (Primarius,  Corium,  Area).  Quindi  Muoio,   Paio.  L  tra  vocali  =  i:   ìtaXóg  gaio,  pitllus  buio.  Quindi    Voio   (da  volo)  lomb.,   Yoo  \'o.   f)  L'è  paragogico  di  doe,  foc,  ecc.,  tue,  sue,  ecc.,  coste,  ecc.,  die,  ecc.,  è  avvenuto    per  cagione  di  più  soave  e  riposata  preferenza  .  I  di  Seggio  è  naturale.   In  Debbo,   Habbo  ecc.   è  caduta.  Di  queste  voci  alcune  sono  poetiche  altre  prosaiche. La  ia  ppl.  ind.  pres.  att.  si  è  formata  dal  pres.  del  cong.  confuso  col  pres.  ind.  in  due  modi:  a)  dalla  ia  pi.  della  2a  e  4"  valeamus,  sentiamus  =  sentiam,  valeam);  b)  dalla  i"  ppl.  della  1*  (amemus),  amemo  e,  per  analogia,  valemo,  leggemo,  sentemo.  Mai  leggerlo deriverebbe  da  legimus!  E  lo  conferma  anche  il  senio  da  shnus.   \  4.  La  2H  ps. ind. pres.  è  presa  dalla  2a  ps. sogg.  o  dall'indicativo,  confusamente. Non  mai  si  origina  dalla  1"  ps.  ind.  pres.  La  voce  volgare  si  origina  sempre  dalla  latina! Un  argomento  fortissimo  della  derivazione dal  sogg.   sono:   giacci,  dagli,   pai,  vinchi,  proferiscili,  sagli.   \  5.  La  3a  ps.  pres.  ind.  si  passiona  per  tre  vie  o  per  mutamento,  o  per  levamento  o  per  aggiugnimento.  Esempi  e  ragioni  fonetiche. La  2a  ppl.  deriva  dalla  2a  ppl.  latina.  Nella  3a  coniug.  avviene egualmente  per  analogia.  Leggete  quasi  da  Legetis.  Neil'  uso  antico  anche  sull’esempio  della  quarta:  leggile,  vedile. Bembo  aveva  detto  che  Vi  di  tieni  da  tengo,  di  siedi  da  seggo,  Vii  di  duoli  da  doglio,  di  vuoti  da  voglio,  di  suoli  da  soglio,  di  puoi  da  posso,  è  vocale  di  compenso  per  la  caduta  del  g  e  del  ss.  Il  C.  dimostra  che  quelle  vocali  sono  effetto  d'  uno  scempiamento,  tant'è  vero  che  scompaiono  fuori  d'  accento,  e  che  il  g  è  naturale  nella  ia  ps.,  e  sarebbe  fuor  di  luogo  nella  2*.  Quanto  a. posso  rimanda  alla  trattazione  di  sono.   2.  I  verbi  che  nella  2"  ps.  perdono  la  cons.  o  le  cons.  della  ia  appartengono  alla  2*  e  3"  coniug:.  e  quattro  sole  sono  in  effetto  le  cons.  che  si  perdono  (C  e  G,  V  e  P,  D  e  T,  L).  Verbi  in  -io  di  tutte  e  quattro  le  coniug.  che  nella  2a  ps.  perdono  o  non  perdono  una  vocale o  una  cons.   nella  2a  ps.   3.  Altre  particolarità  fonetiche  sulla  ia  e  2a  ps.,  specie  sulla  fogliazione di  L  e  R,  sulla  geminazione  di  GG,  di  RR  in  Trarre,  ecc.  sull'elisione  di   R  in   Paro  e  Muoro. Del  G  e  dell'  N  naturali  si  ragiona  nella  Giunta. Il  G  fognato  nei GERONDI. La  3a  ppl.  dalla  corrisp.  latina,  esemplandosi  la  3*  coniug.  sulla  2*.  Eccezioni,  dipendenti  dai  mutamenti  fonetici.  Particolarità  di  altri  verbi.   \  Il  pendente  (=  imperfetto).  Il  V  della  i"  e  2*  ppl.,  poiché  è  in  sillaba  accentata,  non  può  dileguarsi.  Nella  3  sin^.  e  pi.  e  nella  2a  sing.  il  V  non  si  elide  quando  lascerebbe  due  vocali  eguali:  dunque  non  amaa,  amaano,  e  [tu]  udii  (per  udivi),  come  vedea,  vedeano,  dovei.   Riguardo  alla  forma  della  3a  ppl.  haviéno,  moviéno,  serviéno,  conteniéno,  si  osservi  che  la  ia  e  3"  ps.  pres.  ind.  della  2"  e  3a  coniug.  in  provenzale  e  italiano  si  modellarono  sulla  4"  che  aveva  audibant  e  andiebant  onde  udivano,  udiano  e  udieno,  quindi  havia,  solia,  credia,  potia,  vincia,  vinia.  Analogamente  la  ia  e  2a  ppl.  della  2a,  3"  e  4"  coniugaz.  si  modellarono  sulla  1";  quindi  credavamo,  credavate. Del  preterito. La  ia  ps.  ha  sei  regole;  la  ia  ppl.  due.   in  cong.  2a  e  3B   4'1   /'  ps.:  -ai  (o  -iaij  -ei  (iei)  -etti,  -si,  e  lat.   -i,  son  tutte  dalle  corrisp.   latine. I  finienti  in  -si  e  i  ritenenti  il  fine  latino  non  mutano  l'accento  della  sillaba  radicale,  come  tutti  gli  altri  finienti   ne'   modi  predetti.   I  mutamenti  di  -avi  lat.  in  ai  vulg.,  di  -idi,  in  -etti  e,  per  analogia, anche  in  quelli  non  provenienti  da  -idi, sono facili a  spiegarsi.  Così  il  -si'.  Di  questo son due  classi,  secondo  che  conservano  l'istesso  numero  di  consonanti  che  nel  presente,  o  ne  hanno  di  meno  o  di  più.   I  verbi  col  finimento  latino  sono  io  della  2",  11  della  3",  1  della  4a:  malagevolmente  possono  cadere  sotto  la  regola  d'un  fini-. Nella  4a  più  forme:  audivi,  udij  (udì),  e  udìo.  Verbi  in  -are  e  in  -ire  (colorai,  colorii)  ecc.,  cioè  della  ia  e  4",  della  2"  e  4"  (offersi  e  offerii).   j"  ps.    conili"-,  -ó,  -io.  Ant.  dial.  siciliano:  Passao,  Mostrao,  Cangiao,  ecc.   2a  e    coniug.  -é,  o  -ié  (-éo),  se  la  ia  è  -ei  o  -iéi;  -ette,  -se,  da  -etti,  -si.   4a  coniug.  -i  (-io),  -ie.   3"  Ppl- -ero, -ono; -éttero, -éttono; -àrono o -iàrono, -aro e -iàro quando la 3"  sg. è -ó, -io; -érono, -iérono, -èro, -iéro, se -é, -ié; -irono, -irò, se  -ì.  L'o  finale  è  troncabile.  Questa  3a  ppl.  deriva  dalla  corrisp.  latina.  In  poesia  si  sincopa:  levórno,  usato  anche  in  Lomb.  Finalmente  c'è  la  terminazione  -enno, -eno, -inno, -onno. Faro  e  Foro.   /"ppl1°  e  4a  coniug.  da  -àvitnus,  -ivimus,  àvmus,  ivnuis,  -animo,  immo  e  per  analogia  -emrao  nella  2*  e  3",  come  se  si  dicesse  valevimus,  legevimus.    l)    finimento  lutino,    per  ora.  Medesimamente  si  formò  la   jK  ppl.  e  sitig.,  osservandosi:  i"  l'accento  si  trasporta  sulla  seguente sillaba:  da  vàhti,  valeste,  da  legi, leggeste  (fummo  come  da  fùvimus  e  non  fuimus,  gimmo  da  ivimus);  che  si  dice  udiste  e  sonaste,  benché  la  i"  è  odo,  suono.   \   io. Pariefici  preteriti. -ato, -ito, -uto,  -so  dalle  corrisp.  latine.  In  quei  in  -ato  si  ha  il  raccoglimento,  che  del  resto già  era  avvenuto  nei latini  Saucius,  Lassus,  Lacerus,  Potus  per  Sauciatus  ecc.  In  quei  in  -ito  (4"  coniug.  sulla  quale  si  modella  anche  Resistito  benché  sia  della  3'),  ant. -uto  n'è  rimasto venuto)  per  l'analogia  che  alcuni  verbi  della  4"  avevano  con  quelli  della  2"  e  3"  (cfr.  uscì  e  uscetti,  udì  e  udetti,  feri  e  ferretti, venni  e  vennetti). Quando  nel  part. -ito,  e'  è  r,  avviene  la  sincope:  morto,  proferto,  ecc.;  ma  non  ferto,  perto,  smarto  e  sim.;  ratto  da  rapito,  sepolto. Nella  2a  e  3"  coniug.  -uto  e  iuto  a)  to  puro  6)  to  con  cons.  o  impuro;  -so  puro  e  -so  impuro.   a)  -to  puro  (dalla  forma  di  /oattiis,  tribntus,  cautus  e  sim.  e  sui  preteriti  in  -èi  o  -ici  e  -ètti  e  -ietti  della  2"  e  3a  coniug.,  e  su  quelli  che  hanno  il  finimento  latino.  Irregolarità  e  doppioni  (pentuto  e  pentito, perduto  e  perso,  conceputo  e  concetto  ecc.).   b)  -io  impuro,  1"  e  3"  coniug.  pret.  in  -si  prec.  da  cons.  che  si  conserva  se  è  L,  N,  R,  e  si  muta  in  T  se  è  S.  Tuttavia  -si  prec.  da  R  o  R    -so,  conservandosi  R  e  S.  Es.  volsi  volto  (assolto  e  assoluto), (ma  salito,  caluto,  valuto);  giunsi  giunto  (ma  stretto  da  strinsi);  sparsi  sparto  (in  verso  sparso;  porretto  per  porto  nel  volgarizzator  di  Giudici),  strussi,  strutto  (fisso  per  fitto).   -so  puro,  scesi,  sceso  (impeso  e  impenduto;  accenso  e  acceso,  offenso  e  offéso,  nascosto  e  nascoso).  Ma  risposto,  chiesto,  posto  e  messo  (poet.  miso).  -so  impuro,  pret.  -si  con  r  o  s;  tersi,  terso  (presso  e  premuto)  scossi,  scosso  (visso e vivuto);  scisso  da  scindo,  ma  scosceso  da  sconscindo.  Ma  arroto  (da  arroguto)  e  non  arroso,  pret.  arrosi. Poet.  priso  preso  e  altri  partefici  che  sono  latinismi  veri  anche  in  prosa:  digesto,  deposito,   inquisito,  ecc. Critica  della  trattaz.  De’partefici  di  Bembo.  Si  può  osservare:  la  vocalizzazione  del  v  cons.  di  ivi  in  docni,  explicui,  sapui  ecc.  non  potendosi  dire  dóc(i)vi,  explìc(i)vi,  sàp(i(vi;  la  sibilizzazione  del  v  cons. in  duri,  finxi,  repsi, non potendosi  dire   dic(i)vi,  fìng(i)vi,   rè- [Morto  sarà  da  morsi  (morii)  come dicesi in Lombardia , a Lombardia  ha  in Castelvetro  il  senso  generico  che  ha  anticamente) e  quindi profferta  e  simili  non  saranno  d;escludere  dalla  schiera  de"  participi  in  -ito?     pCi)vi.  Sicché  il  x  non  sarebbe  da  cs  ma  da  cv,  gv,  pv.  Medesimamente il  V    non  può  avere  stato    dopo  B,  D,  H,  LL,  M,  MN,  RN,  QV,  T,  TT,  CT,  NT,  V  (cons.).  Indi  il  V  di  ivi,    volendo  conservar  natura  di  consonante,  si  tramuta  in  s,  obbligando  le  precedenti  cons.  a  dileguarsi  o  a  assimilarsi.  Onde  B  =  P  o  B  =  S  ecc.  con  tutta  la  lunga  e  facile  tramutazione.  Insomma  il  si  de'  pret.  latini  non  è  mai  originario. TEMPI COMPOSTI. SIGNIFICATO.  “Havere” congiunto  col  partefice  passato  affigge  termine  certo  all'attione  perfetta,  il  qual  termine  si  ferma  nel  tempo  del  verbo  “Havere”.   PASSATO PRESENTE: “ho  amato”: affigge il termine del  fatto  al  principio  del  presente [cf. H. P. Grice, on von Wright, “Actions and events”.  PASSATO IMPERFETTO (haveva  amato):  congiunge il  fine del  fatto col  principio  dell’imperfetto. PASSATO PASSATO: hebbi  amato”: congiunge il fine del  fatto col principio  del  fatto. PASSATO FUTURO, “havrò  amato”, congiunge  l'estremità  dell'unione perfetta  col  principio  del  futuro.  Consecutio  temporum. Concordanza  del  participio  de'  tempi    composti    col    soggetto o  coll'oggetto,  secondo  il  valore  del  termine  dell’AZIONE [cf. Grice, “Actions and events”).  Il  futuro. La  lingua  nostra  non  ha  voce  semplice  futura  se  non  tre  sole  in  un  verbo  disusato,  o  non  usato  mai,  e  sono  queste:  Fia, Fie, o Fia, Fieno o Fiano  b  Fiero. Ma  le  ha  composte  del  verbo “havere”,  e  dell'infinito  del  verbo  il  cui  futuro  si  richiede,  dicendosi  “Dire  ho,” nella  guisa  che  si  dice  appresso  i  greci  Xèysiv  ryo>,  e  appresso  i  latini, “dicere  habeo,” SIGNIFICANDOSI IL FUTURO.   M§6ì  Dicam  .  I verbi  della  itt  coniug.  si  modellano  su  quella  della  2*. Quindi “amerò” e  non “amaro”  (ma  cfr.  sen.  “amaro”,  “sarò”  per  “serò”,  Possanza  da  Possendo,  Sanza  da  Absentiaì.  Avendo  avere  nella  r'  ps.  ho,  haggio,  habbo,  avremo: amerò, risapraggio, torrabbo.  Analogamente, amerai, amerà, ameremo, amerete, ameranno. Consonantismo. Dileguo  della  cons.  verb.  e  della  voc.  anzi  terminante.  Es.  “farò”,   per  “faceró”.   Dileguo  della  vocale:  “andrò” per  “anderó. Dileguo  della  vocale  e  mutamento  della  cons.:  merrò  per  menrò  per  menerò. Madonna  Iancofiore  havendo alcuna cosa  sentito  de  fatti  suoi  gli  posa  gli  occhi  addosso. Qui  alcuna  cosa    fa  dell'averbio. Eccezioni  e  casi  speciali.  Del  comandativo.   a)  Possiamo  comandare  non  pure  cose  presenti,  ma  future  anchora,  et  non  solamente  con  le  seconde  voci,  ma  con  le  terze.   Il  comandativo  ha  una  sola  voce  propria,    la    2a  sing.  della  i"  coniti  gaz.   Troncamenti  della  vocale  e  della  sillaba  tinaie.  L'  inf.  pel  coni.  nelle  frasi  neg.  secondo  i  greci  e  gli  ebrei:    salvo  se  non  vogliamo  dire,  che  v'habbi  difetto  di  dei.  Non  dire  in  quel  modo,  Non  dèi  dire  in  quel  modo.   Il  che  a  me  pare  assai  verisimile.   \   15.  Dello  infinito.   1  Nervazione.    Habbiamo  mostrato  infin  a  qui  le  voci  de'  verbi  vulgari  nascere  dalle  latine,  dalle  future  dell’indicativo  infuori,    come  anchora  nascono  queste  dell’infinito.  Perchè  non  è  da  dire,  che  esse  o  reggano,  o  formino  le  altre  voci  trattene  le  voci  del  futuro dell’indicativo,  e  quelle  del  POTENZIALE,  come  si  vedrà,  o  sieno  rette,  o  formate  da  alcune  delle  altre. Uso  dell'infinito. Sono  quattro  casi molto tra se differenti, ne quali  lo  'rifinito  richiede  il  primo  caso  della  persona,  o  della  cosa  che  fa.     quando  si  pone  in  luoo  di  gerondio,   il  che  si  fa:   con  le  particelle  Per,  In,  Con,  A,  Senza  e  simili:    In  farnegli  io  una;   o  con  1'  art.  masch.  sing.   Il  volere  io  le  mie  poche  forze  sottoporre  a  gravissimi  pesi,  m'é  di  questa  infermità  stata  cagione .   20  con  Chi,  Cui,  Quale,  Che,  Dove,  Come,  per  ellissi  del  verbo:    Qui  è  questa  cena  e  non  saria  chi  mangiarla    ecc.     quando  ha  forza  di  comandativo,  forse  per  ellissi  del  verbo:    non  far  tu  .     nelle  frasi  consecutive:    queste  cose  son  da  farle  gli  scherani. Uso  dell'ausiliare  coi  partefici  Potuto  e  Voluto,  e  coi  verbi  stanti  cioè  intransitivi: verbi  che  finiscono  in    1'  attione  .  Infinito  futuro. Non  ha  voce  propria,  ma  un’espressione  fraseologica. La  teoria  generale  del MODO [cf. Grice, Mode, not Mood]  si  può  restringere  nel  seguente  prospetto. Su  essa torna Castelvetro nella  Spositione della  Poetica  aristotelica. o  E  o  re  ~ n O O O  c £  •- =  ór. "1 ' £    5 o  o,->  . .5  c/5  tO  l_l  re  -E   ?  T"  E  ° ^ (u  -a  a  u   o  o  a>  s  3 o  3  u  O  S  cr  >  cr +:    o  ^    v    .  x    >  P    e    ^   o  T3  •*-•  a  o    e    e   q   w  O)    ~   )Z -1   'o  ***  v  -2  a    e    -O  e   r re re     -E 2 2   "re re] È  dunque  una  concezione  del  modo  un  po'  diversa  dalla  comune,   derivando  dall'interpretazione   diversa  del  sentimento    che  racchiude. Formazione  del  comunemente  detto  Soggiuntivo',  amerei  0   ameria,  e  amassi :   amerei  da  amare   4 liei   =  hebbi   ameresti + hesti  =  havesti   amerebbe  +  hebbe ameremmo + hemmo  =  riavemmo   amereste +  heste  =  riaveste,,  ero  i hebbe   amerebb +   ono  I  hebbono   parrave da    pàr(eire    +  have  (lomb.)  =3  hebbe   ameria ia  ps.   da  amare   +  ibam  ameria 3*  ps. -fibat  (ameriamo  1"  ppl.      +  ibamus  ameriano    3'  ppl.      +  ibant   opp.   amerieno  (per  analogia  con  udieno).   satisfarà  (Dante)  per  satisfarla  (eug.    e  prov.)   Così  Fora,  Forano,  =  foria,  fonano  da  fore  -fibat.   Per  e  da  a  in  amerà,  cfr.  formaz.  futuro  (ma  sarei  e  non  serei).  amassi  da  ama(vi)ssem.   Nella  3  ps.  perciò  anche  amassi  come  in  Dante  e  Petr.   amàssimo  da  ama(vi)ssimus  amaste  da  amàs(sijte  da  amà(vi)ssetis   amassero  e  amassimo  quasi  da  amavisserunt  per  analogia  della  3  ppl.  pret.  perf.  ind.,  invece  di  amassino  (come  in  alcuni  poeti  o  amasseno  (come  nel  Petr.)  da  amai  vi)ssent.   La  2a  e  3R  coniug.   in   queste    voci    si   modellarono    per   analogia   sulla  ia  e  43,  leggessi  e  valessi  come  da  legé(vi)ssem  e  valé(vi)ssem  ecc. Significato  di  amerei  e  ameria,  e  amassi.   Amerei  (quasi  Habbi  ad  amare;  gr.  potenziale  con  àv,  lat.  Amareni)   significa  deliberatione,    o  ubligatione,  o  potentia  cominciata  già  nel   passato,  et  riguardante  all'adempimento  futuro.   Ameria  ha  questa  medesima  forza.  Perciocché  deliberatione,  o  movimento  a  far  significa,  et  poi  che  niuno  comunemente  si  muove  a  far,  se  non  è  ubligato,  significa  anchora  per  questa  cagione  ubligatione, et  oltre  a  ciò  potentia  essendo  anchora  il  preterito  imperfetto  appresso  i  greci  potentiale.        Secondo' l'uso  di  que  d'ogobbio    dove    abitò    |  Dante]    alcun  tempo. Amassi  (benché  derivi  da  Amavissem)    significa  tempo  presente  o  futuro  a  noi,  che  parliamo,  ma  passato  havendo  riguardo  all'essecutione  della  deliberatione,  o  dell'ubligatione,  o  della  potentia,  che  va  avanti  .   Alcune  particolarità  di  forma  e  di  significato. Formazione  del  presente  del  soggiuntivo.   Le  voci  di  questo  tempo  derivano  dalle  corrispondenti  latine,  tranne  la  ia  e  2a  ppl.  della  1"  e  3a  coniug.  che  si  modellarono  sulla  2R  e  4",  amiamo  e  amiate,  leggiamo  e  leggiate  quasi  da  ameamus  o  amiamus,  ameatis  o  amiatis,  legearnus  o  legiamus,  legiatis  o  legiatis,  e  non  amemo  e  anche,  leggamo  e  leggate  come  sarebbe  naturale.   Spiegazione  delle  terminaz.  in  -e,  -i,  -a  nella  3*  p.  sing.:  vegga,  vegghi,   vegghe  e  veggi,  vegge. Gerondio. Formazione, Uso. I  Gerondi  vulgari  seguitano  i  vestigi  de  latini,  conservando  la  consonante,  o  le  consonanti  loro  verbali,  che  prese  la  prima  volta  non  si  lasciano  per  modi,  persone,  tempi,  et  numeri  del  suo  verbo...  et  si  contentano  d'essere  simplici,  ma  ne  verbi  che  non  continuano  la  consonante,   o  le  consonanti  prese  la  prima  volta  per  tutti  i  modi,   persone,  et  numeri:  si  truovano  essere  i gerondi  doppi,  cioè  o  con   la  consonante  o  con  le  consonanti  sue  naturali,  o  con  le  prese  di  nuovo,  o  con  alcuna  delle  prese.   Il  gerondio  dei  verbi  intrans,  riceve  indifferentemente  il  primo  e  il  sesto  caso  (cfr.  l'uso  del  come  da  quomodo  e  da  cum,  del  verb.  essere,  e  del  grido  affettuoso  o  schiamazzo,  il  nostro  vocativo  o  esclamativo) ;  quello  di  trans,  solo  il  primo.  Osservaz.  sui  pronomi  relativi e  dimostrativi,  e  su  luì  e  lei.   \  21.  Il  passivo.  Il  si  rende  passive  la  3"  ps.  e  pi.  e  l'inf.  (benché  questo  sia  fatto  passivo  dal  veggo,  da  resto,  da  sono  con  le  particelle  r7  da  di  da  per  per  licenza  e  quasi  per  errore,  essendo    propri  e  regolati [passivi]  que  del  partefice  preterito  col  verbo  sono).  Il  si  ha  significato  riflessivo  (Narcisso  amasi  o  s'ama,  cioè  ama    stesso),  o  reiterativo  ossia  intensivo  (Eco  s'ama  o  amasi  Narcisso).  Nelle  orìgini  del  volgare,  quando  il  soggetto  in  questo  secondo  caso  era  sottinteso  per  essere  un  nome  indeterminato  (nel  qual  caso  dicevasi  anche  huomo  cfr.  il  fr.  on  e  i  nostri  scrittori  antichi),  si  perde  la  nozione  del  quarto  caso  e  questo  sembrò  primo.  In  s'ama  la  dorma,  non  si  vide  più  il  soggetto  alcuno  o  uom,  e  la  donna  sembrò  soggetto,  e  il  s'ama  verbo  passivo.   Così  il  si  acquistò  la  virtù  di  far  passivi  i  verbi. Verbi  anomali.  (Accenniamo,  per  brevità,  solo  alla  trattazione del  verbo  sostantivo,  la  quale  è  fondata  su  questo  principio,  che  le  voci  procedano  da  sei  verbi:  esso,  ero,  o,  fuo,  fio  e  sto,  cinque  dei  quali  non  usitati  sono,  ma  alcune  intere,  alcune  diminuite,  alcune  dimuite  insieme  e  accresciute,  alcune  diminuite  insieme  e  tramutate,  e  alcune  dileguate  ).  Participio  futuro  attivo  e  passivo.  Mancano  al  volgare,  benché  abbi. insi  futuro,  venturo  e  reverendo,  e,  in  Dante,  fatturo,  passino,  e,  in  Bocc,  redituro,  venerando,  ammirando.  Questa  sorta  di  participi  futuri  passivi  hanno  perduta  la  loro  forza  di  tempi  futuri.  Ma  la  lingua  volgare  usa  alcune  formazioni  analoghe  per  i  sost.  femminili  sul  part.  fut.  att.:  scrittura,  natura,  creatura,  lettura,  ventura,  tagliatura,  copritura,  sull'esempio  del  latino  (cfr.  natura  da  nascitura).  Ma  non  i  maschili:  habituro  è  formato  su  tugurio.  Cfr.  il  lomb.  alturio,  aiutorio,  aiuto.  Sul  part.  fut.  pass.:  facenda,  merenda,  vivanda,  randa  (da  haereo)  cfr.  arente  opp.  a  rente  a  rente.   \  24.  Participio  pres.  att.  e  passato  passivo  (preterito).   I  partefici  vulgari  che  derivano  dai  corrispondenti  latini  significano  attione  o  passione,  ma  non  mai  tempo,  tranne  i  preteriti  in  tre  casi:    col  verbo  havere;   20  col  verbo  essere;    3"  usati  assolutamente.   Dai  partefici  presenti  si  formano  i  sost.   in  -anza  e  -enza.   Dai  partefici  preteriti  si  formano  i  sost.  in  -ione,  -aggio,  e  gli  aggiunti  in  -ivo,  -iva.  -ore,  -trice.   Concordanza  del  participio  e  uso  del  gerondio.   Giunti  al  termine  del  nostro  rapido  riassunto,  possiamo  molto  facilmente  stabilire  i  meriti  di Castelvetro  verso  la  grammatica.   Confrontando  il  trattato  castelvetrino  con  le  analoghe  parti  delle  recenti  grammatiche  storico-comparative  dell'italiano,  in  quanto  concerne  le  conclusioni  della  storia  delle  forme,  ci  accorgiamo subito  che  una  non  iscarsa  parte  di  esse  ebbe  la  sua  prima  sistematica  elaborazione  dal  Castelvetro:  osservinsi,  particolarmente, la  derivazione  dell'articolo,  le  desinenze  delle  persone verbali,  la  derivazione  de'  tempi,  e  specialmente  del  futuro  e  del  condizionale,  e  molti  mutamenti  fonetici  specie  consonantici." Fuori  del  campo  strettamente  fonetico  e  morfologico,  sono  poi  da  segnalare  specialmente,  come  altra  proprietà  esclusiva  del  Castelvetro,  il  tentativo  d' interpretazione  psicologica  de'  modi,  la  spiegazione  del  significato  del  futuro  e  della  doppia  forma  del  condizionale  (amerei,  ameria),  e  la  determinazione  del  significato  de'  tempi  composti  dell'  indicativo.  Senza  dire  delle  etimologie  e  dei  ravvicinamenti  nuovi  se  non  sempre  esatti  disseminati per  entro  la  Giunta;  ne  della  trattazione  incidentale  delle  altre  parti  del  discorso  (vicenomi,  sostantivi,  aggiunti,  verbi,   segnacasi,   congiungimenti,   schiamazzi).   Ma  tutti  questi  accertamenti,  come  si  vogliono  .chiamare,  positivi,  veri  in  gran    parte,    non    sono   propriamente   quel   che    iS8  Storia  della  Grammatica   costituisce  il  principal  merito  del  Castelvetro;  questo  è  soprattutto, in  linea  generale:  i"  sulla  conoscenza  quasi  completa  del  materiale  linguistico  di  studio,  che  si  può  dire  che  non  c'è  forma,  non  dico  d'articolo,  ma  verbale  dell'antico  e  del  moderno  italiano (senza  distinzione  di  dialetti  toscani,  meridionali  e  lombardi) che  il  Castelvetro  non  conosca,  o  mostri  di  conoscere,  come  si  può  vedere  da  un  confronto  con  le  forme  studiate  nella  Grammatica  del  Meyer  Li'ibke;    il  metodo  dell'indagine,  arieggiarne nella  sua  naturale  e  parziale  imperfezione,  quello  che  informa la  moderna  filologia:  è  poco  dire  che  il  Castelvetro  muove  sempre  dalla  parola  latina  e  che  si  serve  della  comparazione  (estesa  al  greco  e  all'ebreo,  oltre  che  al  provenz.  e  al  francese):  egli  ha  anche  altre  virtù,  come  quella  essenziale  di  porre  la  fonetica a  base  d'ogni  sua  ulteriore  ricerca;  30  il  metodo  della  trattazione: abbiam  visto  che,  a  proposito  de'  verbi,  p.  es.,  eglb  muove  dallo  stabilire  le  coniugazioni,  poi,  tempo  per  tempo,  studia le  desinenze  delle  persone,  e  la  formazione  de'  tempi  e  de'  modi,  con  l' illustrazione  degli  esempi  ricca  e  varia.  In  linea  particolare :    l'importanza  data  2W  accento:  2"  la  funzione  della  legge  de\Y  analogia.  Qui  anzi,  più  che  in  qualunque  altra  parte,  per  noi  è  il  merito  principalissimo  del  Castelvetro.  L'importanza  dell'accento  non  era  stata  ignota  neppure  al  Fortunio,  come  vedemmo:  di  fonetica  ammirammo  la  competenza  nel  Tolomei;  ma  l'analogia,  prima  di  Castelvetro,  era  un  fatto  pressoché  ignoto  ai  nostri  grammatici:  e  anche  sorprende  di  meraviglia  il  modo,  se  non  sempre  sicuro  e  preciso,  sempre  però  acutissimo,  che  il  Castelvetro  usò  nell' applicarla  nella  spiegazione  delle  forme.   Col  Castelvetro  fa  un  passo  notevole  non  solo  la  grammatica storica,  ma  la  metodica  e  la  precettistica:  egli  nelle  parti  che  elaborò  e  con  tutte  le  sue  manchevolezze  è  il  grammatico  più  completo,  per  larghezza  d'indagine  e  pel  metodo,  non  solo  di  tvitto  il  Cinquecento,  ma  di  tutto  il  periodo  anteriore  alla  moderna filologia.  Il  che  vuol  anchedire  che  non  solo  le  sue  ricerche non  furono  proseguite  e  fecondate  sistematicamente,  ma  che,  salvo  forse  pel  Salviati  e  pel  Buommattei,  che  pure  si  deve  confessare  che  non  seppero  in  tutto  profittarne,  avemmo  certamente un  regresso:  un  regresso  rispetto  s'intende  a  (pul  ehe,   nel  terreno  puramente  empirico,  si  suol  chiamare  progresso.   Nella  polemica  originata  dalla  Canzone  de'  Gigli  d'oro  e  chiusasi   con   la   pubblicazione   postuma  della  Correzione  del   Ca  Capito/o  sesto  1S9   stelvetro  all' F.r colano  di Varchi,  l'esaminata  Giunta  castelvet  rina  alle  Pi  ose  del  Bembo  è,  piti  che  una  parentesi  o  una  digressione, un  assalto  di  fianco  da  schermidore  destro  e  coraggioso: codesto  scritto  pare  ed  è,  di  fatto,  rivolto  ad  abbattere  l'edifìcio  grammaticale  tanto  ammirato  del  Bembo,  ma  il  fine  dell'affrettata  e  parziale  pubblicazione,  non  v'ha  dubbio,  fu  quello,  come  ha  bene  intuito  il  Cavazzuti,  di  mostrare  al  Caro  e  compagni  la  soda  e  straordinaria  dottrina  filologica  dell'autore. Abbiam  visto  se  un  tal  fine  fu  conseguito  e  con  (pianto  buon   aumento  della  scienza  grammaticale.   Dobbiamo  ora  vedere  se  Y  Er co  latto di  Varchi,  nato  ed  elaborato  nel  modo  che  si  sa,  portò  a  codesta  scienza  un  ugual  contributo.   benedetto  Varchi  fu  tutt'altro  che  un  meschino  e  puro  grammatico:  è  nota  la  risposta  data  al  Celimi  che  l'avea  pregato della  revision  della  Vita,  piacergli  più    il  simplice  discorso di  quell'opera,  in  quello  stile,  che    essendo  rilimato  e  ritocco  da  altrui  .  Ed  è  la  l'ita  il  capolavoro  più  sgrammaticato che  abbia  la  nostra  letteratura,  e  forse  non  la  nostra  soltanto. In  una  di  quelle  lettere  dirette  allo  Strozzi,  che,  come  benissimo  ha  dettoli  Manacorda,    racchiudono  come  un  piccolo  trattato  di  propedeutica  allo  studio  delle  umane  lettere    ,    quanto  a'  conienti,  lo  confortava,    non  solamente  a  non  leggergli,  ma  a  non  gli  havere  pure  in  vicinanza,  non  che  in  casa,  salvo  Donato  sopra  Terentio  et  Virg.  et  Servio  sopra  Vir.  et  simili;  dico  simili, ciò  è  che  non  siano  moderni  d'  hoggi,  perchè  Asconio  sopra  Cicerone  è  divino,  et  volessi  Dio  si  trovassi  tutto,  e  '1  Vittorino  sopra  la  Rettorica  di  Cic.  non  solo  si  può,  ma  si  clebbe  leggere:  io  intendo  i  commenti:  il  Beroaldo,  il  Pio,  Ascensio  et  tutti  gli  altri  simili  veneni  et  pesti,  et  se  peggio  è  che  peste  et  veneno,  che  sono  da  sbandire  non  meno  che  i  gramatici. L' Ercolano  dialogo  di  M.  Benedetto  Varchi  nel  quale  si  ragiona delle  lingue  ed  in  particolare  della  Toscana  e  della  Fiorentina.  Culla  Correzione  ad  esso  fatta  da  ///esser  Lodovico  Castelvetro;  e  colla  Varchino  di  ///esser  Girolamo  Muzio.  Impressione  accuratissima  come  si  può  vedere  nella  seguente  Prefazione.  In  Padova,  Appresso  Giuseppe  Cornino.   Benedetto    Varchi,   l'uomo,  il  poeta,  il  critico,   Pisa,  1903,  (Estr.  dagli  Annali  della  R.  Scuola  Normale  di  Pisa.Carte  Strozz.,  e.  95,  in  Manacorda. Varchi  fu  tra  i  più  enciclopedici  de'  letterati  del  Rinascimento. Critico,  ripete  con  Manacorda,    poeta,  storico,  filosofo,  in  quasi  tutti  i  rami  dello  scibile  umano  diede  prove  della  mirabile  sua  operosità  .  Si  procurò  una  discreta  conoscenza delle  lingue  antiche  e  moderne;  ebbe  cultura  giuridica  e  artistica;  ma,  come  la  sua  cultura,  se  pur  svariata,  non  fu  profonda,  così  la  sua  erudizione  fu  pedantesca,  grave,  spesso  non  ben  digesta.  Forse  il  meglio  che  produsse  fu  nella  critica  letteraria  e  nella  poetica:  dalla  monografia  dello  Spingarn  s'argomenta che  non  fu  solo  un  divulgatore  della  Poetica  aristotelica, ma  fissò  dei  canoni  nuovi  ed  ebbe  qualche  veduta  modernista non  in  tutto  trascurabile:  ma  resta  sempre  vera  l'affermazione del  Manacorda  che    la  critica  letteraria  del  Varchi  portò  in    il  gran  difetto  d'essere  applicazione  rigida  sempre  e  inflessibile di  principi,  che  avrebbero  dovuto  intendersi  con  molta   larghezza D'altra  parte  non  la  palesa  matura  la  tendenza  a   voler  costringere  entro  limiti  troppo  precisi  le  manifestazioni  letterarie  anche  più  complesse,  a  considerare  l'opera  d'arte  semplicemente qual'è,   non  quale  s'è  formata.   L'opera  più  importante  del  Varchi,  una  delle  più  importanti  fra  le  migliori  trattazioni  cinquecentesche  sulla  lingua,  sia  o  no,  come  s'afferma  dal  D'Ovidio  e  si  nega  dal  Manacorda,  un  capolavoro,  è  V Ercolano.   Esso,  nella  sua  parte  essenziale,  è  veramente,  come  il  Manacorda l'ha  definito,  una  trattazione  compiuta    (s)  de'  tre  punti  del  problema  a  cui  principalmente  si  riducono  tutte  le  questioni  per  tanto  tempo  dibattute:  l'origine,  la  struttura  e  l'apprendimento  e  l'uso  della  nostra  lingua,  con  l'immancabile  preambolo  metafisico  circa  l' origine  della  favella  e  la  classificazione dei  linguaggi.  A  non  ripeter  cose  per  noi  non  più  nuove,  ci  basti  qui  ricordare  che  il  Varchi  fu  un  sostenitore  della  fiorentinità (che  esaltò  anche  sul  greco  e  il  latino)  sia  nel  rispetto  storico  che  pratico,  d'una  fiorentinità  scelta  ma  rinfrescata  via  via    nell'uso  de'  meglio    parlanti  e  del    popolo   {letterati,    idioti,  (Da  vedere  per  la  storia  degli  studi  romanzi:  De  Benedetti,  B.  V.  Provenzalista,  Torino,  (Estr.  dagli  Atti  d.  Acc.  delle  scienze  di   Torino;  ma  v.  tutto  il  riassunto  del  Dialogo. iqi   non  idioti)^  e  la  propugnò  specialmente  contro  il  Trissino,  giovandosi  indubbiamente  del  Dialogo  cK-1  Machiavelli,  che  però  non  cita,  come  e  pel  preambolo  e  per  la  rassegna  de'  quattordici volgari   italiani  ebbe  ricorso  al  trattato  dantesco.   Di  esso  a  noi  interessa  la  parte  strettamente  grammaticale,  la  quale,  anche  col  complementi!  di  altre  scritture  linguistiche  del  Varchi,  come  le  due  Lezioni  di  lingua,  il  Discorso  sopra  le  lingue,  la  Lettera  a*,  la  Lezione  sul  verbo  farneticare  (a  tacer  della  Grammatica  provenzale,  versione  del  Donato  provenzale^,  e  il  frammento  del  Trattatello  ms.  delle  lettere  e  dell'  alfabeto  toscano (*),  non  è  davvero  un  gran  che:  anzi,  non  solo  a  confronto  della  Giunta  castelvetrina,  ma  di  altre  grammatiche  anteriori,  non  rappresenta  alcun  progresso,  se  non  in  quanto,  allargando  la  trattazione  linguistica  e  sollevando  l'importanza  del  problema,  riscalda  e  tiene  vivo  il  dibattito  e  prepara  il  trionfo  del  fiorentinismo :  che,  del  resto,  non  solo  il  suo  naturale  carattere  empirico, è,  dirò  troppo  empirico,  ma  non  contiene  alcun  elemento  storico.  Che  ci  sembra  strana  cosa  assai.  Forse  la  sua  tendenza  più  filosofica  che  filologica,  il  suo  guardar  l'arte  e  il  linguaggio  più  attraverso  i  canoni  aristotelici  e  rettorie!  che  non  nella  loro  vita  reale,  lo  distolse  dal  ricercare  nella  parola  le  leggi  della  sua  formazione  storica:  il  certo  è  che,  come  nella  parte  generale  della  grammatica  non  disse  nulla  di  nuovo  ne  di  originale,  così  nelle  parti  speciali,  a  prescindere  da  un  certo  contributo  che  reca  all'arricchimento  del  Vocabolario,  col  registrare  parole  e  locuzioni raccolte  dalla  viva  parlata,  non  fu  più  che  un  osservatore  comune. La GRAMMATICA RAZIONALE O RAGIONATA è,  per VARCHI (si veda),  una  facilità  o  disciplina come  la  Rettorica,  la  Logica,  la  Storia  e  la  Poetica,  che  FA PARTE DELLA FILOSOFIA. Solo per traslato puo dirsi scienza od  arte,  ma  non  è  l'una  cosa    l'altra, perchè  l'arti  e  le  scienze  fan  parte  della  filosofia e  la  superano  quindi  in  nobiltà.  Dovendosi  d’ogni  disciplina  ricercar  sempre  il  subbietto  ed  il  fine,  si  dice che  subbietto  della grammatica  è  IL FAVELARE. Fine:  'l'insegnare  FAVELARE RETTAMENTE.  Più  propriamente  tuttavia  lsu  subbietto  la dittione,  cioè  le  lettere,  le  sillabe  e  le  parti  del discorso. Nelle    ('i   Biadexe,   in  Studi  d.   FU.  rovi..    Ili 1SS5.  Manacorda. prime  dovranno  considerarsi  il  numero,  il  nome,  l'ordine  e  la  figura  (la  rappresentazione  grafica):  nelle  seconde  il  numero,  l'accento,  lo  spirito  e  il  tempo.  Le  parti  del  discorso  poi  sono  VIII. Quattro  sono DECLINABILI: Nome,  Pronome,  Verbo  e  Participio. Quattro  sono IN-DECLINABILI:  Preposizione,  Avverbio,  Interiezione  e  Congiunzione.  Ciascuna  delle  declinabili  presenta  naturalmente  vari accidenti,  come  sarebbero:  genere,  numero,  caso,  persona, e  cosi  via  discorrendo. Manacorda,  che  ha  riassunto  la  parte  generale  della  trattazione grammaticale  sparsa  nell' Ercolano  e  altrove,  dopo  aver  ricordato  la  definizione  e  le  classificazioni  della  grammatica  e  la  funzione  attribuitagli  da  Varchi,  gli  ha  fatto  merito  d'aver  riconosciuto,  meglio  che  non  fa  Bembo,  il  valore  speciale di  ciascuna  delle  parti  declinabili. Ma  tra  Bembo  e  Varchi  corre  quasi  un  quarantennio  di  produzione  grammaticale, nel  quale  c'è stato  chi  tratta delle  parti  del  discorso  con  maggior  compiutezza  di  Varchi.   Anche  nell'escogitazione  dell’alfabeto  rimasta  ms.  non  sappiamo  vedere  nulla  di  notevole,  tranne  appunto  la  riconosciuta importanza  della  rappresentazione  grafica  delle  parole,  che  non  è ormai  più  un  merito  particolare.  Nei  punti  specialissimi poi,  come  sarebbero  quelli  indicati  da MANACORDA (si veda),  e  cioè  gl’articoli,  gl’affìssi,  i  gradi  degli  aggettivi,  il  valore  dell’etimologia,  troviamo  ragioni  più  di  sorpresa  che  d'ammirazione. Mentre  Castelvetro  fa  le  scoperte  che  abbiamo  dovuto veramente  ammirare,  Varchi  non  sa  osservar  altro  che  LA LINGUA VOLGARE HA GL’ARTICOLI I QUALI NO HA LA LATINA,  ma  sibbene  la lingua grecia, i quali  articoli sono di grandissima  importanza, e  apparare non  si  possono,  se  non  nelle  citile,  o  da  coloro  clie  nelle  zane,  cioè  nelle cune,  apparati  gl’hanno,  perchè  in  molte  cose  sono  diversi  dagli  articoli greci  così  prepositivi,  come suppositivi;  e  in  alcuni  luoghi,  senzachè ragione nessuna assegnare se  ne  possa,  se  non  l'uso  del  parlare,  non  solo  si  pos [ i1)  Op.,   II,  796  e  passim  e    Lett.    a  *    in    .Manacorda. Ecco  l'alfabeto  proposto  da Varchi:  a b e  (ten.) eli  fasp.i  d  e  (chiuso) è  (aperto) f g tenue gh  (aspirato g molle i voc.  e  consonante,  o  ver  liquida),  !  m  u  (>  1  chiuso,  lungo)  o  (aperto,  tonda)  p  qu  r  s dura s molle  /  u  (voc.)  V consonante v liquida  z zeta  dolce Z  aspero.   .Manacorda] sono,  ma  si  debbono  porre.  E quando osserva  che “ del” e  “al” NON sono  articoli,  ma  segni  de'  casi,  fa  esclamare. Questa  vostra  lingua  ha  più  regole,  più  segreti  e  più  ripostigli, che  io  non  avrei  mai  pensato! Nulla sa della legge dell'accento né dell'analogia. Ognuno  pronunzia  nel  numero  del  meno. Io  odo,  tu  odi,  e  in  quello  del  più. Noi  udimo,  ovvero  udiamo,  voi  udite;  ma  ognuno  non  sa  (neppure Castelvetro?)  perchè “vo” si  muti  in  “u.” Similmente,  ciascuno pronunzia  nel  singulare. Io  esco,  tu  esci,  e  nel  plurale,  noi  uscimo,  ovvero  lisciamo,  voi  uscite,  ma  non  ciascuno  sa  la  cagione  perchè  ciò  si  fa,  e  perchè  nella  terza  non  si  dice “udono” ma  “odono”,  e  non  “uscono” ma  “escono.” Buona,  quando  è  positivo,  si  scrive  per  u  liquida  innanzi  Vo;  ma  quando  è  superlativo, non  si  può,  e  non  si  deve  profferire,    scrivere  buonissimo, COME FANNO MOLTI FORESTIERI. Ma  bisogna  per  forza  scrivere, e  pronunziare  bollissimo  senza  la  u  liquida    (:t).  Per  dimostrare la ricchezza  di  lingua  meravigliosa  fa  un  interminabile trattato  degl’affissi,  intorno  ai  quali  già  tanto  a  lungo  vedemmo  indugiarsi Bembo,  ma  non  riuscendo  ad  altro  che  a  fare  infinite  combinazioni  di  forme  e  radici  verbali  con  particelle  pronominali  da  servire  per  ottimo  esercizio  di  scioglilingua.  In  luogo  del  vocalismo  e  del  consonantismo,  tratta così,  sull'esempio  di  Bembo,  Dolce  ed altri,  le  qualità fonetiche  delle  parole  e  delle  sillabe. Tutte  le  lingue  sono  composte  d'ORAZIONE (Grice: SENTENCE),  e  l'orazioni  di  PAROLE (Grice: WORD),  e  le  parole  di  sillabe, e  le  sillabe  di  lettere,  e  ciascuna  lettera  ha  un  suo  proprio, e  particolare  suono  diverso  da  quello  di  ciascuna  altra,  i  quali  suoni  sono  ora  dolci,  ora  aspri,  ora  duri,  ora  snelli,  e  spediti, ora  impediti,  e  tardi,  e  ora  d'altre  qualità  quando  più,  e  quando  meno. E il  medesimo,  anzi  più,  si  dee  intendere  delle  sillabe,  che  di  cotali  lettere  si  compongono,  essendone  alcune  di PURO  suono,  alcune  di  più  PURO,  e  alcune  di  PURISSIMO,  e  molto  più  delle  parole,  che  di    fatte  sillabe  si  generano,  e  vie  più  poi  dell’orazioni,  le  quali  dalle  sopradette  parole  si  producono ;  onde  quella  lingua è più  dolce  la  quale  ha più  dolci  [Vi  IJ Er colano.] parole,  e  più  soavi  orazioni. Dunque  la  dolcezza  delle  lingue  nella  dolcezza  consiste  delle  orazioni.  E  seguita  così  a  parlare delle  tre  dimensioni  delle  sillabe :  lunghezza,  altezza  o  profondità, e  larghezza.   Di  questo  spirito  rettorico  è  tutto  pervaso ERCOLANO (si veda),  il  quale  deve  la  sua  celebrità,  non  solo  alla  storia  della  controversia in  cui  venne  a  trovarsi  episodio  importantissimo,  non  solo  a  certe  sue  qualità  formali  di  stile  e  di  classica  struttura  e  larghezza  di  variata  esposizione,  non  solo  a  qualche  indubbiamente  ammirevole  intuizione,  ma  soprattutto  a  una  felice  contemperanza di  tante  argomentazioni  altrui  a  prò  della  tesi  che  dove  poi  esser  ripresa  e  fatta  trionfare,  in  quel  che  è possibile,  da  MANZONI (si veda)  e  al  lucido  e  elegante  riassunto  delle  teoriche  dell’elocuzione  quali  sono lungo  il  secolo  eloborate.  Nessun valore  scientifico  nella  trattazione  concreta  di  tutte  le  questioni  linguistiche  connesse  a  codeste  tesi. Ma  per  la  scienza  non  è  del  tutto  trascurabile  il  (significato  e  la  tendenza  della  difesa  che  Varchi  fa  del  volgare  e  della  sua  letteratura,  che  è  un'altra  più  profonda  affermazione  d'una  coscienza  critica  dell’importanza  e  dell’indipendenza  artistica  di  esso  dalle  antiche  letterature,  e  spiana  la  via al  trionfo  che  specialmente  per  opera  di Salviati  avrebbe  ha  il  fiorentino  nell'elaborazione  della  grammatica.   Le  vicende  d’Ercolano  non  sono  certo  ingloriose. Ha  ristampe  e  commenti  e  postille,  ma  le  scritture  più  celebri  che  ad  esso  si  congiungono  direttamente  sono  la  Difesa  d’ALIGHIERI  di MAZZONI (si veda),  la  Correzione  di CASTELVETRO (si vda) e  la  Varchina  di MUZIO (si veda). Ma  grammaticalmente,  com'è  naturale,  poco  o  nulla  c'è  da  raccogliere  sia  nelle  postille,  sia  nelle  opposizioni,  data  la  scarsezza con  cui  è  trattato  di  grammatica  propriamente  detta neh' Ercolano  stesso.  La  tartiniana  di Bottari,  la  cominiana  diSeghezzi,  la  milanese  di Mauri, la  fiorentina  del  Dal  Rio, quella  che  fa  parte  delle  Opere  di  Varchi,  tra   l'altre. Bottari,  Seghezzi,  Mauri,  Dal  Rio,  Alfieri,  Tassoni,  Volpi.  Mi  meraviglio  non  poco  di  lui,  dice  Castelvetro  (Cor)e:.,  che  avvilendo  tanto  la  materia  della  mia  disputa,  nobiliti  tanto  quella  del  presente  suo  Dialogo  delle  Lingue,  dove  non  si  parla,  co- [La  parte  più  notevole  che  e'  interessa  della  Correzione,  fatta  astrazione,  s'intende,  da  questioncelle  minute  di  linguistica, è  quella  che  concerne  Y etimologia.  E  facile  immaginare  quel  che  poteva  osservare  l'autore  della  Giìinta  al  filologo  n>iatica    cese  (e  tedesca)  raffrontate  alla  nostra:  comparazione  non  ispregevole  e  di  cui  piacemi  dar  qui  un  esempio.   Nello  spagnolo:  i.  talvolta  /  non  si  pronunzia;  2.  //si  pron.  come  il    del  nostro  egli;  3.  nn  si  pron.  come  il  nostro  gn ;  4.  lo  j  si  usa  pel  nostro  ii  e  si  pronun.  come  il  g  del  nostro  seggio;  5.  x  si  pron.  come  se  del  nostro  sciocco,  ecc.   Nel  fraticese:  1.  ai  ora  si  pron.  a:  lignaige  pr.  lìnnage,  ora  £.•  satisfaire,  pr.  satisfere.  2.  ajy  si  pron.  £:  z^raj/,  wumenlo  sopra  alcuni  versi  della  Cometa  del  /J/7  dove  anco  si   dimostra    la   nobiltà  e    Capitolo  settimo  217    Il  Sai  viari  occupa  un  posto  notevole  anche  nella  storia  della  poetica:  ma  il  vero  suo  regno  fu  la  grammatica,  dove  potè  meglio  sfoggiare  tutta  la  sua  vasta  e  minuta  erudizione  linguistica.  L'impulso  all'opera  principale  e  maggiore  in  tale  campo  di  studi  gli  venne  dalla  correzione  del  Decameron  (1582)  che  gli  fu  commessa dal  Granduca  Francesco  di  Toscana,  per  compiacere  a  Sisto  V,  entrambi  mal  contenti  che  i  Deputati  alla  correzione  del  73  non  avessero  castrato  a  bastanza  e  a  dovere  il  grande  novelliere  fiorentino.  Il  Decameron  fu  da  quanto  il  Canzoniere  e  ancor  più  nella  seconda  metà  la  bibbia  grammaticale  del  Cinquecento, poiché  offriva  il  miglior  modello  di  prosa  numerosa  secondo le  teorie  rettoriche  che  si  venivano  svolgendo:  e  le  ristampe  più  o  meno  corrette  e  le  correzioni  che  se  ne  fecero  per  ridurlo  a  edificante  universal  lettura,  dimostrano  quanto  viva  fosse  la  fede  nella  forma  esteriore  di  quel  libro  veramente  per  il  rispetto  dell'arte maraviglioso,  e  qual  fosse  il  credo  grammaticale  di  quell'età, come  anzi  fossero  andati  in  generale  sempre  più  restringendosi i  criteri  linguistici  e  grammaticali  del  secolo  a  mano  a  mano  che  quella  forma  accresceva  intorno  a    l'ammirazione,  nonostante  il  progredir  della  grammatica  storica  e  l'allargarsi  del  giudizio  critico  e  certe  parziali  intuizioni  della  vera  natura  del  linguaggio.  Il  meglio  che  e  ristampe  e  correzioni  produssero  nel  campo  linguistico-grammaticale  furono,  oltre  varie  osservazioni  del  Borghesi  e  del  Castel  vetro,  giustamente  aspri  censori  delle  storpiature  del  Ruscelli,  da  un  lato  le  Annotazioni  dei  Deputati  alle  correzioni  del  73,  dall'altro  gli   Avvertimenti  del    Salviati.    la  vera  pronuncia  della  lingua  italiana,  Venezia,  1579;  Alberto  Bissa,  Gemine  della  lingua  volgare  et  latina  (  dotte  locutioni  e  modi  eloquenti di  parlare  usati  da  più  illustri  :  la  parte  latina  è  indipendente  dall'  it.  (Milano,  Pacifico  Pontio);  Institutiones  linguae  italìcae  cum  interpretatione  gallica  in  gratiam  exterorum,  opera  et  sedulitati  Lentuli  Scipionis  neapolitani,  Antonii  Francisci  M addii  f.  Patavini editio  postrema,  Patavii,  1641  (La  lettera  del  Maddi.  Il  Fontanini  ricorda  due  opere  perdute  di  natura  etimologica, l'una  di  Niccolò  Eritreo,  Lo  Stoico,  Dialogo  delle  origini  della  nostra  lingua  volgare,  l'altra,  Seminarla  linguae  vertiaculae  di  quel  Celio  Calcagnimi  che,  contrariamente  a  quanto  sosteneva  li  Salviati  circa  l'eccellenza  del  volgare,    in  un  lavoro  indirizzato  al  Giraldi  Cintio....  manifesta,  fra  l'altro  la  speranza  che  la  lingua  italiana  e  tutte  le  opere  in  essa  scritte  vengano  dimenticate  dal  mondo.  (Spingarx). Di  quelle  già  il  Lombardelli  ne'  suoi  Foriti  ebbe  ad  osservare  che    arrecano  in  mezo  avvertimenti  diversi  intorno  alle  voci  et  alle  forme  del  dire,  che  possono  in  gran  maniera  giovare  a  chi  vuol  da  vero,  e  solennemente  studiare  in  questa  favella:  perchè  son  guidati  con  fondamenti  saldi,  con  ragioni  isquisite,  e  con  esempi  notevoli  .  Le  Annotazioni  furono  nella  massima  parte  opera  di  quel  Vincenzio  Borghini  che  è  stato  ben  a  ragione  chiamato  il  principe  de'  critici  (critici  nel  senso  di  editori  di  testi)  e  eruditi  del  Cinquecento  ,  e  interessano  così  direttamente  il  linguista come  il  filologo,  contenendo  osservazioni  di  lingua  e  di  grammatica  storica  e  pratica  illustrate  dalla  comparazione  di  esempi  perspicui  quasi  sempre  criticamente  vagliati.   Vincenzo  Borghini  fin  dal  1569  aveva  avuto  in  animo  di  scrivere  un  trattato  sulla  lingua,  che    la  Difesa  del  Lenzoni    la  Grammatica  del  Giambullari  erano  tali  da  sodisfar  i  Toscani e  ridurre  al  silenzio  gli  avversari:  anche  dopo  la  Giunta  castelvetrina  aveva  scritto  al  Varchi  non  aver  nessuno  sino  allora aperta  la  natura  della  lingua  italiana.    Quando  arò  parlato dell'origine,  sito,  edificazione,  territorio,  et  altre  particolarità di  Firenze,  e  risposto  alle  opposizioni  e  contradizioni  che  ci  son  del  Mei  e  d'altri  e  che  ci  potessero  per  avventura  essere,  et  a  questo  proposito  tocco  tutto  che  bisogna,  della  cittadinanza  romana,  delle  colonie,  delle  legioni,  delle  divisioni  de'  terreni  e  molte  altre  cose,  venire  a  parlare  di  questa  lingua,  ove  ho  questi  capi:  onde  ella  è  nata  e  cresciuta,  che  ella  è  nostra  propria,  perchè  è    bella,  e  della  sua  qualità,  ultimamente  il  modo  di  conservarla  e  liberarla  dalle  forestiere  che  la  imbrattano  e  guastano.  Sicché,  quando il  Granduca  ordina una  compilazione  delle  regole  della  lingua  fiorentina  da  leggersi  in  tutte  le  scuole,  Borghini  fa  plauso  con  gioia  al  magnifico  decreto  e  scrisse  a  B.   Baldini,    suggerendo   con- [Per  la  stima  in  che è tenuto  già  da'  suoi  contemporanei  BORGHINI (si veda),  si ricorda qui  le  parole  che,  quanto  all'edizione  del  Decameron,  scrisse  Corbinelli  in  una  delle  sue  lettere  già  ricordate  al  Pinelli. Quel  che  non  ha  fatto  a  sufficienza  Don  Yinc."  Borghini  non  credo  il  possa  fare  [non  che  il  Salviati]  altri,  in  Ckkscim. Quitti.,  Naz.  Firenze,  cit.  in  Barbi,  Degli  studi  di  V.  Borghini,  sopra  la  storia  e  la  lingua  di  Firenze  [Il  Pr optigli.),  di  cui  mi  giovo  per  questi  cenni  intorno  al  Borghini.    Capitolo  sei  ti  ìlio  219    sigli:  si  deputassero  alla  bisogna  tre  o  quattro  intendenti  con  facoltà  ili  aggregarsi  de'  giovani.  Nel  1574,  come  l'ordine  granducale non  aveva  avuto  effetto,  tornava  al  proposito  di  far  della  lingua  un  trattato  a  sé.  La  conoscenza  dei  precedenti  grammatici (dei  quali  taceva  molto  stima  del  Bembo,  corifeo,  che  giudicava però  scarsetto;  il  Giambuilari  non  gli  pareva  molto  gagliardo né  sicuro;  migliore  il  Varchi,  ma  non  finito;  il  Tornitane bisognoso  d'essere  burattato;  il  Castelvetro  non  meno  sottile che  sofistico  nelle  sue  prose  contro  il  Caro  e  il  Bembo:    Dubio  non  è  che  la  sua  dottrina  non  è  generalmente  sana.  Io  dico  in  conto  di  lingua,  ma  dall'altra  parte  e'  non  manca  di  letteratura ;  ha  visto  assai  e  non  è  privo  d'acume,  e  può  essere  sprone  a  far  considerar  molte  cose;  il  Ruscelli,  vano,  pochissimo intendente  di  lingue;  nomina  il  Fenucci,  il  Dolce,  l'Acarisio,  Fortunio,  il  Corso,  il  Gabriele,  il  Muzio,  il  Trissino),  la  conoscenza,  dico,  di  tutti  i  precedenti  grammatici  e  gli  studi  larghi  fatti  in  specie  per  la  rassettatura  del  Decamerone  e  del  Novellino  su  tutti  gli  scrittori  grandi  e  piccoli  del  Trecento,  lo  designavano  veramente  pari  all'impresa  ideata  con  tanta  ampiezza. Ma  il  trattato  non  fu  compiuto. Ne  restano  alcuni  appunti  su  argomenti  ne'  quali  era  riuscito  a  esser  sicuro:  essere e  qualità  della  lingua  fiorentina;  natura  sua,  delle  sue  parti  e  proprietà  e  aiuti  e  mancamenti  (la  lingua  varia  in  una  medesima provincia  e  città;  l'italiana  derivò  dalla  latina  con  le  favelle degl'invasori);  il  nome  (non  ha  casi,  ma  due  generi;  ha  gli  articoli);  il  verbo  (non  ha  passivo),  ecc.  Il  Borghini,  essendo  sotto  la  vecchia  concezione  della    natura   del  linguaggio,  che  è    1  In  una  leti,  a Varchi  del  9  maggio  1563,  l'anno  della  pubblicazione della  Giunta  castelvetrina,  fin  Salvini,  Fasti  Cons.,  cit.  dal  Fontanini),  lo  spronava  a  tirar  avanti  il  suo  Dialogo,  lodando  il  Bembo  e  biasimando  il  Castelvetro,  annunziando  ebe  l'Accademia  Veneziana  non  sarebbe  rimasta  muta.     Lasciò  in  vece  un  volume  di  Lettere  filologiche  e  un  altro  di  Discorsi.  In  Fiorenza  presso  i  Giunti,  oltre,  s'  intende quanto  è  suo  delle  Annotazioni  e  discorsi  sopra  alcuni  luoghi  del  Decamerone  di  m.  Giovanni  Boccacci,  fatti  dai  molto  magnifici  signori Deputati  di  loro  Altezza  Serenissima  sopra  la  correzione  di  esso  B.  stampata  in  Fiorenza  nella  stamperia  de'  Giunti. Noto  qui,  come  testimonianza  del  conto  che  s'è  fatto  modernamente  dal  Borghini,  che  dal  suo  nome  fu  intitolata  una  rivista  filologica,  //  Borghini,  non  inutilmente  vissuta.    Storia  della   Grammatica      mutarsi,  crescere,  abbellirsi  e  peggiorare  ancora,  perdere  e  pigliare  voci  di  nuovo  e  simili  altri  accidenti  ,  ritiene  il  Trecento il  secolo  d'oro  della  lingua:    Io  ho  veduto  (scriveva  nella  lettera  del  71  circa  la  compilazione  delle  regole)  libri  scritti  fino all’anno della  gran  mortalità, e  scritti  pur  da  persone  idiote  e  semplici,  e  non  vi  si  trova  un  error  di  lingua.  Havvene  alcuno  intorno  all'ortografia,  della  quale  i  nostri  antichi  non  seppero    curarono  troppo.  Similmente ne  ho  veduti,  e  si  veggono  regolatissimamente osservate  le  coniugazioni,  i  numeri,   i  modi,  i   tempi,  e tutto  quello,  ove  oggi  si   pecca   assai    bruttamente.   E  si  conosce,  che  la  natura  stessa  o  l'uso  comune,  che  sia  me'  dire,  era  in  quella  età  regola  vera  e  sicura.  Si  comincia  a  trovare  qualche  errore,  ma  non  tanti  e  un  pezzo  quanti  oggi.  Ella  da  un  gran  tracollo,  e  di  questo  tempo  in  qua  è  venuta  di  mano  in  mano  talmente  peggiorando,  che  quasi  si  può  dir  guasta  in  alcune  sue  parti,  che  quel  tutto  buono  e  come  naturale  corpo  del  vero  e  puro  toscano  si  è  per  sempre  mantenuto.  Oltre  a  questa  classificazione  de'  pregi  della  lingua  per  cinquantenni,  il  Borghini  ne  faceva  un'altra  per  gradi:  prosastica  e  poetica;  nobile,  media,  plebea  ecc.  Così  anche  la  lingua,  come  la  poesia,  era  rigorosamente chiusa  nel  codice  delle  regole  più  assolute  e  ristrette: a  tale  che  la  grammatica  diremo  degl'Italiani,  che  aveva  preso  a  fondamento  l'uso  letterario  non  pur  del  Trecento  ma  del Cinquecento, quando si trova e vi  si  trova spesso    in  discordia  con  l'uso  fiorentino,  qual  era  consacrato  nel  Decameron, veniva  senz'  altro  combattuta  e  ripudiata.  Cosi  avemmo  una  singolare  reazione  contro  la  grammatica  da  parte  di  quegli  stessi  che   vi  dovevan  necessariamente  credere.   A  questo  menava  la  correzione  del  testo  del  Deca?neron,  ch*e  col  criterio  dell'uso  comune  s'era  venuto  guastando  dall'edizione ventisettina  per  tutto  un  cinquantennio  e  che  ciascuno  aveva  tirato  a  documentar  quelle  regole  che  meglio  gli  piaceva  di  porre.  I  Toscani,  e  specialmente  i  Fiorentini,  non  potevano  lasciar  correre  tanto  strazio,  e  benché  anch'essi  fossero  credenti  nella  grammatica,  tra  la  grammatica  e  il  Decameron,  stavano  per  questo,   naturalmente,  e  non  si  stancarono    mai    di   ripetere [In  Barbi,  op.  e  loc.  cit.    Capitolo  settimo    che    le  regole  furori  sempre  cavate  dall'uso  naturale,  e  non  l'uso  da  quelle    (l).  Gli  Annotatori  all'edizione  del  73  si  giovaron  perfino  de'    notai  di  que'  tempi,  la  grammatica  [intendasi il  latino]  de'  quali  era  poco  meno  che  un  semplice  corrente volgare  che  finisse  in  us  et  in  as.  Così  parallela  a  quella  del  purismo  grammaticale,  vediamo  svolgersi  in  Toscana e  particolarmente  in  Firenze  una  tradizione  che  potremmo  chiamare  del  purismo  antigrammaticale,  o  che  intanto  accettava la  grammatica  in  quanto  essa  rispecchiava  fedelmente  l'uso  popolare  trecentesco,  che  era  quello  seguito  dal  Boccaccio  e  dagli  altri  trecentisti  e  risonava  ancora,  salvo  qualche  modificazione di  pronunzia,  sulle  bocche  de'  Fiorentini.  Tutto  era  ridotto  all'uso,    appo  il  quale  è  tutta  la  balia,  anzi,  che  direni  meglio,  il  quale  è  la  balia,  la  ragione  e  la  regola  del  parlare.  A  proposito  d'un  esempio  di  quei  molti  '  AvavóXofìa  o  ' Avavranóbara  ond'è  pieno  il  Decameron,  gli  Annotatori  escono  in  questa  osservazione:    Quegli  che  volsono  fuggire  questo  o  figurato  o  vizioso  parlare  che  e'  sia,  e  che  pur  hanno  fitto  nell'animo quello  '  Ego  amo  Deum delle  prime  regole,  mutarono  Il  quale  in  Del  quale,  e  cosi  appianarono  questo  scoglio.  Queste    sono    dichiarazioni    gravi    contro    la    grammatica,    e  Annotazioni  e  Discorsi  sopra  alcuni  luoghi  del  Decameroti  di  M.  Giovanni  Boccacci,  fatti  da'  Deputati  alla  correzione  del  medesimo.  Quarta  edizione  diligentemente  corretta,  con  aggiunte  di Borghini,  e  con  postille  del  medesimo,  e  di  A.  M.  Salvini,  riscontrate sugli  Autografi  ed  emendate  da  gravi  errori.  Firenze,  Felice  Le  Monnier. È  anche  notevole  quel  che  dicono  dell'analogia:  è  una  cotal  regola  che  va  dietro  al  simile,  e  suol  esser  il  riparo  di  chi  è  straniero  in  una  lingua,  o  sa  poco  della  propria  natura  .   (4)  Op.  cit.,  p.  70.  In  questo  stesso  luogo  si  conclude  così:  Noi  in  questi  luoghi  tutti  abbiamo  fedelmente  mantenuta  la  lezione  dei  migliori  libri,  amando  in  questo  più  la  verità,  che  o  la  facilità  di  quel  parlar  così  piano,  o  la  stitichezza  di  certe  regole,  che  più  servono, chi  ben  le  guarda,  a  lingua  composta  e  artificiata,  che  a  naturale e  propria.  Altrove  la  lingua  è  assomigliata  a  un  mare  p.  91).  Oltre  le  già  addotte,  eccone  un'altra:    E  generalmente  nelle  voci  del  tempo,  et  in  quelle  del  luogo,  non  è  molto  scrupolosa,    tanto  fastidiosa  la  lingua  nostra,  quanto  per  avventura  alcuni  troppo  sottili  si  credono,  che  lutto  il  di  cercarlo  di  legarla,  e  (direni  cosi)  impastoiarla  stranamente. Del  resto  si  può  dir  che  queste  tanto  ammirate   e   ammirevoli    Annotazioni  siano    una  protesta  conti  Storia  della  Grammatica    devono  essere  ricordate  per  non  mettere  tutti  in  un  fascio  i  puristi  del  Cinquecento.  S' intende,  anche  codesti  franchi  assertori dell'uso,  erano  sotto  l'imperio  delle  regole:  seguire  il  Boccaccio  perchè  era  stato  il  Boccaccio,  era  una  regola  anche  più  grave  de\Y Ego  amo  Deiun;  ma  il  Boccaccio  era  più  vicino  ad  essi,  che  certi  regolatissimi  prosatori  del  Cinquecento,  e  stavano con  Boccaccio.  Non  solo,  ma  essi  riuscivano  all'annullamento della  grammatica  anche  per  un'altra  strada.  Per  loro  ogni  forma  adoperata  dal  Boccaccio  diventava  legge:  ora  a  far  d'ogni  più  piccolo  fatto  linguistico  una  regola,  la  grammatica  veniva  ad  annullar  se  stessa  in  questa  sterminata  selva  di  regole  e  il  buon  senso  era  vendicato.  E  tra  le  Annotazioni  del  Borghini,  gli  Avvertimenti  del  Salviati  e  le  osservazioni  del  Borghesi, il  volgar  fiorentino  veniva  a  esser  codificato  e  preparato  così  per  il  travasamento  nel  Vocabolario  della  Crusca.   Gli  Avvertimenti  nel  Salviati    erano   stati   concepiti    in    tre  parti,   ma  videro  la  luce  solo  il   i"  e  2"  volume.    nuata  contro  la  grammatica,  tendendo  esse  a  giustificare  l'uso  del  Boccaccio,  sia  stato  o  no  ratificato  dalle  grammatiche  cinquecentesche.  E  si  noti  che  la  giustificazione  non  è  fatta  sempre  con  la  ragion  dell'uso, ma  spesso  s'appoggia  a  considerazioni  anco  artistiche.  Citerò  un  esempio  per  tutti.  In  Landolfo  Luffolo  è  detto:  Venutagli  alle  mani  una  tavola  ad  essa  si  appiccò,  se  forse  Iddio,  indugiando  egli  lo  affogare,  gli  mandasse  qualche  aiuto.  Alcuni  interpreti  avevan  interpolato sperando  avanti  a  se  forse  Iddio.  Orbene,  gli  Annotatori,  restituendo, sulle  testimonianze  d'altre  simili  costruzioni,  il  testo  antico,  osservano:    Queste  locuzioni  così  un  pochetto  rotte  (che  in  somma  son  proprie  di  questa  lingua)  danno  talvolta  più  grazia,  e  mostrano  più  forza,  e  fanno  il  parlar  più  vivo,  come  poi  avviene;  dove  questa  costruzione  non  così  piana  e  facile,  ma  alquanto  alterata  {alterata  però  quanto  e  a  que'  che  vorrebbero  le  locuzioni  sempre  a  un  modo,  e  quelle  senza  industria  o  cura  nessuna),  scuopre  più  l'affanno  e  periglio  del  misero  Landolfo,  e  par  quasi  (per  dir  così)  che  fortuneggi  anch'ella  ,  pp.  88-9.  Non  è  critica  neppur  questa,  ma  per  lo  meno  vi  si  avverte  lo  sforzo  di  penetrar  la  visione  dell'artista  senza  la  mediazione  della  grammatica.   1  Degli  avvertimenti  della  lingua  sopra  ' l  Decamerone.  Volume  Primo  del  cavalier  Lionardo  Salviati  Diviso  in  tre  libri:  il  I  in  tutto  dependente  dall'ultima  correzione  di  quell'Opera:  il  II    quistioni,  e  di  storie,  che  pertengono  a'  fondamenti  della  favella:  il  III  diffusamente  di  tutta  l'Ortografia.    Ne'  quali  si  discorre  partitamente  dell'opera,  e  del  pregio  di  forse  cento  Prosatori  del  miglior  tempo,  che  non  sono  in  istampa,  de'  cui  esempli,    quasi    infiniti,  è    pieno  il [La  correzione  fu  fatta  nel  1582  e  fu  edita  non  senza  notizie  grammaticali:  gli  Avvertimenti  sono  il  necessario  svolgimento  di  esse.   Noi  ci  restringeremo  qui  a  toccar  delle  questioni  generali  che  più  e'  interessano  e  a  esporre  il  metodo  grammaticale  del  nostro  e  a  dar  conto  dello  sviluppo  del  corpo  della  grammatica  precettiva,  sebbene  il  Salviati  tratti  solo  delle  regole  a  cui  porge  occasione  il  Decameron,  lasciando  da  parte  quanto  si  riferisce  alla  critica  del  testo  e  all'ermeneutica  boccaccesca.   Vedemmo  come  Gelli  rinunziasse  a  dettar  le  regole  del  volgare  e  ne  dimostrasse  l'impossibilità.  Pare  non  sia  stato  solo  a  sostener  questa  ragionevole  tesi,  perchè  il  Salviati  al  principio  del  secondo  libro  del  primo  volume  s'indugia  a  confutar  gli  argomenti di  alcuni  che    tolgono  alle  lingue  vive  il  ristringnerle,  con  ammaestramenti  raccolti  in  iscrittura,  sotto  alcuna  ferma  regola.  Gli  argomenti  addotti  da  quei  tali,  erano:  1.    vivendo la  voce  del  maestro,  ciò  si  è  il  popolo,  che  la  favella,  quella  fatica  è  soverchia;  2.  la  cosa  esser  vana,  perchè  il  popolo,  non  tollerando  che  gli  sia  tocca  la  sua  giurisdizione,  seguita a  parlare  a  modo  suo;  3.  quand'anche  si  potesse  dettargli legge,  l'effetto  non  potrebbe  esser  che  dannoso.  Noi  non  ci  fermeremo  neppure  a  -notare  quanto  sien  giudiziosi  siffatti  argomenti, per  quanto  non  si  vedano  fondati  in  una  tesi  filosofica;  e  indicheremo  il  pensiero  del  Salviati,  il  quale  non  può  non  riconoscere che  quelle  sian  belle  ragioni  e  che  hanno  forse  dell'efficacia ;  ma  tuttavia,  guardandole  con  alcune  distinzioni,  crede  di  potere  e  dover  giustificar  la  grammatica  così:  si  tratta  non  di  formare,  ma  di  raccoglier  le  regole  per  conservar  i  guadagni  fatti,  in  modo  che,  deteriorandosi  la  favella,  tutto  non  sia  andato perduto.      si  lega  per  tutto  ciò,  come  essi  dicono,  le  mani  al  volgo,  o  se  gli  mette  quasi  la  museruola;  ma  tuttavia  lasciandolo  nella  sua  libertà,  si  pone  in  sicuro  il  guadagno,  che  s'è  fatto  fino  allora,    che  il  tempo  avvenire  noi  possa  più  portar  via,  e  del  futuro  se  gli  lascia  quasi  libero  il  traffico  nelle  mani    (p.  71).    la  fatica  è  vana,  perchè  il  popolo   non  si  può  aver    volume.  Oltr'a  ciò  si  risponde  a  certi  mordaci  scrittori,  e  alcuni  sofistichi Autori  si  ribattono,  e  si  ragiona  dello  stile,  che  s'usa  da'  più  lodati.  In  Venezia. Presso  Domenico,  et  Gio.  Battista  Guerra,   fratelli  S"  gr. sempre  appresso,  né,  se  ciò  fosse  possibile,  parla  tutto  a  un  modo.  Onde  conviene  prender  dal  popolo  il  materiale  e  vagliarlo  al  vaglio  degli  scrittori,  tra  i  quali,  naturalmente,  il  Salviati    la  preminenza  ai  Trecentisti  e  al  Boccaccio  del  Decameron  in  particolare. Risorge  il  vecchio  concetto  bembesco  e  con  esso  tutta  la  critica  ammirativa  delle  qualità  eccellenti  del  volgar  fiorentino  degli  scrittori  dell'aureo  secolo,  l'efficacia,  la  brevità,  la  chiarezza,  la  bellezza,  la  vaghezza,  la  dolcezza,  la  purità  e  la  semplice  leggiadria. Ma  è  facile  notare  come  l'uso  vivo  venga  solennemente  affermato,  e  come  sia  largo  il  criterio  fondamentale  della  grammatica. L'esempio  e  l'autorità  degli  scrittori    sono  appunto  quelle  cose,  che  le  regole  della  lingua  si  chiamano  comunemente.  Del  favellare  sia  arbitro  il  popolo,  dello  scrivere  l'uso  approvato  dal  consenso  de'  buoni:  sicché  nel  formar  le  regole  venga  primo  il  Boccaccio,  poi  i  contemporanei  di  lui,  indi  il  popolo,  il  cui  presente  favellar  è  meno  nobile  di  quello  del  Boccacio.  Nel  fondo,  però,  pur  con  tutte  queste  larghezze,  il  Salviati  riesce  un  un  gran  purista.  Disapprova  il  parlar  degli  scapigliati  che  non  adoravano  il    bembesco    e  il    boccaccevole    stile;  cita  come  un  barbarismo  X applauso  universale  da  loro  usato.  Si  scaglia  contro  il  gergo  cancelleresco  cortigiano,  segretariesco,  contro  V autore  della  Giunta  che    scrive  al  buio    volendo  imitare  il  Boccaccio;  contro  il  latino,  i  latinizzanti  e  le  scuole  di  latino  che  contribuirono a  corrompere  il  volgare.  Esalta  invece  le  benemerenze  del  Poliziano  e  più  di  Bembo.  Toglie  parzialmente  agli  scrittori  del  buon  secolo  il  vanto  delle  cose  pertinenti  a  gramaiica,  e  glielo    in  purità  di  vocaboli,  modi  del  dire,  breve,  vaga  e  semplice  legatura.  Propugna  la  pubblicazione  d'un  Vocabolario  della  Toscana  linguai^. .  Indi  sbozza  una  storia  critica  degli  scrittori del  buon  secolo.  Conclude  col  dire  che  la  grammatica resterà  fissa  sugli  scrittori  del  300,  e  che  il  vocabolario  potrà  continuamente  migliorare,  distinguendo  tra  prosa  e  poesia  per  quanto  riguarda  l'ortografia,  i  solecismi  ecc.,  al  qual  punto rimanda  alla  sua  Poetica.]  in  ultimo  accenna  alla  prova [Questa  discussione  del  Salviati  fece  fortuna,  perchè,  staccata  dagli  Avvertimenti,  fu  riprodotta  a  parte  in  una  miscellanea  di  Regole, di  cui  avremo  occasione  di  parlare,  in  Firenze, col  titolo:  Se  le  lingue  sien  da  restringer  sotto  Regole  e  spezialmente  il  volgar  nostro.  Da  chi  si  debbano  raccor  le  Regole,  e  prender  le  parole  nelle  Lingue  che  si  favellano,  con  un  Sunto  d'alcuni  avvertimenti  dilla  Lingua,  sotto  il  nome,  s'intende,  del  Salviati.] proposta  dal  Varchi  di  paragonar  il  fiorentino  con  gli  altri  dialetti d'Italia,  riportando  in  fin  del  volume  varie  versioni  italiane  della  novella  boccaccesca  del    re  di   Cipro.   Il   III  libro svolge  la  parte  dell  'ortografia.   Dichiara  che  rispetterà  la  nomenclatura  grammaticale  ormai  in  uso  (quindi  pronome,  non  vicenome,  participio  non  partefice,  congiunzione  non  giuntura,  esclamazione  non  schiamazzio,  che  fa  ridere),  e  la  comune  esposizione,    forma  ,  cioè  distribuzione  e  condotta,  già  ricevuta  dall'uso  delle  scuole,  benché  in  tutto  non  perfetta,  sacrificando  il  suo  particolar  modo  di  vedere  all'utilità comune  che  dalle  novità  sarebbe  stata  frustata.  Sicché  questi  Avvertimenti  del  Salviati,  sotto  questo  rispetto,  ci  rappresentano  il  consentimento  ufficiale  scolastico  intorno  al  corpo  e  allo  schema  della  grammatica;  anzi  essi  si  possono  considerare  la  prima  vera  grammatica  scolastica  dell'Italia,  quale  la  didattica  secolare  se  l'era  venuta  formando.   Consideriamo  dunque  brevemente  il  contenuto  speciale  che  il  Salviati,  desumendolo  dallo  studio  del  Decameron,  ha  di  suo  versato  in  quello  schema.   Le  Lettere  sono  nella  vista  (segni)  della  scrittura  21:  a  b  e  defghil.  mn'opqrstuxz,  ma  nella  voce  (suoni)  32.  Delle  lettere  h  è  mezza  lettera,  il  q  è  inutile,  il  k  è  fuor  d'uso  perchè  non  dolce.  Confuta  la  riforma  trissiniana.   Vocali  Q)  in  scrittura  son  5:  a,  e,  i,  o,   u   in  fonetica  8:  a,  è,  é,  i  sottile,  i  grasso,  ó,  ò,  u.   Diltongi,  49,  quanti  sono  gli  accoppiamenti  (  distesi    Es. làude  delle  vocali  e  sono  .  \  raccolti    guato.   Trittongi  e  quattrittongi  che  si  possono  raccogliere  in  una  sillaba  sola:   lacciuoi.      Ricorda  le  divisioni  di  Platone,  nel  Cratilo  (vocali,  mezze  vocali,  e  mutole),  ripetute  da  Aristotile  nella  Poetica.  Nella Storia  degli  animali  Aristotile  accenna  anche  alla  formazione  delle vocali  dalla  voce  e  dal  gorgozzule,  delle  consonanti  dalla  lingua  e  dai  labbri.  Su  questa  base  fondarono  retori  e  grammatici  latini  la  loro  fonetica.  Platone  dice  le  vocali    la  catena,  e  '1  legame  senza  '1  quale  l'altre  lettere  esprimer  non  si  potrebbero. Le  consonanti  in  vista  son  16,  semivocali,  che  partono  ^dall'ugola    madre  delta   nella  zw^,  almen  25    (sauere,  sapere),  tra  la  /  e  la  n  (calonica,  canonica),  tra  la  /  e  la  r  (albori,  arbori),  tra  la  /  e  la  d  (olore,  odore),  tra  la  /  e  \\g  (li,  gli  articoli,  quelli,  quegli,  cavalli,  cavagli,  salì,  saglì,  dolgo,  doglio),  tra  la  n  e  il  g  (piangere,  piagnere),  tra  la  r  e  il  d  (dierono,  diedono),  tra  la  s  e  la  z  aspra  (solfo,  zolfo),  tra  la  ^  e  il  e  (Sicilia,  Cicilia),  tra  la  ^  e  la  f  (sino,  fino),  tra  la  .?  e  il  /  (nascoso, nascosto),  tra  chi  e  sii  (schiena,  stiena),  tra  la.  s  e  z  aspre  e  sottili  di  altri  popoli  (pesso,  pezzo;  strossare  per  istrozzare;  Orazio  per  Orazio),  tra  la  z  sottile  o  aspra  e  il  e  ora  scempio  ora  doppio  (beneficio,  benefizio),  tra  la  z  rozza  e  il  d  (fronzuto,  fronduto),  tra  la  z  e  il  g  (ammonigione,  ammonizione),  tra  il  b  e  il  g  (abbia,  aggia),  tra  il  b  e  il  p  (brivilegi,  privilegi),  tra  eh  e  ce  (Antioco,  Antioccio),  tra  il  “c”  e  il  “g” (“Caio,” “Gaio”),  tra  il  de  il  g  (vedendo,   veggendo),   tra  il  d  e  il  /  (cadmio, catuno).   Passa  poi  alle  jnllabe.  Qui  fa  una  distinzione  curiosa:  dice  che  quel  che  significa  sillaba  è  stato  determinato  dai  filosofi,  e  che  a  dividerle  insegnano  i  pedagoghi,  non  più;  ma  sarebbe stato  importante  che  ci  avesse  accennato  qualcosa  di  particolare intorno  alla  definizione  data  dai  filosofi.   Chiude  il  trattato  parlando  del  modo  di  scrivere  molte  parole, della  copula,  degli  accenti,  delle  maiuscole,  e  de'  segni  di  punteggiatura.  Assennatissime  le  osservazioni  sulla  punteggiatura. Ricorda  le  moderne  dottrine  circa  la  storia  della  punteggiatura, inclinando  a  credere,  sulla  testimonianza  di  Aristotile,  che  gli  antichi  punteggiassero  con  minuzia.  Si  dichiara  soddisfatto de'  punti  usati  al  suo  tempo  ,  ma  riconosce  che  questa      .:;,  ?  f  )  cioè  punto  fermo,  mezo  punto,  punto  coma,  coma,  interrogativo,  parentasi.  Del  fermo,  per  altro,  fa,  secondo  la  necessità  della  posa  (pausa),  quattro  specie:  fermo,  trafermo,  fermissimo,  trafermissitno . ]materia  è  meno  che  altra  atta  a  esser  legiferata,  e  convien  lasci.ire  alla  pratica  degli  scrittori  la  più  ampia  libertà,  acciocché  siano  ben  rese  e  la  tela  (costruzione)  e  la  SENTENZIA  (SIGNIFICATO)  del  discorso.   Rispetto,  non  dico  alla  fonetica  di Castelvetro,  ma  anche  alle  spiegazioni  d'altri  grammatici  che  s'occuparono  di  questa  parte,  non  escluso  il  Fortunio  stesso,  il  primo  di  quelli  editi,  questo  trattato  del  Salviati  è  certamente  un  regresso,  per  quanto  qualche  osservazione  supponga  una  teoria  meno  empirica:  se  non  che,  e  la  giustificazione  della  grammatica  fatta  dal  Salviati  e  la  relatività assegnata  alle  regole  di  esse  da  una  parte,  e  la  legiferazione  così  minuta  dell'ortografia  intesa  nel  senso  più  largo  fondata  su  dati  storici  positivi,  sui  caratteri  del  volgare  cinquecentesco  usato  dal  popolo,  non  escluso  quello  della  dolcezza  e  musicalità  dell'idioma fiorentino,  dall'altra,  assegnano  agli  Avvertimenti  del  famoso accademico  un  discreto  valore  scientifico  nel  primo  rispetto,  e,  nel  secondo,  un  notevole  posto  nella  storia  di  quei  prodotti  che  indirettamente  concorsero  alla  dissoluzione  del  loro  stesso  contenuto :  nella  somma  di  questa  duplice  qualità,  dunque,  il  pregio  di   documento   principalissimo  per   la  nostra  narrazione.   Dell'importanza  data  dal  Salviati  alla  grammatica  abbiamo  già  fatto  cenno.   Quanto  alle  osservazioni  donde  son  ricche  le  particelle  della  sua  trattazione,  in  questo  senso  noi  affermiamo  che  sono  notevoli,  che,  legiferando  un'infinità  di  esigenze  formali  dell'idioma  nostro,  sviluppando  quasi  all'infinito  il  corpo  della  grammatica  e  nell'istesso  tempo  assottigliandolo  fino  a  ridurlo  un'ombra  di    stesso,  col  fare  d'ogni  minimo  caso  una  legge,  riducono  ai  minimi  termini  il  rigore,  la  rigidità,  l'inflessibilità  della  legge  grammaticale, preparandone  il  totale  annullamento.  Ho  detto  esigenze  formali, ma  non  sono  solamente  tali.  Quelli  che  sono  stati  chiamati  i  criteri  formalistici  dei  letterati  del  Cinquecento  dal  Bembo,  appunto, al  Salviati,  di  fatto  erano  criteri  estetici  sostanziali.  Gli  abiti  mentali  di  quella  generazione  di  scrittori  e  di  critici,  il  loro  ideale  di  bellezza,  il  loro  modo  d'esprimere  e  riflettere  nel  verso  e  nel  discorso  sciolto  il  proprio  contenuto,  questo  stesso  contenuto,  conducevano  tanto  chi  esercitava  l'arte  quanto  chi  esercitava  la  critica  a  quella  concezione  della  forma  che  a  noi  può  sembrare  pretta  esteriorità  vuota  di  contenuto,  ma  che  per  loro  era  la  sostanza   stessa  del  loro  pensiero.    Il  formalismo  dunque  legife rancio    stesso,  sodisfaceva  a  un  bisogno,  esprimeva  in  regole  la  scarsa  e  superficiale  vita  interiore,  che  era  vita  formale  essa  stessa,  riuscendo  così  a  una  critica  indirettamente  negativa  della  grammatica,  dove  a  noi  parrebbe  di  dover  vedere  un  rafforzamento  di  fede  grammaticale.   In  altre  parole,  a  me  par  di  poter  mettere  sulla  stessa  linea  progressiva  il  Salviati  e  i  migliori  recenti  costruttori  di  categorie  grammaticali  e  rettoriche  a  base  di  psicologia,  con  questo  profondo divario  ridondante  a  tutto  onore  degli  ultimi,  che  questi  han  coscienza  di  quel  che  fanno,  cioè  di  fare  una  critica  della  grammatica,  e  il  Salviati  no.  Il  Salviati  legifera  gli  atteggiamenti della  lingua,  gli  affetti,  quasi  direi,  delle  parole  e  degli  elementi  di  essa  (tant'è  vero  che  parla  dell'a?nisià  delle  lettere)  rispondenti  alle  tendenze  del  pensiero;  quelli  descrivono  le  forme  in  che  si  concretano  i  movimenti  dello  spirito:  in  fondo  menano  dritti    gli  uni  che  gli  altri  all'affermazione  della  formula  tal  contenuto  tal  forma,  che  non    più  luogo  a  grammatica,  a  legge  veruna  regolatrice  della  favella  (l).   Nel  secondo  volume  degli  Avvertimenti  ("),  dedicato  a  Francesco Panicarola    architetto  dell'arte  del  ben  parlare  ,    tromba  del  nostro  secolo  ,  tratta,  ne'  primi  due  libri,  del  nome,  deWaccompagnanome,  dell'  articolo  e  del  vicecaso;  ma  quello  che  fu  il  desiderio  de'  contemporanei  e,  particolarmente,  del  Lombardelli,  che  cioè  venissero  trattati  con  la  medesima  felicità  l'altre  parti,  rimase  inappagato,  nonostante  che  l'impulso  a  pubblicar  questo  secondo  volume  venisse  al  Salviati e  lo  dichiara  nella  dedicatoria con  viva  compiacenza    dal   giudizio    favorevole  dato   sul [Per  questo  problema  fondamentale  della  critica  della  grammatica, si  ricordi  in  particolare  la  polemica  Vossler-Croce,  originata  dal  saggio  di  Vossler  sulla  Vita  del  Cellini,  e  precisamente:  Atti  d.  Acc.  Pont.,  Literaturblatt  f.  gertn.  u.  rovi.  Pini.,  1900,  1;  Flegrea,  1  apr.  1900;  Zeitschr.  f.  rom.  Pliil.;  La  Critica.  Della  polemica  fa  la  storia  lo  stesso  Vossler,  nel  suo  recente  libro,  Posilivistmis  inni  Ldealismus,  già  citato,  riuscendo ad  un  pieno  accordo  con  la  dottrina  sostenuta  dal  Croce.  Cfr.  anche  Rossi,   Contro  la  stilistica,   Firenze. Del  secondo  volume  degli  Avvertimenti  della  Lingua  sopra  il  Decamerone.    Libri  due  del  Cavalier  Lionardo  Salviati.  Il  Primo  del  Nome,  e  d'una  Parte,  che  l'accompagna.  Il  Secondo  dell'Articolo,  e  del  Vicecaso.  In  Firenze,  nella  Stamperia  de'  Giunti.] primo  da  tre    valent'huomini   di  sottilissimo  intendimento:  il   utilissimo  Cavalier  Batista  Guarirli,  delizie  delle  belle  lettere  de'  nostri  tempi,  il  Patrizio,  le  cui  scritture  e  spezialmente  quest'ultime  della  Poetica,  hanno  fatto  stupire  il  mondo,  e  quel  Mazzoni,    huomo,  se  mai  ne  fu  alcuno,  in  supremo  grado  scienziato,  cittadino  in  tutti  i  linguaggi,  maestro  perfettissimo  in  tutte  le  l'acuità:  che  tanto  sa,  di  quanto  si  rammemoria;  di  tanto  si  rammemoria,  (pianto  egli  ha  letto:  cotanto  ha  letto,  (pianto  oggi  si  truova  scritto,  al  quale  sia  sempre,  per  lo  nostro  maggior  poeta,   obbligata  la  patria  mia.   Nella  trattazione  di  queste  parti  del  discorso  ritornano,  per  altro,  le  infinite  e  complicate  classificazioni  e  distinzioni  che  rendono la  morfologia  fastidiosa  e  difficile  e  di  scarsa  efficacia  all'apprendimento della  grammatica.   Il  nome  è  diviso  secondo  la  sentenza  e  secondo  la  voce:  sotto  questo  rispetto,  è  semplice  o  composto,  primitivo  o  derivato;  sotto  l'altro  sostantivo  o  adiettivo:  il  sostantivo  è  proprio  o  appellativo  e  questo  collettivo  o  no;  V  adiettivo  è  perfetto  e  ha  3  gradi  {positivo, comparativo,  superlativo)  o  imperfetto,  e  si  divide  in  3  gruppi:  appartengono  al  primo  il  relativo,  il  rassomigliativo,  il  renditivo,  V interrogativo,  il  dubitativo,  il  relativo  indefinito;  al  secondo  il  partitivo,  Y universale,  il  partictdare,  il  distributivo,  il  numerale  o  denominativo;  al  terzo  il  possessivo,  il  materiale,  il  locale  (patria,  nazione,  distanza).  Ha  tre  accidenti:  il  genere  (maschile,  femminile, neutrale,  comune,  dubbio,  indifferente),  il  mimerò  (singolare,  plurale  o  maggiore;  non  duale  altrimenti  ci  dovrebb'esser  il  triale,  il  quattrale,  il  cinqualé),  il  caso  (uno  pel  singolare,  uno  pel  plurale).  Si  declina  in  quattro  modi:  a)  maschili  sing.  -a,  pi.   -i;  b)  femminili,  -a,  -e;  e)  comuni,   -e,  -i;  d)  comuni,  -o,  -i.   L ' accompagnaìiome  sarebbe  l'articolo  indeterminativo  uno,  una.   Quasi  un  cento  pagine son  dedicate,  al  solito,  alX articolo,  il  cavai  di  battaglia  di  tutti  i  maggiori  grammatici  del  Cinquecento.   Il  Salviati  ne  ragiona  in  due  pagine  con  gran  solennità  la  definizione;  polemizza  contro  chi  non  lo  vorrebbe  in  italiano,  non  essendoci  nel  latino  che  è  lingua  più  nobile:  ne  spiega  la  forza,  V ufficio,  V opera,  che  è  di    determinare  la  cosa  precisamente....e  di  tutta  insieme  abbracciarla.  E  qui  spiega  un'infinità di  sottili  distinzioni,  indulgendo  a  quel  fine  senso  estetico formale  di  cui  ho  parlato  più  sopra.  Ripiglia  la  questione  del  mortaio  della  pietra,  affermando  che  nessuno,  insomma,  fin  qui  ebbe  confutato  in  ptibblico  il  Bembo.  Neppure  il  Castelvetro?  Eppure  spesso  il  Salviati  si  ferma  a  discuter  col  critico  modenese, del  quale  non  ha  certo  la  sottile  e abbondante dottrina filologica né il metodo. L'opera di  Salviati  suscitò  un  vero  entusiasmo  al  suo  tempo,  e  il  Lombardelli,  che  fu  quasi  sempre  il  fedele  interprete  dell'opinione comune,  cosi  ne  discorse  ne'  suoi  Fonti:  Il  Salviati  ha  ritrovati  i  principi,  le  parti  e  gli  ornamenti  di  questa  lingua;  et  ha  scoperto  i  modi,  e  le  strade  vere  di  conoscerla,  d'affinarla  e  di  tenerla  in  riputazione.  Nel  I  volume  scioglie  molti  bellissimi dubbi;  fa  la  censura  degli  scrittori  antichi,  e  tratta  nobilmente i  fondamenti  più  generali  della  lingua.  Ne'  due  primi  libri  del  II  volume  tratta  del  Nome,  Accompagnanome,  Articolo  e  Vicecaso, con  tal  copia,  e  spirito,  e  vivacità,  e  chiarezza;  che  ne  fa  desiderar  di  veder  trattate  con  la  medesima  felicità  l'altre  parti.  Queste  e  l'altre  scritture  sue,  dove  si  tratta  di  teorica,  possono arrecar  giovamento  aiuto  e  forza  tanto  maggiormente,  quanto  più  fiero  sarà  l'intendimento  di  chi  si  metterà  a  studiarla,  ed  a  trarne  frutto.  Non  tacerò  che,  a  chi  legge,  oltre  a  quel  che  impara capo  per  capo  e  parte  per  parte,  se  gli  affina  a  maraviglia  il  giudizio  di  maniera  che  può  aspirare  alla  perfezion  dell'intender  gli  Autori,  del  parlar  bene,  e  dello  scriver  con  lode.   Quest'affinamento  di  giudizio  veniva  certamente  prodotto  in  altrui  dal  Salviati  appunto  con  quel  suo  discuter  parte  per  parte,  capo  per  capo,  gli  esempi  addotti  in  gran  copia,  secondo  il  suo  fine  sentimento  formale.  Di  modo  che,  sia  per  questo  sia  per  esser  fondata  la  sua  trattazione  sopra  la  critica  e  l'esegesi  del  testo  decameronico,  cioè  sopra  una  base  concreta,  sia  ancora  per  la  infinita  serie  di  regole,  il  Salviati  più  che  una  grammatica  nel  senso  pedantesco  e  scolastico  della  parola,  in  questi  suoi  Avvertimenti ci  ha  porto  un  esempio  notevole  della  larghezza  con  cui  dovrebbe  esser  condotto  l'insegnamento  grammaticale,  mentre,  dall'altro  canto,  ha  sviluppato  il  corpo  della  grammatica  in  siffatto  modo,  che  il  progresso  del  disfacimento  ne  veniva  certamente  accelerato. Salviati,    a  cui    dobbiamo   anche   oltre    un    giudizio  alcune  aii7iotazioni  tra  linguistiche  e grammaticali  sul  Pastor fido  del  Marini,   Ma  l'ammirazione  non   fu   senza  contrasti.   Accennerò  alla  polemica  che,  un  anno  dopo  la  pubblicazione  del  secondo  volume,   s'accese  tra  il   Papazzoni  e  Beni.   Il  primo  nella  sua  Ampliazione  della  lingua  volgare  (  fondata parte  in  ragion  chiarissima,  e  parte  in  autorità  d'autori  principali)  ,  rimproverò  al  Salviati  il  modo  onde  aveva  legiferato intorno  alla  grammatica  e  la  corruzione  fatta  del  testo  boccaccesco.  Gli  rispose  nell'anno  medesimo  il  Pescetti,  uno  dei  più  litigiosi  grammatici  che  abbia  avuto  l'Italia.  Era  di  Marradi  dalla  diocesi  di  Faenza  passata  alla  signoria  de'  Fiorentini :  un  toscano  un  po'  bastardo,  dunque.  Insegnò  grammatica a  Verona,  dove,  un  anno  dopo  della  polemica  col  Papazzoni,  s'attaccò  con  Giandomenico  Candido  per  la  Difesa  della  Zeta,  intorno  a  cui  aveva  pubblicato  un'operetta  il  Lombardelli,  e  la  contesa  si  fece  così  accanita,  che  dovette  mettersi  in  mezzo  Valerio  Palermo  dirigendo  una  lettera  latina  ad  ambedue.  Il  Papazzoni  replicò  ancora  con  una  Apologia  in  difesa  dell' Ampliazione contro  r  opposizione  del  signor  O.  P.   Ma  ormai  divampava  la  tremenda  contesa  tassesca,  a  cui  prese  parte  quasi  tutta  l'Italia  e  le  piccole  gare  grammaticali  e  ortografiche  perdettero  il  loro  interesse.  Sicché,  rimase  senz'eco  anche  il  dialogo  di  Pierantonio  Corsuto,  //  Capece  ovvero  le  Riprensioni,  diretto  contro  gli  Avvertimenti  del  Salviati.  Non  solo,   ma  anche  la   produzione    grammaticale  ora  diminuì,    intese  alla  compilazione  non  solo  di  quello  dell'Accademia,  ma  d'un  suo  proprio  Vocabolario,  che  però  non  vide  mai  la  luce.  In  una  di  quelle  annotazioni,  egli  stesso  dice:  Tutto  che'  io  m'  assicuri  d'affermarlo assolutamente  senza  vedere  la  bozza  del  mio  imbastito  Vocabolario, il  quale  ora  non  ho  appreso,  crederei  all'improvviso  che  di  fora  per  fosse  o  per  fossi,  non  vi  abbia  esempio  sicuro....  Prose  inedite  del  Cav.  Leonardo  Salviati  raccolte  da  Luigi  Manzoni,  Bologna.   Sembra  ormai  fuor  di  dubbio  che  del  Salviati  sia  il  Discorso  nel  quale  si  /nostra  l'in/perfezione  della  Commedia,  diffuso  ms.  piu tardi pubblicato.  Cfr.  Flamini,  Avviamento  allo  studio  della  D.  C,  Livorno.   In  Venezia  per  Paolo  Meietti,   1587,  8°.   (2)  Epistola  lalerii  Palermi  ad  Orlandum  Pescettium,  et  Io.  Dominicum  Candiduiu  de  uso  litterae  Z  disceptantes,  In  Verona,  presso  Girolamo  Discepolo.   In  Padova,  per  Meietti.] tanto  che  avremo  quasi  da  arrivare  al  Buommatteri  per  ritovare  un  corpo  di  regole  da  gareggiare  con  gli  Avvertimenti  e  le  altre  fondamentali  opere  grammaticali  del  Cinquecento.  Il  s££q1ol_sì  chiudeva  con  la  ristampa  delle  Osservazioni  del  Dolce,  e  l'altro  si  apriva  con  la  compilazione  del  Vocabolario  della  Crusca.   Più  gravi,  per  la  competenza  e  l'autorità  di  chi  li  moveva,  e  un  più  vivo  clamore  avrebbero  suscitato,  se  espressi  in  pubblico, gli  appunti  che  contro  gli  Avvertimenti  rivolse  il  Corbinelli  nelle  molte  lettere  dirette  al  suo  amico  Pinelli,  tra  le  quali  ha  così  proficuamente  spigolato  il  Crescini  .   Il  Corbinelli,  che  aveva  avuto  il  Salviati    quasi  scolaro  a  Firenze,  havendo  il  medesimo  homore  da  giovinetti  ,  non  confidava troppo  nella  valentia  linguistica  del  Salviati,  che  giudica  uomo  di  non  grandi  spiriti,  ma  diligenti,  giuditio  mediocre  ,    sofisticuzzo  nelle  sue  cose  ,  e  torna  a  qualificare,  dopo  lettine  gli  Avvertimenti,    vago  di  non  lasciar  nulla  indetto  ,  incline  a    spezzare  il  cervello  in  minutar  mille  e...  nerie    ,  principalmente per    una  sostanziale  differenza  circa  i  criteri  e  al  metodo, coi  quali  condurre  lo  studio  della  nostra  lingua. Il  Salviati,  come  pareva  anche  al  Corbinelli,  tirava  di  lungo  e  non  vedeva  più  oltre  che  la  lingua  sua;  il  Corbinelli,  conscio  della    sororità  o  fratellanza  delle  due  lingue  cioè  franzese  et  italiana ,  convinto    che  dalle  lingue  barbare  [francese,  provenzale] noi  haviam  ritenuto  una  infinità  di  cose:  et  che  bisogna  saperle  per  volere  fare  il  grammatico:  non  dico  per  scrivere  ,  procedeva  nell'  indagine  linguistica  col  metodo comparativo,  non  per  proporre  niente  da  imitare  e  odiando  le  regole  (%):  l'uno  era  un  empirico  precettista,  l'altro  uno  storico  comparatore.  Che  il  Corbinelli,  anche  non  spiegando  esattamente,  come  gli  accadde  spesso,  le  forme  linguistiche  nella  loro  formazione  storica,  potesse aver  buon  giuoco  sul  Salviati  per  ciò  che  riguarda  questo [Per  gli  studi  romanzi  cit.. In  Crescini,  op.  cit.,  p.  194,  195,  204,  206.  Col  Salviati  il  Corbinelli  appaiò  il  Muzio,  di  cui  così  scrisse:  Io  lo   trovo  quasi  quanto  il  Salviati  et    bene  egli  è  ignorante  nella  maggior  parte  delle  cose,  ancor  si  ha  egli  osservate  molte,  se  non  altamente,  curiosamente,  et  bene  mi  piace,  che  e'  dice  volentier  male.  V'ho  trovato  il  mio  povero  Corbaccio  .  Crescini. In  Crescini] aspetto  del  problema  della  lingua,  è  più  che  naturale  ;  mala  presunzione  che  il  Salviati,  perchè  non  intendente  del  francese  e  del  provenzale,  dovesse  essere  impari  al  suo  compito  che  era  di  grammatico  normativo  e  non  di  storico,  è  illegittimo,  poiché  i  due  punti  di  vista  sono  protondamente  diversi:  con  l'uno  si  descrive  la  lingua  quale  fu  prodotta  e  fissata  nella  scrittura,  con  l'altro  si  compie  uno  sforzo,  per  quanto  disperato,  di  apprenderne il  valore  espressivo:  con  l'uno  si  lavora  in  un  piano,  con  l'altro  in  un  altro,  pur non  disconoscendosi  che  la  grammatica  normativa,  in  quanto  espediente  didattico,  sarà  tanto  più  efficace quanto  più  fedelmente  elaborerà  le  sue  regole  sui  risultamenti  dell'  indagine  storica.  Il  Corbinelli  odia  le  regole,  perchè  il  suo  è  un  interesse  storico,  e    come  egli  trova  i  libri  scritti  variare,  così  stima  queste  cose  indifferenti,  et  se  in  parlando  suol  dire  et  udire  '  andavo  ',  '  facevo  ',  '  stavo  ',  tanto  scriverà  così,  se  la  penna  harà  fatto  un  v  òvofiàrcìv)  ;  questioni  agitate  confusamente  e  che      Alcune  linee  di  questo  brevissimo  riassunto  della  storia  della  grammatica  presso  i  Greci  toljjo  dalla  Histoirc  de  la  Littérature  grecque  par  Alfred  et  Maurice  Croiset,  Paris. Per  maggiori  e  più  sistematiche  informazioni,  oltre  l' Egger  che  citiamo  più  innanzi,  H.  Steinthal,  Geschichte  der  Sprachwissenschaft  bei  den  Griechen  uud  Romeni  mit  besonderer  Riieksicht  auf  die  Logik,'Berlino,   1890-1.   Y.  l'interpretazione  del  Benfev,  accettata  dal  Bonghi,  nelV Appendici'  seconda  al  Cratilo  in  Dialoghi  di  Plafone  tradotti  da  Ruggero Bonghi,  voi.  V,   Roma,   1S85,  pp.  404-10.    Capitolo  ottavo  243    hanno  il  loro  monumento  nell'oscuro  Cratilo  platonico,  che  sembra  ondeggiare  tra  soluzioni  diverse    .  Poco  o  nulla  progredì  la  teoria  grammaticale  coi  teorici  della  grande  eloquenza  attica  e  gli  storiografi  che  s'informarono  ai  loro  principi  e  imitarono  i  grandi  oratori,  sebbene  un  d'essi,  Eforo,  scrivesse  anche  un  trattato sullo  stile  (jtsqì  Àé^eoc;),  come  nessun  impulso  era  venuto  alla  grammatica  dai  primi  retori  siciliani.  Ln_ Aristotile  la  teoria  grammaticale si  congiunge  ancor  più  direttamente  e  intimamente  con  la  logica  che  non  con  la  retlorica  e  la  poetica,  dove  ne'  rispettivi  capitoli  sull'elocuzione,  pur  si  parla  di  parti  del  discorso.  Nella  Rettorica  (1.  IID,  affermato  che  il  principio  della  buona  locuzione  è  la  correttezza,  si  spiegano  i  vari  modi  di  conseguirla,  che  sono:  1.  collocar  bene  le  congiunzioni;  2.  usare  i  nomi  propri  e  non  circoscritti;  3.  non  usare  i  dubbi;  4.  dare  a  ciascuno  il  suo  genere, maschile,  femminile  e  neutro;  5.  dare  il  numero  suo,  singolare, duale,  plurale.  Nella  Poetica,  tutto  un  capitolo  (il  XX),  che  sembra  a  ragione  interpolato  (2),  è  dedicato  alle  parti  dell'orazione, che  sarebbero:  lettera  o  elemeyito,  sillaba,  congiunzione,  nome,  verbo,  [articolo],  caso,  orazione.  Ma  le  vere  categorie  grammaticali  che  Aristotile  realmente  e  in  modo  chiaro  elaborò,  sono  il  no7ne  e  il  verbo,  i  due  termini  della  proposizione  enunciativa,  di  cui  tratta  nei  pochi  capitoletti  jtvoì  'Eoneveiag  (De  in    Croce,  Estetica  cit.,  p.   176.   •)  Tale  lo  giudica  l'ultimo  editore  della  Poetica  aristotelica,  che  espunge  anche,  come  interpolazione  nel  brano  interpolato,  la  categoria  dell'articolo  (òodQOv). The  Poetics  of  Aristotle  edited  with  criticai  notes  and  a  translation  by  S.  H.  Butcher,  London.  Osservo  che  l' interpolazione  del  paragrafo  era  stata  già  avvertita  dal  Barthélemy  Saint-Hilaire,  ma  con  una  considerazione  che  non  ci  sembra  del  tutto  opportuna.  Il  gran  divulgatore  d'Aristotile  osserva  infatti  que  toutes  ces  théories  quelle  sull'elocuzione,  d'ailleurs  très  contestables,  quand  elles  ne  sont  pas  tout  à  fait  erronées,  sont  très-déplacées  dans  un  ouvrage  tei  que  celui-ci.  Cesi  de  la  grammaire ;  ce  n'est  plus  de  la  poétique.  Je  n'  hésite  pas  à  déclarer  qu 'elles  ne  peuvent  ètre  d'Aristote,  et  je  me  fonde  surtout  pour  les  repousesser  sur  V Herménéia,  qui  prouve  une  connaissance  de  ces  matières,  si  ce  n'est  plus  étendue,  du  moins  beaucoup  plus  exacte.  Les  chapitres  qui  vont  suivre  [XX  sgg.]  sont  donc  une  interpolation.  Poétique d'Aristote  trad.  en  fr.  et accomp.  de  notes perpètuelles  par].  Barthélemv  Saint-Hilaire,  Paris.  De',  meriti  del  nostro  Castelvetro  sotto  il  rispetto  della  critica  del  testo,  s'è  già  accennato  e  torneremo  qui  a  darne  altre  prove.    244  Storia  della  Grammatica   terpretatione,  o  Della  proposizione,  secondo  è  stato  tradotto  il  vocabolo).  Uno  svolgimento  ancor  più  considerevole  che  in  Aristotile ebbe  la  grammatica  dalla  dialettica  degli  stoici,  pe'  quali  la  logica  era  la  scienza  preliminare  delle  condizioni  della  conoscenza o  del  metodo,  e  che  si  servirono  del  linguaggio  per  determinare le  leggi  che  segue  la  ragione:  essi  conobbero  cinque  parti  del  discorso,  nome,  pronome,  verbo,  avverbio,  congiunzione.  Fondata  la  Biblioteca  d'Alessandria,  con  tante  opere  da  curare  e  studiare,  segnatamente  i  poemi  omerici,  l'elaborazione  della  grammatica  ebbe  la  spinta  verso  il  suo  completo  assetto  con  le  dispute  suW  analogia  e  V anomalia.  Aristofane  di  Bisanzio  volle  vedere  in  tutti  i  fatti  linguistici  una  razionale  regolarità,  e  si  diede  a  svolgere  la  declinazione  greca  per  darne  la  prova  convincente, seguito  da  Aristarco  che  ne  divenne  un  caldo  sostenitore:  Crate  di  Mallo,  uno  stoico  condotto  dalla  sua  stessa  filosofia  agli  studi  grammaticali  seguendo  Crisippo,  sostenne  invece  la  teoria  dell'irregolarità  grammaticale.  La  conclusione  della  disputa  fu  come  sappiamo,  l'accettazione  del  principio  della  recta  coìisìictudine,  cioè  della    contradizione  organizzata    .  Chi  sistemò  tutta  la  scienza  grammaticale  dell'antichità  fu  Dionigi  Trace,  la  cui  Tèyyr)  yQajufiaxatr}  tenne  il  campo  per  oltre  due  secoli  fino  ad  Apollonio Discolo,  compendiata,  commentata,  amplificata.  Per  dare  un  esempio  dello  spirito  ancor  tutto  greco  sottile  e  classificatorio  di  Dionigi,  è  stato  già  osservato  che  egli  coniuga  anche  le  forme  verbali  logicamente  corrette,  benché  non  usate.  I  Romani,  di  questo  periodo,  copiarono  i  Greci:  Varrone  è  sotto  l'influenza  della  disputa  tra  analogisti  e  anomalisti,  nella  quale  non  riesce  a  veder  chiaro.  La  sofistica  ebbe  ancora  un'ultima  e  non  meno  forte  efficacia  sulla  grammatica,  con  Apollonio,  il  quale  si  sforza  di  darle  un  carattere  scientifico,  rapportando  ogni  singolo  fatto  linguistico a  una  legge  logica.  Egli  sostiene  il  principio  che  ogni  parte  del  discorso  procede  da  un'idea  che  gli  è  propria:  'Ekclotov  òè  ui'Tox'  觠 ìòiag  èvvoiag  àvàyeuai,  e  vi  fonda  su  tutta  una  nuova  sintassi  di  reggimento,  che,  accettata  poi  dai  grammatici  romani,  segnatamente  da  Prisciano,  ritornò  quasi  integra  dopo  la  deformazione che  n'ebbe  fatto  il  Medioevo,  al  Rinascimento,  e  in  molti  particolari  accolta  dai  Portorealisti  e  dai  grammatici   logici  dell'Enciclopedia,  rimane  ancora,   con  le   debite  mo   Croce,  Estetica  cit.,  p.  498.    Capitolo  ottavo  245    dificazioni  che  il  tempo  apporta,  in  tutta  la  grammatica  moderna.  Ma,  com'è  stato  ben  osservato,  Apollonio,  non  fondando la  sintassi  sullo  studio  della  proposizione,  ma  sulle  singole categorie  grammaticali,  non  ha  costruito  una  grammatica  filosofica.  Dopo  di  lui  (sec.  II)  fino  appunto  a  Prisciano  (sec.  VI)  la  grammatica  ebbe  dai  trattatisti  romani  vari  rimaneggiamenti,  ma  nella  sostanza  non  fu  modificata  ('")•  Con  Donato  (sec.  IV),  il  più  metodico,  e  Prisciano,  il  più  infuso  di  spirito  "filosofico,  servì  al  Medioevo  e  risorse  tal  quale  nel  Rinascimento,  che,  come  abbiamo  già  visto  sull'esempio  del  Perotti,  congiunse  Donato  e  Prisciano,  perduta  però  ogni  coscienza  dell'origine  della  funzione  delle  categorie.   Codesta  perdita  era  già  avvenuta  nel  Medioevo, Apollonio  ha  avuto  un  diligente  e  acuto  illustratore  in  un  grecista  di  gran  valore,  l'Egger,  il  quale  per  altro  lo  critica  dal  punto  di  vista  della  grammatica  generale  quale  era  stata  sistemata  in  Francia.  V.  Apollonius  Dy scole.  Essai  sur  l'histoire  des  thèories  grammaticales  dans  l'antiquitè  par  E.  Egger,  Paris. À  part  des  erreurs  de  détail  qui  seront  relevées  dans  les  chapitres  suivants,  sa  classification  des  parties  du  discours  est,  en  general, fort  louable,  parce  qu'elle  ne  méconnait  ni  l'unite  essentielle  de  la  proposition,  ni  la  variété  très-réelle  des  mots  qui  concourent  à  former  une  phrase.  Réduire  à  trois  les  parties du discours sous prétextes que la proposition n'a que trois termes élémentaires,  c'est  taire  abus  de  logique;  comme  se  serait,  en  quelque  sort,  faire  abus  de  grammaire  que  d'admettre  douze  ou  quinze  partie  du  discours  en  donnant  ces  nom  aux  espèces  secondaires  au  lieu  de  le  réserver  pour  les  véritables  genres.  L'observation  des  mots  et  l'analyse  des  idées,  la  grammaire  positive  et  la  logique  sont  deux  sciences  distinctes,  dont  l'alliance  produit  ce  qu'  on  appelle  la  philosophie  des  langues.  Pp73'4L'Egger  è  un  credente  nella  grammatica  e  anche  nella  logica formalistica:  come  non  si  abusi    della  grammatica    della  logica a  riconoscere  otto  o  nove  parti  del  discorso,  invece  di  tre  o  di  quindici,  è  un  segreto  che  sanno  solo  l'Egger  e  i  suoi  compagni  di  fede:  che  cosa  sia  poi  la  filosofia  del  linguaggio  fondata  sull'alleanza  della  grammatica  e  della  logica,  ci  è  ben  noto.   (2)  Un  particolare  contributo  all'elaborazione  della  grammatica  antica  avrebbero  recato  i  grammatici  romani  specie  per  ciò  che  concerne la  sintassi  dei  casi,  secondo  il  Sabbadini,  Elementi  nazionali  nella  teoria  grammaticale  dei  Roma?ii,  in  Studi  di  filologia  classica,  dove,  anche  si  nega,  contro  Golling  [Ristorisene Grammatik  der  latemischen  Sprache)  che  la  riforma  della  grammatica  scolastica  latina  risalga  a  Guarino,  per  la  storia  delle  cui  Regole  il  Sabbadini  stesso  rimanda  al  suo  libro  La  scuola  e  gli  studi  di  Guarino  Guarirti  veronese,  Catania] in  cui  logica  e  grammatica  si  disciolgono  dai  comuni  vincoli  onde  fin  dalla  nascita  s'erano  mantenute  legate  nei  GRAMMATICI RAZIONALI come  Apollonio,  per  sottomettersi  entrambe  a  un  processo  di  decomposizione  e  di  degenerazione:  la  grammatica,  prima  delle  scienze  del  nuovo  canone,  e,  rimasta,  ne'  secoli  di  maggiori  tenebre,  quasi  l'unica  a  esser  coltivata,  diviene  un  campo  di  esercitazioni  pedantesche  e  di  polemiche  interminabili  su  argomenti oziosissimi  (se  tutti  i  verbi,  p.  es.,  abbiano  il  frequentativo; se  ergo  abbia  il  vocativo  ecc.;  la  logica,  analogamente,  che  pur  con  Aristotile  s'è sollevata  alla  scoperta  di  principi  di  vero  carattere  scientifico,  ha  nella  scolastica  la  sua  massima  espansione  formale,  perdendo  tutta  la  vitalità  che  aveva  avuto  da  Aristotile,  il  quale  peraltro  rimase  al  giudizio  dei  critici  del  Rinascimento  il  responsabile  dello  strazio  che  s'era  poi  fatto  di  lui.  Contro  la  doppia  degenerazione  della  grammatica  e  della  logica sorsero  ben  presto  le  proteste. Rinuccini  lamentato  che  i  grammatici  passassero  tutto  il  loro  tempo  in  fantasticherie,  lasciando  il  più  utile  della  grammatica; lunga  da  se  la  fanno  lunghissima,  ma  la  significazione,  la  distinzione,  la  temologia  de’vocaboli,  la  concordanza  delle  parti  dell'orazione,  l'ortografia,  il  pulito  e  proprio  parlare  litterale  niente  istudiano  di  sapere.  Di  quelle  terribili  dispute  è  documento notissimo  il  Bellum  grammaticale,  così  fortunato,  di Guarna  salernitano,  dove  quei  due  potentissimi  re  che  sono  il  nome  e  il  verbo  inter  se  contendtint  de  principalitate  orationis .   Le  riforme,  già  in  qualche  modo  invocate  dai  corifei  [Testimonianze  varie  e  numerose  delle  lotte  tra  le  scuole  grammaticali del  medioevo  si  possono  raccogliere  nella  monografia  d’Ancona,  Le  rappresentazioni  allegoriche  delle  arti  liberali  nel  m.-e.  e  nel  rinasc.,   in   L' Arte.  In  Wesselofskv,  //  Paradiso  degli  Alberti.  Ritrovi  e  ragionamenti del  1.389.  Romanzo  di  Giov.  da  Prato,  Bologna. (Vi  Parisiis,  Ex  officina  Roberti  Stephani.  VI  (ma  la  prima  ed.  è  Parmae,  per  Fr.  Ugolettum  et  Octavianum  Salàdum):  a.  e.  3,    Griimaticale  bellum  nominis  et  verbi  regi!,  de  principalitate  orationis  inter  se  contendentium,  Andrea  Salernitano patritio  Cremonensi  authore.  La  sentenza  della  lite  fu  che:    in  conficienda  solenni  oratione  uterque  Grammaticae  rex  cimi  suis  sequacibus  conveniat,  Verbum  scilicet  et  Nomen,  Participium,  Adverbium,   Prepositio,   Interiectio,   et  Coniunctio.  In  quotidiana  vero  et   dell'  Umanesimo  e  particolarmente  dal  Petrarca,  che  si  scagliò  contro  gli  scolastici    insanum  et  clamorosum  vulgus  ,  degeneri  d'Aristotile,    schiccheratori  di  frascherie  ,  guastatori  dell'insegnamento elementare  (l),  furono  richieste  con  insistenza  nei  primi  anni  del  Cinquecento:  esse  miravano  al  contenuto,  al  metodo  e  alla  lingua  dell'insegnamento  scolastico  della  logica.  Il  Vives,  nel  II  libro  intitolato  Grammatica  della  sua  opera  De  causis  corruptarum  artìum  sosteneva  che  la  lingua  dovesse  esser  presa  dall'uso vivo  (3). Ramus  lamenta che  VARRONE (si veda),  Prisciano,  Diomede, Festo  non  si  leggessero  più,  e  di    racconta. Grammaticam  puer  miseris  adhuc  temporibus  et  dialecticam  fere  eodem  modo  doctus  sum,  disputando  de  praeceptis  et  altercando.  La  grammatica  poi  voleva  che  fosse  insegnata  sugli  scrittori:    nec    familiari  oratione,  soli  Nomen  et  Verbum,  onus  sustinebunt,  arcessentes  in  patrocinium  suum  quos  ex  suis  volent.  e.  35.  Qui  s'è  inteso  fare  all'ingrosso  una  distinzione  di  poesìa  e  prosa,  di  arte  e  pensiero,  di  fantasia  e  d’intelletto,  insomma  della  funzione  estetica  e  della  funzione  logica,  su  questo  fondamento  vacillante,  sebbene  fosse  appunto  qui  da  fondare  la  distinzione,  che  il  parlare  artistico,  poetico,  sia  il  solenne,  il  fuori  dell’ordinario,  e  il  prosastico,  non  artistico,  puramente logico,  il  quotidiano  e  familiare. Altre  minori  sentenze  in  Bellitm  riguardano  i  rapporti  tra  il  relativo  e  l'antecedente,  tra  l'aggettivo e  il  sostantivo,  tra  il  reggente  e  il  termine  retto,  il  determinante e  il  determinato,  la  orazione  perfetta  e  la  non  perfetta,  la  novità, il  barbarismo,  ecc.:  materia,  come  ognun  vede,  quasi  tutta  logica, che  ci  spiega,  confermando  la  nostra  tesi,  la  fortuna  del  libretto;  ristampato  spesso  (p.  es.,  Cremona),  è anche  tradotto  in  versi  {Race,  d'opusc.),  e  in  sestine  anacreontiche  da  Ricci,  Firenze.  In  N.  Busetto,  Fr.  P.  satirico  e  polemista.  Caldi,  La  critica  contro  la  logica  aristotelica  e  l' insegnamento  scolastico,  Udine. Le  citazioni  seguenti  di  Vives,  Ramus  e  NIZOLI (si veda) son  prese  da  questa  esposizione riassuntiva. Vives è  un  gran  propugnatore  del  metodo  pratico  nell'apprendimento delle  lingue  (cfr.  De  studii  puerilis  ratione,  Oxoniae),  e  lo  applica  in  un'opera  [Flores  italici  ac  latini  idiomatis:  ho  l'edizione  di  Venezia),  che  ristampata  con  la  traduzione  nel  1779  (del  Carlini,  in  Venezia,  col  titolo  Colloquj  latini  e  volgari),  è  raccomandata in  nuova  veste  anche  oggi,  se  non  erriamo,  dal  Turri.  E  una  conversazione  perpetua  tra  maestro  e  discepolo  su  cose  e  fatti  della  vita  ordinaria  llevata  della  mattina,  il  primo  saluto,  l'accompagnamento a  scuola,  quei  che  vanno  a  scuola,  la. lezione,  il  ritorno  a  casa  e  i  giuochi  de'  fanciulli,  la  refezione  scolastica,  ecc.). grammaticam  puerum  solis  grammaticae  praeceptis  futur.um  putamus;  sed  exemplis  poétarum,  oratorum  omnium  denique  hominum  pure  et  latine  loquentium  eognoscendis  imitandis.  Anche  il  Nizoli  raccomandava  lo  studio  della  grammatica  e  della  rettorica  senza  cui  omnis  doctrina  est  indocta  et  omnis  eruditio  inerudita, e  confrontandole  con  la  dialettica  e  la  metafisica  diceva:    grammaticae  et  rhetoricae  praeceptiones  ac  traditiones  sunt  multo  veriores  dialecticis  et  metaphysicis,  et  omnino  ad  veritatem  investigandam,  recteque  philosophandum  longe  utilior  magisque  necessaria  est  grammaticae  et  rhetoricae  cognitio  quam  dialecticae  et  metaphysicae  .  L'anno in  cui    il  Ramus  otteneva  il  grado  di  professore  nell'Università  di  Parigi,  sostenendo  vittoriosamente la  tesi  che  le  dottrine  di  Aristotile,  nessuna  eccettuata, erano  false,    e  in  cui  in  Italia  si  pubblicava  la  Poetica  nel  testo  greco  dal  Trincaveli,  nella  versione  latina  del  Pazzi,    può  essere  riguardato,    ha  ben  osservato  lo  Spingarn,    come  il  principio  della  supremazia  di  Aristotele  in  letteratura  e  del  declinare  della  sua  autorità  dittatoria  in  filosofia.  Con  la  Poetica  aristotelica,  come  poco  appresso  con  la  sua  Retorica,  risorgeva appunto  la  critica  delle  categorie  grammaticali,  che  avevano nell'una  e  nell'altro  la  loro  descrizione:  nei  medesimi  anni  si  ripubblicava  il  De  iyiterpretatione,  già  diffuso  con  lunghissimi commenti  per  le  stampe  sul  finire  del  Quattrocento,  e  con  esso  medesimamente  era  ripresentata  alla  disputa  la  teoria  della  proposizione.  Nelle  versioni  ed  esposizioni  di  queste  opere  aristoteliche viene,  come  dicevano,  esaurito  quell'interesse  per  la  grammatica  generale  che  abbiam  visto  mancare  alle  grammatiche  empiriche:  e  i  medesimi  problemi,  benché  sotto  altra  forma,  ci  ritroviamo  dinanzi  con  BORDONI (si veda) Scaligero  e  il  Sanzio  critici  della  grammatica  tradizionale  latina,  e  rappresentanti d'un  aristotelismo  ammordernato.   La  differenza  tra  le  opere  critiche  anteriori  o  estranee  alla  diffusione  dei  testi  aristotelici  e  delle  loro  versioni  e  quelle  posteriori,  e  che  ne  subirono   gli    effetti,    è    sensibilissima.    Ba[  (1  Magentini  in  Aristotelis  librum  de  interpretatione  explanatio  Joanne  Baptista  Rasarlo  interprete,  Venetiis  apud  Hieronymum  Scotum. Aristotelis  jtsqì  'JEQfirjveias,  hoc  est,  de  interpretatione   liber,   a  magno  Angustino  Nipho  Philosoplw  Suessano  interpreta tus  et  expositus,  Venetiis,  apud  Octavianum  Scotum  D.  Amadei.] sterà  addurre  qualche  esempio.  Un  testo  di  rettorica  che  veniva  ristampato  intorno  agli  anni  in  cui  si  ripubblicavano  i  testi  della  poetica  d'Aristotile,  è  la  Retorica  di  Ser  Rrtinetto  Latini  in  volgar  fiorentino  .  Orbene,  la  trattazione  grammaticale di  codest' opera  è  ridotta  a  semplici  accenni.  Nel    Libro  primo  della  inventione  over  trovamento  di  M.  T.  C.  tradotto  e  comentato  in  volgare  fiorentino  per  Ser  Brunetto  Latini  Cittadino di  Firenze    è  detto: Dittare  è  uno  diritto  et  ornato  trattamento di  ciascuna  cosa  convenevolmente  a  quella  cosa  aconcia.  Questa  è  la  diffinitione  del  dettare,  e  perciò  convien  intendere  ciascuna  parola  d'essa  diffinitione.  Onde  nota  che  dice  diritto  trattamento,  -perciò  che  le  parole  che  si  mettono  in  una  lettera  dettate  debbono  essere  messe  a  diritto    che  s'accordi  il  nome  col  verbo,  e  '1  mascolino  col  feminino,  e  '1  plurale,  e  '1  singolare, e  la  prima  persona,  et  la  seconda,  et  la  terza,  et  l'altre  cose  che  s'insegnano  in  grammatica,  delle  quali  lo  sponitore  dirà  un  poco  in  quella  parte  del  libro,  che  sia  più  auenante,  et  questo  diritto  trattamento  si  richiede  in  tutte  le  parti  di  retorica  dicendo, et  dictando    (z).  E  al  luogo  indicato  l'esposizione  va  veramente poco  più  in    di  queste  semplici  linee  della  sintassi  di  concordanza:  tutto,  come  si  vede,  si  riduce  all' affermazione  del  principio  della  rettitudine:  è  il  principio  grammaticale  puro  e  semplice  della  antica  rettorica  di CICERONE (si veda)  quale  conserva il  medioevo,  senza  che  tra  esso  e  IL FONDAMENTO RAZIONALE (“logico”) DEL DISCORSO – Grice – è avvertito  alcun  altro  nesso  e  sia  affatto  accennato  il  problema  delle  CATEGORIE  grammaticali  e  sintattiche e MORFO-SINTATTICHE. Medesimamente nelle divisioni  della  Poetica  di TRISSINO (si veda) apparse  in  luce  nel  1529  (:ì),  dove  si  seguono  ALIGHIERI (si veda)  e  Antonio  da  Tempo  (Aristotile,  qui  semplicemente  nominato  per  la  definizione della  poesia,  è  invece  il  maestro  seguito  nella  quinta  e  sesta  divisione),  la  trattazione  grammaticale  non [Stampata  in  Roma  In  Campo  di  Fiore  per  M.  Valerio  Dorico,  et  Luigi  fratelli  Bresciani. Il  testo  è  corredato  di  un'esposizione  marginale. K. In  Vicenza  per  Tolomeo  Janiculo.  Nel  MDXIX,  Di  Aprde. La  quinta  e  la  sesta    divisione    della  poetica  di Trissino.  In   Venetia,  appresso  Andrea  Arrivabene.  ...e  non  mi  partirò dalle  regole,  e  dai  precetti  de  gl’antichi,  e  spetialmenK'  di  Aristotele nel LIZIO, il  quale  scrive  di  tal  arte  divinamente.] si  distende  molto  di  più  che  nel  De  vidgari  eloqueyilia,  mentre  è  assai  più  sviluppata  quella  della  scelta  delle  parole.  Illustrata la  elezione,  che  fa ALIGHIERI (si veda)  de  le  parole,  che  si  denno  usare  ne  le  canzoni:  la  quale  ne  in  tutto  loda  ne  in  tutto  vitupera  ,  espone    la  particolare  elezione    che  egli  ha  escogitato,  le  varie    forme  del  dire    (chiarezza,  grandezza,  bellezza,  velocità,  costume, verità,  artificio),  che  si  debbono  adoperare,  e    le  passioni de  le  parole  ,  che  è  materiale  .grammaticale,  e  che  non  son  altro  che  le  quattro  tradizionali  figure  grammaticali:    Soprabondantia,  mancamento,  mutazione  e  trasposizione    (Div.  I).  A  proposito    de  le  rime    (Div.  II),  tratta  a)  de  le  lettere;  b)  de  le  sillabe;  e)  de  li  accenti  (*).  Nella  terza  divisione  (  De  l'accordar  de  le  desinenzie  )  e  nella  quarta  (Del  Sonetto,  delle  Ballate,  delle  Canzoni,  de'  Mandriali,  de'  Sirventesi),  nulla  vi  ha,  naturalmente,  di  grammaticale.  Viceversa  nella  quinta  e  sesta,    le  quali  trattano  della  inventiva  della  Poesia,  e  della  sua  imitatione,  e  dei  modi,  coi  quali  si  fa  la  detta  poesia,  cioè  della  Tragedia,  dello  Heroico,  della  Comedia,  della  Ecloga,  delle  Canzoni  e  Sonetti,  e  d'altre  cose  simili  ,  ritorna,  certo  per  effetto  del  maggiore  svolgimento  che  la  teoria  dell'elocuzione  aveva  ormai  avuto,  a  parlare    più  ampiamente delle  conversioni, e  le  figure  del  parlare,  di  quello  che  nella  Tragedia  havemo  fatto,  la  qual  cosa  apporterà  molta  utilità,  et  ornamento  a  tutti  i  poemi,  che  havemo  detto,  e  che  dicemo  .  Così  tratta  delle    conversioni  [tropi]  delle  parole    (onomatopeia,  epiteto,  catacresi,  metafora,  metalepsi,  sinecdoche,  metonimia,  antinomasia,  antifrasi,  ecfrasi),  e  delle    conversioni  della  construttione  (figure:  pleonasmo,  perifrasi,  iperbato,  parembola,  pallilogia,  epanafora,  epanodo,  homoteleuto,  pariso,  paronomasia,  elipsi,  asindeto,  asintacto,  che  si  ha  scambiando  il  genere  de'  nomi,  il  numero  (Enalage),  spetie  e  casi,  congiunzioni,  preposizioni,  adverbi,  lasciando  preposizioni  ecc.,  benché    queste  cose  si  po      Io  sono  stato  un  poco  diffuso  in  questi  toni,  perciò,  che    come  i  Latini,  et  i  Greci  governavano  i  loro  poemi  per  i  tempi,  noi,  come  vederemo,  li  governiamo  per  li  toni;  benché,  chiunque  vorrà  considerare  la  lunghezza,  e  brevità  di  alcune  sillabe,  così  gravi,  come  acute,  trarrà  molta  utilità  di  tal  cosa,  e  darà  molto  ornamento  a  li  suoi  poemi.  Qui  è  come  un  germe  della  dottrina  del  Tolomei  su  la  nuova  poesia,  quale  espose  dieci  anni  dopo.] trebberò  anchora  riferire  all’elipsi,  facendo  apostrophe  ecc.,  prosopopeia,  diatyposis,  ironia  (e  sarcasmo),  allegoria,  iperbole). Così  nella  Dichiaratione,  onde SEGNI (si veda)  accompagna  la  sua  versione  ITALIANA  della  Rettorica  e  della  Poetica  d'Aristotile,  già  si  avvertono  tracce  d'  un  maggior  interesse  per  le  categorie  grammaticali  e  sintattiche e MORFO-SINTATTICHE.   Qui  cade  in  acconcio  un'osservazione. Saint-Hilaire,  per  impugnare  l'autenticità  di  quella  parte  della  poetica  aristotelica,  dove  si  tratta  della  locuzione,  ha  detto,  come  s'  è  visto,  che  ce  n'est  plus  de  la  poetique,  c’est  de  la  grammaìre. Ma  tale  considerazione  muove  dal  pressupposto  che  l'espressione  linguistica  è di  esclusiva  pertinenza  della  logica,  mentre,  se  la  grammatica  non  è  ne  la  logica    l'estetica,  in  quanto  materiale espressivo,  è  di  pertinenza  d'entrambe.  Questo  spiega  come  (sia  o  non  sia,  così  come  e'  è  pervenuto,  d’Aristotile,  il  brano  che  si  giudica  interpolato)  il  filosofo,  che  fa  un’osservazione  capitale  circa  l'esistenza  di  altre  proposizioni,  oltre  l’emendative  esprimenti  il  vero  e  il  falso  (logico),  che  non  dicono    il  vero    il  falso  (logico),  come  l'espressioni  delle  aspirazioni  e  dei  desideri  (£##))  e  che  son  perciò  di  pertinenza  non  già  dell'esposizione logica,  ma  della  poetica  e  della  rettorica,  spiega,  dicevo, come  il  filosofo  tanto  nella  poetica  e  nella  rettorica  qifanto  nella  logica è  tratto  a  occuparsi  in  quelle  d’analisi  grammaticale-rettorica,  in  questa  di  analisi  logico-grammaticale,  nelle  proporzioni  e  differenze  volute  da  quelle discipline – o rami della filosofia -- particolari.  Infatti nella  poetica,  la  disciplina o rama della filosofia  dell'arte  pura,  sono  formate  con  maggior  compiutezza  le  parti  di  tutta  la  locuzione   non  senza  accennare  alla bontà  della  locutione  (barbarismo – solecismo, malaprop – A nice derangement of epitaphs --,  METAFORA –you are the cream in my coffee --,  nome  ornato,  nome  proprio – Fido --,  allungamento,  concisione  e  cambiamento del  nome). Nella  rettorica,  la  disciplina o rama della filosofia  della  parola  ornata  in  servizio  della  mozione  degl’affetti  -- prottesi di H. P. Grice -- e  della  persuasione,  s' illustra con  egual  compiutezza  la  dottrina  dell'oratione  (pendente Rettorica,  et  Poetica  d'Aristotile,  Trad.  di  Greco  in  Lingua  Vulgare  Fiorentina  da  SEGNI (si veda),  Gentil'  Incorno,  et  Accademico Fiorentino.  In  Firenze,  appresso Torrentino,  Impressor'  Ducale. Croce,  Logica  e  grammatica. Croce,  Estetica.] distesa  (Caro  ),  distorta  =  ripiegata  (Caro))  nel  periodo;  nel  jteqì  'EQ/Lirjveias,  teoria  della  proposizione  emendativa,  l'espressione più  semplice  dell'attività  logica,  si  tratta  del  nome  e  del  verbo  in  quanto  nel  giudizio  rappresentano  lLuno  il  sostantivo,  il  soggetto,  l'altro  il  predicato.   ypfL'autorità  d'Aristotile  ha  perpetuato  tali  dottrine  e  tale  sistematica, che l'era  classica  dell'aristotelismo  letterario,  e  anche  dopo,  NON SOLO IN ITALIA,  ma  fuori,  attrassero  invincibilmente  l'attenzione  e  lo  studio  dei  dotti.  Ripresa  la  disputa medioevale  intorno  alla  classificazione  delle rami o discipline della filosofia  imperniata sul  raggruppamento  aristotelico,  s'indagarono con sottigliezza pedantesca i  rapporti  delle  varie  rami o discipline  della filosofia e  particolarmente della  grammatica razionale o filosofica,  della  rettorica,  della  poetica,  della  isterica e  della  logica,  congiunte,  come  già  la  seconda,  la  terza  e  l'ultima  sono  state  da  Aristotile,  nell'unica  categoria  di  filosofia pratica.  E  anche  in  questo  si  può  constatare  il  progresso  del  logicismo  aristotelico,  fin  tanto  che  i  termini  di  gusto  e  di  fantasia  non  sorgono  a  detronizzare  quello  di  ragione.  Lìl  isterica, iniziata  dagl’umanisti  (Pontano,  Actius  dialogus  e  Valla,  Dialedicae  disputationes  contra  Aristote  lieo  s),  ha  nella  classificazione di  Varchi il  suo  riconoscimento  ufficiale,  quando  già  flveva  avuto  dal  Robertello, De  historica  facilitate,  un  ampio  trattato,  e,  per  effètto  dell'importanza  assunta  dalla  storiografia  umanistica  e  di  quella  che  vienne  assumendo  con  gl’eminenti  storici  nostri,  feconda  in  questo  secolo  una  letteratura  ricchisima. Pure  alcuni  dei  medesimi  trattatisti  la  mettono  come  in  una  posizione  d'inferiorità  rispetto  alle  altre  rami o discipline della filosofia,  quasi  una  loro  schiava:    l'historico,    dice  Speroni,    bene  accorderà, se  in  descrivendo  le  cose  sue  ricorrerà  alla  Gramatica,  et  alla  Retorica,  et  tali'  hora  anche  alla  Poesia,  a  lor  precetti  artificiosi di    tutto  core   obbligandosi;   la  Poesia   esser  arte [Rettorica  d'Aristotile  fatta  in  lingua  Toscana  dal  Conmi.  Annibal  Caro,  in  Venezia. Essendo  il  parlare  composto  di  nomi,  et  di  verbi,  et  essendo  i  nomi  di  tante  sorti,  di  quante  nella  Poetica  s'è  dimostrato:  Intra  tutte  le  dette  sorti,  dico,  ecc..  Rhet.y  III,  nella  cit.  versione  di  Segni. Vedine  i  titoli  in  Bernheim,  La  storiografia  e  la  filosofia  della  storia,  trad.   Barbati,   Palermo,  App.  Bibliografica. Dell' Historia,   Dialoghi  II  in   Dialoghi.] più  nobile  dell'Historia,  pruova  Aristotile,  perchè  eli' è  dell'Universale, e  la  Historia  è  del  particolare.  Insomma:  la  Grammatica – o letteratura --, insegna  parlar  drittamente,  la  Historia  parla,  la  Poesia  imita,  la  Rhettorica  prova  persuadendo  nelle  città,  la  Dialettica  prova  sillogizzando  la  opinione .  Ma  ZABARELLA (si veda), interlocutore, con Antoniano  e  Manuzio,  nel  Dialogo  di  Speroni), che  è uno  degl’ultimi  rappresentanti  dell'insegnamento  aristotelico,  nella  sua  ampissima  opera  sulla  natura  della  logica,  va  ancora  più  in  là,  e,  mentre  fa  della  rettorica  e  della  poetica  due  parti    bene  distinte  della  logica,  nega  quest'onore,  non  che  alla  grammatica,  alla  isterica,  che  bistratta  spietatamente. Ars  tamen  historica  non  modo  ab  Aristotele,  sed  a  nemine  hactenus  -- ma  questo  non  era  affatto  vero -- scripta  comperitur.  nec  fortasse  digna  est,  in  qua  scribenda  tempus  conteratur:  ea  namque  in  simplici,  ac  nuda  rerum  gestarum  narratone consistit. At  Historia  nil  huiusmodi  tractat.  sed  est  nuda  gestorum  narratio,  quae  omni  artificio  caret,  praeterquam  fortasse  elocutionis,  quod  quidem,  et  alia  eiusmodi  quisque  sanae  mentis  extranea,  et  accidentaria  ipsi  historiae  esse  iudicaret;  quicquid  enim  artificij  in  historia  notari  potest,  illud  omne  vel  a  Grammatica,  vel  a  Rhetorica,  vel  ab  aliqua  arte  desumptum  est. GRAMMATICA ENIM NON EST LOGICA,  Historica  ars  non  datur.  ZABARELLA (si veda), Opera  Logica,  Coloniae,  Sumptibus  Lazari  Zetzneri,  CI3I3CII  (ma  la  prima  ed.  del  De  natura  Logicae  è  anteriore. In  che  senso  ammetta  lo  Zabarella  che  la  poesia  sia  una  forma  di  FILOSOFIA,  fu  già  spiegato  dallo  Spingarn.  Quanto  alla  relazione  della  rettorica  con  la  logica,  basti  qui  osservare  che  ZABARELLA si  fonda  sull'autorità  di  Aristotile,  il  quale  (Rhet.)  dice  che  oratoriam  artem  in  argumentationibus  consistere,  quas  etiam  ipsius  orationis  corpus  asserit,  e  riprende  i  retori  de’suoi  tempi,  che,  lasciando  la  parte  argomentativa, insegnano  solo  l’elocutio,  estranea  alla  natura  di  quest'arte. Compito  del  retore  è  movere  gl’affetti  -- la prottesi di Grice, influencing and being influenced -- per  mezzo  degli  argomenti. Elocutio  autem  est  saltem  accidentaria,  et  secundaria  respicitur. Patet  igitur  non  esse  necessariam,  neque  perpetuala  inter  has  duas  artes  differentiam  illam  quae  per  manum  clausam  et  apertam  significatur. L'immagine  della  mano  chiusa  e  aperta  per  dinotare  la  dialettica  e  la  rettorica  è  già  definitivamente  consacrata nell' Origini  d'Isidoro. In  queste  trattazioni  vienne  naturalmente  a  esser  elaborato  il  concetto  della  grammatica  e  delle  sue  categorie,  e,  più  particolarmente ne’luoghi  in  cui  veniva  esposta  la  teoria  dell'elocuzione specifica  per  ciascuna  di  quelle  scienze  o  arti  o  facoltà,  come  variamente  è  apprezzata.  Si  determinarono  così  quattro  diverse  nature  di  periodo. Lo  storico,  il  retorico,  il  poetico  o  ritmico,  il  logico,  e  la  grammatica  è  riservata  a  insegnarne  la  dirittura  formale.  Questi  nostri  dotti  si  trovarono  così  per  le  mani  il  vero  problema  delle  manifestazioni  di  tutte  le  attività  nostre  conoscitive, MA IL FILO D’ARIANNA, CHE È LA NATURA DEL LINGUAGGIO, NON È RITROVATO, E SI PERDE NEL LABIRINTO.  Il  periodo  retorico  e  poetico,  che la  scienza  moderna,  identifica,  è  la  forma  espressiva  della  verità,  intuita,  il  logico  del  concetto,  l'istorico  della  realtà.  Il  filosofo,  dirò  con  parole  eioquentissime,  che  guarda  il  cielo  e  non  riconosce  la  terra  sulla  quale  pone  i  piedi,  è  un'astrazione o  una  deficienza:  il  concreto,  il  perfetto  è  l'uomo  che  immagina, pensa  e  riconosce  l'immaginato:  l'uomo,  che  vive  la  realtà  nell'intuizione  artistica,  la  pensa  nel  concetto  filosofico,  la  rivive  nella  riflessa  intuizione  storica,  nella  quale  si  acqueta  compiutamente,  perchè  il  circolo  del  pensiero  è  chiuso    (2).   Delle  categorie  grammaticali  e  sintattiche  elaborate  fuori  delle  grammatiche  propriamente  dette  e'  informano  largamente,  e  su  esse  pertanto  fermeremo  la  nostra  attenzione,  due  opere  ben  caratteristiche  e.  importanti,  la  Retorica  deb  Cavalcanti  O  e  la  Poetica_de\  Castelvetro. Quella,  anche  per  quanto  riguarda [Si  ricordino  a  questo  proposito  e  per maggiormente convincersi che non è possibile un'indifferenza teorica per uniforma che in pratica, cioè nella coscienza dei produttori di letteratura, ha un così grande valore, l’acute osservazioni di SANCTIS (si veda) sopra il periodoe l’ottava, le due forme analitiche e descrittive di Boccaccio, divenute la base della letteratura, Storia, e sulla parodia che della loro degenerazione ne  fa col suo LATINO MACCHERONICO Folengo. Croce,  Lineamenti d’na  logica. La storia come il  resultato dell'arte e della  filosofia. La  retorica di Cavalcanti.  In Vinegia,  appresso Gabriel  Giolito de'Ferrari. Poetica d' Aristotele vulgarizzata, e sposta per Castelvetro. Riveduta, ed ammendata secondo l'originale e la mente dell'autore. Stampata in Basilea ad istanza di Sedabonis.] la logica, di cui olire un largo, minuto, chiaro riassunto. Naturalmente, la  prima ci mette  sott'occhio  le  CATEGORIE SINTATTICHE E MORFO-SINTATTICHE,  la  seconda le grammaticali. Della rettorica di Cavalcanti ci riguardano più direttamente il libro della dialettica, e quello dell'elocuzione. Le vie del persuadere riassumeremo quanto più brevemente è possibile sono tre. Provare con argomenti, muovere l'auditore  -- o IL RECETTORE, dato che l’emissore puo ussare gesti – GRICE -- con  passioni  -- la prottetica di Grice: influencing and being influeced -- ;  procacciarsi fede e favore da lui con quella maniera di parlare, la quale nomina costume. Di qui è manifesto, che questa facultà è quasi un rampollo della dialettica e di quella facultà la quale  il LIZIO chiama civile. Le persuasioni sono artificiose e SENZA ARTIFICIO – Grice, “Those spots mean measles – Grice’s FROWN. L’artificiose si dividono in argomenti, affetti, costumi. Per trattar d’esse convien considerare quattro cose: la forma, la materia, i luoghi, il modo di sciorre gl’argomenti. In  ultimo le sentenze. Argomento è ragione colla quale si prova una cosa dubbia;  argomentazione è espressione dell'argomento, ed essa forma che gli si dà. Conclusione è quello che con argomento viene provato e manifestato. Ora, perciò che la retorica, quanto agl’argomenti, dipende dalla dialettica e gl’istrumenti, con i quali ella argomenta, e che come suoi propri le sono stati assegnati, rispondono agl’instrumenti della dialettica, e da quegli derivano: e' pare, che  non si possa dichiarare bene la forma degl’argomenti retorici, se quella dalla quale questa ha origine, prima non si dichiara. Quest’inclusione dei principi logici nella rettorica è giustificata da Cavalcanti colla considerazione che IL LIZIO ne tratta separatamente, perchè i suoi libri della logica sono ben noti, mentre non ha ancora, ch'io  sappia, la nostra lingua parte alcuna della logica,  o dialettica, che dire vogliamo. Le maniere dell'argomentazione sono due: il sillogismo e 1'induttione, donde discendono l’entimema  -- ragionamento implicito di Grice -- e  l’esempio,  che,  secondo  Aristotile,  sono  propri  della  rettorica.  Il  sillogismo  categorico  o  assoluto  si  fa  di  proposizioni  assolute. La  proposizione assoluta  è  un  parlare  il  quale  afferma  o  nega  qualche  cosa  [Non  è  perfettamente  esatto.   Per  lo  meno  s’ha già  la  Loica  di  MASSA (si veda). In  Venezia  per  Bindoni.] dì  qualche  altra,  afferma  quando  a  una  cosa  ne    un'altra,  come  questa. “La  virtù  è  laudabile.” Nega,  quando  toglie,  come  questa. “Lw  ricchezze  NON  sono  il  sommo  bene.” – Grice, “Negation and priation,” “Lectures on negation.” Quindi  le  proposizioni  rispetto  alla  qualità  si  dividono  in  affermative e negative. Per  quantità  in  iiniversali, particolari,  determinate,  ed indeterminate.  Si  hanno  così  queste  varie  CATEGORIE – kantiane --. Universali affermative  e  negative;  particolari  affermative  e  negative;  indeterminate; determinate  affermative  e  negative.  La  proposizione  si  compone  di  soggetto  e  di  predicato (‘shggy’).  Es., “L'uomo  è  animale.” Llhuomo  è  il  soggetto,  del  quale  si  dice,  e si  manifesta l'essere  animale. Il  predicato  è  “animale,” o shaggy, che  si  attribuisce  all'uomo,  et  si  manifesta  di  lui.  Il  soggetto  e  il  predicato  sono  i  due termini –iniziale e finale -- della  proposizione.  Le  altre  particelle  congiuntive  NON  sono  termini.  I  termini  sono  semplici  o  composti.  Semplici  come  uomo,  arte,  edifica,  discorre,  e  in  somma  nomi  e  verbi. Composto è  un  parlare  imperfetto  fatto  di  più  termini  semplici, come  questo: “l’arte  della  guerra”.  Nella  proposizione  si  possono  trovare termini  semplici  e  composti,  un  semplice  e  un  composto,  ambidue  semplici,  ambidue  composti.  Es. “l'arte  della  guerra” -soggetto,  composto  di  termini  semplici – “... porta  ai  soldati  molti  pericoli -- che  è  l'altro  parlare  simile,  PREDICATO.  Il  sillogismo  è  una  specie  di  parlare,  nel  quale  essendo  poste  alcune  cose  ne  seguita  per  virtù  di  quelle,  una  diversa  da  quelle;  le  quali  sono,  o  universalmente,  o  per  lo  più.  Vi  concorrono  TRE termini – Grice: Barbara --, due  proposizioni,  una  conclusione.  I  termini  sono  maggiore – SOGGETO – iniziale --, minore  (estremità) – PREDICATO, finale --,  mezano  (termine  comune):  perchè  essendo  il  sillogismo  un  certo  discorso,  nel  quale  noi  INTENDIAMO [Grice: intending is essential! -- ] di  fare  conclusione,  e  in  quella  unire  l'una  estremità  con  l'altra,  non  si  può  far  questo,  se  noi  non  usassimo  un  mezzo,  che  con  l'una,  et  con  l'altra  estremità  ha  qualche  convenienza.  La  figura  del  sillogismo  varia  secondo  la  disposizione  del  medio.  Essa  è  una  ordinata  disposizione  dei  termini:  e ciascuna  delle  figure  contiene  più  modi:  e  modo  pare,  che  altro  non  sia  che  una  certa  ordinatione  delle  proposizioni:  e  circa  la  quantità, come  universali  e particolari;  e  circa  la  qualità,  come  affermativa, et  negativa.  Le  figure  sono  tre:  della  prima,  distinta in  quattro  modi,  le  conditioni sono    due:    l'ima  che   la  maggiore  proposizione  sia  universale:  l'altra,  che  la  minore  sia  affermativa -- Barbara;  della  seconda,  in  quattro  modi,  che  la  maggiore sia  universale,  et  che  la  minore  sia  dissimile  da  quella; della  terza,  in  sci  modi,  che  la  minore  sia  affermativa,  e  la  conclusione  particolare.  I LATINI,  come  CICERONE (si veda),  vuoleno estenderle  a  cinque,  aggiungendo  le  prove. Ma  queste  fan  parte  delle  proposizioni,  o  sono  nuovi  argomenti.  L'entimema  è  sillogismo imperfetto,  composto  di  verisimile,  E DI SEGNI – semiotica di Eco. Aristotile vuole  che  esso  è il  sillogismo  rettorico.  Vi  manca  una  proposta che  è  concepita  mentalmente.  Vi  è  poi,  SECONDO I LATINI,  il  sillogismo  hipotetico  o  SUPPOSITIVO o CONDITIONALE – da: con-dire – ‘se p, q” -- dove  il  legame  delle  assolute si  fa  col  se  e  simili  (o),  onde  le  proposizioni  risultano  condizionali  o  disgiunte,  e  anche  copulate  o  copulative.  La  condizionale dividesi  in  precedente  e  consegìiente.  Analogamente  si  ha  l’entimema  condizionale.  Nell’induttione  le  universali  si  conchiudono per  mezzo  delle  particolari.  Ma  Aristotile  le  nega  schietta  natura  rettorica.  L'induttione  rettorica  per  Aristotile  è  Y  esempio,  un  modo  cioè  di  procedere  dal  particolare  al  particolare, che  si  può  moltiplicare  e  variare  per  affermativa,  et  negativa  assoluta,  et  condizionale.  Superflue,  rettoricamente,  sono  le  altre  forme  del  dilemma  ('complexio',  sillogismo  condizionale, congiunto  o  disgiunto),  dell' enumeratio  (entimema  assoluto) e  della  subiectio  (altra  forma  di  enumeratio),  submissio,  oppositio,  violaiio,  collectio.  Alcuni  ammettono,  infine,  il  sorite,  che  è  una  massa  di  sillogismi,  e  può  esser  anche  condizionale.    come  la  forma,  che  io  ho  dichiarata,  è  la  naturale,  e  (per  dir  così)  pura  forma  degl’argomenti;  così  e'  si  può  alterarla,  et  variarla  senza  mutare  la  sostanza,  et  la  virtù  di  quella. Nel  vero  la  eloquenza  molto  meno  ammette  (ed  ecco  che  la  natura  fantastica  dell'espressione  non  logica  richiede  i  suoi  diritti!)  quella  superstiziosa  osservatione,  e  schifa  volentieri  ogni  fanciullesca, minuta,  et  bassa  cosa;  abborrisce  tutto  quello,  che  porta  seco  odore  di  scuola,  et  di  MAESTRO (Grice sotto Strawson),    può  patire  d'essere a  così  strette  leggi  sottoposta.    come  adunque  è  necessario dichiarare  la  naturale,  et  pura  forma  de  gli  argomenti. Così  fa  di  mestieri  la  tramutata  et  alterata  dimostrare.  E  qui  Cavalcanti  si  fa  ad  esporre  tutta  la  varietà  degl’esempi,  spesso  valendosi,  come  anche  pel  resto,  degli  schemi  periodici  del  Decameron. Infine  tratta  della  materia  (il  probabile,  il  verisimile,  I SEGNI – la semiotica d’Eco),  dei  luoghi  e  del  modo  di  scìorre  gl’argomenti  e  delle  sentenze.  Basta,  pel  nostro  argomento,  riassumere  la  dottrina  de'  luoghi.  Pongo  i  luoghi  in  tre  gradi.  Il  primo  contiene  quegli,  che  sono  nella  sostaìiza  della  cosa:  cioè  la  diffinitionc.  la  descrittione –cf. Grice, ‘the,’ definite descriptor --,  1'  interpretatione del nome. Nel  secondo  pongo  quelli  che  seguitano  et  accompagnano  la  sostanza,  et  sono  d' intorno  alla  cosa;  i  quali,  senza  fare  distintione  di  gradi  tra  loro,  dico  essere  questi.  Genere,  spelte,  differenza,  et  proprio,  tutto,  parte,  numero  di  spetie,  et  di  parti,  overo  divisione,  forma,  fine,  causa  efficiente,  materia,  effetto,  uso,  generatione,  corruilioìie .  adherenti,  luogo,  tempo,  modo,  congiogati.  Nel  terzo  grado  sono  i  luoghi  presi  di  fuore,  et  disgiunti  dalla  cosa,    che  sono  massimamente estrinsechi:  e  questi  sono  il  simile,  la  proportione,  il  dissimile,  i  pari,  il  più  et  il  meno,  i  contrari,  i  privativi,  i  rispettivi,  i  contraditlo?i,  i  ripugnanti,  l'autorità,  la  transuntione  .   Quanto  all' elocuzione, Cavalcanti  dichiara  di  presupporre  e  di  non  voler  replicare  le  cose  che    nella  Grammatica  di  questa  lingua  lussino  dichiarate,  o  si  dovessino  ancora  (non  era  dunque  molto  sodisfatto  delle  grammatiche  già  compilate)  più  esquisitamente dichiarare  circa  la  nettezza,  et  l'altre  conditioni  del  regolato parlare  .  Ma  già  questa  presupposizione  dimostra,  dato  il  fondamento  di  tutto  il  sistema,  l' inscindibilità  anche  di  rettorica  e  grammatica.  Muove  perciò  dalle  parole  sole,  che  divide  in  proprie  e  improprie  e,  seguendo  i  grammatici,  in  animate  e  inanimate;  tratta  della  composizione  delle  parole,  che,  specialmente rispetto  al  suono  sono  alte,  basse,  dolci,  aspre,  pigre  correnti ;    ma  io  non  intendo  far  qui  una  fastidiosa  e  quasi  fanciullesca (per  dir  così)  disamina  di  lettere,  sillabe,  parole    (era  stata  già  fatta  e  minuziosa  da  Bembo,  da Tomitano,  da Lenzoni  e  da  altri).  Si  trattiene  perciò  di  più  su  quel  che  nella  continuazione del  parlare  si  richiede,  circa  1"  l'ordine  e  la  commissura  delle  parole  l'una  coll'altra;  2"  i  membri,  i  concisi,  i  periodi.  Due  sono  i  criteri  principali:  1"  le  parole  di  maggior  forza  e  significazione  devono  'esser  collocate  prima,  e  le  altre  dopo;  2"  è  necessario  che  qualcosa  divida  e  posi  il  nostro  parlare. Quel  che  in  poetica  è  il  verso,  nella  prosa  è  il  membro,    un  parlare,  il  quale  finisce,  o  tutto  un  concetto  separato  da  per  sé,  o  tutta  una  parte  d'un  intero  concetto  .  Quando  è  breve,  il  membro  si  chiama  inciso  o  conciso:  es.,  conosci  te  stesso;  questa  fu  la  rovina  d'Italia.  Tanto  i  membri  che  gl'incisi  sono  legati  o  disgiunti. Il periodo,  quale  è  definito  da  Aristotile,  è  un  parlare  che  ha  principio,  et  fine  per  se  stesso,  et  grandezza da  poterlo  agevolmente  tutto  insieme  comprendere:  esso    Capìtolo  ottavo  259    é    una  composizione  di  membri,  et  di  concisi  bene  acconci  a  far  compito  e  perfetto  tutto  il  concetto,  che  ella  contiene,  come  dice  Falereo  .  Qui,  fatte  altre  distinzioni  del  periodo,  si  affaccia  a Cavalcanti  un  altro  grave  problema,  che  egli  risolve in  modo  in  vero  acuto  e,  date  le  premesse  della  dottrina  generale,  conseguente:  v  òè  negi  Tfp>  Aètjiv  .   Altro  è  invece  il  quesito  da  risolvere,  ed  è  precisamente  questo:    se  le  voci  del  verbo  chiamato  comandativo  da  grammatici  possano ricevere  il  significato  del  pregare,  si  come  si  sa,  che  ricevono quello  del  comandare    (l).  E  il  Castelvetro  lo  risolve  affermativamente, anzi  affermando  che    quanto  al  significato  tra  le  voci  del  verbo  del  modo  chiamato  da  grammatici  comandativo, e  tra  le  voci  del  verbo  chiamato  desiderativo    non  vi  è  differenza alcuna.  E  qui  richiamandosi  a  quanto  ha  già  detto  nella  sua  giunta    al  trattato  de'  verbi  di  messer  Pietro  Bembo  ,  si  fa  a  spiegare  come  la    sospensione  della  certezza  dell'atto,  0  della  privatione  ,  quindi  il  modo  del  desiderio  e  della  preghiera  (desiderativo,  ottativo),  si  ottiene  in  due  maniere,  o  manifestando i  due  sentimenti  (del  desiderio  e  della  cosa  desiderata)  o  uno  manifestandolo  e  l'altro  no:  Ami  io  o  Priego  dio,  acciocché  io  AMI,  valgono  la  medesima  cosa.  Protagora,  invece  di  vedervi  una  sospensione,  vedeva  nelYàeiòe  una  disposisione,  mentre  vi  si  può  vedere  e  l'una  e  l'altra,  il  che  è  affar  di  grammatica.  E  confuta  un  altro  difensore  di  Omero,  Eusthathio,  che  intende  Y  àride  come  incitamento,  perchè  si  comanda  al  minore,  si  conforta, o  s' incita  l'uguale,  et  si  priega  il  maggiore  ,  e  nel  comandativo non  si  ha  determinazione  di  certezza,  ma  pure  lo  loda  perchè  mostra,  meglio  d'Aristotile,  d'  intendere  e  riconoscere il  vigore  del  comandativo.  La  questione  della  funzione  espressiva  de’modi  de’verbi  è  risorta  anch'essa  di  recente  con  rinnovate  teorie  grammaticali. Ma  la  definizione  di  essi  s'è  dimostra inseguibile,  perchè  se  può  esser  vero  che,  p.  es.,  il  CONGIUNTIVO – cf. Grice, INDICATIVE conditionals -- esprima  il  pensato,   non  è  vero   l' inverso,  che   cioè [Crediamo  superfluo  rilevare  qui  l'acutezza  onde  Castelvetro  pone  il  problema,  meglio  che  non  abbian  saputo  i  moderni  editori d'Aristotile,  non  escluso  Barthélemy  Saint-Hilaire. La  questione  sollevata  da  Protagora,  per  quanto  sottile,  è  di  grammatica,  e  il  Castelvetro l'ha  risoluta  colla  grammatica  e  certo  non  meno  acutamente  di  quanto  avrebbe  saputo  fare  un  qualsiasi  moderno  credente  nella  grammatica.  Sicché,  per  un  certo  rispetto,  si  potrebbe  dir  di  lui,  quel  che  è  stato  detto  di  filologi  moderni,  che  ha  ridotto  la  grammatica  da  muro  di  bronzo  a  un  sottilissimo  velo,  in  cui.  basti  soffiar  dentro  per  distruggerlo,  senza  più  adoperare  il  piccone:  merito  non  piccolo,  certamente.] il  pensato  si  esprima  sempre  col  congiuntivo.  Ed  è  il  problema di  tutta  la  grammatica:  dall'estetico  al  logico  è  lecito  il  passaggio,  ma  non  è  lecito  ripassare  dal  logico  all'estetico,  e  dare  una  funzione  espressiva  alla  categoria  ottenuta  con  una  elaborazione logica  dell'estetico  e  relativo  annullamento  dell'espressione. Neil'  iniziare  l'esposizione  delle  parti  della  favella  poste  da  Aristotile  (elemento,  sillaba,  legame,,  nome,  verbo,  articolo,  caso,  diffinitione),  Castelvetro  fa  una  prudente  dichiarazione  preliminare,  che  cioè le  cose  di  che  si  ragiona nella  poetica possono  anchora  essere  communi  alla  prosa,  ciò  è  alla  ritorica,  o  anchora  ad  altra  arte,  et  ad  altri,  che  a  poeti,  come  alla  grammatica,  et  a  coloro  che  imparano  a  leggere:  e  su  questa  distinzione  torna  più  spesso  ad  insistere,  mentre  altra  volta  non  tralascia  d'avvertire  che queste  differenze  (delle  vocali  e  delle  consonanti)  da  quella  della  lunghezza,  e  della  brevità  in  fuori  pertengono  alla  compositione  (prosa),  et  non  a  l'arte  versificatola;  e  che  versificatola  e  poetica  non  sono  arti  disgiungibili,  il  che  menerebbe  ad  ammettere,  ciò  che  per  lui  non  è,  potersi  un  poema  comporre  in  prosa.  Castelvetro  sente  vagamente  il  carattere  intuitivo  della  parola,  ma  la  concezione  fornialistica  gl’impedisce  di  penetrarlo  e  assumerne  coscienza.  Onde  anche  le  infinite  e  minute  distinzioni.  Quelle  parti  della  favella  egli  classifica  come  SIGNIFICATIVE, non  significative – “pirot” --,  divisibili  e  indivisibili, ricostituendole  poi  in  tre  gruppi:  significative  e  divisibili (diffinitione,  verbo,  nome,  caso);  non-significative  e  divisibili  (articolo – “the” – cf. “THE THE” Grice, ‘formal device’ --,  legame,  sillaba);  non-significative  e  indivisibili (elementi).  Divisi  gl’elementi (lettere)  in  vocali  e  consonanti,  classifica  le  une:  per  quantità  di  tempo;  per  diversità  di  snono:  di  spirilo;  di  acce?ito;  di  preferenza;  di  nome  (osservando  che  questa  consideratione  tocca  ne  alla  verificatola,  ne  alla  compositione,  ma  alla  grammatica,  et  a  colui  che  insegna  a  leggere);  e  le  altre:  1"  per  siniplicità,  et   compositione;  per   cominciare,    et  finire    la   sillaba; CROCE (si veda), Siile,  ritmo  e  rima,  in  La  Critica. La  definizione,  che,  correggendo  quella  d'Aristotile  (  OTOi%£tov  /iri'  inni'  tp  jteqì  èQfir}veiag  {Part.).  Su  questo  punto  essenziale  s’osserva, seguendo  CROCE (si veda),  che  Aristotile  ha intuita  la  natura fantastica  delle  proposizioni  non-logiche,  ma  che  non  riusce  a  separare  la  funzione  linguistica  dell’espressioni  dalla  funzione  logica,  il  che  lo conduce  a  gettare  le  fondamenta  dell'estetica come  è  intesa  modernamente.    purtroppo  Castelvetro  riesce  a  vedere  nel  grave  problema  più  chiaramente  d’Aristotile.  Ma  è  suo  merito  l'averne  vista  tutta  l'importanza  e  l'averlo  riagitato.  Da  questo  punto  fino  alla  fine  della  sposizione  della  terza  parte  della  Poetica  (Particelle)  la  trattazione esce  dal  campo  strettamente  grammaticale  per  entrare  nel  dominio  particolare  della  teoria  dell’ornato,  che  non  c'interessa che  indirettamente  e  per  particolari  punti  di  vista  (p.  es.  pel  barbarismo  e l’aggiunto). Onde  ci  fermiamo  nella  persuasione  d'avere  sufficientemente  dimostrato,  esponendo,  in  ispecie,  le  teorie  di Cavalcanti  e  di  Castelvetro,  che  il  problema  delle  categorie  grammaticali  e  sintattiche è sebben  fuori  della  grammatica  propriamente detta,  ampiamente  e  intimamente,  per  quanto  i  tempi  lo  concedevano,  trattato:  sicché  tutti  gli  schemi  grammaticali  si  può  dire  che  sieno  stati  illustrati  nelle  loro  origini  e  nelle  loro  funzioni,  e  non  solo  gli  schemi,    grammaticali  che  logici,  ma  tutte  l’altre  classi  di  accidenti  grammaticali: il  caso,  la  persona, il  numero,  il  genere,  il  modo,  il  tempo,  ecc.  Il  punto  di  vista  generale  rimane,  s' intende,  l'aristotelico,  cioè  il  logico. Ma  anche  in  questo,  non  che  nel  fatto  stesso  d'aver  ripreso  il  problema  fondamentale  della  grammatica,  è un  progresso. SI PREPARA LA VIA ALL’ELABORAZIONE DELLA GRAMMATICA RAZIONALE O FILOSOFICA alla Groce. E  al  medesimo  fine  e  coi  medesimi  mezzi  forniti  d’Aristotile,  riuscivano i  critici  della  grammatica  LATINA,  BORDONI (si veda) Scaligero  e  SANZIO (si veda).  La  divampante  polemica  tassesca,  attirando  sopra  di    o  le  attività  critiche  o  l'attenzione  curiosa  della  maggior parte  de'  letterati  d'Italia,  non  è  l'ultima  cagione  per  cui,  smorzandosi  le  minori  polemiche  intorno  agl’avvertimenti  di Salviati  e  alle  questioni  linguistico-grammaticali,  gli  eruditi  e  i  grammatici sono  come  distratti  dall'opera  di  legiferazione  del  volgare,  o  meglio  dalla  continuazione  d'un  lavorio  ormai  secolare a  cui  per  forza  d' inerzia  e  per  quel  consenso  che  sempre  viene  accordato  alla  tradizione  forse  avrebbero,  in  mancanza  d'altro,  potuto  attendere.  Cade  qui  in  acconcio  un'  osservazione già  stata  fatta  da  altri  a  proposito  della  smoderata  letteratura dantesca  contemporanea.  Vi  è  in  ogni  periodo  storico una  folla  di  spiriti  inerti  e  oziosi,    benché   nelle    loro   ilia  ca Una  sommaria  esposizione  degli  studi  e  delle  compilazioni  di  lingua,  di  grammatiche  e  di  vocabolari  nel  Seicento,  come  complemento del  suo  contributo  alla  storia  della  critica,  '  La  critica  letteraria nel  sec.  XVI  ',  diede  in  Ricerche  letterarie,  Livorno,  1897,  pp.  2S8-312,  F.  Foffano,  che,  col  Vivaldi,  fu  dei  pochissimi  a  rivolgere l'attenzione  su  questi  prodotti  letterari.   1  Su  questa  e  le  altre,  U.  Cosmo,  Le  polemiche  tassesche,  la  Crusca  e  Dante  sullo  scorcio  del  cinque  e  il  principio  del  seicento,  in  Giorn.  st.  d.  leti,  il. (:,j  Croce,  //  monoteismo  dantesco,  in  La  Critica. nifestazioni  esteriori  sembrino  molto  attivi,  che  ha  bisogno  di  gettarsi  sopra  l'argomento  di  moda  e  sfogare  in  esso  un'  inutile avidità  di  sapere:  dantisti  oggi,  manzoniani  ieri,  puristi  ier  l'altro,  arcadi  in  tempi  meno  recenti,  lettori  accademici,  legislatori  del  bello,  grammatici  in  più  lontane  età.  Tra  il  cader  del  Cinquecento  e  gli  albori  del  Seicento,  oltre  la  tassesca  e  quella  non  mai  interrotta  della  lingua,  più  altre  questioni  tenevano agitata  la  repubblica  letteraria,  che  ben  rispondevano  allo  spirito  che  si  rinnovava,  a  quel  bollor  di  vita,  che  potè  sembrare e  fu  in  gran  parte  bizzarra,  stranamente  gonfia  ed  enfatica, ma  che  pur  era  vita:  questioni  che,  come  le  altre  due  specificatamente accennate,  si  riducevano  e  rientravano  in  fondo  tutte  in  quella  generalissima  della  poetica,  ormai  cresciuta  ed  organizzata  in  corpo  sistematicamente  completo  e  sviluppatissimo  di  dottrina,  che  dall'Italia  trasmigrava  per  tutta  1'  Europa  colta.  Eravamo  allora  in  quel  più  acuto  studio  della  poetica  in  cui  la  teoria,  uscita  ben  determinata  dall'  imitazione,  nel  diventar legge,  cioè  nel  giungere  alla  sua  codificazione  completa per  esser  subito  poi,  con  lo  scoppiar  del  razionalismo  e  le  formule  dell'  ingegno  e  del  gusto,  completamente  disfatta,  doveva  essere  applicata  alle  opere  d' immaginazione  o  già  passate  o  che  ora  venivano  spuntando:  l' Orlando  Furioso,  la  Gerusalemme  Liberata,  Y  Orbecche,  il  Pastor  fido,  oltre  che  la  Divina  Commedia sempre  immanente  nell'ammirazione  e  nel  cuore  degl'Italiani, benché  cedesse  ora  il  campo  al  Tasso;  e  ben  si  comprende come  i  dibattiti  teorici,  intrecciandosi  naturalmente  alle  polemiche  personali    la  serie  dalla  caro-castelvetrina  già  da  noi  discussa  alle  più  recenti  sarebbe  lunghissima    e  attirando  su  di    gli  spiriti  accaldati,  quasi  non  altro  da  fare  lasciassero ai  letterati  in  questo  campo  di  critica,  cioè  nell'unico  campo  della  critica  allora  aperto,  che  la  parte  d'attori  o  di  spettatori  appassionati  nel  gran  torneo  schermistico.  La  grammatica,  che  dalla  poetica  era  ritenuta  quasi  vile  strumento  meccanico,  cioè  dunque  facoltà  considerata  assai  inferiore,  perdeva  necessariamente ogni  attrattiva.  Senza  dire  che  un  altro  sfogatoio  erane  le  lezioni  onde  risuonarono  tutte  le  Accademie  d'Italia,  e  specialmente  ora  quelle  di  Firenze  e  di  Padova;  e  che  uno  sfogatoio  anche  maggiore  sarebbe  stato  tra  poco la  prima  edizione  del vocabolario dell'Accademia  della  CRUSCA,  su  cui  si  dovevano  versare  in  tutti  i  secoli  posteriori  tanti  fiumi  d' inchiostro.    Capitolo  nono  269   Ma  all' infuori  di  queste  circostanze  clica  taluno  potrebbero  sembrar  troppo  esteriori  ed  estranee  al  movimento  grammaticale, due  altre  intimamente  con  esso  connesse  lo  attenuarono  in  questo  periodo:  1"  l'ordinamento scolastico; l'essersi  detto  quanto  s'era  potuto  dire  in  fatto  di  grammatica;  cioè  da  una  parte  l' essersi  con  le  ricerche  e  sistemazioni  del  Salviati  conchiuso il  vero  periodo  produttivo  delle  osservazioni  delle  redole, dall'altro  il  non  schiudersi  ancora  le  scuole  all'accoglimento, non  già  del  volgare,   ma  del   suo   codice   grammaticale.   In  sostanza  quella  che  fu  detta,  ma,  come  altrove  accennammo, in  fondo  non  fu,  la  reazione  del  volgare  contro  il  predominio tirannico  del  latino,  si  era  affermata  inalberando  con  la  ferma  mano  del  Bembo  il  vessillo  dell'uso  trecentesco  specialmente petrarchesco  per  la  poesia,  decameronico  per  la  prosa,  e  sotto  quel  vessillo  e  con  quel  duce  aveva  lottato  ostinatamente  e  finendo  col  trionfare,  per  tutto  il  Cinquecento:  antibembeschi  più  o  meno  valorosi,  più  o  meno  coerenti,  non  eran  mancati;  ma,  di  contro  ai  comuni  avversari,  cioè  i  pedanti  del  latinismo,  gli  umanisti  bastardi  e  in  ritardo,  la  lotta  era  stata  più  o  meno  concorde,  e  l'aveva  animata  un  medesimo  spirito  di  modernità  e  d' italianità,  e,  felice  espediente  o  necessità  storica  che  fosse,  il  segreto  della  vittoria  era  stato  appunto  quell'essersi  eletto  a  rocca  di  difesa  un  sicuro  punto  strategico,  il  Trecento,  donde  si  poteva  fronteggiare  l'esercito  del  classicismo  antico  senza  perder  dietro    le  schiere  dei  novissimi  soldati  dell'arte  moderna.  In  altre  parole,  la  causa  del  volgare  si  sarebbe  vinta  con  una  concessione, cioè  non  legiferando  solo  sull'uso  vivo,  ma  ponendo  a  base  della  nuova  grammatica  quanto  della  lingua  ormai  vincente  poteva parere  ed  era  già  consacrato  da  un  periodo  non  breve  di  due  secoli.  Comunque,  con  quell'orientamento  o  in  quell'atteggiamento s'era  combattuto  e  vinto:  di  maniera  che,  da  quella  bibbia, in  cui  era  stata  la  fede,  del  Decameron  e  con  quei  fondamentali principi  ond'  era  stata  interpretata,  del  Bembo,  s' era  finito  di  cavare,  con  gli  Avvertimenti  del  Salviati,  tutto  il  nuovo  credo  grammaticale,  con  cui  si  doveva  e  parlare  e  scrivere  raodtrnamente  e  italianamente,  e,  quali  e  quanti  si  fossero  i  seguaci  di  codesta  dottrina,  quali  e  quante  fossero  state  le  opposizioni,  le  restrizioni  e  le  riserve,  il  certo  si  è  che  ormai  tutto  si  poteva    msiderar  come  già  detto,  dimostrato,  codificato,  e  nulla  rimaner  di  nuovo    da   poter    dire  e  fare  in   quel    campo:    come    succede quando  una  legge  è  sanzionata,  ormai  si  trattava  di  solo  applicarla: in  questo  si  poteva  desiderare  come  un  regolamento,  cioè  uno  strumento  facile,  che  servisse  di  guida  e  di  lume  nell'applicazione; e  vedremo  infatti  tra  poco  il  Lombardelli,  il  quasi  credutosi  incaricato  di  compilar  codesto  regolamento,    desiderare una  grammatica  intera,  piena,  risoluta  e  facile,  la  quale  appena  si  potrebbe  cavare  da  tutt'i  detti  Autori  ;  ma  di  una  nuova  produzione  o  investigazione  grammaticale  non  si  sentì,  e  non  si  poteva  nel  fatto  sentire,  il  bisogno,  tanto  più  che,  come  ora  diremo,  nei  quadri  dell'  insegnamento  scolastico  la  grammatica del  volgare  non  era  ancora  stata  ricevuta  come  disciplina  autonoma  e  necessaria.   Anche  qui,  per  riflesso  della  più  vasta  guerra  combattuta  nel  campo  della  cultura  in  difesa  del  volgare,  anzi  per  un  conseguente movimento  strategico  (si  pensi  che  nella  scuola,  di  natura sua  conservatrice,  le  novità  si  fanno  strada  quando  non  sono  più  tali),  s'era  lottato  e,  se  non  vinto,  non  anco  per  certo  perduto,  non  dico  imponendo,  ma  accettando  un  patto  conciliativo :  l' insegnamento  grammaticale  doveva  esser  impartito  ancora con  e  per  la  grammatica  latina  e  per  l'uso  del  latino,  ma  per  mezzo,  e  non  sicuramente  in  opposizione  violenta  del  volgare:  così  si  sarebbe  poi  finito  col  conciliare  in  un  medesimo  insegnamento l'una  e  l'altra  lingua,  pur  sempre  tuttavia,  s'intende,  con  lo  schematismo  grammaticale  latino,  sino  a  tanto  che  anche  l' italiano  non  avesse  avuto  con  la  sua  grammatica  il  suo  insegnamento ufficiale  autonomo,  che  invero  per  la  generalità  accadde assai  tardi.  Del  resto,  senza  richiamarci  alla  più  antica  tradizione  dell'  insegnamento  rettorico  de'  dettatori  bolognesi  e  di  Dante  stesso,  che  potè  esser  maestro,  se  non  di  grammatica,  di  rettorica  volgare  ne'  suoi  cadenti  anni  ravennati,    alla  meno  antica  de'  lettori  quattrocentisti  dello  Studio  fiorentino  disputanti  anche  di  grammatica  volgare  intorno  all'arte  delle  tre  Corone,  basti  il  ricordare  qui  un  fatto  già  accennato  da  noi  come  prova  d'un'altra  dimostrazione,  che  cioè,  vale  a  dire  nel  primo  vero  affermarsi  della  grammatica  del  volgare,  e  un  anno  o  due  prima  di  quell'  imbelle  e  non  estremo  attacco  del  convegno  bolognese  in  contradittorio  preparato  e  fallito  anche  perchè  non  preso  sul  serio  a'  danni  dell'italiano,  un  anonimo  grammatico  latinista, che,  se  è  vera  la  congettura  dello  Zeno,  del  vetusto  Donato  portavaanche  il  nome,  dato  che  fosse  quel  Donato, veronese,  che  s'era  distinto  nella  pubblicazione  di  altrettanti  lavori  latini  e  greci  col  medesimo  tipografo,  non  s'era  peritato  di  stampare una  Gramatica  latina  in  volgare  ,  invocando,  si  badi  bene  a  questa  assai  eloquente  circostanza,  invocando,  dico,  perdono,  se  non  ivi  gli  era  riuscito  di  servare  tutte  le  regole  e  osservazioni della  lingua  volgare:    Avete  già  veduta  rettorica  in  volgare, aritmetica,  geometria,  astrologia,  medicina,  filosofia,  teologia, ed  altre  innumerabili  scienze:  avete  veduta  eziandio  gramatica della  lingua  volgare:  non  vi  rincresca  vedere  ancora  questa  della  Ungila  latina,  non  forse  men  necessaria  di  quell'altra. E  se  per  avventura,  troverete  non  aver  lui  [l'Autore]  servate  tutte  le  regole  ed  osservazioni  della  lingua  volgare;  perdonategli, perciocché  non  la  volgare  gramatica,  ma  la  latina  vuol  insegnarvi  hi  parlar  volgare    C).  Opera  nuova  questa  non  era,  come  l'anonimo  autore  non  senza  pur  legittima  compiacenza, asseverava:  poiché  di  grammatiche  latine-volgari  in  volgare, come  anche  latine-francesi  in  francese,  argomentammo  essersene divulgate  necessariamente,  sebben  poche,  nientedimeno  fin  dal  sec.  XIII:  nel  sec.  XV,  nel  pieno  rigoglio  dell'umanesimo,  codeste grammatiche  latino-volgari,  salvo  rarissime  eccezioni,  s'era  tornati  a  dettare  naturalmente  in  latino:  il  che  spiega  il  vanto  dell'anonimo  cinquecentista:  ma    era  nuovo  lo  spirito  e  l'atteggiamento con  cui  la  pubblicava,  e  che  era  quello  di  chi  pur  aveva  e  non  poco  da  concedere  così  presto  al  volgare  che  veniva  imponendosi  perfino  nei  penetrali  più  intimi  del  latino,  cioè  nella  sua  grammatica,  come  più  volte  vedemmo.  Per  entro  il  più  maturo  Cinquecento  numerose  prove  si  potrebbero  raccogliere di  altrettali,  ora  più  ora  meno  ampie,  concessioni  e  nei  dibattiti  e  nei  trattati  e  nelle  scuole,  che  per  amore  di  brevità  e  perchè  le  istituzioni  scolastiche  non  sono  per  l'appunto  l'oggetto diretto  della  nostra  ricerca,  noi  tralasceremo:  ma  non  senza  averne  addotte  alcune  poche  di  età  diverse  quasi  a  stabilire le  pietre  miliari  d'una  lunga  via  che  doveva  condurre  alla  logica  risoluzione  d'un  così  complesso  problema.  Ne  ho  data  una  di  poco   posteriore   al    primo   quarto   del   secolo.    Verso  la    VI  qui. La  grammatica  della  lingua  romana  in  volgare,  assai  più  nota  e  divulgata,  di  Priscianese.] metà  e  poco  prima  d'essa,  Fabrini  da  Fighine così  annotava  un  luogo  del  Sacro  regno,  da  lui  di  latino tradotto  in  volgare,  del  Patrizio:    Discostandomi  un  poco  dall'opinione  del  mio  Patritio,  dico  che  non  manco  ne  la  volgare si  debbe  affaticare  ,  perchè    tutti  che  s'  hanno  a  dare  a  le  scienze,  debbono  imparare  prima  bene  la  grammatica  volgare,  cioè  della  lingua  loro    (:),  osservazione  parsa  fortissima  al  Gerini,  memore  del  luogo  del  Varchi,  in  cui  è  affermato  l'assoluto  divieto,  a  cui  non  si  mancava  senza  esser  puniti,  di  servirsi  del  volgare  nelle  scuole,  e  del  De  liberis  recte  instituendis  del  Sadoleto,  dove  non  si  fa  alcun  cenno  della  lingua  italiana  (s).  Se  non  che  questo  silenzio  e  quello  stesso  divieto  che  cos'altro  dimostrano se  non  la  forza  irresistibile  del  volgare?  Nel  terzo  quarto  di  secolo,  e  precisamente,  una  prova  più  forte  ce  la  fornisce  quell'arguto  libretto,  degno  d'esser  raccomandato  ancor  oggi  a  maestri  di  latino  e  di  italiano,  che  va  sotto  il  nome  di  Aonio  Paleario,  uno  degl'  interlocutori  del  Dialogo,  anzi  l'interlocutore,  che,  biasimando  le  false  esercitazioni  de'  grammatici,  addita  sull'autorità  di  CICERONE (si veda),  i  sani  precetti,  dal  titolo  //  graviatico  ovvero  delle  false  esercitazioni  nelle  scuole.  L'operetta  è  diretta  agi'  insegnanti  di  latino  e  a  condannare  il  metodo  di  chiosare  il  latino  col  latino  già  lamentato  da  Cicerone, e  col  quale    in  luogo  delle  buone,  e  proprie  parole,  che  aveva  usate  il  buon  Poeta,  dichiarando  così,  [il  grammatico]  poneva  le  non  proprie,  e  non  idonee    (p.  37);  così,  cioè  sosti  I  '  De  la  Teorica  della  lingua    dove  s'insegna  con  regole  generali  et  infallibili  a  tramutar  tutte  le  lingue  ne  la  lingua  latina  .  In  Venetia,  appresso  G.  B.  Marchio  Sessa  et  fratelli, Appresso  Nicolini).  Nella  deci,  a  Cosimo  de'  Medici  accenna  a  una.  pratica  della  lingua  da  lui  fatta,  che  è  un  volume  grandissimo. Il  canone  del  Fabrini  si  riassume  in  queste  sue  parole  della  medesima  dedica:  Non  trovo    trovai  mai,    il  più  fedele,    il  più  dotto,    il  più  pratico  consigliere  che  la  sperienza  .  La  Teorica  è  una  bella  sintassi  de'  casi  con  altre  regole  concernenti  i  gerundi,  (piai  è  stata  poi   esposta  recentemente  ne'   volumetti  tipo  Gandino.     In  Venezia,  appresso  Domenico  e  Giov.  Battista  Guerra,  fratelli;  ma  la  prima  edizione  è  del  47.   (J)  Gerini,   Codesto  libro  fu  (rad.  da  1.   Montanari  con  annotaz.,   Ili  ed.,   Parma,   Fiaccadori,   1S47.   (4)  Venezia:  ma  io  ho  l'edizione  perugina  del  Costantini,  MDCCXVII.    Capitolo  nono  273   tuendo  ad  Arma  virumqiu  amo  '  Ego  Virgilius  canto  bella  et  Aeneam  illuni  hominem  fortissimum  ',  come  farebbe  chi,  volendo  chiosar  la  sentenza  onde  s'apre  il  Decameron,  '  Umana  cosa  è  aver  compassione  agli  afflitti ',  dicesse  'è,  existe,  appare:  cosa,  una  faccenda,  una  impresa,  una  bisogna,  umana  di  uomo,  o  mortale,  o  di  mortale,  aver  compassione,  aver  misericordia  '.  E  qual  metodo  suggerisce  il  Paleario?  La  parafrasi  in  volgare,  la  versione  e  la  retroversione,  cioè  il  metodo  comparativo  che  importa  lo  strumento  e  l'uso  della  grammatica  e  della  lingua  volgare.  Né,  si  badi,  perdendo  di  vista  gl'interessi  del  volgare,  anzi  intimamente collegandoli  con  quelli  del  latino,  in  modo  che  gli  uni  non  si  favoriscano  senza  insieme  favorir  gli  altri.    Voi  dite  ,  si  fa  dire  Aonio  dal  suo  interlocutore,    che  il  modo  che  tegniamo,  nel  leggere  e  nel  dichiarare  le  lezioni  latine,  farà,  che  non  mai  i  fanciulli  impareranno  la  lingua  latina:  e  l'epistole,  che  noi  diamo  volgari,  acciocché  le  facciano  latine,  faranno,  che  non  mai  sapranno  scrivere  non  solamente  un'Epistola  latina,  ma  non  pure  una  leggiadra  lettera  volgare    (p.  16),  per  poi  così  ammaestrarlo:    dichiarate  le  lezioni  latine  con  la  lingua  volgare, e  così  esercitate  i  fanciulli  che  repetano  volgarmente,  e  non  corromperete  la  lingua  latina,  ma  in  un  medesimo  tempo  insegnerete  loro  la  copia,  e  la  proprietà  di  due  lingue,  di  maniera, che  in  breve  potranno  verissimamente  scrivere  coll'una,  e  coll'altra,  ed  avendo  imparato  da  voi,  potrannoi  giovanetti  esercitarsi  in  tradurre  l'epistole  di  Marco  Tullio,  ed  essendo  loro  mostro  dal  Maestro  le  maniere,  ed  i  modi  di  dire  diversi,  scriveranno  da  loro  stessi  lettere,  ed  orazioni  latine,  e  toscane  leggiadrissimamente    (p.  52).  E  contro  l'uso,  prevalente  anc'oggi  nelle  nostre  scuole,  delle  traduzioni  dal  volgare  in  latino,  così  esplicitamente  ammonisce,  dandone  lumi  anche  per  l'arte  dello  scrivere  in  italiano:    l'idioma  della  lingua  latina  è  molto  diverso  dal  nostro  volgare,  ne  è  maggior  sciocchezza  al  mondo,  che  voler  esser  volgar  latino,  o  latino  volgare.  Da  questi  errori  sono  nati  gli  stili  falsi  Toscani  del  Polifilo,  e  gli  stili  falsi  latini,  o  moderni,  di  che  è  impestato  il  mondo:  a  volere  scrivere  dunque  leggiadramente  nell'una,  e  nell'altra  lingua,  bisogna  avere  tuttavia  l'occhio,  e  la  mente  a  questa  diversità,  ed  oltre  alle  parole  di  tali  lingue,  i  modi,  le  maniere,  i  tratti,  le  grazie,  gli  ornamenti,  li  quali  si  mostrano  sparsi  negli  scritti  degli  buoni   Autori,   non  altrimenti,  che  nelle  più  serene  notti  le  stelle,  nel  Cielo.  E,  additati  i  cattivi  effetti  che  nascono  e  permangono  per  tutta  la  vita  da  codeste  false  esercitazioni,  acutamente  osserva:    e  quello,  che  è  cosa  maravigliosa,  se  alcuni si  voltano,  e  si  danno  alla  miglior  letteratura,  avviene,  perchè  sono  di  eccellentissimo  ingegno,  il  quale  essendo  avvezzo  in  tutte  le  azioni  sue  a  seguire  la  ragione,  come  verissima  guida,  veduto,  e  conosciuto  il  vero,  si,  muove  con  grande  impeto, e  spezza,  rompe  e  fracassa  ogni  velo,  ogni  falsa  opinione,  che  teneva  occupato  e  prigione  l'animo.  Laonde  camminando  col  lume  della  ragione  per  nuova  via,  fanno  cose  miracolose.  E  senza  tuttavia  abolire  addirittura  l' insegnamento  della  grammatica  che  riduce  a'  suoi  veri  termini    e  contro  cui  arriva a  formulare  questo  rivoluzionario  principio,  "  non  fidarsi  mai  di  regole  di  grammatico  alcuno,  manifestamente  dimostra che,  se  un  esercizio  giova,  questo  è  di  leggere  gli  scrittori e  in  essi  studiare  le  regole.  Osservato  che  giovinetti  riescono  a  scrivere  boccaccescamente  e  alcuna  donna  a  scrivere  petrarchescamente, domanda:    Chi  insegnò  a  quella  Donna?  alcun  maestro  di  grammatica  le  dette  il  Tema?...  Chi  adunque  le  insegnò, altro  che  la  diligenza  nel  leggere,  ed  osservare  le  parole,  conoscere  i  concetti,  dilettarsi  dell'armonia,  de'  numeri,  ch'empiono le  orecchie,  accendono  l'animo  all'  imitare?. Non  è  peraltro  per  illustrare  il  buon  metodo  consigliato  da  lui  che  noi  ci  siamo  qm  indugiati  intorno  alle  vedute  del  Paleario,  ma  specialmente per  dimostrare  coni'  egli,  discorrendo  di  precettistica  grammaticale  latina,  ha  continuamente  il  pensiero  al  volgare,  senza  il  (piale,  non  era  ormai  più  possibile  1' insegnamento  classico e  al  quale,  ben  s'argomenta,  miravano  le  scuole  stesse  come  a  disciplina  in  cui  non  era  più  lecito  ormai  non  erudire  i  fanciulli. Un  altro  pedagogista tutt'altro  che  moderno,  Meduna  di  Motta  [L'ufizio  del  gramatico,  come  poco  dianzi  elicevamo,  è  insegnare con  la  lingua  che  ha  propria,  e  che  è  comune  a  lui,  ed  agli  scolari;  conoscere  le  parti  dell’orazione,  e  variare,  o  declinare,  come  voi  dite,  le  parti  declinabili,  e  congiungere  attamente  le  parole  insieme sempre  avendo  l'esempio  avanti  cieli ì  buoni  autori,  etc.  Abbiam  visto  il  Lapini  scriver  in  latino  la  grammatica  del  fiorentino.   Ricordisi  anche  la   Contesa  di  cui  si    fece   cenno. di  Livenza  nel  Friuli,  in  una  sua  opera  in  tre  libri  intitolata  Lo  scolare  nel  quale  si  forma  a  pieno  un  perfetto  scolare,  discorrendo della  Grammatica,  che  chiama,  secondo  l'antichissimo canone,  madre  di  tutte  le  altre  discipline,  e  che,  secondo  lui,  impone  leggi  all'  ortografìa,  alla  prosodia,  all'  etimo logia,  alla  sintassi,  alle  figure,  ai  tropi,  alle  sentenze,  all' 'analogia,  raccomanda  egualmente  lo  studio  teorico  e  l'esercizio  pratico,  il  primo  sui  testi  antichi  e  moderni  quali  il  Valla  e  il  Perotto,  ma  aggiungendo  che  non  si  sarà  grammatico  senza  aver  imparato a  memoria  tutto  Donato  con  le  regole  di  Guerino,  per  lasciar da  un  lato  i  Cantatici  e  i  Mancinelli •  una  vera  indigestione, insomma,  di  grammatica  latina  d'ogni  età  e  d'ogni  fatta.  Eppure  non  dimentica  la  lingua  volgare    di  raccomandar  in  proposito  le  Prose  del  Bembo,  le  Osservanze  del  Dolce,  le  Annotazioni del  Ruscelli,  sparse,  e  la  Grammatica  del  Castelvetro C),  cioè  tutti  i  veri  grammatici  stati  in  voga  nel  Cinquecento  fino  all'anno  in  cui  egli  scriveva  e  venivano  in  luce  gli  Avvertimenti del  Salviati,  che  evidentemente  ancora  egli  non  conosceva. Anche  l'Antoniano,  che  il  Castelvetro    chiamò  miracoloso mostro  di  natura  ,  ne'  tre  libri dell' Educazione  cristiana  de*  figli ',  dove  consiglia  di  liberar  i  fanciulli  dalle  molestie  della  grammatica,  di  cui  non  intendono  i  termini,  facendogliela  apprendere indirettamente  sugli  autori,  non  riprende  qualche  studio  della  lingua  volgare  e  a  tal  uopo  consiglia  le  versioni.  Finalmente,  per  arrivare  al  tempo  in  cui  ci  troviamo  con  la  nostra  narrazione,  due  altri  notevoli  esempi  dovrei  addurre,  quello  del  Possevino,  autore  di  un  De  cultura  inge?iiorum  e  l'altro  del  perugino  Crispolti,  autore  di  un  Idea  dello  scolaro  che  versa  negli  studi  (fi),  entrambi scriventi  nel  1604,  per  confermare  come  la  tradizione  che      Venetia,  Fachinetti,   -S  ',yr.   Cfr.  Gekinm.  op.  cit.,   II,  405.   Correzione  all' Er  colano  cit.,  p.   54.   In  Verona,  per  Bustina  delle  Donne,  15S4.    Il  Castelvetro  lo  dice  scolaro  di  L.  G.  Giraldi;  il  Varchi,  nell'Ere  ola  no  (ed.  cit.,  p.  423  e  l'annotatore  delle  Opere  di  Sp.  Spero?ii  (tomo  II,  p.  2ir)  lo  dicono  scolaro  del  Caro,  ma  il  Castelvetro  (  Correa.,  in  Ercol.  cit.,  p.  32    lo  nega.     Cfr.  Gkrini. Venetia,  Ciotti.   Cfr.  Gerini,  Ant.  Possevino  scrittore educativo,  in  L'oss.  scolastico, Perugia.] si  ricollega  a  quell'anonimo  del  1529,  fosse  andata  ormai  mettendo  sempre  più  salde  radici.  Tuttavia    e  concluderò  così  questa  lunga  parentesi    l' insegnamento  della  grammatica  volgare  non  era  peranco  ufficialmente  riconosciuto  ,    aveva  perciò  programmi  e  testi  suoi,  se  anche  indirettamente  venissero  ad  essere  svolti  gli  uni  e  consigliati  gli  altri:  e  al  consiglio  bastavano i  grammatici  cinquecentisti  or  or  nominati,  aggiuntovi  naturalmente  il  Salviati.   Queste  le  varie  cause  onde  secondo  noi  in  questo  periodo,  che  dal  Salviati va  al  Buommattei  e  al  Cinonio  editi    che  il  primo  di  questi  due  cominciò  ad  attendere all'opera  sua  non  leggera    facile  fin  dal  1612,    la  rigogliosa  fioritura  grammaticale  cinquecentesca  s'arrestò;  ma  senza,  naturalmente,  avvizzire  ne  intristire  del  tutto.   Non  foss' altro,  se  anche  non  furono  propriamente  grammatici nel  senso  ristrettissimo  e  compiuto  della  parola,  avemmo  due  diversamente  benemeriti  e  orientati  cultori  delle  discipline  grammaticali,  entrambi  senesi,  come  senesi  furono  in  questo  momento ben  altri  partecipi  del  movimento  linguistico,  quasi  l'accampamento di  Firenze  si  fosse  attendato  a  Siena,  che  di  valore  per  tutto  il  Cinquecento  aveva  mostrato  notevoli  esempi,  basti  ricordare  il  massimo  del  Tolomei:  Orazio  Lombardelli,  cioè,  e  Celso  Cittadini:  l'uno,  precettista  pur  esso  d'una  parte  della  grammatica,  1'  ortografia,  la  pronunzia  e  la  punteggiatura,  che,  riassumendo  e  vagliando  i  meriti  di  precedenti  grammatici  e  vagheggiando  un  nuovo  tipo  di  grammatica  più  nei  rispetti  dell'assetto esteriore  che  del  contenuto  legislativo,  additò,  come  conscio  de'  bisogni  d'  un'  educazione  intellettuale  più  vasta  e  moderna  per  gli  effetti  della  produzione  letteraria,  se  non  un  piano  di  riforma  degli  studi,  certo  un  sistema  più  organico  e  complesso  dove  fossero  mostrati  nella  loro  rispettiva  funzione  i  fonti  dell'arte,  gli  strumenti,  i  metodi,  i  fini;  l'altro,  filologo  per  proprio  o  per  altrui  merito,  che,  plagiario o  no,  dimostrò  d'intendere il  valore  delle  indagini  dei  Tolomei,  dei  Castelvetri,  dei  Bartoli,  divulgando  i  principi  e  gli  elementi  di  quella  gramma  (,'j  Una  Cattedra  di  lingua  toscana  tu  istituita,  come  s'è  visto,  dal  Granduca:  a  Siena  ne  fu  primo  lettore  il  Borghesi  nel  1589.  Col  decreto del  1571  ricordato  dal  Borghini  il  Granduca  ordinò  che  fossero  compilate  regole  della  lingua  fiorentina  da  leggersi  in  tutte  le  scuole.] tìca  storica,  che,  già  rosi  ben  promettente  nel  suo  giovanil  rigoglio e  assurta  già  .1  fastigi  veramente  impensati,  senza  per  altro  che  quei  cultori  si  stringessero  scientemente  come  pochi  ma  saldi  anelli  di  una  catena  in  una  comune  tradizione,  doveva  poi,  a  maggiore  danno,  almeno  per  tutto  il  Seicento,  quasi  miseramente perire  o  giacere  dispetta  e  scura,  di  contro  alle  in  gran  parte  inutili,  infeconde  e  noiose  logomachie  intorno  al  vocabolario della  Crusca.   Il  Lombardelli,  anch'esso  già  da  altri  lodato    di  non  aver  mai  disgiunto  nella  sua  precettistica  e  nel  suo  insegnamento  gli  studi  del  volgare  da  quelli  del  latino,  non  fu  davvero  poco  ferace nella  sua  vita  che  non  dovette  esser  lunga:  poiché  delle  sue  opere,  elencate  tutte  da  lui  stesso  ne'  suoi  Aforismi  scolastici^, le  grammaticali  o  che  con  la  grammatica  hanno  una  certa  relazione  se  non  altro  per  il  metodo,  a  prescindere  dalla  parte  anche  da  lui  presa  alla  polemica  tassesca,  sono  nientemeno  che  dodici.  le  più  d' indole  strettamente  ortografica  o  ortoepiche, altre  quasi  lessicali,  e  quasi  tre  pedagogiche  o  didattiche: di  tutte  la  più  notevole  è  naturalmente  quella  dei  Fonti  Toscani.   Della  principale  di  quelle  ortografiche,  V Arte  del  puntargli scritti  edita  nel  15S5,  ma  di  cui  aveva  già  dato  un  saggio  molto  bene  accolto  fin  dal  66,  sarebbe    detto   tutto  quando,  ri    Gerini. In  Siena  presso  Salvatore  Marchetti,  1603  (sono  887,  distribuiti in  68  distinzioni).   \z  L'elenco  è  ripetuto  in  Gerini. Quelle  che  più  direttamente  c'interessano  sono:  I.  Dei  punti  e  degli  accenti,  clic  ai  nostri  tempi  sono  in  uso  tanto  appresso  i  Latini  quanto  appresso  i  Volgari.  In  Firenze,  per  li  Giunti,  1566.  II.  L'arte  del  puntar  gli  scritti,  formata  ed  illustrata,  Siena,  presso  Bonetti.  Memoriale dell'arte  del  puntar  gli  scritti.  In  Siena,  Bonetti,  158S  (Verona, 1596).  IV.  La  difesa  del  zeta  (già  cit.).  V.  /  riscontri  grammaticali. In  Firenze,  due  volte  e  in  Siena.  VI.  La  pronuncia  toscana.  In  Fiorenza,  presso  il  Marescotti.  VII.  L  fonti  toscani.  In  Firenze, appresso Marescotti (cfr.  Conte  Silvio  Feronio,  //  Chiariti,  Dialogo,  ove  trattandosi  de'  fonti  toscani  d'Orazio Lombardelli,  si  va  ragionando  d'altre  cose.  In  Lucca,  presso  il  Busdrago. Le  eleganze  toscane  e  latine.  In  Siena,  1568,  e  in  Firenze,  Marescotti,  1587.  IX.  LI  giovane  studente.  \\\  Venetia.   Gli  aforismi,  S  conosciutane  l'abbondanza  e  la  metodica  trattazione  della  materia, si  fosse  ripetuto  l'aforisma  a  cui  egli  s' ispirò  nel  forviarla  ed  illustrarla:  lingua  fiorentina  in  bocca  senese,  principio  contradittorio,  col  quale  egli  cercò  di  trovare  una  via  conciliativa  tra  il  primato  fiorentino  e  il  diritto  che  Siena  s'arrogò  e  le  fu  riconosciuto  d'emular  Firenze  e  che  esprime,  come  vedremo,  .issai  bene  uno  de'  nuovi  aspetti  della  rinnovantesi  critica  letteraria; ma,  a  lode  del  libro,  occorre  aggiungere  che  ha  il  merito  d'aver  registrato,  al  cap.  4  della  parte  prima,  per  ordine  alfabetico,  tutti  i  precedenti  trattatisti  italiani  e  latini  della  materia  con  l'indicazione  delle  opere  o  de'  punti  particolari  ih  cui  ne  trattarono:  tra  i  latini,  Aldo  Pio  Manuzio  in  calce  libri  quarti  grammaticarìim  institutionum,  il  Valla  al  cap.  41  lib.  YI  Elega?iliarum,  lo  Scoppa,  il  Vives  nel  suo  De  ratione  studii;  tra  gl'italiani,  il  Franci,  il  Firenzuola, Cavalcanti  (5'1  della  Rettorica),  il  Lenzoni  (3a  giorn.  della  Difesa  della  lingua  fior,  e  di  Dante),  il  Tolomei  (in  una  lettera  a  m.  F.  Benvoglienti),  V Alunno,  il  Trissino,  il  Ruscelli  (in  Del  modo  di  comporre  in  versi  e  sopra  il  Furioso),  il  Salviati,  il  Castelvetro  {Sposiz.  della  i&  particella  della  V  parte  della  Poetica  di  Aristotele),  il  Dolce,  il  Toscanclla,  il  Giambullari,  il  Bembo,  il  Neri  Dortelata  {Osservai, per  la  pr.  por.).   Quanto  al  contenuto,  basterà  osservare  che,  premesse  alcune avvertenze per  intender  più  agevolmente  l'opera  e  servirsene  con  frutto,  circa  le  persone  a  cui  si  aspetti  la  cognizione e  il  buon  uso  de'  punti  (maestri,  stampatori,  scrittori,  pubblici  ufficiali),  sulle  cagioni  de'  grandi  abusi,  che  nell'arte  del  puntar  si  passano  (3),  sugli  autori  che  hanno  scritto  de'  punti  (4),  sulle  stampe  che  sono  più  corrette  nel  buon  uso  de'  punti,  passa   alla  descrizione  del  punto trattando  del  trovamento,  della  necessità,  e  dell'ordine  naturale  de'  punti,  degli  Autori  che  rendon  testimonianza  dell'autorità  de'  punti  (3),  della  convenenza,  e  disconvenenza,  o  vero  della  comunità,  e  differenza,  che  si  ritruova  tra'  Punti  '4);  indi  a  discorrere  del  sospensivo  (la  nostra  virgola),  trattando  del  nome,  figura,  ordine,  necessità,  descrizione,  regole  con  appendici e  eccettuazioni:  poi  del  mezopunto, ;, del  coma, :,  (VI)  mobile  (.),  interrogativo, affettuosa  (la  nostra  esclamazione),  Parentesi,  Apostrofe,  Periodo.  Onesti  trattati  di  punteggiatura,  più  o  unno  completi,  ]>iù  ci  meno  polemici,  accompagnarono  sempre  in  connessione  0  no  con  i  vari  sistemi  ortografici  in  tutto  il  suo  secolare  svolgimento  la  vessatissima  questione  della  lingua,  non  pure  a  partir  dai  precursori  senesi  e  fiorentini  del  Trissino  nella  riforma  delle  nuove  lettere  fino  agli  ultimi  manzoniani,  senza  che  ancor  Oggi,  .1  proposito  di  vecchi  e  di  nuovi  sistemi  di  punteggiatura  (si  ricordino  gli  esempi  del  Leopardi  seguiti  da Carducci  e  ancor  più  dal  D'Annunzio  parchissimo  eli  punti  e  del  Manzoni  che  n'è  invece  larghissimo),  non  si  tenti  con  inutilità  manifesta  rinnovar  le  vecchie  diatribe,  ma  anche  nel  precedente  periodo  che  corre  dal  De  vulgari  eloquentia  alle  contese  quattrocentesche  prò  e  contra  le  tre  Corone.  Vedemmo  già,  a  non  ricordar  altri,  il  Petrarca  risponder  con  un  trattatello  dell'arte  di  puntar  gli  scritti  al  Salutati  che  gliene  aveva  mosso  questione.  Ho  parlato  d'inutilità  manifesta:  poiché,  risoluto  ormai,  come  dobbiamo  ritener  che  s'è  fatto,  il  problema  filosofico  sul  linguaggio  con  identificare  l'estetica  con  la  linguistica  generale,  non  s'intende  proprio  come  si  chieda,  per  es.,  al  D'Annunzio  perchè  non  si  degni  conformarsi  all'uso  ormai  comune  e  intorno  al  quale  l'accordo s'è  ottenuto  così   nella  grafia  come,  s' intende,   essendo  l'i - .1  questione,  nella  punteggiatura,  quasi  volendolo  rimproverar come  d'un'inutile  bizzarria  o  d'una  posa  e  chiamandolo  responsabile  de'  cattivi  effetti  che  il  suo  capriccio  tirannico  può  produrre  sull'arte  e  sulla  scuola.  O  non  sono  anch'esse  e  le  forme  speciali  ortografiche  e  le  specialissime  interpunzioni  d'un  poeta  le  sue  parole  interiori?  Egli  parla  con    a  quel  modo,  ed  è  illogica  e  tirannica  quanto  vana  la  pretesa  di  voler  che  e'  parli  secondo  un  uso  astratto,  cioè  dica  delle  parole  mute.  Anche  ne'  punti  è  egli  sempre  il  Poeta  quale  si  dimostra  in  tutta  l'originalità  delle  sue  visioni.  Mentre  invece  il  problema  non  era  vanamente  trattato  e  discusso  con  più  o  meno  vivo  calore,  quando,  nel! 'affermarsi  e  nello  svolgersi  della  nuova  letteratura  e,  concedo  ancora,  nel  romantico  rinnovarsi  di  essa,  allor  che  ancora  la  vera  formula  estetico-filosofica  non  era  stata [Riguardavano,  s'intende,  specialmente  il  latino;  ma,  a  tacer  d'altro,  il  Borghini,  come  abbiani  visto,  ricordava  d'aver  visto  un  libro  tra  quelli  del  periodo  intorno  all'ortografia,  della  quale  i   nostri   antichi  -non   curarono  affatto  ,   loc.   cit.    280  Storia  della  Grammatica   trovata,  la  coscienza  artistica  non  si  poteva  appagare  degli  scarsi  segni    eravamo  ridotti  quasi  al  solo  punto    ereditati  dal  primo  Trecento,    de'  nuovi  che  venivano  o  rintracciati  nell'antichissimo uso  o  novellamente  foggiati.  Nessuno  di  que'  nostri  trattati fu  inutile  o  arbitrario  prodotto  da  trascurarsi  a  chi  fa  la  storia  e  delle  istituzioni  didattiche  e  dello  spirito  filosofico,  poiché  ciascun  d'essi  era  l'effetto  d'uno  sforzo,  d'un  bisogno  a  cui  ben  si  sentiva  non  era  facile  sottrarsi,  quando  si  fosse  voluto  esprimere con  pienezza  il  proprio  pensiero;  o  meglio  quando  si  fosse  voluta  schiarire  e  possedere  l' immagine  interiore  del  proprio  pensiero.  Potevano  credere  quei  trattatisti  di  dirigersi  al  comodo  pratico  non  pur  degli  apprendenti    anche  de'  tipografi  e  scrivani  pubblici;  in  latto  essi  rispondevano  ai  quesiti infiniti  che  sorgevano  nella  coscienza  artistica  de'  nuovi  produttori  della  letteratura:  e  il  moltiplicarsi  di  codesti  trattati,  e  l' ingrandirsi  del  loro  corpo  fino  alla  mostruosità  dell'ampio  volume  veniva  a  segnar  via  via  il  loro  fallimento  completo  di  fronte  alla  scienza,  che  non  conosce  leggi  fonetiche,    grammaticali, né,  particolarmente,  ortografiche  o  di  accentuazione  e  interpunzione.  Si  noti,  infine,  a  conferma  di  tutto  questo,  che  ciascun  d'essi  s'eleggeva  il  principio  che  meglio  e  più  rispondeva alla  sua  coscienza  artistica,  appunto  perchè  il  loro  senso  estetico,  ossia  il  loro  particolar  modo  di  sentire,  si  ribellava  a  ogni  altra  legge  che  in  qualche  modo  lo  violentasse  nella  sua  libera  e  piena  manifestazione:  e  il  Lombardelli  non  cavò  di  sua  testa  il  principio  che  è  fondamento  della  sua  dottrina  ortografica, lingua  fiorentina  in  bocca  se?iese,    nel  formularlo  s' ispirò)  come  dice  il  D'  Ovidio  ,  al  lodevole  esempio  di  moderazione che  gli  era  stato  porto  dal  suo  più  illustre  concittadino Tolomei;  ma  lo  dedusse  dal  suo  particolar  gusto  di  senese, anzi  di  artista,  quale  si  fosse,  del  suo  volere  e  dover  esser  lui  e  non  altri.  Il  Petrarca    s'è  già  visto    era  arrivato  perfino a  crearsi  de'  segni  particolari,  più  che  d'interpunzione,  di  rilievo,  direi  quasi,  e  di  colorimento  per  certi  speciali  atteggiamenti   del    suo    pensiero  artistico.   Sui  fonti   Toscani,  la   più  nota  e  diffusa  opera   del    Lombardelli, ebbe  già  a  portare  la  propria  attenzione  il  D'Ovidio,  che  ne ] biasimò  il  titolo  per  esservi  stati  sotto  compresi  concetti  disparatissimi  con  criterio  goffamente  didattico,  e  non  ne  risparmiò  naturalmente il  contenuto.  Riconosce  peraltro  che    il  libercolo  non  iindegno  di  studio;  giacchèj  quantunque  farraginoso  e  sconnesso,  ha  qualche  importanza  per  la  questione  della  lingua  e  per  quella  dell'origine,  contiene  qualche  buon  ragguaglio,  e  propugna  con  urbanità  opinioni  temperate  e  conciliative.  Retto  e  mite  per  natura, quale  si  dimostra  anche  nell'atteggiamento  benigno  verso  il  povero  Tasso,  il  Lombardelli  non  cadde  in  eccessi  (l),  come  il  Bargagli,  vero  separatista  tra  il  fiorentino  e  il  senese,    in  quella  violenza  in  cui  trascese,  più  tardi,  per  esserne  il  capro  espiatorio,   il  Gigli  (").   Per  fonti  il  Lombardelli  intende  tutte  le  sorgenti  onde  possiamo derivare  rivoli  e  fiumi  d'eloquenza  toscana.  Ne  fa  dodici  categorie: la  lingua  latina;  la  voce  viva  dei  popoli  di  Toscana ;  le  scritture  del  buon  secolo;  i  linguaggi  italiani;  la  lingua  greca;  i  linguaggi  stranieri;  gli  autori  della  teorica  di  nostra  lingua;  le  traduzioni;  gli  scrittori  di  prosa  moderna;  io.  i  poeti;  i  prosatori  scelti;  e i  tre  sommi  del  Trecento.   Quanto  alla  settima,  osservisi  che  gli  autori  della  teorica  di  nostra  lingua  per  il  Lombardelli  non  sono  solamente  i  grammatici,  ma  tutti  coloro    i  quali  ci  insegnano,  come  si  debbia  parlare,  e  scriver  lodevolmente,  con  regole,  avvertimenti,  e  precetti  di  Grammatica,  di  Rettorica,  e  di  Dialettica,  guidati  anco  talora,  e  praticati  per  via  di  Istorie  e  con  ragioni,  prese  dalla  Filosofia,  e  d'altronde    (pp.  46-7).  De'  grammatici  propriamente  detti  raccomanda i  più  recenti,  designandone  il  grado  d'attendibilità:  se  pur  nel  Dolce  ha  difetti,  si  trovan  notati  dal  Ruscelli,  se  nel  Bulgarino,  si  trovan  ripresi  dal  Zoppio,  e  difesi  da  lui  proprio  e  dal  Borghesi.  Se  finalmente  dal  Borghesi  e  dal  Salviati,    ho  da  parlar  io  nelle  riprese  dodicesima  e  tredicesima  del  penultimo  fonte.  Ma  torno  a  dire  intanto  che  per  quanto  appartiene  a  questa  parte   della   Teorica  di  nostra  lingua,    gli  ho  per  guide   sicuris    Pe'  plagiari  del  Tolomei,  in  Pass,  bibliogr.,  I,  467.  Ma  di  plagio  non  si  può  parlare    riconosce  il  D'Ovidio    tranne  che  pel  titolo  e  qualche  idea  e  osservazione  particolare.  Il  Lombardelli  non  ricorda  del  Tolomei  solo  le  opere  a  stampa.   (:)  Le  corr.  cit.    2S2  Storia  della  Grammatica   sime  (p.  58).  Ma  ciò  non  toglie  che  egli  non  si  taccia  a  esporre  un  lungo  catalogo  di  desiderata  con  la  più  grande  disinvoltura:  si  desidera  una  Gramatica  intera,  piena,  risoluta,  e  facile:  la  quale  appena  si  potrebbe  cavar  da  tutt'i  detti  Autori.  Poi  un  ampio  Tesoro,  dove  sien  raccolte  tutte  le  voci  attenenti  al  puro  toscanesimo, scelte  con  buon  giudizio  tra  le  antiche,  e  le  moderne,  sposte  con  la  copia,  esaminate  nella  origine,  nella  proprietà,  nella  proporzione, o  corrispondenza,  nelle  differenze,  nelle  costruzioni  semplici,  e  nelle  figure,  avvivate  con  gli  opposti,  ornate  degli  epiteti  e  degli  aggiunti,  assicurate  finalmente,  ed  approvate  con  diverse  parti  degli  scrittori  del  buon  secolo  e  de'  più  regolari  del  nostro,  specialmente  di  quei  dello  ultimo  fonte...  Mancane  un  Vocabolario,  non  indirizzato  a  quei  che  aspirano  all'eloquenza,  ma  alla  turba,  per  intendere  tutt'i  vocaboli  del  Volgo  e  degli  Antichi:  e  potrebbe  farsi  a  imitazione  o  di  quel  Polluce  greco,  o  di  quel  d'Anton  Nebrisense,  spaglinolo,  e  latino:  poiché  non  ci  può  sodisfar  la  Tipocosmia  d'Alessandro  Citolini  da  Serravalle.  Mancavi  un  Dizzionario poetico;  e  forse  alcun  altro  d'altra  sorte  rispetto alle  diverse  arti  e  professioni.).  Ci  manca  un  Proverbiarlo cominciato  già  dal  nostro  sodo  Intronato.  Una  sindacatila [manca]  sopra  a  tutti  i  pregiati  scrittori  toscani  antichi e  moderni,  come  fu  fatto  per  gli  antichi  da  Quintiliano  e  Tacito  in  Cicerone,  da  Polemone  in  Sallustio,  da  altri  in  (  hnero  e  Virgilio,  dal  Valla  in  diversi    (ib.).  Ricordate  le  promesse  di  Vocabolari  di  G.  C.  Dal  Minio,  del  Ruscelli,  del  Salviati,  annunzia quelli  del  Persio  e  della  Crusca:  ragguaglia  che  Ottaviani  Ottaviano  suo  allevato,  scolaro  di  medicina,  stava  componendo la  correzione  degli  abusi  introdotti  nella  lingua  (forestierumi,  dialettalismi   e  idiotismi   vernacoli);   annunziala [Il  Lombardelli  era,  sembra,  scontento  della  non  scarsa  letteratura proverbiariesca  a  lui  anteriore:  per  lo  meno  ignote  non  gli  dovevano  essere  le  varie  edizioni  della  Civil  conversazionidi  Stefano  Guazzo.  Cfr.  per  questo  argomento,  Xovati,  Le  serie  alfabetiche proverbiali  e  gli  alfabeti  disposti  nella  letteratura  italiana  dei  primi  tre  secoli,  in  Giorn.  si.  d.  leti,  il.,  voi.  XY  e  XVIII;  e  L.  Boni-ioi.i,  Stefano  Guazzo  e  la  sua  raccolta  di  proverbi  in  Niccolò  Tommaseo.  In  ogni  modo  il  desiderio  espresso  dal  Lombardelli  vien  ad  essere  una  diretta  conferma  del  tatto,  dal  Bonfigli  affermato,  che  la  mania  per  i  proverbi  era  nell'aria.  In  gran  parte  l'avrebbe  invece,  soddisfatto,   tra   poco  il   Monosini,   di  cui  s'è  già  discorso.] Semenza  delle  burle  d'un  suo  amico,  contenente    centinaia  di  voci  non  mai  uscite  in  istampa,  proverbi,  sbeffamenti,  sentenze  popolaresche.  e  per  comodo  de'  forestieri,  con  le  corrispondenze nobili,    che  un  detto  burlesco  venga  dichiarato,  ad  es.,  in  dieci  0  venti  modi  nobili.  Porge  infine  degli  avvertimenti  speciali ai  forestieri" {soggiorno  in  Toscana;  lettura delle  opere  grammaticali  del  Dolce,  del  Ruscelli,  del  Salviati,  del  Bembo,  del  Borghesi:  la  lettura  degli  scrittori  antichi;  la  Fabbrica  dell'Alunno;  composizioni;  traduzioni;  corrispondenza  con  toscani),  ai  fanciulli  toscani,  alle  donne,  agli  studenti,  dottori e  nobili  artefic i (deplorando  la  scarsa  cultura  degli  artisti!),  ai  notai  e  cancellieri,  ai  segretari,  agli  accademici,  ai  predicatori  ('•ammaestrati  prima  ne'  fonti  della  Gramatica,  Greca,  Latina,  e  Toscana,  come  Appollonio  Alessandrino,  Urbano,  Demetrio,  Prisciano,  Emanuele  Alvaro,  Mario  Corrado,  Tommè  Linacro,  Agostin  Lazaronio,  Giovanni  Scopa,  il  Manuzio,  Anton  da  Nebrisa,  il  Ruscelli,  il  Bembo,  il  Castelvetro,  il  Salviati  e  altri),  agli  Umanisti,    Traduttori,  Poeti,  Istorici  e  altri.   Il  carattere  zibaldonesco  del  libro  e  quello  un  po'  cervellotico de'  principi  secondo  cui  è  stato  imbastito,  saltano  subito  all'occhio;  pure  di  tra  la  farragine  e  delle  cose  e  de'  principi  un  fatto  balza  anche  fuori  che  torna  a  tutta  lode  del  Lombardelli ;  questo,  che  egli,  additando    disparati  modi  e  strumenti  onde  dovesse  e  potesse  acquistarsi  dalle  varie  classi  sociali  la  cultura  e  l'arte  letteraria,  mostrava  d'intendere  che  non  c'è  una  sol  via  per  imparare  a  scrivere  e  a  parlare,  e  che  l'intelletto  va  -'i-citato  e  nutrito  non  con  le  sole  regole  ma  con  più  sorta  di  cibi  o  di  ricambi.  La  grammatica,  anzi,  nel  piano  educativo  da  lui  disegnato,  occupa  una  parte  molto  secondaria,  è  una  parte  d'uno  de'  dodici  fonti:  ed  essa  stessa  non  è  pedantesca,  ma  è  concepita  e  desiderata  liberale  e  facile.  Egli  non  la  corrode  filosoficamente, ma  ne  attenua,  nel  fatto,  la  portata.  Ed  anche  questo  per  la  storia  è  notevole.  La  scarsa  fede,  in  sostanza,  in  un  prodotto  antiscientifico,  se  non  è  indizio  di  senso  scientifico,  è  certo  segno  di  buon  senso,   che  è  base  di  quello.   Il  Cittadini,  dai  sommi  altari  della  filologia  a  cui  era  stato  elevato  tra  i  profumi  dell'incenso  e  il  coro  delle  lodi,  è  caduto  ìgnominiosamente  a  terra:  e  oggi  non  se  ne  pronunzia  il  nome,  senza  chiamarlo  grande  depredatore  del  Tolomei,  malo  affastellatore  di  scritti  non   suoi,  e    con    epiteti    consimili;    ma    cancellarlo  dalla  storia  non  si  può.  Parliamone  dunque  anche  noi,  senza  più  oltre  incrudelire:  cosa  facile  grazie  alle  diligenti  fatiche d'un  altro  nostro  valoroso  corregionario,  Filippo  Sensi,  che,  per  ripetere  una  frase  del  Rajna,  ha  i  due  Senesi  sulla  punta  delle  dita.   Cominceremo  dal  riassumere  del  Sensi  lo  scritto  principale.   L'egregio  studioso,  a  metter  bene  in  chiaro  i  gravissimi  debiti  del  Cittadini  verso  il  Tolomei,  rivolge  primieramente  uno  sguardo  generale  alle  Origini  del  Cittadini.  Le  Origini  della  Volgar  Toscana  favella si  rannodano  con  un  precedente  trattato  del  Cittadini  stesso,  che  reca  un  titolo  consimile:  Della  vera  origine,  e  del  processo,  e  nome  della  nostra  Lingua.  Il  Sensi  stesso  riconosce  che  qui,  oltre  il  concetto  della  derivazione dell'italiano  dal  latino  popolare,  si  ha  un  abbozzo  veramente pregevole  di  storia  di  questo  latino;  ma  quando  si  viene  a  chiarire  il  modo  di  quella  derivazione,  la  ricerca  è  abbandonata sul  più  bello.  Esaminata    in  confuso  e  come  per  esempio  del  restante    l'origine  de'  pronomi,  si  rimanda  al  Bembo,  al  Castelvetro,  al  Salviati,  ne'  quali  invano  si  cerca  qualcosa  di  simile  pel  concetto  e  pel  metodo. Nelle    Origini   la    ricerca  [Per  la  storia  della  filologia  neolatina  in  Italia.  Appunti  di  F.  Sensi:  I.  Claudio  Tolomei  e  Celso  Cittadini,  in  Arch.  gioii.  Hai. (cfr.  D'Ovidio,  in  Pass,  bibliogr.  d.  lei/.  Hai.,  I,  46-9;  e  Sensi). Le  ...  ecc.,  per  Cittadini  lettor  publico  di  essa  nello  Studio  di  Siena  e  Censor  perpetuo  della  medesima  nell'Accademia  de  Filomati.  App.:  Salvestro  Marchetti,  in  Siena. L'ed.  di  E.  Gori,  Siena,  è  detta  dallo  Zeno  migliore  della  prima.  (Il  Vivaldi,  op.  cit.,  I,  166,  attribuisce  a  Ercole  Gori  un  trattato grammaticale,  che  io  non  ho  potuto  rintracciare.  E  una  svista?).  Le  Opere  di  Celso  Cittadini  gentiluomo  sanese  con  varie  altre  del  medesimo  non  stampate  furono  raccolte  da  Girolamo  Gigli.  In  Roma,  per Rossi.  Oltre  i  due  trattati  dell'origine  questa  raccolta  contiene  il  Trattato  degl'idiomi  toscani,  le  Note  marginali  alla   Giunta  del  Castelvetro,   e  le  Note  sopra  le  Prose  del  Bembo.  Trattato  della  ecc.  scritto  in  volgar  Sanese  da  Celso  Cittadini.  In  Venetia,  per  Giambattista  Ciotti. Io  credo  che  per Castelvetro  debba  farsi  qualche  riserva:  la  posizione  del  Castelvetro  verso  la  grammatica  storica    non  storia  della  lingua,  si  badi    sia  molto  diversa  da  quella  del  Bembo  e  del  Salviati,  perchè,  se  il  Castelvetro  nella  trattazione  delle  forme  non  adoperò  il  concetto  tolomeiano-cittadinesco  del  latino  popolare,  dal  latino  in   ogni   modo   mosse  e  con  criteri  non  certo  retorici.    Capitolo  nono  285   vi  assume  un  aspetto,  dice  il  Sensi,  semifilo  so  fi  co,  pretendendosi spiegare  la  derivazione  dell'italiano  per  via  di  dieci  origini, senz'esser  una  continuazione  del  Trattato,  rimasta  cosa  monca,  anzi  ne  sono  un  regresso  in  confronto  del  metodo  tutto  analitico  e  storico,  di  cui  l'autore  aveva  dato  quel  saggio.  Vi  si  unta  poi,  oltre  la  poca  corrispondenza  al  fine  proposto,  una  grave  sproporzione  tra  la  parte  fatta  alla  trattazione  dell'i?  e  dell'0,  che  ricorre  attraverso  tutte  le  singole  origini,  e  il  disegno vasto  che  abbracciava  non  l'origine  solo,  ma  questioni  intorno  alla  pronunzia  e  alla  scrittura  del  Toscano,  in  ogni  varietà, specie  nella  fiorentina  e  nella  senese,  intrecciandosi   o  era  criterio  allo  studio  principale    la  fondamentale  distinzione  di  tutto  il  linguaggio  toscano  in  quattro  suddivisioni,  alle  prime  due  delle  quali  sarebbero  appartenuti  i  vocaboli  nati  dalle  prime  nove  origini,  alle  altre  quelli  della  decima:  distinzione  importante, perchè  verte  sull'origine  letteraria  e  popolare  de'  vocaboli,  e  che  sarebbe  un  bel  vanto  del  libro.  Sicché,  senza  tener  conto  di  inconseguenze,  contraddizioni  e  trascurarle,  è  da  concludere  che  esso  è  un  insieme  inorganico  di  elementi  greggi,  un  mal  riuscito  affastellamento  delle  operette  inedite  del  Tolomei.  Qui  il  Sensi,  metodicamente  si  fa  a  considerare  ($  II)  codeste  operette raccolte  nella  nota  copia  della  Coni,  di  Siena,  ricordando  che  al  Tolomei,  autore  degli  scritti  da  noi  altrove  esaminati,  poco  si  badò,  e  che  a  nulla  valse  che  il  Benvoglienti    s'accorgesse  del  plagio,  perchè  tale  scoperta  rimase  inedita.  Da  quella  considerazione  la  figura  del  Tolomei  ne  vien  fuori  pari,  se  non  superiore,  a  ogni  altra  nella  storia  della  grammatica neolatina  a  lui  anteriore,  benché  da'  vari  materiali  non  si  possa  ricostruire  quella  Grammatica  toscana  che  il  Tolomei  diceva  di  voler  comporre,  prima  che  il  Giambullari  ponesse  mano  alla  sua.  Forse  il  Tolomei  avrebbe  trattato  in  un  primo  libro  di  questioni  generali,  in  un  secondo  di  propria  grammatica, e  nel  terzo,  come  appendice,  dissertato  di  vari  argomenti.  Il  Cittadini  di  questi  materiali  non  si  servì  per  ricostruire;  ma  volle  [Poleni  (cit.  dal  Sensii  nelle  Exercitationes  Vitruvianae,  Patavii,  dice  che  Uberto  Benvoglienti,  eruditissimo,  era  d'opinione  che  l'autore  del  Polito  fosse  non  il  Franci,  ma  il  Tolomei e  deduceva  dalla  lettura  delle  opere  inedite  del  Tolomei  il  plagio  del  Cittadini  a  danno  del  Tolomei,   nell'opera  Delle  Origini.] solo  plagiare:  e  base  della  sua  compilazione  fu  il  trattatello  delTolomei :  De"1  fonti  de  la  Lingua  Toscana.  Codesti  fonti  (e  siamo  così  al  §  III)  sarebbero  nove:  de  l'origine,  de  la  forma,  de  la  derivanza,  de  la  figura,  de  la  differenza,  de  la  frequenza,  de  l'affetto,  del  rappresentamento,  de  la  disuguaglianza.  Il  disegno,  giudica Sensi,  n'è  ampio,  ma  la  trattazione  meschina,  quasi  un  sommario.  A  ben  intenderli  poi  occorre  la  conoscenza  delle  scritture  del  Tolomei  parallele  a'  '  Tonti  ',  cioè  il  Proemio  de  le  4  lingue,  il  Ritratto  de  le  q  lingue  toscane,  e  del  relativo  criterio,  che  serve  loro  di  base,  di  due  strati  idiomatici,  '  il  bandolo '  della  sua  ricerca,  la  prima  lingua  essendo  costituita  di  un  fondo  schiettamente  popolare  identico  al  toscano,  le  altre  tre  de'  vocaboli  introdotti  dagli  scrittori;  ma  le  caratteristiche  ne  sono  ben  poco  chiare.  I  confini  dell'opera  forse  non  oltrepassavano quelli  della  fonetica,  e  probabilmente  era  destinata  a  costituire la  sezione  preliminare  della  Grammatica,  insieme  con  trattati  maggiori  che  ne  svolgevano  i  capitoli  più  importanti.  '  La  dimostrazione  del  plagio  del  Cittadini  ',  ristabilite  cosi  le  cose,  divien  ora    V)  pel  Sensi  assai  facile.  Ne  sono  spia,  oltre  la  simiglianza  del  titolo,  le  aggiunte.  Colpito  dal  ricorrere  degli  e  e  degli  0  nell'esemplificazione  de'  Fonti,  e  trattone  a  esagerare l'importanza,  gli  parve  fortuna  ritrovare  le  due  dissertazioni De  lo  e  chiaro  e  fosco  e  De  /'o  chiaro  e  fosco,  e  gli  aggiunse nel  cap.  Della  Differenza,  nel  mezzo  dell'opera. Gli  altri,  quasi  tutti,  rimasero  inalterati.  Al  I  cap..  Natura, furono  aggiunte le  dissertazioncelle  del  Tolomei conservate  nel  ms.  senese;  'qualsia  miglior  parlar:  fosse  vero  o  fisse  vero  ';  '  stetti  non  è  per  forma  ripigliata  da  '  steli  latino,  ma  è  preterito  disteso  ':  '  Propio  esser  il  vero  J 'ocabolo  toscano  e  non  proprio  ';  '  De  la  figura  agg ionia  ' .  Una  breve  giunta  ebbe  il  cap.  Figura;  quello  della  Frequenza  le  maggiori  a  spese  del  trattato  delle  figure  grammaticali,  costituito  di  tre  scritti  ('  Da  Virtude,  Virtù  e  da  Salute  non  Salù  ':  '  Che  e  se  ricevono  il  primo  corrodimene)  ';  'Dopo  se  e  che  con  il  e  in  si  fa  il  corrodimento  secondo  ').  Nella  Conclusione  mise  il  Proemio  del  Tolomei,  e,  infine,  la  nota  dichiarazione  di  riconoscenza!   Lo  scritto  del  Sensi  è  di  quelli  che  non  lasciano  adito  a  obiezioni  e  riserve:    è  il  caso,  e  tanto  meno  qui,  di  valutare  la  confessione  fatta  dal  Cittadini  de'  suoi   debiti    verso  il  Tolomei    Capilo/o  nono  287   e  richiamare  alla  mente  le  abitudini  letterarie  del  tempo  (che  permettevano,  p.  es.,  al  Giolito  di  prendere  il  Cesano  e  stamparlo senza  chieder  alcun  permesso  all'autore'  per  giudicare  giuridicamente  e  moralmente  del  plagio  del  Cittadini,  il  quale  lece  quel  che  fece.  Si  tratta  invece  di  vedere,  .secondo  noi,  quel  che  mise  di  suo    che  qualcosa  avrà  pur  dovuto  metterci    nella  manipolazione  o  nell'uso  che  fece  negli  scritti  del  Tolomei,  e  di  determinare  il  punto  di  vista  donde  elabori  la  manipolazione cioè  interpretarla  nel  suo  valore  nel  rispetto  del  progresso dello  spirito  critico  che  importa  qui  seguire;  oltre,  s'intende, alla  considerazione  di  quanto  potè  il  Cittadini  intellettualmente operare  indipendentemente  dall'opera  del  Tolomei:  si  tratta,  insomma,  tenuto  conto  del  plagio  e  del  resto,  di  assegnare al  Cittadini  il  posto  che  gli  compete  in  una  storia  come  la  nostra.   Nessuno  intanto  potrà  contestare  al  Cittadini  il  merito,  dirò  con  un  apparente  paradosso,  del  suo  stesso  plagiare,  che  importa un  apprezzamento  della  materia  plagiata:  il  conto  fatto  dal  Cittadini  delle  idee  e  delle  ricerche  del  Tolomei  è  già  un  valore  criticamente:  non  è  solo  l'aver  rimesso  in  circolazione  delle  conclusioni  positive  dimenticate  e  perciò  nulle  che  costituisce il  merito    qui  abbiamo  ancora  il  plagiario,   ma  aver  dato  loro  un  valore,  aver  cioè  aggiunto  ad  esse  qualcosa  di  proprio.  Ora  questo  merito  non  è  venuto  al  Cittadini  dal  di  dentro  delle  verità  stesse  che  gli  si  fecero  innanzi:  occorreva  che  egli  avesse  in    svolto  una  disposizione  a  comprenderle.  Non  bisogna  qui  dimenticare  che  il  Cittadini  tutta  codesta  materia delle  Origini  aveva  esposta  per  sei  anni,  com'egli  afferma  nella  dedica  a  Fabio  Sergardi,  nello  Studio  senese  dalla  cattedra,  sia  pure,  com'è  facile  supporre,  desumendola  fin  d'allora  e  per  quell'uso  dalle  operette  del  Tolomei:  vi  era  stato  poi  intorno  nel  tentare  di  sistemarla  sia  pure  meccanicamente,  in  un  libi'  n'avrà  discusso,  e  se  ne  sarà  giovato  nelle  polemiche  a  cui  prese  parte:  altro  disse  per  conto  proprio  nel  dare,  attenendosi  anche  qui  al  Tolomei,  brevi  caratteristiche  di  ciascuno  degl' idiomi  toscani, nelle  note  alle  Prose  del  Bembo,  e  alla  Guaita  del  Castelvetro,  oltre  che  nell'altro  breve  Trattato  degli  articoli  e  di  alcime  altre  particelle  della  volgar  lingua,  che  congiunse  al  maggior  Trattato  della  zera  origine.  Non  solo,  ma  lesse  e  tradusse il  De   l'ulgari  Eloquentia  di  Dante,   che  non  è  libro  certo    2ifo/o   nono  2S9    portante  non  solo  ne'  riguardi  dell'opera  individuale  del  Cittadini, sì  anellidi  tutta  la  stòria  della  filologia  romanza  anteriori', il  famoso  plagiario  era  pervenuto  quasi  di  primo  acchito  in  quel  primo  de'  suoi  trattati,  quello  Della  vera  origine,  che  nessuno  finora  ha  dimostrato  essere  un  plagio.  E  se  è  vero  che  l'atteggiamento  assunto  dal  Tolomei  di  fronte  a  codesto  problema, quale  ci  venne  fatto  di  caratterizzare  secondo  gl'indizi  1 'flirtici  dal  Tolomei  stesso  nei  suoi  scritti  editi  {Polito,  in  quel  che  contiene  di  suo,  Regole,  Cesano,  Lettere)  dev'esser  ora  corretto  secondo  quanto  risulta  dall'esame  dell'operette  inedite,  nel  senso  che  non  permanga  quello  di  chi  non  abbia  avuto  vera  coscienza  dell'oggetto  e  della  portata  delle  sue  ricerche,  è  anche  vero  che  il  Cittadini  ci  si  mostra  collocato  dinanzi  ad  esso  da  un  punto  di  vista  che  direi  più  obiettivo,  cioè  a  dire  con  più  piena  coscienza  di  quel  che  sia  il  divenire  linguistico  nel  suo  ritmo  e  nelle  sue  leggi.  E  anche  sotto  questo  rispetto  a  noi  pare  che  Cittadini  rappresenti  un  reale  progresso.  Ma  un  altro  reale  e  maggiore  progresso  è,  per  noi,  l'aver  agitato  il  problema  storico della  lingua  in  un  momento  in  cui  avveniva  la  finale  codificazione dell'osservazione  grammaticale  e  la  lingua  era  per  cristallizzarsi nel  vocabolario:  nel  momento  in  cui  l'uso  degli  scrittori fiorentini  del  Trecento  voleva  essere  imposto  a  tutta  Italia.  Egli,  a  differenza  di  quasi  tutti  i  senesi  che  propugnarono  il  senese col  medesimo  calore  con  cui  i  fiorentini  avevano  propugnato  il  fiorentino,  in  piena  concordia  con    stessi,  non  ebbe  prepotenti  predilezioni  municipali,  ma  come,  quegli  che  aveva  visto  più  addentro nella  formazione  e  nello  sviluppo  del  linguaggio  sotto  il  rispetto  esteriore,  storico,  mostrò  d'intendere  che  allo  scrittore  dovesse  esser  lasciata  una  maggiore  libertà  e  non  prescritto  uno  stampo  determinato,  e  tanto  meno  quello  d'un  particolar  dialetto, persuaso  che,  come  intitolava  il  §  3  del  lib.  I  della  sua  versione  del  trattato  dantesco,    il  Parlar  regolato  vuol  lungo  studio  .  Era  un  credo  grammaticale  questo,  ma  chi  lo  metta  in  relazione  e  con  lo  spirito  e  lo  sforzo  della  dottrina  dantesca  é  coi  convincimenti  che  si  può  formare  chi  studia  storicamente  e  non  grammaticalmente  la  lingua,  un  credo  assai  meno  irragionale di  quello  che  la  comune  grammatica  normativa  aveva  formulato,  e  veniva  così  a  risolversi  in  un'opposizione  a  questa.  Onde  possiamo  concludere  che,  se  nella  pura  storia  della  filologia  neolatina  in  Italia,   per  quanto  si  riferisce  alla  materia plagiata,  al  Cittadini  non  compete  altro  posto  che  quello  che  l'esame indistruttibile  del  Sensi  gli  ha  assegnato,  mentre  un  posto  assai  distinto  gli  va  assegnato  per  la  soluzione  e  per  il  più  esatto  orientamento  dato  non  solamente  in  termini  generali  al  problema  della  derivazione  dell'italiano  dal  latino  popolare,  in  una  storia  come  la  nostra  ne  spetta  al  Cittadini  uno  ben  altrimenti  onorevole, quello  di  chi  introduce  nella  grammatica  empirica  un  elemento  conoscitivo  e  un  criterio  meglio  che  puramente  grammaticale.   E  certo  è  a  lamentare  che  le  condizioni  critiche  e  letterarie  dell'età  impedissero  che  il  Cittadini  avesse  de'  continuatori  in  questo  indirizzo  non  certo  filosofico,  ma  storico  e  metodico  da  lui  impresso  alla  grammatica,  riallacciando  la  bella  tradizione  iniziata  dal  Bruni  e  dal  Biondo,  affermata  con  ricerche  analitiche positive  dal  Tolomei,  proseguita  con  molto  acume  intuitivo dal  Castelvetro.   Invece,  se  uno  studio  in  tutto  il  Seicento  e  non  in  questo  secolo soltanto  fu  trascurato,  si  fu  appunto  questo  della  grammatica storica.   E  per  converso  quanto  scarsi  guadagni  non  solo  dalle  contese prese  nel  loro  insieme  ("),  che  i  senesi  sostennero  contro  i  maggiori  avversari,  i  fiorentini,  ma  da  quelle  intorno  al  vocabolario, benché  non  trascurabili  come  segno  d'una  salutare  ribellione al  pedantismo  e  purismo  grammaticale,  e  dalle  opere  stesse  de'  grammatici,  benché  tra  esse  avremo  da  annoverarne  di  abbastanza originali  nel  loro  principio  ispiratore,  come  quelle  del  Baratoli, se  il  razionalismo  non  fosse  venuto  col  veicolo  della  gramma- [Qualche  continuatore  che  facesse  servire  le  idee  del  Cittadini  a  combatter  la  Crusca,  come  vedremo,  non  mancò;  ma  fu  azione  di  scarso  valore. Un  avversario  della  Crusca,  appunto,  ne  cantò  l'elogio funebre:  Orazione  per  l'esequie  del  dottor  Celso  Cittadini  recitata nelVAcc.  de'  Fi  toma  ti  da  Giulio  Piccolomini,  lettor  pubblico  della  toscana  favella.   In  Siena,  presso  il  Bonetti,   1628.   (•)  Tutta  la  loro  importanza  è  in  questo,  che,  facendo  esse  sorgere a  fianco  del  principio  fiorentinesco  quale  si  fosse  il  suo  valore storicamente  parlando    un  altro  principio,  quello  del  sanesismo,  non  meno  arbitrario  del  primo  rispetto  alla  realtà  del  linguaggio, venivano  implicitamente  a  corrodere  l'uno  e  l'altro,  o  almeno  a  sottoporli  a  una  discussione,  che  è  il  virus  della  corruzione  e  quindi  del  risanamento.    Capitolo  nono  291   tica  di  Poftoreale  a  scuotere  il  giogo  grammaticale  che  sarebbe  sceso  sul  collo  della  nazione  e  se,  per  quanto  inascoltata  e  incompresa, la  voce  del  Vico  non  si  fosse  levata  contro  l'empirismo  grammaticale,  essa  sola  bastevole  alla  gloria  d'un  secolo  e  d'una  nazione.  Poiché  questo  è  da  avvertire  qui,  che,  mentre  la  produzione grammaticale  cinquecentesca,  anche  a  non  voler  considerare i  meriti  suoi  verso  la  scienza,  fu  almeno  spontanea  e  nacque  dalla  diffusa  coscienza  della  importanza  della  nuova  letteratura  e  reca  perciò  in    l'impressione  spesso  calda  d'un  fatto  nuovo  che  interessava  grandemente  l'anima  italiana  e  d'un  bisogno  a  cui  occorreva  dare  una  qualsiasi  soddisfazione,  quella  del  Seicento  fu  in  generale,  per  quanto  concerne  specialmente le  vere  e  proprie  grammatiche,  piuttosto  fredda,  quasi  direi  di  testa,  di  riflessione.  Il  prototipo  ne  fu  per  la  parte  pratica  il  Buonmattei,  che  perciò  ebbe  più  seguito  di  tutti  i  predecessori  e  contemporanei,  e  distolse  altri  dal  tentar  cosa  nuova  o  diversa.   Il  Buonmattei  pubblicò  integralmente  la  sua  grammatica  nel  1643,  ma  l'aveva  già  tutta  distesa  circa  un  ventennio  avanti,  quando  n'ebbe  pubblicato  il  primo  libro,  e  cominciata  un  trentennio prima,  cioè quando  usciva  il  Trattato  del  Pergamini.   Prima  di  questo  anno,  oltre  il  Turavano  del  Bargagli,  le  Considerazioni  tassoniane,  un  discorso  del  Politi,  avemmo  un'Arte  di  puntare  di  Iacopo  Vit    //  Turammo,  ovvero  del  parlare  e  dello  scrivere  sauese,  del  cavaliere Scipione  Bargagli.  In  Siena,  per  Matteo  Fiorini  in  Bianchi.   Il  Cittadini,  come  c'informa  anche  il  Lombardelli,  vi  è  citato  con  molta  lode    si  per  la  formatione,  ò  piegatura  de'  verbi,    per  la  maniera  del  proferire,  e    per  la diversità  non  piccola  de'  vocaboli,  e  delle  forme  del  nostro  parlare  proprie,  chiare,  che  si  rendono  da  quelle  de'  vicini,  e  degli  strani  belle,  e  distinte,    anco  per  la  giocondità, ed  utilità  che  di  esse  s'è  udita  seguitare  .  I  fonti,  p.  116.  ')  Considerazioni  sopra  le    Rime  del  Petrarca.  Cfr.  O.  Baco,  Le,  ecc.   Firenze. Discorso  di  Lorenzo  Salvi  della  vera  denominazione  della  lingua  volgare  usata  da'  buoni  scrittori,  in  Le  Lettere  di  Adriano  Politi. In  Roma,  per  Iacopo  Mascardi. Dimostra che  si  deve  chiamar  volgare,  come  fu  chiamata  dagli  aurei  scrittori. Politi    diede   anche    avvertimenti    grammaticali    nella [torio  da  Spello),  un  Compendio  grammaticale  in  forma  eli  lessico  del  Salici    e  una  vera  e  propria  grammatichetta  assai  poco  nota,  Le  regole  per  parlar  bene  nella  lingua  toscana  di  Girolamo  Buoninsegni.   Del  primo  qui  accade  di  dover  dir  poco,  ma,  in  compenso,  quasi  e  in  certo  senso  tutto  in  sua  lode.  E  stato  già  osservato  dal  D'Ovidio  che  egli  superò  tutti  i  compagni  d'arme  senesi  (Bulgarini  ,  Lombardelli,  Benvoglienti  ,  Cittadini)  nell'audacia di  un  radicale  concetto  d'autonomia,  e,  che  in  suon  diverso  dice  lo  stesso,    [rispetto  al  primato  fiorentino,  almeno nel  fatto  più  o  meno  riconosciuto  perfin  dal  Gigli,  tra  i  senesi  così  ribelle],  solo  Ini,  il  Bargagli, col  pesante  dialogo  del  Turammo,  sostenne,  con  tranquilla  cortezza  e  con  pieno  accordo  della  teoria  con  la  pratica,  che  come  in  Grecia  così  in  Toscana  ciascuno  scrivesse  nella  loquela  propria,  senza  impacciarsi  nell' affettazione   d'imitare  l'altrui  (p.  204):  il  che    giunta  al  suo  Dizionario  Toscano,  scritto  in  opposizione  alla  Crusca,  stampato  la  prima  volta  nel  1614  e  poi  in  Venezia  per  Andrea  Babà,  1629:  v.  Diz.  Tose,  di  A.  P.  con  la  giunta  di  assaissime  voci  e  avvertimenti necessari  per  iscrivere  perfettamente  Toscano.  In  Venezia,  appresso Giovanni  Guerigli  e  Francesco  Bolzetta,   1615,  II  ed.     Jì/odo  di  puntare  le  scritture  volgari  e  latine.  In  Perugia,  per  Vittorio  Colombara,   1608.   (-)  Compendio  d'utilissime  osserva/ioni  nella  lingua  volgare  di  D.  Gio.  Andrea  Salici  di  Como,  di  nuovo  ristampalo,  ricorretto,  et  accresciuto dall'  Autore.  In  Venezia,  MDCVII,  presso  Altobello  Sali cato. In  Siena. Gerini  si  maraviglia che  ne  tacciano  il  Tiraboschi,  lo  Zeno,  il  Cinelli  (Bibl.  volante),  il  Morelli (Bibl.  stor.-rag.  della  Tose.),  l'Inghirami  (SI.  d.  Tose.).  Domandò  di  supplire  il  Cittadini  nella  cattedra  senese  (cfr.  Archivio  Mediceo,  Gov.  di  Siena,  filza,  1942,  cit.  dal  Gerini).  Il  Casotti  nella  Vita  del  Buonmattei  accenna  a  un    Tommaso  Buoninsegni. B.,  per  occasione  di  considerare  V Inf.,  il  Purg.  e  il  Par.  di  D.  e  di  difender    stesso,  o  di  censurar  certi,  che  l'oppugnavano,  esamina  varie  cose,  attenenti  a  questa  lingua,  con  ben  intesi  discorsi  .  Lombardelli,  /  fonti,  p.  51.  Criticato  dallo  Zoppio  si  difese  da    e  fu  difeso  dal  Borghesi. Considerazioni,  Repliche  alle  risposte  del  sig.  Orazio  Capponi,  Risposta  ai  ragionamenti  del  sig.  Peroni n/o  Zoppio. Opuscoli  diversi  sopra  la  lingua  italiana,  raccolti  da  F.  Idelfonso  di  S.  Luigi,   Firenze,   1771.    Capitolo  nono  293   nel  sentimento  comune  è  manifesto  e  grossolano  errore.  Noi  siamo  naturalmente  di  diversissimo,  se  non  opposto,  avviso,    il  sorriso  che  vediamo  spuntar  sul  labbro  de'  più,  ci  trattiene  dall' apertamente  affermare  che  nel  pensiero  del  Bargagli  questo  vidi  errato,  che  si  dia  forma  di  precetto  a  ciò  che  è  invece  un  fatto.  Tutti  scriviamo  nella  loquela  che  ci  è  propria,  cioè  in  quella  che  la  nostra  educazione  e  la  nostra  cultura  ci  hanno  formato, o  meglio  quella  che  con  esse  s'è  formata  in  noi:  chi  fa  altrimenti, fa  male  e  cade  appunto  nell'affettazione:  il  danno  sorge  quando  dell'osservazione  d'un  fatto  se  ne  fa  una  norma  più  o  meno  arbitraria.  Il  Bargagli,  lungi  dall'essere  il  più  paradossale,  fu  il  più  logico  di  tutti,  in  quanto  sostenne  quel  che  sostenne:  solo  non  doveva  appunto  cavar  da  un'osservazione  di  fatto  una  legge,  intendendo  per  loquela  propria  il  nostro  particolar  dialetto  nel  senso  stretto  e  angusto  della  parola.  Pel  resto,  il  suo  principio  affermato  appunto  in  tutta  la  sua  crudezza  e  assolutezza  era,  nel  fondo,  il  risultato  della  profonda  ribellione  che  egli  sentiva  per  la  grammatica,  ma  che  non  si  rendeva  ben  chiara  a    stesso  e  ragionava  e  propugnava  da  un  punto  di  vista  empirico  e  però  di  scarsa  portata  filosofica.   Ai  medesimi  principi  del  Bargagli  giungeva  un  anno  dopo  per  diversa  via  e  senza  intenzione  certo  di  copiarlo,  un  altro  suo  concittadino,  il  Politi,  in  quello  de'  due  suoi  discorsi  sulla  lingua  che  serve  d'introduzione  al  suo  TACITO (si veda)  tradotto e  nel  suo  Dizionario  Toscano.  Infatti  egli,  come  anche  si  rileva  da  una  lettera  del  Pergamini  che  lo  Zeno,  correggendo  il  Fontanini,  dice  riferirsi  a  questo  non  già  all'altro  suo  Discorso, dove  solo  parla,  sotto  lo  pseudonimo  di  Lorenzo  Salvi,  della  vera  denominazione  della  lingua  volgare  usata  da'  óuoni  scrittori,  vi  sostiene  doversi:  1"  scrivere  alla  Sanese  senza  obbligarsi ai  fiorentini;  2"  accomodarsi  all'  idioma  della  sua  patria  e  all'uso  comune  regolato  però  dal  giudizio.  E  poiché  non  approvava il  gergo  della  traduzione  del  Davanzati,  in  fine  alla  propria  mise  la  dichiarazione  delle  voci  meno  intese  e  vi  sostituì  le  comuni:   un  dizionarietto,   dunque,  sanese-italiano.   Un  altro  letterato  di  certo  libere  vedute,  il  Tassoni,  che  incontriamo  spesso  in  tutta  la  prima  metà  del  sec.  XVII  e  che  qui  si  presenta  per  le  Considerazioni  sulle  Rime  del  Petrarca,  interessa  più  la  storia  della  poetica  che  non  quella  della  grammatica. Lo  ritroveremo  oppugnatore  dell'Accademia   nell'opera    294  Storia  della  Grammatica   concreta  del  Vocabolario  ,  come  in  esse  Considerazioni  lo  vediamo schernire  la  Fabbrica  dell'Alunno,  che  dice  costruita  di  mattoni  malcotti.  In  complesso,  per  le  sue  spicciolate  osservazioni grammaticali  disseminate  qua  e    un  po'  da  per  tutto,  egli  ci  si  manifesta  non  troppo  tenero  amico  della  grammatica.  Di  che  dobbiamo  contentarci.   Di  Iacopo  Vittorio  di  Spello  e  Girolamo  Buoninsegni  che  diedero  opera  alla  grammatica  propriamente  precettiva  e  didattica, basti  aver  ricordato  il  nome,  e  così  del  Salici,  il  quale  di    stesso  dice  che    con  quella  chiarezza,  e  brevità  e'  ha  potuto  maggiore  è  andato  discrivendo  l'alterationi,  i  vari  sensi,  le  radduplicationi,  che  patiscono  le  lettere  dell'Alfabeto,  così  l'uso  de'  pronomi,  delle  prepositioni,  e  de  gli  avverbi,  il  tutto  comprobando  con  autorità  de'  più  classici  scrittori,  che  scritto  habbiano  in  lingua  Italiana,  o  Toscana,  che  diciamo    ('").   Meglio  che  con  questi  trattatelli,  ritorniamo  nel  dominio  della  vera  grammatica  precettiva  con  Jacopo  Pergamini  di  Fossombrone.   La  grammatica  (s)  del    Perganini,   il    noto    compilatore    del [Le  Atinotazioni  sopra  il  vocabolario  degli  Accademici  della  Crusca,  Venezia,  169S,  ormai  è  noto  che  .non  sono  del  Tassoni,  ma  dell'OTTONELLi,  che  fu  grammatico  celebrato  a'  suoi  tempi  da  quanto  il  Bembo.  Perduti  sono  i  suoi  quattro  libri  di  ragionamenti  in  difesa  del  Tasso;  degli  Arringhi  abbreviati  per  lo  vocabolario  della  Crusca  resta  qualche  frammento;  e  restano  anche  alcune  postille  al  Pergamini nell'Estense.  Un  esemplare  del  Voc.  della  Crusca  si  trova  all'Est.  postillato  di  mano  del  Tassoni,  che  scrisse  di  lingua  anche  ne  Pensieri diversi. E  un  misto  di  grammatica,  di  ortografia,  di  sinonimia  e  doppioni, d'etimologia,  disposto  in  ordine  alfabetico.  Sulle  due  facce  nel  margine  superiore  del  libretto  è  perpetuamente  ripetuto  Ortografia  volgare.  Ma  l'ordine  alfabetico  non  vi  è  per  nulla  rispettato,  e  il  criterio etimologico  de'  vari  raggruppamenti  è  troppo  balordo  per  prenderlo sul  serio.  Sotto  Posporre,  p.  es.,  troviamo,  ma  non  questo  soltanto. Possa,  Possessione,  Pozzuoli,  Prestezza,  Prezzemolo,  Procaccio,  Processione,   Prossimo,   Pulcella,   Pupillo,   Puzza.   (3)  Trattato  della  lingua  del  signor Pergamini  di  Fossombrone, nel  quale  con  una  piena,  e  distinta  Instruttione  si  dichiarano  tutte  le  Regole,  i  Fondamenti  della  Favella  Italiana.  In  Venetia,  presso  Ciotti;  e  in  Venezia,  per  Niccolò  Pezzana,  1664.  Tra  questi  limiti  estremi,  si  ebbero  altre  edizioni:  quella  del  17  qui  appresso  accennata  con  un  Supplimento  di  voci  d'autori  moderni,  fatta  per  consiglio  del  Politi,  la  terza  del  1657  con  un'altra  Aggiunta  di  mille  e  più  voci  tratta  da  celebri  autori  contemporanei,  opera  di   Paolo  Abriani.    (  'aditolo  nono  295    Memoriale  della  lingua  ('  ),  è  un  primo  tentativo  di  ridurre  a  metodo  per  uso  scolastieo  ilei  principianti  le  più  ampie  e  e  spesso  farraginose  trattazioni  precedenti.  Si  divide  in  tre  parti,  suoni,  parti  del  discorso,  accenti  e  punti,  e  conserva  su  per  giù  le  medesime  categorie,  tranne  che  tra  le  parti  '  invariabili  '  dell'Oratione  include  una  classe  di  'Particelle'  che  si  usano  solo  per  vaghezza,  et  ornamento  senz'altro  significato:  delle  quali  alcune  servono  per  principio  di  ragionare:  altre  si  pongono  per  entro  il  ragionamento  come  Egli,  E',  Bene,  Hor,  Ne,  Ci,  Si  .  Del  nessun  interesse  per  la  funzione  logica  delle  categorie può  esser  prova  anche  quel  che  dice  del  gerundio:    E  lasciando da  parte  il  motivo,  che  fanno  alcuni,  se  gerondio  sia  parte  formale  dell'oratione,  o  più  tosto  membro  del  Partecipio:  il  che  per  mio  credere,  monta  poco,  o  niente.  Dico  prima,  ch'ogni  Verbo  ha  ordinariame?ite  il  suo  Gerundio;  e  di  rado,  o  non  mai  n'è  senza  .  Meglio  ancora  appare  dalle  definizioni:    La  quarta  Parte  principale  dell'oratione  è  il  Verbo,  il  quale  congiunto  co'l  Nome  fa  il  parlare  intero,  gli  Accidenti  del  Quale  sono  Genere:  Tempo:  Modo:  Numero:  Persona:  e  Maniera  .  Insomma è  conservato  tutto  lo  schematismo,  ma  ridotto  a  semplici  e  nudi  cartellini  per  raggrupparvi  le  forme,  delle  quali  peraltro  non  si  da  più  che  l'esempio.  Il  metodo,  infine,  è  inteso  proprio  alla  rovescia:  il  proposito  di  semplificare  la  trattazione,  rendere il  libro  facile  e  di  pronto  uso  conduce  l'autore  non  già  a  cercare  una  razionale  disposizione  della  materia,  ma  ad  ammucchiare i  fatti  con  procedimento  del  tutto  meccanico,  a  portare  il  vocabolario  nella  grammatica.  Parlando,  p.  es.,  della  Vocale  A,  osserva  che  è  '  fine  ordinario  delle  voci  femminili  nel  numero del  meno  ',  segno  del  caso  Terzo,  e  Quarto  del  Nome,  e  del  Numero  del  meno:  segnato  hor  coli' Accento    Grave;    hora  [Venezia,  Ciotti,  1601.    Questo  Memoriale  ebbe  una  certa  fortuna.  E  consigliato  da  G.  V.  Gravina  in  Regolamento  degli  studi  di  nob.  e  vai.  donna  nella  Nuova  race,  Napoli;  TIRABOSCHI (si veda) lo  dice  il  migliore  di  quanti  ne  furon  pubblicati  nel  sec.  XVI,  benché  uscito  in  luce  nel  1601.    Sul  Pergamini,  Ferruccio  Benini,  La  vita  e  le  opere  di  Giacomo  Pergamini  con  scritti  inediti  [postille  al  yJ/razio?ii  e  il  discorso.   Par  qui  giustificare  la  Declinai,  de'  Verbi  del  Buonmattei  che  il  Dati  accolse  nella  prima  ediz.  e  a  cui,  nella  seconda,  fece  seguire la  declinazione  de'   Verl>i  anomali.] tedre  di  lingua  toscana,  destinandovi  Professori  di  vaglia,  e  di  abilità  conosciuta.  I  buoni  scrittori  toscani  di  questi  ultimi  tempi,  come  oltre  allo  stesso  Dati,  il  Redi,  il  Segneri,  il  Buonaroti,  i  due  Salvini,  e  parecchi  altri,  han  conosciuta  questa  verità,  e  se  ne  sono  approfittati  confessando  che  non  basta  il  nascimento  a  voler  scrivere  purgatamente,  ma  che  bisogna  aggiungervi  studio  e  fatica  .  E  per  la  preminenza  del  volgare  sul  latino  asserita dal  Dati  secondo  il  Fontanini,  lo  Zeno  aggiungeva:    Il  Dati  non  mette  ne  troppo    molto  la  lingua  volgare  sopra  la  latina  per  via  di  sofismi;  ma  solamente  dice  che  in  questa  scriveremo  sempre  imperfettamente  con  tutto  che  ci  durassimo  grandissima  fatica,  e  che  in  quella,  cioè  nella  volgare,  si  arriverà  facilmente  alla  perfezione  (pp.  130-1).  Anche  qui,  oltre  quella  coscienza  della  letteratura  nazionale  cui  più  volte  alludemmo,  si  sente  appunto l'eco  delle  Battaglie  del  Muzio  in  difesa  della  italiana  lingua  contro  i  caldeggiatori  del  latino,  che  pare  non  si  sentissero del  tutto  debellati,  se  osavano  ancora,  come  indirettamente  il  Fontanini,  rialzare  il  capo.  Ma  nella  necessità  dello  studio  e  delle  regole  il  Fontanini  e  lo  Zeno  concordavano,  e  con  essi  tutti  i  vincolati  in  un  modo  o  in  un  altro  all'Accademia,  la  quale  appunto,  non  solamente  con  l'opera  concreta  del  Vocabolario  reggeva  o  credeva  di, reggere  i  freni  degli  scrittori,  ma  con  l'autorità  morale  che  le  veniva  dalla  sua  stessa  compagine,  dalla  funzione  che  in  tempi  accademici  si  svolgeva  con  il  rispetto  è  l'ammirazione  de'  più,  e  ancora  dall'appoggio  del  governo  granducale. Il  ristamparsi  de'  discorsi  in  cui  si  sosteneva  la  necessità delle  regole  è  altro  indizio  della  fede  che  esse  riscotevano.  Le  Osservazioni  dello  Strozzi,  incorporate  nella  raccolta  del  Dati  e  ricomparse  nella  seconda  edizione  d'  esse,  vedevano  la  luce  anche  separatamente,  come  s'è  visto:  l' istesso  discorso  del  Dati  fu  stampat o  almeno  tre  volte.  E  l'aver  accolto  nella  seconda edizione  la  Declinazione  de'  verbi  anomali  del  Buonmattei  e  la  Costruzione  irregolare  del  Menzini  e  un  discorso  del  medesimo  sopra  le  figure  grammaticali  (pleonasmo,  ellissi,  zeumma,  iperbato,  ecc.);  insomma  quanto  sapeva  d'irregolare,  che  veniva  poi  giustificato  con  criteri  rettoria  e  l'autorità  degli  scrittori,  conferma  gli  scopi  di  questa  nuova  campagna  che  il  Dati,  nell'ambito  dell'azione  della  Crusca,  tenacemente  batteva.  Ma  con  eguale  e  forse  con  maggiore  baldanza  combattevano gli  avversari,  e    segnatamente  il    Bartoli,    proclamando   il    Capitolo  undicesimo  339   principio  dell'  indipendenza  individuale  in  relazione  al  buon  gusto,  la  nuova  parola  che  s'era  fatta  strada,  segnacolo  d'una  tendenza  molto  significativa.  L'editore  del  1709  delle  Osservazioni del  Cinonio  giustifica  il  poco  spaccio  della  prima  edizione  d'  esse  COIl  la  decadenza  del  buon  gusto,  e  la  ricerea  che  poi  se  ne  lece  verso  il  1659,  quando  le  iurono  nuovamente  ristampate, col  risveglio  di  esso  buon  gusto.    Destandosi  però  di  quando  in  quando  l'intorpidito  Buon  gusto,  andavasi  cercando   quest'opera e  se  ne  vide  nel  1659  la  più  attesa  divulgazione.   Nel  1655,  come  avvertimmo,  uscivano  CL  Osse?-vazioni  del  p.  Daniello  Bartoli,  cresciute  nel  57  a  CLXXV,  nel  68  (*)  a  CCLXX,  e,  dopo  altre  ristampe,  ripubblicate  (:)  con  copiose  osservazioni di  Niccolò  Amenta,  che  muove  al  Bartoli  molte  eccezioni, e  poi  del  Cito,  nipote  dell' Amenta,  che  ne  rincara  la  dse  (;!).   Il  libro,  dice  D'Ovidio,    non  è  che  un'argutissima  e  dotta  polemica  grammaticale  e  lessicale  contro  i  divieti  capricciosi  de'  linguai,    tocca  la  questione  generale  [della  lingua]  se  non  in  quanto,  sottintendendo  il  primato  toscano  ma  badando  piuttosto  alla  tradizione  letteraria,  loda  e  compie  la  Crusca  .  Ma  pare  per  lo  meno  che  quello  del  Bartoli  fosse  un  ben  curioso  modo  di  lodare  e  di  compire  la  Crusca.  Già,  chi  erano  ormai  que' linguai contro  i  cui  capricciosi  divieti  argutamente  e  dottamente  polemizzava il  Bartoli,  se  non  accademici  della  Crusca  o  cruscanti?  Poi,  che  rimanevan  più  il  primato  toscano  e  la  tradizione  letteraria, ammessi  pure  e  rispettati  dal  Bartoli,  d'accordo  in  questo,  ma  in  questo  solo  con  la  Crusca,  cioè  in  un  riconoscimento  a  parole,  quando,  non  solo  si  sarebbe  dovuto  ammettere  con  lui  che    //  Torto,  e  '/  Diritto  del  ?ion  si  può,  dato  in  giudizio  sopra  molte  regole  della  lingua  italiana,  esaminato  da  Ferrante  Longobardi.   In  Roma,  per  lo  Varese,  1668,  8".  Il  Bartoli  si  difese  con  Y  Apologia.   In  Napoli,  per  Antonio  Abri,  171 7.  (3)  //  torto  e  '/  diritto  del  non  si  può,  dato  in  giudizio  sopra  moltiregole  della  lingua  italiana  esaminato  da  Ferrante  Longobardi  cioè  da  P.  I).  B.  Colle  osservazioni  del  sig.  Niccolò  Amenta,  e  con  altre  annotazioni  dell'ab.  sig.  \).  Gius.  Cito.  Aw.  Napoletano.  In  Napoli,  1728,  a  spese  di  Niccolò  Rispoli,  e  di  Felice  Mosca.  Voli.  3.    34°  Storia  della  Grammatica   anche  i  migliori  trecentisti  scrissero  non  di  rado    fuori  di  regola ,  e  che  era  dunque  stolta  baldanza  il  censurar  vocaboli  e  locuzioni  sol  perchè  non  approvati  dall'  autorità  degli  scrittori del  buon  secolo,  cioè  a  dire  della  Crusca;  che  i  non  Toscani avrebbero  meglio  provveduto  a    stessi  col  latineggiare  un  po'  di  più,  anziché  ostentare  idiotismi  d'accatto,  che  era  un  allontanarsi  dal  codice  dell'Accademia;  ma  si  fosse  anche  dovuto riconoscere  con  lui  che    un  principio  onde  regolare  bene  il  parlare    non  esisteva:    non  le  decisioni  de'  grammatici,  non  l'uso  del  popolo  o  de'  più  eletti,  non  l'autorità  degli  scrittori,  non  la  prerogativa  del  tempo,  non  l'etimologia,  non  l'analogia...   esser  veri  principii,  ma  or  l'uno  or  l'altro  di  questi  principi  aver  forza,  ma  più  di  tutti  l'arbitrio  dello  scrittore?!  Meno  inesattamente  lo  Zambaldi  così  ebbe  a  parlare  de'  due  libri  del  Bartoli,  che,  per  il  loro  contenuto  più  ristretto  all'ortografia, non  perdono  valore  di  fronte  ai  principi  generali  linguistici e  grammaticali:    Press'a  poco  le  stesse  idee  [degli  oppositori Toscani]  furono  sostenute  nel  sec.  seguente  da  Daniello  Bartoli  in  quel  libro  singolare  che  s' intitola  il  Torto  e  il  Diritto del  non  si  può,  dove  in  mezzo  a  molti  paradossi  trovi  gran  libertà  di  giudizio  e  mirabile  erudizione.  Egli  ordinò  poi  la  sua  dottrina  nel  Trattato  dell'  Ortografia  (1),  dove  dice  che  questa  deve  seguire  tre  principi:  V autorità,  la  ragione,  Yuso.  Ma  essendo spesse  volte  questi  principi  in  contradizione  l' uno  con  l'altro,  lo  scrittore  dovrà  usare  il  suo  giudizio,  e  talvolta  anche  l'arbitrio....  Il  Bartoli,  nel  combattere  il  dominio  assoluto  della  pronunzia  toscana  e  certe  regole  troppo  esclusive  della  Crusca,  ebbe  forse  l'intuizione  vaga  e  confusa  d'un  principio  vero;  ma  non  seppe  trovare  i  giusti  limiti  fra  il  regno  dell'uso  e  quello  dell'etimologia,    dare  stabile  fondamento  all'uno  e  all'altro. DclP ortografia  italiana  trattato  del  P.  D.  B.  In  Roma,  per  Ignazio  de'  Lazzeri,  1670.    Questo  trattato  fu  ristampato  più  volte  anche  in  tempi  vicini  a  noi:  p.  es.,  a  Milano,  per  Giovanni  Silvestri,  e  Reggio,  Torreggiani.   Il  Foffano,  op.  cit.,  p.  303,  ricorda  che  non  si  ha  più  notizia  dell'operetta  disegnata  dal  Bartoli,  delle  proprietà  o  per  così  dire  passioni  di  '  z,  ibi,  cit.  nell' Apologia,  p.  18.    Capi/o/o  undicesimi)  341    A  noi  quest'  insufficienza  riesce  meno  condannevole  di  quanto  sia  sembrato  e  possa  ad  altri  sembrare.  Il  Bartori  era  quello  che  oggi  si  chiamerebbe  uno  stilista,  un  affine  a Annunzio  descrittore:  uno  scrittore  insomma  di  quelli  che  esauriscono  tutta  la  vitalità  del  loro  pensiero  nella  tranquilla,  olimpica  contemplazione degli  oggetti  esteriori,  moltiplicandosi  il  godimento  e  il  diletto  con  l'accarezzare  minutamente  le  proprie  immagini,  le  risonanze  varie  che  essi  stessi  si  sono  destati  nell'anima.  Per  siffatti  scrittori  la  forma  è  più  che  mai  tutto  ciò  che  l'interi  è  essa  per  se  la  sostanza  dell'arte  loro.  E  naturale  che  siffatti  scrittori  sdegnino  più  d'ogni  altro  il  treno  delle  regole  e  proclamino la  indipendenza  assoluta  del  loro  giudizio,  o,  meglio,  la  necessità  dell'arbitrio.  L'arbitrio  per  essi  è  la  libertà.  Nel  fatto  tutti  i  veramente  scrittori  hanno  sentito  e  praticato  un  tale  principio,  perchè  questa  è  la  natura  dell'arte,  checche  dicano le  poetiche.  Ma  dai  temperamenti  artistici,  a  cui  alludevamo, è  maggiormente  sentito  il  bisogno  di  regolarsi  nell'espressione esteriore  secondo  il  tumultuare  e  il  fluttuare  interno  delle  immagini,  delle  armonie,  dei  colori.  E  arbitrario  e  tirannico oltre  che  inutile  è  il  chiedere  ad  essi,  come  per  un'altra  simile  questione  ho  osservato,  che  si  tengano  alle  norme  in  cui  i  grammatici  e  l'uso  moderno  ormai  convengono:  essi  andranno  sempre  per  la  loro  strada,  indulgendo  al  loro  genio:  anche  quella  che  in  loro  è  evidentemente  ricerca  dell'effetto  stilistico  formale,  è  in  fondo  un'attività  che  ha  radice  nel  loro  particolare  atteggiamento  artistico.  La  loro  grammatica  è  la  loro  natura  artistica :  regolarsi  secondo  detta  dentro,  caso  per  caso:  c'è  chi  si  forma  un  suo  sistema  particolare  al  quale  strettamente  s'attiene,  perchè  non  solo  non  gl'impedisee  la  libera  estrinsecazione  delle  sue  forme  interiori,  ma  corrisponde    pienamente  ad  esse  che  il  non  seguirlo  sarebbe  farsi  violenza:  Annunzio  è  di  questi.  C'è  chi  si  fa  un  sistema  del  non  seguirne  alcuno  per  lasciarsi  trasportare  in  ogni  singolo  problema  formale  dalle  esigenze  del  momento,  sicché  l'attenersi  a  una  regola  per  quanto  liberamente  impostasi  sarebbe  un  violentarsi,  e  di  questi  è  il  Bartoli.  Il  quale  mi  par  che  abbia  formulato  l'unico  principio  didattico  che  possa  conciliarsi  con  la  libertà  e  l'indipendenza  dell'arte,  che  non  ne  tollera  alcuno:  principio  che  viene  a  concordanza  piena  con  quanto  scaturisce  d'  insegnamento  per  la  pratica  e  l'esercizio  dello  scrivere  da  una  recente  polemica    sull'Idioma   gentile    del De  Amicis.  A  chi  obiettava  recentemente  al  Croce  che  la  sua  tesi  circa  i  precetti,  illustrati  dal  De  Amicis  nel  suo  libro,  per  l'apprendimento  delle  lingue  e  l'arte  dello  scrivere,  sarebbe  stata  la  più  gradita  ai  discepoli,  perchè  li  dispensava  da  qualsiasi  studio,  il  Croce,  tra  le  maraviglie  di  chi  non  riusciva  a  vedere  come  si  potesse  accordare  con  la  teoria  l'utilità  di  una  pratica  che  in  teoria  non  è  giustificata,  rispondeva  affermando  l'utilità  dell'esercizio  pratico  e  pienamente  giustificando  la  comodità  dell'empirismo .  Ora  il  Bartoli  nella  prefa,2Ìone  al  suo  Trattato  del? ortografia,  con  acutezza  e  precisione  veramente  sorprendenti  e  in  tutto  degne  d'una  veduta  estetica  superiore,  scriveva:      niun  v'è,  il  quale,  per  quantunque  professi  e  vanti  di  tenersi  strettissimo  alle  osservanze  dello  scrivere  regolato,  di  parecchie  maniere  che  userà,  possa  allegare  altra  più  vera  cagione  che  il  così  parergli,  e  così  aggradirgli;  e  chi  più  studierà  in  questa  professione,  ogni    meglio  intenderà  non  potersene  altrimenti.  Dal  che  due  cose  a  me  par  che  ne  sieguano:  l'ima,  che  mal  si  farebbe,  riprovando  in  altrui  quel  che  si  vuol  lecito  a    stesso:  l'altra,  che  v'  ha  due  strade  possibili  a  tenersi,  da  chi  ama,  non  solamente  di  scrivere  regolato,  ma  sufficientemente  difeso;  cioè:  Dare  una  volta  quanto  è  bisogno  di  studio  a  comprendere  interamente la  materia,  e  tutte  averne  davanti  le  necessità  e  gli  arbitri,  le  diversità  e  le  somiglianze,  le  strettezze  e  le  larghezze,  i  perchè  a  gli  usi,  così  moderni,  come  antichi:  in  somma  quanto  (fino  a  una  conveniente  misura) può  dirsene  e  sapersi:  e  così  INFORMATO SENZA  PIÙ  CHE    STESSO,  E  IL  SUO  BUON  GIUDICIO  seco,  farsi  da    medesimo  un  dettato  d'ortografia,  secondo  il  saviamente partitogli  più  convenevole  ad  usarsi,  e  più  sicuro  a  darne,  bisognando,  ragione  a  chi  ne  l'addimandasse.  E  a  questo  intendo  io  che  abbia  a  servire  {se  può  bastare  a  tanto)  il  presente  Trattato.  L'altra  via  è  [ma  questa  non  è  da  lui  evidentemente  preferita,  anzi  il  modo  stesso  con  cui  l'enuncia  par  tirare  a  metterla (piasi  in  ridicolo],  del  non  prendersi  maggior  noia  e  fatica  che  di  leggere,  e  far  sue  le  regole  che  questo  o  quell'altro  buon  maestro  in  professione  di  lingua  avrà  dettate;  e  fon  esse  in  mano,    seguitarlo  a  chiusi   occhi.    E  se    altri    l'addimandasse  del    Croce  in   La  Critica,  IV,  S9  sgg.,  e  Y,    71  sgg.   I   V.   anche  del   Crock,   //  padrone g giumento  della  Scenica,  in  La  Critica. perchè)  ili  qual  che  sia  particolarità  del  suo  scrivere,  soddisfare  a  tutto  con  quella  sola  e  universale  risposta  che  è  l'antichissimo  Ipse  dixit.  Ma  questo  non  dovrà  mica  voler  più  avanti  che  uso  proprio:  non  per  ardirsi  a  far  dell'arbitro,  e  diffinitore  del  Così  va  riè  si  de'  altrimenti;  non  sapendo  non  che  le  cagioni  dellWtrimentì  che  può,  e  per  avventura  dee  farsi,  ma    pure  il  perchè  dee  così  far  egli,  se  non  il  così  far  ch'egli  siegue;  come  appresso  Dante  le  pecorelle,  (piando  escon  del  chiuso,   E  ciò  che  fa  la  prima,   e  l'altre  tanno,   Addossandosi  a  lei  s'ella  s'arresta   Semplici  e  chete,  E  lo  perchì-:   non  sanno  .   In  tutto  questo  discorso  mi  par  che  questo  pensiero  si  rilevi  chiaramente:  si  studi  la  grammatica  e  si  facciano  esercizi  grammaticali, ma,  poi,  nell'espressione  non  se  tenga  alcun  conto,  lasciando piena  libertà  al  proprio  buon  genio.  Il  che  ha  una  portata maggiore,  filosoficamente  parlando,  di  quel  che  gli  sia  stata  fin  epti  riconosciuta,  benché  il  Bartoli  non  muova  da  un  determinato sistema:  era  il  buon  senso  dello  scrittore  che  lo  rendeva  ribelle  alle  regole,  e  il  suo  gusto  particolare:  sicché  egli,  e  per  questa  ribellione  e  per  la  motivazione,  rappresenta  un  progresso  perfino  sulla  dottrina  che  seguirono  il  Buonmattei  e  il  Cinonio.  Questi  parlavano  di  ragione:  egli  affermava  l'esigenza  del  gusto,  accordandosi  così  ai  tempi,  ne'  quali  appunto  si  veniva  scoprendo un'altra  facoltà  diversa  dalla  ragione,  che  presiedeva  alla  produzione  dell'arte:  la  fantasia:  non  era  certamente  ancora  la  scienza:  era  il  lievito  che  la  veniva  fermentando.  La  dottrina  del  Bartoli  aveva  in    un  po'  di  questo  lievito:  e  questo  è  il  suo  merito  principale  (?).   E  lievito  è  anche  quel  curioso  libro  del  Vincenti  che  s'  intitola 7/  '  ne  quid  nimis'  della  lingua  volgare  nelle  Regole  più  praticabili  e  principali:  ( !)  dove,  tra  tante  bizzarrie  e  anche  balordaggini specie  nella  motivazione  della  sua  indifferenza  per  l'uso  di  questa  o  quella  parola  sostanzialmente  identica,  si  pro    Milano,  per  Giovanni  Silvestri. Croce,   Est.     Storia;,   III,   p.   209.   opera  non  volgare,  Roma,  per  [gnatio  de  Laz,  nel  1665.  Cfr.  C.  Trabalza,  Un  curioso  criterio  stilistico  d'un  grammatico  secentista, in  Sludi  e  Profili,  Torino,    1903,   p.   Sr   sgg.    344  Storia  del/a  Grammatica   pugna  un  concetto  di  indipendenza  dalle  strettezze  della  grammatica pedantesca.   Una  ben  curiosa  apparizione  moveva  ancora  contro  la  lingua  fiorentina    come  già  nel  Cinquecento con  Mario  d'Aretio    dalla  Sicilia,  dove  la  tradizione  del  primato  poetico  dugentesco  è  durata  si  può  dir  sino  a  ieri  nella  coscienza  di  grammatici  e  critici:  vedremo,  del  1836,  una  Glottopedia  italo-sicida  o  grammatica italiana  dialettica:  ora,  dunque,  cioè  nel  1660,  Antonino  Merello  e  Pio  Mora  in  un  Discorso  che  fa  la  lingua  Vulgate  dove  si  vede  il  suo  nascimento  essere  siciliano  facevano  che  la  lingua  siciliana,    vedendo  svaleggiata  la  sua  cittadinanza  da'  fiorentini,  che  Toscana,  s'appellano  (p.  5),  insorgesse  contro    la  vana  petolanza  della  Toscaneria,  eccitando  i  siciliani a  non  starsene  neghittosi.  E  due  anni  dopo  in  un  nuovo  Discorso  dove  si  mostra  che  la  Sicilia  sia  stata  Madre  non  solo  dello  scrivere,  e  poetare,  ma  anco  della  lingua  volgare^,  dicevano :    Eche  habbia  la  lingua  volgare  gran  parte  della  lingua  greca,  leggete  il  Discorso  di  Ascanio  Persio,  e  negavano  all'Allacci che  la  Sicilia  sia  stata  solamente  genetrice  del  rimare  e  poetare.   Più  rispettoso  verso  la  Crusca  par  mostrarsi  lo  Sforza  Pallavicino, a  cui  dobbiamo  alcuni  Avvertimenti  grammaticali  per  chi  scrive  in  lingua  italiana,  dati  in  luce  dal  p.  Francesco  Rainaldi  della  Compagnia  di  Gesù  (!)  nel   1661  e  più  volte   ristam  i   Messina,    1660,   per  Paolo  Bonacata.   !  In  Cosenza,  per  Gio:  Battista  Mojo  e  Gio:  Battista  Rossi,  M  DC  LXII.  In  questo  oltre  li  Osservanti  dell'Aretio,  si  cita  un    D  iscorso che  la  Ungila  italiana  hebbe  nella  Sicilia  il  suo  nascimento    di  Francesco  Pio.    Il  FOFFANO,  attingendo  al  Mongitore,  ricorda  un  7)iseorso  di  Luigi  La  Farina,  in  cui  si  prova    la  lingua  siciliana  esser  madre  dell'italiana, dove  anche  è  citato  un  BRUMALDI  (Montalbani),  che  ne  iscorso che  la  Ungila  italiana  hebbe  nella  Sicilia  il  suo  nascimento    di  Francesco  Pio.   Il  FOFFANO,  attingendo  al  Mongitore,  ricorda  un  7)iseorso  di  Luigi  La  Farina,  in  cui  si  prova    la  lingua  siciliana  esser  madre  dell'italiana  ,  op.  cit.,  p.  299,  dove  anche  è  citato  un BRUMALDI  (Ovidio  Montalbani),  che  ne l  suo  Vocabolista  bolognese (Bologna,  1660)  pretese  dimostrare  che  il  dialetto  di  Bologna  è  da  considerarsi  come  la    madre  lingua  d'Italia  .  Nel  500  aveva  inneggiato  l'Achillini  a  codesto  dialetto.  Che  ogni  scrittore  illustrar  dee  l'idioma  nativo  et  anche  arricchirlo  con  alcune  forme  giudiziosamente portate  dal  latino,   volle  provare  G.   F.   BoNOMl,  Bologna,  i6Sr.   1  i  In  Roma,  per  lo  Varese,  1661;  per  Ignazio  de'  Lazzeri,  1675;  in  Roma  et  in  Perugia,  per  gli  Eredi  di  Sebastiano  Zentrini,  1674  (ediz.  che  ho  sott'occhioj.  L'originale  del  Pallavicini  è  nel  Cod.  marciano, CLXXVI  (Catal.] pati,  pochi  (sono  in  tutti  121),  invero,  ma  non  senza  traccia  di  quel  saporifilosofico  che  fa  del  noto  cardinale  un  partecipe  di  quel  presentimento  critico  del  sec.  XVII  a  cui,  anche  poco  sopra,  abbiamo  accennato.  Più  rispettoso,  abbiam  detto;  ma  anch'egli,  come  il  Bartoli  e  il  Vincenti,  non  conosce  leggi  grammaticali  assolute.  Le  sue  osserva/ioni  empiriche  non  sono  mai  infondate:  egli  sa  osservare  che  in  alcune  voci  la  pronunzia  fiorentina  è  diversa  da  quella  del  rimanente  della  Toscana  e  dell'Italia;  come  in  dire  Abate,  Ujìzio,  Roba,  con  le  consonanti  semplici:  Immagine,  Innalzare,  Ovvidio,  con  le  raddoppiate.  In  questi  e  simili  casi  non  sarà  degno  di  riprensione  chi  seguirà  o  l'una  0  l'altra  maniera    (p.  46).  Didatticamente,  segue  un  principio  molto  ragionevole  e  discreto.  Col  nome  d'errori  dunque  intendo quelli,  che  si  scostano  dall'uso  ordinario  degli  scrittori  buoni,  e  pregiati  per  politezza  di  lingua.  Tacerò  le  ragioni,  0  solo  talvolta  ne  darò  un  cenno:  però  eh'  elle  sono  difficili  ad  apprendersi,  e  vagliono  solo  al  sapere:    dove  i  nudi  insegnamenti s' imparano  con  agevolezza  e  bastano  per  operare  (pp.3-4).  Ma  gli  avvertimenti  caratteristici  son  quelli  onde  si  chiude  il  volumetto.    Conchiuderò  con  due  brevi  avvertimenti.  L'uno  è,  che  questi  contenuti  nel  presente  Capitolo  sono  più  tosto  consigli che  precetti:  Onde  meriterà  lode  chi  gli  osserva;  ma  non  biasimo  chiunque  in  picciola  parte  se  ne  allontana.  L'altro  è,  che  in  questa,  come  in  tutte  le  arti,  ninna  regola  è  sufficiente  se  non  maneggiata  e  posta  in  uso  a  guisa  di  mero  istrumento  dal  giudicio,  il  quale  solo  è  /'Architetto  di  tutte  le  opere.  Ognun  vede  coma  il  fondamento  di  questa  conclusiva  sentenza  è  nel  sistema  filosofico  che  mette  il  Pallavicino  in  un  posto  non  disonorevole  nella  storia  dell'estetica,  come  quello  che  affrancava  la  fantasia  dall'  intellettualismo,  benché  la  identificasse poi  col  sensualismo  marinesco  ,  e,  in  ogni  modo,  l'arte  dalle  regole.  Croce,  Estetica.   Accanto  agli  Avvertimenti  dello  Sforza  Pallavicino  registriamo  alcune  altre  simili  operette.    Le  prime  lince  o  Lezioni  della  lingua  italiana  per  regolarne  il  disegno  ai  suoi  signori  scolari  concentrate  dal  maestro  di  lingua  Gio:  Pietro  Erico  rivelano  se  non  una  certa  ingegnosità,  una  certa  smania  di  voler  far  entrar  in  modo  facile  la  grammatica  nella  testa  degli  scolari.  Vi  si  fa  largo  uso  dei  paradigmi;  gli  elementi   (vocali  e  consonanti    sono    raggruppate  in    più   modi   per    346  Storia  della  Grammatica   Dietro  l'esempio  del  Bartoli  per  oltre  un  cinquantennio,  più  spesso  contro  la  Crusca  che  in  favore,  e  sempre  in  consonanza  col  movimento  linguistico  a  cui  aveva  dato  impulso  il  Vocabolario, si  misero  a  compilare  grossi  e  piccoli  zibaldoni  specialmente d'indole  ortografica,  a  stendere  dissertazioni,  lezioni  e  dialoghi,  a  postillare  raccolte  maggiori,  e  in  connessione  con  l'ortografia  a  trattar  di  pronunzia  e  di  prosodia  ,  specie  della    agevolar  la  pronunzia);  avverbi,  modi  avverbiali,  congiunzióni,  intergettioni,  preposizioni  sono  ammariniti  per  elenchi;  il  nome  vi  è  trattato ancora  secondo  la  qualità,  il  numero,  il  caso,  la  figura,  la  motione;  i  verbi  son  dati  in  tavole;  vi  si  additano  esercizi  per  la  concordanza. (Si  debbono  all'Erico  anche:  Generis  humanae  linguae,  Venetiis,  1697  e  Renatum  e  'Mysterio  principiiun  phiiologicum,  Patavii.  Sono  state  ricordate  qualche  volta  le  Osservazioni  della  lingua  volgare  di  Pio  Rossi,  Piacenza,  e  la  Pratlica,  e  compendiosa  istruzzione  a'  principianti  circa  l'uso  emendato,  et  elegante  della  lingua  italiana  del   RoGACCl. In  appendice  agli  Avvisi  di  Parnaso  ai  poeti  toschi,  Venezia,  s.  a.,  Marcantonio  Nali,  dette  un  trattato  sulla  dieresi,  sulla  sineresi,  sui  dittonghi,  e  sull'accento;  Loreto  Mattei  (il  noto  poeta  vernacolo reatino),  una  Teorica  del  Verso  volgare,  e  Prattica  di  retta  pronunzia,  in  Venezia,  per  Girolamo  Albrizzi.(Neil' Apologia  della  z  cita  una  Neogrammalogia  di  un  Anonimo,  dove  si  proponeva  il  segno  dell'.?  per  lo  z  aspro  (fortezza,  bellezza)  per  distinguerlo  dal  suono  di:  in  donzella,  grazia,  amazzone.  Nella  lezione  La  lingua  toscana in  bilancia  con  la  latina  il  Mattei  pone  la  prima  superiore  alla  seconda).  In  questo  campo  il  libro  classico  è  la  Prosodia  italiana  ovvero l'arte  con  l' uso  degli  accenti  nella  volgar  favella  d'Italia,  accordati dal  padre  Placido  Spadafora,  palerm.  della  Comp.  d.  G.,  colla  Giunta  di  tre  brevi  trattati:  l'uno  della  Zeta,  e  sue  varietà:  l'altro  dell',  verbo  sost.,  apposizione  =  ellissi  del  verbo  sost.,  preposiz.,  avverbi,  congiunz., pronome,  intercezione,  intere  sentenze,  che  se  il  loia,  dello  zeuma,  falsa  zeuma,  .sillessi, trasposizione, iperbato, anastrofe,  tniesi,  parentesi,  e sinchisi.]anzi  ultrapurista,  per  dirla  col  suo  recente  biografo  ,  ma,  mutati gli  abiti  mentali  e  slargato  il  suo  orizzonte  anelie  per  effetto delle  lingue  apprese  ne'  suoi  viaggi  all'estero,  fini  quasi  ribelle.  Scienziato,  filosofo  e  teologo,  erudito,  novellatore  e  poeta,  epistolografo,  quale  accademico  della  Crusca  attese  a  studi  linguistici  diversi,  di  spoglio,  d'etimologia,  d'ortografia,  di  cui  introdusse  qualche  novità  anche  ne'  suoi  scritti  (ò,  ài,  à  per  ho,  hai.  ha,  secondo  l'antica  proposta  del  Tolomei);  ma  precettista di  grammatica  non  fu.  A  noi  basterà  caratterizzar  tutta  la  sua  operosità  grammaticale,  osservando  che  egli  non  si  peritò  d'accogliere  voci  straniere,  che  fu  anzi  uno  de'  primi  neologisti,  e  riferendo  quel  che  nel  1677  scriveva  al  Bassetti  circa  la  compilazione del  Vocabolario:    tutto  l'arricchimento  maggiore,  che  si   pensa  dare  a  quest'opera  è  il   rifrustar  manoscritti  antichi,  e   aggiunger  voci Ora  io  non  vorrei  che  ci  trafilassimo  a  cavar   fuori  e  a  spiegar  voci,  che  in  questo  secolo  non  accaderà  che  un  uomo  l'oda  nominare  una  sola  volta  in  vita  sua,  e  trascurassimo quelle,  che  occorrono  in  ogni  discorso  e  che  mal  usurpate rendono  chi  le  dice  ridicolo    ('").    Voi  mettete  ,  tornava  a  ripetergli,  in  questo  vocabolario  voci  antiche,  voci  rancide.  voci  disusate,  voci,  che  son  ridicole  a  voi  medesimi,  e  poi,  non  distinguendole  dalle  buone,  ci  date  mescolate  la  crusca,  o  piuttosto le  reste  e  la  paglia  istessa,  con  la  farina  .  A  base  di  quest'osservazione  è  sempre  la  vieta  concezione  del  linguaggio;  ma  questo  bollar  di  ridicolo  le  voci  rancide  e  chi  le  adopera,  indica  per  lo  meno  la  coscienza  della  contradizione  tra  parola  vecchia  e  idea  nuova,  un  sentimento  insoddisfatto  dell'unità  dell'espressione, un  segno,  in  ogni  modo,  di  salutare  reazione.  Nel    raccomandare  alla  risorta  Accademia  di  aprir  le  porte  al  Tasso;  di  mettere  de'  contrassegni  alle  voci  arcaiche,  alle  non  comuni,  alle  plebee:  e  di  esser  meno  difettosa  nell'accogliere  le  buone  voci  forestiere    (:i),  invidiando  alle  altre  nazioni  l'uso  vivo  della  lingua,  precorreva  il  Manzoni.  Fu  pertanto  considerato,  come  egli  stesso  confessava,    per  corruttore   della   severa  onestà  de'    Stefano Fermi,  Lorenzo  Dlagatotti  scienziato  e  letterato  (    Studio  biografico  bibliografico  critico  con  ritratto,  Firenze,  1903,  p.   171.   Leti,  fam..,  t.  II,  p.  68,  in   Fermi. Ovidio] nostri  antichi    :  ma  non  così  largamente  che  dal  Panciatichi,  residente  nel  1671  a  Parigi,  non  fosse  invitato  sebbene  inutilmente a  prender  le  difese  di  nostra  lingua  contro  gli  attacchi  famosi  del  Bouhours,  che  trovò  in  Italia  il  suo  avversario  nel  Conti.   Più  importante  di  quella  del  Magalotti  e  de'  comuni  consoci è  forse  l'opera  d'uno  de'  due  Salvini,  Anton  Maria:  a  Savino, dobbiamo,  tra  l'altro,  la  prima  storia  dell'Accademia  ('"):  storia,  si  dica  subito,  che  dimostra  l'importanza  che  l'Istituto  famoso  aveva  ormai  acquistato,  ma,  anche,  la  chiusura  d'un  periodo d'attività  che  aveva  fatto  il  suo  tempo  e  non  rispondeva  più  ai  nuovi  tempi. Salvini è purista  dello  stampo  del  Dati,  suo  antecessore,  di  cui  cita  con  lode  il  ricordato  discorso siili'  Obbligo  di  ben  parlare  la  propria  lingua;  fu,  direi,  l'incarnazione  de'  principi  che  prevalsero  in  questo  tempo  nelV Accademia;  fu  il  perfetto  accademico;  anche  i  modi  della  sua  attività  letteraria  contraddistinguono  il  carattere  della  sua  mente:  fu  oratore  accademico  e  postillatore:  le  Prose  toscane  e  i  Discorsi accademici  offrono  una  buona  parte  di  quell'attività;  ma  è  altrettanto  considerevole  la  materia  trattata  da  lui  nelle  annotazioni a  opere  e  libri  famosi :  il  Malmantile  del  Lippi,  la  Piera  e  la  Tancia  del  Buonarroti,  la  Perfetta  poesia  del  Muratori,  le  Origini  del  Menagio,  il  Vocabolario,  la  Grammatica  del  Buonmattei,  V Anticrusca  del  Beni.  Le  più  importanti  al  fatto  nostro  sono  le  postille  all'opera  muratoriana,  specie  per  ciò  che  concerne  l'efficacia  delle  regole  grammaticali. Lett.  in  Belloni,  //  seicento,  p.  452.   ('-')  Ragionamento  sopra  V origine  dell'Accademia  della  Crusca,  Firenze. Su  esso,  dott.  Carmelo  Cordaro,  Anton  Maria  Salvini,  saggio  critico-biografico,  Parma,  1906,  e  la  notizia  che  di  questo  libro    R.  Fornaci  ari.  Un  filologo  fiorentino  del  sec.  XVIII,  in  Nuova  Antologia.   []  Vivaldi  esclude,  con  l'inoppugnabile  argomento  del  tempo,  che  sia  del  Salvini,  n.  il  quel  progetto di  risposta  da  farsi  all'  Anticrusca  per  opera  del  Fioretti  che  la  fece  infatti  nel  1614,  che  il  Moreni  pubblicò  nel  1S26  traendolo  dalla  iMagliabechiana.   (6)  Nei  Discorsi  Accada  n.  xxi,  p.  3    l'A.  esordisce  col  sostenere che  l'obbligo  di  ben  parlare  la  propria  lingua  fu  dimostrata  con    Capitolo  undicesimo  353    K  noto  che  uno  de'  punti  cui  s'agitò  la  controversia,  che  è  stata  chiamata  della  lingua,  fu  l'eccellenza  del  Trecento  sul  Cinquecento e  i  secoli  posteriori.  Il  Muratori  fu  perii  Cinquecento :  e  il  Salvini,  naturalmente,  pel  Trecento.  Tra  gli  argomenti  che  il  Muratori  adduceva,  era  questo,  che  nel  Trecento  la  lingua  non  poteva  essere  arrivata  alla  sua  perfezione,  perchè,  tra  l'altro,  non  se  n'erano  peranco  stabilite  le  regole  e  ognuno  scriveva  a  suo  talento,  usando  parole  e  locuzioni  straniere,  rozze,  plebee,  cadendo  per  ciò  senz'accorgersene  in  barbarismi  e  solecismi,  trascurando anche  la  retta  ortografia.  Il  Salvini  gli  ritorce  codesto  argomento  così:    il  non  essersi  stabilite  le  regole,    poste  in  iscritto,  e  scrivendosi  tuttavia  da  molti  e  parlandosi  in  quel  tempo  regolarmente,  è  segno  che  in  quel  tempo  era  giunta  al  non  più  oltre  l'italiana  favella;  e  non  fa  che  le  regole  naturalmente non  ci  fossero  .  In  altre  parole  il  Muratori  sostiene  la  inferiorità  del  Trecento  con  la  mancanza  della  grammatica;  il  Salvini l'eccellenza  di  esso  con  l'esistenza  virtuale  della  grammatica :  questione  e  ragioni  egualmente  cervellotiche  e  che  movono  l'ima  e  le  altre  dal  concepire,  al  solito,  il  linguaggio  come  un  congegno  meccanico  che  funziona  più  o  meno  bene  secondo  l'esattezza sua  e  di  chi  lo  adopera:  il  confronto  è  impossibile  ei  termini  sono  astrazioni.  Che  cos'è  il  Trecento?  che  cos'è  il  Cinquecento? sono  le  opere  concrete  che  si  scrissero,  sono  le  parole {parole  nel  senso  estetico)  che  si  pronunziarono:  ora  confrontar l'un  secolo  con  l'altro,  è  confrontar  la  Divina  Commedia  con  1'  Orlando  Furioso,  ossia  fare  una  cosa  inutile  e  arbitraria.  Spiegar   poi    l'eccellenza  dell'una  o  dell'altra  opera  con    le  re  ottime riflessioni  dal  suo  antecessore,  il  nobile  e  dotto  Carlo  Dati....  Vorrebbe  che  si  coltivassero  i  due  idiomi  e  si  scrivesse  nell'uno  e  nell'altro,  come  fecero  i  maestri  di  nostra  lingua,  il  Bembo,  il  Casa,  ed  altri.  Ma  poiché  la  nostra  favella    non  ha  quel  corso  e  quella  voga  d'esser  parlata  e  scritta  comunemente,  come,  non  so  per  qual  destino,  ha  avuto  ed  ha  l'idioma  francese  ...  perciò  chi  di  cose  scientifiche vuole  trattare,  scriva  in  latino  non  perchè  a  ciò  sia  inetta  la  nostra  lingua,    ma  per  aver  più  gran  teatro,  che  ascolti,  perchè  la  lingua  latina  è  lingua  dell'universale  e  propria  di  tutti  i  letterati    non  obbliando  la  nostra  che  ha  i  suoi  vezzi  e  incanti  singolarissimi  .  In   Gerini. Ricordiamo  De  i  pregi  dell'  eloquenza  popolare  esposta  da  L.  A.  Muratori,  Venezia,  M  DCC  L,  presso  G.  B.  Pasquali,  fondati  sulla  dottrina  dell'imitazione.] gole,  è  pretendere  che  le  regole  producano  l'arte.  Siamo  ancora  con  la  vecchia  poetica.  Il  Muratori  dedicò  parecchie  pagine  della  sua  perfetta  poesia  al  buon  gusto,  e  sebbene  non  accettasse le  vedute  dello  Sforza  Pallavicino  che  davano  briglia  sciolta  alla  fantasia,  le  fece  larghissima  parte  ,  ebbe  insomma  più  larghe  vedute  del  Salvini:  ma  il  linguaggio  non  fu  neppur  sospettato né  dall'uno    dall'altro  che  potesse  esser  tutt'uno  con  la  fantasia.  La  poetica  del  rinascimento  si  dissolvette,  senza  che  la  grammatica,  naturalmente,  avesse  avuto  l'onore  in  essa  d'una  interpretazione  degna  d'esser  chiamata  filosofica:  fu  sempre  considerata come  strumento:  infatti  nella  classificazione  delle  arti,  rimase  sempre  all'ingresso.  Da  quell'argomento  delle  regole  il  Salvini  ne  trasse  un  altro,  meno  disutile  anche  perchè  contiene  un  elemento  che  si  può  chiarire  con  la  storia,  ma  egualmente  infondato  nella  sua  concatenazione.    Prima  una  lingua  fiorisce,  e  la  fan  fiorire  gli  autori  che  la  mostrano  e  scuopronla;  e  poi  se  ne  formano  le  regole.  Anzi  quando  si  fanno  le  regole,  cattivo segno:  è  segno  che  la  lingua  non  è  più  nella  sua  naturai  perfezione:  è  scaduta  dal  suo  primo  fiore  e  lustro;  ha  bisogno  di  essere  puntellata,  perchè  non  finisca  di  rovinare    (").  E  si  sforza  di  dimostrarlo  col  fatto  dell  'imbarbarimento  del  400  da  cui  ci  liberò  il  Bembo  con  gli  altri  grammatici,  ma  non  in  modo  che  scorcordanze  e  solecismi  non  durassero  ancora,  consigliando  il  ritorno  all'imitazione  dell'aureo  secolo,  quando  autori  e  volgo  parlavano  puro  e  corretto  e  tutti  scrivevano  come  i  testi  a  penna  dimostrano  senza  sconcordanze,  e  si  avevano  le  coniugazioni  senza  che  vi  fossero  grammatiche,  dell'aureo  secolo,  che  ebbe,  oltre  questi,  il  merito  di  fornire  ai  grammatici  cinquecentisti  la  materia  delle  regole  loro.  Il  Vivaldi,  che  riferisce  queste  idee  e  argomentazioni  delSalvini,  seguendolo  passo  passo  con  la  sua  critica,  osserva  che    quando  nascono  le  regole  in  una  lingua,  questa  non  è  più  nel  suo  stato  di  spontaneità,  è  entrata  in  un  periodo  riflesso;  ma  dire  che  sia  in  un  periodo  di  corruzione  e   di    rovina    mi    pare    troppo.   Or  che    vuol    dire   che    una      Croce,  Estetica.)  Quest'idea,  annota  il  Vivaldi,  p.  321,  che  la  grammatica sorga  quando  la  lingua  si  comincia  a  corrompere,  è  ripetuta  in  molti  punti  dal  Salvini.   Leg.ui  le  note] lingua  e  entrata  in  un  periodo  riflesso?  La  lingua  è  sempre  lingua,  cioè  creazione  spirituale  in  ogni  momento  del  suo  prodursi :  slato  riflesso  sarà  quello  della  coscienza  di  chi  la  parla.  E  certamente  da  questi  stati  riflessi  della  coscienza  nascono  tutti  gli  sforzi  che  mirano  a  spiegare  il  passato:  le  regole,  teoricamente, sono  il  primo  tentativo  della  scienza:  praticamente,  servono  al  bisogno  dell'apprendimento  della  lingua:  Aristotele,  Quintiliano,  il  Bembo  interessano  egualmente  ma  diversamente  tanto  chi  fa  la  storia  delle  dottrine  poetiche  e  grammaticali,  quanto  chi  si  prefìgge  lo  scopo  pratico  di  apprendere  o  di  insegnare l'arte  e  la  lingua.    Si  può  dire,  quindi,    aggiunge  il  Vivaldi,   che,  nate  le  regole,  una  lingua  sia  meno  vivace  di  prima;  ma  dire  che  s'incammini  alla  corruzione,  donde  il  bisogno  di  essere  puntellata,  non  mi  pare.  Come  se,  quando  spuntavano  le  regole  del  Fortunio  e  le  Prose  del  Bembo,  fosse  stato  mai  impedito  all'Ariosto  di  condurre  a  quello  stato  di  perfezione  o  di  vivacità,  ond'è  mirabile,  il  suo  Orlando  Fttrioso,  o  per  effetto  di  quei  pretesi  mali  contro  cui  insorse  la  grammatica  del  purismo  avesse  mai  potuto  raffreddarsi  il  calore  ond'espresse  e  corresse  i  suoi  Promessi  Sposi  Alessandro  Manzoni  !  La  corruzione  della  lingua  è  una  delle  tante  illusioni  che  il  vecchio  concetto  del  linguaggio  suscita  e  alimenta:  e  la  grammatica  non  sorge  in  aiuto  d'un  guasto  che  è  solo  nella  fantasia  degli  empirici.  Ma,  intanto,  quanto  inchiostro  non  s'è  versato  in  queste  discussioni  che  ogni  tanto,  anche  dopo  che  la  scienza  le  ha  superate,  risorgono  anche  tra  persone  colte,  dividendone  gli  animi  !   Meglio  che  in  polemiche  e  in  particolari  trattazioni,  un  letterato pugliese,  l'ab.  Severino  Boccia,  autore  del  Tasso  piangente ,  concretò  la  sua  opposizione  contro  la  Crusca  in  una  vera  e  ampissima  Grammatica  e  in  un  grande  Vocabolario,  che  però  non  videro    mai  la  luce  .     Uno  dei   padri    della    grani     Napoli,  Mich.  Monaco,  16S2,  sotto  lo  pseud.  di  Sincero  Va/desio. Cfr.  Guerrieri,  L'abbate  Severino  Boccia  grammatico e  lessicografo  pugliese  del  sec.  XVII,  Cerignola (estr.). La  Grammatica  italiana  di  Sincero  Valdesio  è  contenuta  in  un  ms.  cart.  legato  in  pelle  bianca  di  oltre  500  pagine,  parte  numerate  parte  no.  Una  postilla  in  cui  quest'opera  viene  attribuita  al  Boccia,  reca  la  data  iógo.  Di  essa  fece  un  riassunto  D.  Felice,  Roma,  nel  1703,  che  poi  passò  all'Armellini.  Il  Voc.  è  parimenti  ms.  in  cinque  grossi  volumi     avrebbe  chiamato  il  Boccia  quel  gran  padre  che  ne  fu  Basilio  Puoti,  che  potè  vedere  la  voluminosa  opera  dell'abate  pugliese  .  La  Grammatica  si  apre  con  un  discorso  sulla  lingua,  il  suo  svolgimento,  e  il  modo  di  studiarla:  la  grammatica vi  è  definita    l'arte  di  parlare  e  scriver  bene  in  tale  idioma,  senza  vizio  di  barbarismo  o  solecismo  ,  e  se  ne  deduce  che  il  favellare  è  proprio  connaturale  all'uomo  e  che  nessuno  può  pretendere  di  parlare  e  scrivere  bene,  senza  l'arte  e  lo  studio:  la  macchina  dell'opera  sua  poggia  sopratre  colonne  di  bronzo  massiccio,  la  ragione,  Y  autorità,  V usanza;  ma  l'A.  non  ha  voluto  giurare  sul  frullone  delia  Crusca,  non  sulla  zucca  degli  Intronati,  non  sulla  gru  degli  Oziosi,  non  sulla  luna  degli  Erranti, né  in  altra  celebre  impresa  di  questa  o  di  quella  Accademia^). Da  quanto  ce  ne  dice  il  Guerrieri  la  trattazione  è  completa, dalle  lettere,  vocali  e  consonanti,  sillabe  alle  parti  del  discorso,  al  pleonasmo,  all'ortografia  e  punteggiatura;  il  notevole è  che  gli  esempi  sono  tolti  tutti  quanti  dal  Tasso,  sia  per  le  regole  che  per  le  eccezioni:  e  le  autorità  del  Vocabolario,  dove  spesso  i  modi  di  dire  hanno  il  corrispondente  latino,  sono  di  frequente  cavate  dal  Tasso.  Così  la  Crusca  veniva  contraddetta in  due  modi,  abbastanza  pratici,  nelle  regole  e  negli  esempi,  e  l'infelice  poeta  aveva  in  questo  grammatico  e  lessicografo il  più  caldo  e  fedel  difensore.   Pro  e  contro  la  Crusca  stette  infine  quel GIGLI (si veda)  che,  come  dice  il  D'Ovidio,    rinnovò  lo  scandalo col  Vocabolario  Cateriniano,  libro  riboccante  d'arguzie e  d'umorismo,  ma  spesso  scurrile,  pettegolo  e  maligno,  non  di  rado  anche  insipido  o  adulatore  ,  (p.  153)  e  del  quale  scontò  l'audacia  con  umilissime  ritrattazioni  e  il  bando  da  Siena  sua  città  natale  e  da  Roma,  dove  fu  precettore  di  D.  Alessandro Ruspoli  de'  Principi  di  Cerveteri,  per  l'istruzione  del  quale  ordinò  l'operetta    è  dicitura  che  tolgo  dal  titolo    che  va  sotto  il  nome  di  Regole  per  la  toscana  favella  dichiarate per    la  più    stretta  e  più  larga    osservanza  in   dialogo  tra    (*)  Guerrieri,  op.  cit.,  p.  33.   {-)  Guerrieri. Su  esso,  T.  Favilli,  G.  Gigli  senese,  nella  vita  e  nelle  opere,  Rocca  S.  Casciano,  1907  (ma  cfr.  I.  Senesi,  recens.  in  Rass,  bibl.  d.  leti.  It. Maestro  e  scolare  ,  una  delle  ultime  e  vere  grammatiche  di  questo  lungo  periodo  di  cui  siam  venuti  notando  le  manifestazioni più  caratteristiche,  cosa  diversa  dalle  Lezioni  di  li?igua  tosca?ia  ("),  che  furono  nuovamente  raccolte  dall'ab.  G.  Catena  Senese.   Al  Gigli  dobbiamo  anche,  tra  l'altro,  un'Orazione  in  lode  della toscana  favella,  e  la  raccolta  romana  delle  Opere  di  Celso  Cittadini:  egli  poi  accenna  a  tavole  sinottiche  de"  Verbi  ausiliari  e  regolari  da  lui  compilate  per  distinguerne  in  quattro  colonnette  l'uso  corretto  antico,  poetico  e  corrotto,  distinzione non  fatta  dal  Pergamini,  e  a  una  sua  grammatica  anteriormente stampata,  che  è  tutt'uno  con  le  Lezioni,  dove  infatti  questa  partizione  è  adottata.   Avverte  nella  prefazione  che    ha  più  Grammatiche  ornai  la  nostra  Volgar  Favella,  che  non  ha  genti  (stetti  per  dire)  che  la  parli  ...;  la  chiama    bastone  ...  istoriato  dal  Cittadini,  fornito della  punta  di  ferro  dal  Castelvetro,  contro  il  Bembo,  o  fatto  a  nodi  contro  il  Bartoli,  il  Beni,  il  Muzio;  fornito  di  manico d'argento  dal  Castiglione  ...;  constata  che  l'Indie  grammaticali non  mandano  altri  Ucelli,  che  qualche  voce  spelacchiata dell'H;  qualche  verbo  anomalo,  che  ha  i  piedi  dove  altri  hanno  il  capo;  qualche  nome  eteroclito  di  due  sessi  .  E  questo  supergiù,  come  abbiam  visto,  era  vero  per  la  vecchia  grammatica dell'italiano:  poiché  proprio  ora,  e  precisamente usciva  in  Napoli  per  il  latino  il  Nuovo  metodo  di  Portoreale,  che  doveva  naturalmente  produrre  la  sua  efficacia  anche  sull'italiano.  Accenna,  infine,  a  una  nuova  edizione  del  Donato  con  Avvertimenli  grammaticali  per  la  nostra  volgar  lingua,  curata  dal  suo  assistente  alla  cattedra  d'eloquenza,  Francesco  Tondelli,  che  è   un    nuovo    esempio    di    quella    fusio ne    che   ormai  si  ve    In  Roma.  Nella  stamperia  di  Antonio  de' Rossi,  nella  strada  del  Santuario    Romano,  vicino  alla  Rotonda, Venezia,  Giavasina, e  29. Coi  tipi  del  Pasquali  in  Venezia.  In  Lezioni,  Venezia,   1736.   (5)  In  Roma,  per  Antonio  De'  Rossi.  In  Roma,  Chracas,  1710.  Ma  la  prima  ediz.  era  stata  fatta  in  Siena.    Un  Donato  al  Senno  ...  con  le.  loro  costruttioni  et  toscane  dìchiarationi  vide  la  luce  in  Treviso,  per  Gasparo Pianto.    35^  Storia  della  Grammatica   niva  facendo  sempre  più  completa  delle  due  grammatiche,  l'italiana  e  latina,  e  sulla  quale  aveva  insistito  ne'  suoi  Discorsi  accademici  (cfr.  specialmente  il  LXII,  t.  I,  sopra  la  lingua  latina) e  nelle  Prose  toscane  (le  lezioni  22,  33,  44  sopra  la  lingua  toscana,  e  la  47%  Esortazione  a  comporne  in  toscano)   anche  Anton  Maria  Salvini.   Le  Regole  come  le  Lezioni  del  Gigli  non  hanno  maggior  portata  filosofica  di  quella  che  vien  loro  dall'essere  informate  a  un  certo  spirito  liberale  di  modernità  e  d'opposizione  alla  grammatica pedantesca  e  troppo  ristretta,  della  quale  abbandona  il  complesso  schematismo,  contentandosi  di  dar  poche  regole  tra  molti  e  vari  esercizi  (2);  il  che  le  rende  naturalmente  lodevoli sotto  l'aspetto  didattico.  L'uso  che  il  Gigli  segue  è  quello  degli  scrittori  del  Trecento  più  comunemente  accettati,  che  era  un  utile  criterio  per  lui  per  propugnare  quello  della  Santa  concittadina, in  servizio  del  quale  prese  a  compilare  il  l'ocabolario  Cateriniano,  vessillo  intorno  a  cui  aveva  tentato  raggruppare  un  forte  manipolo  di  ribelli,  dove  s'oppone  a  riconoscere  in  Firenze e  nell'Accademia  il  diritto  esclusivo  di  regolar  la  favella  d'Italia.  Per  quanto  editore  delle  opere  del  Cittadini,  pure  non  sembra  ne  faccia  la  debita  stima  almeno  per  l'utile  che ne  possa  venire  ai  discenti  italiani:  afferma,  invece,  che  le  ricerche  dell'illustre concittadino  sono  assai  più  giovevoli  agli  Oltremontani, Vi  si  dice  che  lo  studio  del  latino  è  necessarissimo  per  iscrivere perfettamente  nel  toscano.  Questi  luoghi  segnalò  già  il  Gerixi,  op.  cit.,  p.  8,  n.  Regole  della  poesia    Latina  che  Italiana  per  uso  delle  scuole  erano  state  edite  per  la  3a  volta,  in  Venezia,  presso  Giuseppe  Rota  niella  prefaz.  è  detto  che  questa  è  la  prima  poetica  per  le  scuole).   (2)  P.  es.,  è  molto  pratico  quello  indicato  in  fin  del  libro    per  conservare  a  memoria  le  Regole  addietro  scritte,  per  via  di  qualche  racconto  mescolato  a  studio  degli  usuali  errori,  che  si  commettono  fra  i  Toscani  medesimi;  i  quali  errori  qui  si  correggono  dagli  scolari  fra  di  loro,  con  quest'  ordine  stesso,  che  dagli  scolari  della  Grammatica  Latina  si  pratica,  ascoltando  un  avversario  il  recitamento  a  memoria  dell'altro  .  Gigli  mostrò  di  sapersi  valere  del  dialetto  per  l'apprendimento della  lingua.  E  forse  a  questo  scopo  avrà  disegnato  una  Grammatica  senese  di  cui  parla  in  una  sua  lettera  del  28  ott.  1715  (in  Favilli,  G.  Gigli,  se  questa  non  è  tutt'uno  con  le  Lezioni o  le  Regole,  o  non  è  un  termine  vago  per  indicare  i  suoi  studi  grammaticali  e  linguistici.    Capitolo  undicesimo  359   ai  quali  tiene  costantemente  l'occhio  specie  per  quel  clie  concerne la  grafia.    può  esser  lodato  per  ciò  che  concerne  la  critica  de'  testi  e  l'etimologia.  Batte  molto  su  i  criteri  stilistici,  distinguendo  come  gli  abbiam  visto  far  per  i  verbi,  un  uso  retto,  antico,  poetico,  corrotto,  che  corrisponderebbe  su  per  giù  alle  distinzioni  fatte  poi  dal  Manzoni.  Ma  è  sempre    sarebbe  inutile osservarlo  da  quanto  sin  qui  s'è  detto    sotto  la  vecchia  concezione  del  linguaggio,  per  cui  s'aggira  costantemente  nell'equivoco:   Non  troverete  sollecismo  ,  dice,    che  non  possa  con  qualche  esempio  salvarsi,  o  del  Dante,  o  de'  suoi  Coetanei, o  di  S.  Caterina  da  Siena,  e  simili  autorevoli  Prosatori  Poeti.   Il  pensiero  com'è  formulato  determina  il  carattere  del  vecchio dogmatismo  grammaticale.   Il  Gigli  ci  richiama  al  pensiero  un  sostenitore  della  Crusca,  Niccolò  Amenta  ('  ),  già  ricordato  come  Annotatore  del  Torto  del  Bartoli,  e  del  quale  anche,  per  ragion  di  tempo,  ci  dobbiamo ora  occupare.   L' Amenta  già  nelle  Annotazioni  al  Torto  aveva  preso  posizione  netta  contro  il  Bartoli  e  in  favor  della  Crusca,  giudicando  che  il  Bartoli,  menando  beffe  e  strazio  de'  grammatici, non  aveva  seguito    le  loro  decisioni,    l'uso,  o  sia  del  popolo  o  de'  più  eletti,    l'autorità  degli  scrittori,    la  prerogativa del  tempo,    l'uso  latino  o  il  suo  contrario,    la  convenenza  de'  simili;  ma  or  l'uno  or  l'altro,  or  due  o  tre  insieme    e  più  di  tutto  Y  arbitrio,  a  cui  una  gran  parte  rimane  in  libertà, ed  è  per  avventura  la  più  diffìcile  a  ben  usare,  richiedendovisi  un  buon  gusto  proveniente  da  buon  giudicio    (p.  15).  L'accusava  d'aver  plagiato  il  Cinonio,  di  cui  non  par  facesse  molta  stima:  e  concludeva:    se  adunque  vorrà  tutto  ciò  considerare qualunque  affezionato  al  P.  B.,  ho  per  fermo,  che  compatirammi,  s'io  in  queste  osservazioni  tra  la  forza  che  m'ha  tatto  principalmente  la  ragione,  e  per  la  riverenza  che  ho  avuto  a'  Testi,  a'  buoni  Grammatici,  ed  a'  signori  Accademici  fiorentini,  spessissime  volte  gli  ho  contraddetto.  Protestando  ad  ognuno  che  se  '1  B.  scrisse  questo  libro  (come  già  pare  ch'egli  stesso  volesse)  per  far  conoscere,  che  nella  Toscana    favella  prevaglia   ('  spesso  così  accoppiati  discussi  dal  Vico)  poterono  sodisfargli  l'intendimento  circa  la  guisa  del  nascime?ito,  ossia  la  natura  delle  lingue,  che    troppo  ci  ha  costo  di  aspra  meditazione   i1),  e  la  cui  Discoverta,  ch'è  la  chiave  maestra  di  questa  Scienza,  ci  ha  costo  la  Ricerca  ostinata  di  quasi  tutta  la  nostra  vita  letteraria. Medesimamente  lo  lasciarono  insodisfatto  i  grammatici  del  rinascimento,  da  lui  criticati  e  nella  massima  opera  enel  breve  Giudizio  intorno  alla   Grammatica  d'Aronne.  La  metafisica  è  una  scienza,  comincia VICO (si veda),  la  quale  ha  per  oggetto  la  mente  umana.  Ond'ella  si  stende  a  tutto  ciò  che  può  giammai  pensar  l'uomo.  Quindi  ella  scende  ad  illuminare tutte  le  Arti,  e  le  Scienze,  che  compiono  il  subietto  dell'umana Sapienza.  Le  prime  tra  queste  sono  la  Grammatica,  e  la  Logica;  l'ima,  che    le  regole  del  parlar  dritto,  l'altra  del  parlar  vero.  E  perchè  per  ordine  di  Natura  dee  precedere  il  parlar  vero  al  parlar  dritto;  perciò  con  generoso  sforzo  Giulio  Cesare  della  Scala,  seguitato  poi  da  tutti  i  migliori  Grammatici  che  gli  vennero  dietro,  si  diede  a  ragionare  delle  cagioni  della  Lingua  Latina  co'  principj  di  LOGICA.  Ma  in  ciò  venne  fallito  il  gran  disegno  con  attaccarsi  ai  principj  di  Logica,  che  ne  pensò  un  particolare  uomo  filosofo,  cioè  colla  Logica  di  Aristotile, i  cui  principj  essendo  troppo  universali,  non  riescono  a  spiegare  i  quasi  infiniti  particolari,  che  per  natura  vengono  innanzi a  chiunque  vuol  ragionare  d'una  lingua.  Onde  Francesco  Sanzio,  che  con  magnanimo  ordine  gli  tenne  dietro  nella  sua  Minerva,  si  sforza  colla  sua  famosa  Ellissi  di  spiegare  gl'innumerabili  particolari,  che  osserva  nella  Lingua  Latina;  e  con  infelice successo,  per  salvare  gli  universali  principj  della  Logica  di  Aristotile,  riesce  sforzato  e  importuno  in  una  quasi  innumerabile copia  di  parlari  Latini,  dei  quali  crede  supplire  i  leggiadri ed  eleganti  difetti,  che  la  Lingua  Latina  usa  nello  spie- [In  Croce. Scienza  Nuova,  Milano,  Truffi. Non  è  questa  la  migliore  edizione  del  gran  libro;  ma,  avendo  condotto  su  essa  il  mio  studio,  mi  è  difficile  ora  concordare  le  citazioni  con  la  seconda  edizione  Ferrari.  Cfr.  Croce,  Bibliogr.  vichiana,  Napoli,  e  Suppli'Diento.] garsi.  Ma  il  quanto  acuto,  tanto  avveduto  Autore  di  questa  novella Grammatica  ha  ridotto  tutte  le  maniere  di  pensare,  che  nascer  mai  possono  in  mente  umana  intorno  la  sostanza,  e  le  innumerabili  varie  diverse  modificazioni  di  essa,  a  certi  principi  metafisici  cosi  utili  e  comodi,  che  si  ritrovano  avverati  in  tutto  ciò  che  la  Grammatica  Latina  propone  nelle  sue  regole,  e  nelle  sue  eccezioni.  Il  frutto  di  una    fatta  grammatica  è  grandissimo,  perchè  il  fanciullo,  senz'avvedersene,  viene  informato  di  una  metafisica,  per  dir  così,  pratica,  con  cui  rende  ragione  di  tutte  le  maniere  del  suo  pensare;  appunto  come  colla  Geometria  i  giovani,  pur  senz'avvedersene,  apprendono  un  abito  di  pensar  ordinatamente.  Per  tutto  ciò,  secondo  il  mio  debole  e  corto  giudizio,  stimo  questa  Grammatica  degna  della  pubblica  luce,  siccome  quella  che  porta  seco  una  discoverta  di  grandissimi  lumi  alla  Repubblica  delle  Lettere.   Lasciando  per  ora  da  parte  il  rispetto  del  Vico  verso  la  grammatica  ancor  classificata  secondo  il  vecchio  canone,  è  agevole vedere  come  la  posizione  presa  da  lui  contro  lo  Scaligero  e  il  Sanzio,  acutamente  distinti  tra  tutti  i  grammatici  dell'antichità e  del  rinascimento,  sia  determinata  appunto  dal  suo  concetto fondamentale  di  fantasia  e  d'intelletto.  Il  Sanzio,    moviamo da  questo  perchè  supera  lo  Scaligero,    pur  avanzando  di  tanto  i  precedenti  grammatici  nell'interpretazione  delle  forme  e  de'  costrutti  latini,  come  quegli  che  ne  cercava  le  radici  nello  spirito  e  non  in  un  convenzionale  ed  esterior  meccanismo  ("),  nel  fatto  linguistico  e  grammaticale  non  vedeva  che  un  fatto  logico, e,  con  quest'unico  criterio,  spiegava  non  solamente  i  casi    ('j  Opuscoli  di  Giovanni  Battista  Vico  raccolti  e  pubblicati  da  Carlantonio  de  Rosa  marchese  di  Villarosa.  Napoli.  Presso  Piorelli. È  notevole  il  tono,  più  che  polemico,  sarcastico  e  sprezzante  con  cui  combatte  le  dottrine  de'  precedenti  grammatici  tutt' altro  che  indegni  di  alta  stima  come  il  Valla.  Le  espressioni  che  adopera  contro  di  loro  sono  di  questo  tenore:    Ridicala  vero  sunt  quae  inculcat  Valla  de  Unus  et  Solus....  An  non  risu  res  digna  est,  quum  Valla  et  Grammatici  docent  in  his  orationibus:  Fortiores  Troianorum  superavit,  et  fortissimos  Troianorum  superavit:  in  priore  esse  genitivum  partitionis,  in  posteriore  minime?  Sed  horum  insaniam  Minerva  exagitat.  Quella  Minerva  nel  nome  della  quale  intitolò  l'opera  sua  maggiore  De  caitsis  linguae  latinae  di  cui  le  Verae  brevesque  Grammaticae  latinae  institutiones  sono  un  anticipato  compendio.    Capitolo  dodicesimo  371    regolari  della  sintassi  latina,  ma  tutte  le  apparenti  irregolarità,  mirando  unicamente  a  questo,  cioè  a  ridurre  l'irregolare  al  regolare con  quella  che  egli  stesso  chiamò  la  doctrina  s?tpp  tendi  (l).  ossia  la  dottrina  dell'ellissi.  Naturalmente  non  con  la  sola  ellissi  spiegava  tutte  le  anomalie:  poiché  egli  ammetteva  cinque  figure:  il  pleonasmo,  l'ellissi,  lo  zeugma,  la  sillessi  e  l'iperbato,  chiamando nionstrosi  partus  Grammaticarum  (")  l'antiptosi,  la  prolessi, la  sintesi,  V apposizione,  V evocazione,  la  sinecdoche;  ma  latissime  patet  Ellipsis  (;i),  e  perciò  sull'ellissi  particolarmente  si  diffonde  ,  praeclarum  munus    .  Dovunque  l'espressione  non  è  assolutamente  geometrica,  il  Sanzio  trova  un'  ellissi,  e  spiega  il  modo  onde  si  supplisce,  non  accorgendosi  della  solenne  smentita  che    alla  propria  dottrina,  quando,  come  fa  nell'introduzione alle  Regulae  generales  (''),  afferma  che  però  sarebbe  barbaro,  neologistico,  insomma  inelegante,  il  modo  regolare  supplito,  sciogliendo  l'ellissi,  all'irregolare.    ...quid  leporis  habebunt  tot  proverbia,  si  integra  referantur  ?...  Multa  edam  Grammaticae  ratio  nos  cogit  intelligere,  quae  si  apponerentur  latinitatis  elegantiam  disturbarent,  aut  sensum  dubium  facerent...  Alia  rursus  videmus  desiderari,  quae  sine  barbarismo  suppleri  nequeunt  et  tamen  Grammatica  necessitas  supplebit.  In  questo  il  Sanzio  seguiva  un'antica  e  sanissima  veduta  rappresentata principalmente  da  Quintiliano,  il  quale  diceva:  Aliud  est  Latine  loqui,  aliud  Grammatice  loqui,  e  seguita  anche  da  Orazio,  che  il  Sanzio  cita  con  tanto  maggior  entusiasmo  quanto  più  acremente  rifiuta  la  tesi  degli  avversari,  che  pare  non  fossero    pochi  ne  in  vero  ignoranti.      Supplementum  ,   dicevan  co- [Nell'opera  qui  appresso  cit.:    Doctrinam  supplendi  esse  valde  necessariam. SANCTIS (si veda)  Brocensts  in  inclyta  Salmanticensi  Academia  primarij  Rhetorices,  Graecaeque  linguae  doctoris,  verae,  brevesque  Gramatices  latinae  institutiones,  Salmanticae,  excudebat  Ma-  thias  Gastius. La  introduzione  si  chiude  con  quest'enfa-  tiche parole:    Liceat  iam  nobis  per  Grammaticos  thesauros  Ellipseos  aperire,  sine  quibus  iniuriam  facit  Latino  Sermoni,  qui  se  Latinum  audet  nominare.] storo,    reffugium  est  miserorum:  si  nobis  liceat  supplere  quod  volumus,  omnes  erunt  valde  bonae  orationes  .  E  non  avevano  torto,  intuendo,  senz'accorgersene,  una  profonda  verità,  quella  cioè  dell'impossibilità  estetica  della  sostituzione  della  frase  co-  siddetta propria  all'impropria,  propria  essendo  solamente,  cioè  artistica,  vera,  espressiva,  quella  che  s'è  usata  con  tutti  i  suoi  apparenti  difetti.    Horatius  ,  dunque,  diceva  il  Sanzio,    quasi  nostras  partes  agens,  et  Ellipsin  amplectens,  dixit  li.  I.  Saty.  io.  Est  brevitate  opus,  ut  currat  sententia,  non  se  impediat  verbis  lassas  onerantibus  aures  .  Dove,  come  pure  nella  sentenza quintilianea,  la  Grammatica  è  solennemente  liquidata  e  inverasi  a  maraviglia  all'inverso  il  motto  degli  avversari  del  Sanzio:  supplementum  reffugium  est  miserorum  !   Addurre  esempi  de'  supplementi  sanziani  è  superfluo  e  inutile, perchè  occorrerebbe  addurne  tutto  l'infinito  numero,  per  vedere  a  che  punto  spinge  il  Sanzio  l'applicazione  della  sua  dottrina.   Ora  chi  conosce  una  lingua,  sa  che  il  più  è  l'irregolare;  onde  converrebbe  chiamar  una  lingua  tutta  una  figura  continuata.  Il  Vico,  che  aveva  del  linguaggio  e  della  poesia  una  ben  diversa  concezione,  derivandoli  non  dall'intelletto,  ma  dalla  fantasia,  in  questo  sforzo  del  Sanzio  non  poteva  che  vedere  un'illusione,  e,  con  disinvolta  profondità,  lo  confuta  e  lo  supera  con  quella  semplice  osservazione,  che  egli    riesce  sforzato  e  importuno  in  una  quasi  innumerabile  copia  di  parlari  latini,  dei  quali  crede  supplire  i  leggiadri  ed  eleganti  difetti  che  la  lingua  latina  usa  nello  spiegarsi  ;  dove  la  natura  della  lingua,  i  diritti  della  fantasia  e  i  principi  critici  si  affermano  in  una  mirabile  concordia  veramente  degna  di  quell'altissima  mente.  Così,  egli,  more  solito, cioè  con  la  massima  semplicità,  superava  tutti  i  migliori  grammatici,  ripigliando  con  coscienza  di  causa  l'antica  tesi  degli  avversari  del  .Sanzio.   Tuttavia  non  in  questo  Giudizio,  dove  pur  non  si  vorrebbe  conservata  alla  grammatica  l'antica  posizione  che  aveva  nel  canone tradizionale    fatta  quella  sottil  distinzione  tra  parlar  vero  e  parlar  diritto,  residui  di  vecchie  vedute,  non  in  questo  Giudizio  si  esaurisce  la  sua  critica  della  grammatica.   Questa  anzi  è  principalmente  costituita  dalla  spiegazione  della  genesi  delle  parti  dell'orazione  e  della  sintassi  che  il  Vico  porge  nei  terzi  Corollarj  al  cap.  Della  Logica  poetica  del  libro  secondo  della  Scienza  nuova.    Capitolo  ti  od  ice  si  mo     Lo  Scaligero  e  il  Sanzio  avevano  accettata  tal  quale  la  dottrina aristotelica  delle  categorie  grammaticali:  Aristotile  aveva,  in  sostanza,  dato  al  nome  la  funzione  di  esprimere  la  materia  o  Volte,  al  verbo  quella  di  esprimere  il  moto  o  V azione,  aveva  cioè  attribuito  a  astrazioni  della  nostra  niente  un  valore  effettivo e  reale,  aveva  scam biato  un  concetto  con  un  fatto.  Accettar  questa  dottrina  era,  come  benissimo  osserva  il  Vico,  conchiudendo que'  corollari,  un  ammettere  che    i  popoli,  che  si  ritrovaron  le  lingue,  avessero  prima  dovuto  andare  a  scuola  d' Aristotile   (l);  era  un  ammettere  la  preesistenza  di  categorie  alla  produzione  del  pensiero,  un  asserire  che  i  parlanti  si  servirono  di  schemi  astratti,  per  esprimere  determinate  parole,  che  fecero  cioè  l'impossibile.   Il  Vico  diede  invece  una  genesi  naturale  alle  parti  dell'orazione e  alla  sintassi,  e  insieme  indicò  V ordine  con  cui  esse  nacquero  e  la  sintassi  si  formò.   La  lingua  articolata    mi  rifò  da  questo  punto  per  tenermi  strettamente  al  mio  argomento    quella  cioè  delle  tre  che  cominciarono nello  stesso  tempo  (  intendendo  sempre  andar  loro  del  pari  le  lettere  (")  ),  degli  Dei,  degli  Eroi  e  degli  Uomini,  cominciò  con  l'onomatopea,    con  la  quale  tuttavia  osserviamo  spiegarsi  i  fanciulli    (ricordisi  che  nella  sua  storia  ideale  umana  il  Vico  paragona  sempre  i  momenti  di  sviluppo  dell'umanità  con  quelli  dell'uomo);  seguitò  a  formarsi  con  l' Interiezione;  che  sono  voci  articolate  all'empito  di  passioni  violente,  che  in  tutte  le  lingue  son  monosillabe  ;  poi  coi  pronomi;  imperocché le  interiezioni  sfogano  le  passioni  proprie,  lo  che  si  fa  anco  da'  soli;  ma  i  -bronomi  servono  per  comunicare  le  nostre  idee  con  altrui  d'intorno  a  quelle  cose,  che  co'  nomi  propj  o  noi  non  sappiamo  appellare,  o  altri  non  sappia  intendere:  e  i  pronomi  pur  quasi  tutti  in  tutte  le  Lingue  la  maggior  parte  son  monosillabi, il  primo  de'  quali,  o  almeno  tra  primi  dovett'esser  quello,  di  che  n' è  rimasto  quel  luogo  d'oro  d'Ennio,  Aspice  hoc  sublime  cadens,  quem  omnes  invocant  Jovem,  ov'è  detto  hoc  invece  di   Coelum,  e  ne  restò  in  volgar  Latino,    Luciscit  hoc  jam;    Qui  il  Vico  ricorda  il  Trissino.    374  Storia  della  Grammatica   in  vece  di  albescit  Coelum:  e  gli  articoli  dalla  lor  nascita  [avvertasi il  trapasso  dalla  spiegazione  dell'origine  de'  pronomi  a  quella  degli  articoli,  che,  se  non  prendiamo  abbaglio,  nella  mente  del  Vico  rappresenterebbero  una  cotal  funzione  di  determinare il  nome  generata  dal  pronome,  quando  non  scompagnandosi dal  nome,  perdette  la  sua  vera  funzione]  hanno  questa  eterna  proprietà  d'andare  innanzi  a'  nomi,  a'  quali  son  attaccati. Dopo  si  formarono  le  particelle,  delle  quali  son  gran  parte  le  preposizioni,  che  pur  quasi  in  tutte  le  lingue  son  monosillabe;  che  conservano  col  nome  questa  eterna  proprietà  di  andar  innanzi a'  nomi,  che  le  domandano,  ed  a'  verbi,  co'  quali  vanno  a  comporsi.  Tratto  tratto  s'andarono  formando  i  nomi:  de'  quali  nell'  Origini  della  lingua  Latiiia  ritrovate  in  quest'  Opera  la  prima  volta  stampata,  si  novera  una  gran  quantità  nati  dentro  nel  Lazio  dalla  vita  d'essi  Latini  selvaggia  per  la  contadinesca  infin  alla  prima  civile,  formati  tutti  monosillabi,  che  non  hanno  nulla  d'origini  forestiere  nemmeno  greche,  a  riserba  di  quattro  voci  fiovg.  ovg,  jav$,  o>jij>,  eh'  a  Latini  significa  siepe,  e  a'  Greci  serpe...  ed  esser  nati  i  nomi  prima  de'  verbi,  ci  è  approvato  da  questa  eterna  proprietà;  che  non  regge  Orazione  se  non  comincia  da  nome,  ch'espresso,  o  taciuto  la  regga.  Finalmente  gli  Autori  delle  lingue  si  formarono  i  verbi  come  osserviamo  i  fanciulli  spiegar  nomi,  particelle,  e  tacer  i  verbi,  perchè  i  nomi  destano  idee,  che  lasciano  fermi  vestigi;  le  particelle,  che  significano  esse  modificazioni,  fanno  il  medesimo:  ma  i  verbi  significano  moti,  i  quali  portano  l'innanzi,  e  '1  dopo,  che  sono  misurati  dall'indivisibile  del  presente  difficilissimo  ad  intendersi  dagli  stessi  filosofi.  Ed  è  un 'osservazione  fisica,  che  di  molto  approva  ciò,  che  diciamo;  che  tra  noi  vive  un  uomo  onesto  tocco  da  gravissima  apoplessia,  il  quale  mentova  nomi  e  si  è  affatto  dimenticato de'  verbi.  E  pur  i  verbi,  che  sono  generi  di  tutti  gli  altri,  quali  sono  sum  dell  'essere,  al  quale  si  riducono  tutte  V  essenze, ch'è  tanto  dire  tutte  le  cose  metafisiche:  sto  della  quiete,  co  del  moto,  a'  quali  si  riducono  tutte  le  cose  fisiche,  do,  dico  e  facio,  a'  (piali  si  riducono  tutte  le  cose  agìbili,  sien  o  morali  o  famigliari,  o  finalmente  civili:  dovetter  incominciar  dagli  imperativi ;  perchè  nello  Stato  delle  famiglie,  povero  in  sommo  grado  di  lingua,  i  Padri  soli  dovettero  favellare  e  dar  gli  ordini a'  figliuòli,  ed  a'  famoli;  e  questi  sotto  i  terribili  imperj  famigliari,  quali  poco  appresso  vedremo,  con  cieco  ossequio  dovevano  tacendo  eseguirne  i  romandi;  i  quali  imperativi  sono  tutti  monosillabi,  quali  ci  son  rimasti  es,  sta,  i,  da,  dic,fac.  Analogamente  si  ritroverebbe,  par  che  voglia  dire  il  Vico,    Y ordine,  con  cui  nacquero  le  parti  dell'orazione,  e  'n  conseguenza le  //aturali  cagioni  della  SINTASSI (COM-POSITIO).   Ora,  date  per  provate  tutte  queste  asserzioni  di  fatto  del  Vico  riguardanti  l'origine  e  la  formazione  nelle  sue  successive  tasi  delle  lingue,  qual  è  la  differenza  che  passa  tra  la  dottrina  aristotelica  delle  categorie  grammaticali  e  quella  di VICO (si veda)?  A  me  sembra  profondissima.  Di  Aristotile  abbiamo  visto.  Il  Vico  par  ammettere  l'esistenza  di  queste  categorie;  ma  è  solo  question  di  parole;  perchè,  nella  sua  dimostrazione  storico-genetica  viene  in  sostanza  ad  annullarle.  Le  parti  del  discorso  pel  Vico  corrisponderebbero  ad  altrettanti  momenti  della  formazione  del  linguaggio  o,  eh' è  lo  stesso,  della  storia  ideale  dell'umanità:  ogni  parte  è  una  fase  della  coscienza  umana  allargantesi  alla  concezione  e  all'espressione  di  nuove  idee:  perciò  queste  parti  del  discorso  non  sono  categorie  ricavate  astrattamente  dalla  distruzione dell'espressione,  come  fa  chi  sottopone  il  fatto  estetico  unico,  indivisibile  a  un'elaborazione  logica;  ma  son  vere  e  proprie parole,  che  il  Vico  appella  coi  nomi  tradizionali  della  grammatica, tanto  per  farsi  intendere,  ma  che  non  sarebbe  affatto  necessario  chiamar  in  tal  modo:  ognuna  di  codeste  parole  è  un  fatto  reale  espressivo  naturale  per    stante  che  si  produce  spontaneamente  da  una  causa  interiore.  Se  veramente  codeste  parole  si  sian  formate  nel  modo  accennato  anzi  affermato  dal  Vico  e  in  quell'ordine,  non  possiamo  storicamente  provare,    il  Vico  può  provarlo  (gli  esempi  de'  fancndli  e  de'  paralitici  valgon  ben  poco,  secondo  noi);  ma,  comunque  siano  andate  le  cose,  questo  é  con  piena  evidenza  chiarito  che  le  lingue  crebbero per  fatto  naturale,  e  che  il  discorso  si  andò  sempre  meglio organizzando  a  mano  a  mano  che  la  coscienza  dell'umanità  si  sviluppava,  e  che  le  parti  di  codesto  discorso  ne  segnano  le  tappe  successive:  anzi,  parti  non  potrebbero  chiamarsi,  poiché  ognuna  d'esse  essendo  una  parola,  ogni  volta  che  questa  veniva  pronunziata,  era  un' espressioìie  intera,  cioè  diceva  tutto  quello  che  il  parlante  voleva  dire.  Quel  motto  onomatopeico,  quelì'ùiteriezione,  quel  pronome,  quell' articolo,  quel  nome,  quel  verbo,  anzi  quell' imperativo,  pronunziati  dall'uomo  primitivo,  non  sono  categorie  grammaticali,  schemi  preesistenti  alla  concezione  stessa dell'idea  in  essi  rappresentata  e  necessari  assolutamente  alla  estrinsecazione  di  essa  di  cui  sarebbero  la  formula  d'espressione,  ma  veri  vocaboli,  vere  parole,  veri  fatti  espressivi,  individuali  e  interi,  che  possono  esser  chiamati  con  quei  nomi,  ma  per  mera  convenzione  e  senza  alcuna  necessità.  Il  Vico  chiama  il  fatto  estetico  naturalmente  prodotto  coi  nomi  convenzionali  astrattamente ricavati  con  un  procedimento  logico;  Aristotile  pretende  che  astrazioni  logiche  si  esprimano  con  determinate  parole.  Come  si  vede,  siamo  agli  antipodi;  cioè  z\V  origine  e  quasi  alla  fine  della  grammatica.  Dico  qtiasi  alla  fine,  perchè  l' intuizione  di VICO (si veda)  non  è  rigorosamente  e  metodicamente  dimostrata:  e  in  ogni  modo  quello  stesso  parlar  ancora  di  parti  del  discorso,  non  solo,  ma  il  ripeter  la  definizione  tradizionale  del  verbo,  che  significa il  moto,  ingenera  per  lo  meno  confusioni  e  dubbiezze;  ma,  presa  nel  suo  insieme  e  nel  suo  spirito,  la  critica  di VICO (si veda)  si  può  ben  dire  che  supera  le  precedenti  vedute,  e  scioglie  il  problema.  Ma,  com'è  noto,  il  Vico  ebbe,  almeno  per  allora,  poca  fortuna, e  anche  in  questo  terreno  grammaticale  i  semi  da  lui  sparsi  non  diedero  alcun  frutto,  mentre  sarebbe  stato  facile  il  fecondarli  per  opera  di  degni  interpreti  e  continuatori.   D'altra  parte,  neppur  l'indirizzo  logico-grammaticale  di  Porto-Reale  fu,  in  questo  periodo,  seguitato  in  Italia  con  molto  calore  nei  rispetti  della  lingua  italiana,    il  Barba  è  una  magnifica eccezione    mentre  invece  specialmente  in  Francia  alimentava una  viva  ed  elevata  letteratura  grammaticale.   Non  che  l'Italia  fosse  intellettualmente  prostata  o  esaurita:  decadimento  ci  fu,  ma  era  solamente  letterario  e  nessuno  oggi  oserebbe  più  estendere  a  tutto  il  pensiero  e  alla  vita  italiana  del  primo  Settecento  quant'era  proprio  solo  dell'Arcadia.  L'Italia si  volgeva  ad  altri  studi,  specialmente  a  quelli  d'erudizione  e  di  critica  storica,  ne'  quali  si  doveva  rifar  la  coscienza,  ripigliando le  tradizioni  cinquecentesche  iniziate  da  Sigonio  e  da  Borghini  e  trasmigrate  nel  Seicento  in  Germania  e  in  Olanda.  Oggetto  di  questi  fervidi  studi  furono  le  costituzioni  e  le  vicende politiche,  il  diritto,  le  costumanze,  le  origini  e  anche  la  lingua  dell'Italia  nuova,  e,  col  Vico  stesso,  era  alla  testa  del  movimento  Muratori,  il  rappresentante  più  caratteristico  dell'attività intellettuale  di  quest'epoca  italiana  .     Cardicci,  Prefaz.  alle  Letture  del  Risorgimento  ita/.,  Bologna,  1896,  e  ora  in  Opere,  XVI,    Poesia  e  Storia. Ma  quello  per  la  lingua  fu  un  interesse  non  più  solamente  glottologico:  allo  studio  della  lingua  antica  d'Italia  i  nostri  eruditi si  volsero  anche  per  la  luce  che  ne  potevano  trarre  sulla  vita  italiana  e  sulla  condizione  degli  Italiani  nel  Medio-evo.  Si  rinnoveranno  le  controversie  particolari  sull'origine  degli  idiomi  italiani,  sul  De  Vulgari  Eloqìientia,  sull'eccellenza  del  Trecento  e  altrettali  che  costituiscono  la  cosidetta  questione  della  lingua,  ma  il  problema  non  è  più  solamente  linguistico,  è  anche  storico :  non  si  tratta  più  di  sole  parole,  ma  di  cose.  La  nuova  coscienza  italiana  colorisce  della  sua  luce  le  discussioni,  rendendole meglio  vitali  e  interessanti:  nel  Cinque  e  Seicento  era  la  coscienza  letteraria,  ora  è  anche  la  coscienza  civile  che  si  propone il  problema  della  lingua,  della  poesia  e  della  letteratura  quale  testimonianza  de'  tempi.  Siamo  ai  prodromi  di  quel  rinnovamento scientifico  che  nella  seconda  metà  del  secolo  determinerà il  radicale  rivolgimento  degli  stati  europei.  Non  occorre  che  io  ricordi  qui  più  che  i  nomi  del  Crescimbeni,  del  Gravina,  del  Fontanini,  del  Gimma,  del  Maffei,  del  Giannone,  dello  Zeno,  del  Quadrio,  ciascuno  de'  quali  in  opere  d'indole  e  di  soggetto  varii  discusse  dell'origine  o  dello  svolgimento  della  lingua,  ma  tutti,  chi  più  chi  meno,  dominati  dal  concetto  della  reciproca  influenza  che  popoli  di  civiltà  diversa  possono  esercitarsi,  e  delle  intime  relazioni  tra  civiltà  e  letteratura,   tra   civiltà  e  lingua.   In  tali  condizioni  diminuirono  le  attrattive  de'  letterati  verso  la  pura  e  arida  grammatica,  anche,  non  tenendo  conto  delle  ampie,  se  non  in  tutto  esaurienti,  compilazioni  grammaticali,  come  quelle  del  Buonmattei  e  del  Cinonio,  con  la  lunga  tratta  de'  loro  seguaci,  sempre  ancor  circondate  delle  più  vive  simpatie,  che  non  potevano  non  sviare  dal  proposito  di  nuove  consimili  fatiche.  Cosicché  chi  si  volse  alla  grammatica,  se  volle  far  cosa  nuova,  dovette  tentar  le  uniche  vie  che  almeno  per  ora  rimanevano aperte:  rinfrescar  lo  studio  grammaticale  che  veniva  rendendosi  obbligatorio,  con  eleganti  esposizioni,  correggendo,  vagliando;  oppure,  ch'era  ormai  vera  necessità  didattica,  ridurre a  metodo  il  sovrabbondante  e  spesso  farraginoso  materiale. L'una  via  e  l'altra  furono  battute  ugualmente:  quella  da  Domenico  Maria  Manni,  questa  da  Salvadore  Corticelli:  due  letterati  che  si  somigliano  in  più  cose.  Anzitutto  nel  sincero  e  fervente  desiderio  di  tener  desto  e  vivo  il  culto  della  prosa  e  della    lingua    toscana:   poi    nell'uso  de'  mezzi    che    scelsero    a    Capitolo  tredicesimo  379   tal  uopo,  mezzi  dirò  così  teorici  e  pratici:  l'uno  e  l'altro  intatti dettarono,  pur  tacendo  cosa  diversissima,  regole  e  osservazioni di  lingua,  e  racconti  piacevoli  che  dilettando  istruissero  e  incitassero  allo  studio  di  essa.  Entrambi  furono  Accademici  della  Crusca.   Le  Lezioni  di  lingua  toscana,  di  cui  una  terza  edizione  fu  fatta  nel  1773  (l),  furon  tenute  dal  Manni  nel  Seminario  Arcivescovile di  Firenze  il  1736,  per  elezione  dell'arcivescovo  Giuseppe Maria  Martelli,  dove    nulla  sembrava  mancare,  fuorché  lo  studio,  e  la  lettura  della  patria  lingua.  In  Firenze  pubbliche  cattedre  di  lingua  toscana,  come  vedemmo,  e  in  Siena  e  altrove  in  Toscana,  furono  istituite  dai  Granduchi  fin  dal  Cinquecento, e  già  prima  nello  Studio  a  principiar  dal  Boccaccio  v'erano  stati  espositori  di  Dante  e  poi,  nel  Quattrocento,  anche  del  Petrarca.  Ma  queste  non  furono  mai  vere  e  proprie  istituzioni scolastiche  in  servizio  esclusivo  de'  giovani  e  di  contenuto  puramente  grammaticale:  si  rivolgevano  al  comodo  del  largo  pubblico  d'ogni  ceto  ed  età.  Se  il  Dati  e  altri  letterati  del  tardo  Seicento  tornavano  a  lamentare  che  non  si  studiassero  le  regole  e  a  predicare  che  non  basta  il  nascimento  per  iscriver  bene,  ma  occorrono  studio  e  fatica,  ciò  vuol  dire  che  un  insegnamento  metodico  della  grammatica  non  si  era  peranco  istituito  neppur  in  Toscana,  e  la  testimonianza  del  Manni,  per  quanto  riguardi  un  solo  istituto,  dimostra  che  quello  del  Martelli  fu  un  primo  tentativo  d'introdurre  ufficialmente  nelle  scuole  l'insegnamento  della  grammatica:  altrove,  come  a  Napoli,  un  insegnamento  siffatto  mancò,  anche  dopo  che  lo  sdoppiamento  della  cattedra  di  retorica  del  Vico  inaugurò  nell'Università  quello  d'eloquenza  italiana  (").  Il  latino  continuò  per  un  pezzo  a  tener  il  campo  della  grammatica  (3):  e  anche  in  queste  Lezioni  del  Manni  ne  vedremo  altre  prove,  dichiarandovisi  spesso  che  a  certe  trattazioni sarebbe  superfluo  attendere,  da  poi  che  si  compiono  nella  grammatica  latina  e  sono  sufficienti  anche  per  chi  studia  quella  del  volgare.   In  ogni  modo,  almeno  a  Firenze,  [Ho  questa  sott'occhio:   fu   fatta  in   Lucca,  appresso  Giuseppe  Rocchi.  GENTILE (si veda),  Il  figlio  di  Vico,  cit.  più  innanzi.   Perfino  la  grammatica  generale  s'innestò  al'  latina  prima  che  alle  lingue  vive.    380  Storia  della   Grammatica   non  pare  che  ci  fosse  un  insegnante  speciale  di  lingua  italiana,  poiché  nelle  scuole  laiche  la  materia  delle  lingue  sarà  stata  disciplinata non  diversamente  dalle  ecclesiastiche.   Il  Manni  fu  un  grand'erudito,  oltre  che  un  grammatico:  la  sua  Istoria  del  Decamerone  è  suo  nobile  titolo  d'onore:  queste  Lezioni  risentono  in  ogni  pagina  di  questo  spirito  d'erudizione,  e  sono  ricche  di  utili  notizie  anche  per  la  storia  della  grammatica. Egli  stesso  anzi  dichiarava  che  l'incarico  commessogli  dall'arcivescovo gli  sarebbe  servito    di  ben  acuto  sprone  a  compilare, in  quel  modo  che  avrebbe  potuto,  una  breve  Gramatica  della  Lingua  Toscana,  quantunque  sentisse  esser  ella  da  altri  omeri  soma,  che  da'  suoi. Son  lezioni  così    distribuite: della    necessità  e  facilità della    Lingua    Toscana, Delle    lettere, Del  nome, Parimenti    del    nome, Del    pronome, Altresì  del  pronome, Del  verbo, Dell'avverbio, Del  periodo  toscano, Dell'ortografìa.   Come  si  vede,  è  un'esposizione  saltuaria  di  talune  parti  dell'orazione  e  della  grammatica,  credendo  l'autore  non  esser  necessario  fermarsi  su  tutto,  conforme  gl’esempi  fornitigli  da  Strozzi  e Sansovino,  come  fa,  p.  es.,  rispetto  alle  sillabe,  tanto  più  che  di  esse  cosa  non  ci  ha  quasi  di  dire  che  ai  Latini insieme  non  appartenga    (p.  46);    diffondersi  con  soverchia minuzia  sui  singoli  argomenti,  come  usò,  p.  es.,  il  Buonmattei  a  proposito  de'  verbi,  de'  quali  discorse    con  rincrescevole  lunghezza:  eguale  indifferenza  dimostra  il  nostro  Autore  per  i  problemi  della  grammatica  storica,  che  non  servono  ad  altro  che  a  far  gittar  via  il  tempo  (p.    146).   Tutto  l'interesse  del  Manni  è  per  la  sovrabbondante  bellezza della  nostra  lingua    il  che  ci  dice  subito  qua!  sia  la  concezion  che  ne  ha    e  per  le  questioni  ermeneutiche,  nella  risoluzion  delle  quali  egli  poteva  mettere  a  profitto  la  sua  conoscenza degli  antichi  manoscritti,  e  il  rigore  assoluto  che  professava in  fatto  di  regole.  Quindi,  mentre  da  un  lato  egli,  sodisfatte U'  principali  esigenze  a  cui  non  si  può  sottrarre  chiunque  debba  pur  dar  ilei  paradigmi  e  delle  norme  generali  intorno  alle  parti  dell'orazione,  si  tien  lontano  dalla  minuziosa  trattazione   metodica    della    sua  materia,   dall'altro  e'   si  profonde  in    Capitolo  tredicesimo  381    elucubrazioni  elogiative  della  ricchezza  e  varietà  ili  nostra  lingua,  e  s'ingolfa  in  particolarissime  questioncelle  veramente  di  scarsa  importanza,  come  quelle  del  mai  se  significhi  negazione  senza  il  non,  del  lui  e  del  lei  se  possano  essere  adoperati  per  egli  ed  ella,  del  cui  se  stia  per  chi  soggetto.  Sulla  prima  delle  quali  questioni,  riferisce  una  curiosissima  Sentenzia,  data  per  le  stampe  in  un  foglio  a  sé,  dell' Illustrissima  et  Eccellentissima  Signora  la  Signora  Donna  Isabella  Medici  Orsina  Duchessa  di  Bracciano,  sopra  la  differenza  fra  Don  Pietro  della  Rocca  Messinese  Cavaliere di  Malta,  et  Cosimo  Gacci  da  Castiglione,  sopra  la  voce  mai,  se  è  negativa,  o  affermativa,  secondo  la  quale  si  giudicava :    esso  cavaliere  Don  Pietro  della  Rocca,  che  teneva,  che  mai  negasse  senza  la  negativa,  ha  bene  sentito,  e  tenuto  secondo il  commune,  et  buon  uso  del  parlare  Toscano  ,  e  che  si  chiudeva  con  queste  sacramentali  e  solenni  parole:    In  fede  di  che  habbiamo  fatto  scrivere  questo  nostro  lodo,  dichiarazione,  et  sentenzia,  la  quale  sarà  affermata  di  nostra  propria  mano,  et  segnata  col  nostro  solito  sigillo.  Data,  nel  nostro  Palazzo  a  Baroncelli  a    XX,  presenti  M.  Roberto  de'  Ricci,  et  M.  Giovanni  Antinori,  gentil' huomini  fiorentini.  Noi  Donna  Isabella  Medici  Orsina,  Duchessa  di  Bracciano  affermiamo quanto  di  sopra  .  Era  l'anno  della  celebre  rassettatura del  Decameron,  e  il  rumore  di  quel  gran  lavorìo  aveva,  si  vede,  degli  echi  anche  nelle  corti,  dividendo  gli  animi  come  se  si  trattasse  della  salute  dell'Italia.  A  tanta  sentenza  non  s'inchina il  Mannij  che  ricorda  le  parole  dello  Strozzi  affermanti  che  il  mai    Dante,  il  Petrarcha  il  Bembo  e  il  Casa  non  l'hanno  mai  fatto  negare  senza  il  non    !  (pp.  182-4).  Medesimamente  non  accetta  il  lui  e  il  lei  per  casi  retti,  e  vi  spende  intorno  ben  ventidue  pagine,  raccontando  la  storia  della  questione  e  impugnando, come  già  aveva  fatto  il  Fortunio,  che  però  non  cita,  la  lezione  di  quell'emistichio  petrarchesco,  E  ciò,  che  non  è  lei  del  son.  Pien  di  qicell' ineffabile  dolcezza,  che  si  dovrebbe  leggere  E  ciò  che  non  è  in  lei,  secondo  anche  un  ms.  o  di  quel  torno  della  libreria  Riccardi,  segnato  0,19  !  È  noto  che  dal  Filelfo  al  Monti  è  stato  discusso  su  questo  passo,  e  anche  dopo,  finché  quelle  che  il  Mestica  ha  chiamato  invincibili  ragioni  estetiche  e  grammaticali  Q}  del  Monti    non    ebbero  la  conferma    dell' auto    Ed.  critica,   Firenze] grafo  vaticano  3195,  che  infatti  legge  E  ciò  che  none  lei,  come  ora  ognun  può  vedere  nella  riproduzione  letterale  data  dalla  Filologica romana  .  Secolare  questione,  tenuta  sempre  viva  dal  pedantismo  grammaticale  tenacemente  ribelle  a  riconoscere  funzione soggettiva  a  lui  e  lei  !   Simili  investigazioni  e  discussioni  ci  porgono  la  misura  del  valore  di  queste  Lezioni,  e  di  quel  che  sarebbe  stata  la  Grammatica che  era  nell'intendimento  del  Manni:  tranne  per  qualche  correzione  ermeneutica  da  accettare  perchè  fondata  su  dati  di  fatto  documentati  da  manoscritti  autentici,  la  dottrina  grammaticale del  Manni  rappresenta  un  regresso  per  l'età  sua,  un  puro  ritorno  alle  vedute  cinquecentesche  dei  più  puristi  senza  il  pregio  della  spontaneità  dell'osservazione,  che  allora  corrispondeva  a  un  bisogno  pur  mo  nato  di  comprendere  le  forme  esteriori  d'una  letteratura  che  andava  sempre  più  acquistando  importanza e  grandezza.   Le  IX  lezioni  Del  periodo  toscano  hanno  un  particolare  interesse  per  le  considerazioni  alle  quali  possono  offrire  occasione.   Abbiamo  visto  come  alla  sintassi  sia  stata  fatta  sempre  poca  o  nessuna  parte  nelle  grammatiche  italiane:  nel  Cinquecento  l'esempio  del  Giambullari,  che  fu  il  primo,  sotto  il  consiglio  del  Gelli,  a  trattar  largamente  della  costruzione  intera  e  figurata secondo  l'uso  de'  retori  latini  e  greci,  non  fu  molto  seguito, e  restò  quasi  isolato;  tanto  che  il  riassuntore  di  tutte  le  più  che  secolari  osservazioni  grammaticali,  il  Buonmattei,  nella  sua  voluminosa  grammatica,  non    luogo  affatto  alla  sintassi  e  se  parla  del  ripieno  (pleonasmo),  lo  fa  perchè  lo  considera  come  parte  dell'orazione,  non  necessaria  per  altro  alla  tela  grammaticale, e  non  come  figura  sintattica.  Della  costruzione  tornò  a  trattare,  come  vedemmo,  il  Menzini,  ma  solo  in  quanto  gli  dava  materia  di  discorrere  appunto  delle  figure  grammaticali,  non  del  vero  e  proprio  reggimento,  e  per  influenza  della  grammatica sanziana  e  particolarmente  della  teoria  dell'ellissi;  supplì,  come  pure  vedemmo,  il  Cinonio  all'assenza  della  trattazione  sintattica,  con  quel  suo  speciale  sistema  di  passare  in  rassegna  l'uso    delle    cosidette    particelle:   ma    neppure  il  Cinonio    trattò     A  cura  di  E.   Modigliani] quella  che  propriamente  si  chiama  la  sintassi.  Di  questa,  vedremo tra  poco,  e  perchè,  s'occupò  direttamente  e  di  proposito il  Corticelli,  trasportando  di  peso  il  metodo  della  grammatica  latina  nell'italiana  e  rimanendo  così  a  mezza  strada.   Ma  al  periodo  pochissimi  grammatici  ,  come  s'è  visto,  rivolsero la  loro  attenzione,  come  ad  oggetto  diretto  d'osservazione grammaticale.    poteva  esser  diversamente.  Avremo  anche  più  volte  ripetuto  che  nella  sua  esterna  compagine  la  nostra grammatica  si  venne  modellando  sulla  latina,  svolgendo  negli  schemi  da  questa  offerti  il  nuovo  suo  contenuto.  Ora  la  trattazione  del  periodo  per  i  latini  non  fu  mai  materia  di  grammatica, ma,  come  organismo  d'arte  e  di  pensiero,  apparteneva  alla  rettorica.  Così  esso  entrava  nelle  Artes  dictandi  de'  nostri  antichi  dittatori,  che  erano,  anche  se  si  chiamano  grammatici  e  maestri  di  grammatica,  essenzialmente  retori  e  maestri  di  rettorica. Il  periodo  insomma  riguardava  quella  sezione  della  rettorica antica  che  è  l'elocuzione.  Il  nostro  Manni,  infatti,  accingendosi nella  detta  lezione,  a  discorrere  del  periodo,  cita  il  retore Demetrio  Falereo,  il  quale    nel  suo  celebre  Trattato  dell'Elocuzione accintosi  a  parlar  del  periodo,  tratta  prima  de  i  Membri,  e  degl'Incisi,  come  parti  sostanziali,  da  cui  riceve  esso  materialmente  il  suo  essere;  poiché  dalla  chiara  cognizione  di  questi,  la  perfetta  intelligenza  di  quello  si  facilita,  se  non  in  tutto,  in  gran  parte.  Quindi  per  ispiegare  in  un  tempo  stesso  e  del  Periodo  e  de  i  Membri,  e  degl'Incisi  l'essenza,  con  un  esemplo,  a  mio  giudicio,  esprimente,  rassembra  il  Periodo  a  una  mano,  della  quale  ogni  dito  che  si  consideri  separatamente  da  quella,  si  trova  essere  un  tutto  in    stesso  perfetto;  laddove poi  se  col  risguardo  all'intera  mano  si  osservi,  altro  non  è,  che  un  membro,  ed  una  picciola  parte  fra  l'altre  tutte,  che  vengono  a  comporlo.  E  poi  cita  subito  il  Panigarola  nel  Commento alla  Particella  terza  della  prima  parte  del  suo  Demetrio,  e  poi  il  cap.  9  del  30  della  Rettorica  d'Aristotile,  doveil  periodo   vien  poi  diviso  in  Semplice,  e  in  Composto,  non  altro  essendo  il  Periodo  semplice,  che  quello,  che  fatto  è  d'un  Membro  solo;  il  composto  quel  di  più  Membri. Ricordo,  tra  gli  altri,  il  Gagliaro .   Y.  qui  il  cap.  Vili  e  particolarmente  la  p.   25;  Sulla  scorta  dei  trattatisti  antichi  e  moderni  ,    che  hanno  fatto  sopra  di  ciò  trattati  pienissimi  ,  dichiara  il  Manni  che  potrebbe  molte  cose  portare  ai  suoi  discepoli;  ma  le  tralascia,  per  non  ripeter  ciò  che  è  stato  detto  dagli  altri  e  che  ognuno  può  veder  da  sé,  e  perchè    le  cose  che  dir  potrebbonsi,  non  meno  appartengono  al  Greco,  ed  al  Latino  periodo,  di  quel  che  al  nostro  Toscano  abbiano  attinenza    (p.  200).  Suo  intendimento  è  ragionare  soltanto  del  Periodo  Toscano    dal  Boccaccio  con  sottile  accorgimento  nella  Lingua  nostra  introdotto  ,  mirando  a  eliminare  un  inconveniente    comune  negli    scrittori  e  oratori.   E  appena  necessario  avvertire  che  il  Manni  concepisce  il  periodo  come  un  esteriore  meccanismo  o  strumento  per  l'espressione del  pensiero,  che  si  può  togliere  in  prestito,  insegnare  o  trasmettere  da  scrittore  a  scrittore.  Le  particolari  osservazioni  movono  tutte  da  questa  concezione,  che  è  poi  quasi  interamente  rettorica  e  punto  grammaticale.     Il  forte,  e  l'essenziale  del  discorso  ed  il  fondamento  della  buona  eloquenza  si  è  in  primo  luogo  l'abbondevolezza  delle  cose,  e  la  robustezza  de'  concetti,  e  de  i  sentimenti  sul  capitale  di  un  gran  sapere  accumulata    (p.  201).  Poi  la  giudiziosa  scelta  del  genere  di  parlare  (lo  stile),  se  alto,  mediocre,  o  umile  ('"),  che  però  appartiene  all'arte  di  dire.  Da  questi  principi,  derivano l'uso  de'  termini,  degli  epiteti,  e  degli  avverbi    ottima,  ed  abbondevole  guernigione  di  nostra  lingua.   Ma  la  prima  caratteristica  del  periodo  toscano  è  V ordine  del  tutto  e  delle  parti.  L'ordine  dev'esser  naturale:  da  esso  non  si  disgiunge  la  naturalezza  e  la  chiarezza,  cui  è  compagna  la  sonorità.  Questa  bisogna  conseguire  specialmente  al  principio  r  al  fine  del  periodo,  e  particolarmente  al  fine.  I  Greci  per  conseguirla erano  esercitati  dal  I^onasco,    esercitatore  della  pronunzia .  Essa  in  gran  parte  dipende  dalla  misura  delle  sillabe,  negata  da  Bartolomeo  Cavalcanti  all'italiano,  benché  prima  della  [Tra  questicita  Giovita  Rapicio,  autore  d'un  Trattato  del  numero oratorio  [De  numero  oratorio'],  e  lodatissimo  maestro  e  scrittori.li  ose  grammaticali  e  pedagogiche.  Cfr.  Gekini,  op.  cit.,  p.  124  sgg.  Recentemente  gli  è  stata  dedicata   una  monografia.   Reca  l'esempio  di  sinonimi  del  verbo  morire:  Trar  l'aiuolo,  Tirar  le  cuoia.  Render  l'anima  al  Creatore  suo,  Pagare  alla  natura  il  suo  diritto.] sua  morte  la  fosse  stata  asserita  nel  1556  dal  Ragionamento del  Lenzoni,  edito  dal  Giambullari,  sulla  quantità  delle  nostre  sillabe,  de'  nostri  piedi,  de'  nostri  periodi,  e  prima  ancora dagli  Accademici  della  Virtù  che  ne  diedero  per  le  stampe  i  precetti.  essendone  stato  primo  autore  Alberti.  I  Latini  avevano  le  lunghe  e  le  brevi,  e  noi  abbiamo  gli  accenti.  Il  periodo  non  vuol  esser  terminato    da  voci  monosillabiche    assai  lunghe.  Il  Boccaccio  comincia  e  finisce  il  suo  primo  periodo  del  Decamerone  con  due  trisillabe  piane.  Modello  di  numero  oratorio  è  l'orazione  del  Casa  per  la  restituzion  di  Piacenza.  Utile  a  conseguir  la  sonorità  è  esercitarsi  a  dir  improvviso  versi  di  cinque,  di  sette,  e  d'otto  piedi,  alla  mescolata, ma  senza  incorrer  nel  biasimo  quintilianeo  dell'uso  de'  versi  interi  nella  prosa.  Vizio  rimproverato  già  al  Boccaccio,  ma  dall'annotatore  de\V  Ercolano  del  Varchi  non  ritenuto  tanto  riprovevole, essendo  impossibile  non  adoperar  versi  ne'  periodi.  Vizio  è  quando  il  verso  si  raffigura,  o  sia  si  fa  sentire  troppo  spiccatamente,  e  l'editore  delle  Novelle  che  ne  trasse  fuori  i  versi  adoperatevi,  è  lui  biasimevole  che  la  sua  brevissima  dedicatoria cominciò  con  una  filza  di  versi.  Il  Panigarola  si  restringe a  disapprovar  nella  prosa  solo  la  rima.   E  un  fatto  che  la  bellezza  del  periodo  dipende  dalle  parole  bellamente  acconce:  volendo,  ad  es.,  conseguir  la  grandezza  e  la  magni  fi  ee7iza,  si  deve  far  uso  in  principio  de'  casi  obliqui,  di  repliche  giudiziose,  e  anche  di    parlare  alquanto  oscuro,  e  tardo  ! .  Analogamente  si  conseguono  l'evidenza,  la  vaghezza e  la  leggiadria,  con  simili  espedienti:  così  la  dolcezza  è  prodotta  da  parole  dolci  (Luce,  Desio,  Gioia),  la  languidezza  e  bassezza  da  parole  lunghe,  e  sdrucciole;  l' asprezza,  la  durezza, la  severità  da  parole  simili  a  queste:  Stordimento,  Discoraggiare, Stranezza,  Frastuono .  Insomma  con  la  scelta  delle  parole,    che  meglio  paroleggiamento  appellar  si  potrebbe  ,  si  conseguono  effetti  sorprendenti.    Son  questi:   Il  sommo  pregio  dell'uom  meritevole  Non  resta  mai  all'augusto  confine  Di  sua  dimora;   ma  perennemente  Ovunque  è  cognizione  di  virtù  Vera  si  spande;   quindi  l'Eccellenza  Vostra  sdegnar  non  deve  ch'io  da  lunge  ecc.   C.  Trabalza.    386  Storia  della  Grammatica    Finalmente  tre  cose  bisogna  evitar  nel  periodo:  Lunghezza  eccedente,  Trasposizioni  non  naturali,  il  Verbo  al  fin  trascinato.   Ho  voluto  esporre  questa  dottrina  del  periodo  che  il  Manni  formulava  nel  1736  per  far  notare,  come,  mentre  le  dottrine grammaticali  del  Vico  superavano  il  logicismo  scaligero-sanziano, e  questo,  in  ogni  modo,  fecondato  dai  solitari  di  Portoreale,  produceva  quella    ricca  letteratura  di  grammatiche ragionate  o  filosofiche,  in  Italia,  ne'  nostri  istituti,  si  era  ancora  con  l'antichissima  rettorica,  cioè  proprio  agli  antipodi  delle  più  nuove  dottrine.  Come  s'è  visto,  nell'organismo  periodico il  Manni  non  ha  intravvisto  nessun  legame  tra  le  parole,  l'ordine  di  esse  e  il  pensiero,  che  non  fosse  rettorico;  tutta  la  concordanza  è  tra  la  figura  dirò  così  geometrica  e  musicale  del  periodo  e  una  cotal  forma  di  pensiero  in  essa  rispecchiata.   Tra  la  nona  e  l'ultima  lezione  il  Manni  espone  il  Galateo,  e  con  la  decima  sull'ortografia,  un  gruppetto  di  osservazioni  spicciolate  di  poco  valore,  chiude  il  corso.     meno  lontano  del  Manni    dalle  alture  grammaticali  dell'indirizzo  filosofico  contemporaneo  troviamo  il  Corticelli,  benché  le  sue  Regole  ed  Osservazioni  portino  scritto  in  fronte  la  parola  ?netodo(~).      Alla  tradizione  seguita  dal  Manni  appartengono  quel  p.  Onofrio Branda,  che  nel  suo  Dialogo  della  lingua  toscana  tenne  fermo  con  tirannide  pedantesca  e  inurbana  il  culto  del  toscanismo    (Concari,  //  Settecento,  p.  242)  e  Girolamo  Rosasco,  de'  cui  sette  dialoghi sulla  lingua  toscana  avremo  occasione  di  riparlare  altrove.   C')  La  parola  metodo  ha  storicamente,  per  questo  periodo,  due  significati,  secondo  che  era  adoperata  dai  seguaci  di  Portoreale,  o  dai  grammatici  puristi  che  intendevano  sistemare  didatticamente  la  materia grammaticale:  per  quelli  il  metodo  riguarda  V interno  della  grammatica, per  questi  Veslerno.    11  Nuovo  Metodo  di  Portoreale,  dopo  la  prima  ediz.  ital. cui  già  s'è  accennato,  cominciava  a  esser  ora  più  largamente  diffuso  e  ristampato  in  Italia  con  più  frequenza.  Dal  latino,  pel  quale  primamente  fu  escogitato,  passò  di  leggieri  al  greco,  e  quindi  al  francese  e  all'italiano.  I  Portorealisti  stessi  avevano eseguiti  i  vari  metodi.  Un  Nuovo  metodo  per  la  lingua  italiana  la  più  scelta  estensivo  a  tutte  le  lingue  pubblicò  G.  A.  Martignoni  a  Milano.  Ma  anche  in  quello  escogitato  per  apprendere  la  lingua  latina  era  fatta  una  gran  parte  anche  all'italiana,  tanto  che  verso  l'ultimo  trentennio  del  secolo  usciva  anche,  in  compendio,  come  in  Venezia,  col  titolo  di  Nuovo  metodo  d'insegnai e  le  lingue  italiana  e  latina.  E  anche  tipograficamente  si  volle  distinta     la  parte    Capitolo  tredicesimo  387    Dai  diciannove  trattati  del  Buonmattei e  dalle  Particelle del  Cinonio,  alle  Regole  del  Corticelli  corre  un  secolo  preciso,  poiché  questa  Grammatica vide  la  luce  la  prima  volta,  fruttando  all'autore  con  gli  utili  appunti  degli  Accademici la  nomina  a  membro  del  massimo  Istituto  linguistico.  Con  tutte  le  sue  novità,  questa  Grammatica,  che  ha  il  suo  principal  fondamento  in  quella  del  Buonmattei  e  che  si  ristampava  nel  1854,  a  due  secoli  di  distanza  dunque  dalla  comparsa  della  sua  fonte,  è  nuova  testimonianza  del  fatto  da  me  notato,  che  la  storia  della  nostra  grammatica  precettiva  in  quanto  contiene  una  tendenza filosofica  finisce  col  Buonmattei:  dopo  il  Buonmattei,  se  si  vuol  seguire  il  progresso  scientifico,  bisogna  percorrere  l'altra  via  che  si  stacca  appunto  dal  Buommattei  medesimo  per  quel  che  concerne  il  fondamento  teorico  delle  grammatiche  ragionate    che  vi  ha  di  proposito  la  lingua  italiana  ,  coni'  è  detto  nella  prefazione all'ed.  seguente,  uscita  in  luce  negli  anni  in  cui  ci  troviamo  col  nostro  discorso:  Nuovo  metodo  per  apprendere  agevolmente  la  lingua  Ialina  traila  dal  francese  nell'italico  idioma,  e,  per  utilità  di  novelli  scolari,  aggiuntovi  nel  principio  gli  Elementi  tolti  dal  Compendio  della  medesima  opera,  per  intelligenza  di  tutte  le  parti  dell'Orazione  e  nel  fine  un  tratta  te  Ilo  della  Volgar  Poesia  coir  Indice  dell'  Opera  sinora  desiderato  all'uso  del  Seminario  Napoletano,  in  Napoli,  Per  Pietro  Palumbo,  a  spese  di  Raffaello  Gessari,  voli.  2.  Nel  proemio  è  detto  che  le  regole  vi  sono  dettate  in  versi    seguendo  le  pedate  dell'A.  .  Vi  si  richiamano  lo  Scaligero,  il  Sanzio  e  il  Vossio.  Si  deplora  che  nella  letteratura  si  segua  uno  stil  figurato  [fantasia],  mentre  basterebbe  il  grammaticale  [ragione']:  invece  di  amare  vanno  in  pesca  di  amore  prosegui,  benevolentia  complecti!  Nella  trattazione,  sotto  le  varie  sezioni  e  categorie  grammaticali,  dopo  date  le  definizioni  e  le  regole  per  il  latino,  viene,  in  carattere  più  piccolo,  la  parte  per  l'italiano. Così  a  p.  3  incomincia  l'uso  dell'articolo.  Ma  non  è  una  trattazione sistematica  per  l'italiano  per  quanto  riguarda  la  prima  parte,  cioè  la  morfologia;  e  anche  nella  seconda,  Osservazioni  particolari  sopra  tutte  le  parti  dell'Orazione  ,  al  trattato    delle  figure  di  costruzione ,  delle    lettere  ,  benché  sia  detto  che  è  trattato    '1  tutto  in  rapporto  alla  lingua  italiana    (p.  648  sgg.),  nell'esecuzione  la  promessa è  spesso  dimenticata.     E  questa  l'edizione  che  seguo:  Regole  ed  osservazioni  della  lingua  toscana  ridotte  a  metodo  ed  in  tre  libri  distribuite  da  Corticelli  bolognese  colle  correzioni  e  giunte  di  Pietro  dal  Rio  ed  altri.  Un  volume  in  due  fascicoli.  Venezia,  Stabilimento  enciclop.  di  G.  Tasso  edit.,  M  .  DCCC  .  LIV.  Il  Corticelli  era  di  Piacenza.] e  filosofiche,  che  in  Italia  fanno  una  non  breve  apparizione  e,  inaugurate  come  vedremo  con  quella  di Soave,  caddero  sotto  la  scomunica  del  risorto  purismo  incarnato  in  Puoti,  proprio  nel  tempo  stesso  in  cui  il  più  illustre  scolaro  del  Puoti,  quasi  di  soppiatto  del  maestro,  concepiva  il  disegno  d'una  nuova  grammatica  filosofica  che  contenesse  anche  ed  insieme  la  grammatica storica  e  la  grammatica  metodica,  facendo  una  liquidazione generale  di  quante  grammatiche  italiane  da  quella  del  Fortunio  a  quella  del  Corticelli  avevano  codificato  il  purismo  bembesco-cesariano.   Le  novità  con  cui  si  presenta Corticelli,  erano  queste  tre:  il  metodo;  la  costruzione  (sintassi);  un  florilegio  di  frasi  idiomatiche  degli  Autori  del  buon  Secolo.  L'ordine  della  trattazione è  rispettato:  MORFOLOGIA, SINTASSI, pronunzia, ed ortografia.  Gl'insegnamenti  erano  fondati  su  gli  esempi  di  buoni,  ed  approvati  toscani  scrittori  ,  antichi  fino  al  400,  moderni dal  500  in  poi;  gli  esempi  tolti  in  maggior  copia  dai  trecentisti, e  più  specialmente  dal  Boccaccio,    la  prosa  migliore,  che  vantar  possa  la  nostra  lingua,  secondo  il  testo  Mannelli.  Questo  il  carattere  e  il  pregio  delle  regole  grammaticali:    sono  minuzie,  che  non  si  apprendono  senza  molestia:  ma  il  ben  saperle, e  l'averle  all'occasione  in  contanti  è  cosa  di  molto  vantaggio.  Qui  troviamo  condensati  tutti  i  criteri  che  più  tenacemente  prevalgono  con  la  forza  stessa  della  loro  pedanteria,  in  parte,  in  parte  per  quell'  esigenza  cui  sembra  che  ineluttabilmente  debba  sodisfare  chi  voglia  apprendere  una  lingua.   La  terza  di  quelle  tre  novità,  era  una  conseguenza  del  criterio principale  onde  fu  mosso  il  Corticelli  nella  compilazione  della  sua  fortunata  operetta,  la  riduzione  del  vario  e  vasto  materiale a  metodo:  il  bisogno  di  ridurre  a  metodo  i  precetti  non  poteva  non  ispirar  l'altro  di  ridurre  a  metodo  e  come  alla  portata di  mano  il  vocabolario  delle  veneri,  de1  modi  vaghi  e  belli  onde  riboccali  gli  aurei  scrittori.  Riconosciuta  la  sconfinata  importanza, la  fatidica  necessità,  l'assolutezza  della  grammatica,  unico  segreto  per  riuscire  elegante  e  corretto  artefice  di  prosa,  lo  studio  degli  scrittori  doveva  anch'esso  ristringersi  sotto  il  vasto  imperio  della  grammatica,  riducendo  quasi  in  pillole  e  condensando  in  confettini  il  loro  succo  migliore:  la  conquista  dell'arte  non  era,  non  diciamo  effetto  di  vita  e  di  elaborazione    Capitolo  tredicesimo  389    intcriore,  ma  neppur  risultato  della  lettura  degli  artisti  di  prosa  e  di  poesia,  ossia  dello  studio  concreto  della  letteratura;  essa  era  infallibile  conseguenza  di  chi  si  fosse  bene  impresse  le  regole della  grammatica  e  le  belle  frasi  di  aver  pronte  al  bisogno,  come  quelle  che  son  molte    e  fuggono  facilmente  dalla  menu >ria    (ib.).  Era,  come  ognun  vede,  l'allontanamento  completo  dalle  vive,  fresche  e  perenni  sorgenti  del  pensiero  e  dell'arte:  era  il  portare  al  suo  ultimo  grado  di  sviluppo  degenerativo  quella  che,  in  sostanza,  nel  Cinquecento  era  stata,  più  o  men  bene  condotta osservazione  degli  scrittori  e  non  legge  già  imperiosamente  dedotta:  era  insomma  l'avvento  tinaie  e  completo  della  grammatica nel  peggior  senso  della  parola,  che  è  poi,  non  dimentichiamolo, il  vero  senso  di  essa.   Quella  del  metodo  era  una  novità,  ma  fino  a  un  certo  senso:  già  nel  Cinquecento  le  osservazioni  grammaticali  contenute  nel  terzo  libro  delle  famose  Prose  del  Bembo  erano  state  ridotte  a  metodo  dal  Flaminio  e  da  altri  variamente  rassettate  e  accomodate all'utilità  pratica  degli  studiosi  della  nostra  volgar  lingua,    erano  mancate  compilazioni  grammaticali  che  quella  materia  stessa  avevano  disciplinato:  il  bisogno  d'aver  un  corpo  ordinato  di  quelle  osservazioni  che  via  via  sotto  lo  studio  diretto  degli  scrittori  si  eran  venute  facendo,  da  poter  esser  consultato  volta  per  volta  oltre  che  tenuto  come  testo  per  uno  studio  sistematico della  grammatica  sia  pur  fuori  dell'ambito  strettamente  scolastico, era  stato  più  o  meno  vivamente  sentito  e  s'era  cercato  di  sodisfarlo  con  qualche  successo:  e  anche  a  non  citar  i  cosiddetti mestieranti  che  non  il  Bembo  soltanto,  ma  i  principali  grammatici  cinquecenteschi  avevan  raccolto  e  ordinato  a  uso  degli  studiosi,  lo  stesso  Salviati  in  quei  suoi  Avvertimenti  sul  Decameron  aveva  dato  un  lodevole  esempio  del  come  le  forme  e  i  costrutti  d'  un  cosi  ins igne  capolavoro  e  d'altre  opere  dell'aureo secolo  potessero  esser  studiate  metodicamente  nelle  tradizionali categorie:  e  il  Castelvetro,  sopra  tutti,  pur  in  quelle  apparentemente  farraginose  e  selvose  e  irte  sue  Giunte  alle  Prose  del  Bembo  che  ebbero  a  stancar  la  pazienza  di  lettori  non  pochi,  non  esclusi  i  benevoli  e  amorevoli  critici  del  più  sottile  di  tutti  i  filologi  nostri  antichi,  non  aveva  forse  applicato  un  principio  eminentemente  metodico  di  esposizione?  Metodico,  nel  senso  più  elevato  della  parola    questo  soprattutto  interessa  qui  metter  bene  in  rilievo    più  e  meglio  che  nell'esposizione    390  Storia  della  Grammatica   dirò  esterna  della  materia  contenuta  nelle  due  principali  categorie  grammaticali,  V articolo  e  il  verbo,  su  cui  aveva  esercitato  il  suo  spirito  critico,  era  stato  nella  trattazione  interna  di  essa,  ossia  nello  svolgerla  nella  sua  formazione  storica,  come  quegli  che,  precorrendo assai  meglio  d'altri  precettisti,  come  vedemmo,  il  sistema  d'investigazione  linguistica  proprio  della  moderna  filologia,  aveva  mosso  dalla  parola  latina  per  ispiegare  coi  criteri  della  fonetica  evoluzionistica  e  in  ispecie  con  la  legge  dell'analogia,  la  morfologia dell'articolo  e  del  verbo  volgari.  Infine  con  metodo  aveva  cercato  di  stendere,  nella  prima  metà  del  Seicento,  i  suoi  trattati  il  Buonmattei,  elaborati  sul  materiale  vario  e  diverso  che  i  grammatici del  Cinquecento  gli  avevano  trasmesso.  Anzi,  nell'ordine  che  chiamerò  ideologico,  il  Buonmattei  è  metodico  quant'era  stato  nell'ordine  storico  o  filologico  il  Castelvetro.  Non  solo.  Il  Buonmattei  avrebbe  proprio  inaugurato  il  vero  metodo  dell'esposizione grammaticale    astrazion  fatta  dal  regresso  che  rappresenta rispetto  al  Castelvetro  per  quanto  concerne  la  grammatica storica    nel  senso  di  un  principio  filosofico  secondo  il  quale  sorgono  e  si  dispongono  nella  tela  grammaticale  le  parti  dell'orazione,  se  tra  la  sezione  teorica  e  quella  pratica,  onde  consta  la  sua  grammatica,  fosse  un  ben  più  intimo  legame  di  quel  che,  come  già  notammo,  in  realtà  non  sia,  poiché  questa  seconda  sezione  resta  in  sostanza  quasi  unicamente  descrittiva.  Ciò  che  non  avvenne  nelle  posteriori  grammatiche  generali  specie  della  Francia,  dove  appunto  la  grammatica  generale  s'incorpora  nelle  particolari  del  latino  e  delle  lingue  moderne  con  intimo  legame.  Non  si  può  negare  che  in  codesta  descrizione  non  sia  cercato  il  metodo  con  piena  convinzione  e  coscienza;  ma  Buonmattei era  ancora  troppo  vicino  alle  varie  tendenze,  alle  polemiche che  si  svolsero  nel  campo  della  grammatica  cinquecentesca, perchè  non  dovesse  risentirne  1'  influenza    lasciarne  le  tracce  nella  sua  trattazione.  Inoltre  il  troppo  definire  le  specie  e  le  sottospecie  delle  categorie,  la  confutazione  d'errori  e  di  teorie  credute  sbagliate,  una  soverchia  abbondanza  di  svolgimento e  di  particolari,  la  moltiplicazione  delle  categorie  stesse  portate  a  dodici,  e  altri  che  sono  e  non  sono  difetti,  non  sono  certamente  le  caratteristiche  meglio  notevoli  d'una  trattazione  metodica.  Egli  stesso  trovava  il  suo  libro  di  non  facile  uso    di  facile  intelligenza  e  raccomandava  che  si  studiasse  prima  della  prima  la  seconda  parte  per  ben  comprender  l'una  e  l'altra e  specialmente  la  prima.  Insomma,  neppure  quello  del  Buonmattei  sembra  che  rispondesse  al  bisogno  d'  un  libro  di  grammatica metodico,  chiaro  insieme  e,  come  dicevano,  manesco.  Le  aggiunte  e  correzioni,  inoltre,  che  il  Cinonio,  il  Bartoli  e  gli  altri,  che  s'occuparono  per  tutto  il  resto  del  secolo  e  il  principio  del  successivo  di  cose  grammaticali,  apportarono  al  corpo  di  quelle  del  Buonmattei,  e  i  mutati  ordinamenti  scolastici,  ne'  cui  piani  cominciava  ormai  a  entrare  ufficialmente  e  separatamente,  come  vedemmo  essersi  fatto  nell'Arcivescovile  seminario di  Firenze,  rendevano  ancor  più  vivo  quel  bisogno,  anzi  tanto  vivo,  che  potè  sembrare  un  bisogno  recente,  proprio  del  momento,  e  novità  quella  di  chi  introducesse  il  metodo  nella  trattazione  grammaticale.  Parrebbe  inoltre  che  quel  movimento  intellettuale  che  s'era  determinato  nel  campo  della  grammatica  latina  con  la  discussione  e  l'applicazione  dei  principi  aristotelici  ripresi  dallo  Scaligero  e  dal  Sanzio  e  poi  nuovamente  fecondati  dai  Portorealisti,  e  che,  richiamando  gli  studiosi  della  lingua  a  una  considerazione  più  elevata  che  non  fosse  quella  puramente  descrittiva  della  grammatica,  necessariamente  li  costringeva  alla  ricerca  delle  relazioni  logiche  de'  fatti  linguistici  e  perciò  a  una  trattazione  disciplinata,  sistematica  di  esse,  parrebbe,  dico,  che  codesto  movimento  logico-grammaticale  del  Seicento  cadente  e  dell'  ineunte  Settecento  dovesse  far  sentire  ancor  meglio  la  necessità del  metodo,    fosse  estraneo  appunto  all'affermazione  corticelliana  dell'urgenza  di  sopperirvi;  se  non  che,  non  solo  questo  non  avvenne,  ma  a  codesto  movimento,  non  che  estraneo,  fu  affatto  in  opposizione  il  modo  onde  il  Corticelli  esplicò  il  suo  disegno  di  grammatica  metodica. Precorre  in  questo  senso  il  Corticelli  di  pochi  anni    nelle  novità  richieste  dai  tempi  non  si  è  mai  soli   Gaffuri  barnabita,  autore  di  Osservazioni  grammatica/i  ridotte  a  metodo  breve  e  facile  per  chi  desidera  correttamente  scrivere  nella  Italiana  favella; dedicato  alla  ingenua  e  studiosa  gioventù  Friulana,  Udine.  Il  Gaffuri  dice  appunto  che  i  fanciulli  si  spaventano  dinanzi  ai  volumi  del  Buonmattei,  del  Castelvetro,  del  Salviati,  del  Cinonio,  e  non  possono profittarne:  ed  egli  intende  con  questo  suo  libriccino  aver  supplito alla  debolezza  degl'uni,  ed  all'impotenza  degl'altri.  Ma,  all'atto pratico,  si  vede  che  il  metodo  è  concepito  come  abbandono  di  tutta  la  ricchezza  delle  osservazioni,  e  conservazione  di  alcuni  pochi  schemi. Prima  ancora  di  Gafi'uri,  Bosolini  aveva  pub- [Il  suo  metodo,  in  sostanza,  si  ridusse  a  scarnire  fino  quasi  allo  scheletro  il  corpo  della  grammatica,  e,  fattene  tre  sezioni,  descriverlo  pezzo  per  pezzo  per  regole,  osservazioni,  eccezioni  e  appendici  con  semplice  meccanismo,  senza  mai  cercare  una  ragione di  intima  dipendenza  tra  una  parte  e  l'altra  o  altra  distinzione che  quella  del  numero  progressivo,  badando  solo  a  render  la  materia  facilmente  imparabile  a  memoria,  e  de'  precedenti grammatici  limitandosi  a  citar  qualche  nome,  più  spesso  quello  del  Buonmattei,  e  cancellando  quasi  ogni  traccia  delle  vecchie  discussioni  anche  con  rimandi  ad  esse,  ligio  soprattutto  specie  per  gli  esempi  all'autorità  della  Crusca,  che,  anche  per  confessione  de"  suoi  annotatori,  Corticelli  continuamente  saccheggia  a  maggior  conferma  della  rigidità  e  assolutezza  de'  principi  a'  quali  s' informa.   Metodo  vuol    dir   guida    razionale,    blicato  la  Midolla  letteraria  della  lingua  italiana  purgata,  e  eoi' ietta  con  un  competente  Saggio  de'  suoi  quattro  principali  dialetti  cui  s'aggiunge una  Midolla  di  Le t ter  familiari,  per  il  principiante:  il  lutto  ordinato  con  nuovo  metodo  a  prò  di  un  Amico,  Venezia;  ma  se  non  vogliamo  credere  alle  parole  del  titolo,  questa  grammatica,  che  potè  esser  stata  ispirata  dalla  pubblicazione  che  appunto  circa  questo  tempo)  il  Gigli  fece  delle  Opere  del  Cittadini,  più  che  al  periodo  diremo  precorticelliano,  sarebbe  da  riferire  a  quello  postcittadinesco,  per  la  parte  ivi  data  alla  fonetica  e  ai  quattro  idiomi  toscani  e  al  criterio  non. esclusivamente  municipalistico.  Ognuno  deve  cercare,  dice  l'A.,  di  star  nel  proprio  terreno,  evitando  i  due  scogli  o  di  dover  praticar  la  pronunzia  fiorentina,  e  quindi  apparire  in  casa  loro  affettati  e  ridicoli,  o  di  scrivere  molto  diversamente  dal  loro  pronunciare,  ch'è  manifestamente  contro  i  dettami  di  tutti  gl'Italiani  più  saggi.  La  grammatica  è  contenuta  nella  I  parte  I.  Ortografia: lettere,  cons.,  voc,  ditt.,  apostr.,  radd.  o  scem.,  maiusc.  e  staccamento;  II.  Etimologia:  art.,  nome,  pron.,  ver.,  pers.,  anomali,  part.,  accorc,  tronc,  ristring.,  voci;  III.  Sintassi',  div.  della  materia,  dialetti  (fior.,  sen.,  cur.-rom.,  comune,  corrisp.  ai  greci  attico,  gionico,  eoi.,  dor.),  forma  della  sint.;  Prosodia:  accenti,  interp.).  Da  pp.  16-22  riassume  i  trattati  cittadineschi  sull'i  e  Yo  aperti  e  chiusi.  E  chiuso,  p.  es.,  è  di  4  cause:  1.  per  accento  grave:  dove,  pensoso  (ma  penso);  per  origine  latina:  lèttera;  per  ragioni  della  lettera:  seguito  da;/  o  u:  meno;  4.  per  definimento:  -ménte  (altamente  ecc.). Di  questa  guisa  d'errori  [valore  de'  modi  toscani]  abbonda  il  Corticelli  in  queste  sue  Appendici  ecc.,  i  quali  attinge  si  può  dir  tutti  dal  Voc.  della  Crusca.  Però  fin  da  ora  ne  sveglio  il  lettore,  a  cui  non  istarò  a  torre  il  capo  con  noterelle  di  questa  specie.  Uomo  avvisato  è  mezzo  salvo!] ordine  interno  di  trattazione,  svolgimento  sistematico  di  relazioni o  intellettuali  o  storiche:  qui,  invece,  è  scolasticismo,  simplitìcazione  didattica  ottenuta  con  criteri  meccanici,  mnemonici, aiutata  da  partizioni  e  suddistinzioni,  indici  analitici:  che,  peraltro,  possono  rendere  il  libro  di  facile  consultazione  a  chi  voglia  cercarvi  una  regola,  ma  non  sono  certi  gli  espedienti  migliori a  mettere  lo  studioso  in  possesso  dell'argomento.  Ma  conviene del  pari  riconoscere  che  tal  sorta  di  metodo  è  l' unica  degna  d'  un  tal  prodotto  qual  è  la  grammatica:  codesto  metodo  è  l'unica  logica  di  essa,  che  non  ne  ha  appunto  nessuna.  E  questa  è  la  ragione  per  cui  ha  finito  col  trionfare  non  nella  sola  grammatica  italiana,  s'  intende,  e  prevarrà  indubbiamente  fino  a  che  si  studieranno  grammatiche.  Quello  della  grammatica  è  studio  meccanico:  quindi  spogliarla  d'ogni  intrusione  razionalistica è,  nel  campo  della  didattica,  perfettamente  metodico,  e  renderla  veramente  servibile  (che  servizio  sia,  è  inutile  dirlo)  a  chi  voglia  o  debba  studiarla;  non  solo,  ma  l'innovarla  troppo  profondamente  in  quel  suo  tradizionale,  stereotipato  schematismo,  la  conturba,  la  trasfigura,  disorientando  i  lettori:  tanto  è  ciò  vero  che,  attraverso  il  turbinìo  continuo  di  nuovi  metodi,  l'antico, il  comune,  il  tradizionale  riman  sempre  in  onore,  e  ritorna  sempre,  difeso  e  riverito,  a  ogni  fallire  di  quelli.   Anco  per  questa  ragione,  dovendo  il  Corticelli  eseguire  quasi  per  la  prima  volta  nella  grammatica  italiana  un'esposizione metodica  della  costruzione  o  sintassi  toscana,  ne  tolse  di  peso  dalla  latina  dell'Alvaro,  come  il  Puoti  avverte,  criticandolo,  nella  prefazione  alla  seconda  parte  delle  sue  Regole  (nella  gr.  latina elementare  s'era  cominciata  prima  la  scarnificazione  appunto  perchè  eravamo  già  lontani  dal  Rinascimento,  periodo  di  vitalità),  lo  stampo  e  ve  lo  trasportò  integralmente,  anche  dove  e  quando  non  solo  non  era  richiesto,  ma  cozzava  evidentemente  con  le  nuove  forme  a  cui  più  non  s'attagliava:  difetto  egualmente  avvertito dagli  annotatori  suoi,  che  sentenziavano  quelle  regole  r,  nelle  cui  note  è  cit.  la  copiosa bibliografia  che  del  Soave  diede  il  sig.  Motta  nel  Boll.  si.  della  Svizz.  ìt. Ne  ho  l'ediz.  di  Venezia  del  MDCCXCV,  nella  stamperia  di  Giacomo  Storti,  dove  vanno  uniti  col  voi.  I  delle  Istituzioni  di  logica,  metafisica  ed  etica.   f:t)  Prefaz.,  dove  è  detto  che  a  Berlino  furono  spedite  in  una  Dissertazione  latina  colla  divisa  Utilitas  expressit  nomina  rerum,  Lucret.  traduzione  italiana.   Croce,  Est.  senza  di  cui  certamente  la  prima  non  può  formarsi  .    una  società  può  formarsi  senza  il  motivo  di  bisogni  scambievoli  e  senza  che  gli  aiuti  reciproci  siano  con  qualche  segno  manifestati.  La  natura  ne  somministra  alcuni  spontaneamente:  altri  artificiali scaturiscono  poi  dagli  originari  meccanici.  I  primi  e  i  secondi non  essendo  per  altro  bastevoli,  la  natura  stessa  stimolata da  nuovi  bisogni  conduce  all'istituzione  d'altri  segni,  e,  per  gradi,  prepara  alla  formazione  d'un  vero  linguaggio.  Oltre  la  tesi,  è  chiaramente  indicato,  nella  prefazione  citata,  anche  il  metodo  dell'analisi.    L'istituzione  primieramente  del  linguaggio  de'  gesti,  appresso  delle  voci  articolate  in  generale,  e  in  seguito  di  ciascuna  parte  del  discorso  distintamente  io  mi  ho  veduto  nascere  dalla  natura  medesima  con  maggiore  facilità  e  semplicità che  forse  dapprima  non  m'attendea  .  Ma  a  ben  seguire  lo  sviluppo  del  linguaggio  bisogna  rifarsi  dal  principio  della  storia  dell'umanità,  e  vedere  come  si  può  formar  la  famiglia,  e  poi  per  quali  mezzi  dalle  famiglie  moltiplicate  sorse  una  compiuta  società    che  dallo  stato  selvaggio  gradatamente  passasse  a  quello  d'una  perfetta  coltura  .  Il  linguaggio  progredisce  col  progredire della  società.    Ma  restava  a  cercare  per  quali  vie  più  naturali e  più  semplici,  e  il  numero  de'  suoi  vocaboli,  successivamente, potesse  moltiplicarsi,  e  potessero  stabilirsi  di  mano  in  mano  le  regole,  che  l'essenza  costituiscono  di  una  lingua  .   Dal  poco  che  fin  qui  s'è  riferito,  facilmente  s'argomenta  che  il  Soave  è  sotto  1'  influenza  del  pensiero  vichiano,  e  ora  dimostreremo come  il  punto  di  partenza  e  il  sistema  della  dimostrazione del  sorgere  delle  categorie  grammaticali  sieno  presi  dalla  Scienza  nuova.  Ma  qui  mi  giova  metter  subito  in  evidenza  come  il  Soave  abbia  assunto  del  Vico  perfino  l'atteggiamento,  sebbene  con  un  gran  pericolo  di  diventarne  ridicolo.  Chi  sa  i  tormenti  fierissimi  in  cui  si  travagliò  1'  intelletto  del  sommo  filosofo  napoletano per  conquistare  la  verità,  non  può  leggere  senza  sentirsi  preso  da  profonda  riverenza  e  commozione  dichiarazioni  di  questo  genere:    La  guisa  del  loro  nascimento,  ossia  la  natura  delle  lingue,  troppo  ci  ha  costo  di  aspra  meditazione. Ma  che  dire  del  padre  Soave  che,  copiando  il  Vico,  al  punto  in  cui  ne  abbiam  lasciato  il  pensiero,  esce  in  questa  che  è  una  parafrasi  della  dichiarazione  vichiana?    questa  parte  a  prima  vista  sembrava  la  più  difficile;  ma  con  un  attento  esame  delle  lingue  già  note,  e  con  una  seria  meditazione  su  la  natura  intima  delle  lingtie,  ella    4 io  Storia  della  Grammatica   pure  si  è  ridotta  ad  una  eguale  semplicità,  se  non  forse  maggiore della  prima  .   Avrebbe  potuto  ritenersi  pago    seguo  ancora  le  preziose  confessioni    della  scoperta;  ma  non  volle  perder  l'occasione  di  mostrare  l'influenza  che  la  società  e  le  lingue  hanno  sulla  umana  cognizione.  Visto  dunque  lo  stato  mentale  d'un  uomo  abbandonato  a    solo  dal  nascere,    vale  a.  dire  d'un  uomo  senza  società,  e  conseguentemente  senza  linguaggio,  si  fa  a  considerarlo  in  società,  e  parlante:  e  giunto  anche  soltanto  all'istituzione  de'  nomi  e  de'  verbi  ,  trova  in  lui  perfettamente  sviluppate  tutte  le  facoltà  come  in  noi  e  capaci  di  cognizioni  di  altissimo  grado.  E  si  lusinga  che    il  vedere  in  tal  guisa  da  due  fanciulli  abbandonati  in  un'Isola  deserta  nascere  a  poco  a  poco  una  società,  nascere  una  lingua,  e  col  progresso  dell'una  e  dell'altra svilupparsi  di  mano  in  mano,  e  perfezionarsi  le  facoltà,  moltiplicarsi  le  cognizioni,  formerà...  un  colpo  d'occhio  non  disgradevole nel  tempo  stesso  che  varie  riflessioni,  molte  delle  quali  pur  crede  nuove;  e  intorno  alla  natura  e  allo  sviluppamento  delle  umane  facoltà  e  cognizioni,  e  intorno  alla  natura  intima  delle  lingue  non  lascieranno  di  essere  vantaggiose  .   Chiude  dichiarando  che,  malgrado  questi  motivi...  affine  di  non  moltiplicare  inutilmente  le  opere  su  d'uno  stesso  soggetto ,  si  sarebbe  tenuto  dal  pubblicar  le  sue  ricerche,    se  la  dissertazione  del  sig.  Herder,  che  meritamente  fu  coronata,  e  eh 'è  già  uscita  alla  luce,  fosse  stata  da  esse  meno  dissimile  .  E  seguendo  l'estratto  córsone  sui  giornali,  istituisce  questo  raffronto tra  la  propria  e  la  dissertazione  dell'Herder:  Sulla  prima  parte  del  quesito  ci  sembra  essersi  trattenuto  principalmente :  laddove  io  per  la  ragione  sovraccennata  alla  seconda  principalmente  ho  creduto  dovermi  appigliare.  Ei  non  discende  a  ninna  ipotesi;  io  fissata  fin  dal  principio  l'ipotesi  di  due  fanciulli in  un'  isola  deserta  abbandonati,  a  questa  continuamente  m'attengo.  Egli  colla  vastità  del  suo  ingegno  abbraccia  il  proposto argomento  più  in  universale,  e  più  in  astratto,  io  l'esamino più  in  particolare,  e,  se  m'è  lecito  di  così  dire,  più  in  concreto.  Insomma  le  due  memorie,  benché  s'aggirino  sovra  la  stessa  materia,  possono  tuttavia  riguardarsi  come  due  cose  pressoché affatto  diverse;  e  dove  le  mie  ricerche  non  abbiano  altra  utilità,  avran  quella  forse  di  supplire  a  ciò  ch'egli  ha  tralasciato. Accennando  ai  debiti  del  Soave  verso  il  Vico  non  abbiamo  certamente  inteso  d'affermare  che  la  memoria  sia  tutt'un  plagio:  oltre  che  non  avrebbe  potuto  esser  tale  per  ragione  di  estensione,  constando  essa  di  ben  diciannove  capitoli,  mentre  il  Vico  ha  tutta  condensata  in  poche  pagine  la  materia  elaborata  dal  Soave,  attinge  largamente  da  scrittori  contemporanei  di  filosofia  del  linguaggio,  quali  il  De  Brosse,  autore  del  noto  libro  De  laformation  mécanique  des  Langues,  il  Lery,  il  Sulzer  e  altri.  Particolari affermazioni  di VICO (si veda),  Soave  ha  fatto  proprie:  che  le  prime  a  essere  istituite  dovettero  esser  le   interjezioni  -- cf. Grice, “Ouch” – Meaning Revisited;     che  i  vocaboli  da  principio  furono  mono-sillabi (ouch),  o  bi-sillabi  (ouch ouch) al  più. Perciocché  innanzi  di  aver  esercitato  gl’organi  della  voce  non  potran  essi  proferire  ad  un  tratto,  che  UNA,  o  due  sillabe solamente.  LO STESSO NOI VEGGIAMO NE’FANCIULLI, che  le  parole  cominciarono  da  l'imitazioni  delle  voci,  e  de'  suoni  NATURALI (ouch),  secondo  la  cosidetta  dottrina  dell' o?iomatopea;    che  i  verbi  cominciarono  dall'imperativo  ( non  tutti,  però,  aggiunge,  quasi  voglia  correggere  il  non  citato   maestro),  e  che  anche  i  verbi  furon  tratti  dall'onomatopea ecc.  Il  debito  principale,  tuttavia,  è,  come  s'è  già  detto,  in  quel  prender  le  mosse  dallo  stato  primitivo  della  umanità,  dal  considerar le  manifestazioni  del  linguaggio  nel  fanciullo,  in  quel  riferire  queste  manifestazioni  alle  cause  naturali  agenti  sull'uomo,  i  loro  progressi  ai  progressi  della  società,  nel  distinguerle  in  mute  e  in  articolate  secondo  che  l'uomo  fu  abbandonato  a    stesso  o  costituito  in  società,  in  quel  seguire  il  sorgere  progressivo delle  categorie  grammaticali  e  sintattiche  secondo  i  procedimenti rappresentativi  e  logici  delle  menti  umane  più  o  meno  sviluppate  secondo  il  progresso  sociale,  insomma  nell'aver  battuta la  medesima  via  per  giungere  alla  risoluzione  del  problema  dell'origine  del  linguaggio.  Ma,  sarebbe  quasi  superfluo  il  dirlo,  le  differenze  sono  profonde.  VICO (si veda),  anzitutto,  ha,  come  ormai  si  sa  per  la  dimostrazione  del  Croce,  definita  la  natura  estetica  del  linguaggio;  secondo,  nello  spiegarne  l'origine  e  lo  sviluppo,  ha  accennato  solo  principi  generali  di  natura  molto  diversa  da      Su  questo  proposito  dell'imperativo  cita  invece  senza  accettarla un'opinione  del  Berger,  Les  èléments  priniit.  des  Lang.,  che  ri-,  cordava  a  sua  volta  quella  del  sapientissimo  Leibnitz:  nell'imperativo  doversi  cercare  la  radice  de'  verbi  della  lingua  tedesca] quelli  del  Soave,  senza  scendere  a  particolari  circostanze,  tenendosi sempre  all'altezza  dell'aquila.  Per  esempio,  il  Vico,  dopo  aver  esaurita  la  sua  dimostrazione  circa  il  sorgere  delle  prime  classi  grammaticali  tutte  monosillabiche,  osserva:  Questa  Generazione delle  Lingue  è  conforme  ai  Principi  così  dell'Universale  Natura,  per  li  quali  gli  elementi  delle  cose  si  compongono,  e  ne'  quali  vanno  a  risolversi;  come  a  quelli  della  natura  particolare umana  per  quella  Degnila,  eh'  i  fanciulli  nati  in  questa  copia  di  lingue,  e  eh'  hanno  mollissime  le  fibre  dell'  istromento  da  articolare  le  voci,  le  incominciano  monosillabe;  che  molto  più  si  dee  stimare  de'  primi  uomini  delle  genti,  i  quali  l'avevano durissime,    avevano  udito  ancor  voce  umana.  Soave  nota  che  i  fanciulli  non  potranno  proferire  che  una  o  due  sillabe  solamente  e  che  non  arrivano    se  non  dopo  un  certo  tempo  a  poterne  proferir  di  più  lunghe.  Il  monosillabismo  pel  Vico  è  un  principio  universale  e  particolare insieme  e  con  esso  egli  spiega  tutta  la  primitiva  grammatica, ossia  tutto  il  linguaggio;  pel  Soave  non  è  più  nulla,  non  solo  perchè  è  monosillabismo  e  bisillabismo,  indifferentemente,  ma  perchè  non  è  più  un  principio,  ma  una  semplice  questione  di  maggiore  o  minore  bravura  meccanica.  Terzo,  finalmente,  Vico,  come  più  addietro  vedemmo,  nel  confronto  della  sua  con  la  dottrina  aristotelica  delle  categorie  grammaticali,  fa  di  queste  degl'  indici  delle  fasi  ideali  dell'umanità,  ne  fa  dei  segni  in  cui  si  siano  concretati  e  espressi  particolari  progressivi  atteggiamenti  dello  spirito  umano:  il  Soave  con  la  logica  alla  mano  e  con  una  storia  di  sua  invenzione,  precisa  non  solo  nei  particolari  delle  circostanze  ma  degli  specifici  procedimenti  della  mente  umana,  fa  fare  all'umanità  un  cammino  inverso,  appunto,  per  dirla  con  la  maniera  stessa  di  Vico,    come  se  i  popoli,  che  si  ritrovaron  le  lingue,  avessero  prima  dovuto  andare  a  scuola  ò? Aristotile  .  Ma  non  propriamente  d'Aristotile,  si  bene  dei  sensisti  del  secolo  decimottavo.  Perchè,  appunto,  questo  è  da  concludere,  che  il  Soave  ha  elaborata  la  materia  vichiana  col  sensismo  filosofico  del  suo  tempo.  Insomma,  sulla  guida  di  un'intera e  compiuta  grammatica  logica,  fondata  sulle  distinzioni  di  materia  e  forma,  di  pensiero  e  segni,  di  idee  sensibili  e  astratte,  Soave  ha  costruito  una  storia  universale  umana,  facendo  corrispondere ad  ogni  classe  grammaticale,  a  ogni  forma  inflessiva  di   nomi   e  di  verbi,   una  particolare  causa  sociale  e  naturale  che    Capitolo  quattordicesimo  413    l'abbia  prodotta.  Tanto  valeva  il  prescindere  dalla  sua  fantastica  narrazione  de'  due  piccoli  selvaggi,  e  darci  addirittura  una  grammatica logica.  Quella  che  ci  diede,  fu  dunque  una  copia,  un  duplicato ;  ma  prima  che  ne  diciamo  qualcosa,  ci  corre  l'obbligo  di  accennare  per  lo  meno  alla  grande  portata  filosofica  che  ha  invece  la  dissertazione  dell'Herder.   Lo  faremo  con  le  succose  parole,  documentate  da  opportune  citazioni,  del  Croce,  che  ne  porgono  una  chiara  idea  e  un  giusto  giudizio.    La  lingua    egli  dice  in  quello   scritto    è    la    riflessione o  coscienza  (Besonnenheit)  dell'uomo.  L'uomo  mostra  riflessione  quando  spiega  con  tale  libertà  la  forza  della  sua  anima  che  in  tutto  l'oceano  di  sensazioni  penetranti  pe'  suoi  sensi,  può,  per  così  dire,    separare    un'onda,    ritenerla,   dirigere  su  di  essa  l'attenzione,  ed  esser  conscio  che  l'osserva.   Egli  mostra   riflessione quando  può,  nell'ondeggiante  sogno   delle    immagini    che  passano  innanzi   ai    suoi   sensi,    raccogliersi   in  un    momento  di  veglia,   liberamente  soffermarsi  su  di  una   immagine,    prenderla  in  chiara  e  calma  considerazione,  separarne  de'  connotati.  Egli  mostra,   infine,   riflessione  quando  non  solo  può  conoscere  vivamente e  chiaramente  tutte  le  proprietà,  ma  può  riconoscere  una  o  più  proprietà  distintive.   Il  linguaggio umano non  è  l'effetto di  n\\  organizzazione  della  bocca,  giacché  anche  colui  ch'è  muto  per  tutta  la  vita,  se  riflette,  ha  in sé    linguaggio. NON È UN GRIDO DELLA SENSAZIONE, giacché  esso  non   fu    trovato  da  una  macchina  respirante,  ma  da  una  CREATURA RIFLETTENTE. Non  è  un  fatto  d'IMITAZIONE,  giacché  l' imitazione  della  natura  è  un  mezzo,  e  qui  si  tratta  di  spiegare  lo  scopo;  MOLTO MENO È CONVENZIONE ARBITRARIA [Grice: “Meaning has nothing to do with convention”]. Il  selvaggio  nella   solitudine    del  bosco  avrebbe  dovuto CREAR il  linguaggio  per    medesimo,  quand'anche  non  l'avesse parlato.   Il  linguaggio  è  l'ifitesa    della  sua  ANIMA  con    stessa,  intesa  tanto  necessaria,  quanto  che  l'uomo è  uomo.  Comincia  così  la  funzione  linguistica  ad  apparire  non  più  fatto  meccanico  od  arbitrio  ed  invenzione,   ma  creazione  ed  affermazione prima  dell'attività  umana. Benché  lo  scritto  dell'Herder,    come    il  Croce   stesso  nota,  non  dia  un  risultato  netto,  e  sia  solo  un  sintomo  e  un  presen- [Abhandlung  i'cber  den  Ursprung  der  Sprache,  nel  libretto:  Zwei  Preisschriften  etc.  (2a  ediz.  di  Berlino.  Estetica] timento  della  soluzione  da  dare  al  problema  del  linguaggio,  pure  ognun  vede  quanto  e  come  esso  superi  le  vedute  filosofiche  dell'enciclopedismo  francese  seguite  dal  Soave  e,  in  qualche  parte  e  precisamente  per  le  speciali  teorie  dell' interiezione  e  delV imitazione,  quella  dello  stesso  Vico,  che  l'Herder  pur  conobbe  ed  elogiò.     il  Vico    l'Herder,  al  quale  come  anche  all'amico  suo  Hamann    spetta  il  merito  di  aver  fatto  sentire  come  un  soffio  d'aria  fresca  anche  negli  studii  di  filosofia  linguistica,  ebbero tra  noi  non  dico  la  preminenza  sulle  dottrine  logiche  dei  francesi,  ma  un  equivalente  grado  di  efficacia,  nonostante  che  un  seguace  e  del  Vico  e  dell'Herder,  CESAROTTI (si veda),  raccogliesse,  più  ancora  del  Soave,  intorno  al  suo  Saggio,  che  in  parte  deriva  dagli  scritti  loro,  non  tenui  simpatie    basti  citare  il  nome  di  Torti     la  tradizione  logico-grammaticale,  che  ha  il  suo  miglior  rappresentante  nel  Du  Marsais,  tenne  vittoriosa  il  campo,  contrastata  solo,  come  vedremo,  dal  risorto  purismo  cesariano  puotiano,  fino  oltre  la  prima  metà  del  secolo  passato   la  Grammatica  generale  del  Corradini  in  tutto  dumarsaiana  è  del  1856!    cioè  anche  dopo Humboldt,  ma  spolpata,  dissanguata,  scheletrita,  ridotta  ai  puri  schemi,  il  che  vuol  dire  alla  sua  forma  meno  feconda  e  più  noiosa,  e  pur  propinata  a  a  volte  in  libercoli  di  poche  pagine  perfino  agli  alunni  della  prima  e  seconda  classe  elementare  !   La  grammatica  stèssa  del  Soave  n'ègià  una  chiarissima  prova.   E  divisa  in  due  libri,  uno  dell'  Etimologia,  l'altro  della  Sintassi   un  trattatello  della  ortoepia  e  dell'ortografia  fu  scritto  a  parte,    ciascuno  de'  quali  suddiviso  in  4  sezioni:  la  prima  del  I  svolge  la  parte  generale  delle  parti  del  discorso,  la  II  il  nome  (coi  suoi  affini,  aggettivo  e  pronome,  e  i  suoi  servitori,  segnacasi e  articoli),  la  prima  delle  parti  logicamente  più  importanti :  la  III  il  verbo,  l'altra  parte  più  importante  del  discorso  (coi  suoi  partecipi,  gerundi  e  aggettivi  verbali);  la  IV  il  miscuglio degli  accessori  logici  (preposizioni,  avverbi,  congiun- [Croce,  Est.,  p.  265.  T.,  Della  vita  e  delle  opere  di  F.  T.,  Bevagna,  e  Studi  sul  Boccaccio,  Città  di  Castello,  e  Croce,  Per  la  storia  della  critica  e  storiografia  letteraria,  Napoli.  '  Syncathegoremeta ',  '  consignificantia '.    zioni,  interposti);  mentre  la  I  sezione  del  II  libro  svolge  la  prima  branca  della  sintassi,  la  concordanza,  la  II  la  seconda,  il  reggimento,  la  III  la  terza,  la  costruzione  (la  triple  synlaxe,  diceva l'Enciclopedia,  de  co?icordance,  de  regime,  de  constructiorì),  la  IV  il  miscuglio  delle  figure  grammaticali  (ellissi,  pleonasmo,  sillessi,  enallage,  iperbato  le  cinque  figure  del  Sanzio).   Lo  schema,  come  qui  si  vede,  è  tracciato  sul  tipo  divenuto  ormai  tradizionale  nella  grammatica  francese  e  fondato  sulla  dottrina della  grammatica  generale:  non  solo  del  Vico,  ma  neppur  del  Soave  autore  delle  discusse  Ricerche,  si  ha  più  alcun  sentore.  Questo  tuttavia  non  è  l'unico  danno:  il  maggiore  è  che  lo  schema  sia  rimasto  schema,  mancando  quasi  affatto  quell'elaborazione  logico-critica della  materia  grammaticale  che  ammirammo  già  nel  Du  Marsais  e  nell'Enciclopedia.  Tutta  la  filosofia  si  riduce  a  definir  gli  schemi  molto  elementarmente  e  a  versarvi  dentro  cataloghi di  forme  e  di  costrutti  con  scarsissime  citazioni  d'autori,  senz'ombra  di  spiegazioni  genetiche  delle  voci,  viceversa  conservando qua  e  là,  come  p.  es.  nel  trattato  della  costruzione,  le  antichissime  rettoricherie  sulle  fonti  dell'armonia  nel  discorso.  E  quel  po'  di  ragionamento  che  tenta  illuminare  la  parte  generale,  e  la  definizione  del  nome  e  del  verbo,  esula  affatto  in  tutto  il  resto  delle  classi  e  specie  e  sottospecie  grammaticali,  che  è  dato  così  nudo  e  crudo,  spoglio  persino  di  quel  fare  discorsivo  e  a  volte  vivacemente  polemico  e  di  quell'esemplificazione  onde  almeno si  ravvivava  l' interesse  del  lettore  nella  vecchia  grammatica. La  geniale  veduta  del  Du  Marsais,  che  le  forme  grammaticali, tranne  quelle  significatrici  di  cose,  articoli,  casi,  ecc.  rappresentino altrettanti  punti  di  vista  e  atteggiamenti  dello  spirito, che  egli  applicava  con  altrettanta  genialità  ai  singoli  pezzi  d'espressione,  spargendovi  sempre  un  po'  di  luce  critica,  è  affatto ignorata  da  questa  grammatica  del  Soave.  Tanto  che  i  compilatori  dell'edizione  bresciana  del  1830,  tenuta  sulla  milanese assistita  da  Soave  stesso,  sentirono  il  bisogno  d'  intercalare  delle  Appendici  (autore  l'ab.  Bianchi)  e  dei  paragrafi per  versarvi  con  mano  discreta  un  po'  di  metafisicherie,  facendo  cosi  una  cosa  ancor  più  astrusa,  arida  e  ibrida.  P.  es.,  nell'app.  al  cap.  I,  i  nomi  si  dividono  in  fisici  e  metafisici,  questi  in  metafisici  reali  o  sostayitivi,  e  in  metafisici  astratti  o  ideali:  delle  significazioni  delle  desinenze  di  questi  poi.  e  degli  aggettivi derivati  nell'app.   I  al  cap.  VI  son  date  numerose  categorie    {-ione,  -ento,  -lira,  -abile,  -evole,  -are,  -ivo,  -orlo,  -ido,  -usto,  -ace,  -ile,  -ale,  -estre,  -ino,  -ore,  -ibile,  ecc.)  con  un  imperio  d'infallibilità assoluto.  E  tutto  anzi  è  logicamente  schematizzato,  a  tutto  è  data  una  funzione  logica,  in  modo  che  sembrerebbe  impossibile come  un  uomo  osasse  aprir  la  bocca  senza  aver  mandato a  memoria  tutta  questa  grammatica.  Lo  scopo  dell'apprendimento delle  lingue  fallisce  così  in  modo  assoluto,  e  anche  didatticamente vengono  queste  grammatiche  ad  avere  un  valore  negativo.   Invece  la  grammatica  filosofica  anche  ridotta  a  tale  schema  si  diffuse  e  divenne  di  moda  nelle  scuole,  come  di  moda  divennero questa  specie  di  ricerche  filosofiche  sul  linguaggio.   De'  precedenti  italiani,  nella  prima  metà  del  secolo,  della  grammatica  ragionata  s'è  avuta  occasione  di  accennare  altrove,  segnalando  alcune  manifestazioni  veramente  notevoli;  ma  quei  metodi  e  nuovi  metodi  erano  ricalchi  di  Portoreale  e  compendi  elementari,  che,  in  ogni  modo,  eran  diretti  specialmente  allo  studio  del  latino,  per  quanta  parte  facessero  all'italiano;  tant'è  vero  che  non  riuscirono  a  diminuire  l'interesse  per  la  grammatica  empirica  che,  invece,  col  Buonmattei  e  col  Corticelli  seguitò  a  imperare.  Solo  nell'ultimo  quarto  del  secolo  cominciò  a  divampare il  fervore  per  la  grammatica  generale.  Un  Piano  ovvero  ricerche  filosofiche  sulle  lingue  diede  nel  1774  D.  Colao  Agata;  Riflessioni  sugli  oggetti  apprensibili,  sui  costumi  e  sulle  cognizioni umane  per  rapporto  alle  lingue  ORTES (si veda),  libri  che  già  dal  titolo  dichiarano  il  loro  contenuto;  nel  1783  Frane.  Ant.  Astore  pubblicò  a  Napoli  in  due  grossi  volumi  La  filosofia  dell 'eloquenza  o  sia  l  eloquenza  della  ragione  (il  titolo  non  potrebbe esser  più  chiaro),  strano  miscuglio,  dice  il  Gentile,  delle  idee  del  Vico  con  quelle  dei  sensisti.  Usce  il  famoso  Saggio  sopra  la  lingua  italiana  di CESAROTTI (si veda),  sul  quale  ci  dobbiamo  fermare  un  poco  per  la  sua  diretta  connessione  con  la  critica  delle  categorie  grammaticali:  anzi,  se      Il  figlio  di  G.  B.    Vico,  nota.  In  Padova,  nella  stamperia  Penada  (ristampato  col  titolo  di  Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue  nell'ed.  pisana  delle  Opere,  e  altre  volte).  Su  esso  e  sulla  questione  della  lingua  in  generale  nel  sec.  XVIII,  G.  Mazzoni,  La  questione  della  lingua  italiana nel  secolo  XVIII  in  Tra  libri  e  carte,  Roma,  Su Cesarotti, V.   Alemanni,    Un  filosofo  delle  lettere^  Torino] diverso  è  lo  scopo  finale,  nella  sua  sostanza  il  libro  è  una  nuova  grammatica  filosofica.  Ma  si  deve  dir  subito  ad  onore  del  Cesarotti, tanto  più  che  trattasi  di  cosa  poco  nota,  che  egli  fin  dal  1769,  cioè  un  anno  prima  del  quesito  dell'Accademia  berlinese e  perciò  delle  dissertazioni  dell'Herder  e  del  Soave,  aveva  pubblicato  a  Padova  un'  Oratio  de  lingiiarum  origine,  progressi*,  vicibus  et  pretio,  dove  è  già  manifesta  l'influenza  del  Vico  e,  se  non  il  germe,  certo  la  tendenza  della  dottrina  che  poi  doveva  sviluppare  nel  Saggio  .   Questo,  dunque,  aveva  lo  scopo  di  criticare  cortesemente  la  Crusca  e  di  riformarla  e  ristorare  così  la  lingua  col  far  trionfare le  proposte  di  Crusche  regionali  e  d'un  Consiglio  italico  per  la  compilazione  di  due  diversi  vocabolari,  l'uno  pe'  dotti,  l'altro  pel  popolo.  Ma  più  che  in  questo  e  in  altre  vedute  particolari, come  una  maggior  considerazione  in  che  ebbe  i  dialetti,  la  difesa  discreta  de'  francesismi,  la  sconfessione  data  a  presunte  voci  eleganti  che  non  erano  se  non  antichi  gallicismi,  segni  tutti  della  posizione  diritta  e  composta  presa  dal  Cesarotti  nella  questione della  lingua  verso  e  in  favore  d'un'italianità  viva  e  comune,  il  valore  del  Saggio  è  nella  vera  parte  filosofica,  nella  quale  certo  s'ispirò  ai  pensatori  francesi,  ma  trasfuse  un  poco  di  (manto  potè  far  proprio  del  pensiero  vichiano.   Un  limpido  e  vivace  riassunto  del  Saggio  diede  il  Cesarotti  stesso  nella  lettera,  bella  per  arguzia  e  sincerità,  al  suo  contraddittore, il  conte  Napione,  che  fu  in  concordia  con  Cesarotti  più  di  quanto  non  credesse  egli  stesso  .  Io  m'era  prefisso  ,  diceva dunque,    di  toglier  la  lingua  al  despotismo  dell'autorità,  e  ai  capricci  della  moda  e  dell'uso,  per  metterla  sotto  il  governo legittimo  della  ragione  e  del  gusto;  di  fissare  i  principi  filosofici  per  giudicar  con  fondamento  della  bellezza  non  arbitraria dei  termini,  e  per  diriger  il  maneggio  della  lingua  in  ogni  sua  parte,  cosa  non  so  se  eseguita  pienamente  da  altri,  e  certo  non  più  tentata  fra  noi;  di  far  ugualmente  la  guerra  alla  superstizione e  alla  licenza,  per  sostituirci    una    temperata  e  giu- [Croce,  Per  la  storia  della  critica  e  della  storiografia. Cfr.  D'Ovidio,  Le  correz. Ediz.  di  Napoli  (Biblioteca  portatile  ed    istruttiva),  G.  Pedone  Lauriel. V.  in  proposito,  il  D'Ovidio] diziosa  libertà:  di  combattere  gli  eccessi,  gli  abusi,  le  prevenzioni d'ogni  specie;  di  temperare  le  vane  gare,  le  ricche  parzialità; di  applicare  alfine  le  teorie  della  filosofia  alla  nostra  lingua,  d'indicar  i  mezzi  di  renderla  più  ricca,  più  disinvolta,  più  atta  a  reggere  in  ogni  maniera  di  soggetto  e  di  stile  al  paragone delle  più  celebri,  come  lo  può  senza  dubbio  quando  saggiamente libera  sappia  prevalersi  della  sua  naturale  pieghevolezza e  fecondità.  Per  eseguir  questo  piano  presi  dapprima  a  combattere  alcune  opinioni  dominanti....  Negai  la  nobiltà  in  cuna  di  alcune  lingue  privilegiate,  la  superiorità  senza  limiti,  la  perfezione assoluta,  la  fissità  inalterabile,  la  ricchezza  non  bisognosa  d'aumento,  il  pregio  inarrivabile  dell'eterna  vestali    delle  lingue...  Mi  opposi  alla  tirannide  dell'uso,  all'idolatria  dell'esempio,  accordando all'uno  e  all'altro  quell'autorità  che  potea  conciliarsi  colla  ragione,  giudice  legittimo  e  dell'esempio  e  dell'uso;  provocai alfine  a  nome  degli  scrittori  non  volgari,  dal  tribunale  dei  grammatici  pedanteschi  a  quello  dei  grammatici  filosofi,  i  quali  sanno  che  la  lingua  è  1'  interprete  del  pensamento,  e  la  ministra  del  gusto.  Fatta  così  strada  al  mio  assunto,  passai  a  determinare colie  teorie  filosofiche  la  bellezza  intrinseca  ed  essenzial  delle  lingue,  fissandone  i  canoni,  e  applicandoli  a  ciascuna  delle  loro  parti  così  logiche  che  rettoriche;  nella  qual  trattazione  mi  lusingo  (come  il  Soave!)  d'aver  in  poco  ristretto  molto,  detto  più  cose  non  comuni    inutili,  e  gittato  sul  mio  soggetto  qualche  nuovo  colpo  di  lume  atto  a  rischiararlo  con  precisione,  e  a  prevenir molti  abbagli  .  E  dopo  aver  accennato  al  confronto  tra  l'italiano  e  il  francese,  all'abuso  del  francesismo,  alla  indistruttibile libertà  di  crear  nuovi  vocaboli,  alla  storia  della  nostra  lingua  e  allo  stato  attuale  e  allo  spirito  dominante  del  secolo  per  escogitar  i  mezzi  dell'uso  e  del  giudizio,  ecc.,  manifesta  che  lo  spirito  dell'opera  sua  era  di  dire  agi'  italiani:  ....  sappiate  pensare  e  sentire,  e  la  figura  del  concetto  verrà  a  stamparsi  nell'espressione,  che  sarà  conveniente,  vivace,  italiana  e  nostra:  voi  non  sarete  più  schiavi    dei  dizionari    dei  grammatici,  non  sarete    antichisti    neologisti,    francesisti    cruscanti,    imitatori  servili    allettatori  di  stravaganze:  sarete  voi,  voglio  dire  italiani  moderni  che  fanno  uso  con  sicurezza  naturale  d'una  lingua  libera  e  viva,  e  la  improntasentire,  e  la  figura  del  concetto  verrà  a  stamparsi  nell'espressione,  che  sarà  conveniente,  vivace,  italiana  e  nostra:  voi  non  sarete  più  schiavi    dei  dizionari    dei  grammatici,  non  sarete    antichisti    neologisti,    francesisti    cruscanti,    imitatori  servili    allettatori  di  stravaganze:  sarete  voi,  voglio  dire  italiani  moderni  che  fanno  uso  con  sicurezza  naturale  d'una  lingua  libera  e  viva,  e  la  improntano  delle  marche  caratteristiche del  proprio  individuai  sentimento.   Sarebbe    superfluo    notare  che  le    vedute    filosofiche  domi  Capitolo  quattordicesimo  419    nauti  circa  la  lingua  é  la  grammatica  qui  non  solo  non  sono  superate, ma,  sotto  la  spigliatezza  e  la  vivacità  dell'esposizione,  permangono  immutate.  Noi,  riferendo  quel  riassunto,  abbiamo  inteso  soprattutto  mostrare  che  la parte  veramente  ninna  del  suo  Saggio  anche  pel  Cesarotti  era  l'applicazione  dei  canoni  filosofici alla  spiegazione  delle  categorie  rettorico-grammaticali.   Diamole  uno  sguardo.  Fissato  che    la  lingua  scritta  dee  aver  per  base  l'uso,  per  consigliere  l'esempio,  e  per  direttrice  la  ragione   lingua  pura  è  sinonima  di  barbara,  ogni  lingua  essendosi  formata  dall'  accozzamento  di  varj  idiomi  come  è  dimostrato    dai  sinonimi  delle  sostanze,  dalla  diversità  delle  declinazioni,    e  coniugazioni,  dall'irregolarità  dei  verbi,  dei  nomi,  della  sintassi,  di  cui  abbondano  le  lingue  più  colte   e  stabilito  che    la  giurisdizione  sopra  la  lingua  scritta  appartiene  indivisa  a  tre  facoltà  riunite,  la  FILOSOFIA (= RAGIONE), l'erudizione  (=  uso),  ed  il  gusto  (=  esempio)  (p.  24),  con  la  scorta  della  prima  di  queste  facoltà,  osserva    che  la  lingua  come  materia  del  discorso  consta  di  due  parti,  l'ima  delle  quali  chiameremo  logica,  l'altra  rettorica.  Logica  sarà  quella  che  serve  unicamente  all'uso  dell'  intelligenza,  somministra  i  segni  delle  idee,  del  vincolo  che  li  lega  tra  loro,  e  di  tutti  quei  rapporti di  dipendenza  che  ne  formano  un  tutto  subordinato  e  connesso. Rettorica  è  quella  parte  che,  oltre  all' istruir  l'intelletto,  colpisce  l'immaginazione;    contenta  di  ricordar  l' idea  principale, la  dipinge,  o  la  veste,  o  l'atteggia  in  un  modo  più  particolare e  più  vivo,  o  ne  suscita  contemporaneamente  altre  d'accessorio, le  quali  oltre  all'oggetto  indicato  dinotano  anche  un  qualche  modo  interessante  di  percepirlo,  o  un  grado  di  sensazione   (p.  24).  I  diritti  della  fantasia  affermati  così  recisamente  di  contro  a  quelli  dell'  intelletto  sono  certo  una  novità  rispetto  alla  grammatica  ragionata  dell'Enciclopedia  che  non  conosce  alcuna altra  funzione  nel  discorso  diversa  dalla  logica;  ma  è  una  veduta  non  nuova  nelle  opere  del  Cesarotti,  per  le  quali  era  stato,  come  dice  il  Croce,    celebrato  ai  suoi  tempi  in  Italia  come  colui  che  "colla  più  pura  face  della  filosofia  aveva   rischiarati  gl'intimi  penetrati  della  Poesia  e  dell'Eloquenza,  benché  certo  non  sembri  j>j,  nella  quale  cerca  di  combattere  il  filosofismo intemperante  anche  in  materia  di  gusto.  Riconosce  che  la  filosofìa  ha  distrutto  viete  idee  anche  in  materia  di  lingua,  ma  osserva  che  non  tutto  può  distruggere  in  modo  che  tra  lingua  e  lingua  non  ci  sia  più  distinzione.  Dall'esame  dell'origine  risica  delle  lingue  apparisce  in  primo  luogo  che  altre  sono  eleganti,  altre  barbare,  e  che  alcuna  è  pienamente  ed  assolutamente  superiore ad  un'altra;  apparisce  inoltre  che  una  anche  cieca  aderenza all'uso,  ed  agli  scrittori  approvati  nella  scelta  delle  parole  discende  dalla  natura  e  dall'indole  medesima  del  linguaggio.  Nel  >j  21  1  Idea  della  grammatica  e  dei  grammatici '),  alla  tesi  che  i  grammatici  non  hanno  alcuna  autorità  legislativa  contrappone la  seguente  definizione  della  grammatica,  dove  par  di  sentir  un'eco  come  del  noto  brano  del  De  vulgari  eloquentia  in  cui  della  grammatica  (la  lingua  immutabile)  si  porge  l'idea.  Non  per  nulla  il  Velo  era  concittadino  del  primo  editore  del  libretto  dantesco.    La  grammatica  è  una  importantissima;  e  principalissima  parte  della  logica;  una  cospirazione,  un  consenso  de'  primi  scrittori  in  alcuni  precetti,  ed  alcune  regole  di  favella  a  preferenza, ed  esclusione  di  alcuni  altri;  cospirazione  e  consenso,  che  preser  consistenza  col  tempo  e  forza  di  consuetudine,  e  che  formano il  carattere  proprio  e  l' indole  d'una  lingua  scritta  qualunque ;  una  legislazione  finalmente,  ed  un  codice  convenzionale,  ove  ferma  ed  invariabile  parla  l'intenzione  d'un  popolo  per  fissare i  modi  vocali  di  comunicarsi  le  proprie  idee,  e  di  perpetuarle alla  posterità  cogli  scritti    (pp.  48-9).   La  protesta  del  Velo  è  un  prodromo  della  prossima  reazione puristica.   Nel  1791  uscì  l'opera  del  Galeani  Napione,  Dell'uso  e  dei  pregi  della  Ungila  italiana,  le  cui  principali  accuse,  d'indole  rettorica  e  non  grammaticale,  al  Saggio  del  Cesarotti,  sono  di  favorire il  libertinaggio  della  lingua  e  di  difendere  troppo  appassionatamente il  francesismo.  La  nota  polemica,  ormai,  per  quanto  concerne  la  cosiddetta  questione  della  lingua,  convenientemente   Vicenza,  Giusto. Libri  tre,  con  giunta  degli  opuscoli,   in  due   voli.   Seguo    la  bella  edizione  dello  Stabilimento   tipografico    Fontana,    Torino]  illustrata,  non  ci  riguarda  in  modo  diretto.  Pure,  non  vogliamo  lasciarci  sfuggir  l'occasione  di  dire  che  a  questo  eccellente  libro  del  Napione  non  è  stata  data,  o  meglio  riconosciuta  tutta  l' importanza che  meritava:  la  sua  vera  portata  non  è  tanto  nella  tesi  sostenuta,  nel  campo  strettamente  linguistico,  d'un'  italianità larga,  nobilmente  intesa  ed  egualmente  schiva  del  francesismo e  dell'  idiotismo  fiorentinesco  (per  questo  riguardo il  libro  lascia  la  secolare  controversia  come  la  trova),  quanto  nella  descrizione che  vi  si  fa  delle  vicende  della  nostra  lingua  sotto  il  rispetto  della  civiltà  e  dell'anima  italiana:  esso  è,  insomma,  un  documento  importantissimo  per  la  storia  della  nostra  cultura  fornito  dalla  considerazione  rettorica  o  stilistica  o  estetica  come  si  voglia  chiamare  della  lingua  italiana  specie  in  confronto  con  la  francese  e  dall'evocazione  delle  circostanze  della  sua  fortuna.  Il  fine  del  Napione  è  pedagogico:  favorire  per  mezzo  della  diffusione e  del  culto  della  nobile  lingua  d' Italia  il  primato  civile  degl'  Italiani:  "  satis  mirari  non  queo  ",  è  il  motto  ciceroniano  (De  fin.)  che  il  libro  porta  in  fronte,  "  unde  hoc  sit  tam  insolens  domesticarum  rerum  fastidium;"  in  questo  secolo,  è  detto  subito  in  principio,    dietro  la  scorta  dei  Le-Clerc,  dei  Locke,  dei  Leibnitz,  nomi  grandissimi,  i  Genovesi,  i  Du-Marsais,  i  Condillac,  i  Michaelis,  i  Cesarotti  ed  altri  sottili  ingegni  hanno  creduto  di  dover  esaminare  filosoficamente  la  natura  delle  lingue;  mentre  altri  si  sono  applicati  più  particolarmente  ad  osservare  e  descrivere  il  genio,  l' indole,  la  storia  di  un  determinato  idioma.  Laonde  questa  materia  di  grammaticale  e  letteraria,  che  al  più  era,  è  diventata  filosofica,  e  diventar  dovrebbe  eziandio  politica,  mercè  il  giovamento  che  può  arrecare  alla  civile  società;  ma,  appunto  per  questo,  gli  argomenti  il  Napione  è  portato  a  trarli  dalla  storia,  osservando  nello  specchio  della  lingua  i  riflessi  dello  spirito  italiano  e  nella  fortuna  e  nella  stima  che  essa  godette  nei  secoli  passati  specie  presso  gli  stranieri  e  in  ogni  genere  di  letteratura, la  sua  feconda  ed  elastica  virtù.  Non  possiamo  pretendere dal  nostro  autore  una  considerazione  storica  (di  storia  della  coltura,  s'intende,  e  non  artistica)  della  lingua  italiana  quale  può  darci  la  critica  moderna  cosi  scaltrita  ne'  principi  e  così  ricca  di  mezzi,  ma  ben  possiamo  appagarci  dello  sforzo  che  egli  compie  per  iscoprire  di  sotto  alle  qualità  rettoriche  tradizionalmente affermate  nella  nostra  lingua  atteggiamenti  e  vitalità  di  spiriti  quali  egli  per  lo  meno  sente  nell'anima  italiana.  Addurrò, per  conchiudere,  non  potendo  far  qui  lungo  discorso,  qualche  esempio.  Per  confutare  il  Condillac,  il  quale  sosteneva    doversi  ascrivere  a  difetto  e  ad  imitazione  servile    del  genio  latino  la  tendenza  italiana  a    riunire  e  connettere  in  un  sol  periodo  maggior numero  di  idee  ,  il  Napione  osserva:    Ognun  sa  che  il  vedere  e  discernere  diversi  oggetti  in  un  sol  punto,  il  conoscerne le  relazioni  tra  loro,  il  comporre  di  molte  idee  particolari una  generale,  il  veder  le  idee  secondarie  che  rischiarano,  confermano  o  corteggiano  la  principale,  si  è  uno  de'  pregi  maggiori delle  menti  più  vaste  e  più  sublimi.  V'ha  pertanto  ragion  di  credere  che  questa  pratica  degl'  Italiani,  di  radunare  comunemente in  un  periodo  più  cose  che  i  galli  non  fanno,  provenga da  una  facilità  maggiore  di  rapidamente  trascorrere,  e  vedere  e  combinare  cose  diverse  insieme.  Chi  è  caldo  e  passionato  odia  l'uniformità:  coll'alterare,  col  sospendere l'ordinata  costruzione,  attizza  la  curiosità,  e  tien  fissa  l'attenzione. Sino  il  volgo,  se  è  commosso,  parla  in  figure,  trasposizioni, trasporti  di  frasi,  e  più  in  quelle  contrade  dove  ha  maggior fuoco,  ha  maggior  anima;  il  che  dimostra,  se  dobbiamo  dar  retta  a  certuni,  che  un  popolo,  qual  si  è  il  francese,  che  si  è  fatta  una  lingua  serva  e  pedestre,  è  più  freddo  in  sostanza  di  quel  che  sembri  in  apparenza  vivace;  brio,  che  vien  però  detto  da  molti  fuoco  fatuo,  e  caldo  superficiale.  Lo  sguardo  di NAPIONE (si veda) non  arriva  all'intimo  accento  di  particolari espressioni  e  di  particolari  periodi  storici  della  lingua  e  di  particolari  affinità  spirituali;  pure  nell'  indagare  i  motivi  della  fortuna  della  lingua  italiana,  anche  se  rimane  alla  superficie,  tenta  di  comprendere  i  caratteri  generali  di  determinati  periodi  meglio  fortunati  e  generi  linguistici,  da  poterne  cavare  qualche  raggio  di  luce  spirituale.  In  og ni  modo  egli  raccoglie  tante  testimonianze e  richiama  tanti  libri,  che,  anche  per  questo  riguardo, è  uno  degli  autori  più  ricchi  che  ci  possa  offrire  la  nostra  storia.   Tornando  al  Cesarotti,  aggiungeremo  che  a  taluno  è  parso  che  anche  il  Pignotti,  nella  sua  Storia  della  Tosca?ia confutasse  forse  con  più  fortuna  ed  efficacia  del  Napione  il  padovano  illustre specialmente  per  quanto  concerne  la  toscanità  della  lingua  italiana  Ci.    Ci  Bettinelli,  Lett.  cit..  (I   Mazzoni,   L'Ott.    II.   La  grammatica  ragionata  si  propagò  ben  presto  nelle  scuole,  non  escluse  le  prime  classi  delle  elementari,  ma  anche  in  uno  stato  di  pronta,  quasi  immediata  degenerazione.  Ciò  che  per  altro  non  maraviglia.  Un  Corso  teorico  di  Logica  e  Lingua  Italiana e  un  discorso  filosofico  sulla  metafisica  delle  lingue  aveva  pubblicato  già  fin  dal  1783  Valdastri,  citato  poi  spesso  con  lode,  come  dal  Romani  e  dal  Caleffi,  un  sensista  che  diede  più  tardi  Lezioni  di  analisi  delle  idee,  dove  non  fa  che  seguire  i  dettami  dell'intimo  senso,  che  è  il  criterio  universale  del  genere  umano,  da  cui  solo  si  possono,  e  si  devono  ragionevolmente dedurre    (I,  xvn),  nemi co  acerrimo  di  Aristotile  che  dominava  da  tiranno  le  scuole.  In  un  Indirizzo  pel  ragionato  uso  della  lingua  italiana,  edito  a  Venezia,  s'insiste  sulla  necessità  di  non  far  de'  giovinetti  de'  pappagalli,  ma  d' illuminarli con  la  ragione,  e  si  spiega  il  concetto  di  sostanza  (da  subtus  stans)  e  di  qualità  con  un  curioso  esercizio  di  far  osservare un  dato  frutto,  appressar  le  narici  e  toccarlo  col  dito! Un  P.  Simionato  in  un  Nuovo  metodo  facile  e  ragionato  di  apprendere  la  lingua  italiana,  che  egli  stesso  dichiara  unico,  comincia  la  sua  esposizione  con  le  solenni  domande,  che  diverranno  presto  di  moda:    Perchè  parlate  voi  ?   Come  vi  fate  intendere?  E  tutto  il  ragionio  finisce  lì.  Il  napoletano  Giovanni Vincenzo  Meola  col  suo  Compendio  del  nuovo  metodo  per  apprendere  facilmente  la  lingua  italiana,  ritrovato  da'  migliori  grammatici  aduso  de  propri  figliuoli^  '),  compilato  specialmente  allo  scopo  di  condurre  alla  cognizione  dell'  italiano  senza  supporre quella  di  alcun  altro  linguaggio  (p.  IX),  ritorna  invece  al  metodo  di  Portoreale,  come  aveva  fatto  l'Ajello  per  il  latino  e  il  Martorelli  per  il  greco,  prendendo  a  fondamento  il  Corticelli  (ma  intorno  al  ripieno  par  che  saccheggi  piuttosto  il  Buonmattei);   redige  le  sue  regole  in  versi,  e  annunzia  un  Nuovo  me Guastalla,  Costa.   In  Milano  Galeazzi.    V.  era  segretario  scientifico dell'Accademia  di  Scienze,  Belle  Lettere,  ed  Arti  di    Mantova.  Venezia,   1799.  Napoli.  V.  Orsino.] todo  completo  in  due  volumi,  in  cui  metterà  a  profitto  tanti  altri  trattati  speciali.   A  Napoli,  per  altro,  dove  qualche  raggio  di  luce  vichiana  non  mancò  mai  di  spandersi  sulle  menti,  è  lecito  credere  che  in  armonia  coli' insegnamento  letterario  del  Marinelli  e  con  i  principi propugnati  dall'autore  del  noto  Progetto  di  legge  del  1809  per  la  riforma  della  P.  I.  nel  Reame,  la  grammatica  non  fosse  almeno  in  quel  breve  periodo  di  tempo  egualmente  bistrattata.  Il  Vico  stesso  e  dalla  cattedra  di  eloquenza  latina  che  tenne  nell'Università di  Napoli  e  nella  sua  scuola  privata  di  eloquenza  e  lettere  latine  e  in  quei  documenti  pedagogici  che  sono  il  De  nostri  temporis  studiorum  ratione,  le  Insiitutiones  oratoriae e  la  stessa  Vita,  tenne  sempre  Y  eloqjientia  sinonimo  di  sapie?itia,  diede  cioè  sempre  un  insegnamento  più  di  cose  che  di  parole,  non  indugiandosi  mai  in  pedanterie  grammaticali, sebbene  fossero  da  lui  come  di  passaggio  avvertiti  i  vezzi  della  lingua,  le  origini  e  proprietà  delle  voci,  la  bellezza  e  signoria  delle  espressioni    ,  e  giudicando  che    la  filosofia  cartesiana    l'aristotelica  fé'  gran  prò  alle  cose  oratorie,  ma  la  platonica,  e  di  questa  la  dialettica  (")•  Anche  per  il  figlio  Gennaro, che,  traendone  ispirazione  e  conservandone  i  sani  criteri,  degnamente  gli  successe  nel  medesimo  insegnamento  che  tenne  fino  al  1777  per  unirvi  quello  della  poesia  fino  al  1786,  quando  vi  fu  sostituito  da  Ignazio  Falconieri,  la  vera  eloquenza  fu  sempre  quella  che  scaturisce  dal  pieno  possesso  dell'argomento;  insistè  sempre  sull'importanza  del  contenuto,  combattendo  il  puro  studio  della  forma  vuota,  le  virtuosità  stilistiche,  le  minuzie  grammaticali, ed  incitando  i  giovani  agli  studi  seri  e  profondi    .  Anzi,  in  sua  lode  speciale  dobbiamo  aggiungere  che  i  suoi  Avvertimenti per  V  insegnamento  del  latino  (editi  dal  Gentile  sull'autogr.  esistente  tra  le  carte  Villarosa)  nella  parte  che  riguarda  i  rudimenti   di    grammatica    sono    anche    nei    particolari  conformi    al    11)  Vita  di  G.  B.  Vico  scritta  dal  Solla,  cit.  in  Gentile,  Il  figlio  di  Vico  e  gl'inizi  dell' inseg.  di  leti,  il.  /iella/?.  Univ.  di  Napoli  con  docc.  inedd.  (Estr.  dall' Arck.  si.  p.  le  Prov.  Nap.,  Napoli,  importantissimo  volume  che  ci  serve  di  fonte  e  di  guida  a  proposito   de'  due  Vico  e  de'  loro  successori.   C)  Inst.   Orai,  in  Opere,  cit.  dal  Gentile.  Gentile   primo  Metodo  del  Du  Marsais,  che  certo  non  avrà  conosciuto,  non  solo  perchè  non  lo  nomina  in  nessuna  maniera,  ma  perchè,  come  i  suoi  Avvertimenti,  quel  Metodo  fu  steso  per  un  privato  discepolo.  Era  insegnamento  di  grammatica  latina,  naturalmente,  perchè  di  quello  della  grammatica  volgare  anche  in  Napoli  si  sentì  molto  tardi  il  bisogno:  quando fu  sdoppiata  la  cattedra  di  Gennaro  Vico  in  quella  che  il  Gentile  chiama  la  riforma universitaria  dell'  illuminismo,  e  fu  istituita  la  cattedra  di  Eloquenza  italiana  (per  merito,  pare  al  Napoli-Signorelli,  di  Ferdinando  IY,  e  per  un'ispirazione  che  risale,  nota  il  Gentile,  al  Genovesi,  che  fu  il  primo  a  insegnar  in  italiano  e  già  dal  1767  aveva  proposto  '  una  scuola  di  lingua,  di  eloquenza  e  di  poesia  toscana  '),  allora,  dico,  a  certi  vecchioni  la  novità  fece  un'impressione di  maraviglia:  Quali  cattedre  (van  dicendo)  !  lingua  italiana,  agricoltura,  chimica,  commercio,  diplomatica,  storia  naturale, geografia  fisica.  Fa  mestieri  di  un  pubblico  professore  per  istudiar  la  lingua  volgare  che  parliamo  dalle  fasce..?.  Ma  lo  spirito  della  tradizione  restava.  Restò  infatti,  anche  se  il  Vico  è  probabile  sia  stato  tra  quei  vecchioni,  non  tanto  forse  perchè  quel  nuovo  insegnamento    non  fu  che  una  duplicazione  della  vecchia  Rettorica,  che  s'insegnava  nell'Università  di  Napoli  dalla  metà  del  cinquecento  ,  quanto  perchè    della  sorte  toccatagli  di  raggiungere  dopo  40  anni  d'insegnamento  quello  stipendio  di  300  ducati,  che  altri  aveva  ottenuto  tanto  più  presto,  p.  e.  Serio,  ebbe,  nel  1797,  a  muovere  non  lievi  lagnanze. Quel  Serio  stesso,  infatti,  che  fu  assunto  alla  nuova  cattedra,  in  un  manifesto    con  cui  dopo  14  d' insegnamento,  annunziò  la  pubblicazione  delle  sue  Istituzioni,  che  non  sembra  poi  vedessero  la  luce    (3),  diceva  che  il  primo  tomo  conterrebbe  le  più  importanti  questioni  intorno  all'origine,  all'indole  ed  al  carattere  della  lingua;  e...  tutto  ciò,  che  principalmente  alla  grammatica  appartiene,  ma  con  animo  di  veder  come  esser  possa  una  delle  fonti  dell'eloquenza  .  Dove  non  par  solo  di  sentire Gennaro  Vico,  ma  anche  il  Cesarotti  e  compagni.  Tuttavia  l' insegnamento  del  Serio  non  è  neppur  paragonabile  con  quello Gentile.   (?)  Gentile. Gentile. Agli  amatori  della  bella  letteratura  in  Gentile,  op.  e  loc.  cit.    Capito/o  quattordicesimo  433    che  dovette  impartire  il  Marinelli,  assunto  nel  1808  alla  medesima  cattedra  abolita  nel  99  e  ristabilita  sotto  Giuseppe  Napoleone  e  autore  d'una  molto  lodata  Filosofia  dell'eloquenza^.    Il  fondo,  dice  il  Gentile,  che  ne  ha  esaminate  la  Prolusione  e  dopo  questa  l'opera  ora  accennata,  è  ancorala  rettorica:  ma  che  rivoluzione  !  Tale  insegnamento,  concludeva  il  Marinelli  in  quella  Prolusione,  avrebbe  istruita  la  gioventù  senza  obbligarla  al  meccanismo  de'  precetti,  e  senz'ingolfarla  nelle  minuzie  grammaticali, che  sono  per  lo  più  disgradevoli  alle  persone  di  già  avanzate  negli  studj    .  Alla  Filosofia  dell'eloquenza,  dove  si  grida  contro  le  regole  colle  quali  si  vorrebbe  supplire  al  talento  di  un'anima  che  signoreggia  sulle  anime  mercè  l'ascendente  della  parola  (p.  io)(3),  e  dove  qua  e    lampeggia  un  ingegno critico  non  comune,  corrisponde  per  importanza  di  vedute  il  già  cit.    Rapporto  o  progetto  di  legge  presentato  a  G.  Murat  dalla  Commissione  straordinaria  pel  riordinamento  della  P.  I.  nel  Regno  di  Napoli,  di  cui  fece  parte  quello  spirito  illuminato  di  Melchiorre  Delfico,  ma  fu  relatore  e  vero  autore  Vincenzo  Cuoco    (4).  In  questo  che  il  Gentile  chiama    il  documento pedagogico  e  scientifico  più  notevole    in  cui  si  sia  imbattuto nella  sua  ricerca,  il  Cuoco    grandeggia  come  un  alto  spirito  solitario,  giacché  egli  si  rannoda  direttamente  al  pensiero  d' un  grande  morto,  rimasto  nome  sacro  ma  incompreso  per  tutto  il  periodo  che  abbiamo  qui  addietro  percorso  e  per  cui  si  distese  la  vita  vuota  di  Gennaro  Vico.  Il  nome  del  padre  di  costui  ricorre  in  questo  scritto  più  d'una  volta.  Sono  esplicitamente richiamate  alcune  delle  idee  più  geniali  dell'orazione  Denostri teinporìs  studiorum  ratione  (5).  A  proposito  della  Scienza  nuova,  dice  tra  l'altro:  Quello  però  che  possiam  dire  con  sicurezza si  è,  che  la  dottrina  del  Vico  è  nota  e  adottata  quasi  tutta  intera  nelle  sue  applicazioni;  ma  n'è  rimasta  oscura  la  teoria  generale,  da  cui  tali  applicazioni  dipendono,  e  da  cui  si  possono  rendere  più  ampie  e  più  certe.  Per  la  scuola  media,  Napoli,  presso  Angelo  Trani,  Gentile. In  Gentile,  op.  cit.,  p.  126.   Gentile. Gentile,  op.  cit.,  pp.   135-6.  Gentile. CUOCO (si veda)  inizia    una  riforma  capitale,  mettendo  a  capo  di  tutte  le  materie  da  insegnarvi  la  lingua  italiana,  della  quale  nelle  scuole  mezzane  non  s'era  pensato  ancora  a  far  oggetto  di  studio  speciale  .    Il  linguaggio  ,  dice  il  Rapporto,    non  è  solamente  la  veste  delle  nostre  idee,  siccome  i  grammatici  dicono,  ma  n'è  anche  l' istrumento.  La  prima  lingua,  che  noi  dobbiamo  sapere,  è  la  propria.  L'educazione  de'  nostri  collegj  dava  troppo,  ed  inutilmente,  allo  studio  grammaticale  delle  lingue  morte.  Le  lingue  non  si  possono  apprendere  bene  per  via  di  grammatiche  e  di  vocabolari:  lo  avverte  benissimo  il  proverbio:  aliud  est  grammatico,  aliud  est  latine  loqui ;  e  l'esperienza  giornaliera  lo  conferma.  I  precetti  della  grammatica  in  ogni  lingua  sono  pochi  e  semplici,  e  tra  le  grammatiche  la  più  breve  è  sempre  la  migliore. Lo  studio  della  lingua,  e  non  già  della  grammatica,  deve  esser  lungo:  ma  ogni  studio  soverchio,  che  si    alla  grammatica, è  tolto  al  vero  studio  della  lingua,  la  quale  non  si  apprende  se  non  colla  lettura  e  retta  imitazione  de'  classici.  Noi  diremo  anche  di  più:  rende  più  facile  lo  studio  delle  lingue  morte  il  saper  bene  la  propria  e  vivente.  Tutte  le  lingue  hanno  un  meccanismo comune,  il  quale  dipende  dalla  natura  comune  delle  menti  umane  .    Da  questo  principio  vichiano  il  Cuoco  desume  che  quella  che  occorre  studiare  è,  a  proposito  della  lingua  nostra,  una  grammatica  generale,  una  grammatica  con  metodo  filosofico,  che  faciliti  l'apprendimento  delle  altre  lingue.  E  doveva  avere  in  mente  la  Grammatica  generale  del  Du  Marsais,  che  cita  infatti poco  dopo  a  proposito  dei  tropi!1),  ma  di  un  Du  Marsais, osserva  poi  il  Gentile  acutamente,    cuochiano,  o  vichiano  che  si  voglia  dire.   Ma  la  riforma  non  fu  fatta,  e  dopo  il  Marinelli,  col  Ricci(J)   Gentile. Gentile. Scrisse  Della  vulgati  eloquenza  libri  due,  1813.  Vi  si  paragona  al  Bembo  di  cui  vuol  ricalcare  le  orme.  Sa  ricordare  che  le  regoledelia  Grammatica  furono  fissate  dal  Fortunio  e  poi  dal  Bembo,  p.  io  dell'ed.  di  Napoli,  Giorn.  delle  Due  Sicilie.  Tra  tanto  vecchiume  mi  è  sembrata  notevole  la  definizione  della  storia  letteraria,  e  benché  qui  proprio  non  ci  riguardi,  ci  permettiamo  riferirla  anche  perchè  non  è  stata  avvertita  da  altri.    La  storia  letteraria  ha  per  oggetto  di  designar gradatamente  e  per  ordine  di  tempi  i  progressi,  le  vicende,  e  il  decadimento  delle  lettere  e  delle  arti,  riducendo  di  tratto  in  tratto si  riebbe  l' insegnamento  della  vecchia  rettorica,  e  la  letteratura  italiana  a  Napoli  non  si  rialzò  più  fino  al    i.s6o.   Alle  altezze  del  Marinelli  e  del  Cuoco  nessuno  in  altre  parti  d'  Italia  seppe  sollevarsi.  Pullularono  invece  le  grammatiche ragionate,  tra  le  quali  pochissime  meritano  qualche  considerazione. La  prima  di  queste  è  quella  scritta  in  francese  pei  francesi  dal  Biagioli,  e  di  cui  non  sarebbe  qui  il  luogo  di  dir  due  parole,  se,  anche  a  non  tener  conto  della  persona  dell'autore, non  fosse  stata  più  volte  ristampata  in  Italia  e  se  non  fosse  stata  citata  con  lode  anche  dai  nostri  grammatici.  È  intitolata  Grammaire  italienne  clémentaire  et  raisonnéQ).  L'Autore  dichiara  che  ristudierà  la  lingua  materna  coi  principi  del  Du  Marsais,  del  Condillac  e  del  Destutt-Tracy,  richiamandosi  al  pensiero  di  Dante  rielaborato  dal  Sanzio:    La  pensée  du  Dante,  que  Sanctius  semole  avoìr  envisagée  et  développée  ainsi:  Grammaticorum  sine  ratione  testimoniisque  auctoritas  nulla  est  (in  Minerva,  lib.  I,  e.  2),  noits  montre    che  non  si  deve  fare  un'esposizione  dogmatica, ma  ragionata.  Bandisce  Yusage,  il  caprice,  Yabus.  Nella  parte  generale  spiega    les  principes  les  plus  simples  et  les  plus  généraux  ,  nella  particolare,  ritorna  sui  suoi  passi  esplicando  avec  plus  d'étendue  ce  qui  exige  de  la  part  des  étudians  plus  d'at  i  diversi  quadri  del  loro  stato  generale  sotto  un  determinato  punto  di  vista  nelle  diverse  epoche,  e  fissando  proporzionalmente  i  caratteri  del  gusto  in  ciascuna  epoca;  il  che  equivale  per  lei  al  pregio  della  unità  indispensabile  alla  perfezione  della  storia  politica.  Molti  sono  i  vantaggi  della  storia  letteraria:  cioè;  1.  ella  ci  pone  sottocchio  i  progressi dello  spirito  umano,  e  ce  ne  distingue  le  vie;  2.  ci  rende  ragione delle  rivoluzioni  del  gusto;  3.  ci  avvezza  alla  pratica  d'una  soda  critica:  ed  infatti  una  giusta  critica  non  disgiunta  dalla  storica  imparzialità  fedeltà  ed  accuratezza,  ne  costituisce  il  pregio  principale .   Pp.  95-6.     Suivie  d'un  traité  de  la  poesie.  La  quinta  edizione  di  Milano,  1824,  aggiunge  ouvrage  approuvè  par  l'institut  de  France:  la  2a  ediz.  è  del  1809:  e  la  prima  dovette  esser  di  poco  anteriore.  Vi  si  cita  la  precedente  del  Vinéroni  (Vigueron).  Una  grammatica  italiana  in  francese dell'ANTONiNi  è  citata  da  Antonio  Scoppa  nella  prefazione  al  suo  Nuovo  metodo  stilla  grammatica  francese,  Roma.  Pel  Fulgoni.    Le  nouveau  maitre  italien  pubblicò  D.  A.  Filippi,  Vienne,  1812,  con  una  lettera  del  Metastasio  al  conte  Bathyny  sul  miglior  modo  d'insegnar  l'italiano  all'Imperador  Giuseppe  JI,  in  tempo  ch'egli  era  principe  ereditario  ,  molto  sensata e  pratica.    Robello  G.,  Grammaire  italienne  élém.  analysè  et  r aisonne',   III  ed.,   Paris.   tention  et  de  travail  .  Nell'introduzione  tratta  de  l'origine  des  signes  de  nos  idées    per  venire  alle  parti  del  discorso.  Per  trattare  di  queste,  parte  sempre  da  una  frase  {oh,  ah    Io  sono  attonito    Io  sono  amante    Ride  piangendo    Ho  l'anima  avvezza  alle  pene    Questa  donna  è  mia    Pietro  è  morto,  voi  lo  conoscevate    Sto  con  mio  padre    Parla  eloquentemente   Ama  la  figlia  e  la  madre).  Sulle  preposizioni  crede  d'aver  trovato  delle  novità.  Si  occupa  molto,  da  buono  studioso del  Sanzio,  dell'ellissi,  dando  di  duecento  frasi ellittiche la costruzione piena, di  molti  esercizi,  com'è  necessità  delle  grammatiche  per  gli  stranieri.  Ma  il  Biagioli  in  sostanza  è  un  retore,  e  non  un  filosofo,  e  finisce  anche  lui  col  ripetere  la  solita roba  nei  soliti  schemi.   Più  cheper  una  strana  se  non  cervellotica  idea  che  gli  serve  di  fondamento,  c'interessa  per  alcune  notiziette  riferentisi  alla  storia  della  grammatica  il  Saggio  sulle  permutazioni  della  italiana  orazione  di  Muzzi,  che  a Foscolo  parve  più  un  curioso  gingillo  di  aritmetica  applicata  al  periodo,  che  una  serie  di  osservazioni  giovevoli  a  chi  cerchi  nel  periodare  l'armonia,  scopo,  per  altro,  al  quale  non*  era  stato  destinato.  Il  noto  epigrafista  comincia  dall'  affermare  che  per  la  varietà  del  nostro  idioma  e  per  l'infinito  rimescolarsi  delle  parti  dell'orazione, sono  in  lingua  italiana  infiniti  i  costrutti.  Sotto  questo  punto  di  vista,  nel  campo  della  nostra  grammatica  c'è  da  riempire un  gran  vuoto,  che  non  è  stato  colmato  neppure  dal  (Torricelli,    dal  Fernow,    dal  Biagioli.  Il  suo  è  solo  un  saggio  e  breve  delle    permutazioni  di  semplici  vocaboli  presi  uno  per  uno,  e  rappresentativi  di  parti  differenti  del  parlare    (p.  XVII).  Della  miglior  grammatica  di  nostra  lingua  dobbiamo  saper  grado  a  un  tedesco:  cario  luigi  fernovio,  che  la  stampò  in  tubinga. Eccone  una,  che  indica  il  suo  metodo:  accanto  =  à  còte;  prìs :  1  (In  luogo  posto)  accanto  ia  canto  1  rispetto  1  al  mare,  Bemb.,    coté  de  la  mer\  2.  (In  luogo  posto)  accanto  (rispetto  a)  le  verdi  ripe,  Bemb.  =  près  des  vcrtes  rivcs.   (-)  P.  es.:  Bastami  (la  disgrazia)  d'essere  stato  schernito  una  volta,   B.;  Viene  in  concio  (riguardo)  ai  fatti  nostri. Ginguené  gli  lodò  molto  nel  Mercure questa  grammatica,  facendogli  un  merito  d'aver  seguito  Du  Marsais  e  Condillac.   (*)  Milano,  De  Stefanis,   181  r.  Mazzoni,  L'Ott.,  p.  310.  Ne  ebbe  notizia  dal  Biamonti. Muzzi  scrive  tutti  i  nomi  propri  con  le  minuscole. Ma,  quanto  a  sintassi,  molti  passi  del  Boccaccio  vi  sono  interpretati  a  rovescio. Essa  pargli    la  più  doviziosa  per  regole,  la  più  sobria  di  metafisica  e  insieme  la  più  elegante  per  metodo.  Ma  da  un  articolista  del  Giornale  italiano  le  è  stata  attribuita  una  regola  che  è  invece  del  Soave  (cfr.  l'ediz.  milanese):  quella  che  l'imperativo  negativo  ha  la  forma  infinitiva:  non  amare  !    La  regola  principale  che  forma  il  fondamento di  tutto  il  Saggio  è  che    la  trasposizione  delle  parti  del  discorso  della  lingua  italiana  segue  le  leggi  delle  permutazioni aritmetiche  .    Esempi:   veggio  pietro    \  In  questa  serie  abbiamo  una  sola   pietro  veggio    \  permutazione.   egli  amava  guglielmo   egli  guglielmo  amava   amava  egli  guglielmo  l  ~    .   et,.,  .. Qui  sono  sei.   amava  guglielmo  egli   guglielmo  egli  amava   guglielmo  amava  egli   Con  la  serie  1.  2.  3.  4.  (coloro  disprezzano  grandemente  arrigo)  le  permutazioni  aumentano  ancora.  E  così  di  seguito.  Qui  entra  in  confronto  col  francese  dove  è  gran  penuria  di  permutazioni. Viene  poi  a  osservazioni  particolari  circa  la  maggiore  o  minore  permutabilità  delle  parti  del  discorso.  La  preposizione,  p.  e.,  è  indivisibile  dal  nome,  ma  non  così  dalla  radice  di  un  verbo:  onde  per  meglio  fare  ciò  invece  di  24  permutazioni  ne  avrà  solo  dodici,  dovendo  escluder  quelle  dove  il  2  è  collocato  prima  di  1.  Qui  ricorda  che  il  dépéret  (recherches  philosophiques  sur  le  langage  de  sons  articulés,  in  mém.  d.  l' ac.  des  sciences  de  tur  in,  années  X-XI,  1803)  tratta  un  soggetto  affine  al  suo,  e  il  Dubos,  seguito  dal  Rollili,  che  propose  un  sistema  musicale  per  rappresentare  cambiamenti  di  voce  diagnostici  degli  affetti.  Fatte  alcune  osservazioni  sulle  pause,  conclude  col  notare  che  nel  campo  della  sintassi  del  periodo  lo  studio  delle  permutazioni diventa  immenso  (sfido  io!),  e,  ricordati  i  Principj  di  grammatica  generale  del  De  Sacy,  col  far  voti  che  si  compili  una  grammatica  italiana  migliore  nella  parte  sintattica.  L'osservazione  del  Muzzi  che  la  lingua  italiana  ha  il  privilegio  di  permutare  straordinariamente  le  parti   del   discorso,  è  giustissima:   ma  che    I 2 2 I I 2 3 I 3 2 2 1 3 2 1  ò   1 3 1 2 3 2   1il  fatto  possa  dar  luogo  a  un  sistema  di  sintassi,  a  una  nuova  sezione  grammaticale,  è  una  sua  inappagabile  pretesa.  La  sintassi ha  già  formato  i  suoi  schemi  per  comprendervi  tutte  le  possibili  permutazioni,  ciascuna  delle  quali,  caso  per  caso,  vi  ha  la  spiegazione.  Che  cosa  si  pretenderebbe  col  sistema  delle  permutazioni  ?  stabilire  forse  delle  altre  categorie  sintattiche  secondo le  quali  gli  elementi  del  pensiero  si  potrebbero  disporre  in  un  modo  piuttosto  che  in  un  altro?  che  ci  fossero  in  altre  parole nuovi  ordini  di  mezzi  espressivi  ?  Per  altro  nel  sistema  perni utativo  del  Muzzi,  come  in  quello  musicale  da  lui  citato  del  Dubos  e  del  Rollili,  abbiamo  una  nuova  prova,  se  ne  avessimo  bisogno,  dell'arbitrarietà  delle  categorie  grammaticali  e  sintattiche, che  possono  esser  diminuite  e  accresciute  e  ex  novo  costruite secondo  il  mag giore  e  minore  genio  grammaticale  inventivo dei  grammàtici  !   Parve,  alfine,  che  la  grammatica  auspicata  dal  Muzzi  spuntasse negli  Elementi  filosofici  per  lo  studio  ragionato    lingua  proposti  e  dedicati  alla  studiosa  gioventù  delle  Università  d' Italia  da  Mariano  Gigli,  professore  di  scienze,  (/)  che  furono  infatti  molto  lodati  allora  e  dopo.  Anche  il  Gigli  comincia  dal  lamentare che  non  vi  fosse  ancora  un  libro...  come  il  suo:    un  libro  scritto  dietro  la  sola  guida  del  Buon-senso...  è  una  scienza  affatto nuova  nella  Repubblica  Letteraria  .  Veramente  un  tal  libro  poteva  anche  esserci:  la  sua  Lingua  filosofico-universale   (pubbl.  a  Milano  l'anno  avanti),  di  cui  questi   Elementi  sono  chiarimenti,  aggiunte  e  correzioni.  Uno  de'  miei  primari  difetti  ,  confessa  con  ironico  candore  il  Gigli,    è  quello  di  consultar  la  Ragione,  e  non  l'Uso.  Ecco  che  cosa  gli  dice  la  Ragione.  L'uomo  è  un  essere  sensibile  giudicante:  in  quanto  vive  in  società,  e  ha  bisogno  della  parola,  in  quanto,  cioè,  è  un  uomo  sociale,  è  uomo  naturale  parlante  (p.  8):  u?iico  dunque  deve  essere il  linguaggio  per  ciò  che  riguarda  l'uomo  naturale;  molteplice per  l'uomo  sociale.  Avremo  dunque  una  filosofia  di  lingua,  e  una  grammatica  di  lingua.  Conoscendo  la  propria  lingua  filosoficamente, conosceremo  tutte  le  lingue,   e   non   ci  rimane  che      Milano. Non  so  se  sia  tutt'uno  con  essa  l'altra  opera  di  Gigli,  La  metafisica  del  linguaggio.  Scienza  nuova  anche  '  dotti  e  pe'  soli  di  buon  senso,  Milano.] applicarci  allo  studio  della  grammatica  di  ciascuna,  per  apprendere i  suoni  e  i  segni  attaccati  dalla  convenzione  alle  idee,  e  poi  V ordine  con  cui  si  succedono.  Onesta  conoscenza  si  forma  con  l'abitudine,  e  non  ci  sarebbe  bisogno  di  grammatica.  Ma  poiché  ogni  lingua  ha  le  sue  particolarità,  il  raccoglier  sotto  regole  generali  è  far  cosa  utile.  Far  dunque  la  grammatica  di  una   lingua,   è  formular  quelle  regole  generali.   E  facile  vedere  che  questa  nuova  scienza  di  Gigli  è  la  vecchia  grammatica  generale  caratterizzata  con  molte  inutili  e  imprecise  parole.  Il  suo  buon senso  non  gì'  ispira  che  complicazioni. De'  giudizi,  p.  es.  (p.  27),  distingue  quelli  dazione  e  quelli  di  qualità;  ma  ogni  giudizio  esige  tre  cose:  r.  L’oggetto,  cardine  del  giudizio';  la  parola,  (verbo)  voce  di  giudizio  ';  la  voce,  che  esprime  ciò  che  si  attribuisce,  '  attributo  di  giudizio  !   Non  miglior  pregio  ha  la  Grammatica  della  lingua  italiana  di Bellisomi,  autore  anche  di  una  Grammatica  delle  due  lingtie  italiana  e  latina  per  uso  dei  Ginnasi  della  Lombardia^)  e  di  una  Introduz.  alla  medesima.    l'ima  che  l'altra  furono  molto  diffuse,  ma  di  notevole  la  prima  ha  l'aver  abolito  lo  schematismo  della  consueta  grammatica:  poiché  il  contenuto  esposto  in  modo  discorsivo  per  via  d'analisi  è  su  per  giù  il  medesimo. Un'osservazione  è  degna  d'esser  ricordata  a  onore  del  Bellisomi: che i bamboli riescono a parlare secondo grammatica pur non  avendone  coscienza,  e  quando  poi  si  danno  ad  apprender  la  grammatica,   ricominciano  a  sbagliare  !   (prefaz.)     Un  trattato...  sul  valore,  sulle  proprietà  e  sull'uso  di  alcune voci  e  di  alcune  frasi,  un  trattato  compiuto,  quale  sin  qui  desideravasi,  di  sintassi  e  di  costruzione,  un  trattato  sul  discorso  e  sullo  stile...  non  pochi  cenni  storici  sull'origine  e  sui  progressi    ('i  Ad  uso  delle  se.  el.  della  Lombardia,  Milano. Milano. Milano. Bellisomi  ebbe  una  lunga  polemica  grammaticale col  Fantoni.  Cfr.  Postille  alle  osservazioni  critiche  di  I.  Fantoni  sopra  la  prima  parte  della  gr.  it.  e  latina,  Milano.  Del  Fantoni,  si  può  vedere  Risposta  al  libro:  Postille,  ecc.,  Brescia.  Il  F.  critica il  B.  coi  principi  del  Soave,  del  Destutt  de  Tracy  ecc.  La  polemica getta  non  poca  luce  sull'accaloramento  onde  la  grammatica  generale era  trattata  nelle  scuole.] della  lingua  italiana  ...  non  per  gli  uomini  scienziati  e  d'alte  lettere,  ma  per  i  giovanetti  con  istile  semplice  e  familiare  vuole  dare  Ziniglio  Vianotti  (cioè  Giovanni  Ziliotti)  con  le  sue  Lezioni  di  lingua  italiana  in  seguito  allo  studio  della  grammatica,  ma  non  riuscì  che  a  comporre  un  zibaldone  di  rettoricherie,  di  osservazioncelle  di  grammatica  (p.  es.  questa,  che  il  che  è  la  congiunzione  più  importante),  di  frasi    un  italianismo  presero  a  fuggire). Il  fervore  per  la  grammatica  come  scienza  era  venuto  sempre  crescendo:  forse  non  ci  fu  mai  per  questa  disciplina  un'  ammirazione, anzi  un'esaltazione  come  in  Italia  in  questo  periodo,  che  era  in  ragion  inversa  della  penetrazione  filosofica  degli  stessi  che  la  coltivavano.  Basta  vedere  la  Dissertazione  storico -critico  filosofica  di  Antonio  Adorni  intorno  alle  Grammatiche,  un  ellogio,  così  l'autore  stesso  la  chiama,  della  grammatica  e  insieme un  infelice  tentativo  di  spiegarne  l'origine,  per  rivelarne  l'antichità,  in  modo  da  farla  coincidere  con  la  stessa  sapienza  dei  libri  sacri,  e  esaltarne  la  venerabilità  indicando  non  alla  rinfusa,  ma  promiscuamente  dentro  le  grandi  epoche  (grecoromana, medievale,  rinascimento,  tempi -moderni)  senz' alcun  criterio,  i   nomi    degli   insigni    scienziati    e    filosofi    che   la    tratSecondo  le  vedute  di Cesarotti  e  Tiraboschi  che  infatti  non  fa  che  copiare.  Dobbiamo  (ma  non  è  un  gran  debito)  allo  Ziliotti,  oltre  diversi  compendi  e  metodi  grammaticali  anche  per  il  latino,  La  ortografìa  italiana  citata  al  tribunale  della  sana  critica,  Padova,  dove  arrossisce  di  vergogna    per  avere  tredici  anni  addietro  (coll'operetta  portante  il  titolo  Ortografia  italiana,  ovvero  regole  per  rettamente scrivere  in  lingua  italiana)  mostrato  al  publico  come  ei  pure  la  pensava  alla  maniera  degli  altri  in  fatto  di  ortografia.  Come  la  pensasse,  s'argomenta  ora  dal  vederlo  scrivere  publico,  legere,  add ungue,  bacciarseli  !  Padova.  Pubblicò  anche:  "  Il  fanciullo  istruito  fin  dalla  sua  infanzia  in  tutto  ciò  che  il  può  risguardare'',  Padova,  1817;"  Libretto di  devozione  pe'  fanciulli  ",  Vicenza,  1819;  "  Ortografia  italiana  ovvero  regole  per  rettamente  scrivere  in  lingua  italiana  ",  Padova  (2a  ediz.)  1S24;  '•  Introduzione  alla  grammatica  della  lingua  latina",  Padova. Guastalla,  nella  tipografia  di  Gaetano  Ferrari  e  figlio,  s.  a.  (La  ded.  è  datata  da  Sabbioneta.  Una  nota  nell'ultima pag.,  la  54,  dice:  Dall'epoca  in  cui  fu  scritta  la  presente  dissertazione, a  quella,  in  cui  si  pubblica,  la  morte,  sempre  ingorda  delle  migliori  cose,  ci  rapì  il  sempre  memorabile  Bodoni.     tarono:  sicché  neppur  giova  come  schizzo  d'una  storia  della  grammatica,  quale  un  diligente  avrebbe  potuto  disegnare,  raccogliendo dai  vari  libri  de'  grammatici  dove  si  ricordano  i  nomi  de'  predecessori  .  Tra  le  lodi  della  grammatica   e  lo  sfogarsi  contro  le  autorità  che  non  elevano  alle  cattedre  gli  uomini  veramente grandi  (come  lui,  certo,  che  una  n'aveva  perduta  e  per  un'  altra  si  vide  posposto  a  un  ignorante  di  prete  che  poi  fu  la  pietra  dello  scandalo  degli  scolari),  egli,  che  pur  gli  aveva  prima  citati  in  onore  per  averla  coltivata,  trova  modo,  forse  per  mostrarsi uno  di  quei  grandi,  di  biasimare,  perchè  non  usavano  del  metodo  analitico,  e  l'Alvarez,  e  il  Despauterio,  e  Salvator  Corticelli    che  modellò  ,  e  questo  era  vero,  il  suo  corso  Grammaticale sul  gusto  di  quel  de'  latini  ,  e  Francesco  Soave    ne'  suoi  elementi  di  lingua  italiana,  quando  volle  ridurre  a  sette  le  parti  dell'orazione,  facendone  una  sola  delle  sue  specifiche  in  natura  addiettìvo,  e  participio,  e  in  blocco  tant'altri,  senza  che  appaia  se  accetti  il  sensismo   benché  citi  il  Condillac    o  il  puro  logicismo.  Non  parliamo  della  sua  filosofia  del  linguaggio:  la  dissertazione  s'  apre  così. La  lingua  non  è,  come  alcun  tra  filosofi  opinar  volle,  figlia  dell'  uomo,  ma  figlia  dell'autore della  natura;  il  che  prova  in  nota  con  argomenti  infallibili.   Un  considerevole  tentativo  eli  costituire  un  corpo  organico  di scienza  grammaticale  è    il    termine   caro    all'  autore L'Adorni  stesso,  a  dimostrare  che  neppure  dal  nono  e  ottavo  secolo  infìn  ai  tempi  dell'Alighieri  non  fu  come  sembra  offuscata  di  tenebre  densissime  la  nostra  regione  scientifica    rimanda  ai  documenti addottine  in  prova    dal  celebre  Cerretti  nella  sua  inaugurale  recitata  nell'Aula  Regia  dell'Università  di  Pavia  per  l'aprimento  de'  studi  nell'anno  millesimo  ottocentesimo  quinto,    p.  25.  Nella  quale,  peraltro,  a  me  non  è  riuscito  trovar  nulla  di  strettamente  connesso  col  nostro  tema,  come  avevo  potuto  supporre.  Notevole,  invece,  m'è  parsa  una  pagina  d'una  lezione  del  Cerretti  sullo  Stile,  dove  illustra  il  fondamento logico  della  dottrina  stilistica  del  Beccaria.    La  considerazione delle  parole  de'  suoni  diversi  e  diversamente  ricevuti  non  è  riguardata del  celebre  Autore,  che  come  dipendenza  della  Grammatica: e  però  prescinde  dalla  stessa,  o  poco  almeno,  e  in  un  solo  paragrafo ne  parla  ov'egli  ragiona  dell'Armonia;  e  tutti  colloca  i  suoi  principj  nell'Analisi  delle  idee.  Seguendo  il  D'Alembert,  il  Cerretti  fa  altre  osservazioni  sulla  chiarezza  e  precisione  grammaticale  dello  stile.  Instituzioni  di  eloquenza  del  cavaliere  Luigi  Cerretti  modonese,  Milano,   presso  Giuseppe  Maspero] compì Romani  di  Casalmaggiore,  un  matematico  che  insegnò  e  fu  preposto a  pubbliche  scuole  e  istituti  educativi,  e  tutto  infervorato  nel  proposito  di  rinnovare  '  il  linguaggio  grammaticale  '  con  la  grammatica  filosofica.  Tranne  alcuni  opuscoli,  i  suoi  lavori  furono pubblicati  postumi  tra  il  25  e  il  27  nella  bella  edizione  delle  Opere  complete  fatta  dal  benemerito  Giovanni  Silvestri  di  Milano.   Ma  all'ampiezza  del  suo  'piano'  e  all'entusiasmo  onde  attese a  eseguirlo  e  anche  alla  larga  informazione  della  letteratura grammaticale non  corrispondeva  certo  la  profondità  del  pensiero  filosofico.  Basterebbe  dire  che  il  Romani  ammette  tre  sorte  di  linguaggi,  uno  grammaticale,  per  '  la  manifestazione  de'  pensieri',  uno  oratorio  per  '  la  comunicazione  degli  alletti  ',  e  un  altro  poetico  per  '  la  dilettazione  dell'udito;  che  ritiene  conservato  in  buono  stato  quest'ultimo,  un  po'  meno  il  secondo,  assolutamente  in  cattive  condizioni  il  primo,  perchè  mentre  per  gli  ultimi  due   non    occorse    una    grammatica,    essendo    bastata   Son  volumi  cosi  ripartiti. Teorica  de'  sinonimi  italiani. Dizionario  generale  de"  sinonimi  italiani. Osservazioni  sopra varie  voci  del  Vocabolario  della  Crusca.  Teorica  della  lingua  italiana;  Vili.  Opuscoli:  Sulla  scienza  grammaticale  applicata alla  lingua  Italiana  (ed.  Milano):  Mezzi  di  preservare  la  lingua  Italiana  dallasua  Decadenza  (ed.  Casalmaggiore,  1808);  3.  Sulla  libertà  della  lingua  Italiana  (ed.  Pesaro;  Sull'insufficienza del  Vocabolario  della  Crusca  al  servizio  del  linguaggio  filosofico Italiano  per  uso  delle  Scienze  e  delle  Arti; Sopra  l'origine,  Formazione  e  Perftttibilità  della  lingua  Italiana; Sulla  bellezza  della  lingua  Italiana.  Il  secondo  di  questi  opuscoli  era  stato  disteso  per  la  gara  di  cui  fu  vincitore  il  Cesari,  ma  non  fu  presentato  al  Concorso. Quanto  fosse  profonda,  non  saprei  dire,  perchè  gli  autori  li  nomina quasi  sempre  per  indicare  se  conobbero  e  applicarono  'la  scienza  grammaticale ',  ma  di  nome  e  genericamente  conosce  quasi  tutti  i  principali  greci  e  latini,  lo  Scaligero  e  il  Sanzio,  i  nostri,  e  più  particolarmente i  logici  francesi.   (:i)  Che  nel  linguaggio  degl’affetti,  di  cui  si  valsero  soltanto  i  più  rinomati  Classici  di  quel  secolo,  si  possa  parlare  e  scrivere  senza  un  piano  meditato  di  scienza  grammaticale,  convengono  tutti  que'  filologi  che  riconoscono  tanto  più  naturali,  più  energiche,  più  vive  e  più  commoventi  le  produzioni  delle  fantasie  e  delle  passioni,  quanto  meno  sono  frenate  da  leggi,  e  da  grammaticali  regolamenti.  Fra  i  molti  moderni  che  sostennero  questa  ragionevole  opinione  si  può  particolarmente  annoverare  il  celebre  Cesarotti.  l'imitazione  degli  scrittori  e  poeti  migliori,  per  il  primo  mancò  quel  mezzo:  la  grammatica  de'  nostri  grammatici    fu  compilata   eoi    lodevole  scopo  di  perfezionare  il  linguaggio  intellettuale  e  filosofico,  ma...  sventuratamente  si  sbagliò  nel  mezzo  acconcio  per  riuscirvi:  perchè,  invece  di  dedurre  le  regole  dai  legittimi  loro  fonti,  cioè  dai  principi  dell'Ontologia  e  della  Logica,  ossia  della  vera  scienza  grammaticale,  [i  grammatici  del  Cinquecento]  le  tirarono  materialmente  dagli  esempj  del  linguaggio  affettivo  degli  scrittori  trecentisti,  linguaggio  che,  prodotto  senza  regole,  non  poteva  somministrar  regole  certe  ed  opportune  al  linguaggio istruttivo e  filosofico  ,  e,  di  contro  al  vantaggio  di  procurar  alla  lingua    una  t'orma  costante  e  generale  che  pria  non  avea  ,  le  recarono  però    due  funestissimi  danni:  il  primo  di  aggravare  senza  necessità  il  linguaggio  affettivo  di  regole e  l'altro  di  privare  il  linguaggio  intellettuale  di  tutti  quei  canoni,  e  ragionato metodo,  di  cui  abbisognava  per  giungere  alla  sua  perfezione.  Onde  la  necessità  della  scienza  grammaticale,  che,  se  ha  nella  parte  teorica  la  dottrina  ontologica  a  comune  con  la  Logica,  nella  parte  pratica  non  è  però  la  Logica.    L 'arte  della  Logica  ha  per  fine  la  rettezza  e  la  verità  dei  pensieri,  senza  punto  curarsi  del  modo  o  dei  mezzi  di  esprimerli;  la  Grammatica  ha  per  iscopo  la  rettezza  e  la  verità  dell'  espressione, senz'incaricarsi  dell'esame,  se  i  pensieri  che  debb'esprimere  siano  consentanei  alle  regole  logiche;  secondo  la  logica  i  pensieri  sono  retti  e  veri,  quando  sono  conformi  all'ordine  naturale delle  cose;  secondo  la  Grammatica  le  espressioni  sono  rette  e  vere,  quando  con  precisione  riportano  i  pensieri  nello  stesso  modo,  estensione,  limiti  e  stato,  con  cui  sono  concepiti  d e  filosofico  ,  e,  di  contro  al  vantaggio  di  procurar  alla  lingua    una  t'orma  costante  e  generale  che  pria  non  avea  ,  le  recarono  però    due  funestissimi  danni:  il  primo  di  aggravare  senza  necessità  il  linguaggio  affettivo  di  regole  e  l'altro  di  privare  il  linguaggio  intellettuale  di  tutti  quei  canoni,  e  ragionato metodo,  di  cui  abbisognava  per  giungere  alla  sua  perfezione.  Onde  la  necessità  della  scienza  grammaticale,  che,  se  ha  nella  parte  teorica  la  dottrina  ontologica  a  comune  con  la  Logica,  nella  parte  pratica  non  è  però  la  Logica.    L 'arte  della  Logica  ha  per  fine  la  rettezza  e  la  verità  dei  pensieri,  senza  punto  curarsi  del  modo  o  dei  mezzi  di  esprimerli;  la  Grammatica  ha  per  iscopo  la  rettezza  e  la  verità  dell'  espressione, senz'incaricarsi  dell'esame,  se  i  pensieri  che  debb'esprimere  siano  consentanei  alle  regole  logiche;  secondo  la  logica  i  pensieri  sono  retti  e  veri,  quando  sono  conformi  all'ordine  naturale delle  cose;  secondo  la  Grammatica  le  espressioni  sono  rette  e  vere,  quando  con  precisione  riportano  i  pensieri  nello  stesso  modo,  estensione,  limiti  e  stato,  con  cui  sono  concepiti  dalla  mente,  senza  incaricarsi  della  logica  verità  o  falsità  di  essi;  mentre  la  parola  debbe  essere  fedele  e  precisa  nel  riferire  i  pensieri della  mente  tanto  retti  che  obliqui,  tanto  veri  che  falsi. Ma  siccome  il  principio  della  differenziazione  dei  linguaggi  è  il  fine  per  cui  si  parla,  si  ammettono  i  così  detti  linguaggi  degli  amanti,  dei  furbi,  dei  legisti,  dei  romanzisti  ecc.  .  Introduz.  alla  Teorica. Invece  di  fermarmi  e  criticare  queste  vedute,  rimando  alla  discussione  fatta  dal  Croce  sui  rapporti  tra  Logica  e  Grammatica  quali  li  aveva  stabiliti  lo    Steinthal  col   famoso    esempio   della    tavola    444  Storia  della  Grammatica   His  fretus,  ovvero  su  questi  bei  fondamenti,  per  dirla  col  Manzoni,  il  Romani  si  fece  a  compilare  un  Dizionario  di  sinonimi, a  correggere  la  Crusca  e  a  fabbricare  una  nuova  Grammatica generale  italiana,  che  diceva  anzi  mancare  all'  Italia,  anche  dopo  i  tentativi  del  Venini,  del  Yaldastri  e  del  Soave,  in  due  sezioni,  Teorica  e  Pratica,  eseguendo  però  solo  la  prima;  non  solo,  ma  perchè,  insomma,  la  scienza  grammaticale  penetrasse tutti  i  meandri  della  vita  scientifica  della  nazione,  propose che  una  sezione  dell'Istituto  Nazionale,  composta  di  profondi Grammatici  filosofi  e  di  Ontologisti,  si  occupasse  della  redazione  delle  teorie  e  regole  di  Grammatica  generale  dedotte  dai  principi  di  naturale  Ontologia,  un'  altra,  alla  dipendenza  della  prima,  stabilisse  le  regole  certe  e  immutabili  di  pratica  attuazione, entrambe  compilassero  un  completo  Dizionario  italiano  al  sol  servizio  del  linguaggio  filosofico;  fosse  poi  esteso  a  tutte  le  Scuole  elementari  e  Licei  dello  Stato  lo  studio  della  Grammatica ragionata  di  nostra  lingua;  i  testi  di  lettura  fossero  scelti  tra  quegli  autori  didascalici    che  scrupolosamente  si  attennero  ai  termini  adottati  nel  nuovo  Dizionario,  ed  alle  Regole  stabilite  nella  Grammatica  ragionata;  che  si  accettassero  per  maestri  solo  quelli  che  per  esame  avessero   dimostrato  di  conoscere  appieno    rotonda:  La  Critica, ‘QUESTA TAVOLA ROTONDA È QUADRATA [tautology – contradiction]. A  Romani  s'attaglia  assai  bene  tutto  quanto  osserva  qui  Croce,  perchè  egli  è  veramente  uno  di  quei  grammatici  che,  se  par  limitarsi  a  scrivere  sulle  pagine  elaborate  secondo  le  sue  regole:  Videat  logicus,  videat  aestheticus,  poi  passa  dal  campo  empirico  al  filosofico,  da  costruttore  di  tipi  astratti  a  giudice  di  realtà  concreta  e  viva.  Anzi  va  tanto  in    da  esclamare  seriamente:  che  di  grammatica  e  di  regole  possa  esentuarsi  il  linguaggio  dell'intelletto,  del  raziocinio,  della  ragione,  è  il  punto  che  io  non  posso  accordare,    accorderò  giammai  al  prefato  oppositore,  giacché  io  sono  pienamente  convinto  che,  per  esprimere  con  precisione,  e  con  chiarezza  i  nostri  concetti,  per  manifestare  con  rettitudine  i  nostri  giudizi,  per  coordinare,  e  regolarmente legare  i  nostri  raziocini,  per  esporre  metodicamente  e  sinteticamente i  nostri  ragionamenti,  siano  indispensabili  tutti  que'  canoni,  e  tutte  quelle  cautele  che  ci  somministra  la  Scienza  grammaticale.  E  finisce  col  far  tutt'uno  della  Logica  e  della  Grammatica, come  anche  si  vede  dal  fatto  che  nella  sua  Teorica  della  lingua  italiana,  elabora  di  proposito  la  dottrina  delle  Argomentazioni, dichiarando  questo,  dominio  della  grammatica.  V.  qui  tutto  il  brano  che  abbiam  riportato  sulla  degradazione  della  grammatica.]  le  scienze  grammaticali;  che  a  tali  prove  fossero  sottoposti  anche  gli  ufficiali  dello stato  incaricati  di  redigere  atti  pubblici. Con  tali  mezzi  io  sono  pienamente  persuaso  che  la  Lingua  italiana  non  solo  potrà  esser  sollevata  dall'  attuale  sua  decadenza,  ma  potrà  esser  inoltre  preservata  per  molti  secoli  da  qualunque  degradamene o  degenerazione.  Un  vero  infatuamene grammaticale.   Senz'indugiarci  a  considerar  da  vicino  come  abbia  eseguito  i  suoi  '  piani  '    il  nostro  ardente  grammatico,  dirò  soltanto  che  se  egli  non  sostiene  che  ci  sia  una  visione  grammaticale  delle  cose,  concepisce  però  la  grammatica  come  una  rettorica  (scienza [Il  principio  fondamentale  onde  si  fa  a  svolgere  la  sua  Teorica  è  il  seguente:  Secondo  le  parole  unicamente  destinate  alla  manifestazione de'  nostri  pensieri  e  delle  affezioni  nostre,  debbono  necessariamente le  lingue  essere  fornite  di  tante  sorte  di  parole,  quante  sono  le  diverse  operazioni  della  mente  nostra,  perchè  ciascuna  di  esse  sia  adeguatamente  e  distintamente  rappresentata  da  appositi  segni.  Così  vediamo  sorgere  le  categorie  grammaticali,  non  solo,  ma  tutte  le  varietà  formali  di  esse,  tutti  i  valori  vozionali  (p.  es.  -orio  acquista  nozione  d'istrumento  o  di  località  quando  s'accoppia  a  una  radice:  aspersorio,  dormitorio).  Cosi,  poiché  le  nostre  nozioni  sono  riducibili  a  dodici  classi  capitali,  cioè:  Sostanze;  Proprietà;  Qualità;   Affezioni;   Potenze;   Forme;  Relazioni;  Quantità; Tempo;  io.  Luogo;  Stato;  Moto,  la  genealogia  de’nomi  viene  a  esser  la  seguente. Nomi Attributivi Propri Qualitativi Affettivi Formali Potenziali Sostanziali Relativi Comparativi Qualitativi Quantitativi Occasionali Temporali Locali Statari Motivi CON QUESTO PROCEDIMENTO SI CREA TUTTO IL LINGUAGGIO intellettuale.  Schematizzandolo  in  un  vasto  quadro,  dove  l'occhio  potesse  tutto  comprenderlo, ognuno  dispererebbe  di  mai  parlare.  E  dire  che  tutta  questa  brava  gente  di  grammatici  logici  universali,  dello  stampo  del  Romani,  credevano  ciecamente  nel  loro  sistema,  senz'accorgersi  che  essi  parlano egualmente  benissimo  e  scriveno  con  altrettanta  facilità,  nonostante  che  ritenessero  non  ancora  venuto  il  regno  della  grammatica RAZIONALE FILOSOFICA universale.] d'un'arte  chiama  la  scienza  grammaticale,  e  arte  la  logica),  come  una  rettorica  della  logica,  ossia,  per  l'appunto la  scienza  della tavola  rotonda  che  è  quadrata,  e  questo  solo,  non  anche  l'estetica  di  una  poesia,  che  avrebbe  per  tipo  i  versi  celebri,  grammaticalmente  e  metricalmente  impeccabili – Colourless green ideas sleep furiously. Pirots karulise elatically. C'era  una  volta  un  ricco  poveruomo,  Che  cavalcava  un  nero  cavai  bianco;  Salì  scendendo  il  campami  del  Duomo,  Poggiandosi  sul  destro  lato  manco.] perchè affetti  e  suoni,  per  designar  col  termine  di Romani  il  mondo  dell'arte,  le  creazioni  della  fantasia,  son  fuori,  non  avendone  bisogno,  della  sfera  dell'arte.  Quella  che  era  stata  in CESAROTTI (si veda)  una  confusa  intuizione  del  carattere  fantastico  del  nostro  pensiero,  diventa  nel  suo  scolaro  un  insanabile  dualismo,  per  cui  da  una  parte  si  ha  un  linguaggio  grammaticale – Colourless green ideas sleep furiously – Pirots karulise elatically --,  dall' altra   un   linguaggio  agrammaticale   (oratoria  e  poesia). Un  vero  regresso,  dunque,  rappresenta  questo  punto  di  vista  del  Romani,  non  pur  verso  i  grammatici  logici  dell'Enciclopedia, ma  verso  lo  stesso  Cesarotti;  e  il  suo  apostolato  ebbe  infatti  scarso  successo.  Giandomenico  Nardo  ("),  che  fu  chiamato '  l'ultimo  de'  cesarottiani  ',  lamentava  molti  anni  più  tardi  che  gli  scritti  di  Romani  non  fossero  studiati  abbastanza;  ma,  per  ripetere  un  arguto  giudizio  del  Mazzoni,  quella  era  troppa  filosofia,  troppa  fidanza,  cioè,  nel  raziocinio,  e  troppa  noncuranza invece  dell'osservazione  diretta  sull'uso  corrente.  Fantastica anche  ROMANI una  sua  lingua  universale;  e  così  crede, senza  accorgersene,  che  pur  la  lingua  nostra  si  potesse  dipanare  via  via  a  fil  di  logica  dalla  matassa  d'una  teoria.  Quanto  aveva  di  ragione,  e  non  è  da  negare  che   ne   avesse,    contro  la Croce,  in  La  Critica. Pubblica Osservazioni  sopra  alanti  recenti  vocabolari  metodici  della  lingua  nostra  (Rambelli,  Carena,  Barbaglia,  ecc.),  e,  come  appendice  a  una  raccolta  di  suoi  studi,  uno  scritto  Sui  mezzi  indicati  da  M.  Cesarotti  per  avviare  l'italiana  favella  alla  desiderata  perfezione.    Prese  dal  maestro,    osserva  il  Mazzoni  (L'Olt.),  l'idea  buona  e  in  qualche  parte  la  praticò,  dei  vocabolari  dialettali.  Si  ricordi  l'espediente  praticato  e  suggerito  dal  Cesari  circa  l'uso  del  dialetto  (Disser/az.,  verso  la  fine)  per  l'apprendimento  della  lingua,  e  la  proposta del  Manzoni.    Crusca  d'allora,  non  bastava  a  dargli  vittoria  siffatta  da  costituire lui  quasi  supremo  legislatore,  in  nome  della  Ragione,  sulle  grammatiche  e  sui  vocabolari  presenti  e  futuri.   Era  troppa  filosofia  per  gli  stessi  continuatori  di  quell'indirizzo. Vanzon  nella  sua  Grammatica ragionata  della  lingua  italiana •  C  ),  dove  pur  dichiara  di  aver  seguito    un  punto  di  vista  ornai  comune  appo  le  nazioni  più  colte  d'Europa,  vuol  prender  una  via  di  mezzo  distruggendo parte  delle  preoccupazioni  degli  scolastici  e  parte  accettando  delle  filosofiche  dottrine  .  Infatti,  tranne  che  per  le  definizioni,  dove  versa  discretamente  lo  spirito  ideologico,  vi  segue  i  principali  grammatici  empirici  dal  Salviati  al  Buonmattei  al  Corticelli,  attenendosi  per  le  autorità  ai  padri  della  lingua,  con  molte  liste  alfabetiche  di  esempi  e  molti  esercizi.  Il  Calchi nella  prefazione  alla  terza  edizione  della  sua  Grammatica ragionata  della  lingua  italiana,  dichiarava  d'aver  compilata otto  anni  avanti    una  Grammatica  elementare  maggiore  per  un  Corso  di  studj,  coli'  intento  di  applicare  bensì  la  teorica generale  del  linguaggio  alle  regole  proprie  e  particolari  della  nostra  favella,  ma  non  d' inoltrarsi  soverchiamente  nelX ideologiche  astrattezze  per  non  correr  pericolo,  invece  di  aiutare, di  confondere  la  mente.  Codesta  Grammatica infatti,  che  tien  conto  dei  grammatici  francesi  allora  in  voga,  il  Tracy  e  il  Condillac,  e  i  nostri  sia  logici  (Vanzon,  Valdastri,  ecc.)  che  pratici  (Buonmattei,  Ambrosoli,  ecc.),  riesce  a  un  lodevole  contemperamento  di  filosofia  e  di  empirismo,  quale  era  consentito  dai  tempi.  Anche  vi  è  ristabilita  quell'antica  armonia delle  varie  parti  della  grammatica  {ortologia,  etimologia,  costruzione,  ortografia,  prosodia  e  versificazione)  che  è  stata  poi  ripresa  modernamente:  e  alla  grammatica  moderna,  p.  es.  a  quella  del  Morandi  e  Cappuccini,  rassomiglia  per  aver  trattato  dell'uso  delle  varie  parti  del  discorso  nella  sezione  dell'etimologia, di  volta  in  volta,  piuttosto  che  nella  sintassi.  Il  ragionato  in  questa  Grammatica  si  riduce  alle  dichiarazioni  logiche  delle  singole  categorie  e  degli  accidenti  grammaticali  e  alle  dilucidaMazzoni.   Livorno. La  prima  edizione,  esaurita,  dice  l'a.,  in  breve  tempo,  voleva  essere  un' 'Esposizione  grammaticale  al  suo  Dizionario  universale.] zioni  delle  regole  dell'uso  delle  varie  parti  del  discorso. C'ingegneremo di  determinare...  le  ragioni  di  esse  regole:    solo  in  questa,  ma  anche  in  ogni  altro  che  verrà  dietro  a  ciascuno  de'  Capitoli  successivi,  giacché  se  una  lingua  deve  avere  Yuso  per  base,  come  dice  il  Cesarotti,  V esempio  per  consigliere,  deve  parimenti  avere,  sempre  che  può,  la  ragione  per  guida.  Abbonda  invece  di  esempi,  che  sono  tolti  da  approvati  scrittori  d'ogni  secolo,  e  di  paradigmi.  Anzi  in  un  punto  egli  si  scusa  di  far  di  questi  un  uso  troppo  abbondante,  più  conveniente  ad  un   Manuale  della  lingua  che  ad  una  Grammatica.   Non  si  creda  peraltro  che  il  fervore  per  la  grammatica  generale accennasse  a  intiepidirsi,  anzi  si  seguitavano  a  tradursi  anche  gli  autori  francesi,  perchè  fossero  ancor  più  popolari,  come  il  Girard  (2).   Anzi,  ideologia  logica  e  grammatica  seguitavano  a  viver  congiunte,  come  già  ai  tempi  del  Venini,  del  Valdastri  e  del  Soave,  non  pur  ne'  libri,    bene  anche  nell'insegnamento  universitario. A Torino,  Bona  inaugurava  appunto  il  corso  di  Grammatica  generale  con  una  lezione  proemiale,  in  cui,  delineando  i  concetti  fondamentali  ed  il  metodo  di  questa  disciplina,  diceva:  "  Poniamo  innanzi  tutto  che  la  cognizione  della  Grammatica  generale,  o  vogliamo  dire  la  cognizione  scientifica  dei  principi  generali  ed  immutabili  delle  lingue,  bene  si  può  altrimenti  ottenere  che  dalla  cognizione  dei  materiali  elementi  dei  singoli  idiomi  e  dal  paragone  dei  medesimi  tra  di  loro  per  discernere  in  essi  lo  assoluto  dal  contingente,  lo  universale  dal  particolare,  l'uso  dal  diritto...  Le  leggi  fondamentali del  discorso  può  l'uomo  conoscerle  parimenti  per  mezzo  della  riflessione,  rivolgendo  la  sua  attività  intellettiva  all'analisi  dell'elemento  spirituale  del  linguaggio,  astrattamente  dallo  elemento formale  del  medesimo.  L'analisi  filosofica  del  pensiero  può  guidare  eziandio  allo  scopo;  questa    anzi    deve   precedere    ogni      Grammatica  ragionata  della  lingua  italiana  proposta da Caleffi  già  pubblico  professore  di  FILOSOFIA.   Terza  edizione  fiorentina.  Firenze,  a  spese  dell'Editore. Dell’insegnamento  ragionato  della  lingua  materna  nelle  scuole  e  nelle  famiglie.  Trad.  di  A.  Pace,  Torino. La  Grammatica  generale  del  conte  Destutt  de  Tracy  era  stata  tradotta  dal  Compagnoni,  Milano.] cosa,  olii  vuole  scientificamente  risolvere  i  diversi  problemi  della  teoria  dell'umano  linguaggio  e  conoscere  le  leggi  fondamentali. Che  più  ?  Non  soltanto  fu  l' ideologia  applicata  alle  grammatiche delle  varie  lingue,  non  escluse  quelle  comparative  (una  Grammatica  ragionata  italiana  ed  ebraica  (2)  aveva  pubblicato  fin  dal  1799  Samuel  Romanelli),  ma  perfino  anche  ai  trattati  d'altre  arti  diverse  dalla  parola,  e  avemmo  così  anche  una  vera  e  propria  Grammatica  ragionata  della  musica  considerata  sotto  l'aspetto  di  lingua  (3),  fondata,  come  l'autore  stesso,  Balbi,  dichiara  sui  principi  e  le  grammatiche  del  Tracy,  del  Soave  e  d'altri  (p.  33).  Vero  è  che    spesse  fiate,  nell'impresa  di  stabilire  le  rispondenze  logico-grammaticali  tra  la  lingua  musicale e  quell'articolata,  è  forza  confessare  al  nostro  autore,    mi  si  paravano  dinanzi  delle  difficoltà  ed  imbarazzi  non  piccoli,  allorché mi  mancava  per  esempio  qualche  parte  da  poter  confrontare, ove  qualche  altra  invece  mi  sopravanzava;  ma,  convinto  dell'identità  del  principio  logico  generatore  de'  due  modi  d'espressione,  egli  comincia  impavido  a  trattar  delle  parti  costituenti  il  discorso  musicale  e  via  via,  per  tutte  le  categorie,  considerate  in  tutti  i  loro  accidenti  del  genere,  del  numero,  del  caso,  ecc.,  del  soggetto,  dell' attributo,  della  copula,  dell' avverbio, dell'  interposto,  della  congiunzione,  della  preposizione,  arriva  fino  alla  sintassi,  riguardata  ne'  suoi  mezzi  di  costruzione,  declinazioìie  e  creazione  di  legami  e  riposi  (punteggiatura)    destinati a  marcare  le  relazioni  delle  altre  parti  .  E  ben  facile  rappresentarsi  il  contenuto  d'  un  tal  libro;  pure  gioverà  aggiungere qualche  esempio.  Il  soggetto  è,  così,  il  tono  o  modo,    vera  sostanza  di  qualunque  pensiero  musicale;  V  attributo  è  la  qualità del  tono,  scelta  del  tempo,  indicazione  del  movimento,  posi- [ZOPPI (citato da VAILATI), LA FILOSOFIA DELLA GRAMMATICA: studi  e  memorie  di  un  maestro  di  scuola, La  Sapienza,  Unione  tipografica-editrice,  dove  Bona  è  citato  così:  Boxa,  Lez.  proem.,  Torino,  1847,  P9"IO>  cit.  dal  Pezzi  nella  Introd.  allo,  studio  della  scienza  del  linguaggio,  Torino. Con  trattato,  ed  esempi  di  poesia,  Trieste,  Dalla  Ces.  Reg.  Privil.  Stamperia,  Milano,  Ricordi. I  capitoli sono  stati  pubblicati già  dall'a.  stesso  per  Nozze  Treves-Todros  e  Todros-Treves,  a  Rovigo,  A.  Minelli] zione,  intensità,  carattere  dei  suoni;  il  verbo  è  la  disposizione,  X ordine,  delle  espresse  o  sottintese  basi  fondamentali  formanti  la  cadenza,    il  di  cui  officio  è  appunto  quello  (al  dir  del  Tracy)  di  svolgere  le  due  idee  presentate  dal  tono,  e  carattere  o  qualità paragonabili  al  soggetto  ed  ali 'attributo.  Siccome  poi,  in  fatto  di  lingua,  altro  verbo  non  esiste,  che  l'Essere,  derivante  dal  suo  participio  étant  (rozzamente  essente)  così  nella  sola  cadenza semplice  tonale,  consiste  la  vera  essenza  copulativa  o  copula; e  giacche  qualunque  altro  verbo  non  può  essere  che  un  composto  del  sottinteso  essere  aggiunto  ad  un  attributo,  così  anche  qualunque  altra  cadenza  non  potrà  essere  che  composta  della  tonale  aggiunta  a  qualche  altro  attributivo  accordo,  o  cadenza  in  qualsivoglia  maniera,  od  espressa,  o  sottintesa.  Ecco  quindi  ciò  che  forma  la  proposizione  musicale,  che  noi  chiameremo  pure  col  solito  titolo  di  periodo,  canto,  pensiero,  motivo,  frase,  ecc.,  a  secondo  di  quello  che  si  tratterà,  quando  daremo  gli  elementi  della  composizione.  Medesimamente  il  Balbi  vi  parlerà  di  costruzione  diretta  e  inversa,  della  necessità  che  Y aggiuntivo  si  concordi    col  sostantivo,    nel  numero,  come  nel  genere  e  nel  caso,  e  perfino  del  punto  ammirativo  e  interrogativo! Ma  la  cosa  è  perfettamente  naturale:  ammesso  che  si  possa,  per  ragioni  pratiche  d'apprendimento  e  d'altro,  sottoporre  l'espressione artistica  a  un  processo  di  elaborazione  logica,  le  categorie grammaticali  anche  della  musica  sorgono  immediatamente d'incanto,  e  non  c'è  nulla  da  ridire:  anzi  si  può  osservare con  qualche  compiacenza  il  loro  meccanico  sorgere  anche fuori  del  campo  strettamente  linguistico.  V'ha  di  più.  Quel  solo  porre  il  problema  di  una  grammatica  ragionata  della  musica  considerata come  lingua  in  tempi  di  logicismo  e  purismo  linguistico,  anche  se  il  criterio  assunto  per  risolverlo  era  quel  medesimo  di  cui  si  serviva  la  grammatica  filosofica,  poteva  valere  come  un  suggestivo  richiamo  a  una  considerazione  meglio  che  intellettualistica dell'espressione  in  genere,  potendosi  avvertire  in  quell'equazione di  un  prodotto  creduto  facilmente  logico  e  di  un  altro  di  evidentissima  natura  artistica  una  comunanza  più  intimamente spirituale  di  competenza  dell'estetica  meglio  che  della  logica. Pochi  anni  avanti  aveva  vista  la  luce  un'  '  Opera  postuma  di POGGI (si veda) su  La  scienza  dell'umano intelletto,  ovvero  Lezioni  a" ideologia   di  grammatica  di logica.  L'opera,  come  s'argomenta dal  titolo,  è  divisa,  dopo l’Introduzione,  in  tre  parti: Della  ideologia;  Della  Grammatica, e Della  logica. POGGI (si veda) è  un  condillachiano,  e  quello  di  Condillac  è,  se  non  isbaglio,  l'unico  nome  che  citi  nel  suo  grosso  volume. Ma,  qua  e  là,  come  a  proposito  di  metafore  e  termini-cifre  e  di  lingue  emblematiche  e  dipinte  e  alfabetiche  ecc.,  indica  anche  un'  influenza,  non  direi  vichiana,  ma  cesarottiana.  Parte,  appunto,  anche  lui  dalla  istituzione  delle  lingue  artificiali,  e   con  la  percezione,  i  bisogni,  l'utilità,  la  brevità,  svolge  tutta  la  dottrina  delle  categorie  grammaticali  e  de'  loro  accidenti  e  poi  della  sintassi  di  costruzione,  di  reggimento,  di  concordanza.  Le  prime  articolazioni  furon  pronunziate  per  significare  sensazioni riportate  ad  oggetti  esteriori:  un'  interiezione,  dunque,  e  un  nome  bastarono  a  esprimere  qualunque  sensazione.  In  ogni  interiezione,  in  ogni  nome  è  contenuta  un'intera  proposizione. Poiché  un'  idea  qualunque  non  è  propriamente  che  il  risultato  di  una  sensazione,  ne  segue  che  tutti  gli  altri  elementi  del  discorso non  servono  ad  esprimere  veruna  idea  intera  e  completa,  ma  bensì  soltanto  delle  modificazioni,  e  dei  rapporti  fra  le  nostre  idee.  Tutto il  macchinismo  d'ogni  lingua  parlata è  spiegato  con  questo  principio:  i  verbi,  gli  aggettivi,  le  proposizioni,  le  congiunzioni,    e  tutte    le   variazioni   de'  nomi    e   de'  [Firenze.  A  spese  degli  editori  [i  figliuoli  Poggi], .   Precedono  Cenni  biografici.   (*)  In  XXI  lezioni,  con  un'  Appendice  sul l' Idea  della  metafisica  scolastica.  In  due  sezioni (lezioni)  Della  grammatica:  Del  PRIMITIVO LINGUAGGIO umano;  Degli  elementi  del  discorso  in  qualsivoglia lingua  artificiale;  Seguita  l'analisi  del  discorso;  Osservazioni sull'analisi  precedente,  massime  intorno  al  Verbo;  Delle  variazioni  a  cui  soggiaciono  gli  elementi  del  discorso;  Dei  verbi  ausiliari,  irregolari, e  composti;  Degli  aggettivi  di  quantità  e  di  numero.  (lezioni):  Della  sintassi;  Del  reggimento,  e  delle  altre  condizioni  della  sintassi;  Di  una  lingua  dipinta,  delineata,  o  scritta;   Di  una  lingua   scritta    per    caratteri,  ossia   della    scrittura   volgare;   Dell'ortografia;  Delle  parole  aventi  più  di  un  significato,  dei  sinonimi, dei  tempi  e  delle  figure  grammaticali.   (lezioni):  Del  Raziocinio;  Delle  proposizioni,  e  delle  varie  forme  d'argomentazione.] verbi,  si  sviluppano  da  esso.  V? avverbio  e  il  participio  non  sono  vere  categorie,  perchè  l'avverbio si  compone  di  una  preposizione, di  un  sostantivo  e  di  un  adiettivo,  e  il  participio  è  una  specie  di  nome  verbale  aggettivo.  La  cosa  è  molto  facile:  e  perciò,  invece  di  seguir  il  nostro  intrepido  dipanatore  del  linguaggio  nella  sua  dimostrazione,  la  lasceremo  immaginare  a  chi  vuole.  Mi  piace  invece  richiamar  l'attenzione  sull'espediente adoperato  dal  Poggi  per  dar  l'idea  della  sintassi.  Si  ricorderà che  il  Croce  per  mostrare  come  i  logici  hanno  cavato  dall'espressione i  generi  grammaticali,  ha  portato  l'esempio  d'una  pittura    che  rappresenti un  individuo  che  cammina  per  una  certa  via  campestre,  e  alla  quale  corrisponde  la  frase:  Pietro  cammina  per  una  via  campestre.  Come  elaborando  logicamente  quella  pittura  si  ottengono  i  concetti  di  moto,  azione,  ente,  del  generale,  dell' individuale,  ecc.,  così  elaborando  col  medesimo  procedimento  quella  frase,  si  ottengono  i  concetti  di  verbo  (moto  o  azione),  di  nome  (materia  o  agente),  di  nome  proprio,  di  nome  connine  ecc.,  che  pei  grammatici  sarebbero  le  parole,  le  espressioni di  quei  concetti,  ripassando  illecitamente  dal  logico  all'estetico  .  Orbene,  il  nostro  si  serve  del  medesimo  esempio  della  pittura  per  elaborare,  con  poca  esattezza,  però,  non  solo  le  categorie  grammaticali,  ma  l'ordinamento,  la  sintassi  onde  vengono a  intrecciarsi  armonicamente  per  la  perfetta  espressione  del  pensiero.  Val  la  spesa  di  riportar  questo  brano,  senz'altro  dire.    Se  vi  fate  a  osservare  un  dipinto  in  cui  siansi  per  esempio  ritratte  varie  figure  umane,  voi  tosto  vedete  nel  tutto  insieme  di  ciascuna  figura  il  primo  elemento  di  ogni  discorso,  cioè  il  nome:  se  paragonate  una  figura  coll'altra,  vi  scorgete  delle  differenze caratteristiche,  onde  una  si  discerne  dall'altra;  analizzando queste  differenze  vi  risultano  delle  proprietà  ovvero  degli  attributi  che  voi  distinguete  egualmente;  ed  ecco  il  secondo  elemento del  discorso  che  diciamo  aggettivo,  mentre  aggiunge  alcun che  all'idea  rappresentata  dal  nome:  se  vi  fate  a  riguardare  accuratamente  le  fisonomie,  gli  atteggiamenti,  e  gli  atti  delle  figure  medesime,  scorgete  eziandio  le  passioni  e  gli  affetti,  onde  sono  animate,  dal  che  scaturisce  il  terzo  elemento  d'ogni  lingua  che  appellasi  verbo;  imperocché  quelle  attitudini  non  esprimono  che  i  bisogni,  le  tendenze,  le  avversioni  o  i  desiderj  dei  perso- [Est.] naggi  ritratti:  infine  non  esprimono  che  le  attuali  modificazioni  del  loro  essere:  procedete  all'analisi:  osservate  come  una  figura  stia  nel  quadro  rispetto  all'altra,  come  gli  atti  o  i  gesti  di  questa  si  rapportino  agli  atti  o  ai  gesti  di  quella;  poiché  siasi  voluto  rappresentare  un  fatto  od  un' azione  principale  con  altre  secondarie ed  accessorie;  finalmente  in  qual  modo  tutte  quelle  figure,  e  tutte  quelle  attitudini  si  leghino  insieme,  onde  esprimere  in  complesso  il  concetto  del  pittore,  e  voi  scorgete  che  questi  rapporti e  queste  circostanze  tengon  luogo  delle  preposizioni  e  delle  congiunzioni:  mentre  esse  isolatamente  prese  nulla  significano,  anzi  non  sono  nulla,  ma  guardate  in  complesso  nel  tutto  insieme  del  quadro,  servono  a  determinare,  dichiarare  e  completare  l'idea  principale  o  il  soggetto  della  dipintura.  Ora,  fermandoci  all'addotto  esempio,  è  altresì  facile  il  comprendere  che  intanto  il  concetto  del  pittore  si  manifesta,  e  passa  nella  mente  dell'osservatore, in  quanto  che  le  parti  elementari  del  dipinto  sono  collocate  e  disposte  in  una  certa  guisa  e  con  determinato  ordine  fra  loro:  dal  che  dipende  la  pronta  e  chiara  intelligenza  del  soggetto,  ossia  dell'azione  principale  non  meno  che  delle  accessorie; di  tal  maniera  che,  se  quelle  figure,  quegli  atti,  quegli  emblemi o  segni  caratteristici  e  quelle  mosse  si  travolgessero,  o  confondessero,  non  avremmo  più  espressa  intelligibilmente  l'idea  del  pittore.  Questa  collocazione  e  disposizione  di  parti,  è  appunto quella  che  nelle  lingue  chiamasi  sintassi,  la  quale  voce  significa ordinamento.   Ma  non  è  prezzo  dell'opera  il  fermarsi  sulle  colluvie  di  grammatiche  ragionate  grosse  e  piccole  che  innondò  le  scuole  italiane  nella  prima  metà  del  secolo  decimonono:  sarà  già  molto  che  ne  diamo  qui   un    elenco,   s'intende,    imperfetto.Neppur  Dove  ho  messo  questi  puntini,  è  il  seguente  periodo:  E  qui  cade  in  acconcio  una  bella  e  giusta  osservazione,  ed  è  questa,  che  l'arte  della  pittura  fin  che  non  seppe  ritrarre  le  affezioni  e  i  movimenti dell'animo,  non  fu  che  un  linguaggio  assai  imperfetto,  come  quello  che  mancava  di  segni  atti  a  significare  le  modificazioni  dell'essere, e  quindi  pur  anche  le  vere  relazioni  e  i  legami  di  un  affetto o  di  un'azione  coll'altra  e  quindi  il  dipintore  non  potea  esprimere che  in  parte  soltanto  i  proprj  concetti:    tampoco  imprimere  alcun  carattere  marcato  e  distinto  alle  sue  figure.   (?ì  Martinelli  Gius.,  Modo  per  agevolare  la  cognizione  e  l'uso  della  lingua  toscana,   Venezia,   1800  (Divide  la  lingua  in  parecchi  gèneri  di  materie,  ciascuno  comprendente  parecchie  spezie,  ai  quali  corrispondono  vocaboli  proprii  e  figurati  e  maniere  di  favellare:  è  una  fraseologia  metodica).  Placci  M.  F.  Gius,  (professore  di  fisica  nel  r.  Liceo  di  Fermo),  Sul  meccanismo  della  pronuncia  ?iella  lingua  italiana    Osservazioni    Vicenza (L'a.  dichiara  di  essersi  giovato dell'opera  del  sig.  di  Kempelen  e  di  alcune  altre.  Il  nostro  pensiero  va  naturalmente  al  De  Brossei.  Zanotti  Fr.,  Elementi  di  grammatica  volgare,  Milano (È  un  opuscolo  in  cui  s'insegna  tutta  la  grammatica  compresa  la  sintassi,  compresovi  un  discorso  sulla  lingua). Brambilla  Carminati  Dom.,  Introduzione  alla  grammatica  di Soave  ossia  Elementi  delle  due  lingue  italiana  e  latina,  Venezia (ma  riguarda  più  particolarmente  il  latino).  Libro  di  lettura  e  Introduzione  alla  grammatica  italiana  per  la  classe  II  delle  scuole  Elementari,  Venezia. Franscini  Stef.,  Grammatica  inferiore  della  lingua  italiana,  Milano, per  la  III  classe  elem.  (compilazione  elementare,  ma  intonata  al  la  filosofico). Omezzati  Andr.,  Grammatica  elementare  della  lingua  italiana,  Mantova.  (Nella  prefaz.  cita  la  dotta  grammatica  del  Soave,  e  le  due  del  dottissimo  Bellisomi,    dove  colla  più  profonda  sottil  metafisica    ecc.  è  porto  il  più  grande  aiuto,  anzi  è  arato  tutto  il  campo.  Incomincia  al  solito  col  domandare:  Che  cosa  è  la  grammatica?  Che  cosa  intenderò  per  sillaba?). Alcuni  cenni  di  grammatica  comparata  delle  lingue  italiana  e  latina  ad  uso  della  gioventù  con  Corollari  della  grammatica  di  Tracy,  di  G.  B.  D.,  Padova  (Con  l'esempio  di  alcuni  casi  l'it.  essere  si  costruisce  come  il  lat.  esse,  e  i  casi  vi  sono  tanto  in  it.  che  in  lat.  dimostra  che  si  deve  insegnare  la  grammatica  delle  due  lingue  e  d'altre  lingue  parallelamente  per  eliminare,  anzi  per  non  creare  difficoltà.  Vi  si  cita  il  Tracy,  che  insegna    che  una  lingua  è  migliore  quanto  essa  più  segue  l'ordine  naturale  nella  costruzione  .  Ma  il  Tracy  ci  sta  proprio  a  pigione.  È  notevole,  peraltro,  per  l'indirizzo  che  parrebbe  un  trovato  moderno.  E  già  questo  ha  la  barba  lunga  !).    Elementi  della  lingua  italiana  ad  uso  delle  scuole,  Milano. Fontana  Ant.,  Grammatica pedagogica  elementare  italiana,  Brescia. Il  fanciullo  parli  pure  la  sua  lingua;  e  tu  gli  mostra  quindi  come  il  detto  traducasi  facilmente  in  Italiano;  scrivi  la  traduzione  sulla  tabella;  ed  il  fanciullo  lo  legga  e  lo  rilegga,  e  lo  venga  poi  ripetendo  dopo  che  dalla  tabella  è  cancellato.  Anche  l'esercizio  delle  traduzioni  dialettali  si  vorrebbe  far  passare  oggi  per  una  novità;  mentre  il  Fontana  ha  predecessori perfino  nel  Cinquecento!).  Iaklitsch  Gius.,  prof,  a  Trieste,  Principi  elementari  della  lingua  italiana,  Milano (Distingue la  lingua  in  generale  e  verbale.    Le  vocali  sono  propriamente  l'armonia  della  voce  verbale,  che  al  suono  della  lingua    l'amenità  e  la  soavità  del  canto;  le  consonanti  all'incontro  sono  più  il  carattere  distintivo  delle  idee  per  mezzo  delle  quali  le  parole  acquistano  e  significato e  intelligibilità,  come:  colto,  conto,  corto,  costo,  ove  si  può  dire  che  le  consonanti  /,  //,  r,  s  della  prima  sillaba  sono  propriamente i  segni  caratteristici  del  significato  delle  parole,  e  la  sillaba  è  soltanto  una  sillaba  derivativa,  la  quale    modifica    il   significato   se  Capitolo  quattordicesimo  455    rondo  che  cambia  la  sua  vocale  come  pasta,  pasto    p.  9.  Qui  la  filosofia e  l'etimologia  a  cavallo  del  De  Brosse  galoppano  mirabilmente all'indietro). Visconti  Kr..  Riflessioni  ideologiche  intorno  al  linguaggio  grammaticale  dei  popoli  colti,  Milano, Non  sono  propriamenUuna  grammatica,  ma  contengono  dilucidazioni  su  ogni  categoria  grammaticale,  secondo  le  vedute  delle  grammatiche  filosofiche, delle  quali  l'a.  dichiara  d'essersi  giovato.  Se  non  che  la  grammatica filosofica  mi  par  che  vi  sia  trattata  a  rovescio,  di  mostrandovi  si  non  come  sorgono  le  categorie  grammaticali,  ma  come  si  sciolgono  nelle  loro  varie  accidentalità.  Degli  aggettivi  fa  sei  categorie,  l'ultima  delle  quali    è  come  la  pentola  in  cui  la  locandiera  getta  il  residuo  di  vari  cibi,  per  farne  una  qualche  vivanda  destinata  alle  mense  dell'indomani. Le  precedenti  sono  in  quella  vece  come  il  pollo  fresco,  l'arrosto  ecc.).    Scienza  della  parola  toscana,  p.  I.,  Le  diritte  parole  della  lingua,  Torino. Malvezzi Grammatica nuova  italiana,  Milano. Cogo  Pietro,  Grammatica italiana  popolare,  Padova.   Cora  Gius.,  Nozioni fondamentali  su  tutte  le  parti  del  discorso  ordinate  ad  agevolare  la  intelligenza  delle  prime  scuole  della  sintassi  italiana  e  latina,  Venezia (Sono  373  nozioni.    Lo  studio  logico  deve  incominciare  quel  giorno  stesso  in  cui  il  maestro  comincia  le  sue  lezioni,  e  terminare  l'ultimo  di  dell'insegnamento.  Sappiamo  dai  filosofi  e  sopra  tutti  dal  celeberrimo  ab.  di  Condillac  che  il  perfezionamento  del  linguaggio  e  del  pensiero  devono  proceder  di  egual  passo.  Fezzi  Gius.,  Tentativo  teorico-pratico  per  f  insegnamento  delle  due  lingue  italiana  e  latina.    Guida  all'analisi  ed  alla  pratica  composizione  del  discorso  applicato  alla  lingua  italiana  e  proposta  come  primo  fondamento  dell'arte del  tradurre  e  del  comporre  nelle  classi  di  grammatica,  Cremona Dichiara  che  quest'  operetta  è  un  sunto  de'  sommi  predecessori  Soave,  Romani.  Biagioli,  Ambrosoli  ma.  specialmente,  Bellisomi  e  Fontana,  de'  quali  si  dice  discepolo,  mutati  solamente  l'ordinamento  e  l'esposizione  della  materia  e  unita  la  teoria  alla  pratica. Usa  ancora  la  distinzione  cesarottiana  delle  parole-segni,  e  delle  parole-figure.  Ha  un'appendice  Degli  elementi  spirituali  del  linguaggio).   Mattiello  A.,  Regole  pratiche  per  {sviluppare  ai  giovani  i  primi  rudimenti  dell'  italiana  favella  in  conformità  alla  metodica,  Venezia. (Cogli  alunni  della  I  e  II  ci.  eleni,  applica  la  IV  massima  della  metodica generale,  come  se  si  trattasse  d'insegnar  loro  a  far  delle  aste.  Sai  tu  a  che  servono  le  regole?  Non  signore). Ànti  Giorg.,  Trattato  dialogico  sopra  la  sintassi  italiana,  le  proposizioni  grammaticali  e  la  ortografia  con  alcune  tavole  sinottiche  e  in  fine  un  picco/o  '  dizionario  veronese-italiano  ',  per  comodità  e  utilità  della  studiosa gioventù,  Verona. Cestari  Tom.  Em.,  Grammatica  italiana teorico-pratica  divisa  in  ?  classi  ad  uso  specialmente  delle  scuole  elementari.  Venezia, Dello  stesso:  Primi  eleni,  digr.  ital.-lat.,  Venezia;  Genesi  dell'accordo  fra  il  pensiero  logico  ed  il  linguistico proposto  a  chiave  dello  studio  filologico  comparato,  Venezia).  Brugxoli  Ag.,  Nuovissimo  repertorio  grammaticale,  Verona.  Missio  Bern.,  Metodo  d'iniziare   i  fanciulli    nel  comporre   e   nella quella  del  Cerutti  si  solleva  molto  dalle  altre.  Elaborata  invece con  acume  filosofico  è  una  GRAMMATICA IDEOLOGICA (cf. GRICE – ‘way of things, way of ideas, way of words -- Grammatica  ideologica  uscita senza  nome  d'autore:  e,  per  chiarezza  d'esposizione  e    grammatica  italiana,  Treviso.  C.  V.,  Grammatichetta  italiana  ad  uso  delle  scuole  elementari  intermedie,  Lecco,  Lipella  Car.,  Grammatica  italiana  per  la  j  classe  eleni.,  Verona (Postuma. Vi  si  cita  ancora  il  Soave,  ma  non  sempre  per  difenderlo).    Gusberti  D.,  Grammatica  ragionala  della  lingua  italiana,  Torino. Naturalmente,  in  correlazione  a  questa  diffusa  produzione  grammaticale, non  si  cessò  di  speculare  sul  linguaggio  secondo  il  comune  indirizzo  filosofico-storico.  Si  ebbero:  Rosa  Gabriele,  Vicende  delle  lingue  in  relaziofie  alla  storia  dei  popoli,  Padova,  s.  a. Volpe  Gir.,  Saggio  sulle  cause  delle  vicende  delle  lingue,  Belluno. [Bidone  Em.],  Saggio  sull'analisi  ed  unità  delle  lingue,  Voghera,  ed  altri  siffatti  libri  che  qui  non  importa  elencare.      mancarono,  com'è  del  pari  naturale,  discussioni  circa  il  metodo  dell'insegnamento  grammaticale in  riviste,  opuscoli  (ho  ricordato  la  polemica  Bellisomi-Fantoni),  e  conferenze  (p.  es.  Della  istruzione  elementare  di  grammatica  italiana,  Lettura  ne  IP  Ateneo  di  Treviso,  Treviso):  tutta  una  letteratura  scolastica,  che,  se  può  interessare  lo  storico delle  istituzioni  e  dei  metodi  didattici,  non  aggiunge  nulla  alle  conoscenze  che  si  posson  trarre  direttamente  dalle  grammatiche  per  l'argomento  nostro.   Medesimamente  si  vennero  escogitando  parecchi sistemi  di  lingua  universale  (i  nostri  volapuk  e  esperanto),  nella  illusione  di  poter  ridurre  a  un  unico  schema  valevole  per  tutti  i  popoli le  singole  grammatiche  particolari.  Poiché  tutti  i  popoli  si  ritrovano nella  grammatica  generale  uniformi  nel  concepimento  dell'idee  e  nel  loro  collegamento  logico,  doveva  pure  potersi  formulare  un  unico  sistema  grammaticale  e  ortografico  insieme  che  servisse  a  rappresentare e  a  render  comune  e  praticamente  comunicabile  la  lingua  universale.  Ricorderò:  Matraja  Gio.  Gius.,  Gcnigrafia  italiana,  nuovo  metodo  di  scrivere  questo  idioma,  Lucca.  (Da  genicografia,  'scrittura generale ,  Modo  di  scrivere  generalmente  senza  relazione  agl'idiomi '.  Molti,  ricorda  il  Matraja,  si  affaticarono  per  sciogliere  il  problema di  tale  scrittura,  Cartesio,  Leibnitz,  Wolfio,  Willio,  Kircker,  Delagarne,  Beclero,  Sobbrig,  Lambert,  Demaimieux  e  Richeri;  ma  solo  a  lui,  povero  frate,  la  Divina  Provvidenza  permise  di  farlo.  Tratta  la  grammatica  genigrafica  in  generale,  e  poi  le  parti  dell'orazione  ecc.). Proposta  per  la  rettificazione  dell 'alfabeto  ad  uso  della  lingua  italiana di  N.  N.,  Milano (È  fondata  su  quella  del  Court  de  Gibelin  e  del  Klaproth,  che  prende  a  base  l'alfabeto  romano  portato  a  42  lettere).  Già  prima  di  Matraja,  altri  italiani  avevano  tentato  questo  sistema. Grammatica  filosofica  della  lingua  italiana,  Napoli. Più  interessante  è  forse  la  Vita  di Cerutti  con  ragionamenti  e  digressioni  morali  e  filosofiche  da  lui  scritta  e  pubblicata  lui  vivente,   anche  per  segnare  il  termine  estremo,  dirò  così,  più  importante dello svolgimento della grammatica filosofica, notevole ci sembra il compendio di Corradini. Fondamento della grammatica ideologica, in cui non c'è riuscito riconoscere l'autore, che vi si designa nel proemio un addetto alla teoria e alla pratica della giurisprudenza, è il più schietto sensismo condillachiano che prevalse in Italia, specialmente nell'ambiente scolastico, dove  quella corrente puo circolare con molta facilità. L'autore si mostra assai accalorato pel suo prediletto sistema filosofico, e recisamente avversario alla crtiica. La dipendenza dalla grammatica dall'ideologia e seguendo nell'insegnamento il metodo analitico. Se le cognizioni vengonci tutte da'sensi adoperati nel passato ed attualmente. Se le regole o teorie non sono che brevi sunti delle  osservazioni nate dalla pratica dei fatti e degl’oggetti sensibili, ne consegue chiaro che lo esemplificare, o il far nascere l’osservazioni e le regole da'casi concreti, e dalle circostanze palpabili deve costituire la parte più momentosa dell'insegnamento, la sola e vera salda base del medesimo. Se la sperienza de'fatti fa toccar con mano a chi non ismarrì il tatto, che l’astrazioni e generalità  d'ogni maniera, classi d'individue cose, classi d'ognuna delle loro qualità trovata consimile in parecchi individui, e classi infine di giudizi singolari riuniti a farne un generale, non esistono che negl’oggetti od individui fatti, non sono fuorché estratti d’essi e delle loro relazioni di somiglianze, o differenze, o di causa ad effetto; è dunque pessimo ogni metodo d' insegnare, ch’aggirandosi  perpetuamente nelle copie, trascuri gl’originali siffatti, e'1 cominciar insegnando dall'astrazioni, quali solo tutte le regole e i precetti, con volar sempre sulle loro ali senza mai calare a terra, al sensibile. Il saggio consta di due parti, la prima, che contiene Prelezioni ideologiche indispensabili alla  grammatica, delle facoltà  intellettuali e de'bisogni dell'uomo;  Rapporti, giudizi e teoria dell’astrazioni; le generalità divise in tre sorta di classi, soggettiva o sostantiva, qualitativa, proposizionale, ossia l'esposizione dei principi generali su cui è fondata la grammatica; la seconda, che contiene la grammatica generale, sull’origine della lingua; lingua naturale, d'azione od affettivo; della grande utilità de'segni o vocaboli anche solo pel pensare e ragionare; e delle varie specie  di proposizioni, ossiano giudizj  parlati; del nome, pro-nome, adiettivo (shaggy), articolo e del verbo in genere; delle pre-posizioni e degl’avverbj; delle congiunzioni; del verbo, divisione de'verbi tempi; SINTASSI. La dottrina di questo saggio, sia generale che particolare, sviluppata in un'analisi certamente eccessiva, sovrabbondante pagine sono indubbiamente troppe per spiegare la  genesi delle categorie grammaticali, posa su un sistema assai meno complicato di quel che a bella prima puo sembrare. Senza la pretesa di riassumerla tutta neppur nelle sue linee generali in poche righe, che per tali opere non è possibile né gioverebbe molto, tante sono l’analisi particolari di categorie secondarie, e tanto lunga e spesso noiosa è la via della conclusione, eccola nel suo  principale aspetto. Noi siamo intelligenze servite d’organi, o sieno membri operativi. Colle nostre facoltà o potenze corporee non possiamo distinguere negl’oggetti che qualità, modi o maniere d'essere: ogni sensazione corrisponde a una qualità: gli’oggetti non sono che gruppi o mucchi delle qualità che noi possiamo percepire: sostanza è un nonnulla che sta sotto alla qualità cui serve  di sostegno, fulcro ed appoggio: grammaticalmente sostanza è anche il restante mucchio delle qualità d'un oggetto in opposizione a una o due qualità estratte mentalmente dal mucchio stesso,  cioè per via ed astrazione. Qualità e loro forme mutevoli e astrazioni e i loro rapporti ecco tutta la nostra conoscenza, ossia tutto il nostro modo di sentire, intelletto, e di volere, volontà, mediante  l'attenzione, la riflessione, i giudizi. Ora ogni nostra sensazione ha bisogno per esser circoscritta d’un termine proprio; ma non ci sarebbero vocabolari bastevoli a contener tutti questi termini: quindi la necessità delle classi, i generi, le specie: è tutto un lavoro di generalizzazione e d’individuazione per nominare gl’oggetti delle nostre sensazioni sempre per via d’astrazione: questa è la  naturale figliazione delle nostre idee: anche le pro-posizioni non sono che principj o formole compendiose dell’idee già acquistate dalla esperienza. La grammatica, non che la logica, trova piane le sue leggi  nell'ordine stesso con cui si figliano le idee. Siffatta dipendenza volle Dio ordinare tra l'anima umana nobilissima parte, e la terrena mole, sintantoché vivessimo quaggiù. Il sensismo  che limita le nostre conoscenze alle sole qualità degl’oggetti di cui abbiamo le sensazioni, giunge all'idea di Dio senza alcuna difficoltà!] nostre dal sensibile all'astratto per classificarsi e generalizzarsi. Donde deriva la sua importanza: imperciocché la natura deve necessariamente esordire, e poi l'arte d’essa aiutata proseguire, dirozzare; sicché se l'eloquenza è il cuore che naturalmente parla, l'arte è la ragione che lo rischiara e conduce. La lingua, prodotto naturale della sensività passa naturalmente per tre gradi: gridi o suoni  involontarj; gli stessi usati ad arte o per volontà; lingua composta di suoni distinti ed articolati ne'suoi successivi perfezionamenti. Si passa dall'uno all'altro per Ya?ialogia, magistero della lingua, coi soccorsi dell'onomatopeia. Nella prima naturai  lingua ogni intero pensiero s’espresse con un segno solo, a proposizione intera. È già arte spaccarla in due pezzi, soggetto (Fido) e predicato (shaggy), ed analisi più raffinata ancora il dividere sovente il soggetto in parecchi brani e'1 far lo stesso dell'attributo (shagy). È naturale che la prima pro-posizione intera sia stata un sol cenno di testa, o un 'interiezione. Poi avvenne un continuo  spaccamento di pro-posizioni. Il naturale è il più composto, ed inviluppato. L’artificiale è il più decomposto, analizzato e spezzato. La scienza delle parti del discorso é tutta nell'analisi dello sviluppo del primo grido. In  ou/c'è  io soffoco, o io soffro calore: quando avrò saputo nominar in disparte il soggetto io, il grido  07i f  è ridotto a significar il solo attributo soffoco: così il grido  diventa verbo, sicché il verbo, non escluso il verb' essere, non è che l'attributo della proposizione, cioè una qualità involgente il verb'essere, segno della concrezione della qualità col soggetto. Se ci fossero tante parole proprie quanti sono i soggetti e gl’attributi, non abbisogneremmo che di due specie di parole,  soggetto (Fido) e attributo (is shaggy). Colla parola Paolizzo Paulise puo significar “amo Paolo (Grice)”. “Amo Fido” (Fidoiso). Dalla necessità di determinare il pensiero, o meglio d’individuare l'oggetto che non ha nome proprio (Fido), nacquero tutte l’altre parti del discorso: l'articolo, la  pre-posi- [Tutto in noi riducendosi al ricevere sensazioni, che sono qualità nostre e degl’oggetti, a combinarle, e così al considerar le cose individue come gruppi di  qualità, tra le quali n’estraggiamo mentalmente una per contemplarla in disparte, e quindi ri-congiugnerla, attribuirla, al restante mucchio, lo ch'è pensare o giudicare; è chiaro che ogni nostra manifestazione non contiene mai ch’un giudizio od una serie di pensieri o giudizi.] -zione ecc. Nel dire il frutto del ciliegio posto iti tal luogo piace molto al figlio di Cajo, s'io avessi due parole o  segni proprii ed esclusivi, p. es., A pel soggetto tutto, e B, per l'attributo intero, poiché non s’hanno da comparare che due sole idee, come diverrebbe comodo il dire soltanto A-B. Ma che spaventoso numero di segni ci abbisognerebbe! Qui sorge la teoria dei rapporti grammaticali, il rapporto vero è uno solo, il logico, quello con cui si comparano le due sole idee ch’entrano nella  pro-posizione, colla quale si spiegano, olte le categorie, tutte l’innumerevoli accidentalità grammaticali, ossia le modificazioni delle parole utili a sempre più circoscrivere e individuare i nostri giudizi, pe'quali, al solito, mancano gl’unici termini propri che li significherebbero alla spiccia con somma nostra gioia e comodità. La  pre-posizione e l'avverbio sono riduzioni di qualità accessorie:  le congiunzioni sono le pre-posizioni delle congiunzioni, anch'esse dunque riduzioni d’attributi. Quanto abbiamo fin qui esposto, ci sembra sufficiente a caratterizzare la dottrina di questa grammatica ideologica senz’entrare nelle particolari trattazioni delle singole categorie grammaticali e sintattiche. Quanto sia povera e insufficiente a spiegare il superbo miracolo della lingua, ognun  vede facilmente senza che noi commentiamo di più. Non è nostro scopo far la critica dei sistemi filosofici su cui si costruirono le varie grammatiche: ci basta solo mostrare la relazione di questi con quelli. Ma non possiamo non meravigliarci della simpatia che il sensismo condillachiano ha goduto tra noi per tanto tempo specie come fondamento alle teorie sulla lingua e all’arti del  pensare, del dire, alle grammatiche, che l'ha goduta ancora dopo che Humboldt specula sulla lingua con tanto acume e genialità, n'ha finalmente fissata, pur tra incertezze e confusioni che ne dovevano mantener insoluto il problema, la natura tutta e solamente spirituale nella sua infinita ricchezza. Col sensismo della nostra grammatica ideologica quest'alta funzione del nostro spirito,  anzi la vita stessa del nostro spirito si riduce a un semplice meccanismo, straordinariamente ricco di nomi ma poverissimo di movimenti, che la natura esteriore manda, a suo bene placito, fornito solo di piacere e di dolore, i due grandi custodi del nostro essere. E dire che l'autore, fra i nomi di Condillac, Tracy, Court de Gebelin, Cousin e simili, cita parecchie volte quello di VICO! Il  che conferma quello che osserva l'autore del rapporto del da noi citato, che cioè la dottrina di VICO compresa e accettata in alcune particolari applicazioni rimane oscura nella sua essenza, e conferma ancora una  olta lo strano miscuglio che ne fanno col sensismo i nostri enciclopedisti. Quali utilità all'apprendimento della lingua puo venire da siffatte grammatiche, dove, pure in tanto  analizzare, l'osservazione del lettore non è mai richiamata neppure sulle particolari funzioni logiche dei fatti grammaticali, come invece vedemmo fare egregiamente a Marsais? Col quale si rannoda pella parte teorica, e non per queste felici applicazioni, Corradini, che volle darci, quasi a chiuder la serie non ingloriosamente, un compendio della grammatica generale filosofica. Questo  compendio ha il pregio della chiarezza assoluta, accoppiata colla più scrupolosa coerenza nella più rapida e concisa brevità. Gli autori di cui  CORRADINI dichiara d'essersi giovato sono: Sanctio, Minerva, Burnouf, Methode pour étudier la langue latine, Prompsault, Gramni, rais. d. la langne latine, Régnier, Le jardin de racines latines, Selvaggi, Grammatica generale filosofica, la  grammatica di Porto Reale, Beauzée, Gramm. gén., gl’articoli relativi dell'enciclopedia galla, cioè Marsais, e i suoi successori. Definisce la teoria della grammatica generale la scienza delle forme integrali d'ogni lingua. Ne definisce il carattere, la possibilità, l'oggetto, il fine, l'utilità. Una delle prove della possibilità la deduce dalle traduzioni, che dimostrano un comune procedimento  del pensiero umano, l'uniformità de'nostri pensieri. Gl’elementi son due: il materiale e il rappresentativo: in  mater,  m  r  l, ma, ter, l'accento sull'a, sono il materiale, la Gentile Padova, coi tipi del Seminario. Non dico che questa è assolutamente l'ultima, né che gl’effetti delle grammatiche generali si spegnessero nell'insegnamento. Grammatiche filosofiche si scrivono anche oggi, e noi  nelle scuole facemmo tutti, chi più chi meno, parecchie indigestioni d’analisi logica e grammaticale! [nozione di madre è il rappresentativo. La grammatica generale filosofica s’appoggia bensì alla logica pura, ma è propriamente una parte della logica applicata. La logica applicata considera il pensiero nelle sue condizioni empiriche: la condizione empirica universale del pensiero è la  cognizione; s’ha cognizione d'un  oggetto quando è determinato. La determinazione si compie nelle quattro supreme classi o categorie: quantità, qualità, relazione, e modalità. Il discorso deve dunque soddisfare anche a queste esigenze del pensiero. Esse costituiscono le varie modificazioni dei termini e delle parti del discorso. Esse pure devon esser oggetto d'una grammatica generale  filosofica. Tien conto anche delle condizioni empiriche dell'uomo parlante: lo stato della società, l'affetto e la passione che lo domina, l'impeto istintivo d’uguagliar col discorso la celerità del pensiero, le credenze religiose ecc. In conclusione, nella parola sono da considerare due elementi: il materiale e il rappresentativo. Il primo elemento s’appoggia alla natura dell'organo vocale, il  secondo alla natura del pensiero. L'elemento materiale comprende i suoni vocali e consonanti, l'aggruppamento de'suoni cioè le sillabe e le parole, e le modificazioni derivate da quest’aggruppamento cioè l'accento e la quantità. L'elemento rappresentativo appoggiato alla natura del pensiero deve somministrare i mezzi tanto per esprimere le tre funzioni concetti, giudizio, raziocinio,  quanto per determinare ciascheduna di queste tre nelle quattro categorie di qualità, quantità, relazione, e modalità. I nomi sostantivi ed aggettivi esprimono i concetti, i verbi, i giudizi, la sintassi, le congiunzioni e la costruzione esprimono il raziocinio in quanto consta di più giudizi legati fra loro. I numeri ne'sostantivi e gl’aggettivi d’estensione determinano la quantità, i generi ne'sostantivi, gl’aggettivi di comprensione e gl’avverbi determinano la qualità, le preposizioni o i casi ed i verbi le relazioni, i modi, le modalità. È insomma la logica distillata pel filtro grammaticale: di lingua effettiva qui non si ha più traccia. S'è sistemato tutto lo schemario delle categorie logico-grammaticali, ma il contenuto è caduto pella strada. Da Marsais a CORRADINI, a  traverso interpretazioni varie più o meno elevate, a rimaneggiamenti e riduzioni elementari, la grammatica generale, oltre a perdere, in Italia, tono e carattere filosofico in una elaborazione quasi sempre meschina e grossolana, viene sempre più separando la lingua effettiva dagli schemi grammaticali che s’erano ottenuti studiandolo sia direttamente, sia dal punto di vista esclusivamente  intellettuale, e a questi assegnando valore di formula e di legge, ma privandola d'un oggetto concreto a cui applicarsi. Un processo di degenerazione. La scienza della lingua progrede, ma seguendo altre correnti e battendo altre vie. La crisi della GRAMMATICA RAGIONATA IN ITALIA non puo mancare: ed è veramente risolutiva. Di GRAMMATICA RAGIONATA si finisce, dopo  una colluvie d’aride o elementari produzioni d’epigoni ritardatari, col non parlarne più, e d’essa non restano tracce che nell’esercitazioni scolastiche d’analisi logiche e grammaticali ancora in uso nelle nostre scuole e sulle quali talvolta rispunta come fungo qualche compendio di grammatica logica rivestito di pompa scientifica. La crisi è determinata d’un duplice ordine di fatti, tra i  quali T. non sa se veramente corre un'intima relazione. L’uno che riguarda direttamente il corpo, T. dice così, della GRAMMATICA RAGIONATA, ed è il non difficile né tardivo avvertire in esso un vuoto sostanziale e perciò tutta la sua infecondità sotto ogni rispetto, scientifico e didattico. L’altro che si riferisce allo stato in che venne a trovarsi la lingua d’ITALIA sotto la bufera  dell'enciclopedismo, ed è la naturale quanto però anti-filosofica  reazione al gallicismo, che dove richia[Borsa, nella dissertazione del decadimento della lingua in Italia, Mantova, l'anno in cui è  pubblato il saggio di Cesarotti, già incolpa appunto di quel decadimento il neo-logismo gallico e il FILOSOFISMO enciclopedico.] mare, come facile conseguenza d’una premessa sbagliata,  alla religiosa osservanza, alla maniaca adorazione degl’antichi i puristi inorriditi al novissimo strazio d'Italia. Le vicende di questa crisi si possono molto chiaramente osservare, d’una parte, in quel ch’accadde  a SANCTIS (si veda) scolaro e co-operatore di Puoti, e ch’egli narra non senza il lume d'una critica sempre nuova ed originale ed acuta, anche se, come in questo caso, non  definitivamente superatrice. Dall'altra, nella critica e nella pratica di Manzoni, che con stringenti argomenti colpi a morte LA GRAMMATICA RAGIONATA, sebbene non muove d’un punto di vista estetico. SANCTIS (si veda), quando accorse alla scuola di Puoti, ha già compiuto gli studi di grammatica, rettorica e FILOSOFIA, che oggi corrispondono al ginnasio e al liceo, i primi, il ginnasio, sotto suo zio Carlo SANCTIS (vedasi), i secondi, il liceo, sotto Fazzini, non avendolo voluto ricevere i gesuiti pella sua impreparazione. Un grand 'esercizio di memoria è in quella scuola dello zio, dovendo ficcarci in mente i versetti del Porto Reale che s'impara in certi suoi manoscritti, come l’antichità e la cronologia, la grammatica del svizzero Soave, la rettorica di  FALCONIERI (vedasi), le storie di Goldsmith, la Gerusalemme di Tasso, l’ariette di Metastasio. Alla fine del corso scrive la lingua d’ITALIA con uno stile pomposo e rettorico, un italiano corrente, mezzo gallico, a modo di Beccaria e di Cesarotti,  che sono i suoi favoriti. La scuola di Fazzini è quello che oggi si dice un liceo. Vi  s' insegna FILOSOFIA, fisica e matematica. Il corso  si puo fare in due anni. Quell'è l'età dell'oro del libero insegnamento. Un uomo di qualche dottrina comincia la sua carriera aprendo una  scuola. La scuola di Puoti, su cui è stata scritta una degna monografia d’un discepolo di Salvadori, Caraffa, Puoti e la sua scuola, Girgenti, si svolge in tre periodi, l’ultimo dopo due anni d'interruzione causata dalla pestilenza scoppiata a Napoli. SANCTIS (si veda) Frammento autobiografico pubblicato fo Villari;  Napoli. I seminari sono scuole di LINGUA del LAZIO e di FILOSOFIA, le scuole del governo sono affidate a frati, la forma dell'insegnamento è ancora scolastica. Rettorica e FILOSOFIA sono scritte in quella LINGUA DEL LAZIO convenzionale ch’è proprio degli scolastici. Le scienze vi sono trascurate, e anche  LA LINGUA NAZIONALE. Nondimeno un po’di secolo decimottavo è pur penetrato fra quelle tenebre teologiche, e con curioso innesto, vedevi andare a braccetto il sensismo e lo scolasticismo. Nelle scuole della capitale v'è maggior progresso negli studi. LA LINGUA DEL LAZIO PASSA DI MODA. Si scrive di cose scolastiche in una lingua italiana  scorretta, ma chiara e facile.  Gl’autori sono quasi tutti abati, come GENOVESI (si veda),  il svizzero SOAVE (si veda),  e TROISE (si veda). Allora è in molta voga  FAZZINI (si veda). Questo prete elegante, che ha smesso sottana e collare, veste in abito e cravatta nera, è un  sensista; ma pretende conciliare quelle dottrine coi principii religiosi. Accanto alla scuola, per chi ha voglia d' imparare, c’è naturalmente la biblioteca. Corsi alla  biblioteca e mi ci seppellii. Passano dinanzi a SANCTIS come una fantasmagoria Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet,  Mettrie. SANCTIS si ricorda ancora quella STATUA di Bonnet, che a poco a poco, per mezzo dei sensi acquista tutte le conoscenze. Il professore dice ch’il sensismo è una cosa buona sino a Condillac, ma non bisogna andare sino a   Mettrie ed Elvezio. Ragione per cui ci anda SANCTIS (si veda) coll'amara voluttà della cosa proibita. Compiuti così gli studi filosofici, avvezzo a una vita interiore, ha pochissimo gusto per i fatti  materiali, e bada più alle relazioni tra le cose che alla conoscenza delle cose. La scuola c’ha non piccola parte, perchè è scuola di forme e non di cose, e s’attende più ad imparare le parole e  l’argomentazioni che le cose a cui si riferisceno.  Ma s’avvicina  il [Conosce altri filosofi, naturalmente. Il professore fa una brillante lezione sull'armonia prestabilita di Leibnizio. E questo Leibnizio divenne il filosofo di SANCTIS. E  come l'una cosa tira l'altra, Leibnizio l’è occasione a leggere Cartesio, Spinoza, Malebranche, Pascal, libri divorati tutti e poco digeriti. Questo è il corredo d’erudizione filosofica di SANCITS verso la fine dell'anno scolastico, quando zio ci dice. Ora bisogna cercarvi un maestro di legge. Si batte già alle porte dell'università.] tempo in cui il sensismo, male accordato col movimento religioso, dove cedere il passo ad altra filosofia. S’annunzia al spirito di SANCTIS un altr’orizzonte filosofico; li bolleo in capo altri libri  e altri studi.  S’apparecchiavano i tempi di  Galluppi e Colecchi, de'quali l'uno volgarizza Hume e Smith, e l'altro, ch'è per giunta un matematico, volgarizza Kant. Fazzini è caduto di moda. Per questi insegnamenti e in queste condizioni intellettuali Sanctis, invano iniziati gli studi di legge, passa alla scuola del marchese. È proprio di questi tempi che la grammatica del sensismo di Condillac, che  vedemmo trionfare concentrata in estratti pegli stomachi degl’italiani, si vienne a trovare a fronte di due ben forti e agguerriti avversari, la critica e il purismo. Questo, dalla restaurazione linguistica di CESARI, iniziata colla dissertazione coronata  dall'Accademia di Livorno,  è venuto sempre più guadagnando terreno nelle forme in cui l'ha circoscritto Cesari, nonostante gl’attacchi  della proposta monti-perticariana e dell’anti-purismo tortiano, e nonostante l'esempio pratico del romanzo di MANZONI in cui fin dalla prima sua  edizione s' è voluta incarnare tutt'un'altra dottrina sulla lingua. La reazione al gallicismo è tanto più vasta e tenace della tesi temperata del classicista Monti e del modernismo del romantico Manzoni, quanto più compromessa sembra la  gloria d'Italia nella dilagante corruzione dell'aurea favella un dì sì onorata. Ne furono rocche meno facilmente espugnabili la Romagna e Napoli e organi di gran voce alcuni giornali, come la Biblioteca di Milano, il Giornale arcadico di Roma e la Rivista enciclopedica di Napoli. Ma tra i puristi, non per sola virtù di dottrina, sì bene anche pelle qualità della persona e i modi  dell'insegnamento, il più autorevole, quegli che veramente esercita una più vasta e duratura efficacia sulle menti, sulle scuole, sui metodi, sui  T.,  Della  vita e delle opere di Torti.  L'ha dimostrato Morandi ne'suoi noti saggi sull'unità della lingua.] libri, è il marchese Puoti, maestro, autore di grammatiche e d’arti del dire, annotatore di testi di lingua, pedagogista. Alla scuola di Puoti,  dice SANCTIS (si veda),  lascia studi di legge, e letture di commedie, di tragedie e di romanzi e di poesie, e si gitta perdutamente tra gli scrittori del resorgimento. L’è venuta la frenesia degli studi grammaticali quando la lingua d’Italia non ha pure una grammatica. Sanctis ha spesso tra mano Corticelli, Buonmattei, Cinonio, Salviati, Bartoli, Salvini, Sanzio, e non sa quanti altri dei più  ignorati. S’è gittato anche sul tardo risorgimento, sempre avendo l'occhio alla lingua d’Italia e il suo studio. Si trova in quel tempo a dover sostener sulle proprie spalle il peso della scuola dello zio. La sera anda sempre alla scuola di Puoti. Ma tutta la giornata è spesa a spiegar grammatiche e rettoriche e autori della LINGUA DEL LAZIO, a dettar temi, a correggere errori. Ma quei cari  studi mi riusceno acerbi, non solo pella fatica, ma perche non è più d'accordo colla sua coscienza. Quel svizzero Soave, quel Falconieri li fanno pietà. Nelle classi superiori puo elevarsi un po'più. Comincia a fare osservazioni sopra i sensi delle parole, sul nesso logico dell’idee, sull’espressione del sentimento, sull’INTENZIONI alla Grice e sulle malizie dello scrittore. Momenti più  deliziosi passa alla scuola del marchese, dove egli ben presto si distinge specie nelle cose della grammatica, tanto da meritarsi  l'appellativo di grammatico, ed è sollevato all'onore di co-adiuvare il maestro nell'insegnamento, quando, dopo l'interruzione cagionata dal colera, Puoti, cominciatosi a stancare dei novizi, ne lascia tutta la cura a SANCTIS (si veda). Il marchese che lavora a  una grammatica, attende pure alla pubblicazione d’alcuni testi di lingua più a lui cari, come i Fatti d'Enea, i Fioretti di S. Francesco, le Vite dei Santi Padri. Questi studi [Sulla scuola di Sanctis, v. le belle pagine del cenno biografico di Tamburini in  Sanctis, Scritti vari, ed. Croce. Di quella che è stata chiamata la seconda scuola di SANCTIS (si veda) si sono occupati degnamente Torraca e Mandalari.] di lingua si sono già divulgati nelle scuole, e si sente il bisogno di grammatica e di libri di lettura. Anche in questi lavori l'allievo aiuta il maestro. Di questo tempo fa intima amicizia con Amante, che è un infatuato di VICO (si veda). In una visita onde Leopardi onora la scuola di Puoti, che cita spesso con lodi Greco, autore d’una grammatica, il marchese di  Montrone, Gargallo, Cesari e sopra tutti essi Giordani, si sente dire dal poeta  che ha molta disposizione alla critica. In quell'occasione Leopardi, cui non puo sfuggire la rigidezza di Puoti, dice che nelle cose della lingua si vuole andare molto a rilento, e cita in prova Torto e Diritto di Bartoli. Leopardi dice anche che l'onde coli' infinito non gli pare un peccato mortale, a gran maraviglia  o scandalo di tutti. Il marchese è affermativo, imperatorio, non patisce contraddizioni. S’alcuno s’è arrischiato a dir cosa simile, anda in tempesta; ma il conte parla così dolce e modesto, ch'egli non dice verbo. Gl’è anche che ormai quel rigido, implacabile purismo comincia a dover piegare o almeno ad ammollirsi. Alla ripresa della scuola dopo il colera il marchese se n'è venuto  d’Arienzo, con certi grossi quaderni scritti di suo pugno. È una specie di rettorica immaginata da lui, e che egli battezza arte del dire. C'è una divisione dei generi del dire, accompagnata da regole e da precetti. Aristotile, CICERONE (si veda),  Quintiliano, Seneca sono la decorazione. O mi metteranno alla berlina, o questo è assolutamente un capolavoro, così dice, narrando per quali  vie è giunto alla grande scoperta. A quel tempo sono in gran voga gli STUDI FILOSOFICI, e il marchese, seguendo la moda, vuole filosofare anche lui, e da alle sue ricerche un aspetto e un rigore di logica, ch'è veste e non sostanza. E non gli è mancata la berlina. Ma lo salva un certo suo naturai buon senso. Ma chi dai bassi fondi  [deep berths – Grice] della grammatica prende il volo  filosofico, è SANCTIS (si veda), specie quando, trovandosi al sicuro dallo sguardo del marchese nella scuola preparatoria, puo lasciarsi trascinar dal suo genio a quell'onda di ribellione, che fa naufragare il senno del maestro. Ed è nella scuola preparatoria, che nelle lezioni private o nell'insegnamento del ollegio militare, al quale è assunto pella stima che gode presso Puoti, che n'è ispettore, il maestro intende soprattutto a rinnovare l'insegnamento grammaticale. N’uscirono, colla liquidazione della  GRAMMATICA RAGIONATA, un abbozzo di GRAMMATICA FILOSOFICA e storica e un saggio d’una storia dei grammatici. Quelle maledette regole grammaticali SANCTIS  le riduce in poche, moltiplicando l’applicazioni e gl’esempi, e sempre lì sulla lavagna. Si persuade che quello resta chiaro e saldo nella memoria, che è ordinato sotto categorie e schemi, logicamente. Così nasceno i suoi quadri grammaticali. Si sbriga della  grammatica, e capii che lo studio della grammatica così come si suol fare, per regole, per eccezioni e per casi singoli, è una bestialità piena di fastidio Posi da banda l’analisi grammaticali e  l'analisi logica, noiosissime,  e fa l'analisi delle cose, a loro gustosissime. Questo al collegio. Nella scuola al vico Bisi, il lunedì e il venerdì, quand'è solo, l'insegnamento grammaticale s’eleva ancora di più. Parecchi anni è a  leggicchiar grammatiche, lavorando intorno a quella di Puoti. Così si mette in corpo i dialoghi della volgar lingua di BEMPO (si veda). S’inghiottii VARCHI (si veda), FORTUNIO (si veda) e  i sottili avvertimenti di SALVIATI (si veda)  e la prosa dottorale di CASTELVETRO (si veda) e  BARTOLI (si veda) e CINONIO (si veda) ed AMENTA (si veda) e SANZIO (si veda) e non sa quanti altri, con approvazione di Puoti, il quale li vanta sopra tutti gl’altri Corticelli e Buonmattei. Seccatosi presto della parte  riguardante l’origini della  lingua e delle forme grammaticali,  perchè non ha, fondamento sodo, infastidito di quel pullular perpetuo di regole e d’eccezioni, stordito da tutte quelle DISSERTAZIONE SOTTILI E CAVILLOSE SULLE PARTI DEL DISCORSO e sulle forme grammaticali, ritorna ai suoi studi di FILOSOFIA. Quei Salviati e quei Castelvetri le pareno addirittura pigmei dirimpetto a quei grandi, la sua delizia un giorno e il suo amore.  Perciò si getta con avidità sopra i retori e i grammatici con un segreto che li cresce l'appetito, vedendosi sempre addosso gl’occhi del marchese. Lessi tutto il corso che Condillac compila a uso di non sa qual principe ereditario. Studia molto Tracy e Marsais. Il marchese, sapido dei suoi studi li perdona, a patto che non valica i confini della grammatica, e l'indica un tale, che SANCTIS (si veda) non ricorda, come un buon scrittore di grammatica generale. Il buon marchese fa anche di più. Ri-vide le prolusioni del professore mettendoci quello stampo tutto suo di classicità ideale. Le prime lezioni sono una storia della letteratura in Italia, o grammatica. In quei discorsi prende 1’aria d’un novatore, e trova che tutto va male, che tutto è a rifare. Ecco qui un ritratto, come  li venne in quei giorni sotto la penna. Niuna pratica dell'arte del dire; niuna cognizione de'nobili scrittori; malvagio gusto; pensieri non italiani; un predicar continuo purità, correzione; esempli contrari di barbarismi ed errori. Così la grammatica ricca di stranieri trovati splendidi in astratto, ma nella pratica o falsi o di poco profitto, per difetto della parte storica molto è discapitata di  quella perfezione in che è. In malvagio stato trovasi LA SINTASSI: squallida e incerta è l'ortografia; le regole del ben pronunziare dubbiose e mal  ferme. Niente di certo. Niente di determinato intorno alla dipendenza de’tempi, al reggimento delle congiunzioni. Principii opposti. Opinioni contrarie. Nelle lezioni vuole fare una storia delle forme grammaticali – cf. Grice, ‘or’, ‘other, ‘not, ‘ne aught’. Ma al pensiero gigantesco mal risponde la cultura, attesa la sua scarsa grecità e  l'ignoranza delle cose orientali. Perciò quella ideata storia delle forme grammaticali, dopo vani tentativi appresso a VICO (si veda) e Schlegel, si riduce nei modesti confini d’una storia dei grammatici da se letti. Parla dei grammatici che TUTTO DERIVANO DALLA LINGUA DEL LAZIO. Poi venni a quelli che sono studiosi della [Alcuni brani d’essi sono pubblicati ne’saggi critici, col titolo Frammenti  discuoia, dell'edizione di Napoli. Il periodo tra parentesi quadre, che qui è sostituito dai  puntini, l'ho tratto d’un brano integro de'saggi  critici.] lingua, copiosi di regole e d’esempli, che moltiplicano in infinito. Molto s’intrattenni su Corticelli,  Buonmattei,  Salviati e Bartoli. Censura quel moltiplicare infinito di casi  -- cf. Grice, the search for principle of generality -- e di regole che si riduceno in pochi principii. Quella tanta varietà di forme e di significati, massime in Cinonio, ch’è facile ri-condurre ad unità. Fa ridere, pigliando ad esempio  Va, il  per-, il da, irti di sensi e che pur non hanno che UN SENSO SOLO. La sua attenzione  anda  dalle forme al contenuto, dalle parole all’idee; sicché, sotto a quell’apparenze grammaticali, variabili e contraddittorie,  vede una logica animata, e tutto mette a posto, in tutto discerne il regolare e IL RAGIONEVOLE – Grice, principle of rational discourse --,  non ammettendo eccezioni e non ripieni e non casi arbitrari. Con questa tendenza filosofica, razionalistica, corroborata da  studi, concipisce pel di delle feste il risorgimento, e fa lucere innanzi uno schema di grammatica filosofica e metodica, quale appare ne’galli. Dice che costoro sono eccellenti nell'analisi delle forme grammaticali, risalendo alle forme semplici e primitive. Così amo vuol  dire io sono amante. L’ellissi è  posta da loro come base di tutte le forme d’una grammatica generale. Questo non  li contenta che a mezzo. Sostene che quella de-composizione di amo in sono amante l'incadavere la parola, le sottrae tutto quel moto che viene dalla volontà in atto. Si sente quei giudizi acuti con raccoglimento, e si credeva in tutta buona fede quell'uno che dove oscurare i galli e IRRADIARE L’ITALIA di un’altra scienza. E in verità sostene che la grammatica non è solo un'arte, ma  ch'è  principalmente una scienza: è e  dove essere. Questa scienza della grammatica, malgrado le tante grammatiche ragionate e filosofiche, è per SANCTIS ancora un di là da venire. Quel ragionato appiccicato alle grammatiche è una protesta contro la pedanteria, e vuole dire che non basta dare le regole ma che di ciascuna regola bisogna dare i  motivi e le ragioni. Paragona i grammatici  o  accozzatori di regole agl’articolisti che credeno di sapere il codice perchè si ficcano in capo gl’articoli, parola per parola, e numero per numero. Ma quel ragionare la grammatica non è ancora la scienza. Così Sanctis, erudito primamente su  Soave in un'atmosfera filosofica, passato poi pel purismo di Puoti, ritornato alla scienza, viene a una generale liquidazione di tutti i grammatici,  cioè della grammatica ragionata in ispecie, e della grammatica precettiva in genere, ma non della grammatica come scienza. Che nella sua critica negativa supera la grammatica ragionata e crea veramente la scienza non si può dire: interamente non s’appaga dei migliori grammatici filosofici, come Marsais; ma egli, almeno nel periodo del suo insegnamento, secondo quanto narra lui  stesso, rimane sempre sotto la loro influenza. Anche nella parte pratica, nel metodo, egli arieggia molto davvicino Marsais, superandolo nell’abilità di trasformar la grammatica in critica concreta dell'opera d'arte. La sua concezione della grammatica, o meglio della lingua d’ITALIA, pur avendo egli concepito una grammatica scientifica o estetica, è la medesima. Va però subito detto a  lode di Sanctis che egli stesso ha coscienza della  manchevolezza del sistema. Racconta infatti: così trovavo nella logica il fondamento scientifico della grammatica; e finché si tiene nei termini generalissimi d’una grammatica unica, come la concipe Leibnitz, il suo favorito, la sua corsa anda bene. Ma li casca l'asino, quando viene alle differenze tra le grammatiche, spesso in urto colla  logica, e originate d’una storia naturale o sociale, piena di varietà e poco riducibile a principi fissi. Per trovare in quella storia la scienza, si richiede altra cultura e altra preparazione. Nella sua ricerca dell'assoluto, vuole ridurre tutto a fil di logica, e concordare insieme derivazioni, scrittori e il popolo d’ITALIA;  ma, non potendo sopprimere le differenze e guastare la storia, pone 1'ingegno a dimostrare la conformità del fatto grammaticale colla logica, della storia colla scienza. Quell'avvertita irrudicibilità delle differenze tra le varie grammatiche e principi fissi dimostra chiaramente che SANCTIS (si veda) intuisce dov'è la soluzione del problema: e a lui non filosofo di professione ciò non è scarso titolo d'onore; il dissidio egli lo compone, e in grado eccellente,   insuperato, nella critica, nella quale la parola viva, la grammatica parlata dall'arte, è da lui illustrata in tutta la sua forza espressiva: scientificamente tocca il risolverlo a Humboldt, col quale e col suo seguace e correttore Steinthal si può veramente affermare che la grammatica è esclusa dall'orbita della filosofìa, sebbene non avvene ancora l' identificazione della teoria della lingua  generale coll'estetica, che è stata fatta solo recentemente. Nelle difficoltà in cui si dibate Sanctis di conciliare la grammatica generale colle grammatiche particolari della lingua d’ITALIA, si trovarono impigliati quanti, anche per impulso della Critica della ragione pura di Kant, intendeno alla ricerca delle relazioni fra pensiero e parola, fra l’unicità  logica e la molteplicità  delle lingue   (l)j  ricerca che, per altro, non è nuova, ma che già da origine nella Gallia alla grammatica  generale. Il primo tentativo d’applicare le categorie kantiane, dell'intuizione, spazio e tempo, e dell'intelletto alla lingua, riassumo, non potendolo qui integralmente riferire, dal paragrafo della parte storica dell’estetica di  Croce, è compiuto da Roth, mentre sullo stesso argomento speculano  Vater,  Bernhardi, Reinbeck, e Koch: pensiero dominante de'quali è la differenza  tra lingua e lingue, tra la lingua universale, corrispondente alla logica, e le lingue storiche ed effettive, che son turbate dal sentimento, dalla fantasia, o come altro si chiami l'elemento psicologico della differenziazione. Si distingue una teoria generale della lingua d’una teoria comparata, Vater. La lingua, allegoria dell'intelletto, si considera organo della poesia o organo della scienza, Bernhardi; s’ammette una grammatica estetica e una grammatica logica, Reinbeck; si proclama persino che l' indole della lingua si deve desumere dalla PSICOLOGIA RAZIONALE, non dalla logica, Koch. Residui intellettualistici s'avvertono ancora in Humboldt pel quale logica e lingua sembrano identificarsi  sostanzialmente e  diversificare  solo STORICAMENTE – l’arguzie della ragione conversazionale -- , e la lingua stesso Croce,  Estetica. Piazza tenta dimostrare che la teoria di Kant del giudizio è stata già intuita e fissata nella sintassi de’romani; ma è stato confutato da Croce, in La Critica. pare un qualcosa fuori dell'uomo che l'uomo fa rivivere coll'uso. Ma il grande filosofo trova il  vero concetto della lingua. La  lingua, egli  pensa, nella sua realtà è un prodursi e un divenire, non un prodotto; è un'attività, èvegyeia, non un'opera, ègyov. La lingua propria consiste nell'atto stesso del produrla nel discorso legato. Questo soltanto bisogna pensare come primo e vero nelle ricerche che vogliono penetrare l'essenza vivente della lingua. Lo spezzettamento in parole e  regole è il morto artificio dell'analisi scientifica. La lingua nasce spontaneo d’un bisogno interno. Esiste perciò ed ecco la vera scoperta di Humboldt di fronte ai grammatici logici universali  una forma interna della lingua, innere Sprachform, che non è il concetto logico, né il suono fisico, ma la veduta soggettiva ed INTENZIONALE che l’uomo si fa delle cose. Questa forma interna    è il principio di diversità proprio della lingua, oltre il suono fisico: è l'opera della  fantasia e del sentimento, è l'individualizzazione del concetto. Congiunger la forma interna del linguaggio col suono fisico è l'opera d’una sintesi interna: e qui, più che in altro, la lingua ricorda, nelle più profonde ed inesplicabili parti del suo procedere, l'arte. Anche lo scultore e il pittore sposano l'idea  alla materia, e anche la loro opera si giudica secondo che quest'unione, quest'intima compenetrazione sia opera del genio vero, o che l'idea separata sia stata penosamente e stentamente trascritta nella materia collo scalpello e col pennello. Ma lingua ed arte in Humboldt non s'identificano: e questo è il difetto della sua dottrina, che tira seco non tenui contraddizioni, come quella circa il  carattere differenziale della poesia e della prosa. Humboldt non vide esattamente che la lingua è sempre poesia e che la prosa, o scienza, non è distinzione di forma estetica, ma di contenuto, sebbene intorno a questi due concetti, compresi in senso filosofico, manifesta profonde vedute. La teoria della lingua d’Humboldt è integrata dal suo maggior seguace, Steinthal il quale, nella  polemica sostenuta  (M  Ueb.  d. Verschiendenheit d. menschl.  Sprachbaucs), opera, 2M  ed. a cura di Pott,  Berlino, in  Croce. Croce. Croce. coll'hegeliano Becker,  autore  degl’ORGANISMI della lingua, uno degl’ultimi logici della grammatica, dimostra, pur tr’affermazioni talvolta eccessive, che concetto e parola, giudizio logico e proposizione sono incomparabili. La proposizione  non è il giudizio, ma è la rappresentazione, Darstellung, d’un giudizio: e non tutte le proposizioni rappresentano giudizi logici. Parecchi giudizi possono esprimersi in una proposizione unica. Le divisioni logiche dei giudizi, i rapporti dai concetti 1 non  hanno  orrispondenza nella divisione grammaticale delle proposizioni. Parlar d’una forma logica della proposizione è una contraddizione  non minore che se si parlasse àttW angolo d’un cerchio o della periferìa d’un  tria?igolo. Chi parla, in quanto parla, non ha pensieri, ma lingua! Senza entrar ora nel merito degl’altri problemi trattati da Steinthal, come quello circa l'identità dell’origine e della natura della lingua che esattamente risolve, e l'altro delle relazioni tra poetica, rettorica e teoria della lingua, cioè tra lingua e  arte ch’interessa propriamente l'estetica, e che purtroppo Steinthal lascia insoluto, perchè non arriva mai ad affermare che PARLARE è PARLARE BENE – sententia come concetto orientato al valore -- e bellamente, o non è punto parlare, a noi basta l'osservar, qui, conchiudendo, il nostro discorso che con Humboldt e Steinthal, in quanto l'uno integra l'altro e lo rende coerente nella  parte linguistica, s’ha un notevole superamento della grammatica, non essendo questa soluzione pregiudicata  dalla  mancata  identificazione d’arte e lingua: la liberazione della lingua dalla logica, la riconosciuta completa autonomia della lingua da categorie di qualsiasi altra specie che non siano la sua forma interna essenziale, rappresentano una vittoria della critica negativa della  grammatica. La dissoluzione della quale viene così a coincidere perfettamente coll'avvento della scienza. La ribellione  e la reazione alla GRAMMATICA RAGIONATA quale s’è venuta sistemando in Italia, se non assunsero dovunque quel grado e quel tono che hanno in SANCTIS (si veda), seguirono, [Croce] però, su per giù, il medesimo sviluppo e i medesimi motivi: d’una parte  riusce difficile specie a letterati di più largo ingegno, come vedremo accadere, p. es.,  a Giordani  (Puoti stesso concede a Sanctis uno studio discreto di quella  grammatica), il chiuder gl’occhi a quell’ELEVATE E SCINTILLANTI (alla Grice) INVESTIGAZIONI logiche che sulle lingue avevan condotto i galli, incomparabilmente più geniali e profondi dei loro epigoni italiani. L’aria  è impregnata di logicismo, tutto suona FILOSOFIA, il secolo è chiamato dei lumi: chi può sottrarsi alla forza delle cose e del tempo? dall'altra, la vacuità di quel formalismo pel fine pedagogico che ora s'impone, non richiede tanto un troppo ELEVATO SPIRITO FILOSOFICO per essere avvertita, quanto il fatto stesso dell'esperienza dello studio della lingua. Si puo credere, ancora,  nella grammatica generale, raccomandarne l'utilità, e come si puo fare anco per ispirito d' imitazione e per servilismo verso la moda corrente, non occorre dire; ma, già, anche  a  tacer  d'altro,  con  la  grammatica  generale  eravamo  già  fuori  del  campo  de’bisogni  pratici. La  grammatica  generale  è  come  un'estetica  logica  della  lingua,  quindi  FILOSOFIA,  e  noi  sappiamo  che  la  scienza  non  è  espediente  didattico,  mentre  il  motivo  principale  dell'interesse  linguistico è  ora  in  Italia  più  pratico  che  teorico.  L'assoluta  inefficacia  inoltre  della  GRAMMATICA  logica  a  dirigere  l'apprendimento  della  lingua  e  l'esercizio  dello  scrivere  dove  essere  tanto  più  fortemente sentita,  quanto  più  dilaga  il  gallicismo  nella  lingua  e  nello  stile:  il  ritorno  alla  vecchia  pratica  grammaticale  e  all' osservazione  dei  lodati  scrittori,  dove apparire  come  una  urgente  necessità;  e  vi  si  ritorna  infatti  con  fede  rinnovellata  e  sotto  la  bandiera  del  più  rigoroso  purismo  inalberata  dal Bembo  dell'Ottocento, Cesari,  coronato  alfiere  dall'Accademia  livornese,  qual  s'è mostrato  degno  d'essere  con  la  nota  Dissertazione sopra  lo  stato  della  lingua}; e,  in  ogni  modo,  con  o  contro  Cesari per  gli  scrittori  o  pel  popolo,  la  pratica  dove prevalere  sulla  teoria  astratta;  perfin  nella  grammatica  em- [In  Opuscoli  linguistici  e  letterari  di Cesari,  raccolti,  ordinati  e  illustra/i  ora  la  prima  rolla  da  Guidetti,  Reggio  d'Emilia,  Collezione  storico-letteraria  presso  il  compilatore.] pirica,   normativa,  tradizionale,  presso  non  gli  scapigliati  ma    i  pedanti,  la  vecchia  fede  se  non  scossa,  certo  fu  illanguidita.   La  tradizione  puristica,  peraltro,  non  era  stata  interrotta  nella  seconda  metà  del  Settecento,  neppur  quando  più  imperversò  la  bufera  del  filosofismo  francese.  Già  prima  che  il  rappresentante più  autorevole  di  esso  in  Italia,  il  Cesarotti,  fosse  stato,  appunto  in  nome  della  vecchia  grammatica,  contraddetto    ricordammo già,  tra  gli  altri,  Velo    con  uno  stile  forbito  e  piccante,  come  dicono  i  suoi  editori,  si  sforza  Rosasco    di  rivendicare  ai  Fiorentini  il  tanto  contrastato  primato  intorno  all'origine  ed  al  governo  della  favella  ,  introducendo  nei  suoi  Dialoghi  sette  della  Lingua  toscana a  pontificare  il  Corticelli  su  lesecolari  questioni,  sull'autorità dei  grammatici,  sulla  necessità  imprescindibile  dello  studio  della  grammatica,  di  contrastare  al  nuovo  sistema  de'  letterati  propugnanti  l'uso  d'un'altra  lingua  diversa  dalla  fiorentina,  con  tutto  il  bagaglio  de'  vecchi  argomenti  grammaticali  e  rettorici  in  favore  della  purità,  della  armonia  e  dolcezza  della  pronunzia  fiorentina,  dell'elegante  stile,  e  con  le  vecchissime  distinzioni  di  discorso  impensato  e  di  discorso  pensato.    Eh  via,  la  legge  che  ne  obbliga  a  studiare  la  grammatica,  è  giustissima,  e  chiunque brama  riportar  gloria  dal  materiale  della  scrittura,  dovrà  o  bere  o  affogare,  siesi  chi  egli  si  vuole  .  E  cita  in  sostegno  il  Salviati,  Quintiliano  e  altri  .  Va  notato  peraltro  che  il  Rosasco  non  solo  propugna  la  necessità  di  uniformarsi  anche  all'uso  moderno,  ma  giudica  ancora,  sebbene  coi  soliti  argomenti  estrinseci, che    non  dobbiamo  per  conto  alcuno  desiderare  la  perfezione delle  grammatiche,  si  perchè  non  si  può  questo  desiderio  avere,  senza  desiderare  insieme  la  estinzione  della  lingua;    perchè  quando  siamo  obbligati  a  scriver  solo  secondo  le  regole  e'  precetti  dell'arte  prescritti,  non  è  mai  possibile  rendere  le  nostre  scritture  eccellenti  :  residui,  come  ognun  vede,  delle  dottrine  estetiche  prevalenti  nel  senso  che  volevano  conciliare  il  rigore  grammaticale  col  criterio  della  libertà  individuale:  temperato purismo,  che,   mentre  per  un  lato  moveva  dall'antica  traEd.  della  Bibl.  scelta,  Milano,  Silvestri]   dizione  grammaticale  del  classicismo,  per  l'altro  era  reso  possibile dal  non  essersi  ancora  la  lingua  italiana  inoltrata  pel  declivio della  cosiddetta  corruzione  francesistica.   Quando  questa  si  accentuò  maggiormente,  era  naturale  che  l'iniziativa  del  riparo  partisse  dalla  Crusca  custode  gelosa  del  patrimonio  linguistico:  e  già  il  ricordato  Borsa  protesta contro  il  decadimento  della  lingua,  e  da  Losanna  un  suo  Accademico, Haupt,  scrive la  Lettera  dun  tedesco  stili' infranciosamento  dello  stile,  com'è  naturale  che  la  rifioritura  linguistica  fosse  più  di  vocabolario  che  di  grammatica ;  lo  stesso  lavorìo  grammaticale,  il  più  notevole  dei  primordi  del  secolo  XIX,  s'aggirò,  come  vedemmo,  intorno  a  quella  parte  della  grammatica  che  è  più  intimamente  connessa  col  vocabolario, i  verbi,  di  cui  sorsero  parecchi  prospetti  e  teoriche.  E  a  studi  di  lingua,  ossia  di  vocabolario,  si  era  volto  nel  1806  l'Istituto  lombardo,  fondato  dal  Bonaparte  nel  1797  e  convocato  a  Bologna  nel  1803,  di  cui  era  segretario  quel  Luigi  Muzzi  che  già  incontrammo  quale  autore  del  curioso  libro  sulle  Permutazioni  dell'  italiana  orazione,  e  che,  dopo  essersi  divertito  e  gingillato  intorno  a  problemi  filosofici  secondo  la  moda  d'allora  pe'  quali  non  era  affatto  portato,  si  immerse  talmente  negli  studi  grammaticali e  lessicali  e  con  si  vero  spirito  di  devozione  alla  Crusca,  che  il  Monti  doveva  titolarlo  più  tardi    il  più  fatuo  pedantuzzo  che  mai  facesse  imbratti  d'inchiostro.  Partecipò  nel  1809  al  concorso  dell'Accademia  livornese  con  un  lavoro  Dello  siato  e  del  bisogno  di  nostra  lingua,  ma  il  manoscritto,  per  ragioni  regolamentari,   non  fu   accettato.   Come  sappiamo,  di  quel  concorso  il  trionfatore  fu  Antonio  Cesari,  odiatore  quanto  Giordani,  delle  dottrine  di  Cesarotti,  che,  se  avevano  ancora  seguaci  dal  Romani  al  Nardo,  andavano  però  perdendo  terreno  sempre  più:  quegli  stessi  che  le  propugnavano   si  avverta  inoltre    erano  assai  più  temperati  del  maestro  e  si  guardarono  meglio  di  lui  dall'esser  accusati  di  gallofilia :  verso  l' italianità  era  un  desiderio  e  un  moto  generale,  cui  favoriva  la  ridesta  coscienza  nazionale:  cesariani  e  perticariani  o  mondani,  neopuristi  della  prima  maniera  (cioè  anteriore) e  della  seconda,    tutti    concordavano    non    solamente    nel In  Mazzoni,  L'Otl.] l'avversare  i  criteri  troppo  licenziosi  de'  cesarottiani,  ma  ne!  volere    auspice  la  Crusca  per  la  quinta  volta  rimessosi  nel  1813  alla  ricompilazione  del  Vocabolario    che  alle  sottili  fantasticherie sulle  ragioni  delle  lingue  si  sostituisse  il  lavoro  concreto  e  modesto  del  raccogliere  e  del  vagliare  voci  e  locuzioni  del  buon  uso  e  a  riprendere  l'osservazione  grammaticale  secondo  le  migliori  tradizioni  del  Cinquecento.  Balbo scrive al  Vidua  una  lettera  sulla  lingua  italiana  per  muover  lamenti  intorno  le  tante  esagerazioni  e  confusioni  pratiche  e  teoriche  del  filosofismo  che  non  giovavano  punto  alla  causa  della  lingua:  e  il  Vidua  raccomandava a  un  compatriotta  che,  andando a  Firenze  come  avevan  fatto  già  l'Alfieri  e  il  Goldoni,  e  avrebbe  fatto  il  Manzoni  e  avrebbero  consigliato  al  Cavour,  non  trascurasse  di  recarsi  la  mattina  in  Mercato  Vecchio  ad  ascoltar  il  pizzicagnolo  e  le  contadine.  E  alla  Crusca  stendeva  la  mano  l'Istituto  lombardo  per  proseguire  concordi  all'opera  d'ampliamento del  Vocabolario:    le  ripulse  dell'Accademia  orgogliosa  e  gelosa  delle  sue  secolari  tradizioni    i  risentimenti  e  le  irritazioni, causa  di  tante  guerre  anche  personali,  che  esse  provocarono nel  Monti,  poterono  mai  dividere  gli  animi  concordi  nella  comune  avversione  al  logicismo,  alle  metafisicherie  di  provenienza  franco-cesarottiana,  nonostante  che,  per  quanto  riguarda  i  criteri  particolari  dell'uso  linguistico  italiano  (pratica,  dunque,  non  scienza),  facilmente  potessero  incontrarsi  col  Cesarotti  in  un  vivo  desiderio  di  libertà,  e  spesso  inconsciamente  (come  sarà  avvenuto al  Leopardi),  non  soltanto  gli  antipuristi  come  il  cesarottiano  Torti  di  Bevagna,  ma  letterati  meno  bollenti  nella  secolare battaglia.   N'è  prova  l'atteggiamento  assunto  dal  capo  riconosciuto  de'  classicisti,  il  Giordani,  nelle  contese  tra  il  Cesari, Monti  e  Perticari:    richiesto  del  vero  valore  di  alcune  voci  tolte  dal  greco,  rispose  [al  Monti]  e  colse  quell'occasione  per  lodare  l'opera  e  il  suocero  e  il  genero,  ma  anche  per  addimostrare  alcune sviste  di  essi  due  correttori  degli  altri,  e  per  augurare  che  gli  avversari  si  riconoscessero  invece  compagni,  come  quelli  che  insomma  avevan  un  fine  medesimo  e  uno  stesso  desiderio. Cfr.  F.  Colagrosso,  La  teoria  leopardiana  della  lingua,  Napoli, 1905  (Estr.  d.  Rend.  Accad.  Arch.  Lett.  e  B.  A.  in  Napoli,  XIX) Mazzoni. Pure,  il  Giordani  è  appunto  uno  di  quei  puristi  che  raccomandavano ai  giovanetti  il  Du  Marsais  e  il  Beauzée.    I  volumi  della  Enciclopedia  Metodica  ne'  quali  è  trattata  la  grammatica  e  l' eloquenza  ti  possono  essere  utili.  Gli  articoli  rettorici  di  Marmontel  non  mi  paiono  più  che  mediocri;  quelli  di  Jancourt  assai  meno  che  mediocri.  Ma  bellissimi  i  grammatici  di  Du  Marsais,  e  di  La-Beauzée.  E  il  conoscere  e  adoperare  filosoficamente la  lingua  è  gran  virtù  di  eccellente  scrittore.  E  prontamente si  applica  alla  nostra  quel  che  è  notato  della  francese  (1).  Ma  che  cosa  significa  adoperare  filosoficamente  mia  lingua  ?  specie  quando  la  si  consideri,  come  fa  il  Giordani,  cosa  diversa  dallo  stile?  Interrompi,  consiglia,  con  la  lettura  di  quegli  articoli,   lo  studio  che  devi  far  della  lingua,  e  preparati  a  quello  che  poi  farai  dello  stile.  Perchè  io  giudico  che  quello  della  lingua  debba  precedere.  Non  si  dee  prima  sapere  qual  sia  la  materia  de'  colori;  poi  imparare  ad  impastarli  e  mescolarli;  poi  esercitarsi  a  collocarli,  e  accordarli  ?    (io).    Tutto  lo  scrivere  sta  nella  lingua  e  nello  stile;  due  cose  diversissime  egualmente  necessarie....  I  vocaboli  e  le  frasi  sono  i  colori  di  questa  pittura;  lo  stile  è  il  colorito.    Ora  persuaditi,  caro  Eugenio,  che  l'acquisto de'  colori  sia  fatica  della  memoria:  l'uso  del  colorito  sia  esercizio  d'ingegno,  disciplina  di  buoni  esempi,  di  pochi  precetti, di  moltissima  osservazione,  di  molta  pratica. Ho  letto  molti  antichi  e  moderni  che  vollero  esser  maestri:  ho  perduto  tempo  e  acquistato  noia,  senza  profitto.  Veri  maestri  ho  trovato  gli  esempi  de'  grandi  scrittori.  Tra  i  moderni consiglia,  tuttavia    il  breve  trattato  del  Condillac,  Art  d'écrire.  Di  tutto  quel  libro  abbastanza  buono,  m'  è  rimasto  in  mente  questo  solo  principio,  molto  raccomandato  da  lui  =  de  la  plus  grande  liaison  des  idées Vero  è  che  quel  legame  delle  idee  non  deve  esser  sempre  logico;  ma  secondo  la  materia  che  si  tratta,  dev'esser  pittorico  o  affettuoso;  di  che  i  moderni  intendon  pochissimo:  gli  antichi  vi  furono  meravigliosi.  In  questo  guazzabuglio  di  vedute,  d'idee  e  di  principi, c'è  tutto,  meno  lo  spirito  filosofico:  dal  che  si  vede  quanto  A  un  italiano  Istruzione  per  l'arte  di  scrivere,  in  Scritti  di  Giordani,  ed.  Chiarini,  in  Firenze.] poco  fosse  compresa  e  con  quanto  poca  convinzione  raccomandata la  grammatica  generale  del  Du  Marsais  e  del  Beauzée.  Il  nume  che  agitava  interiormente  il  Giordani  e  i  degni  suoi  compagni d'arme  non  era  la  filosofia,  ma  lo  spirito  italiano  che  si  rinnovava,  rinnovamento  che  alla  coscienza  di  molti  si  presentava come  un  problema  di  lingua:  donde  il  calore  con  cui  si  davano  a  questi  studi.  Il  Giordani,  mosso  dall'invito  dell'  Accademia italiana,    non  per  rispondere    ad  essa,  per  ciò  che    questa  materia  non  sia  d'ozio  letterario  ....  ma  importi  non  poco  all'onore  d'Italia  ,  si    ad  abbozzare  una  Storia  dello  spirito  pubblico  d' Italia  per  600  considerato  nelle  vicende  della  lingua  e  alcuni  anni  più  tardi,  discorrendo  in  una  lunga  lettera  al  Capponi  di  una  raccolta  in  trenta  volumi  che  intendeva  fare  delle  migliori  e  men  note  prose  della  nostra  letteratura,  allargando  e  colorendo  le  linee  di  quel  primitivo  abbozzo, esprimeva  l'opinione  che  l'ordine  escogitato  lo  menerebbe    quasi  per  una  storia  della  nazione  e  della  lingua    ("),  e  che  dalla  somma  dei  particolari  discorsi  introduttivi  ne  sarebbe  derivato   quasi  un  ritratto  filosofico  delle  menti  italiane  per  quattro secoli  .    Perciocché  io  considerando  la  lingua  come  uno  specchio,  nel  quale  cadano  tutti  i  concetti  da  tutti  i  pensanti  della  nazione,  e  dal  quale  nella  mente  di  ciascuno  si  riflettano  i  pensieri  di  tutti;  volli  con  diligenza  di  storico  e  sagacità  di  filosofo  esaminare  il  vario  corso  del  pensare  italiano  per  le  vestigia che  di  mano  in  mano  lasciò  impresse  nel  variare  delle  lingua;  della  quale  i  vocaboli  e  le  frasi,  o  nuovamente  introdotte, o  dall'antico  mutate,  fanno  certissimo  testimonio  (a  chi  '1  sa  interrogare)  d'ogni  mutamento  nella  vita  intellettiva  del  popolo.    Così  il  Giordani  si  riallaccia  al  Napione.   Tra  il  Napione  e  il   Giordani   spicca   anche   per  questo   riguardo il  Foscolo, che  nella  celebre  orazione,  recitata  a  Pavia Opere:    Scritti  editi  e  postumi  pubbl.  da  Antonio  Gussalli  ,   Milano.   f;)  Scritti,   ed.  Chiarini. Per  l'eccellente  posizione  che  occupa  il  Foscolo  nella  storia  della  critica,  oltre  che  le  note  pagine  del  De  Sanctis,  vedi  Croce,  Per  la  storia  della  critica  ecc.,  già  cit.,  p.  9  e  27,  Trabalza,  Studi  sul  Boccaccio,  e  Borgese,  Storia  della  critica  romantica,  libro    è  superfluo   avvertirlo   pell'inaugurazione  degli  studi,  Dell'  origine  e  dell'ufficio della  letteratura  e  nelle  Lezioni  di  eloquenza  che  le  tennero  dietro,  e  particolarmente  in  quella  su  la  Lingua  italiana  considerata  storicamente  e  letterariamente,  (l)  e  ne'  sei  Discorsi  sulla  lingua italiana  parlava  della  nostra  lingua  coi  medesimi  spiriti  e  intendimenti  d'italianità,  in  modo  veramente vivace.    Nella  sua  Prolusione  ,  ripeteremo  col  De  Sanctis,    tenta  una  storia  della  parola  sulle  orme  del  Vico,  censurata da  parecchi  in  questo  o  quel  particolare,  ma  da'  più  ammirata, come  nuova  e  profonda  speculazione.  Il  suo  valore,  anzi  che  nelle  sue  idee,  è  nel  suo  spirito,  perchè  non  è  infine  che  una  calda  requisitoria  contro  quella  letteratura  arcadica  e  accademica, combattuta  da  tutte  le  parti  e  resistente  ancora,  contro  quella  prosa  vuota  e  parolaia,  e  contro  quella  poesia  che  suona  e  che  non  crea.    Nessuno  ha  considerato,    scriveva  il  Foscolo,   filosoficamente  le  origini,  le  epoche  e  la  formazione  di  essa  [lingua  italiana],  affine  di  conoscere  per  via  d'analogia  i  principi,  i  progressi  oscurissimi  delle  formazioni  e  trasformazioni  di  tante  altre  lingue. La  storia  d'una  lingua,    ecco  il  suo  preciso  punto  di  vista      non  può  tracciarsi  se  non  nella  storia  letteraria  della  nazione;    la  storia  può  somministrare  fatti  certi  e  fondamentali  a  trovare  in  materie  intricatissime  il  vero,  se  non  per  mezzo  di  epoche  distinte,  in  guisa  che  le  cause  non  diventino    effetti,  e  gli  effetti  non  sieno  pigliati  per  cause  .    che  dev'esser  tenuto  sempre  presente  per  tutto  questo  periodo,  perchè,  se  le  idee  sulla  lingua  de'  vari  critici  che  vi  sono  criticati  poca  luce  diffondono  sulle  loro  teorie  poetiche,  utilissimo  è  invece  conoscere  la  portata  critica  di  esse  per  chi  fa  la  storia  della  lingua. In  Opere  edite  e  postume  di Foscolo,  Firenze,  Le  Monnier. In  T..   È  evidente  l'affinità  tra  il  metodo  del  Foscolo  e  quello  del  Napione;  ma  com'è  più  profonda  la  visione  del  Foscolo, così  essa  in  certo  senso  precorre  ancor  meglio  il  principio  moderno  onde  si  vorrebbe  indagata  la  storia  della  cultura  nella  lingua,  specialmente in  quanto  si  serve  del  metodo  monografico  per  periodi  di  affinità spirituali.  Notevolissima  sotto  questo  rispetto  è  una  pagina  della  Lez.  II  di  Eoa.    la  82  del  voi.  II)  dove  illustra  il  principio:  La  letteratura  è  annessa  alla  lingua.    Capitolo  quindicesimo  485    Nel  fatto,  il  Foscolo  intravvede  così  in  confuso  l'identità  di  lingua  e  pensiero,  e  nell'evoluzione  linguistica  uno  svolgimento  spirituale,  mostra  cioè  una  vaga  coscienza  del  problema  linguistico, e  il  suo  sforzo  di  risolverlo,  anche  se  non  felice,  è  già  un  progresso.  Particolarmente  notevoli,  anche  per  la  ragione  pedagogica,  in  cui  però,  come  sappiamo,  ben  si  riflette  la  scienza  teorica,  son  le  pagine  che  scrive  sulla  dottrina  dantesca  del  Volgare  illustre.  Ne  riferiamo  volentieri  un  brano  che  ci  tocca  davvicino.    Su  ciò  che  Dante  previde  con  occhio  sicuro  egli  fondava  pochi  principi  generali  intorno  alla  legislazione  grammaticale. Erano  inerenti  alla  condizione  e  alla  natura  della  lingua,  onde  operarono  sempre  e  quando  vennero  applicati  da  parecchi  scrittori,  e  quando  vennero  trascurati  da  altri,  o  negati  ostinatamente  da  molti;  ed  operarono  fin  anche  negli  scritti  di   chi  li  negava ed  oggimai  l'esperienza  ha  convinto  la  più  gran   parte  degl'Italiani,  che  la  loro  lingua  letteraria  non  può  prosperare senza  l'applicazione  dei  principj  di  Dante:  principi  metafisici,  dice  Foscolo, annunziati  in  tempi  ne'  quali  la  filosofia, l'arte  dialettica,  e  la  teologia  erano  tutt' uno,  e  tali  da  intricarsi  a  vicenda,  e  perciò  un  po'  oscuri  forse  allo  stesso  ALIGHIERI (si veda).  Al  qual  punto  il  pensiero  di Foscolo  corre  a Locke  che  facilita  lo  studio  delle  analisi  delle  idee,  e  quindi  della  natura delle  lingue – Grice: way of things, way of ideas, way of words -- e  a  Condillac  che  illustrò  questa  difficilissima  parte  della  metafisica.   Ma  il  fine  supremo  di  tali  studi  è per  tutti  questi  filosofi italiani  raggiungere  le  nazioni  che  appresso  a  noi  surte  ci  sorpassarono,  e  poiché  il  mezzo  non  sembra  potesse  esser  la [Giordani,  Scritti. cit.,  ed.  Chiarini.  Si  richiamino  a  tal  proposito    e  si  tengano  presenti  in  questo  capitolo  anche  peraltro    le  relazioni  d'amicizia  personale  che  corsero  tra  maggiori  e  minori  rappresentanti  di  questo  movimento  d'ITALIANITÀ che  s'agita  nelle  questioni  linguistiche.  V.  specialmente Guidetti,  La  questione  linguistica  e  l'amicizia  di Cesari  con  Monti,  Villardi  e Manzoni  narrata  con  l'aiuto  di  documenti inediti,  Reggio  d'Emilia; dello  stesso,  Cesari  giudicato  e  onorato  dagl'italiani  e  sue  relazioni  coi  contemporanei  con  documenti  inediti,  Reggio  d'Emilia;  e  Bertoldi,  Giordani  e  altri  personaggi  del  tempo  in  Prose  critiche  di  storia  e  d'arte,  Firenze] FILOSOFIA,  lo  studio  cioè  dei  problemi  della  natura  del  linguaggio,  ma  lo  studio  pratico  della  lingua  che  non  si  dove  lasciare  adulterare,  da  più  parti,  non  i  soli  fiorentini,  ma  tutti  gl'italiani  si  danno  e  intesero  con  viva  fede  e  non  tenue  sentimento  d'ITALIANITÀ all'opera  di  restaurazione,  che  un  diffuso  lavorìo,  specie  nell'Italia  centrale  e  particolarmente  nell'Emilia,  nella Romaga,  nella Marca,  nell'Umbria,  a  Roma,  di  traduzioni  dai  classici  latini,  condotto  con  superficiale  ma  sincero  sentimento  e  gusto  di  bellezza  formale,   favorisce  grandemente.   Il  mondano,  e  avversario  della  Crusca,  Lamberti  pubblica con  aggiunte  e  correzioni  Le  Osservazioni  del  Cinonio.  Ri-usce  alla  luce  la  vecchia  raccolta  di Pistoiesi,  Prospetto  dei  verbi  toscani  tanto  regolari  che  irregolari  e  Casarotti, torna a  discorrere  Sopra  la  natura  e  l'uso  dei  dittonghi  italiani    trattato. MASTROFINI (si veda) pubblica Teoria  e  prospetto  ossia  Dizionario  critico  de  verbi  italiani  coniugati  specialmente  degl’anomali  e  mal  noti  nelle  cadenze.  E  un  compilatore  in  Milano ri-assume  tutto  questo  lavorìo  intorno  ai  verbi:  Teorica  dei  verbi  compilata  sulle  opere  di Cinonio,  di Pistoiesi,  di Mastrofini  e  di  altri,  e  una  compilazione  ancor  più  ricca  attende  Roster.   Questo  gruppo  di  saggi, com'è  facile  avvertire, si  rannoda a  quella  tradizione  grammaticale  che  appunto  con Cinonio  inizia  la  trattazione  di  categorie  particolari  della  grammatica  giunta  allora  al  suo  completo  sviluppo  nel  suo  schema  generale  per  opera  di  Buonmattei;  ma  non  è  certamente  estraneo  a  quell'esigenze  d’osservazione  diretta  sul  materiale  della  lingua  a  cui  si  sforza  di  soddisfare  il  purismo  che  appunto  in  quegli  anni  si  afferma  solennemente  con  la  vittoria di  Cesari.  Il  punto  di  vista  è  infatti  ancora  il  retorico,  come  precettivo  è  l'intendimento,  anche  se  uno  di  quei  quattro  autori,  Casarotti,  si  abbella  nella  sua  esposizione  del  culto  professato  alla  dottrina  di VICO (si veda)  che  cita  in  più  luoghi:  mentre,  [Pisa,  Capurro,  nuova  ed.  riv.  e  corr.  La  prima  ed.  aveva  visto  la  luce  a  Roma.   Padova,  nel  Seminario.  Roma,  De  Romanis.  Anche  Greco,  il  grammatico  consigliere  di  Puoti, ha d'altra  parte,  non  è  identificabile  con  quello  delle GRAMMATICHE RAGIONATE,  anche  se  un  altro,  Mastrofini,  segue  l'autorità  di Varano,  Ossian,  e Cesarotti.  I  tempi  non  potevano  non  esercitar la  loro  influenza. VICO (si veda) ormai  comincia a  non  esser  più  una  sfinge,  e  ciascuno  degli  altri  scrittori  gode  il  favor  popolare. Vedasi  come  Casarotti,  che  indubbiamente  non  va  confuso coi  grammatici  di  bassa  lega,  citi VICO (si veda).  Egli,  mosso  alla  sua  trattazione  dalla  necessità  di  sistemare  una  notevole  serie  di  fatti,  che  inosservati  danno  luogo  a  molti  inconvenienti,  constata che  i  dittonghi  mobili  non  sono  il  centesimo  permalosi  dei  fermi,  e  senza  sdegno  stanno  in  bando  da  parecchie  voci,  alle  quali  avrebbero  diritto  di  entrare.  Priemo,  truovo,  pruova,  ed  altre  già  l'hanno  quasi  dimenticato.  In  questa  parte  verificasi  la  sentenza  del  profondissimo  e  oscurissimo  VICO (si veda)  (Pr.  di  Se.  N.  Della  Sapienza  Poetica, Corollarj  d'intorno  alle  origini  della  locuzione  ecc.),  che  i  dittonghi  ne’principj  delle  lingue  sono  in  assai  più  numero,  e  che  a  poco  a  poco  si  scemano. E  su VICO (si veda)  stesso  si  appoggia  per  mostrare  l'obbligo  degl’italiani a  non  bandirli nella  lingua  che  riceve  d’essi  pienezza  e  varietà  di  suono,  due  qualità  carissime all'armonia,  ed  al  canto.  Di  fatti  i dittongi,  se  hanno  valore  i  pensamenti  del  citato  filosofo napoletano,  del  primo  canto  de popoli  faìino gran  pruova:  e  specialmente  non  dovrebbero  bandirli  i  poeti,  poiché  l'espressione poetica  è  tanto  vaga  d'indipendenza  da  ogni  fastidiosaggine grammaticale,  che  talvolta per  lo  disprezzo  di  certe  rigide leggi  acquista  forza  e  bellezza.  E  la  poesia,  come  colui  dice  della  pittura,  divien  grande  coli 'industrioso  maneggio  delle  cose  minime. Una consonante, una vocale, un dittongo, un ACCENTO, letto, se non compreso, Vico. Caraffa fa derivare Greco da Vico e lascia credere ch’un'infusione del spirito di VICO Greco comunica a Puoti stesso. [,dove anche osserva. Tanto è rispetto a noi della lingua del Lazio, che abbondantissima nella scrittura di sillabe bifocali, come Terenziano Mauro chiama i dittongi,  rarissimi ne conserva nella pronunzia. E tanto è della lingua gallica, che compendia in una sola vocale molti dittongi, de’quali sul labbro degl’antichi galli s’è probabilmente lasciato sentire il duplice suono. Sul labbro italiano poi questo duplice suono si fa sentir sempre: e in ciò siamo più ragionevoli de’galli, in quanto l’italiana scrittura, si ritengano o si sbandiscano i dittongi, rimane sempre d'accordo colla pronunzia.] tutto essa fa servire a’suoi sublimi disegni. Così la filologia filosofica di VICO divienne in Casarotti rettorica grammaticale, ma assai migliore di quell'altra della tradizione. Nella parte storica e empirica il saggio di Casarotti non manca d’utilità. Passa in rassegna l’esposizioni di MAZZONI che NEGA ALLA LINGUA ITALIANA IL VERO E PROPRIO DITTONGO, di Salviati che n;ammise, di Buonmattei che ne giustifica tanti quanti sono i gruppi di due vocali. Si ride di Gigli che rimanda a Mazzoni chi vuol aver cognizione piena dei nostri dittonghi, avendo Mazzoni non scritto un trattato, ma un semplice discorso, e non sui soli dittonghi italiani, ma sui dittonghi in genere: rettifica non del tutto giusta, come s'è visto.  Vero trattatista è certo egli Casarotti, che dà del dittongo questa definizione: la comprensione di due vocali diverse in una sillaba sola e indissolubile, di suono misto, come sono “aura”, “euro”, “piovere”, “ciel”. Critica gli strafalcioni dei rimari, Folchi, Fioretti, Ruscelli, Baruffaldi, non escluso quello di Rosasco, e, naturalmente, discorre a lungo di metrica, con molte esemplificazioni,  essendo compilato il suo trattato principalmente in servizio della poesia. Riassume la storia di tutti i capricci ortografici, dichiarandosi contro l’uso della dieresi, co-operazione. Pistoiesi crede colmare una lacuna dei grammatici che danno sui verbi ammaestramenti  e  prospetti  troppo  scarsi  ai  bisogni.  E  ora  se  ne  ristampa  l'opera  per  il  bisogno  che  se  ne  sente.  Delle  voci  verbali  vi  si  fanno  quattro  classi    classificazione  che  è  un'altra  prova  del  carattere  empirico  e  retorico  del  trattato: buone  e  corrette, regolari; antiche; poetiche; IDIOTISMI – Grice, IDIO-LECT – IDIO-SYNCRATIC -- ed  errori.  Si  rimprovera  Buonmattei di  non  aver  avvertito  che  di  contro  al  leggemmo  si  scrive  l'errato  lessamo.  Si  registra  per  es.  il  “savamo”  (=  “eravamo”)  che  incontrammo  nella  grammatica  vaticana  ricordata,  ma,  a  sua  volta,  dimentica  il  “tro” e  il  “tretti” da  “trarre,”  che  quella  grammatica diligentemente  raccoglie.  Per  questa  parte  storica  specialmente il  saggio  di  Pistoiesi  conserva  qualche  interesse.  Lo  stesso  [Ricorda  qui  le  12  definizioni  dei  dittonghi  date  da Riccioli  in  De  recia  diphthongorum  promintiationc. Dice  che  nel  Giornale  di  Padova  si  afferma  che  Evangeli  scrive  un  trattato  sui  dittonghi  italiani,  ma  egli  dubita  dell'asserzione.  Non  deriva  dal  latino  questa  definizione  del  dittongo.] dicasi  di  quello  di  Mastrolilli,  che,  peraltro,  adopera  un  metodo  assai  diverso  di  trattazione  sia  nella  parte  introduttiva,  dove  porge,  come  meglio  puo,  delle  nozioni  archeologiche  sulle  trasformazioni  latine,  sia  nella  sistematica,  dove  registra  di  ogni  singolo  verbo  tutte  le  voci,  confinando  nelle  note  gl’usi  antichi  e  dialettali,  costruendo  così  una  gran  mole  in  due  grossi  volumi  di  quattrocento   pagine  l'uno. Un'altra  miniera  di  tutte  le  forme  storiche  del  nome  e  del  verbo  sono  le  Osservazioni  grammaticali  di  Roster.  Il  quale,  più  che  a  trattar  sistematicamente  la  grammatica,  intende  soprattutto  a  radunare  intorno  a  ogni  persona,  come  a  ogni  nome,  tutte  le  varianti  che  gli  scrittori  adoperarono,  dando  così  un  utile  vocabolario  metodico  delle  declinazioni  e  delle  coniugazioni nel  loro  uso  storico.   Qualche  decennio  più  tardi,  su  questo  argomento  avemmo  un  lavoro  assai  migliore  e  di  una  maggior  portata,  che  è  quasi  anello  di  congiunzione  tra  i  precedenti  prospetti  più  o  meno  empirici  e  i  più  recenti  trattati  di  analisi  rigorosamente  filologica:  la  Analisi  critica  dei  verbi  italiani  investigati  nella  loro  primitiva  orìgine  da NANNUCCI (si veda),  a  cui  seguì  il  Saggiò  del  prospetto  generale  di  tutti  i  verbi  anomali  e  diffettivi,    semplici  che  composti,  e  di  tutte  le  varie  configurazioni, dall'origine  della  li?igua  in  poi.  Derivata  da'  medesimi principi  e  condotta  con  l' istesso  metodo  è  la  Teoria  de'  nomi  della  lingua  italiana,  che,  come  X Analisi,  si  raccomanda sia  adoperata  con  cautela.   Al  Nannucci  dobbiamo  an    Osservazioni  grammaticali  intorno  alla  lingua  italiana  compilate da  Giacomo  Roster  professore  delle  lingue  italiana,  tedesca  ed  mg  le  se  ecc.  in  Firenze,  mediante  le  quali  si  procura  di  fissar  le  regole  sinora  incerte  e  vacillanti,  fondate  sull'uso  generale  de'  classici  antichi  e  moderni,  e  col  parer  de'  primi  letterati  d'Italia:  opera  necessaria  per  intendere  gli  scrittori  antichi  e  moderni,  e  per  parlare  e  scrivere  correttametite.  Dedicata  alla  eulta  nazione  italiana.  Firenze,  nella  stamperia  Ronchi.  Dopo  un  Ristretto  di  termini  grammaticali e  un  Ristretto  delle  declinazioni  tratta  a  lungo;  della  Dee lina zio?ie,  ossia  delle  varie  terminazioni  di  nomi  sost.  e  agg.  Nella    le  Regole  per  le  formazioni  di  modi,  tempi  e  persone  delle  tre  coniug.  de'  verbi  reg.  e  irr.  Seguono  alcune  pagine  di  note.  (Il  raro  libro  mi  fu  fatto  conoscere  dal  prof.  Teza,  che  ne  possiede  un  esemplare). Storia  della  Grammatica   cora  Voci  e  locuzioni  italiane  derivate  dalla  lingua  provenzale.  Son  tutte  parti  codeste  et  uri  opera  vasta  alla  quale  s'era  dato  l'esimio  filologo  e  in  cui  si  proponeva  di  ricercare  minutamente   la  natura,  l'indole  e  la  storia  della  nostra  lingua,  seguitandola secolo  per  secolo  ne'  suoi  movimenti  e  nelle  sue  trasformazioni, ed  investigando  la  ragione  de'  costrutti  e  delle  forme  grammaticali  (Ai  lettori):  un  miscuglio,  come  ben  s'intende, d'empirismo,  di  storia  e  di  filosofia  del  linguaggio  in  cui  sarebbero  state  riassunte  e  conciliate  le  tre  tendenze  degli  studi  linguistici  prevalenti  al  suo  tempo.  Fu  bene  che  il  Nannucci  si  limitasse  alla  parte  storica  usando,  come  le  forze  gli  permettevano, discretamente,  del  metodo  comparativo  ignoto  ai  suoi  predecessori specialisti:  ne  uscirono  giustificate  nella  loro  origine  e  nella  loro  analogia  con  le  neolatine,  voci  e  frasi  ritenute  errori  e  idiotismi  dagli  altri;  altre  furono  ridotte  alla  loro  vera  lezione.  Quelle  che  per  altri  erano  minutezze,  cioè  tutte  le  uscite  varie  di  una  stessa  voce,  egli  raccolse  e  sistemò,  svolgendo  la  sua  trattazione, se  non  con  metodo,  con  ordine,  chiarezza,  cioè  tempo  per  tempo,  persona  per  persona.  Faccio  la  riserva  sul  metodo,  appunto  perchè  qui  è  il  lato  debole,  filologicamente  parlando,  dell'opera  del  Nannucci:  la  sua  è  una  classificazione  empirica,  storica  nel  senso  che  parte  dalle  forme  più  antiche  per  giungere  alle  moderne:  non  è,  e  non  poteva  ancora  essere  a  base  fonetica,  come  oggi  si  esigerebbe.  Se  non  che  anche  in  questo  rispetto  supera  i  precedenti  trattatisti,  de' quali  egli  stesso  vorrebbe  eccettuato il  Mastrofini,  se    oltre  all'aver  egli  lasciato  addietro  tutte  le  anomalie  più  riposte,  che  sono  sparse  per  entro  agli  scritti  de'  nostri  vecchi,  anche  nelle  più  ovvie  da  lui  riprodotte  ,  non  avesse  per  lo  più  errata  la  vera  origine.   L'opera  di NANNUCCI (si veda),  come  anche  risulta  d’un  utilissimo  indice,  è  ricca  di  osservazioni  grammaticali  spicciole  che  servono  a  lumeggiare  la  posizione  sua  di  grammatico  diligente  e  osservatore, raccoglitore  di  prima  mano  de’fatti  grammaticali,  che  sa  ordinare  nella  loro  serie  storica,  non  nella  loro  genesi  ed  evoluzione  interiore,  intese,  è  superfluo  dirlo, nel  loro  significato fittizio. È  insomma,  per  l'Italia,  a  prescindere  dai  nostri  filologi  migliori,  l'anello  di  congiunzione  tra  la pura  precettistica  e  l’indagine  storica. Un  contenuto  grammaticale  hanno  egualmente,  chi  più  chi  meno,  tutti  i  nostri  retori  ed  eruditi  e  lessicografi    filologi  nel senso  ristretto  che  a  questa  parola  da  Diez  in  poi  viene  annesso, non  li  potremo  chiamare dell'indirizzo  puristico-classico  da CESARI (si veda)  a FORNACIARI.  D’essi,  quando  non sono  anche  produttori  di  grammatiche  vere  e  proprie,  onde  particolarmente  vogliamo  desumere  i  caratteri  della  grammatica  di  questo  periodo,  basta  che  noi  ricordiamo  poco  più  che  i  nomi  per  complemento  di  disegno,  rientrando  essi  in  quanto  tali  alcuni  sono grandissimi  filosofi come  Foscolo,  Monti,  Leopardi    più  direttamente  nella  storia  dell'erudizione linguistica  o  della  rettorica  o  della  coltura  o  della  critica  letteraria  o  della  cosiddetta  questione  della  lingua,  secondo  i  singoli casi.  Nel  loro  complesso,  per  quanto  ha  rapporto  diretto  con  la  grammatica,  essi  seguono  e  costituiscono  il  medesimo  moto  onde  derivarono  le  varie  grammatiche  che  esamineremo  con  quella  brevità  che  l'interesse  ormai  scarso  della  materia  e  la  qualità  possono  consentire  in  una  storia  come  la  presente.   Di  quei  tre  grandissimi,  benché  non  siano  stati,  strettatamente  parlando,    grammatici    critici  del  concetto  di  grammatica e  neppure  rinnovatori,  saremmo  tentati  a  far  qui  un  meno  breve  cenno  di  quel  che  s'è  fatto,  avendo essi dato  allo  studio  della  lingua  una  parte  non  piccola  della  loro  attività,  se,  considerando,  a  tacer  d'altro,  che  le  loro  particolari  vedute  non  sono  in  sostanza  se  non  antecedenti  della  dottrina  di MANZONI (si veda) sulla  lingua,  che  è  poi  la  dottrina  linguistica  del  romanticismo,  di  questa  non  dovessimo  trattenerci  più  lungamente  e  per  il  nuovo  indirizzo  grammaticale  che  ne  deriva  e  per  la  connessione  che  ha  particolarmente  colla  critica  della  grammatica  generale,  che  a  noi  sopratutto  interessa.  Ma  di Leopardi  mi  giova  mettere in  rilievo  un  curioso  pensiero  circa  i  rapporti  tra  grammatica e  lingua,  che  si  può  riassumere  così. La  varietà,  ricchezza,  onnipotenza  d'una  lingua  sono  in  ragione  inversa  del  dominio regolatore  della  grammatica,  e  che  egli  illustra  con  gl’esempi  della  lingua  greca  che  ha inesauribile  ricchezza  e  assoluta  potenza  avanti  il  sorgere  della  sua  grammatica,  della  LATINA che,  per  antica,  avendo  avuto  avanti  la  grammatica  greca,  studiata  per  principi  e  nelle  scuole,    riuscì  meno  libera  e  meno  varia  d'ogni  altra  ,  dell'italiana  che,    scritta  primieramente  da  tanti  che  nulla  sapevano  dell'analisi  del  linguaggio  (poco  o  nulla  studiando  altra  lingua  e  grammatica,  come  sarebbe  stata  la  latina), venne,  per  lingua  moderna,  similissima  di  ricchezza  e  d’onnipotenza  alla  greca,  della  tedesca,  che,  avendo  grammatica  e  non  forse  rispettandola  e  non  avendo  vocabolario  riconosciuto per  autorevole,  è  nelle  migliori  condizione  per  pervenire  alla  ricchezza,  potenza,  libertà.  Giudizio  quant'altro  mai  ostile  alla  grammatica,  ma  il  più  servile  verso  la  sua  immaginaria strapotenza.   Su  di  un  altro  grande  italiano,  invece,  che  citeremo  tra  poco,  TOMMASEO (si veda),  filosofo  di  professione,  non  possiamo  non  fermarci  un  po’più,  il  che  faremo  con  la  scorta  di BORGESE (si veda),  il  quale  ci  sembra  averlo  caratterizzato  con mirabile precisione. Il CESARI (si veda) del romanticismo, lo chiama  Borgese, e di CESARI non è così  spietato censore come molti non-romantici. Ha quel che a CESARI (si veda) manca per divenire scrittore più che comune, la fede nel grande principio della rivoluzione letteraria. Di singolare nelle teoriche sulla lingua di TOMMASEO (si veda), è l'analogia coll’opinioni  letterarie che si professano  ornai  da  una  ventina  d'anni.  Egli  stima doversi  i  significati  delle  parole  distinguere  secondo  l'uso  più  generale  e  ragionevole, proprio  come  gl’evangelisti  del  romanticismo  volevano  ligie  le  lettere  alle  passioni  e  ai  desideri  del  tempo,  perchè  fossero secondo  ragione  e  morale.  Nel  linguaggio  vede  tre  pregi  essenziali  di  bellezza:  l'etimologia  più  prossima  e  d'evidenza  irrecusabile,  l'analogia  filosofica  e  la  grammaticale,  l'armonia  musicale  e  l'onomatopeica:  pregi  che  meglio  d’ogni  altro  idioma  ritiene  possedere  il  toscano.  Non  rinnova i  concetti  fondamentali della  linguistica. Applica  come  BERCHET (si veda) e  MANZONI (si veda) in  modo  nuovo  principi  vecchi,  e  sostenne  l'imitazione  del  vero  e  l'uso  di  parole  intelligibili  al  popolo.  Ed  ecco  l'intento  morale  della  riforma. Giova  osservare,  scrive,  che  la  straordinarietà della lingua,  la  quale    talvolta  allo  stile  una  cert'aria  di  dignità,  è  pregio  tutto  posticcio  che  non  compensa  il  difetto  di  pregi  più  intrinseci.  Molti  si  credono  d'essere  scrittori  non  comuni,  allorché  rivolgono  un’idea  comune  in  abito  straordinario, ma  converrebbe,  in  quella  vece,  sotto  forme  comuni,  ren[Pensieri  di  varia  filosofia  e    bella  letteratura,  Firenze.  Del  resto  su  LEOPARDI (si veda)  filologo,  v.  i  noti  lavori  recentemente  condotti  sullo  Zibaldone,  il saggio di BORGESE,  e  il  citato  studio  di COLAGROSSO.  Colagrosso.] -dere  accessibile  e,  quasi  dirti,  perdonabile  la  straordinarietà  dell'idea.  Nella  pratica  pesa  con  scrupolo  da  farmacista  parole  e  sillabe  e  della  grammatica è  cavalier  senza  macchia. Il  numero  maggiore  degl’eruditi  e  letterati  che  si  occuparono  in  questo  tempo  di  lingua  è  dato  dai  vocabolaristi  in  genere:  accademici della  Crusca,  dell’Istituto  lombardo,  Cesari,  Galiani,  Tommaseo,  compresi  i  compilatori  di  dizionari  di  sinonimi  (Grassi,  Tommaseo),  metodici  (Carena)  e  dialettali,  e  in  particolare,  dagl’avversari  più  o  meno  accaniti  della  Crusca  (Monti,  Perticari,  Compagnoni)  coi  loro  rispettivi  contradittori  nelle  polemiche  che  seguirono  alla  Proposta di Monti  (Biamonti,  Galvani,  Niccolini,  Tommaseo),  e  ancor  più  particolarmente  dagli  annotatori e  correttori  della  Crusca  (Parenti).  Astrazion  fatta  dall'utilità pratica  di  queste  raccolte  di  voci  e  locuzioni,  sono  ormai  ben  noti  il  nocciolo,  le  vicende  e  l'importanza  della  questione  agitatasi  con  tanto  fervore  e  accanimento:  sostenitori  e  avversari della  Crusca,  nel  propugnare  secondo  il  loro  partito  un  uso  più  o  meno  esteso  nel  tempo  e  nello  spazio,  quale  si  è  il  loro  ideale  d'un’ITALIANITÀ più  o  meno  pura  di  pensiero,  di  sentimento  e  di  lingua  (entrano  naturalmente  nelle  questioni  sentimentalismi  patriottici  più  o  meno  caldi  e  sinceri),  muoveno  dall’ormai  stravecchia  concezione  meccanica  del  linguaggio  abbuiata  ancora  non  poco dall’ignoranza  dell'origine  dell'italiano,  o  meglio,  de’ [In  Borgese. Borgese. Tra  i  molti  saggi  di  Tommaseo  che  in  qualche  modo  si  riferiscono  al  nostro  argomento,  merita  d'essere  ricordato  qui  particolarmente  l’aiuto  air  unità  della  lingua, saggio  di  ìuodi  con  formi  all'uso vivo  italiano  che  corrispondono  ad  altri d'uso  meno  comune  e  meno  legittimo, Proposte, Firenze,  Le  Monnier. Proposta  di  alcune  correzioni  ed  aggiunte  al  Voc.  d.  Cr.,  Milano, R.  Stamperia. Cvi  collaborano  segnatamente  Perticari,  Gherardini,  Grassi,  Peyron  ecc..  Devesi  ricordare  qui  il  Capitolo  CHI  di  un'Opera  cominciata  a  scrivere  dall’autore  prima  della  Proposta  di Monti  e  da  non  pubblicarsi  se  non  piu tardi (Estr.  d.  Quad.  XV  del  Nuovo  ricoglitore  con  un'aggiunta,  Milano)  di  Compagnoni,  che  pretende,  come  ODERZO (si veda) Oderzo -- Stilla  libertà  concessa  alla  locuzione  italiana  della Crusca -- di  aver  precorso  Monti. Galvani,  tra  tutti  costoro,  si  distingue  per  i  suoi  notevoli  contributi  alla  storia  della  letteratura  occitanica. Ricordiamo  qui  particolarmente  di  lui  il  discorso  Del  soverchio rigor  de’grammatici.] vari  dialetti  italiani;  e  si  tormentano  tutti  egualmente  intorno  a  un  problema  anti-fìlosofico.  Lo  stesso  dicasi  dell'altra  categoria,  non  meno  numerosa,  dei  panegiristi  della  lingua  italiana  e  caldeggiatori  del  ritorno  all'antica  purezza  e  semplicità,  trattatisti  in  genere  dell'origine  e  delle  doti  dell'elocuzione,  dissertatori di  combattimento  o  no,  tutti  quali  con  più  quali  con  meno  di  destrezza  armeggiami  pel  feticcio  col  vecchio  bagaglio  d'argomenti  formali:  Cesari,  alla  testa,  Amadi,  Amicarelli,  Bressan,  Mazzoni,  Biondelli,  Betti,  Ranalli,  Paravia,  Fornaciari,  Montanari,  Mestica,  Costa,  Pagliese,  Farini,  Colombo,  Marchetti,  Parenti,  Giordani,  a  tacer  di  Puoti  e  della  sua  scuola.  Una  terza  schiera,  infine,  è  costituita  da  molti  di  questi  stessi,  T. mette  in  prima  linea  Colombo,  e  altri  moltissimi    tra  questi  ricorderemo honoris  causa  Leopardi  e  Foscolo    che  o  curano l'edizione  de’testi  antichi  o  li  annotarono  o  fecero  l'una  cosa  e  l'altra.  L'opera  di  costoro  ha  un  carattere  più  specificatamente linguistico-retorico;  ma,  oltre  che  qui  non  se  ne  potrebbe  molto  agevolmente  tener  conto,  poiché  sarebbe  da  ridurre  a  corpo  sistematico,  in  fondo  la  ritroveremo  nelle  singole  grammatiche che  accompagnarono  questa  produzione  esegetica,  di  cui  a  priori  s’intendono  i  valori  e  i  caratteri,  sol  che  siano  annunziati i  nomi  dei  produttori.   Ma  qui  dobbiamo  fermarci  per  registrare  un  fatto  di  qualche  importanza.   Pensando  a  questa  schiera  di  puristi  e  di  retori,  generalmente ce  li  figuriamo  anzitutto  grandi  credenti  nella  grammatica, come  nell'ultima  panacea  di  sicura  efficacia  per  il  retto  esercizio del parlare,  del  comporre  e  dell'intendere [Un  più  recente  correttore  della  Crusca  è Cerquetti,  il  cui  nome  è  mescolato  in  nuove  e  non  meno  vivaci  polemiche.  Pubblica parecchi  saggi  di  Correzioni  e  giunte  al  vocabolario della  Crusca,  il  primo  de’uali  vide  la  luce  in  Forlì.  Su Cerquetti,  Trabalza,  A.  Cerouellt  in  Studi  e  profili. T. ricorda  qui,  come  segno del  fervore  puristico  specialmente  contro  le  insidie  del  dialetto,  quella  Tavola  e  correzione  d'un  migliaio  d'errori  di  grammatica  e  di  lingua  ecc.,  per  Ponza,  sac,  Torino.],  dove  Manzoni  spigola  esempi  per  la  sua  tesi  dell’unità linguistica  (Opere  inedite  o  rare  cit.  più  innanzi. gli  scrittori.  A  mostrar  l' inesattezza  di  tale  opinione,  senza  che  io  mi  stenda  in  soverchie  parole,  T. riferisce  qui  proprio  un  brano  della  dissertazione  di Cesari,  la  cui  testimonianza  tronca  la  testa  al  toro.  Dopo  aver  indicato, il  che  fa  in  modo  che  tutti  possiamo  accettare, come  s'abbiano  a  legger  i filosofi,  dice  che  nel  principio,  la  grammatica  è  necessaria  per  li  nomi  e  coniugazioni  de’verbi,  e  per  parecchi  de’più  notabili  usi  de’verbi  singolari.  Io  credo  che  i  fanciulli  non  sono  da  stancare  con  molte  regole. Al  maestro  sta  venirle  toccando,  secondo  che  negli  autori si  abbatte  a  cose  che  richiegge  spiegazione  come  che  è.  La  grammatica  di  Corticelli  crede  molto  ben  acconcia  per  quell’età;  quantunque  assai  vi  manchi  di  quelle  cose  che  al  maestro  s’appartiene  d’aggiungere  a  luogo  a  luogo. Ma  pella grammatica  e  i  primi  elementi  di  lingua lui arde  di  mostrare un  cotal  mio  trovato,  che  assai  felicemente  mi  riuscì.  Io  credo  che  grande  agevolezza  ad  apprender  la  lingua  dove  portare a’fanciulli  l'aiuto  d'un'altra  lingua,  loro  già  nota,  la  cosa  parla  da  sé.  ora  eglino  nessun’altra  ne  sanno  che  il  proprio  dialetto. Essi,  nel  loro  dialetto  parlando,  sanno  il  valor  delle  voci  che  usano,  e  le  parti  dell'orazione,  nomi,  pronomi,  verbi,  avverbi, eccetera,  le  usano  tutte.  Ora  io  questa  loro  scienza  vorrei  recarla  ad  essi  a  profitto. Facendo  che  tutto  il  loro  studiar  nella  lingua è un  tradurre  dal  dialetto  lor  naturale.  E  nella  pratica  dell’insegnamento  privato  fa  fare  esercizi  di  retro-versione di  novelle  da  lui  tradotte  in  volgar  veronese   e  compila  un  Catalogo  d'alcune  voci  di  dialetto  veronese  col  corrispondente toscano  a  fronte.  Non  è  stato  il  primo  a  servirsi  del [Precetti  pochi  di  qualsivoglia  autore,  torna  a  predicare  nello  scritto  Del  metodo  d' insegnare  lettere latine  e  italiane,  in  Opuscoli  cit.,  ed.   Guidetti.  Ed.  Guidetti.  Guidetti. Guidetti,  a  questo  proposito,  riferisce  un  brano  di  lettera  scrittagli  d'Ascoli. È  anche  vero  che  Cesari  e  Manzoni  hanno in  qualche  modo  la  stessa  filosofia,  sostenendo  entrambi  che  l'Italia  dove  attingere  o  ri-attingere  l'unità  del  proprio  linguaggio  dalla  Toscana  o  meglio  DA FIRENZE, e  n'è  venuto  assai  naturalmente  che  in  entrambi  sorge  il  desiderio  di  raccolte  lessicali  o  di  frasarj,  dove  ai  modi  di  ciascun  dialetto  si  contrapponessero  gl’equavalenti  della  pura  e  schietta FIORENTINITÀ.] dialetto  per  apprendimento  e  l'insegnamento  della  lingua,  come  sappiamo;  ma  possiamo  ben  figurarci  di  quale  e  quanta  efficacia  riuscissero  e  la  dichiarazione  di  scarsa  fede  nella  grammatica  per    stessa  e  il  consiglio  di  ricorrere  al  dialetto  per  apprenderne naturalmente  con  gli  schemi  le  parti  dell'orazione  italiana,  esposti  come  si  trovavano  in  una  dissertazione  che,  e  per  il  nome  dell'autore  e  per  il  premio  ond'è coronata,  si  divulga  ed  ha grandissima  presa  in  Italia.  Infatti,  a  prescindere  dalla  ricca  serie  di  vocabolari  dialettali  (anche  Puoti,  oltre  quello  àé\  gallicismi, ne  fece  compilar  uno  domestico  NAPOLETANO-ITALIANO),  che  non  è  nostro  compito  illustrare,  da  questo  impulso  di Cesari,  indubitatamente,  oltre  che  dalle  cause  generali  che  su Cesari  stesso  agirono,  derivarono  in  ogni  parte  d'Italia  grammatiche italiano-dialettali,  dove  appunto  si  fac servire  il  dialetto, anche  più  ufficialmente  dirò  cosi  che  non  si  fa  con  le  versioni  dialettali  e  con  lo  studio e la compilazione del dizionario dialettale, all'apprendimento della grammatica italiana. Ne T ricorda due: la bergomense-italiana, dove l’influenza di Cesari si vede non solo dall'innesto  degli  esercizi  di  retroversioni alle  regole  grammaticali  e  ai  paradigmi,  ma  anche  dall’aver  proposto    tra   i   temi  vernacoli  una  novella  di  Cesari:  e   [Nel  concorso  alla  cattedra  di  letteratura  italiana  a Napoli,  a  cui  partecipò  anche  Puoti,  è  dato  per  la  dissertazione  latina  il  seguente  tema,  che  è  la  traduzione  del  tema  dell'Accademia  livornese. Italici  sermonis  a  Dante  ac  Petrarca  praecipue  exculti  elegantia,  quibus  de  causis,  quibusve  scriptoribus  defecerit,  quibusve  de  causis  ac  scriptoribus  ad  pristinum  redeat  splendorem.   In  Caraffa. Per  la  storia  de'  Vocabolari  dialettali  e  quanto  li  concerne  ne’rispetti  dell'aiuto  che  posson  recare  a  chi  vuol  imparar  la  lingua  e  a  scrivere,  cfr.  Manzoni,  Dell'  unità  della  lingua  in  Prose  minori,  ed.  Bertoldi,  il  Concorso  bandito  dal  Ministero  e  relativa  Relazione  e  T.,  L'insegnamento  dell'italiano  nelle  scuole  secondarie Esposizione  teorico-pratica  con  esempi,  Milano;  per  la  necessità  che  se  ne  afferma  anche  ogs^i,    più    meno  che  con  le  idee  di Cesari  e  di  Manzoni, mi  sia  permesso  citare  la  prefazione  al  mio  Saggio  di  vocabolario umbro-fiorentino  e  viceversa,  Foligno. Esperimento  di  una  Grammatica  bergomense-italiana  compilato a  comodo  ed  utilità  de’giovanetti  suoi  connazionali  dal  sa  e.  G.  A.  M.,  Milano,  Tip.  Arciv.,  Ditta  Boniardi-Pogliani  di  Besozzi (Bibl.  Teza).] la  già  ricordata  Glottopedia  italo-sicula  di  Pulci,  notevole  per  l'opinione  tacita  dell'A.  che  IL SICILIANO ben  ripulito puo  coincidere con  la  lingua  letteraria,  ma  più  importante  per  LE TRACCE CHE LA GRAMMATICA UNIVERSALE RAZIONALE FILOSOFICA ANCHE IN QUESTO CAMPO LASCIA. Protesta  l'autore  contro  le  grammatiche  di Biagioli  e  di Cerutti  impiastricciate  d'ideologia  Trasiana,  afferma  che  le  menti  dei  giovinetti  sono  immature  a  intendere  LA FILOSOFIA mentre  per  intender  questa  occorre  la  grammatica,  ma  LA FILOSOFIA cacciata  dalla  finestra  delle  regole  l'ha  fatta  ri-entrar  per  la  porta  delle  note.  E  finalmente  T ooserva  qui  che  quel  calore  che  quei  nostri  puristi senteno  per  la  bella  lingua  giova a  ravvivar  la  grammatica, in  modo  che  questa  non  è  neppure  quel  che  è  oggi  per  molti  una  cosa  parecchio  insopportabile.   Venuti  così  alla  rassegna  delle  vere  e  proprie  grammatiche  compilate  nel  periodo  di  cui  abbiam  cercato  determinare  i  caratteri, ci  risparmieremo  dall'esame  così  dei  trattati  particolari  come  de'  compendi  e  delle  compilazioni  di  seconda  e  terza  mano,  [Glottopedia  italo-sicula  e  Grammatica  dialettica,  in  cui  confrontasi  il  dialetto  siciliano  colla  lingua  italiana  in  ciò  che  disconvengono, a  buon  indirizzo  de’giovani  siciliani  per  evitare  i  SICILIANISMI grammaticali  ridotta  in  tavole  sinottiche  corrispondenti  ad  ogni  trattato  per  lo  can. seconda  della  cattedrale  di  Catania  Doti.  FULCI (si veda) pubblico  professore  di  lingua  italiana  nella  Regia  Università  ecc.  Catania, dalla  Tip.  della  R.  Università  per  Pastore.  Diamo  qui  in  nota,  come  abbiam  fatto  per  molti  continuatori  di  Soave  e Cesarotti,  una  breve  serie  dei  moltissimi  che, escluso  che  si  possan  far  tagli  netti, si  possono  riallacciare  alla  tradizione di  Cesari  e   Puoti. Regole  ed  osservazioni  della  lingua  toscana.  In  Genova  per  lo  Caflarelli (cit.  Da  Casarotti). Romola,  Delle  dieci  parti  del  nostro  discorso,  Carmagnola,  Agrati,  Il maestro  italiano  con  appendice  delle  voci  dubbie  compilate e  ridotte  informa  di  dizionario  ad  uso  delle  scuole  e  di  chi  ama  a  parlare  e  leggere  e  scrivere  bene  e  correttamente,  Brescia,  Bettoni [grammatica  e  vocabolario  trattati  alfabeticamente.  Ricorda  il  Pergamini].  De  Filippi,  Studio  di  lingua  del  fanciullo  italiano,  Milano,  Osservazioni  sull'uso  variante  dei  dittonghi  fatte  dai  padri  della  poesia  italiana,  Milano. Antolini,  di  Macerata,  Saggio  di  parallelo  di  voci  italiane;  trattato  della  lettera  J  e  del  doppio  I,  Milano    una  prima  parte  d'un'opera  di  cui   annunziato  il  programma.  Attribuisce  ai  dialetti  la  colpa  dei  doppioni.  Doppioni?  Sono  parole  di  forma  e  senso  chiaramente  diverse:  Abbatte,  Abate;  Accadde,  Accade,  e  che  nessuno  confonde.  Negli  altri  trattati per  fermarci  ai  quattro  principali  autori  che  sono  Gherardini,  Puoti,  Ambrosoli  e  Rodino,  tacendo  anche  qui  interamente  delle  grammatiche  italiane  in  lingua  straniera  per  uso  degli  stranieri.   Il    milanese  Gherardini   è    più   noto  specialmente  per  la    sua    riforma    ortografica  da    pochi    seguita    avrebbe  parlato  dei  nomi  d'unica  pronunzia  e  varia  ortografia,  di  voci  medesime  di  varia  pronunzia,  voci  di  doppia  vocalizzazione,  dell'/  e  ii  (Vj,  del  Z  (VI),  di monosillabi di vario significato (VIIj.  Difende  l'j  lungo,  e  dà un elenco alfabetico di voci parallele: Abbomini,  Abbominj;  Accusatori,  Accusatori  (da  accusatorio);  Acquai  (perf.  da  acquare,  Acquai  ecc.;  dividendoli  in  tre  classi. Voci  che  richieggono  la  finale  j;  Il  doppio  ii  (Abbondi,  Abbondii;  Accoppi  da  accoppare,  ecc.,  Accoppii,  da  accoppiare);  Le  due  terminazioni (Incendj  pi.  da  incendio,Incendii,  da  incendiare). GRECO (si veda)  (un  precursore  di PUOTI (si veda) e  degl’altri  classicisti  meridionali,  Avvertimenti  del  parlare  e  scrivere  correttamente  la  lingua  italiana,  Napoli (cfr.  Sanctis,  La  giovinezza); AMADI (si veda),  Dialogo della  lingua  italiana,  Venezia. Trovansi  ms.  nel  Cod.  Marc. BIAGIO (si veda), Istruzione  grammaticali  da  lui  dettate,  Cod.  Marc. Regole  ed  osservazioni intorno  alla  lingua  italiana,  Imola; LISSONI (si veda), Risposta  al  libercolo Aiuto  contro  l'aiuto  di LISSONI (si veda),  ossia  difesa  di  molte  voci  italiane  a  torto  proscrìtte,  Milano -- che  T. cita  per  ricordare  questa  polemichetta  e  accennare  che  anche  di  questo  tempo  si ha  una  colluvie  di  scritti  ortografici); AZZOCCHI (si veda) insegna  italiano  e  latino  al  Collegio  Romano  e  al  Seminario. Scrive  un  Elogio  di CESARI (si veda),  che  si  compiace  di  lui  come  di  suo  nuovo  seguace,  cfr.  Cesari,  Opuscoli,  ed.  Guidetti,  Avvertimenti a  chi  scrive  in  italiano  (Fra  noi,  dice,  è  questo  difetto  grandissimo d’educazione,  che  non  curiamo  punto  la  lingua  che  di  bellezza gareggia  eziandio  con  la  greca,  mentrechè  alle  lingue  morte  attendiamo  e  alle  straniere.  A  proposito  d’AZZECCHI (si veda) e  de’suoi  pari  nel  culto  della  lingua,  MAZZONI (si veda) (L’Ottocento)  osserva  giustamente. Il  nome  d'Italia  è  da  per  tutto,  anche  nelle  grammatichette  e  ne’lessici  per  i  ragazzi,  rivendicato  contro  il  forestierume  e  la  barbarie.  FALCHI (si veda)  (I puristi;  1.  Il classicismo  de'  puristi,  Roma)  vuole  fare  delle  riserve  e  mettere  le  cose  a  posto  sul  patriottismo  de’puristi,  e  trova  una  frase  felice  per  illustrare  la sua  filosofia,  dove  dice  che  questi  fanno servire il  concetto  di  patria  alla  causa  del  purismo:  non  viceversa.  Verissimo.  Pure  è  innegabile,  e  la  cosa  si  spiega  facilmente,  che,  nonostante che  PUOTI (si veda),  prendiamo  un  esempio  perspicuo,  si  dolesse  profondamente  di  non  poter  diventare  il  pedagogo  di  Rampollo  del  Borbone,    s’accorgesse  quali spiriti svegliasse nella scolaresca  il [un  di  codesti  è CATTANEO (si veda), onde  vuole ricondurre tutte le forme  alla  grafia  che l'etimologia  esige. Vana  ed  illogica  pretesa,  ma,  filosoficamente, non meno ingiustificata di quant'altre mirano a costringere  l'arte entro determinati  schemi  grafici più  o  meno  moderni, per  quanto,  naturalmente,  più  di  esse  ripugnante alla  coscienza  moderna  cui  è  meno  estraneo  quel  certo  consenso  formatosi  intorno  al  cosiddetto  uso  vivo.  Ma  l'attività  di  GHERARDINI (si veda) si  svolge  largamente  e  per  lunghi  anni  anche  nel  campo  stesso  della  grammatica,  concretandosi  in saggi  di  gran  lena  e  di  grossa  mole.  Comincia con  studi  lessicografici – la botanica linguistica Austin-Grice -- pubblicando  un  Elenco  d;alante  parole  oggidì  frequentemente in  uso,  le  quali  non  sono  ?ie'  Vocabolari  italiani.  Da alla  luce  una  Introdìizione  alla  Grammatica  italiana per uso  della  classe  seconda  delle  scuole  elementari:  facile  ma  elementarissima  esposizione  accompagnata  da  tavole  sinottiche e  da  un  modello  d'interrogazione  per  uso  de’maestri  che  suo  insegnamento,  resta  sempre  vero  quel  che  SANCTIS (si veda)  ha ad  osservare  e  altri  a  ripetere,  che  PUOTI (si veda) con  l'amore  e  la  cura  della  lingua  desta  il  sentimento  nazionale  in  tutta  la  gioventù  che  fa  poi. Saggi  critici,  Napoli. Il  viceversa  è vero  per  i  discepoli,  se  non  pei  maestri. BRENNA (si veda), Elementi  di  ortografia,  Treviso. GUASTAVEGLIE (si veda), Compendio  di  grammatica,  Perugia. È,  per  dichiarazione  stessa  dell'a.,  un  rimaneggiamento  del  Compendio  di  CHINASSI. FECIA (si veda), Aiittarello  a  parlare  faìnigliarmente   italiano,  Biella; CAMANDONA (si veda), Saggio  di  grammatica  italiana,  Torino; GRAVANTI (si veda), Grammatica  della   lingua,  Cremona; MANNUCCI (si veda), Grammatica,  Città  di  Castello; MELGA (si veda), Grammatica  compilata  sulle  opere  de’migliori  filologi  antichi  e  moderni,  Napoli. Cfr.  Borghini,  e  Rodino,  Osservazioni  sulla grammatica  di  Melga,  in  forma  di  lettera  all'a., Opuscoli,  Napoli,  di  cui  fan  parte  anche  l’osservazioni  sopra  il vocabolario  d’UGOLINI (si veda) delle  parole  e  modi  errati – “A nice derangement of epitaphs. Una  lodata  e  più  volte  ri-stampata Grammatichetta  compila  sulle  tracce  di  quella  di PUOTI (si veda) GIANNINI (si veda),  sul  quale  v.  T.,  C.  G.  in  La  Favilla  (Estr.,  Perugia).   La  Riforma  dell'ortografia  in  Alcuni  scritti,  Milano. CATTANEO (si veda) è naturalmente  disposto  a  seguire  il  sistema  grafico  etimologico  di Gherardini  dalla  propria  dottrina  filosofica  sul  linguaggio,  intorno  a  cui  è  da  vedere  ora  un'acuta  pagina  da Gentile, LA FILOSOFIA IN ITALIA, I  positivisti,  Le  origini, CATTANEO (si veda), La   Critica.] vogliano  assicurarsi  che  i  giovani  abbiano  ben  capito.  Usce a  Milano  la  più  importante  delle  tre  òpere  principali,  cioè l’APPENDICE ALLE GRAMMATICHE,  immensa  raccolta,  nella  sua  parte  non-apologetica  e  polemistica,  di  singole,  innumerevoli  osservazioni  grammaticali,  che  o  correggono  o  accrescono    il   vecchio   patrimonio della  nostra  grammatica.  Dopo l’avvertenza,  in  cui  trova  modo  di  pigliarsela  con  PUOTI (si veda),  autore  d'un  Dizionario de’ gallicismi,  consacra il saggio all'apologia del  suo  sistema LESSIGRANCO con   gl’argomenti  che  i  lettori  ben  conoscono. Svolge anche l'appendice  (che  appendice!)  alla  grammatica. Nel resto  chiarisce  alcuni dubj proposti  al  compilatore  e    altri  avvertimenti  lessigrafici con aggiunte.   Son  tutti  problemi  che  riguardano  l’uso  e  la  forma  di  particolari  voci  o  il  giro  d’un  costrutto. Nessun  principio  nuovo,  s'intende. Anzi  i  vecchi  principi   sono   ri-messi  a  nuovo  con  qualche   velleità  di  arguzia  e  d’eleganza. P.  es.,  paragona  l'ellissi,  la  famosa  ellissi, a  Poppea, la quale,  andando  velata, fa sì  che  la  sua  beltà  è aggrandita    dall’incitata    imaginativa    de’riguardanti. Né  sempre    la  spiegazione  giusta.  Il  passo  boccaccesco che  vedemmo  male  spianato  anche  da Cinonio,  non  ne  dov’io    certo  morire che  io  non  me ne metta a fare ciò  che  promesso v’ho, è  così  dichiarato  da Gherardini. Non  rimane che io mi metta a fare ciò che l’ho promesso,  se  anche    certo io  ne dovessi  morire -- che  non è  vero. Questi sforzi, peraltro,  di  tutti  i  grammatici  ed  ESEGETI [cf. Grice, “Love that never told can be”] per  sostituire  la  locuzione  o  costruzione rigorosamente  grammaticale  a  certe  irregolari   espressioni,  anche  quando   sembrino  aver  ottenuto  lo  scopo,  cozzano  irremissibilmente  contro  la muraglia cinese dell'impossibilità della sostituzione, e  confermano  sempre  meglio l'insostenibilità  della precettistica  grammaticale. Da che, se  non  da  questo  carattere  della grammatica,  derivano tutte le secolari  diatribe  circa  l’interpretazione di  singoli  passi,  di  singoli  costrutti,  di  singoli  significati, circa  il  riconoscimento  di  determinate  grafie,  che vediamo rinnovarsi  di  età  in  età?  Nel  corpo  della  nostra  grammatica ci  sono  parecchi temi   che  sono  ripresi  in  discussione  continuamente, in  modo  che  noi  vediamo,  p. es.,  un  ottocentista  ancora    (Cfr.  Zambaldi) rimproverare  a  Bembo  o  a Buonmattei  una  certa  formula. Mirando  ognuno  la  frammentaria  espressione  non  col  resto  dell'opera d'arte  di  cui  è  una  molecola,  ma  coll'archetipo  grammaticale che  si  contempla  nella  nostra  mente,  è  naturale  che  l'accordo il  più  spesso  manchi  e  che  le  discussioni  grammaticali  si  rinnovino di  continuo  anche  da  persone  colte,  d’artisti  provetti  che  non  sieno  riusciti  a  liberarsi  completamente  dall'ereditario  quanto  servile  ossequio  all'impotente  ma  riveritissima  dea.  Ma  il  moltiplicarsi di  tali  discussioni  è  anche  un  mezzo  potentissimo  alla  dissoluzione  della  grammatica:  e  Gherardini  con  un  gigantesco volume  di  Appendice  alla  Grammatica,  dimostrando  col  fatto  la  dilatabilità  del  corpo  della  grammatica,  ne  affretta  del  pari  la  morte.  Egli  è  il Salviati  dell'Ottocento. Minuto,  analizzatore come  lui,  come  lui  riassuntore  d'un  lungo  lavorìo  grammaticale e  esegetico,  sviluppa  come  lui  all'infinito  le  particolarità  lessicografiche,  ortografiche  e  sintattiche  della  lingua,  capovolgendo cosi  i  cardini  della  grammatica,  che  sono  le  regole,  e  sostituendoli  con  l'eccezioni.  Di  modo  che  l'opera  sua  finale  piuttosto  che una grammatica è un immenso materiale da costruzione, ma per costruirvi un edificio bizzarro dove tutti i pezzi meccanici adoperati dai singoli scrittori o da gruppi di scrittori sono ammucchiati e che non può aver mai né fine né unità. All’appendice seguirono la Lessigrafia, che rappresenta la forma definitiva del suo sistema ortografico, e le Voci e Maniere di dire  -- Grice, WOW – Way of Words -- additate ai futuri Vocabolaristi.  Proprio  l'opposto  dell'appendice  gherardiniana  per  condotta  e  architettura,  benché  ispirate  ai  medesimi  principi,  sono  le regole eleì7ientari  della  lingua  che  il  napoletano  PUOTI (si veda) pubblica. Il più  diffuso e  noto  e  fors'anche  efficace  dei molte  suoi saggi con  le  quali  intende  a  integrare  il  suo  altrettanto  ben  noto  e  efficace  insegnamento, che  impartì  in  modo  così  simpatico  a Napoli  a  scolaresche entusiaste  e  intelligenti  a  cui  furono  ascritti  uomini  quali  SANCTIS (si veda), MEIS (si veda), ed  altri  filosofi famosi.  Oratore  nelle  esequie  del marchese  di  Montrone  a Bari,  che  a  lui  consegna  i  suoi  saggi da  stampare,  dice  che  lo  piange  come  maestro,  e  ben  rammentò  come  egli,  discepolo,  anda  cercando  che  frutta nel  Mezzogiorno  d’Italia  quella  nobile  confederazione,  come la  chiamò,  che  in  Bologna  ha stretta  MONTRONE (si veda) con SAVIOLI (si veda);  di  cui  canta  nel  Peplo,  con Marchetti,  Costa,  Schiassi,  Giusti,  Strocchi,  e  Giordani :  preziosa  testimonianza  per  la  storia  del  Classicismo  e  del  Purismo  sceso  dall’Italia  centrale  nel  Mezzogiorno.  Dei  caratteri del  purismo  di PUOTI e  del  suo  insegnamento  non  occorre che  qui  ripetiamo  quanto  ormai  è  ben  noto.  Basta  che  diciamo qualcosa  della  sua  grammatica,  alla  quale,  come  dichiara egli  stesso  nella  prefazione  all'edizione  napoletana,  collaborarono  de’suoi  allievi  principalmente  SANCTIS (si veda)  e  RODINO (si veda), MELGA (si veda) e  FABBRICATORE e  che  basta  a  parecchie  generazioni non  del  solo Mezzogiorno come  lo  provano i  dodicimila  esemplari  che  gl’editori  della  ristampa  dell’edizione  livornese  dicono  essersi  esauriti  in  diverse  edizioni  fatte  in  Toscana,  in  Parma  e  in  Napoli:  grammatica  che  PUOTI circonda delle  cure  più  amorevoli  e  venne  correggendo  e  migliorando via  via  in  tutte  le  edizioni  che  egli  stesso  cura.   A  lode  del  buon  senso  didattico  di Puoti  dobbiamo  subito  ricordare  che  a  lui  non  sfuggirono  le  due  principali  condizioni  che  sole  giustificano  nel  campo  della  pratica  e  rendono  utile  la  grammatica. Che  essa  sia,  non  maestra  dell'arte,  ma  semplice  strumento  per  lo  studio  e  l'apprendimento  delle  lingue. Che  i  suoi  precetti,  perchè  riescano  veramente  utili,  siano  ravvisati  nelle  scritture  -- e  addita  tra  queste  come  meglio  accomodate  il  Governo  della  famìglia,  l’Antologia  di  prose  italiane,  i  Fatti  d’Enea.  Come  disegno,  la  grammatica  di  PUOTI  è  mirabile  di  sobrietà  e  d’armonia,  dati  non  affatto  spregevoli  in  un  libro  scolastico.  La  distribuzione  è  l'antica  -- etimologia,  SINTASSI, ortoepia e  ortografia --,  e  riflessa  bene,  quasi  quanto  il  contenuto,  lo  stato  della  linguistica  d’allora  e  dell’importanza  che  si  da  a  certi  problemi.  Il  prevalere  dell'etimologia  (o,  meglio, MORFOLOGIA) e  della  SINTASSI,  sull'ORTO-EPIA [cf. Grice on ‘correct,’ procedure – what is proper -e  sull’orto-GRAFIA  e  il  quasi  nessun  conto  fatto  della  fonetica  [cf. Grice, distinctive features of phonetic analysis of phonematic sequences] dimostrano  che  non  si  ha  alcuna  coscienza  del  problema  storico  della  lingua  e  che  tutto l’interesse è  ancora  il  puramente  formale  ORETTORICO. Mentre  il  persistere  di  questo  interesse  per  la  forma  e   l'uso  delle  pa[Mazzoni,  L'Otl..  Napoli] -role  quali  si  possono  riconoscere  negli  scrittori  pei  rispetti  della  purità  e  della  correttezza  fa  fede  dopo  tanto  lavorìo  grammaticale, dopo  la  crisi  filosofica  della  grammatica prescrittiva,  che  sopravvive  soltanto la  parte  puramente  empirica,  cessando  ogni  interesse  per  quella  filologicamente  storica,  sopravvive  cioè  la  grammatica  spogliata  d'ogni  elemento  filosofico  e  conoscitivo.  A  che  si  dove logicamente  venire,  e  il  fine  e  la  funzione  della  grammatica non  possoo non  esser  quelli  che  abbiam  visto  aver  riconosciuto Puoti.  Oggi  essa  non  si  studia  diversamente  ne  con  diverso  fine. Ed  è  presumibile  che  nel  futuro  si  seguiterà  a  fare  altrettanto.  E  se  alcuni  resultati  della  grammatica  storica  si  sono  incorporati  nella  moderna  grammatica  normativa  ed  altri  ancora  vi  si  includeranno,  ciò  potrà  forse  migliorare  il  metodo  d’esse  e  aiutare  l'apprendimento,  ma  come  conoscenza,  come  contenuto  conoscitivo,  storico,  rimarrà  sempre  estraneo  al  fine  della  grammatica,  che  è  quello  di  condurre  all'acquisto  della  lingua  da  adoperare  per  i  bisogni  pratici,  tant'è  vero  che  delle  grammatiche  per  gli  stranieri  quest’elemento  conoscitivo  è  assolutamente escluso. Pure  è  facile  avvertire  nel  contenuto  specifico  della  grammatica di Puoti  l' influenza  tanto  dei  precedenti  accertamenti  della  filologia  quanto  delle  tendenze  della  GRAMMATICA RAZIONALE UNIVERSALE FILOSOFICA;  com'è  naturale  che  vi è  tenuto  conto  delle  formule  trovate  dai  migliori  precedenti  grammatici,  da Bembo  a  Salviati  a  Cittadini, da  Buonmattei  e  da  Cinonio  a  Corticelli. Sicché  Puoti  ci  appare  come  un  diligente  vagliatore  di  quanto  è escogitato dai  grammatici  dei  vari  tempi  e  indirizzi,  un  disegnatore  sobrio  e  corretto,  un  espositore  chiaro  e  temperato  che  sa  bene  il  suo  fine  e  che  ha  coscienza  de’suoi  mezzi  e  del  proprio  metodo, e  perciò  esibitore  d'una  materia  che  passa  immediatamente  nel  cervello  de’discepoli,  osservabile  negli  scrittori  e  applicabile nelle  scritture  e  nella  parola  viva,  scartata  ogni  superfluità,  ogni  suppellettile  che  rivesta  carattere  scientifico  o  conoscitivo.  Vedasi,  p.  es.,  quanto  è  rimasto in  PUOTI  dei  trattati cittadineschi su  cui  tanto  si  travagliarono  per  sistemarli  didascalicamente  i  grammatici  posteriori;  quanto,  nella  sintassi,  di  tutte  le  categorie  della  grammatica  filosofica;  quanto,  per  la  morfologia,  di  tante  forme  di  nomi  e  di  verbi  e  d'altre  categorie  scovate  dai  più  minuti  ricercatori;  quanto,  per  l'ortografia,  delle  smisurate  trattazioni  precedenti. Su  tutto  sta  come  principio  dominatore  infrangibile  il  più  rigoroso  criterio  puristico.  Valga  d'esempio  l'osservazione  che  il  Puoti  oppone  alla  regola  del  luì,  del  lei  e  del  loro,  che    non  si  possono  usare  nel  caso  retto  ,  sebbene  <<  non  manchino  esempi  in  contrario  anche  del  buon  secolo  della  favella:    Ma  ora  che  la  grammatica  della  lingua  è  ben  fermata,  questi  esempi  voglionsi  tenere  come  errori,  e  punto  non  debbonsi  imitare.  Avvertiva  il  marchese  che,    se  l' ingegno  de'  discepoli  il  poteva  comportare  ,  s'incominciasse    per  bel  modo  a  far  loro  comprendere le  ragioni  delle  cose  ,  e,  come  già  vedemmo,  tollerò  che  il  suo  prediletto  discepolo  e  assistente  studiasse  la  grammatica  generale,  concessioni  strappategli  dalla  riverenza  in  che  ancora  era  questa  tenuta,  ma  nelle  sue  Regole  fu  soppresso  ogni  perchè,  e  tutto  dato  come  fatto  e  come  legge.   Concludendo,  diremo  che  la  grammatica  del  Puoti  è  l'espressione più  caratteristica  che  presero  le  dottrine  grammaticali ornai  trionfanti  di  questo  periodo. AMBROSCOLI,  comasco,  grande  ammiratore del  Giordani  e  del  Leopardi,  più  noto  per  il  suo  Manuale (edito  nel  31  e  rifatto  nel  60),  fu  meno  restio  del  Puoti  all'ammettere  un  po'  di  elemento  filosofico:  si  vuol  render  conto,  infatti,  del  come  sorsero  le  categorie  e  le  forme  grammaticali;  ma  in  questo,  lungi  dall'ispirarsi  agli  enciclopedisti  francesi,  egli  tornava  al  Buonmattei;  come  pure  adottava  il  metodo  lessicale  del  Cinonio  per  la  dimostrazione  dell'ufficio  e  dell'uso  pratico  delle  voci.  La  sintassi  appar  fondata  sul  principio  della  grammatica generale  e  particolare  nella  sua  divisione  di  regolare  e  irregolare  e  nell'accettazione  della  dottrina  dell  'ellissi:  ma  nella  sua  fisonomia  generale  come  anche  nella  maggior  parte  della  trattazione  questa  grammatica  dell'Ambrosoli  è  ormai  la  grammatica di  stampo  moderno;  tant'è  vero  che  è  stata  ristampata,  con  le  debite  modificazioni,  anche  qualche  decennio  fa.   Un  vero  ritorno  alla  grammatica  filosofica  sembra  avverarsi  con  quella  novissima    della    lingua    italiana  del    palermitano  Milano. Grammatica  nuovissima  della  lingua  italiana  "  ricomposta  da  Leopoldo  Rodino  per  uso  del  Liceo  arcivescovile  e  de'Seminari  di  Napoli,  sopra  quella  compilata  nello  studio  di  Basilio  Puoti.  Prima  edizione  fiorentina  rivista  da  un  Maestro  toscano",  Firenze,  Barbèra  Bianchi  u  Comp.] Rodino,  che  anche  si  è  ristampata  non  è  molto  e  vien  citata  come  autorevole,  meritando  forse  l'elogio che  il  Betti  le  tributò  di    lavoro  filosofico,  magistrale,  compiuto,  sebbene  non  le  siano  mancati  critici  acerbi  come Giannini.  Col  Rodino  si  dimostra,  quello  che  era  naturale  che  accadesse,  che  la  grammatica  empirica  aveva  dovuto venire  a  patti  con  la  ragionata,  la  quale,  spregiata  dopo  tanti  onori  ricevuti,  non  se  ne  poteva  andare  senza  lasciar  tracce:  e  le  tracce  ne  son  rimaste  nelle  grammatiche  moderne  specialmente con  la  famosa  analisi  logica  della  proposizione  e  del  periodo. Nella  Grammatica  popolare  della  lingita  italiana  tratta  dalla  grammatica  novissima,  manifestava  A  chi  legge  questa  sua  veduta: La  grammatica  si  può  insegnare  per  tre  differenti  modi.  L'uno  è  il  filosofico,  e  sta  nel  porre  alcuni  principi  di  logica,  da'  quali  si  facciano  discendere  come  conseguenze  le  regole grammaticali.  Questa  io  chiamerei  la  scienza  della  Grammatica ;  ed  è  lavoro,  eh'  io  mi  propongo  di  pubblicare  di  qui  a  qualche  anno.  L'altro  è  positivo  e  pratico,  ed  è  quando  si  raccolgono  tutti  i  precetti  di  quest'arte  applicati  alla  lingua,  e  derivati  dalla  logica,  ma  esposti  per  modo,  che  nulla  apparisca  della  loro  origine  filosofica  alla  mente  de'  giovanetti  non  ancora  capaci  di  lunghi  e  severi  ragionamenti.  Questo  secondo  modo  ho  io  tenuto  nella  mia  Grammatica  nuovissima.  Ma  non  tutti  possono  imparare  tutti  i  precetti  di  questa  Grammatica....:  quindi  Grammatica  popolare,  circa  al  qual  modo    a  due,  si  dee  por  mente.  La  prima  è  che  i  precetti  non  siano  mai    contro  alla  ragione  logica    contro  alla  verità  positiva  della  lingua.  L'altra  è  che  si  scelga  giudiziosamente  quella  parte  de'  precetti  che  è  più  necessaria  a  sapere,  e  contro  alla  quale  si  falla  più  generalmente  dal  popolo. Che  la  esecuzione  tanto  della  nuovissima quanto  della  popolare  sia  riuscita  opera  secondo  il  fine  pratico veramente  magistrale  per  l'agilità  e la chiarezza, nessuno Napoli. Cfr.   ftass.  crii.  d.  I.  it..    La  Grammatica  antica  e  le  moderne.  Osservazioni,  Viareggio,  Malfatti,  opusc.  recensito  in  Borghini. Giannini  vi  prende  posizione  contro  i  riformatori  della  grammatica,  difendendo  l'antica    nomenclatura  e  gli  antichi  metodi.   i4j  Firenze,  Barbèra,  Bianchi  e  Comp., Storia  della  Gr animai ica vorrà  negare  che  s' intenda  di  cose  didattiche,  e  il  favore  goduto  da  entrambe  l'attesta;  ma  questo  stesso  tentativo  di  adattare,  anzi  specializzare  la  grammatica  alla  varia  mentalità  degli  apprenditori,  stabilendo  de'  gradi  non  pur  nell'ampiezza  maggiore  o  minore  della  materia,  ma  nella  maggiore  o  minore  infusione  dello  spirito  filosofico,  come  se  ci  sia  un  vero  grammaticale  più  o  meno  potenziato  di  virtù  illuminatrice,  non  solo,  ma  affermando il  principio  che  questo  vero  ci  abbia  a  essere  anche  nel  grado  inferiore,  ma  senza  mostrarcisi,  se  può  riuscire  in  lode  del  maestro  che  s' industria  e  s'affanna  nell'escogitazione  di  espedienti sempre  meglio  e  specialmente  efficaci,  è  indizio  però  assai  grave  contro  la  stessa  grammatica,  scienza  che  si  stira  e  s' impolpetta a  piacere  altrui.  Infine,  questo  scolaro  del  Puoti  che  sorride  alla  grammatica  filosofica,  ma  si  regola  nel  compilarne  una  su  per  giù  come  si  regolava  il  maestro,  e  ne  escogita  un'altra  in  cui  la  filosofia  a  braccetto  dell'empirismo  sia  posta  in  servizio  del  popolo,  è,  grammaticalmente  parlando,  l' incarnazione  di  quel  periodo  di  crisi  e  di  transizione  e  della  filosofia  e  dell'empirismo, in  cui  il  popolo  -appunto  affermava  il  suo  diritto  di  partecipare al  banchetto  della  letteratura,  asserendolo  per  bocca  del   Manzoni. Verità,  necessità,  chiarezza  delle  regole  sono  pel  Rodino  i  requisiti che  deve  avere  una  grammatica.  La  verità  è  nella  logicità,  essendo la  grammatica  figlinola  piimogcnita  della  logica.    Ma  non  si  aspetti  per  questo  alcuno  di  vedere  in  questa  Grammatica  quelle  teoriche di  filosofia,  che  si  vorrebbero  da  certi  in  questo  secolo,  che  dicesi filosofico.  Che,  lasciando  stare  tutte  le  altre  ragioni,  questo  non  sarebbe  acconcio  a  quelle  tenere  menti  che  non  potrebbero  sostenere  difficili  principi  ideologici,  e  poco  utile  riuscirebbe  all'uso  della  parola,  la  quale  se  ha  la  sua  ragione  nella  ideologia,  ha  la  sua  forma  dalla  maniera  propria  di  ciascuna  lingua.  Adunque  lasciando  star  questa  maniera che  sarebbe  conveniente  ad  una  Grammatica  generale  o  meglio  alla  Ragion  della  grammatica,  bisogna  star  contenti  a  questo,  che  i  principi  cioè,  che  per  necessità  si  hanno  a  porre  nelle  regole  grammaticali, sieno  secondo  la  logica.  E  si  noti,  intanto, che  Y 'e tuttologia  vien  chiamata  l'analogia.  Così  che  la  sintassi  conserva  le  tre  parti  della  grammatica  generale:  collocazione,  concordanza, reggimento.  Naturalmente  la  proposizione  è  il  complesso  di  parole con  cui  si  esprime  quell'operazione  della  mente  che  si  chiama  giudizio. Tra  il  fragor  d'armi  che  la  Proposta  montiana  aveva  destato, il  Manzoni  era  venuto  componendo  il  suo  romanzo,  non  senza  esser  condotto  naturalmente  a  meditare  il  problema  della  lingua  sia  dalle  vivaci  discussioni  che  intorno  ad  esso  si  agitavano,  sia  dagli  ostacoli  che  si  figurava  aver  incontrati  nell'opera  sua  per  non  possedere  tutta  la  lingua  che  gli  sarebbe  occorsa  a  raggiungere  almeno  la  forma  approssimativa  del  suo  pensiero.  Sicché,  quando  diede  fuori  la  seconda  edizione  de'  Promessi  sposi  nella  nuova  veste  fiorentina  che  si  era  persuaso dover  ad  essi  indossare,  mostrando  un  esempio  pratico  della  necessità  e  bontà  della  tesi  di  cui  s'era  venuto  sempre  meglio  convincendo,  era  naturale  che  si  aprisse  un  nuovo  periodo di  ardenti  polemiche  intorno  a  quel  problema  dell'unità  della  lingua,  di  cui  in  quel  libro  aveva  praticamente  dimostrato qual  potesse  e  dovesse  secondo  lui  esser  la  soluzione.  La  storia  di  quest'ultima  fase  della  secolare  controversia  è  ben  nota  anche  nei  minuti  particolari  e  quel  problema  per  fortuna  è  stato  ormai  risoluto  nella  pratica  con  la  vittoria  della  dottrina  manzoniana,  vittoria  immancabile non solo per merito di questa e dei sostegni che ha,  ma anche  per  cause  sociali  che  non  importa  dichiarare;  nella  teoria  con  il  riconoscimento  della  sua  natura  non  filosofica.  Poiché  quella  di MANZONI (si veda)  non  è neppur  nella  sua  mente  e  non  puo  essere  una  tesi  estetica;  ma  semplicemente  un  vivace  lavorìo  di  pensiero  per  trovare  la  via  di  soddisfare  a  un'imprescindibile  esigenza  pratica  del  momento  non  pur  nei  rispetti  dell'artifizio  stantìo  della  vecchia  prosa,  ma  in  quelli  della  lingua  d' Italia  intesa  anche  come  mezzo  d'integrazione  della  constituenda  unità  nazionale. Colla  lingua  è  che  noi  formiamo  le  idee,  e  perfezione  di  lingua  è  perfezione  di  pensiero. Tutto  poi  quello  che  è  ordinato,  decente,  quello  che  giova  a  pensare  con  facilità  e  con  rettezza  produce nelle  anime  nostre  delle  disposizioni  preziosissime  alla  morale  virtù. Finalmente  qual  vantaggio  a  questa  bella  parte  del  mondo,  se  l'Italia  divenne tutta  d'una  sola  favella!  Che  maggior  fratellanza  non  crescerebbe  tra  noi  !  Che  aumento  alla  carità  della  patria  comune! .   Così  pensava  anche   il    Rosmini  i  Opere   edite    e    inedite    O,  meglio,  la  tesi  pratica  sorse  imperiosa  dal  suo  stesso  spirito  artistico,  ma  cercò  nella  speculazione  la  sua  base  critica,  tramutandosi  necessariamente  in  pedagogica:  resultato  triplice dell'elaborazione,  la  correzione del  romanzo,  la  negazione  teorica  della  grammatica  generale, le  proposte  di  mezzi  d’unificazione  linguistica;  criterio  dominante,  anzi  assoluto,  l'uso,  particolarmente il  fiorentino,  quale  lo  forma l'evoluzione  storica  dell’italiano  ed  in  cui  è il  maggior  consenso  di  tutti  i  parlanti  d'Italia. Il  punto  di  partenza  della  dimostrazione  teorica  di MANZONI (si veda)  è  il  concetto  di  lingua.  Le  lingue  sono complesso  di  vocaboli  soggetti  a  regole. Ma  ciò  che  le  fa  essere  quel  che  sono,  non  è  l’analogìa, intendi:  le  leggi  immutabili  e  universali  della  grammatica  generale,    bene  l’uso, le  regole  grammaticali,  in  lume Pedagogia  e  Metodologia,  che,  come  ben  dice  BORGESE è  maestro  in  FILOSOFIA  e  scolaro  in  letteratura  di MANZONI (si veda).  E  per  non  tornarci  sopra  altrove,  aggiungo  qui  che  ROSMINI (si veda) distingue  nella  lingua  la  materia  e  la FARINA. Quanto  alla  forma  della  lingua,  avverte ai  maestri,  il  fanciullo non  è  ancora  da  ciò. Perocché  la FORMA  della  lingua (“Pirots karulise elatically”),  cioè  la  SINTASSI – o grammatica -- esige  dell’intellezioni  d'un  ordine  molto  superiore  al  secondo. Gli  scritti di MANZONI (si veda)  sui  quali  fermiamo  più  specialmente  la  nostra  attenzione  sono  le  due  minute  dell'opera  “Della  lingua  italiana,” nell’Opere  inedite o  rare  pubblicate da BONGHI (si veda), Milano. Ma  teniamo  presenti  tutti  gli  altri  scritti  linguistici  raccolti  e  egregiamente  illustrati  da BERTOLDI (si veda)  nelle  Prose  minori,  col  corredo  d'un'abbondante  quanto  scelta  bibliografia.  Minuta  prima. Nella  seconda,  la  definizione  è  corretta  così. Materia  propria  d'ogni  lingua  sono  de'  vocaboli,  e  delle  FORME MORFO-SINTATTICHE E PURAMENTE SINTATTICHE O GRAMMATICALI applicate  ad  essi,  e  che  sono  comunemente  chiamate  ‘regole.’ Il  mutamento  è  stato  suggerito  dalla  necessità  di  tener  ben  distinti  tra  loro  nella  trattazione  il  vocabolario  e  la  MORFO-SINTATTICA, MORFOLOGIA, SINTASSI -- grammatica, -- mezzi  che  s'adoprano  per  rappresentare  qualunque  lingua  nel  suo  complesso. Abbiam  preso  qui  le  mosse  dalla  prima  minuta,  tanto per dare  subito  una  prova  di  quel  che è  la  seconda,  che  la  supera  specialmente di  rigore  metodico  e  maggior  precisione  dialettica;  e  noi  questa  terremo  a  nostro  fondamento,  benché  nella  prima  qua  e    nell'incertezza dell'espressione  par  che  si  scopra  meglio  il  pensiero  dell'autore,  il  quale  nella  seconda  ha  cura  di  mostrarne  di  mano  in  mano  e  seguirne il  progresso,  perchè  alla  fine  balzi  più  vivo:  è  l'arte  sua] ogni  Lingua,  dipendono  in  tutto  dall'USO,  come  i  vocaboli.  Così  la  dimostrazione  viene  a  constare  di  due  parti,  non  sempre  nettamente  distinte,  ma  rispondenti  alle  due  parti  fondamentali  che  ci  restano  dell'opera,  dopo  la  prima  che  serve  d'introduzione, Dello  stato  della  lingua  in  Italia,  e  degl’effetti  essenziali  delle  lingue,  e  che  trattano,  la  prima. Quale  è  la  causa  efficiente  delle  lingue,  rispetto ai  vocaboli e rispetto  alle  regole morfologiche, morfo-sintattiche, e puramente sintattiche -- grammaticali. La  seconda. Se  l’analogia  produce degl’effetti  necessari nelle  lingue,  riguardo  alla  parte  morfologica, morfo-sintattia, e puramente sintattia – o grammaticale.   Quest'ultimo  capitolo,  che  è  quello  che  più  ci  riguarda  qui,  contiene  la  critica  negativa  della  grammatica  generale,  cioè  la  parte  veramente  nuova  del  sistema  di  MANZONI (si veda). E  dall'esame  d'esso  ci  vien  messa  in  rilievo  la  profonda  differenza  che  intercede  tra  MANZONI (si veda) e  SANCTIS (si veda) nella  loro  comune  critica  grammaticale.  SANCTIS (si veda),  mente  filosofica speculativa,  muove  dalla  grammatica  per  andare  verso  la  scienza,  verso  l'estetica,  e  riuscì  a  vedere  tanto  quanto  basta  per  esser  libero  nella  sua  critica,  cioè  nella  manifestazione della  sua  vera  personalità  da  pregiudizi  teorici. MANZONI (si veda), anima  d'artista – grammatica pratica non speculativa --,  anda  dalla  TEORIA  verso  la  PRATICA,  verso la  tecnica, alla  ricerca  de’mezzi  dell'espressione,  o  meglio  combatte  per  vincere  quegl’ostacoli  che  ai  grandi  suoi  pari spesso  op[Minuta  prima. Ecco  tutta  la  materia  dell'opera  che  sarebbe  stata  in  tre  parti:  Principi  generali,  riconoscimento  del  fatto  particolare;  confutazioni  delle  obiezioni;  esame  de’sistemi;  tale  è  l'assunto,  e  tale  è  l'ordine di  questa  parte.  Nella seconda  s'esaminano  i  diversi  sistemi. Nella terza  si  tratta  de’mezzi  atti  a  propagar  le  lingue,  e  da  impiegarsi,  per  conseguenza,  a  rendere,  per  quanto è possibile,  comune di  fatto  in  tutta  Italia  quella  che  si dimostra  esser  la  lingua  italiana. Chi  ha presenti  tutti  gli  altri  saggi  linguistici di MANZONI (si veda),  s'accorge  che  il  libro  in  quel  che  ci  manca  non  è che  una  rielaborazione  e  sistemazione  di  quel  che  in  essi  è  contenuto.  Ma  è  sempre  a  dolere  grandemente  che  l'opera  rimane incompiuta.  – cf. Vio compiuta Aquino. Soccorrono  facilmente  alla  memoria  i  nomi  d’ALFIERI (si veda) e  LEOPARDI (si veda).  Delle  fatiche  del  primo  per  conquistar  la  lingua  italiana,  dell’elaborazione  tormentosa  dell’espressione  formale  delle  sue  tragedie, è  superfluo  dire.  Ci  piace  invece  riferire  un  pensiero  che  egli  esprime  a  proposito  dei  gallicismi da  lui  avvertiti  (Voci  e  modi  toscani] pone  la  lingua  come  passività,  come  cosa  morta,  vuole  insomma  parlare.  Il volgare  illustre  d’ALIGHIERI (si veda),  le  varie  grammatiche  e  la  correzione  dell’Orlando  Furioso,  l'USO  e  la  correzione  de'  Promessi  Sposi  di MANZONI (si veda),  sono  aspetti  diversi  d'un  medesimo  problema  spirituale,  il  bisogno  d'esprimersi  in  tutta  la  pienezza,  di  creare  la  propria  espressione;  nuove  teorie,  nuove  grammatiche,  rifacimenti,  polemiche,  tormenti  teorici  d’ogni  genere  accompagnano  fatalmente  quello  sforzo  inevitabile,  specie  ne’momenti  di  grandi  rivoluzioni  dello  spirito.  Grandi  e  piccoli  partecipano  calorosamente  a  tali  dibattiti. I primi  sciolgono il  problema,  se  sono  artisti,  non  con  le  teorie  che  costruiscono, ma  creando  capolavori,  se  sono  FILOSOFI CREANDO SISTEMI,  i  secondi  imitando  gl’uni  e  gl’altri,,  ripetendo,  ma  pur  dando  nel  loro  lavoro  complessivo  un  riflesso TEORICO di  quella  che  è  stata chiamata la creazione collettiva della lingua, perchè tutti che abbiano in sé una sola favilla di vita interiore collaborano allo svolgimento della lingua, e tutti vogliono rendersi ragione e asserire un piccolo dritto sul capitale comune. Così si può intendere, meglio che non si fa comunemente, il valore che la parola “uso” – cfr. GRICE ON RYLE use/usage --, tanto  frequente sulla bocca di MANZONI (si veda), ha nel suo discorso. L’USO è il parlar vivo, il con la corrisp. in lingua gallica e in dialetto piemontese, ed. Cibrario, Torino, Alliana -- nel Boccaccio. Le regole o inezie grammaticali debbono pell'appunto essere dai sommi scrittori più rispettate, perchè più grandezza d'animo si richiede per sottomettervisi che per disprezzarle (in  Fabris,  I  primi  scritti  in  prosa  d’ALFIERI (si veda), Firenze),  e  che,  lungi  dall'essere  una  banalità  o  un  paradosso, rivela  quale  importanza  ha  nella  coscienza  del  grande  artista  annunziatore  della  terza  Italia  l’ITALIANITÀ della sua lingua. Quell'omaggio alla  grammatica  è  un  omaggio  reso  al  nume  agitatore  del  suo  spirito  poetico. LEOPARDI (si veda) anch'egli  vuole  andare  ad  abbeverarsi  al  fonte  linguistico di  Firenze,  e  a GIORDIANI (si veda) che  l'ammonisce  non  esser  paese  che  parli  MENO ITALIANO di  Firenze,  risponde  piacergli  imparare  quell'infinità di  modi  volgari  che  spesso  stan  tanto  bene  nelle  scritture,  e  quella  proprietà  ed  efficacia  che  la  plebe  per  natura  sua  conserva  tanto  mirabilmente  nelle  parole. E  se  pur  allora  di  quell'andata  non  ne  è nulla,  risciacquò  però  anch'egli  più  tardi  le  sue  prose  nell'Arno,  sebbene  in  modi  diversi  da  quello  tenuto  da  MANZONI (si veda)  (Mazzoni,  Storia).  Giudicano  rettoricamente  di  lingua    GIORDANI (si veda) che  LEOPARDI (si veda), ma,  chi  guardi,  con  perfetta  concordia  col  proprio temperamento  spirituale.] parlare,  il  solo  parlare:  e  quand'  egli  sostiene  che  la  vera  causa  efficiente  delle  lingue,  l'unica  è  l'Uso,  in  fondo  non  dice  altro  che  questo,  che  il  parlare  è  il.  parlare:  di  codesta  causa  efficiente  egli  dovrebbe  pur  sapere  che  v'  è  un'  altra  causa  più  intimamente  efficiente,  che  è  lo  spirito:  su  questo  non  si  sofferma,  e  qui  è  la  parte  manchevole  del  suo  sistema;  il  che  vuol  dire  che  egli  non  ha  un'estetica,  una  filosofia  sua  del  linguaggio  vera  e  propria.  Ma  chi  metta  questa  sua  parola  Uso  o  Parlar  effettivo  in  rapporto col  suo  spirito  artistico,  vedrà  che  in  esso  l'Uso  s' identifica con  la  causa  generatrice  dell'espressione.  E  in  questo  è  la  superiorità  della  sua  dottrina.  V  ha  di  più.  Questo  propugnare l'Uso  vivo  del  popolo,  e  del  popolo  fiorentino  che  certo  fu  il  grande  collaboratore  della  lingua  nazionale,  che  altro  rivela,  in  sostanza,  se  non  una  viva  coscienza  che  il  Manzoni  avesse  dell'attività  spirituale  collettiva  onde  il  linguaggio  si  altera,  si  crea  ogni  momento?    Perchè  altri  facevano  della  questione  della  lingua  una  questione  storica,  dimenticavate  sempre  più  che  è  una  questione  atttiale  di  sua  natura,  dice  in  un  punto  ai  suoi  supposti  avversari,  e,  a  suo  modo,  diceva  una  verità.  Sicché  si  può  dire  che  egli,  pur  facendo  una  questione  pratica,  rasenta  sempre  il  vero  problema  scientifico  della  lingua.  E  se  n'  ha  una  conferma  magnifica  nella  critica  eh'  ei  fa  delle  leggi  immutabili  della  grammatica  generale,  dove  egli  riesce  ancor  più  nuovo  e  originale  e  limpido  negatore  che  non  fosse  il  De  Sanctis  medesimo. Potrei  citare  moltissimi  luoghi  che  dimostrano  eh' egli  intuiva  la  vita  spiritunle  del  linguaggio,  tanto  come  creazione  collettiva  quanto  come  creazione  individuale.  V.  specialmente  le  pagine  dove  afferma  che  la  causa  della  lingua  non  può  esser  che  una,  e  l'esempio  addotto  d'una  parola  del  Malherbe  che  diviene  francese  dopo  solamente  che  è  accettata  dall'Uso.  Sono  le  .  Ma  un  luogo  singolarmente  caratteristico è  il  seguente:    La  grande  operazione  dell'Uso,  l'operazione  essenziale,  permanente  e  omogenea,  quella  che  fa  viver  le  lingue,  è,  al  contrario,  quella  di  mantenere,  e  di  mantenere  incomparabilmente  più  di  quello  che,  in  ogni  momento,  possa  andarsi  mutando,  com'è  s'è  accennato  dianzi. Unico,  tra  tutti  i  letterati  italiani,  il  Manzoni  ha  comune  con SANCTIS (si veda)  la  conoscenza  intima  de'  grammatici    antichi  che  moderni, in  particolare,  s'intende,  dei galli.  Una  correzione notevole  di  storia  della  questione  della  lingua  è  l'aver  detto  nella  seconda  minuta che  della    lingua   italiana  si    va  dispu- [Di  negazione  in  senso  assoluto,  veramente,  non  si  potrebbe  parlare,  in  quanto  che  il  Manzoni  non  nega  l'esistenza  delle  regole,  cioè  d'un  fondamento  logico  del  linguaggio;  ma  sostiene  che  queste  regole  si  trasformano  via  via  sotto  l'imperio  dell'uso,  in  modo  che  esse  non  sono  universali    immutabili:  il  che  equivale  a  non  ammenterle,  tanto  più  quando  si  affermino  continuamente i  capricci  e  gli  arbitri  dell'Uso.  Negazione  è,  e  inconfutabile, quando  il  Manzoni  dimostra  con  ragioni  ed  esempi  l'arbitrarietà  delle  categorie  grammaticali  e  delle  loro  funzioni.   Dopo  dimostrato,  rispetto  alla  causa  efficiente  de'  vocaboli,    che  ciò  che  fa  essere  nelle  lingue  i  rispettivi  vocaboli,  sia  col  significato  che  si  chiama  proprio,  sia  con  uno  traslato,  sia  considerati ognuno  da  se,  sia  aggregati  in  locuzioni  speciali,  non  è  altro  che  l'Uso; e,  rispetto  alle  regole  grammaticali,   che  ogni  effetto  grammaticale  può  essere  ottenuto  con  mezzi  diversi;  e  che,  per  conseguenza,  l'applicazione  d'uno  piuttosto che  d'un  altro  di  essi  dipende  da  un  arbitrio, Manzoni  si  fa  a  confutare    l'opinione  che  l'Analogia,  per  una  sua  virtù  propria,  produca  nelle  lingue  degli  effetti  necessari, e  quindi  indipendenti  da  qualunque  arbitrio,  ossia  ad  abbattere  tutto  il  fondamento  della  grammatica  generale.    tando  da  cinquecent'anni,  mentre  nella  prima  aveva  detto  da  trecento.  Vi  volle  evidentemente  comprendere  anche  Dante.  Aggiungo  qui  a  suo  titolo  esclusivo  di  lode,  che  il  Manzoni  nelle  innumerevoli  esemplificazioni e  analisi  particolari  fa  anche  (e  in  che  modo!)  la  grammatica normativa!     Questo  canone    salva  la  forma  non  filosofica    potrebbe  esser  propugnato  anche  dalla  nostra  estetica,  se  per  arbitrio  s'intendesse la  libertà  dello  spirito.  E  quest'  identità,  occorre  avvertirlo,  il  Manzoni  non  pone  affatto;    tanto  meno  sospetta  egli  l'identità  tra  linguaggio  e  attività  fantastica:  il  linguaggio  resta  sempre  per  lui  qualcosa  di  estraneo  allo  spirito,  una  materia  fonica  a  cui  si  dia  un  significato.  L'eufonia,  p.  es.,  per  cui  si  appella  all'autorità  di  Donato,  è  per  lui    un  motivo  affatto  materiale  e  estraneo  agi'  intenti  razionali  della lingua:  laddove  per  l'estetica  moderna  ogni  minima  sfumatura  fonetica  deve  riportarsi  a  un  movimento  spirituale.  Il  Manzoni  riman  sempre  in  fondo  sotto  la  veduta  del  logicismo  e  del  dinamismo  meccanico. Per  analogia  il  M.  intende  l'applicazione  de'  medesimi  mezzi  esteriori  e,  dirò  così,  materiali  del  linguaggio  a  de'  medesimi  intenti  del  pensiero. Per  il  Manzoni  l'Analogia  è  impotente  a  dare  alle  lingue  legge  veruna,    circa  i  vocaboli,    circa  i  mezzi  grammatica/i, cioè  l'Inflessioni,  i  Vocaboli  che  fanno  un  ufizio  grammaticale, la  Costruzione,  in  altre  parole  le  Categorie  grammaticali  e  sintattiche.  Alla  confutazione  generale  serve  di  discussione  la  definizione  data  dal  Beauzée  nell' Encyclopédie  Mcthodìque  (art.  Analogia).  In  una  Nota  al  Cap.  IV  si  fa  poi  ad  esporre  la  critica  delle  parti  del  discorso  o  categorie,  passando  in  rassegna  i  vari  grammatici  antichi,  poi    quel  Giulio  Bordoni,  che  amò  meglio  usurpare  il  nome  di  Scaligero  che  render  celebre  il  suo,  il  Sanzio,  lo  Sdoppio  e  il  Vossio,  i  Portorealisti  Arnauld  e  Lancelot,  il  Buffier  e  il  Girard,  il  Beauzée,  determinando  con  molta  acutezza  la  posizione  d'ognuno  e  il  modificarsi  del  problema  delle  categorie  ne'  vari  periodi,  con  la  conclusione  della  sua  insolubilità.  In  un'Appendice  al  Cap.  Ili  discute    Se  ci  siano  de'  vocaboli  necessariamente  i?ideclinabili  ,  concludendo  anche  qui  per  l'insolubilità  di  tali  questioni,   perchè  derivate  da  una  supposizione  affatto  arbitraria,  cioè  che  tutti  i  vocaboli  di  tutte  le  lingue  siano  naturalmente  e  necessariamente  divisi  e  scompartiti  in  tante  classi  diverse,  o  parti  dell'orazione,  ciascheduna  delle  quali  sia  esclusivamente  propria  a  significare  una  data  modalità  degli  oggetti  del  pensiero, o,  come  dicono,  a  fare  una  funzione  speciale  e  distinta    (p.  305J,  e  esamina  con  opportuni  esempi  comparativi  tolti  da  lingue  diverse  le  questioni  particolari  della  pretesa  essenziale  indeclinabilità  della  preposizione,  dell'  avverbio,  della  congiunzione e  dell'  interiezione .  Infine,  dopo  toccato    d' una  restrizione  e  d'una  necessità  imposte  arbitrariamente  alla  Decliiiazione  ,  viene  alla  Conclusione,  sulla  scorta  della  quale  abbiam  creduto,  per  ragioni  di  brevità,  di  fare  il  riassunto  del  pensiero  manzoniano.   Gli  errori  particolari  di  alcuni  grammatici  circa  le  categorie  grammaticali  dimostra  che  hanno  un'origine  comune,  la  sopraddetta supposizione,  che  è  quella  medesima  su  cui  si  fonda  la  così  detta  Grammatica  generale. Ma  il  nome  di  Parti  dell'orazione  non  era  forse  solenne  da  secoli?  Non  erano    esse  state,  già  nell'antichità    greca,  oggetto    Cj  Di  questo  cita  V  Aristarchus,  sive  De  Arte  Grammatica] delle  ricerche  di  diversi  filosofi?  e  non  furono  poi,  senza  interruzione, la  base,  o  dirò  cosi,  l'ordito  delle  grammatiche  positive e  speciali  di  tutte  le  lingue  europee,  antiche  e  moderne,  e  dell'altre  lingue  più  note  in  Europa?  Quale  fu  dunque  la  scoperta per  cui  la  Grammatica  di  Porto  Reale  acquistò  e  conserva,  la  reputazione  d' aver  fondata,  o  almeno  iniziata,  una  nova  scienza? E. qui  il  Manzoni  spiega  come  poteron  sorgere  le  categorie  e  il  loro  variare  dai  filosofi  greci  ai  latini,  il  cui  carattere  è    la  mancanza  d'ogni  intento  sistematico.  Ci  si  vede  bensì  un  progresso,  o  piuttosto  un  aumento  successivo,  ma  occasionale  e,  si  può  dire,  empirico;  un'analisi  continua,  ma  che  non  è    lo  svolgimento,    la  ricerca  d'una  sintesi.    Se  a  qualcheduno  de'  filosofi  di  quel  tempo,  che  parlarono,  in  qualunque  modo,  di  parti  dell'orazione,  fosse  potuto  venir  in  mente  di  ordinarle in  un  complesso  scientifico,  pare  che  Aristotele  avrebbe  dovuto  esser  quello. Ma,  dai saggi  che  rimangon  di  lui,  appare  tutt'  altro. Continua  poi  fino  a  Prisciano,  che  ne  enumera  quattordici, lo  stesso  suddividere,  e  per  motivi  d’egual  valore.  L'intento  de’grammatici èsempre  pratico: indicare  le  regole  positive  dei  vocaboli. E  in  questo si  trovano  d'accordo  senza  fatica,  perchè  segueno  tutti  una  medesima  guida,  l'uso – Grice: “Ryle distinguished between use and usage. I don’t!” -- :  sfido  a  prenderne  un’altra  per  comporre  delle grammatiche  positive.  Anche quel  novo  e  artifizioso  edilìzio  filosofico che  è  la  GRAMMATICA SPECULATIVA di  Scoto, è  fondato sull’autorità  sottintesa  e  costrutto  sul  metodo  arbitrario  d’un  grammatico.  E  l’arbitrio è proseguito  da VALLA (si veda)  a BUONMATTEI (si veda).  Novo  e  notabile /w  in  questo  l'assunto  de’due  celebri  filosofi galli,  che  lo  fondarono  su  questo  principio. La  maggior  distinzione di  ciò  che  accade nel  nostro  spirito  è  che  ci  si  può  considerare  e  l'oggetto  del  nostro  pensiero,  e  la  forma  o  la  maniera  del  pensiero  medesimom che,  applicato  al  linguaggio,  li  conduce  alla  deduzione che,  avendo  gl’uomini  BISOGNO DI SEGNI o INDICI per  INDICAR ciò  che  accade  nel  loro  spirito,  la  distinzione  più  generale  de’vocaboli dev’essere  che  gli  uni  SIGNIFICANO gli  oggetti  o CONTENUTI de’pensieri,  e  gl’altri  la  FORMA,  o  il  modo  de’pensieri  medesimi.  Qui  MANZONI (si veda) trova  acutamente  che  una  supposizione  è  stata  sostituita  da  una  ricerca. Mentre i  fondamenti  dell'arte  di  PARLARE o CONVERSARE  dovevano   esser cercati altrove che  in  una distinzione de'  vocabili  in  due  categorie.  Ciò  che  da  origine  a  tutte  le  arbitrarietà  della  grammatica  generale.  Ed è  una  storia  lunga  e  superflua  quella  di  tant’altre  questioni  dello  stesso  genere  [di  quella  della  pre-posizione  non  pre-posizione  o  participio  non  participio  Excepté];  vai  a dire  se  tali  o  tali  altri  vocaboli  s’hanno  a  collocare  tra  gl’avverbi,  o  tra  le  pr-eposizioni, o  tre  le  congiunzioni,  o  tra’nomi,  o  tra’pro-nomi,  o  tra’verbi o tra pro-verbi.  Questioni non mai  sciolte, e,  MANZONI osa  dire,  insolubili,  perchè  con  esse  si  cerca  ne’vocaboli  una  qualità  supposta  arbitrariamente,  qual'è  l'attitudine esclusiva a fare  un  ufizio  grammaticale – cf. Grice on Gellner on Words and Things. Quindi ognuna  delle  parti  puo  avere  una  ragione;  nessuna  puo  aver  ragione.   Dalla  qual  conclusione  è  facile  concludere che  MANZONI (si veda)  colpe  a  morte  la  grammatica  generale,  ma  non  la  grammatica  simpliciter.   Come  tesi  pratica,  lungi  dall’esser  una  reazione  e  opposizione al  purismo  trionfante  di CESARI (si veda) come  quello  che  offre  un'unità  linguistica  da  seguire  di  contro  alla  nuova  barbarie  del  gallicismo e  alla  babele  della  LINGUA UNIVERSALE, la  teoria di MANZONI (si veda) ne è, non dico la continuazione, ma una trasformazione – cf. la grammatica trasformata – rivoluzione. Il  purismo  afferma  i  diritti  della  lingua  letteraria  e  dei filosofi posteriori  che  la mantenno  viva,  ossia  dell'unità  fiorentina  quale  si  è  stabilita. MANZONI (si veda) afferma  i  diritti  dell'unità  fiorentina  viva  e  PARLATA  in  quanto,  non  discordando  da  quel tanto di  fiorentino  ch’è rimasto  vivo  e  ch’è perciò  adoperabile  e  rappresenta  il  nucleo  che  gl'italiani hanno in  comune,  puo  essere  comunicata  a  tutti  e  bastare ai  bisogni  di  tutti,  cioè  diventare  con  la  maggior  facilità  e  precisione  la  lingua  comune,  universale  della  letteratura  e  perciò  dell’Italia.  Su MANZONI (si veda)  grammatico,  seguendo  l’opere  inedite o  rare  da  noi  esaminate,  scrive  una  memoria  ZOPPI (citato da VAILATI) nella  Miscellanea  per  le  Nozze  Biadego- Bernardinelli,  Verona. Il  che  viene  a  concordanza  con  quanto  osserva BORGESE (si veda) circa  le  relazioni  tra  il  purismo  classico  e  il  romanticismo. I  classicisti puristi hanno quasi  troncato  tutte  le  dispute  sulla  natura  storica della  nostra  lingua,  stabilendo  ch'ella  doves modellarsi  sulla  toscana,  o  meglio,  sulla  fiorentina;  se  non  che,  per  la  medesima  ragione che  la  poesia  esprime  sentimenti,  passioni,  opinioni  di  tempi [Le  opposizioni  di  genere  teorico  non  possono  mancare  alla  tesi  di MANZONI (si veda),  e  non  mancarono,  come  non  mancarono  le  calorose  difese. Intervenno  nella  disputa  anche  filologi  e  glottologi,  con  gl’argomenti  a  favore  e  contro  che  la  grammatica storica  puo  loro  offrire. Ma  dubitiamo  che  la  partecipazione di  non filosofi  al  dibattito  è stato  il  deus  ex  machina  che  è riuscito  a  risolverlo. Poiché,  se  i non filosofi  possono ben  chiarire  col  metodo  positivo  come  è  sorta  e  si  è sviluppata  la  lingua  italiana  intesa  come  evoluzione,  non  è  vero  che  con  questo  chiarano ancora  che  cosa  una  lingua  effettivamente  è. Il  problema  non  è  filologico. È FILOSOFICO. E  noi  sappiamo con  che  LA FILOSOFIA identifica  la  lingua – il deutero-Esperanto di Grice.  Nel  fatto  invece il  problema  di MANZONI (si veda) in  quanto  ha  di  pratico è  risoluto nel  senso  da  lui  voluto.  Che  cosa  vuole MANZONI (si veda)?  Quello  che  ottenne,  e  che  dirò  con  parole  di SANCTIS (si veda),  di  uno  cioè  che  non  prende  e  non  puo prender  parte  a  una  controversia  che  non  ha  per  lui  alcuna  portata    critica    FILOSOFICA.  MANZONI (si veda) rinnova  la  forma,  rendendola  popolare,  perchè  combatte  a  morte  la  forma  convenzionale. Distrugge  l'atmosfera classica. Vince  la  rettorica,  producendo  una  forma  semplice,  vera,  reale,  forma  cercata  nelle  viscere  stesse  del  popolo, forma ingentilita  con  tali  colori  accessibili   al  popolo. Su  questo  nuovo  fatto,  che  non è naturalmente  tutt' opera  di MANZONI (si veda) e  de’suoi  valorosi  seguaci  (son  troppi  per  citarli  tutti,  ma  qui  è  doveroso  ricordare  BONGHI (si veda), MORANDI (si veda), e,  benché  sia  manzoniano  temperato, OVIDIO (si veda)),  sorge  la  nuova  grammatica  italiana  oggi  adottata  nelle  scuole, cioè   la    gram[andati,  parla  anche  colle  parole  morte,  quasi  è  LATINA.  I  romantici mostrano  che,  se  la  poesia  vuole  imitare  il  vero,  per  vero  deve  intendere  quello  a  cui  noi  crediamo,  e  che,  se  ha  da  parlare  ai contemporanei e non ai defunti, deve usar di quelle parole che possono intendersi anche dai non dotti. Sulla dibattuta questione è pubblicato perfino uno speciale  periodico, “L'unità  della  lingua,” per cura di FANFANI (si veda), GELLI (si veda) e VESCOVI (si veda). Firenze.A titolod'onore dobbiamo qui registrare il proemio d’Ascoli nell’Archivio glottologico, che degnamente  combattuto dagl’avversari, solle la controversia alla maggiore elevatezza di discussione possibile. In Vivaldi] matica dell'uso, o della lingua parlata e dell'uso vivo, di cui avemmo tipi invero in qualche parte diversi. Il che chiarendo avremo assolto anche il compito che qui ci è riservato,  di  dar  conto  complessivamente  di  un  gruppo  di  grammatiche,  troppo  numerose  per  essere  singolarmente  esaminate,  e  troppo  uniformi  non  solo  nel  principio  che  lor  serve  di  base  ma  anche  nella  configurazione  loro,  non gran  che,  s’aggiunga,  differente  da  quella  che  ha la  grammatica  del  purismo,  per  meritare  un'analisi  minuta  del  loro  speciale  contenuto,  considerato  sopratutto che  non  scaturendo  esse,  come  invece  avvenne  dal  bisogno  di  rendersi  conto  della letteratura     bisogno  che  assume  aspetto  di  PROBLEMA FILOSOFICO     connettendosi,  come  si  avverò,  agli  sforzi  compiuti  dai  filosofi  del  linguaggio  per  intenderne  la  natura  e  insieme  le  tradizionali  categorie,  ma  solo  rappresentando  un  indirizzo pratico,  come  quelle  del  purismo  di CESARI (si veda),  vengono  a  perdere  individualmente  gran  parte  del  loro  interesse  in  una  storia  come  la  di T.  Trascurando  non  senza  ragione  gl’ultimi  epigoni  della grammatica del purismo, non esclusi quelli che sotto veste di novità in sostanza esponeno la medesima materia [Melgaj, e tacendo anche per amor di brevità di trattazioni particolari, che per certi rispetti si ricongiungono alla grammatica storica (CAMPO (si veda), Regole pella pronunzia italiana, e per altri che vertono più specialmente sulla SINTASSI tradizionale (Bulgarini e  Castagnola,  LA STRUTTURA DEL PERIODO – “We studied ‘Syntactic Structure’ with Austin!” – Grice --,  e  delle solite disquisizioni sullo studio o sull’importanza o SULLA PORTATA FILOSOFICA della grammatica generalmente prive di senso scientifico, noteremo che, se ben presto, dopo cessate completamente le polemiche rinnovatesi più vivacemente coll’elazione di MANZONI (si veda) e quando ormai i fatti cominciano a parlar da sé sorgeno e pullulano le grammatiche del principio dell'uso [cf. Little Oxford Dictionary, Fowler – Grice], invero quella ch’applica rigorosamente, cioè nel suo preteso esclusivismo m’in tutta la sua larghezza e in tutte le sue contemperanze, il concetto fondamentale di MANZONI (si veda), usce Trapani. Torino] relativamente tardi, e precisamente: ed è la Grammatica italiana diMORANDI (si veda) e CAPPUCCINI (si veda), non essendoci lecito dubitare, anche se non ce ne siamo convinti col nostro studio, di quanto essi affermano nell’introduzione. Più di ventanni fa, uno di noi  [MORANDI (si veda), in saggi incorporati in Le correzioni ai Pr. Sp. ], sostene come fosse ormai tempo  di rinnovare la grammatica italiana sul concetto fondamentale di MANZONI (si veda): concetto che l’indagini e gli studi filologici hanno sempre meglio illustrato e confermato. Ma questo voto rimane quasi del tutto inesaudito, come puo vedere chiunque confronti accuratamente il nostro lavoro colle grammatiche che si pubblicarono d’allora ad oggi. Cf. la Grammatica italiana dell'uso  moderno di FORNACIARI (si veda) e la Grammatica italiana di ZAMBALDI (si veda), la Grammatica della lingua parlata cogl’esempi cavati da MANZONI (si veda) di BONI (si veda), la Grammatica della lingua italiana di PETROCCHI. Son tutte pregevoli, come garantiscono i nomi degl’autori chiari e autorevoli quanto benemeriti e infaticabili cultori del nostro idioma. Ma il  principio dell'uso v'è stato applicato diremo così un po'all'ingrosso, con maggior simpatia verso l'uso letterario in quelle di FORNACIARI (si veda) e ZAMBALDI (si veda), con più libertà  -- cf. Grice contro Macaulay -- manzoniana, dirò così, nelle altre due. Scendere a particolari qui non possiamo, né ne mette il conto. È un giudizio che i lettori ci possono menar buono anche senza  prove, purché pensino ai nomi di codesti autori e alla diffusione che l’opere loro hanno ancora nelle scuole. Il nome di ZAMBALDI (si veda) e più ancora di FORNACIARI assicurano, per  es., d’un certo freno, quasi d’una remora prudente e ragionevole alla scapestrataggine grammaticale. Infatti le loro grammatiche si ristampano coi dovuti miglioramenti anche oggi, e sono meglio  accette ai maestri che vogliono sì l'uso ma colle debite cautele e restrizioni: gente che ha naturalmente molta fede nella grammatica come ausiliatrice della rettorica pegl’effetti del corretto e bello scrivere degl’alunni. Invece interamente manzoniana nel senso largo ch’abbiamo determinato, ma non ESCLUSIVAMENTE MANZONIANA, perchè vi si tien conto nella fonetica dei più  notevoli e certi resultati della gram- [Parma] matica storica, è quella di MORANDI (si veda) e CAPPUCCINI (si veda). I quali l'hanno caratterizzata meglio di quel che potremmo far noi. Posto come norma fondamentale l'uso civile fiorentino, senza punto occultarne, m’anzi mettendone in rilievo i rari e leggieri dissensi coll'uso vivo generale italiano, noi facciamo poi largo luogo anche  all'uso letterario, distinguendo il comune od ORDINARIO (Grice on Austin on Donne on Nowell-Smith) del poetico, o dell'antiquato, o dal pedantesco – Grice on Austin against VOLITION --,  ecc., e notando spesso ciò che di quest'uso sopravvive tuttora nel volgare, ossia plebeo – cf. Grice the lay --, di Firenze, o ne’vari dialetti. Sicché, quella parte storica della lingua, che anche  quando è addirittura morta, può alle volte essere ri-adoperata nello stile poetico, ovvero per ironia – “Methinks the lady doth protest too much” --,  o per ischerzo, o per altro, qui non solo non manca, ma ce n'è di più che in molte altre grammatiche, colla differenza però che ci si trova nettamente distinta. E a proposito di lingua, dobbiamo pur dire che dell'usata e usabile abbiam procurato,  negl’esempi e nel resto, di darne colla maggiore possibile varietà e ricchezza, senza però invadere il campo proprio del vocabolario, se non quando i vocabolari sono discordi tra loro, o addirittura in errore. Se spesso poi, specialmente rispetto all'uso vivo, noi ricorriamo ai forse, ai più o meno, ai d’ordinario, e simili, anche di questo la colpa non è nostra. Gli è che noi non vogliamo dar  per certo ciò che è dubbio, ne sostituire il nostro gusto alla realtà de’fatti. E i fatti, in ogni lingua viva, son di tre specie: ben determinati, e di questi noi diamo regole fisse; che si vanno determinando (“pirot”), e qui noi diciamo la tendenza, il più comune; ancora incerti, e noi notiamo l'incertezza (il deutero-Esperanto di Grice). Non vi par questa una pagina sinteticamente illustrativa  della dottrina di MANZONI (si veda) nella sua parte più  essenziale e praticamente attuabile? e, nel tempo stesso, non vedete qui disegnato l'ideale della grammatica  NORMATIVA?  della  grammatica che, conscia del suo modesto compito, vi spiana la via all'apprendimento della lingua che vi occorre o vi può occorrere senza mettervi né la catena a’piedi  né le manette?  La grammatica MORANDI (si veda)-CAPPUCCINI (si veda) chiude l'ultimo momento storico dello svolgimento di questo prodotto di cui siam venuti descrivendo le vicende, riflettendo in sé esattamente l'ambiente linguistico in cui si matura. Delle moltissime altre che le si sono succedute colla rapidità e frequenza onde l’imitazioni sogliono accompagnare l'opera originale, è superfluo qui spender  parole, anche se in qualcuna d’esse avessimo da segnalare particolari espedienti didattici, non essendo stato l’assunto di T. il far la storia dell’istituzioni scolastiche e dei metodi d' insegnamento. Ma lasceremmo una lacuna, se non facessimo un cenno dello sviluppo della grammatica storica, non perchè l'argomento rientri nel nostro tema, specie quando si consideri che la grammatica  storica si svolge in quest'ultimo suo veramente glorioso periodo affatto indipendentemente, come il suo metodo e i suoi intenti esigeno, dalla  MERA GRAMMATICA NORMATIVA   il che non accadde, p. es., quando il problema appare unico e intimamente connesso con quello della rifiorita letteratura nazionale    ma perchè la grammatica storica s' immischia nelle discussioni  intorno alla lingua, o meglio alla tesi di MANZONI (si veda) e, fuori di queste relazioni, vuole esser rappresentata non senza ragione nell’antica sezione della pronunzia e dell'ortografia, costituendovi un riassunto dei principali accertamenti della fonologia. BIANCHI (si veda) in quella sua lodata “STORIA DELLA PRE-POSIZIONE A E DE’SUOI COMPOSTI NELLA LINGUA ITALIANA” dichiara  d'essersi giovato di NANNUCCI (si veda), che da noi segna il passaggio dell'antica alla nuova scuola, e che ancora egli stima assai più di certi arrembati, i quali montati a cavalluccio sopra i Bopp, i Grimm e i Diez, si danno il facile vanto di far passar da ciuchi tutti i loro predecessori. Prima ancora di NANNUCCI (si veda), non manca un certo interesse  per  lo  studio storico della  lingua. CIAMPI (si veda) nel  suo DE VSTE LINGUAE ITALICAE SALTEM ripiglia la vecchia tesi di BRUNI (si veda) e CITTADINI (si veda) con molta dottrina ed erudizione, ma così, mi  pare, peggiorandola. LINGVAM ITALICAM extitisse APVD VETVS ITALVM VVLGVS, in multo ante, nec equidem repugnabo, saltem a saeculo R. S. Quinto. Eamque  ortam non tantum ab RELIQVIS LATINAE linguae cultioris, sed AB VNIVERSIS VETVSTISSIMIS ITALICIS DIALECTIS, dein, varie, variis [Una grammatica italiana a cui sottostà la coscienza della sua INCONSITENZA FILOSOFICA e che cerca d’attenuare i danni dell'eccessivo schematismo tradizionale è quella di RADICE (si veda), seguace  dell'Estetica  del  Croce, Catania] temporibus, adauctam latino maxime, et graeco sermone: tum edam quibusdam externorum vocibus. Post saeculum vero R. S. alterimi supra decimum, e triviis in aedes hominum elegantiorum successiti hinc et ad normam, libellumque redacta, scriptorum statu et praeceptis grammatices polita est. È il tono degl’eruditi, MURATORI (si veda), TIRABOSCHI (si veda), MAFFEI (si veda), del quale infatti Ciampi ri-pubblica Y ITALICA ehtaibratio hi idem argumentum, riassumendo e criticando tutt'e tre i nominati, che, nello sfogliare le cartapecore antiche, vedendo tante voci e modi della nostra lingua adoperati in tempi ne’quali si crede non sono mai sonati sulle bocche de’parlanti, sono stati condotti a veder chiaro nel problema lasciato insoluto dai precedenti  trattatisti: il primo    riferisco  CIAMPI (si veda), s'intende, conclude che la lingua italiana è derivata dalle rovine del latino, e che è parlata dal volgo; il secondo ridotto l'antichità dell'origine al periodo longobardico e riconnessala alle genti barbare più ch’alle latine; il terzo negato ogni straniera e particolarmente tedesca derivazione, mettendosi così sulla buona via di dimostrarla in  tutto d'origine latina sebbene con molte alterazioni della lingua dotta. Anche questa di CIAMPI (si veda) è un'esercitazione erudita, sebbene scende a particolari de usu verborum quæ vocant auxiliaria e di voci e costrutti volgari rintracciati nel latino antico e di vocaboli derivati dal  greco. Né  puo far fare un  passo al vecchio problema. Ma intanto lo mantiene vivo  ed è già  un  progresso e  lascia visibile l'orizzonte verso cui  avrebbero i posteri spinto così profondamente  lo  sguardo. Anche MANNO (si veda)  col  suo  fortunato  saggio, “Della  fortuna  delle  parole” contribuisce  a  tener  vivo  l’interesse  per  gli  studi  storici  intorno  alla  lingua;  e  le  stesse  polemiche  destate  dalla proposta  e  particolarmente  le  dissertazioni  di PERTICARI (si veda) e  de’suoi  contradittori  non  possono  non  considerarsi,  con  tutti  i  loro  errori  e  traviamenti  più  o  meno  spontanei,  non  possono  non  considerarsi almeno  come  caratteristici  episodi  nella  storia  della  grammatica storica. Tra  le  ricerche  d'indole  storica,  si ricora TOSELLI (si veda), ORIGINE DELLA LINGUA ITALIANA, BOLOGNA; BIONDELLI (si veda), ORIGINE E SVILUPPO DELLA LINGUA ITALIANA,  Milano; SICHER (si veda), ELEMENTI E STATI DELLA LINGUA ITALIANA, Trento.] La  quale  si  mise  finalmente  sulla  strada regia dell'indagine  metodica storico-comparativa, quando,  cessate le vane  logomachie,  le ricerche  complessive che  si  contentano di  raggiungere  un'idea  approssimativa delle  parentele delle  lingue  e  del loro stato in determinati periodi storici, pone sulla pietra  anatomica  il  vario  materiale  linguistico dei  gruppi  affini  mono-genetici  criticamente  vagliato,  e,  coi  potenti  aiuti  della  comparazione  e  delle  leggi  dell'analogia  e  de’suoni,  puo  stabilire  con  matematica  sicurezza le  derivazioni  dell’ITALIANO e delle lingue romanze dal LATINO popolare, fissarne le fasi e le condizioni e costituirsi così in corpo organico di dottrina capace d’ulteriori  modificazioni  ne’suoi  aspetti  particolari,  ma  stabilmente  fondato  su  basi  incrollabili,  s’intende  nel  senso  che  diamo  noi  a  queste  parole. Ricordare  i  nomi  e  le  date  più  notevoli  di  questo  serio  e  fecondo  lavorìo  che rappresenta uno de’caratteri più spiccati e più seri dell'erudizione ci è molto facile. Ci è permesso solo accennare qui che, di fronte ai celebri nomi dei fondatori della scienza positiva della lingua e della grammatica storica particolarmente ROMANZA, Bopp, Diez, e degl’ammirati maestri che ci danno la grammatica storica della lingua d’Italia, Meyer-Lùbke, e alle loro importanti  riviste e enciclopedie, Romania, Zeitschrift, Grundriss, ecc., l'Italia può vantare una schiera di valorosi filologi, dai compianti  CAIX (si veda), CANELLO (si veda) e  MUSSAFIA (si veda) a RAJNA (si veda), Crescini, Parodi, Gorra, Salvioni, Lollis, Biadene, Goidanich, Zingarelli, Lopez, Bartholomaeis, Bertoni, a molti altri, a Renier e Novati, benemeriti della filologia anche pel  Giornale storico, ad OVIDIO (si veda), sempre ricercato anche dai colleghi d'Oltralpe a collaborare in libri e periodici, a Teza, cui, come dice un nostro poderoso glottologo, Ceci, nessun territorio linguistico è sconosciuto, a Monaci che fonda riviste che gareggiano felicemente colle straniere migliori e ora è anima d'una fiorentissima e attivissima società filologica, stretti già quasi tutti intorno ad Ascoli, il glorioso fondatore dell’archivio glottologico. Tra i divulgatori della grammatica storica dell’italiano sono degni tra noi di menzione  Fornaciari e Mattio, che sono preceduti fuori da Blanc, la cui “Gratnmatik der italienischen Sprachen” ha ancora un certo valore pella dottrina delle forme. Se la grammatica generale, non mai del tutto rassegnata a  morire,  giacque  sotto i colpi e i sarcasmi della scienza della lingua, non mancarono tra noi tentativi d’una  FILOSOFIA della  GRAMMATICA – ragionata e razionale, ovviamente --,  e notevole è quellodi ZOPPI (citato da VAILATI), un rosminiano -- ROSMINI (si veda) -- acuto quanto dotto e diligente e anche garbato espositore. Il quale crede appunto di costruire una scienza della grammatica col  connubio della grammatica generale e della  scienza positiva del linguaggio, inconsapevolmente  ese- [T. ricorda il saggio  di  Starck,  Grammar  and  Language,  Boston,  fondato sulla  credenza  che  almeno  i  tre  gruppi  attuali  e  più  importanti  delle  lingue  indo-europee  sono  retti  da  comuni  principi generali;  e  i  numerosi  saggi  di  Grasserie  e  particolarmente “L’Essai  de syntaxe generale,” Louvain,  che  parimenti  a T. sembrano  ispirarsi  alla medesima  fede  nelle leggi  generali. Per  curiosità  T. ricorda  anche  una  ristampa  della  grammatica  ragionata di  COMPAGNONI (si veda),  “Grammatica scientifica, ossia la teoria  della  lingua  italiana  secondo  i  principi  naturali  del  linguaggio,” Milano,  e  Bert,  “Grammaire  rationelle  et  pratique  de  la  langue  italienne,” Paris. Inoltre: DONATELLI (si veda), Appunti  di  logica e  grammatica,  Venezia;  Fink,  Logisches  und  Grammatisches,  Progr.,  Ploen;  Peine,  Notes  sur  l’analyse  grammaticale et  logique,  Montemorency, Societé  amicale  des  proff.  elèni,  de  Paris  et  de  départ., Breve  contributo  agli  studi  logico-sintattici, e  nel  testo,  modesto  contributo  a  una SINTASSI filosofica  della  meravigliosa  lingua  di  quel  popolo,il  greco,  a  cui  nessuna  intuizione  manca,  è  il  sottotitolo  della  citata memoria  sulla  teoria  kantiana  del  giudizio  già  intuita  e  fissata  nella  sintassi  de’greci  di  PIAZZA (si veda),  il  quale  T. non  sa  quanto  si  è  confortato  a  proseguire  nell’ardua  impresa  dalla  recensione  parimente  citata  che  gliene  fa CROCE (si veda).  II vero fondatore della scienza del linguaggio intesa in senso IDEALISTICO è  Humboldt,  e sotto i colpi de’principi  di questa cade effettivamente la grammatica  generale. Ma si sa che il punto di  vista  humboldtiano è  spesso  smarrito  dagl’indagatori  della  parola  col  metodo positivo:  e  questi  non  sappiamo  quanto  possano  aver  da  ridire  sulla  grammatica  generale,  che  in  fondo  è  un  tentativo  di  filosofia  del  linguaggio. T. dice  qui  per  chiarezza  positiva  in  ordine  a  quanto  osservo  nella  nota  precedente.  Perchè  la  pubblicazione  del  frammento di MANZONI (si veda) è  posteriore al  suo tentativo  che  risale  agli  anni  quando ne’quali  lo  pubblica nella  Rivista La  Sapienza.] guendo  un  disegno  abbozzato  già  dal  Manzoni  stesso. Il miglior mezzo di farle cessare [le controversie sulla distribuzione delle parole nell’arbitrarie classi grammaticali] è una GRAMMATICA veramente FILOSOFICA, dice MANZONI (si veda), la quale, in vece di supporre nel fatto della lingua una simmetria arbitraria, cerca nella natura dell'oggetto della mente o anima – PSICOLOGIA RAZIONALE --, e nella  condizione imperfetta e necessariamente limitata della lingua, la spiegazione del fatto qual’è, vale a dire di quella molteplice attitudine di diversi vocaboli. Il campo della quale ricerca deve naturalmente essersi allargato colla cognizione più diffusa e più intima di lingue altre volte o ignorate in Europa, o studiate da pochissimi, e con intenti più pratici che FILOSOFICI. Si veda, per un  esempio, ciò che dice d’una di queste il celebre sinologo Rémusat. Molti vocaboli chinesi possono essere adoperati successivamente come sostantivi, come aggettivi, come verbi, e qualche volta anche come particelle. La FILOSOFIA della grammatica, dice ZOPPI (si veda), diversamente dalla grammatica generale, che pretende che certe forme o espedienti grammaticali sono cosi necessari ed inerenti a certe specie di vocaboli da costituire una teorica grammaticale assoluta, a cui devono conformarsi ogni lingua, confrontando i risultati della FILOSOFIA colle leggi psicologiche del pensiero, cerca l’origini, studia, ed espone il PERCHE di quelle forme grammaticali  che  si  trovano DI FATTO diversamente  svolte  ed  attuate nelle  diverse  lingue.  Essa  per  una  parte  è  l'applicazione della filosofia e la logica  alla  lingua,  ed  è  quindi  per  questo  rispetto  scienza cocettuale analitica A PRIORI. Ma  dall'altra è  fondata sulla  più  diligente  e  minuta  osservazione  -- “linguistic botany” – Grice -- dei  fatti  che  nelle  sue  molteplici  varietà  presenta  il  linguaggio, ed  è  perciò  anche scienza  induttiva  ed A POSTERIORI (“I don’t give a hoot what the dictionary said” – Grice to Austin). Laonde, la  filosofia  della  grammatica  dev’essere  il frutto  dell’accordo di  questi due  metodi.  La sola  logica  o l’analisi filosofico concettuale a priori  in  effetto ci da delle  generalità forse per alcuni troppo  astratte  e spesso apparentemente contradette dai  fatti,  come  è  avvenuto  delle  grammatiche  generali. La  sola  linguistica,  poi,  ossia,  la  critica  delle  lingue si sta paga a raccogliere e ad ordinare  dei  vocaboli  o  ad  accertare  alcune leggi di questo o di quell'idioma, ed a formarne delle [Opere inedite o varie; Manzoni  grammatico] famiglie  e  dei  gruppi,  senza  però  levarsi  mai  alla  sommità  di  principi  universali,  in  cui  deve  trovarsi  la  ragione  ultima di tutte le varie forme, onde  il  pensiero  s’attua e si plasma nella parola. Ma noi dubitiamo assai che ZOPPI (si veda)  con  tutto  il  suo  buon  volere  sia  riuscito  a  far  di  meglio  che  un  lavoro  di  natura  egualmente arbitraria,  vorremmo  dire  doppiamente  arbitraria,  com'è  quello  in  cui  si  uniscono,  anzi  si  confondono  due  sistemi, l’uno  de’quali  il  logico,  è  falso  e  arbitrario,  l’altro,  il  positivo,  è  semplicemente  metodologico  e  non  gnoseologico  e  che  si  giova  di  schemi  e  di  categorie  per  pura  comodità  pratica,  senza dare ad  essi  alcun  valore.  Due  punti  di  vista  sono  troppi  per  comprendere un  unico  fatto. Congiunti  in  un  terzo  non  possono  dare  che  un  nuovo  punto  di  vista  falso,  tanto  più  falso  in  quanto  tra  gl’altri  due  non  vi  è  intimità  di  rapporti  e  l'uno  è  più  insufficiente dell'altro  a  spiegar  da  solo  quell'unico  fatto.  E  il  vero  linguaggio,  il  linguaggio  come  creazione  resta  fuori  d'ogni  considerazione  sia  storica  (storia  letteraria)  che teorica (estetica).  Il superamento della concezione grammaticale della lingua e il concetto della vera natura spirituale e intuitiva d’essa si sono ottenuti in modo pieno e definitivo solamente ai nostri giorni coli 'opera capitale di CROCE (si veda), l’estetica come scienza dell’ESPRESSIONE e linguistica generale, che, riannodandosi  a VICO (si veda), a Hegel, a Humboldt nella  correzione integrativa di Steinthal, scioglie il problema identificando parola e intuizione e riferendo arte e lingua alla medesima attività teoretica dello  spirito, l’intuitiva o fantastica. Qui la grammatica ha finalmente la sua critica completa. Se la lingua è ESPRESSIONE e non esistono classi d’espressioni, la linguistica in quanto ha di riducibile a scienza è tutt'uno coll’estetica, e non  può davvero costruirsi sulle particolari teoriche che sono escogitate dell'interiezione, dell'associazione  [A  questo punto  ZOPPI (si veda) cita MANZONI (si veda), e tutto il brano è  riportato nel saggio su MANZONI (si veda)  grammatico  i La  filosofia  della  grammatica,  Verona. ZOPPI (si veda) alla  fine  del  suo  saggio    due  tavole  dimostrative, l’una  della  genesi  psicologica  delle  parti  del  discorso,  l'altra  di  quella  glottologica.] o convenzione e  dell'onomatopea,  mescolate insieme: e poi  che,  se la lingua è creazione spirituale, dev’esser sempre creazione (onde resta senza significato la distinzione del problema in origine e svolgimento), l’altra considerazione che  può  farsi  sul  linguaggio  non  può  esser  che  storico-artistica,  ogni  ESPRESSIONE essendo  un  individuo  artistico  da  studiare  in    stesso  e da rivedere e ricreare in noi col ricollocarci nelle condizioni storiche in cui si produce. Una terza considerazione della lingua, la logica, che consiste nell’elaborare logicamente il fatto estetico, che è di natura sua indivisibile, dividendolo in concetti e ricavando le categorie grammaticali del moto o dell'azione (verbo), dell’ente o materia (nome) eccr, se è lecita, è infeconda pella comprensione del fatto estetico, perchè in quella elaborazione esso è stato distrutto: e quelle categorie non possono valere come modi imitabili d’espressione, come formule e precetti  pella creazione artificiale della lingua. Una tecnica dell' 'espressione è un termine erroneo, contradittorio: e appunto tale è la grammatica normativa, il cui valore è semplicemente didattico. Una forte risonanza dell’estetica di CROCE (si veda),  per quanto riguarda la lingua, s’è avuta nel saggio di Vossler, Positivismo e Idealismo nella scienza della lingua, dove si conducono argute  polemiche contro recenti teorici della lingua e in bellissime particolari analisi è mostrata tutta la fecondità e la verità del principio idealistico propugnato da CROCE (si veda) e si traggono deduzioni importantissime pel metodo e il fine dell'indagine linguistica. Vossler trova nella lingua due aspetti distinti sotto cui dev'essere conformemente considerato: 1’uno del progresso assoluto, cioè dalla libera creazione individuale e teorica, 1’altro del progresso relativo, cioè dello sviluppo regolare e della creazione teorico-pratica collettiva condizionantisi a vicenda. Nel primo caso la considerazione è estetica o stilistica (cioè di storia artistica, o critica letteraria, o storia, semplicemente), nel secondo è storica o evoluzionistica (cioè di storia della coltura, [Con questo titolo  è uscita per i tipi del Laterza di Bari, e per merito di GNOLI (si veda), la traduzione] grammatica storica). Un terzo modo di considerar la lingua, puramente  positivistico o descrittivo senza valutazione  estetica o  spiegazione  evoluzionistica, non esiste. È teoricamente impossibile. Ossia quel terzo modo è la grammatica empirica e normativa,  sussidio didattico. Ma il sistema  idealistico  vige pienamente in entrambe le prime considerazioni. Anche nel momento del progresso relativo della lingua opera un’attività  spirituale. La  grammatica, quando è conoscitiva, è così sciolta o nella storia letteraria o nella storia della cultura, sempre cioè nella storia. Quando vuol esser normativa, e non più empirica ma FILOSOFICA e rigorosa, s’annulla nell'estetica. Col suo saggio  T.  spera d'esser riusciti a confermare la verità di tale sistema idealistico, applicandone i PRINCIPII alla considerazione d'un prodotto caratteristico dello spirito teorico ITALIANO studiato nelle condizioni storiche del suo svolgimento, nei suoi  rapporti cioè coll'arte e colla scienza. Un importante filosofo. Ciro Trabalza. Trabalza. Keywords: la grammatica razionale di Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trabalza”, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza -- Grice e Trabucco: FILOSOFIA SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia della salute – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Lirary, Villa Speranza (Caltagirone). Filosofo italiano. Caltagirone, Catania, Sicilia.  Non abbiamo grandi notizie della sua vita, della quale sappiamo solo che esercita con successo la medicina a Caltagirone, soprattutto durante l'epidemia. Per il suo contributo è creato nobile da Fernando d'Aragona. Alcune suoi saggi sono conservate nella biblioteca comunale di Caltagirone, città che gli ha anche dedicato una strada.  Saggi:  “De Morbis puerorum et mulierum.” Chaudon,  Dictionnaire universel, historique, critique, et bibliographique, v. Amico e Statella, V. M., Dizionario topografico della Sicilia, Palermo. Libro d'oro della nobilità dell'imperial casa amoriense, Roma,  s.v. Amati, Dizionario corografico dell'Italia. Trabucco. Keywords: salute, filosofia della salute. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trabucco” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Tragella: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazional dei caduti – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Trezzano sul Naviglio). Filosofo italiano. Trezzano, Milano, Lombardia. Studia a Gorla Minore, Milano, e Torino. Si occupa di serbare la memoria della battaglia di Magenta con la costruzione di una cappella espiatoria all'interno della chiesa per accogliere le spoglie dei caduti. Ricovero vecchi poveri Sito Lombardia Beni Culturali.  Viviani, cfr. Tunesi, Morani Le stagioni, op. cit.. T., Lettera a Murri in: Murri, L. Bedeschi, Carteggio. II. Lettere a Murri. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Le stagioni di un prete, Le stagioni di un prete, «Rivista di storia e letteratura religiosa», Viviani, Dalle ricerche la prima storia vera, Magenta, Zeisciu. Cesare Tragella. Tragella. Keywords: per i caduti. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tragella” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trapaninapola: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionle – filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Filosofo italiano. Trapaninapola. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trapaninapola” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trapè: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’umanità di Varrone -- -- filosofia marchese – scuola di Montegiorgio --filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Montegiorgio). Flosofo italiano. Montegiorgio, Fermo, Marche. Uno dei massimi studiosi della filosofia semiotica d’Agostino. Si laurea a Roma con una “Il concorso divino in Colonna” (Tolentino). Insegna a Roma. Promosse la fondazione dell'Istituto patristico augustinianum.  Fonda la "Biblioteca agostiniana" che si occupa della volgarizzazione di Agostino (Città Nuova) e il "Corpus scriptorum augustianorum", che pubblica le opere dei filosofi scolastici agostiniani.  Altri saggi: “Introduzione ad Agostino e le grandi correnti della filosofia contemporanea”, Atti del congresso Italiano di filosofia agostiniana, Roma, Tolentino; Varro et Augustinus praecipui humanitatis cultores, Latinitas Augustinus et Varro, Atti del Congresso di studi varroniani, Rieti) – VARRONE --; “Escatologia e anti-platonismo” Augustinianum, “Agostino, filosofo e teologo dell'uomo”; Bollettino dell’Istituto di filosofia (Macerata); Agostino: L'ineffabilità di Dio, in  «La ricerca di Dio nelle religioni (EMI, Bologna); “La Aeterni Patris e la filosofia”, Atti del Congresso Tomistico, Roma; Agostino, l'uomo, il pastore, il mistico” (Roma, Città Nuova); Patrologia, Casale Monferrato, Dizionario patristico e di antichità cristiana, Casale Monferrato, Introduzione e commento alla lettera apostolica «Hipponensem episcopum», Roma, Introduzione ad Agostino, Roma,  L'amico, il maestro, il pioniere, Cremona, apostolo della cultura. Agostino Trapè. Trapè. Keywords: la semiotica d’Agostino, Varrone, humanitas. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trapè” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasea: la ragione conversazionale della morale romana e l’implicatura conversazionale del diritto romano -- Roma antica – scuola di Padova -- filosofia italiana – Grice italico – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Padova). Filosofo italiano. Padova, Veneto. Nato da una famiglia illustre e agiata. Mantenne stretti legami con Padova, come dimostra la partecipazione ai festeggiamenti in onore del fondatore, Antenore. Nulla è degli inizi della carriera politica tranne contrasse matrimonio colla figlia di CECINA PETO, console suffetto. Il suocero è implicato nella rivolta di Lucio Arrunzio Camillo Scriboniano che mira ad eliminare Claudio e a RESTAURARE LA REPUBBLICA e pertanto e costretto al suicidio. Lo segue, sebbene T. avesse cercato di impedirlo, anche la moglie.  Probabilmente, dopo la morte del suocero, T. aggiunse il suo nome al proprio, prassi inconsueta per un genero, che può essere letta come un segno di opposizione al principato. Non abbiamo informazioni sulla cronologia della progressione di Trasea tra i ranghi più bassi del cursus honorum ed è possibile, ma non è affatto certo, che la sua carriera politica fosse ad un punto morto.  A seguito della morte di Claudio e l'ascesa di NERONE, l'influenza del precettore del nuovo principe, il filosofo Seneca, del Portico, gli permise T. a di divenire console suffetto acquistando nel frattempo l'importante amicizia del genero ELVIDIO PRISCO. Dopo il consolato, T. ottenne il prestigioso incarico di quindecim-vir sacris faciundis. Tale ascesa e, forse, aiutata dall'attività svolta presso le corti di giustizia né è da escludere una sua nomina come governatore provinciale in accordo alla testimonianza di PERSIO, amico e parente di T., il quale scrive di aver viaggiato con lui. Sostenne in senato la causa di concussione avanzata dai cilici contro il loro ex-governatore, COSSUZIANO CAPITONE, vicino al principe, che e condannato probabilmente proprio per l'influenza e la capacità oratoria mostrata da T.Si oppose ad una mozione con cui i siracusani chiedevano di superare il numero legale di gladiatori per i loro giochi censurando di fatto l'irrilevanza cui e giunto il senato.  Quando, poi, NERONE invia al senato una lettera – scritta da Seneca -- in cui giustifica l'appena compiuto omicidio della madre, T. e il solo ad uscire dall'aula affermando di non poter dire ciò che voleva e che non avrebbe detto quel che poteva, mentre molti dei suoi colleghi si congratulavano bassamente con Nerone. Il pretore ANTISTIO SOSIANO, che scrive poesie diffamatorie su Nerone, a accusato da Cossuziano Capitone, recentemente riabilitato in Senato su impulso del suocero di questi, TIGELLINO, di maiestatis. T. dissente dalla proposta di imporre la pena di morte sostenne la più lieve sanzione dell'esilio, conforme per il reato. La proposta è approvata con larga maggioranza nonostante il parere contrario di Nerone consultato prima della votazione ed il principe e costretto ad aderirvi per far mostra di clemenza. Al processo contro il pro-console di Creta, CLAUDIO TIMARCO, accusato dai provinciali di continui abusi, avendoli costretti a compiere frequenti voti di ringraziamento, T. censura il comportamento del pro-console. Fa approvare a maggioranza un senatoconsulto che però dove aspettare il placet del principe. E dispensato dal principe dal portargli i ringraziamenti, insieme alla delegazione del senato, per la nascita di una figlia. Tale gesto e, probabilmente, il preludio della fine anche perché TIGELLINO, tra i più influenti cortigiani di Nerone e ostile a T. essendo il suocero di Cossuziano Capitone, fatto condannare da T. stesso. Tuttavia, è noto che Nerone dice a Seneca di essersi riconciliato con T. e che Seneca si fosse congratulato perché recupera un'amicizia piuttosto che averlo costretto a chiedere clemenza. Dopo tale vicenda, T. si ritira dalla vita politica. Non sappiamo esattamente quando è presa la decisione ma TACITO fa dire a Capitone, in occasione del processo, che T. ha da oltre III anni disertato tutte le sedute del senato ma, occorre ricordare che la fonte è polemica e quindi poco affidabile. Non è noto neppure quale sia stato il catalizzatore di una tale decisione che contrasta apertamente con la sua vita precedente. Forse è la sua ultima forma di protesta al principe.  In questo lasso di tempo, T. continua a curare gl’interessi dei suoi clienti e probabilmente compose anche la sua “Vita di CATONE [si veda]”, in cui loda il sostenitore della libertà senatoriale contro GIULIO CESARE (si veda) con il quale condivide la filosofia del portico. Tale opera, oggi perduta, e una fonte importante per la biografia di Plutarco. Nerone, dopo aver violentemente represso la congiura dei Pisoni, decide di sbarazzarsi di chiunque sospettava ostile, e tra questi anche T. e Barea Sorano che da tempo detesta. Spinto da Cossuziano Capitone, decide di agire durante la visita del re Tiridate I di Armenia a Roma, come scrive sarcasticamente Tacito "quasi fosse atto da re", affinché passassero inosservate le vicende di due così illustri cittadini. L'accusa contro T. e assunta da Cossuziano Capitone e Marcello Eprio, mentre Ostorio Sabino si occupa di Barea Sorano. Dapprima Nerone esclude T. dal ricevimento in onore di Tiridate ma questi, anziché farsi prendere dal timore, chiede che gli fossero notificati i capi d'accusa e che gli fosse dato tempo di difendersi. Nerone accolge la risposta di T. con agitata premura e come mai prima d'ora comincia a temere la presenza, l'ardimento e lo spirito di libertà della sua vittima e pertanto comanda di convocare il senato. L'imputato, dopo aver consultato gl’amici, decise di non partecipare al processo per evitare che Nerone si incrudelisse anche con la moglie e la figlia e per non prestare orecchio all’ingiurie degl’accusatori. In tale occasione, inoltre, impede al tribuno ARULENO RUSTICO di porre il veto al decreto del senato affermando che una siffatta azione mette in pericolo la vita del tribuno senza salvare la sua. Il giorno del processo, il tempio di Venere Genitrice, luogo di raduno del Senato, e circondato da due coorti della guardia pretoriana. Iniziata la seduta, il questore legge una lettera del principe che, senza far nomi, accusa alcuni senatori di trascurare da tempo i loro doveri e di essere, pertanto, cattivo esempio anche per i cavalieri.  Gl’accusatori accolsero tali affermazioni come un dardo pronto per essere scagliato e subito Cossuziano si scaglia contro T. per essere seguito poi da Marcello Eprio il quale, con maggiore energia, grida che si tratta di LA SALVEZZA DELLO STATO ROMANO e che la longanimità del principe sarebbe venuta meno di fronte all'arroganza dei sottoposti e che fino ad ora troppo indulgenti sono stati i senatori nei confronti di T., di Barea Sorano, definiti faziosi ribelli. Non si ricordano discorsi della difesa ed in ogni caso i senatori, nel più profondo terrore per i reparti armati, non hanno altra alternativa che votare la condanna a morte nella forma del liberum mortis arbitrium ovvero l'ordine di suicidarsi. T. e ovviamente condannato a morte, il genero Elvidio Prisco e esiliato insieme agl’amici Paconio Agrippino e Curzio Montano. Gl’altri imputati, Barea Sorano e la figlia di lui, processati separatamente, seguirono lo stesso destino di T.. Al crepuscolo, T. intento ad intrattenere numerosi ospiti e ad ascoltare con molta attenzione il filosofo Demetrio, del CINARGO, con il quale discute della natura dell'anima e della separazione dello spirito dal corpo, riceve da uno dei suoi intimi, DOMIZIO CECILIANO, la notizia della condanna. A tal punto, esorta i più a non disperarsi e a ritirarsi in gran fretta per evitare di compromettere le loro sorti con la sua, poi persuase la moglie che, memore della madre, si prepara a seguire nella morte il marito, a restare in vita e a non privare la figlia dell'unico sostegno. Poco dopo, mentre T. si avvia al portico con un'espressione lieta, avendo saputo che il genero, Elvidio Prisco, è stato solo esiliato, giunse il questore a comunicargli ufficialmente la condanna. Si ritira, quindi, accompagnato da Demetrio e dal genero, nelle proprie camere, porse ad uno schiavo le vene di entrambe le braccia e, come il sangue scorse, lo sparse a terra libando a Giove liberatore sempre alla presenza del questore. Infine, dopo molte sofferenze, muore.  In Prato della Valle, Padova, è presente una statua che lo raffigura, opera d’ Andreosi ed eretta a cura della associazione padovana Excisa Civitas. T. è rappresentato in abito consolare, ai suoi piedi un piedistallo, simbolo della costanza con cui sostenne la sua impari lotta contro Nerone. È menzionato nel romanzo Quo Vadis di Sienkiewicz. È menzionato nel romanzo Memorie di Adriano di Yourcenar. Dione Cassio. Tacito. Plinio. Tacito, Historiae. Plutarco Moralia. Geiger. Statua di T. su digilander.libero. Cassio Dione Cocceiano, Historia Romana, libri LXVI-LXVII. Plinio il Giovane, Epistulae. Tacito, Annales. Brunt, Stoicism and the Principate, PBSR, Devillers, Le rôle des passages relatifs à Thrasea Paetus dans les Annales de Tacite, Neronia, Bruxelles, Collection Latomus Geiger, Munatius Rufus and T. on Cato the Younger, Athenaeum. Rudich, Political Dissidence under Nero, Londra, (Strunk, Saving the life of a foolish poet: Tacitus on Marcus Lepidus, T., and political action under the principate, Syllecta Classica, Syme, A Political Group, Roman Papers, Turpin, Tacitus, stoic exempla, and the praecipuum munus annalium, Classical Antiquity, Wirszubski, Libertas as a political idea in Rome in the late republic and early principate, Cambridge. T., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. MPortale Antica Roma   Portale Biografie Categorie: Retori romaniFilosofi romaniScrittori romaniFilosofi del I secoloScrittori del I secolo Romani Nati a Padova Morti a Roma Filosofi giustiziati Stoici Morti per suicidio. The wide circulation of the philosophy of the Porch among Romans of the upper class from the time of Panaetius to the reign of Marcus Aurelius is a familiar fact. Few Romans of note can indeed be marked down as committed ‘filosofi del portico’, and even those, like Seneca, who avowedly belongs to the school borrows ideas from other philosophies. Still, even if eclecticism is the mode, the ‘Porch’ element is dominant. The PORTICO permeates the writings of ‘filosofi’ like Virgil and Horace who professed no formal allegiance to the sect, and became part of the culture that men absorb in their early education. One might think that the Porch exercises an influence comparable, at Oxford, at in some degree with that which Christianity has often had on men ignorant or careless of the nicer points of systematic theology. It has often been supposed that it did much to humanise Roman law and government. That is a contention of which I should be rather sceptical, but it is not my present theme. I propose to examine the effects that The Porch had on men's attitudes to the Principate, the essentially monarchical form of government created by Ottavianus. Prima facie we might expect these effects to have been significant, yet it is not easy to discern exactly what they are. At the very outset an apparent contradiction confronts us. The Porch seems to be both upholders and opponents of the regime. The Stoic Atenodoro is an honoured counsellor of Ottaviano; Seneca the preceptor of Nerone and then one of his chief ministers, Marcus Aurelius Antonino a philosopher on the throne. Seneca exalts the autocratic power of the Princeps. Under Nerone, a ruler vigilant for the safety of each and all of his subjects, anxious to secure their consent, and protected by their affection, Rome (Seneca claims) enjoyed the happiest form of constitution, in which nothing is lacking to our complete freedom but the license to destroy ourselves. We may always suspect Seneca of insincere rhetoric and special pleading. But Seneca’s approval of monarchy in principle is shared by the honest Musonius, and Antonino clearly assumed that it was by divine providence that he had been called to exercise absolute power. And yet that perfect philosopher of the Porch, as Seneca calls him (Const. Sap.), Catone, died in defence of the old Republic, which Giulio Cesare had overthrown and Ottaviano had replaced. Cato’s conduct was still viewed as exemplary by philosophers of the Porch during the Principate. T. writes Catone’s life, and he is the centre of a circle, including ELVIDIO PRISCO and ARULENO RUSTICO, which offers the most intractable opposition to certain princes, opposition which was certainly ascribed to the teaching of the Porch. Nerone’s suspicions of RUBELLIO PLAUTO, a kinsman and potential pretender to the Principate, are enhanced by the allegation that he had adopted the Porch’s presumptuous creed, which made men turbulent and avid for power. Writing soon afterwards, Seneca himself admits that some thought, though erroneously, that the votaries of philosophy were 'defiant and stubborn, men who held in contempt magistrates, kings and all engaged in government', and he advises Lucilius to devote himself to philosophy, but not to boast of it, since philosophy itself, associated with arrogance and defiance, has brought many men into danger. Let it remove your faults and not reproach those of others, and let it not recoil from social conventions ('publicis moribus"), nor produce the appearance of condemning what it does not practise'? Though Seneca speaks of 'philosophy' in general, the context shows that he has in mind only that philosophy in which he thought the truth resided, the Porch. The second passage indeed may suggest that what endangers the Porch was not so much resistance to authority as censure of the behaviour common in the world, which made the Porch generally unpopular. Seneca had also admitted earlier that The Porch had the reputation, in his view undeserved, of excessive harshness, which was held to make it incapable of giving wise advice to rulers. It was under Gaius, Nero, Vespasian and Domitian that the Porch certainly suffered persecution. The last two princes actually expelled professional philosophers from Rome and Italy; Epictetus was among the exiles. Yet he too repudiates the charge that the Porch is opposed to authority. By reconciling the interests of the individual, truly conceived, with those of society, the Porch, Epitteto claims, produced concord in a state and peace among peoples. The Porch teaches men to obey the laws, but not to despise the authority of 'kings', though in his view neither laws nor kings could give or take away anything essential to a man's blessedness. On the other hand, the Stoic would not comply with the orders of 'tyrants', which conflicted with his own moral purpose. We might then infer that it was not political authority, nor monarchy as such, that the Porch rejects, but those rulers whose vile conduct made them 'tyrants',"' and that what the Porch – in a figure like T. -- admires in Catone is not his fight for the Republic but his rectitude and constancy. However, Vespasian was never reproached with tyranny, and ELVIDIO PRISCO, at least, whom Dio called a Republican, and whom Vespasian puts to death, must have had convictions by which an emperor could be judged in political as well as moral terms. The apparent inconsistency in the Porch’s attitude to monarchy is not the only ambiguity in their relations to the state. Seneca meets the charge of political defiance by replying that none are more grateful to rulers who preserve peace than philosophers who have retired from public life to the nobler activity of tranquil contemplation and teaching. Much writing of the Porch suggests that their teaching tended to promote not active resistance to government but entire withdrawal from political activity. Quintilian speaks of philosophers as men prone to neglect their civic duties. P. Suillius had contemptuously referred to Seneca's own 'studia inertia'. In the very passage in which Tacitus marks out ELVIDIO PRISCO as a Stoic he says that 'from early youth he devoted his brilliant mind to deeper studies, not as so many (plerique') do, to make the high-sounding name of philosophy a screen for indolent retirement ('segne otium'), but in order to undertake public duties, while fortified against the strokes of fortune. Evidently, in his judgement, the general tendency of philosophic training was to render men unfit for public careers by making them prefer the life of contemplation. Hence an ambitious mother, like Agricola's, would restrain her son from drinking too deeply at the philosophic spring. Indeed all writings of the Porch illustrate a certain tension between the claims of public activity and those of study and meditation (injra). We must, of course, distinguish sharply between Stoics who deliberately chose 'segne otium' from the start and those, like T., who retires from politics in such a way as to manifest their disapprobation of the government, even though such retirement could be justified by arguments that might rather have persuaded the believer never to enter the political arena. The former might by their indifference to the state deprive it of useful talent, but they constituted no danger to the regime. But we may wonder how a creed which encouraged such quietism could also be accused of making men turbulent enemies of the Princeps. To understand these apparent contradictions in the political attitudes of Stoics under the Principate, we must look more closely than historians generally do at the moral principles they embraced. All I can attempt here is naturally no more than a rather impressionistic sketch of those aspects of Stoic teaching which seem to me most relevant to their actual political behaviour, in office, opposition or retirement. This is no place for a systematic exposition of the logical and physical presuppositions of their moral creed, and indeed the Stoics of our period evinced no keen interest in the dialectical subtleties and doctrinal coherence of the system the earlier masters of their school had evolved. Rhetoric and devotion had largely replaced inquiry and argument. None the less their moral convictions continued to rest on metaphysical dogmata, however uncritically accepted. Like other philosophers, the Stoics assume that each man does and must pursue his individual happiness. This he can secure only if he conforms his life to nature, his own nature and that of the universe, of which his own is of necessity a part. In the impulses of animals and of children we can see how Nature herself directs living beings to seek what is conducive to life and to avoid what is contrary. Life itself and all that assists the proper functioning of the living creature belong to the category of things that are natural and therefore can be described as things of value. They include wealth, health and nearly all that men generally make their objects of endeavour. Now, man is endowed with reason, and reason shows that he cannot live in isolation. We are born for one another, and it is proper to our nature to prefer things of value for our fellows as well as for ourselves. However, experience teaches us that such things may not be in our power. If, then our happiness, or that of our fellows, were to depend at all on their possession, it would not necessarily be within our grasp, our minds would be filled with anxiety, and our failures to obtain what we desire would seem to be limitations on our freedom. But no man can be happy if he is not secure from anxiety and free. Now Nature must have designed our happiness, for all being is permeated by a substance the Stoics described as reason or the divine. This ruling element in the world, which causes all things to work together for good, is also present in our souls, and it is its presence that enables us in some measure to apprehend the providential order of the Universe. Our reason should also be the ruling element in our own nature, as it must be capable of directing us to that true happiness, security and freedom which nature impels us to seek, and which, given the rationality and beneficence of nature, it must be in our power to attain. Hence the so-called things of value cannot be truly good, simply because they are not always and necessarily in our reach. By contrast nothing can ever prevent us from constantly willing to do what is right, even though the resultant actions may fail to produce the effects intended; these effects are external to ourselves and do not or should not affect that permanent disposition of the soul in which our blessedness, security and freedom are to be found. The only true good, which reason prescribes, lies then in a virtuous disposition and in the activity that flows from it, and the only true evil is the lack of such a disposition, while the things of value and their contraries must alike be classed, to use the technical term, as things indifferent to us. Yet this leaves no criterion for identifying the particular acts the good or wise man will perform, and that criterion has still to be supplied by the things of value. Is The acts which were termed in Greek “KaOkovaand” in Latin “officia”, acts incumbent on men, which we may render as duties, even though the word has perhaps excessively Kantian overtones, consist in promoting states of affairs which will contain as much as possible of such secondary goods as health or wealth, and as little as possible of their contraries. We are bound to make the best calculations we can on the consequences of our acts, and to exert ourselves to the utmost in performing them. But we should always act with the reservation in our minds that what we seek may not be attainable and that its actual attainment is not per se good. A father will jump into deep water to rescue his child. But the goodness of his act is not enhanced if the child is saved, nor diminished if it drowns. Indeed, since the universe is providentially ordered, the death of the child, if it occurs, must be for the best. Chrysippus is quoted by Epictetus as saying that, so long as the consequences are not clear to me, I cling to what is best adapted to securing things that accord with nature; for the divine has created me such that I shall choose these things; but if I actually knew that it was now ordained for me to be ill, I would aim at being ill. Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni. As a good Stoic, Catone should not have fought against Caesar, if he could have foreseen Caesar's victory. But lacking this foresight, he could still be subjectively right; and the admiration a Stoic could express for Cato is not in itself incompatible with acceptance of the regime for which Caesar's victory had prepared the way. For the Stoics only the wise man has an understanding of nature so complete and a disposition so unchangeable that he will never do what is not right, and only his actions are truly successful or good. Others may perform the same actions, but in a way that is somehow flawed. However, the wise man, as Seneca remarked, is as rare as the phoenix. Not even the great Stoic teachers pretended to the title. Most of their statements about his conduct may then be understood as the presentation of a model for others, and in fact the Stoics did not hesitate from the first to lay down rules for the guidance of ordinary beings. In such prescriptions they continued to attach value only to the purpose of moral activity, and not to success in performance. The fullest discussion we possess of their teaching on men's duties is to be found in Cicero's “de officiis,” the first two books of which are avowedly based on a treatise of Panaetius. But though Panaetius, who departed in various ways from the doctrines of his predecessors, did not care to describe the ideal sage and expressly turned to the duties of men in whom perfect wisdom was not to be found but whose conduct might still manifest the semblances of virtue ('similitudines honesti'), his concern with this topic was certainly not new. Moreover, there are some indications that Stoics extrapolated the concept of perfect virtue from the conduct of ordinary men which commanded universal approval. Orazio on the bridge could not be called truly brave, because he was no sage. Yet, his heroism gives an idea, by analogy, of what tcourage is. Thus Stoic practical morality was founded on commonly received opinions. While every man is bound to be of service to his fellows, the particular services he should render vary with his special relationships to them. From the first orthodox Stoic thinkers enjoined specific duties on the husband, father, slave-owner and so forth. Tacitus alludes to this practice when he describes ELVIDIO PRISCO as steady in performing all the duties of life, as citizen, senator, husband, son-in-law and friend. Epictetus and others conceive such duties as arising from the place in the world, the station or military post (Tá§is, statio) to which each individual is appointed, and which may limit, as it always defines, the kinds of action incumbent on him; though a life of virtue is open to all, even to slaves, what a man can do determines what he ought to do; for instance, if he is poor, he cannot hold office or endow his city with fine buildings (Ench.). But how do we identify these specific duties, which are given to us by our place in the world? If you are a town-councillor, says Epictetus, remember that you are one; if you are young, that you are young, if old, that you are old, if a father, that you are a father; on reflection each name invariably suggests the appropriate tasks. These tasks can, I think, only have been regarded as obvious if they were those conventionally expected from the persons so designated, and in fact Stoics seldom recommend acts that would have violated conventions. All that Epictetus himself tells a provincial governor is to render just decisions, to keep his hands off others' property, and to see no beauty in another man's wife or a boy or a piece of gold or silver plate. Epictetus does not go far beyond the maxims of abstinentia and integritas, always accepted, if often infringed, by the Roman ruling class. In fact he adds that we ought to look for doctrines that agree with but give additional strength to such common notions of duty. The great mind, as Seneca puts it, is intent on honourable and industrious conduct in that station in which it is placed. The good man does not change the rules, but obeys them more strictly. In another metaphor the Stoics employed the world was viewed as a stage in which each man had to play a part (persona, mpóocov). Panaetius exploited this metaphor in connexion with a doctrine he himself seems to have transferred from aesthetic to ethical theory, that there is a kind of moral beauty, called in Greek pétrov and in Latin decorum, which 'shines out' in virtuous activity, even in that of the man still imperfect in wisdom. It would not be germane to my theme to attempt to expound this doctrine in full, but two points are important. First, just as the physical beauty of a living creature must be attributed to the due relation of all the parts to the whole, so the moral beauty of a man's activity lies in the order and coherence of all his words and deeds, and just as the correct delineation of a figure in a drama depends on the suitability to his character of what he does and says, so in real life men must aim at maintaining the consistency, 'constantia'' or 'aequabilitas, of their conduct. But while the dramatist may properly portray the wicked man, on the stage of life we are all bound to play the role of rational beings subject to the moral law. None the less, the manner of the performance must vary from man to man." Besides the role which is common to all Panatius distinguished three others. The first arises from the individual's special inborn endowments, which he must develop to the full, so far as they are compatible with virtue, and his natural disabilities, which limit what he can do, the second from his position in the world, the third from the choice of a vocation that he is bound to make on the basis of his capacity and of the resources at his disposal, but which tends to commit him for the future. Thus a Roman of rank might choose to be a philosopher or a jurist, an orator or a soldier; having made his decision, he should normally carry it out to the end. For Panaetius it is only by recognizing the potentialities and limitations imposed by his own personality and circumstances that the individual can avoid those inconsistencies in conduct which would mar the moral beauty of his life. 'It is of no avail to contend with nature or to pursue an end you cannot reach'. Similarly in Epictetus' view, 'if you assume a role beyond your ability, the result is that you perform it disgracefully (hoxnuóvndas) and neglect the role you were able to fill. To thine own self be true, And it must follow, as the night the day, Thou canst not then be false to any man. Secondly, according to Panaetius, moral beauty, like physical, attracts the approval and love of other men. Indeed that approval comes to be regarded as a criterion for determining whether particular actions really do manifest 'decorum'. We ought to respect the opinions and feelings of others. Hence deportment, polite conversation and other matters of social etiquette become the subjects of moral precepts. Manual labour is condemned as unbefitting the free man. Even the liberal professions are pronounced below the dignity of an aristocrat. In general the conventions of the upper class society to which both Panaetius and Cicero belonged are unquestioningly accepted. We are told that for actions to be performed in accordance with custom and civic practices no rules need be prescribed. These practices are the rules, and no one should make the mistake of thinking that he has the same license as Socrates or Aristippus to transgress them. It was only their great and superhuman virtue that gave that privilege to them. This teaching justified Romans in treating their own traditions as equivalent to moral laws. It is no accident that the Stoic RUBELLIO PLAUTO 'respected the maxims of old generations' in the strictness of his household, or that Seneca admires the mores antiqui in which Romans had always tended to find the secret of Rome's greatness. The very use of the term “officium” to render Kankov had a similar effect. In common speech “officum” could mean both the kind of service which social conventions expected one man to render another, and the function of a magistrate, for example, or a senator. Its use in ethical theory suggested that such a service or such a function constitutes a moral obligation. Cicero illustrates Panaetius' doctrine of the special duties imposed by a man's individual personality from the suicide of Cato. Not every one would have been right to kill himself in such circumstances. Cato was justified because he had always held that it was better to die than to set eyes on a tyrant; his'constantia' left him no choice. Plutarch, who drew directly or indirectly on a firsthand account, shows that Catone consciously acted on this view. For Catone, death is the only way out. His son might live, but being also a Catone, should not serve Caesar. Others might make their peace with the victor and incur no blame. An anecdote in Plutarch's life of Cicero tells us that Catone also held in that while he himself could not honourably have abandoned his consistent opposition to Caesar, Cicero, whose past conduct had been very different, would have done better to remain neutral in the civil war. Catone’s conceptions are certainly known to the circle of T., whose own life of the hero may be Plutarch's immediate source. When they debate whether T. should appear in the senate to answer the capital charges against him, the question is essentially what course it is fitting – “deceret” -- for him to take, if he were to be true to the course of behaviour he had pursued without a break for so many years. Another man even within his circle is not bound to the same intransigence. Similarly, his friend, PACONIO, says that any one who so much as thought of going to Nero's games should go, but his own 'persona' did not allow him to consider the possibility. ELVIDIO PRISCO is for Epictetus the shining example of a man who was true to his persona. This sort of conception is indeed ascribed to men who are not known to have embraced the Stoic creed, just as the word 'persona' is sometimes used unphilosophically in a way compatible with Panaetius' doctrine but not derived from it. These are further indications that his doctrine corresponded closely with the thought and behaviour natural to traditional Romans. The concept is found in ORAZIO as well as in all the later Stoic writers, Seneca, Musonius, Epictetus and Marcus (and indeed elsewhere); though sometimes they think more of the special duties that were imposed on the individual by his place in the world or his vocation than of those which flow from his inborn propensities and disabilities, a few texts show that that part of Panaetius' doctrine was not wholly forgotten. The idea of decorum also survives in the attention still devoted to etiquette, to seemly ways of walking, talking, laughing, dressing, behaviour at the table and even in bed, for all such behaviour was considered an outward manifestation of the disposition of the soul. It is characteristic that Epictetus would rather have died than shaved off the beard that symbolized his role as a philosopher. In all these precepts we find the assumption that the moral law required performance of traditionally accepted duties and respect for conventions. After telling his readers that the poet can discover how to treat his personae appropriately by learning the duties that belong to the citizen, friend, father, brother, host, senator, judge and general, Horace adds: respicere exemplar vitae morumque iubebo doctum imitatorem et vivas hinc ducere voces. For the Stoics a virtuous disposition necessarily issued in virtuous activity. All had to perform their duties within that City of Gods and men which was not a city in any ordinary sense, nor a world-state that might one day be brought into being, but the providentially ordered Universe in which all live here and now. However, political activity could certainly be included among these duties. From the first the Stoic fathers had taught that the wise man would take part in public affairs, if there were no hindrance. Indeed it was a famous Stoic paradox that only the wise man was a king or statesman; he alone possessed the art of ruling, whether or not he had any subjects, just as only the doctor has the art of healing, even if he has no patients. His principal aim in politics would be to restrain vice and encourage virtue, ' although he would also necessarily be concerned with the 'things of value' and would treat wealth, fame, health etc. as if they were goods. But it could hardly fail to influence his attitude to such objects of endeavour that he was always to remember that his efforts to promote them might fail, and that failure or success was unimportant; they were not truly goods. As Epictetus observed, 'Caesar seems to provide us with profound peace... but can he give us peace from love or sorrow or envy? He cannot'. And yet blessedness comes only from such spiritual peace. In the real world, according to Chrysippus, all laws and constitutions were faulty. He once despairingly said that if the wise statesman pursued a bad policy he would displease the gods, if a good policy, he would displease men. So too Seneca could suggest that there was no state which could tolerate the wise man or secure his toleration. However, such pessimism did not represent the final judgement of the Stoa. It was recognized, most emphatically by Panaetius, that the state answered human material needs and fulfilled men's natural and reasonable impulse for co-operation." It would hardly have been consistent with the Stoics' faith in providence if all or most existing states had been irremediably evil. Did not the mere existence of any given form of institutions perhaps imply that those institutions served a worthy purpose in the divine economy? At any rate there is no evidence that Stoics condemned any political system as such; for instance what they disapproved of in the tyrant was not his absolute power but his abuse of it. We are told that it was particularly (though not exclusively) in states that exhibited some progress towards perfection that the wise man would be active. Progress must here be construed in a moral sense, of states that tended to imbue their citizens with virtue. Old Sparta apparently evoked Stoic admiration, because of the strict and simple life prescribed by Lycurgus. Sparta was also most often cited as an instance of that mixed or balanced constitution which won the approval of many ancient thinkers, perhaps above all for its stability. In the individual stability of purpose was for Seneca a mark of moral progress, s and perhaps stability was also a Stoic criterion for judging constitutions. Certainly we are told, without explanation, that the old Stoics preferred a mixed constitution. Panaetius is often held, with no certain proof, to have commended the Republican system at Rome for its balance,' and the historical work of his illustrious successor, Posidonius, was probably biased in favour of the Roman aristocracy. At Sparta Cleomenes I, who professed to be re-establishing both the old austerities and the old political balance, enjoyed the assistance of a Stoic counsellor. Cato could probably have cited Stoic texts to justify his struggle to preserve the Republic. On the other hand Stoics did not condemn monarchy in theory. Some scholars even suppose that they gave it their special approbation. No doubt rule by a Stoic sage would have been in their eyes the best form of government. That may be one reason why several of the early Stoic masters wrote treatises on kingship. Yet, given the rarity of the sage, it must have seemed a remote possibility that if he emerged at all, he would also happen to obtain sovereign authority. Probably these treatises were intended to depict the perfect ruler as a model for contemporary kings. Conceivably, like Seneca in the de clementia, their authors did not insist over much on the gulf that divided actual rulers from their ideal. Moreover, a philosopher had the best hope, so it might seem, of effecting what he thought right as the minister of an autocrat, and since kings enjoyed great power in the Hellenistic world, Stoics who were ready to engage in political activity entered their service; this was only natural. However, once the aristocratic Roman Republic had become dominant, they were no less prepared to attend and advise men of influence at Rome. Panaetius was an intimate of Scipio Aemilianus, and Tiberius Gracchus and Cato had their Stoic counsellors. Only after Augustus did monarchy become the one system towards which for practical purposes a Stoic needed to define his attitude. The precepts and examples of the early masters of the school did not require him to reject it on doctrinal grounds; how indeed could he have done so, without impugning the dispensations of Providence? At a merely empirical level Tacitus reluctantly conceded that it was in the interest of peace that all power should be conferred on one man; he had been anticipated, a century earlier, by Strabo, who was an avowed Stoic. Seneca argued that the struggle for Republican freedom had been futile, and not only his career but those of T. and Helvidius, men of firmer resolution, indicate that their principles did not lead these Stoics to condemn the Principate as such. The wise man would not be hindered from participating in public life by any form of government, yet under any form he might conceive that he had a higher duty to a vocation of philosophic investigation and teaching his fellows by precept and example, besides fulfilling the obligations of private life." And under any form he might also see that he had no opportunity for effective political action, because of the wickedness of those in high places at the time. The doctrine that the goodness of every act lay in the disposition from which it was performed and not in its results did not require Stoics to engage in an undertaking doomed to fail ab initio; the wise man would not take a leaking ship to sea, nor, if unfit to fight, enlist in the army. Under a tyranny he simply could not do any service. As for the ordinary man, there were reasons why he might abstain from public affairs which did not apply to the sage. By definition the latter had already attained to that perfect understanding and virtue to which others at best aspired. But the pre-occupations of a busy public career might be sufficient of themselves to prevent imperfect men from ever reaching that goal. Seneca could hold at times that it was justifiable for a man to retire from long public service to private duties and to care of his own soul, at times that the whole of his life was not too long for this task, all the more because his example could be beneficial to others. The sage too was impregnable in his virtue, which he could hardly lose, but in other men moral progress might be impeded by what St. Paul calls 'evil communications' (I Cor.). Moreover, even when arguing that a man should normally undertake public duties, Seneca concedes, in a way reminiscent of Panaetius' emphasis on individual endowments, that he might be debarred not only by his physical, intellectual or pecuniary resources but also by his temperament; he might be too sensitive or insufficiently pliable for life at court, too prone to indignation, or to untimely witticisms that showed high spirit and freedom of speech but would only do the speaker harm. Again, as Panaetius had also held, he might be suited only to contemplation, not to public affairs; and 'reluctante natura, irritus labor est'. None of these considerations applied to the sage, who was omnicompetent and impervious to what others would regard as insults or injuries. Seneca's views on the propriety of a political career are self-contradictory, but the assumption that these contradictions can be explained simply by the hypothesis that he recommended otium only when his own political prospects were impaired and political activity only when himself engaged in public affairs, hardly fits the fact that we find the same antinomy in the sermons of Epictetus and the Meditations of Marcus. Seneca's advocacy of quietism reflects one important aspect of Stoic influence. Epictetus recognizes of course that men are bound to perform the duties that arise from their social relationships, but he is much more insistent on the ultimate worthlessness of all those secondary goods to which activity in the world is inevitably directed. A man of a certain station should take office, but it is wrong for him to set his heart either on holding it or on freedom from its cares; it is significant that he should think it necessary to warn his pupils against yielding to both these kinds of pestic Ofeis i a is les kiy Fallivan my police it cno doubt because no good man would submit to the humiliations on which advancement depends;? the few whose aim is to bring themselves into a right relation with the divine earn the mockery of the crowd, and they can hardly pursue their aim as procurators of Caesar. Epictetus was himself a former slave with no chance of a public career, but it is plain that his audiences were mainly drawn from the upper class, some of them aspirants to a career at Rome, like the young Arrian who took down his words.' In fact Epictetus' own low social station and the academic character of his way of life may have made him less conscious of the dangers of evil communications than Seneca had been, even though two of his diatribes are devoted to the theme (n. 69). We also find a greater serenity in his teaching than in Marcus' reflections. When Marcus looked back to the time of Vespasian or of Trajan, he saw a world in which men were engaged in flattery and boasting, suspicions and plots, praying for the death of others, murmuring at their own lot, given to sexual passions, avarice and political ambition. It was the same in his own court. More than once he dwells with loathing on the dark qualities of those who surrounded him, the emptiness of their aims, their longing for the death of 'the schoolmaster', though he had so greatly toiled, prayed and thought on their behalf; indeed death would be a release, the more merciful, the earlier it came. However, Marcus had his duty to perform; he was set over mankind as the ram over the flock or the bull over the herd (ibid). No other vocation (inó®ois) is so suited to philosophy, that is to say, to the exercise of a reason which has accurately established the rationality of nature and of all that life contains. But it is evidently by a conscious effort that Marcus reconciles himself to the place Providence has assigned him, and he can also say that his role impedes him in the pursuit of philosophy." The general character of his Meditations shows that his inclination was to ponder on the divine order and his own relation to it rather than to consume his energies in 'the daily round, the trivial task' which, nonetheless, furnished him on his own principles with all his reason required him to ask. Those principles taught him that the wise man would serve the state, if there were no external hindrance. But an autocrat could plead no hindrance, so long at least as his natural capacities permitted him to render good service. All the same we can see how a man of Marcus' temperament, set in some lower station, must have preferred that life of contemplation which in the end Seneca had pronounced the best. Thus the more seriously Stoic teaching was accepted, the more ardent in some minds must have been the desire for retirement and meditation, at most combined with the performance of inescapable private duties. Whether Stoics commonly yielded to this desire, as some of their critics averred (p. 9), we cannot say; our records can hardly be expected to commemorate lives of quiet seclusion; Sextius is a rare example, known by name (n. 10). It is with others that we must henceforth be concerned, men who thought themselves bound by their principles to enter public life, who believed what Seneca once said (ep. 96, 5),'vivere militare est', and who tried to play the part, or to occupy the station, to which they had been called by birth and ability. This Stoic concept of the individual's station was applied, as Koestermann showed long ago, to the emperor himself. Augustus seems consciously to have adopted it, probably under the influence of the Stoic Athenodorus; this was known to such panegyrical writers of the time as Ovid and Velleius. Claudius too appears to have spoken of his station, and in his reign and Nero's the notion is found in Seneca and Lucan. Tacitus referred to Vespasian's station, Pliny to Trajan's. Pius himself also employed the term. It survived into the fourth century.? Curiously, Koestermann failed to observe that the idea is implicit in Marcus' Meditations. Pius, according to Marcus, always acted in the way which had been appointed for him. He exhorts himself to let the god within him be lord of a living being, who is a male, a Roman, a ruler, who has taken up his post, as one who awaits the signal for retirement from life, fully prepared. He has to carry out the task set him like a soldier storming the breach. Similarly he speaks of his 'place' in the world, or of his 'vocation'; like all men, he has tasks to perform, proper to his own constitution and nature, and 'as Antoninus, my city and fatherland is Rome'; he must be strenuous in doing his duty, acts of piety and benefit to men, like Pius before him. He is a sort of priest and servant of the gods, and this makes him, rather like the Pope, a servant of men; he regards his life as a 'liturgy' or as 'servitude'. Long before, Antigonus Gonatas under Stoic influence had described kingship as 'noble servitude', and Seneca had applied this to Nero's position. But what were the particular duties that Stoics attached to the station or role of the emperor? According to Seneca he is to be 'vigilant for the safety of each and all'. He belongs to the state, not the state to him.® Seneca recommends Nero to win his subjects' consent, respecting public opinion 3 and freedom of speech,* and to observe the laws. Under the good ruler justice, peace, morality ('pudicitia'), security and the hierarchical social order ('dignitas') will be upheld, and economic prosperity will be assured.& The greatest stress is of course laid, for reasons not hard to discern, on clementia. But it is everywhere implicit that the emperor should be guided by traditional standards and objectives accepted by his subjects. Marcus accepted similar criteria. Marcus adjures himself to do everything as a pupil of Pius, to emulate his justice, beneficence, clemency, piety, frugality, his respect for the opinions of others combined with firmness and foresight in making his own decisions, the purity of his sexual life, his mildness and cheerfulness, his civilitas, and so forth. Marcus himself continually reflects on two themes, the providential order of the world and the duty incumbent on all men to perform acts of fellowship (praxeis koinônikai), a duty that springs from man's place in that order." This creed undoubtedly supplied him with a deeper sense of the value of the virtues that Pius had exemplified, not least his untiring devotion to work. 'Rejoice and take thy rest in one thing, proceeding from one social act to another, with God in mind' (VI 7). There was no novelty in all this. For instance, Hadrian's procurators had proclaimed the 'indefatigable care with which he is unceasingly vigilant for the interests of men'. Fergus Millar has illustrated at length the standard of personal industry which was expected of emperors, though (I suspect) not as often reached as his more unwary readers might suppose. Dio tells us that Marcus himself was a hard worker who applied himself diligently to all the duties of his office, who never said or wrote or did anything as if it were of small account, but who would spend whole days, without hurrying, on the slightest point, believing that it would bring reproach on all his actions, if he neglected any detail. The assiduity always expected of an emperor was now grounded in Marcus' own philosophic convictions. Recently a scholar has censured Marcus for speaking of the obligations we have in the universal city of gods and men without telling us what they are.? But for Marcus each man has his own station in that city: his was that of Rome's ruler. He was not writing a treatise to instruct others, but meditating privately on his own duties, and he could have learned these, in conformity with Epictetus' teaching, by merely considering the name of emperor which he bore; it told him that his task was to do what was expected of an emperor. Numerous principles of government are in fact implicit in his account of Pius, for instance in his allusion to Pius' husbandry of financial resources. The same critic rightly observes that Marcus' policy and legislation were largely traditional, and concludes that he was basically a Roman rather than a Stoic. But the antithesis is false. I suppose that it rests on a presupposition that Stoic teaching on the kinship of all men as such ought to have made genuine believers critical of the existing order and ready, when they had the power, to reform it. But at least after Zeno and Chrysippus (n. 37) no Stoic thinker drew any such practical implications from the doctrines of the school: their aim was to amend the spiritual condition of individuals, not their material lot, nor the social structure. Epictetus held that it was man's task not to change the constitution of things - 'for this is neither vouchsafed us nor is it better that it should be' - but to make his will conform with what happens." So too Marcus, vested with autocratic power, tells himself 'not to look for a Utopia, but to be content if the least thing goes forward, and even in this case to count its outcome a small matter. "3 Marcus' portrait of Pius has special value for two reasons. First, as the product of intimate familiarity and perfect sincerity, it shows us both what Pius was in the eyes of one who had long worked with him closely and what Marcus himself sought to be." It is thus infinitely more authoritative testimony to the practice of Pius and to the ideals of Marcus than we possess for any other ruler in the judgements of historians or in the propaganda of panegyrics and coins. But, in the second place, if we leave on one side a few merely personal traits and anecdotes, it presents a model that corresponds to the conventional view of the good emperor that we can construct from such evidence. The qualities that Marcus imputes to Pius are precisely those for which other emperors take credit themselves or which are lauded by their admirers or flatterers, and the judgements of later historians such as Tacitus and Dio reflect the extent to which they considered these claims justified. Augustus himself provided the prototype. There is thus no sign that Marcus recognized any objectives that had not been pursued by those among his predecessors who had earned the approval of the upper classes, or that his doctrines either led him to question the established principles of imperial policy or offered him any guidance in determining the objective content of his actions. His philosophy inspired him to do what he thought to be right, but what he thought to be right was fixed by tradition. His convictions made him give the most conscientious attention to even trivial tasks, but that very absorption can have left him the less time to re-examine the content of his duties; probably it never occurred to him that such re-examination could be needed. The principles and virtues he admired in Pius are almost the same as, for instance, Pliny had ascribed to Trajan, and Pliny admits that they had been attributed to all earlier rulers, Domitian included, though with less sincerity and truth.? To take one example of the traditional character of the ideal, Pius' firmness of purpose, his self-consistency, recalls the 'constantia' of the Stoic wise man," but it was Tiberius who had proclaimed to the senate his wish to be 'far-sighted in your affairs, constant in dangers, fearless of giving offence for the public interest'. And in this same speech Tiberius re-asserted his policy of treating all Augustus' words and deeds as having the force of law. That was known even to a provincial contemporary; Strabo remarked that he had made Augustus the standard for his administration and commands.' It was by that standard that each of peror our or prided, a deo which the syst a uration of y ravis a adjustments had from time to time to be made, but it developed slowly and almost imperceptibly from a sequence of new expedients rather than from any deliberate pursuit of reform. Deliberate innovation was characteristic only of those emperors whose policy was reversed after they had been overthrown. There are certain features in Marcus' imperial ideal which are highly relevant to the attitudes that Romans of rank might be expected to adopt towards the emperor and his service. Pius had disliked pomp and adulation and treated his friends as one gentleman treats another; Marcus warned himself not to be 'Caesarified'. This civilitas may seem to be no more than a matter of etiquette, but Panaetius had already elevated sensibility for the feelings of others into a moral obligation, and the more indes-tructibly absolute the real power of the emperor appeared, the more the upper class at Rome prized the semblance of his being no more than the first citizen. Perhaps nothing in Domitian's conduct so enraged them as his claim to be 'God and Master' and the behaviour that went with this claim. Moreover, civilitas generally accompanied and conduced to something of more political significance, the emperor's readiness to tolerate free expressions of opinion and to listen to advice. Both Pius and Marcus were notable for respecting such 'libertas' (even though there is no good reason to think that Marcus did not reserve the final decision to himself). 1a Such respect was demanded of emperors by senators, and it could be seen as an indispensable condition of their performing their own role in the service of the state. In name at least the imperial senate retained the highest responsibilities. Augustus had pretended to restore the old Republic, and it could even be said of him and of Tiberius that they had revived the maiestas of the senate. On Republican principles, as stated by Cicero, that should have meant that the senate was once again the ruling organ of the state with the magistrates as its servants;1°4 of these the princeps could no doubt be regarded as the first. In theory he was to be the public choice ('vocatus electusque a re publica'), and Tiberius expressly acknowledged that it was the senate which had entrusted him with his wide powers; like Augustus, he would not allow himself to be styled dominus, but actually addressed the senators as his 'bonos et aequos et faventes dominos', 105 In outward appearance the majesty of the senate had been enhanced by new judicial, electoral and legislative prerogatives, and the privileges of its members were sedulously preserved or extended. At his accession Tiberius had professed to desire that the functions of government discharged by Augustus should be more widely shared; later he censured the senate for casting the whole burden on the emperor; he disliked flattery, and at least pretended that senators should speak their minds; in his reign, as under Augustus, 108 there remained what Tacitus calls vestiges of free speech in the senate. Tiberius began by consulting it on all matters, however weighty;''° it was still expected to be the great council of state. Gnaeus Piso, renowned for his free speaking, urged that it would be proper ('decorum') for the senate and Equites to show that they could assume the burdens of government in the absence of the emperor.!" The reigns of terror in Tiberius' later years and under several of his successors in the first century cowed most members, but the emperors continued, however insincerely, to treat their constitutional rights as unchanged. Claudius could tell the senate that it was 'minime decorum maiestati huius ordinis' that its members should not all give their considered opinions. Pliny tells how Trajan exhorted them to resume their liberty and 'capessere quasi communis imperii curas'; we may be sure that 'quasi' was inserted as discreetly by Pliny as it had tactfully been omitted by Trajan. This was not new, as he remarks; every emperor had said the same, though none had been believed before. Thus in theory the senate remains the great council of state, and just as a conscientious emperor could conceive that he was bound to perform the traditional duties of his station as ruler, so conscientious senators could take seriously the fulfilment of the responsibilities that the emperors themselves continued to recognise as constitutionally belonging to their order. Under Nero T. saw it as his duty 'agere senatorem', to play the role of a senator. At the outset of his reign in Nero declares that the senate should retain its ancient functions, lis and, until the conspiracy of Piso,  most senators are free from the terror that hardly abates in the previous generation. Nero's victims in these years consisted almost wholly of the few who stood too near the throne. T. has some ground for hope, not least in the influence of Seneca, that there is now a place for senatorial freedom. T.’s first recorded initiative consists in unsuccessful opposition to a motion permitting Syracuse to exceed the appointed number of gladiators for a show. T. is standing for the old order. T’s critics urge that an advocate of senatorial liberty should devote himself rather to great questions of state. T. replies that, by attention to the smallest matters, the senate shows its competence to deal with the greatest. To T., virtue is manifest in EVERY ACTIVITY ALIKE. We may recall Marcus' attention to detail and insistence that it was of value if the least thing went forward. T. also shows his care for good government by assisting the Cilicians to obtain the conviction of an oppressive governor. Yet T. is to inveigh against the 'novam provincialium superbiam', manifested in the power some subjects possessed, to secure or prevent votes of thanks to governors in provincial councils. It is  shameful that 'nunc colimus externos et adulamur'. This solicitude for the superior dignity of a senator is no more inconsistent with T’s belief in the common humanity of all men, irrespective of their status, than their failure to challenge the institution of slavery, or indeed to promote strict equality before the law among free men. They never expressed disapproval of degree, priority and place', which were such marked features of the Roman social structure and which they could not have regarded as incompatible with the providential order of the Universe. Not that T. is showing indifference to the true interests of the provincials. It is the 'praevalidi provincialium et opibus nimiis ad iniurias minorum elati' whom T seeks to check. Tacitus makes T. aver his care for good government on this very occasion. T.’s sincerity need not be doubted. And, in all probability, T.’s motion, which was approved after reference to Nero, is beneficial. Once again it only extended the principle of a senatus consultum of Augustus' time. Already T. walks out of the senate rather than assent to the congratulations it proffers to Nero on Agrippina's murder. T. also shows less enthusiasm than Nero desired for the ludi luvenales. T.’s enemies suggested that it is inconsistent that T. himself performs in the garb of a tragic actor in his home town of Padova. But the ludi cetasti which T so honours are of ancient institution, ascribed to Antenor, and it is very possible that T. does no more than tradition requires. By contrast, Nero's histrionic performances are a hated novelty. Ordinary Romans came to detest Nero no less for his breaches of convention than for his crimes; 'I began to hate you' Subrius Flavus told him: 'once you appeared as the murderer of your mother and wife, as charioteer, actor and incendiary' It was typical of a Stoic to disapprove of departures from the old mores. Yet T. still does not despair. What Seneca could excuse, T. overlooks. T. advocates a mild penalty for the praetor, Antistius, accused of treason because he had published poems libellous of the emperor. The senate should not impose sentence of death 'egregio sub principe', when it was free to make its own decision and could opt for clemency. Even flattery of Nero was justified in a good cause, and in fact Seneca's old pupil was not yet ready to disregard the maxims of his master. Long assiduous in attending the senate, T. at last withdraws, though he still performs private duties to his clients in the courts, in the manner Seneca recommends. There is no vestige of evidence that T. conspires. But T.’s retirement implies that, in his view, the regime is irretrievably corrupt, since his previous devotion to public affairs showed that it could not be set down to 'ipsius inertiae dulcedo.’ It may seem strange that his friends, Arulenus Rusticus, tribune, and Helvidius Priscus, did not retire with T. But each Stoic had to make his own decision, true to his own persona. T.’s conduct marks Nero as a tyrant. It may be construed, and genuinely felt, as a threat. Tyrannicide was esteemed in antiquity as not a crime but a noble deed. In an extreme case, according to Seneca, it was an act of mercy to the tyrant himself. The poet, Lucan, who was tinged with Stoicism, had been implicated in Piso's conspiracy,and that was the occasion for the banishment of Musonius, though there was apparently no evidence of his guilt. In general, there is no ground for thinking that Stoics turned to plotting against the emperors of whom they most profoundly disapproved. Epictetus merely insists that no commands of the tyrant can affect true freedom; a man can always choose to obey God rather than Caesar. Thus he only contemplates passive resistance. T. goes no further, and perishes on that ground alone. Under DOMIZIANO too Arulenus Rusticus, called an ape of the Stoics, is said to have suffered death merely for his laudation of T., Herennius Senecio for his biography of the elder Helvidius and for failing to pursue the normal senatorial career, and Helvidius' own son for his withdrawal from politics and for alleged libels on the emperor; by what they did not do, and sometimes by what they said, these men had indicated that Domitian was a tyrant, no more, but that was sufficient offence. The elder Helvidius, T.'s son-in-law, undoubtedly went further. Exiled by Nero and recalled by Galba, he was encouraged by Vitellius' practice of consulting the senate even on minor matters to controvert the emperor's proposals, and new hope was brought by the accession of Vespasian, a friend of T.. At first Helvidius spoke of T. with honour but without insincere adulation. He judged that the time had come for independent action. The senate should indeed 'capessere rem publicam', all the more, as Gnaeus Piso had once held because the emperor was absent. Helvidius proposed that the senate should take immediate measures to remedy the deficiencies of the treasury and to restore the Capitol, a task in which Vespasian might merely be asked to assist. By selecting deputies to congratulate the new ruler it should mark out the men on whom Vespasian should rely for advice. Equally the great delators of Nero's reign, such as T.’s accuser, Eprius Marcellus, should be punished. Perhaps the motives for this demand made by Helvidius' friends as well as by himself were vindictive; we cannot read their minds. But we may see a justification that went beyond rancour, one of the same kind that lay behind the impeachments and Acts of Attainder that served to promote the development of a constitutional monarchy in our own country; the punishment of wicked ministers of the past might deter their like in the future. Helvidius' aim was surely to ensure that Vespasian and his successors should rule by the advice and consent of the senate and of those it trusted. His initiatives found insufficient support. 136 It was in the same year after Vespasian's return that the fatal conflict began. According to Dio Helvidius incurred Vespasian's hatred partly for abusing his friends - that is easy to understand, for Eprius was again in high favour - and still more for turbulence in rousing the people with denunciations of monarchy and praise of a Republican system. 138 That is not to be believed. Long ago Helvidius had consented to serve the Principate; he had recently approved of Vespasian's accession, and rabble-rousing was as alien to Stoic practice as it was futile. Probably Dio confused Helvidius' attachment to libertas, an ambiguous word, with Republican allegiance. 139 But the breach was serious: it led first to Helvidius' arrest and then to his banishment and execution, of which Vespasian himself is said to have repented. He must in the emperor's view have been guilty of treason. But in what way?Dio, in making out that Helvidius appealed to the rabble, probably associates his opposition with the expulsion of Stoic and Cynic philosophers that occurred about the same time. It is highly probably that some Cynics under the Principate did assail monarchy and the whole social order. This view indeed hardly fits the notion that there was a 'Cynic-Stoic' theory of kingship, but that notion should surely be discarded. Just as the Cynic 'citizen of the world' was a man who rejected the ties of citizenship in any particular state, so the Cynic 'king' was one who truly possessed the unfettered freedom that was falsely ascribed to autocrats; both conceptions were moral, not political.140 In any case Cynics and Stoics ought not to be confused, though some Stoics, notably Epictetus, undoubtedly admired the true Cynic's indifference to worldly goods; but not even Epictetus held that it was right, except for a few persons with a special vocation, to neglect ordinary social and political obligations. 14 But just because there was a certain measure of agreement between Stoics and Cynics, and because there were a few Stoics who could be called 'paene Cynici' (n. 37), it was easy for the enemies of aristocratic Stoics to resort to malicious misrepresentation of their attitudes. Thus the accusers of T. had suggested that his attachment to liberty was a mere pretence that concealed anarchic designs inimical to the Roman peace. Tacitus' detailed account of his actions disposes of this calumny. Unfortunately, Tacitus' evidence of Helvidius'  quarrel with Vespasian is lacking, and Dio, usually unsympathetic to philosophers, probably adopted uncritically somewhat similar allegations against him. It is not in the least likely that a man of mature age whohad sought to uphold the authority of the senate and had previously been ready to serve emperors now threw over all his past convictions and engaged in attacks on the whole established order. Epictetus (n. 152) and Tacitus (n. 22) depict him as true to the last to his own role as a senator. We must then look for another explanation. Dio's epitomator collocates Helvidius' quarrel with Vespasian with an incident in which Vespasian left the senate in tears, saying that either his sons would succeed him or no one would. It is an old conjecture, which I would endorse, that Helvidius objected to Vespasian's manifest intention to pass on his power to his sons. Once Titus had actually been invested with imperial power as his father's colleague in 71, Helvidius' protests could plausibly have been construed as treason. If this explanation be true, we can see that there was right on both sides. Constitutionally the choice of a princeps lay with the senate, and a man was to be chosen in the public interest as the person best fitted for the task. There was no reason to think that Titus or Domitian fulfilled this criterion.  In practice the succession had been dynastic from the first, and it had given Rome a series of rulers, every one of whom in senatorial opinion had proved a tyrant. The crimes and follies of Nero had resulted in civil war that imperilled the very fabric of the empire. Galba (having no heir in his family) had allegedly proclaimed a very different principle: the adoption of the best man to be marked out by consent. 147 Yet from the first Flavian supporters had seen in the fact that Vespasian had two grown sons a guarantee of stability. Dynastic sentiment might count for little in the senate, but it made a powerful appeal to the armies and the provinces. '4) Not one of Vespasian's successors could afford to disregard this factor. Marcus Aurelius admired Helvidius as well as Thrasea; from them he had learned, he says, the conception of a state with one law for all, adminstered by the principles of equality and free speech for all alike, and of a monarchy that valued most highly the liberty of the subjects;150 yet he too made a worthless son his successor. We need not think that this must be explained by Aristotle's dry observation that it would be an act above human virtue for an absolute king to disinherit his own son:151 dynastic succession was part of the tradition that Marcus could think it right to accept.Epictetus illustrates his thesis that every man has his own individual role to play by dramatizing a confrontation between Helvidius and Vespasian. 'When Vespasian forbade him to attend the senate, Helvidius replied, "It lies with you to exclude me from the senate, but while I am a senator, I must attend". "Then attend, but say nothing." "Do not ask my opinion and I will say nothing." "But I am bound to ask your opinion." "And I am bound to say what I think right." "But if you speak, I shall put you to death." "When then did I tell you that I was immortal: You will do your part and I mine. It is your part to put me to death, mine to die without trembling, your part to banish me, mine to depart without repining.'" What good did Helvidius do, asks Epictetus, as he stood alone? 'What good does the red stripe do the mantle? What but this? It shines out (iopÉTTE!) as red, and is there as a fine (koóv) example to the rest. Anyone but Helvidius would simply have thanked Vespasian for excusing his attendance, but then Vespasian would not have had to issue any prohibition; any one else would have sat in the senate, inanimate as a jug, or have heaped on the emperor the flatteries he wished to hear. '152 Helvidius had assumed a role, conscious of what his personality required, had prepared himself to play it, and was resolved to play it to the last. And his conception of that role was determined by constitutional principles, to which indeed most men now rendered only lip service. His stand was unsuccesstul. lo a Stoic that was of no consequence. Similarly it is no valid criticism of T. that, in disapproving of Agrippina's murder, he imperils himself without promoting the freedom of the rest. Not all men have the same duties, and in any case you could not prescribe another's conduct, nor could it affect your own blessedness. If my contentions are correct, Stoics as such had no theoretical preference for any particular form of government, monarchical or Republican. They acknowledged the value of the state, and they accepted that an individual whose position in the world and natural endowments permitted him to render the state some service had a duty to take part in public life, but only under certain conditions. His preoccupation with political activity must not be such as to impair his spiritual welfare, and even though the value of every action derived wholly from the agent's state of mind and not at all from the external consequences of the action, it was senseless for a man to involve himself in public cares, if it were certain from the start that he could achieve nothing so long as he acted as a good man should. Thus Stoic teaching may have tended to induce many of its devotees never to emerge from a quiet course of philosophic study and private duties: it certainly led others to retire from public life, or to manifest their opposition to the government, under rulers whose conduct violated moral rules. These rules were, for the Stoics, those which were endorsed by their society. It did not occur to them that the political principles that rulers were commonly expected to observe might need to be reviewed. Each man had a role to perform, a station to fill, the duties of which were fixed by general consent. The good emperor, and the good senator, were bound to carry out these duties conscientiously. It was this way of thinking that united Stoics in power and Stoics in opposition. Hence, as the good ruler, Marcus could easily recognize the merits of good subjects such as Thrasea and Helvidius, who had done their best to play their own, different, parts in public affairs. If in politics success is the standard of judgment, there was little to commend in men who did not identify outward defeat with sheer futility, who admired above all the 'iustum et tenacem propositi virum' and would have thought it praise enough to say that si fractus illabatur orbis impavidum ferient ruinae, without even admitting that there might be something unwelcome in the ruin of the world. Moralists may find some comfort that history occasionally reveals men in high places ready to do or endure anything for what they suppose to be right. The historian can note that what the Stoics supposed to be right, what they could conscientiously devote or sacrifice their lives to doing, was largely settled by the ideas and practices current in their society, and that a Helvidius or a Marcus was inspired by his beliefs not to revalue or reform the established order, but to fulfil his place within that order, in conformity with notions that men of their time and class usually accepted, at least in name, but with unusual resolution, zeal and fortitude. T. was thus a Roman politician of the Porch persuasion. As a member of the Senate, he fearlessly follows an independent line, and in the process antagonised with Nerone, who eventually pressurises the Senate into condemning him to death. T. duly commits suicide by opening his veins in the presence of his son-in-law, Elvidio Prisco and Demetrio di Roma. He was a great admirer of Catone Minore and wrote a biography of him. Publio Clodio Tràsea Peto. Keywords: portico, suicidio, vita pubblica, vita privata, virtute, ius, principe, principato, reppublica, senato, morale, diritto e moral. Roma antica. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Trasea.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasea: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filiale della setta di Crotone a Metaponto – Roma – filosofia italiana – Grice italico – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Bernalda, Matera, Basilicata. A Pythagorean, cited by Giamblico. Trasea. Keywords: la setta di Crotone, filiale a Metaponto. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasci: la ragione conversazionale del colloquio lizio con me stesso -- filosofia italo-albanese -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Bisignano). Filosofo italiano. Bisignano, Cosenza, Calabria. “Spera in Deo”. Nato in una famiglia di origine arbëreshë. Essendo il primogenito della famiglia e, dunque, contravvenendo alle regole del maggiorascato, a causa della salute cagionevole venne avviato alla carriera ecclesiastica nel locale seminario, proseguendo gli studi a Roma e Napoli. È nella città partenopea che si lega particolarmente alla compagnia di Gesù divenendo uno dei confessori più vicini a Isabella della Rovere, principessa di Bisignano. Per non essere distolto dai propri studi filosofici si ritira volontariamente a vita privata, dapprima nella Tuscia e poi ospite nel Castello di Proceno, presso Viterbo di proprietà dei Sforza. Ancora nei primi professore una lapide marmore posta nella rocca ne ricorda la sua permanenza. Da tale esilio usce in pochissime occasioni, assistito dal nipote. Fu durante la reclusione nella rocca di Proceno che ha modo di conoscere GALILEI ospite nel palazzo durante un suo viaggio verso Roma. Dopo esser stato vescovo di Umbriatico,venne creato vescovo di Massimianopoli in partibus infidelium da Alessandro VII. Saggi: “Colloquio con me stesso”, di Antonino. Universam Aristotelis philosophiam; Summa Aristotelicha – LIZIO. Summa theologica dogmatica. Tomassetti, Cenno storico sulla vita dell’illustrissimo T. (Roma); Nutarelli, Proceno-Memorie storiche, Acquapendente, T., Amalfitani di Crucoli, erudito italo albanese Professore or mai dimenticato,  MIT Cosenza. Ferrante Marco Antonio Baffa Trasci. Ferruccio Baffa-Trasci. Trasci. Keywords: “conversazione con me stesso”, lizio, Galilei. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trasci” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasillo: la ragione conversazionale del principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza  (Roma). Filosofo italiano. the philosophy teacher of emperor TIBERIO. A Pythagorean and member of the Accademia. Trasillo. Keywords: Tiberio, principe filosofo. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasimede: la ragione conversazionale della filiale della setta di Crotone a Metaponto – Roma – filosofia della Basilicata -- filosofia italiana – Grice Italico – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Bernalda, Matera, Basilicata. A Pythagorean, cited by Giamblico. Trasimede. Keywords: setta di Crotone, filiale di Metaponto. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

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