Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trabalza:
grammatica razionale ed implicatura conversazionale – By Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo
italiano. Grice: “Russell always made fun of our stone-age metaphysics.
Physics, strictly. Ad there’s nothing funny about it, if we think of SYNTACTIC
CATEGORIES as reflecting ONTOLOGICAL CATEGORIES – something that goes beyond
Baron Russell’s mathematically-washed brain!” CIRO T. STORIA DELLA
GRAMMATICA ITALIANA, Hoepli, EDITORE E LIBRAIO DELLA REAL CASA, IllM, MILANO. SEEf
PF;icrWICES Imwmkm Milano, Allegretti, Via Orti. A CROCE. L'idea del saggio, affacciatalisi alla mente di T. or sono
parecchi anni nella conoscenza che fa degli studi grammaticali di SANCTIS (si
veda), si rafferma quando appare l’estetica di CROCE (si veda), che,
avvalorandomela, l’offre insieme un
criterio direttivo per metterla in atto. E ora puo ben dichiarare che, se un
vasto materiale, tenuto sin qui in poco o
nessun conto o male utilizzato pella storia della filosofia, puo acquistare
un prezzo e servire a una costruzione, ciò è
stato principalmente in virtù
di quell'organico SISTEMA FILOSOFICO, della cui verità e fecondità esso vuole essere a sua volta una conferma. Per tale stretta dipendenza,
oltre che per omaggio di riverente e affettuosa gratitudine, il saggio di T.
porta in fronte il nome illustre e caro di CROCE (si veda). Il principio idealistico,
propugnato con tanta lucidità e originalità da CROCE (si veda) nell'ESTETICA – nel senso medievale di
SENSIBILIA, cioe, psicologia RAZIONALE -- e nella logica, guadagna
moltissimi filosofi e suscita un
salutare e assai palese rinnovamento negli
studi filosofici, così che le pagine
di T. hanno la fortuna di trovare dinanzi a sé un terreno in gran parte sgombro
di vecchi pregiudizi teorici sull’arte, sulla letteratura e sulla LINGUA
ITALIANA; ma, avutoriguardo al vario e largo pubblico cui si rivolgono, non
sognano neppure di passare senza discussioni. Qui l'estetica generale non soltanto
è applicata in tutto il suo rigore allo studio dello svolgimento della GRAMMATICA
(strettamente, letteratura), all'interpretazione cioè d'un movimento filosofico
che, alimentandosi e insieme ponendosi
al servizio della creazione artistica, si volge con isforzi più o meno consci
verso la vita della scienza. Ma, per mezzo appunto e in aiuto di codesta
interpretazione, è portata necessariamente a sperimentarsi e farsi valere nella
critica di tanti concetti e teoriche e problemi particolari della LINGUA
ITALIANA, stilistica e storia, che i motivi e l’occasioni del dissenso da parte
di chi non l'abbia familiare, saranno
frequenti quanto inevitabili. Ma il dissenso è tutt'altro che
temibile: è da sperare, invece, che qualcuno ne sia spinto a rendersi ragione
d'un principio di cui ha pur dovuto avvertire la efficacia nella dichiarazione
e valutazione di tanti fatti e fenomeni. D’altra parte, chi non sente
d'approvare l’idee che qui si sostengono, non potrà, suo auguro, disconoscere
l'utilità de'ragguagli che il saggio porge su di un complesso non trascurabile
d’opere e di questioni. Circa il modo poi ond'è stato raccolto e ordinato
codesto vario materiale, T. crede quasi superfluo il far notare che, senza
contravvenire ai canoni più rispettati dell'indagine erudita, esso ha dovuto
soggiacere soprattutto al criterio della scelta e della maggiore o minore considerazione, che logicamente
s'impone a chi fa storia d' idee. Onde non desterà maraviglia che a volte ci
siamo indugiati di più su documenti, che ad altra stregua non solo sarebbero
giudicati di diversa importanza e con diverso metodo, ma che parrebbero esser
fuori della cerchia stessa del nostro tema. Li sia lecito, infine, in questa
pagina dove un gentile costume ha trovato sempre un posto anche agl’affetti
che s'accompagnano per fortuna alle
nostre fatiche, esprimere i suoi ringraziamenti migliori ai carissimi amici il
conte ANSIDEI (si veda) e BRIGANTI (si
veda), suo coadiutore, della Comunale di Perugia, all'ottimo cav. Avetta e a tutti i suoi egregi
ufficiali dell' Universitaria di Padova,
che facilitano con ogni maniera di cortesia
e di dottrina le modeste ma non
sempre agevoli ricerche, a cui, in queste due care città più lungamente che
altrove, li è gradito l'attendere, e a VALCANOVER (si veda), studente di
lettere, che volle con ingegno e disinteresse aiutarmi nella compilazione
dell'indice e dei sommari. Padova. Una STORIA
DELLA GRAMMATICA ITALIANA è un lavoro
relativamente facile per chi
ha fede nella grammatica. Si muove d’un tipo, che si reputa
RAZIONALE, di grammatica scientifica, e
s’espone la storia della grammatica della LINGUA d’Italia commisurandola a quel
tipo, cioè: rispetto ai progressi fatti nell'escogitazioni delle CATEGORIE
SINTATTICHE grammaticali; rispetto all'esattezza con cui, seguendo quelle
categorie, sono state analizzate e comprese le
forme della LINGUA d’ITALIA. Ma la cosa diventa assai più difficile per
chi non ha più quella fede semplicistica. E come averla? Della dissoluzione della grammatica
compiuta dallo spirito sono varie e tutte
evidenti le manifestazioni. Se il buon senso non manca mai di ribellarsi
contro ciò che d'arbitrario è nel concetto d'una grammatica contenente i
precetti del ben parlare, accettati a occhi chiusi dalla servile pedanteria
letteraria o scolastica. Ricordisi l'esempio tipico di tali ribellioni, il motto attribuito a Voltaire:
tanto peggio pella grammatica. Oggi, mentre codesta servilità è presso che
distrutta o se ne sta nascosta per paura del ridicolo, quella ribellione si può
dire vittoriosa. Si parli o si scriva, quanti si sentono più stretti dalla
camicia di forza della grammatica, onde
sono un tempo torturati anche i filosofi più seri? Quel penoso e un po’comico
guardarsi d’attorno per non metter il piede sui roveti e nelle falle del temuto
codice, chi lo sopporta più? La filosofia ha da travagliarsi in ben altri
problemi che non sono quelli d'un impacciarne e infecondo verbalismo. Dinanzi a
tanto turbinio di cose, al complicarsi e all'approfondirsi della vita, al
sorger perenne di tanti interessi
spirituali, qual cervello può continuare a baloccarsi colle parole, le frasi e
i costrutti di parata? Nelle CONVERSAZIONI e ne’ritrovi nei saggi il temerario
che osi rinnovare le quisquilie che tanto appassionanoi nostri nonni e alimentano
la chiacchiera delle nostre accademie, s'accorge subito di non aver più
ascoltatori o d'averli mal disposti a seguirlo: e per qualche impenitente che si pigli la briga di
fargli eco, quanti gli si stringono addosso per zittirlo! La grammatica perde
ogni importanza negl’animi di tutti, anche di coloro che non fan professione di
filosofo. Anzi, quegli stessi che l'insegnano, non mancano d'avvertire che non
colla grammatica s'impara a parlare, ma col tener vigile lo spirito
all'osservazione, all’impressioni della vita,
e che lo studio d’essa non va fatto sistematicamente, ma praticamente
sugli scrittori, che soli possono formare il gusto e l'abito del rettamente
parlare. Sicché nelle nostre scuole la grammatica è ridotta, anche se se ne
adottino i testi, a poche e saltuarie osservazioni riguardanti pello più la
forma delle voci o il reggimento degl’elementi della proposizione o del
periodo, quando le suggeriscano o l’ispirino
gl’esempi degl’autori che si leggono o gli spropositi onde s'infiorano i
componimenti, esclusi perfino i paradigmi de'nomi e de'verbi e le liste dell’eccezioni.
Ma la critica della grammatica prende ai nostri tempi forma scientifica,
innestata naturalmente nei grandi sistemi della filosofia dello spirito. Tra
questi è superfluo che T. ricordi quello che pella sua salda unità ha così profonda efficacia sullo
svolgimento della FILOSOFIA. T. intende quella di CROCE (si veda). Dalle due
attività teoretiche dello spirito, l'intuitiva e la logica, non si producono
che immagini e concetti, ch’arte e scienza: fuori di questi due, non ci sono
altri prodotti teoretici che possano costituire per sé oggetto di speculazione
filosofica; essi soli sono la realità in cui si
possa esprimere tutta l'attività nostra conoscitiva. Se dunque ci si
presentano altri fatti apparentemente diversi colla pretesa d’essere studiati
scientificamente in sede propria, noi sappiamo cpial è l'obbligo nostro:
scoperto il procedimento artificiale per cui son venuti ad assumere aspetto di
formazioni indipendenti, spogliatili delle esteriorità che danno loro apparenza
di corpi, d’organismi capaci di vita e d’evoluzione
propria, ricondurli e ridurli nella loro
essenza nuda all'una o all'altra di quelle due forme d’attività. La lingua è
tra questi il fatto che suscita le maggiori e più resistenti illusioni, perchè
con tutti gli studi ai quali si presta nel terreno empirico, descrittivo,
storico, didattico, come suono, voce, forma, costrutto, ritmo, mutamento, uso,
rappresentazione, essa, sciolta e
raccolta come realtà in grammatiche e vocabolari, finisce col crearsi un
proprio dominio, farsene assoluta padrona, e imporre autorità e rispetto e
esigere un culto speciale. Ma studiata scientificamente, ossia come realmente
jA\>\>ax?.. e non come la formiamo noi astraendo dall’oggetto reale in
cui è incorporata, essa è inseparabile dal discorso vivo, dall'opera letteraria
in cui s'incarna, ed è quell’opera stessa, quel discorso stesso. Onde non vi ha luogo ad uno studio
veramente scientifico ossia organico e filosofico della lingua fuori dello studio della
letteratura e dell'arte. Conseguenza di ciò, la filosofia della lingua fa
tutt'uno colla filosofia dell'arte, ossia coll'estetica; la storia della lingua
fa tutt'uno colla storia della letteratura. La lingua è sempre
individualizzata, ed è quindi perpetua creazione, irriducibile a leggi fisse. Ciò posto, la grammatica –
strettamente, letteratura -- che cos'è? Espediente didattico, privo di valore scientifico, perchè
privo di problema scientifico. E una stona della grammatica si scolora agl’occhi
dello studioso dello svolgimento della
scienza e della letteratura, ed
appare più che altro materia propria non
già della storia della FILOSOFIA, ma della storia dei costumi e dell’istituzioni,
legata piuttosto alla storia dell'insegnamento che non a quella della letteratura,
la filosofia e della scienza. E
com'è anti-scientifico il suo
fondamento, cosi arbitrarie sono le sue CATEGORIE,
variabili da grammatico e grammatico, e variate infatti d’Aristotile del LIZIO,
che ne ammette due o tre, al
hSuommattei, che n ammi. se dodici, a noi moderni che siamo tornati alle
nove tradizionali: variabili ancora, naturalmente, da lingua a lingua, potendo
accadere ch’appaiano in esse alcune delle pretese parti del discorso che non
appaiono (CROCE (si veda), Estetica,
Palermo; e in La Critica, per i rapporti tra grammatica e logicai, e] Vossler,
Positivismus und Ideatisuius in der
Sprachiwssenschaft, Heidelberg. Anche prima di PRISCIANO se ne sono già
elaborate tredici o quattordici in altre. Chi direbbe che qualche lingua s'è
scoperta mancante del verbo, nientemeno la categoria del moto e dell'azione e
dell'esistenza, che tutti i grammatici filosofici ritengono appunto la parte
principale del discorso, la colonna che sostiene tutta la proposizione? Le
categorie grammaticali sorgeno dal
bisogno di comprendere e spiegare la relazione intercedente tra gl’elementi
della lingua e gl’elementi del pensiero, il rapporto tra i segni e le cose: sorgeno
insomma, non si può disconoscere, dal bisogno di sciogliere un problema
scientifico che la coscienza avverte; ma, non conquistato ancora il problema
della conoscenza nel suo duplice aspetto d’intuizione e intelletto, e ridotta l'attività dello
spirito alla sola forma logica, è naturale che i prodotti di questa attività
apparissero d'una sola natura, e tanto gl’estetici quanto i logici si cercassero
di spiegare coll'unico principio logico: e ne deriva l'annullamento
dell'espressione: questa, che è il prodotto dell'elaborazione fantastica, è
sottoposta a un'elaborazione logica, sicché, distrutta l'espressione dividendola ne'suoi pretesi elementi, su
ciascuno di questi si foggia una categoria: si
hanno così tante astrazioni particolari, e a ciascuna è attribuita una
funzione espressiva: ricavati i concetti di moto o azione, d’ente o di materia,
se ne fecero le categorie di verbo e di nome, e si crede d'aver trovata
l'espressione del moto e dell'ente, cioè la formula con cui esprimerli. Ora
l'errore scientifico è appunto non nel
lecito trapasso dall'estetico al logico, ma in questo ripassare dal logico
all'estetico, nel dare all'astrazione funzione espressiva, nel ridurre a norma,
a legge ciò ch’è semplice conseguenza d'un’elaborazione arbitraria sì, ma
consentita dalla pratica esigenza di raggruppare sotto determinati concetti
determinate parole. M’una volta ottenuti questi raggruppamenti, è facile avvertirne l'utile pel rispetto didattico dell'apprendimenti della lingua
d’ITALIA, ossia de'cosidetti mezzi d'espressione. E le categorie Iinduistiche
si mantennero anrhp contro la loro inconsistenza scientifica, a soddisfare a
giella--pratica esigenza nioltiplicate e
suddivise secondo i vari punti di vista didattici, e è prevedibile ch’almeno
entro certi limiti si manterranno, s'intende per quel mèdesimo scopo: e si
manterranno anche l’altre parti della grammatica, fonologia, sintassi, metrica,
ecc., sorte analogamente, perchè anch'esse potranno aiutare l'apprendimento
della lingua d’ITALIA, la raccolta del materiale da ri-elaborare nell’espressioni.
Assolutamente necessarie il mantenerle, in fondo, non sarebbe\ perchè a fornirci del materiale
linguistico, può bastare ascoltare chi
parla, cioè a dire, studiare il discorso vivo, realmente parlato, senza
tagliuzzarlo; ma, certo, alcuni raggruppamenti, specie delle forme flessive, di
famiglie di vocaboli, di particelle relative, nonché avvertimenti sull'uso e i
nessi delle parti del discorso, saranno sempre utili rome aiuti alla memoria, e
più, s'intende, pelle lingue straniere
che pella materna. Lo studio degli
schemi grammaticali in tutta la loro esuberanza e varietà è dubbio che
possa riuscire al proposito molto fecondo. I limiti qui sono segnati dalla
pratica dell'insegnamento e dai bisogni individuali degl’auto-didatti. Ma nei
libri dei grammatici non v'è solo questo
contenuto didattico, solo escogitazione d’espedienti, solo metodo. Tentativi,
spesso vani, di razionalizzare l’empiriche
distinzioni; crubbi, spesso generatori d’affermazioni e intuizioni
ragionevoli; confessioni spesso ingenue, e pure importanti come prove di stati
di coscienza ch’hanno disposto alla scienza, se la tradizione non avesse così
fortemente prepotuto; contradizioni che sarebbero state preziose, ove fossero
state in tempo avvertite; ribellioni improvvise e reazioni a regole state
generalmente accettate, questi e altrettanti documenti di progresso non mancano
quasi mai anche in grammatici inerti, ripetitori di travamenti altrui. Insomma,
nei libri de’grammatici appare una linea di progresso sui generis, il jDrogTgssxi cibila, dissoluzione, il
progresso della morte. E sotto questo riguardo ognun vede quale e quanta
importanza acquisti subito lo studio d’essi, e come un tale studio ri-entri nel dominio diretto della storia del
pensiero e dell'arte. Si tratta di vedere come dalla grammatica empirica si
passa alla grammatica filosofica e da questa all’estetica. È il medesimo
interesse, la medesima portata ch’offre la storia della poetica. Che cos'è
questa storia? È la descrizione di quel caratteristico processo per cui la dottrina umanistica dell'imitazione, quale
è plasmata dal rinascimento italiano
sulla poetica rediviva d’Aristotile nel LIZIO cristallizzata in regole
dogmatiche, è dal classicismo italiano, gallo, britannico, riguardata prima
sotto il rispetto dell'ingegno, poi di ragione, in fine di gusto, fino alla
conquista romantica del principio critico dell'immaginazione creativa, ossia la
storia d'una codificazione poetica completa e del suo progressivo e totale disfacimento. Poetica e grammatica,
disfacendosi dopo la loro evoluzione, mettono capo egualmente, toccando a lor
volta e ciascuna ne'propri limiti e gradi l'attività critica concreta e la
letteratura stessa, alla filosofia dell'arte, all'estetica. Da questo punto di
vista par che concepisse SANCTIS (si veda) una STORIA DELLA GRAMMATICA
RAZIONALE, a giudicar dai tentativi che
compì in proposito quando s'è dato con vero fervore agli studi grammaticali, e
dal disegno d'una grammatica filosofica intorno a cui si travaglia senza venirne
a capo pella difficoltà che ne presenta l'esecuzione e la sua stess preparazione
filosofica. Svolgendo, esercitando e scaltrendo il pronto e vivace intelletto,
disposto da natura a ripiegarsi su stesso, nelle varie correnti
filosofiche predominanti al suo tempo,
nelle larghe e intense letture di grammatici, nella pratica dell'insegnamento e
nella scuola di Puoti di cui è insieme collaboratore, non tarda a ribellarsi
alla grammatica tradizionale e ad accorgersi che in questo campo è tutto d’innovare.
Con quello della grammatica che viene trattando, concepì l'ardito disegno d’una
storia delle forme grammaticali rifacendosi
dall'antichità; ma pella sua scarsa grecità e l'ignoranza delle cose
orientali, dopo vani tentativi appresso a VICO (si veda) e Schlegel, si riduce
a tracciare una storia dei grammatici da lui letti, criticando dapprima quelli
che tutto derivavano dalla lingua del LAZIO, poi gli studiosi della lingua, copiosi
di regole e d'esempi, poi i galli, la cui grammatica ragionata non lo
soddisface che a mezzo, perchè sente che
quel ragionare la grammatica non è ancora
la scienza. Che egli intuisse già che la risoluzione del tormentoso problema è
nell'identificazione del FATTO della lingua coll fatto estetico, appare
chiaramente da questa esplicita dichiarazione. Sostene che quella de-composizione
di amo in sono amante l'incadavera la parola, Spingarn, La critica letteraria
nel rinascimento, Bari. SANCTIS (si veda),
frammento autobiografico, pubbl. da P.
Yn.i.AKi, Napoli; Scritti inediti
o rari, pubbl. cur. CROCE (si veda), Napoli; e, sopratutto, i saggi nei saggi
critici, Napoli, col titolo “Frammenti
di scuola.” sottrae tutto quel moto che le viene dalla volontà in atto. Si senteno
quei giudizi acuti con raccoglimento, e si credeno in tutta buona fede
quell'uno che dove oscurare i galli e
irradiare l'Italia d’una altra scienza. E in verità in sostene che la
grammatica non è solo un'arte, ma ch'è principalmente una scienza: è e dove
essere. Questa scienza della grammatica, malgrado le tante grammatiche
ragionate e filosofiche, è per lui ancora di là da venire. Non par dubbio che,
se SANCTIS (si veda) avesse ripreso quel suo disegno di storia della grammatica, l' avrebbe condotto dal punto di
vista della critica, donde è condotto il saggio di T. Dato questo punto di
vista è certo desiderabile fare, anziché la storia della grammatica della
lingua d’ITALIA, quella della grammatica in genere, appunto secondo il disegno di
SANCTIS [si veda]; e in Italia stessa, anziché limitarsi alla grammatica della
lingua d’ITALIA, estendersi anche alle
costruzioni di grammatiche della LINGUA DEL LAZIO; e sarebbe stato anche bene
congiungerla collo studio delle speculazioni sulla lingua, delle controversie
intorno alla lingua ecc. Ma, senza dire che ciò abbiamo cercato di fare in
parte, sempre quando il legame tra le dottrine grammaticali in genere, quelle
costruzioni italiane e straniere e quello
studio e le grammatiche da noi
esaminate è strettissimo, essendo questo imprescindibile obbligo nostro
di storici, a quel fine il materiale è vasto e ingrato, sì d’averci costretti
per ora a studiare il solo svolgimento della grammatica della LINGUA D’ITALIA,
la quale peraltro, non che riflettere in sé quasi con pienezza il procedimento
di quella più ampia formazione, ce n’illustra la fase più interessante per noi,
quella dello sfacimento, quella cioè della grammatica volgare, e di questa
l'aspetto ancor più caratteristico, l'italiano. Poiché, mentre la grammatica,
delle lingue classiche, sebbene connessa anch'essa a un sistema di dottrine
poetiche, quello dell'antichità, e sbocciata da discussioni e per fini d'ordine
logico, conserva pur sempre il suo carattere d’espediente didattico e
ermeneutico pell'apprendimento della lingua e pella interpretazione degli
scrittori, per cui, non è sorta, m’erasi venuta formando e l'avevano infine sistemata gl’alessandrini
non senza ammirevoli tentativi di spiegarne filosoficamente le categorie, anche
quando pretese concorrere alla formazione del perfetto oratore, come è specialmente
presso i Romani; la grammatica volgare, non solo, perchè, nata col canone dell'imitazione de'classici e strettamente
congiunta colla poetica della rinascenza, che dove per suo fatale svolgimento
soggiacere a quel progresso di
dissoluzione, ci permette di seguire un identico procedimento, tenendoci sempre
in terreno scientifico per accompagnarci fino alle porte della scienza, ma,
essendosi sviluppata quasi in compagnia e nel seno stesso delle letterature
nel periodo del loro maggiore fiorire,
reca in sé più vivo e immediato il senso della lingua e dell'arte e quindi un
più intimo e energico sforzo di conquistarne
e rivelarne il segreto; e la grammatica
dell'italiano, cioè della
letteratura più rigogliosa e più ricca di forme, tutto questo ci offre
meglio che ciascun'altra delle lingue dell’Europa, perchè, a tacer d'altro, non
solamente più varia e complessa per
luoghi e tempi, ma perchè, mentre congiunta col suo sistema, passa fuori
d'Italia a plasmare il pensiero critico delle altre nazioni d’Europa, di queste
poi e particolarmente della Gallia, segue alcuni grandi indirizzi, come quello di Porto Reale e del
razionalismo di H. P. Grice. Puo osservarsi, infine, che noi abbiamo parlato
sin qui della grammatica normativa e non di
quella storica. Ma la grammatica storica non entra nel tema di T.,
perchè essa, sebbene adoperi gl’arbitrari schematismi grammaticali, ha un
contenuto conoscitivo, e la storia d’esso rientra per tal modo nella storia
dell'erudizione e delle ricerche storiche. E su- Parecchie delle definizioni
ragionate d’Apollonio sono riprese interamente dalla grammatica generale del e
continuano a esser ammirate anche più
tardi, Egger. Ma una grammatica filosofica nell'antichità non è neppur tentata.
Pur consentendo con quanto dice BORGESE (si veda) nella sua storia della critica romantica in Italia,
Napoli, del carattere e degli spiriti dell’alessandrinismo umanistico, è facile
riconoscere che la grammatica sorge e si sviluppa in condizioni più vantaggiose
per i risultati scientifici che non
l'antica. L’antica si svolge in tempi di progrediente decadenza di pensiero e
di coltura, quella in tempo di generale progresso. VOSSLER, Die Sprache als
Schdpfum: nnd Entwickelunx, Heidelberg. perfluo,
peraltro, avvertire, anche qui, che non abbiamo trascurato d’occuparcene ogni
volta che l'erudizione filologica muove da uno sforzo, T dice così, di
sciogliere il problema grammaticale, e
si connetteva perciò intimamente colla grammatica normativa: anzi, qualche volta, temiamo d’esserci
inoltrati in questo campo troppo più in là che il tema di T. consente, come, p.
es., a proposito di Castelvetro, la cui Giunta, di dominio certamente della
grammatica storica, T. esamina con cura minuziosa. Ma l'eccessivo, se ci sarà,
ci vede scusato; non tanto pel fatto che forse certe parti dell'opera di
grammatici, come anche questa di Castelvetro, a non allontanarci dal esempio di
T., non sono tenute nel debito conto neppur dagli storici, quanto pella
considerazione che certi nuclei d'erudizione grammaticale-filologica,
escogitati pel comodo pratico, interessano anche lo studioso della storia del
costume e delle istituzioni scolastiche, alla quale abbiamo pur sempre tenuto l'occhio e di cui T. da qui
non poche linee. Sicché giova sperare che i lettori finiranno col trovare nel saggio di T. più di quanto il
titolo non prometta, mentre, in fondo,
nulla si pio dire superfluamente accoltovi che non serve ad illuminare
l'oggetto che ne è l'argomento principale, e l'istesso punto di vista al quale l'abbiamo considerato. La concreta e
sistematica compilazione delle regole
della grammatica della LINGUA D’ITALIA è
insieme comune resultato di due degl’effetti prodotti sulla letteratura
del rinascimento dal canone umanistico dell'imitazione de'classici della LINGUA
DEL LAZIO DEI ROMANI, cioè, il culto e lo studio della forma esteriore e lo
sviluppo della critica applicata o pratica, e conseguenza non ultima della
trionfante difesa del VOLGARE – tedesco,
volgare, lingua d’ITALIA -- di contro alla LINGUA DEL LAZIO, ch’è a sua volta
presentimento dell'importanza che nella coscienza assume definitivamente e
vigorosamente la lingua della NAZIONE
d’ITALIA: prodotto, dunque, di due diverse tendenze, di due diversi indirizzi,
il classico e il romantico. Né le sono estranee talune condizioni della vita sociale, la diffusa cultura, p. es., e,
in particolare, il sentimento della bellezza e della grazia, se non della
gravita – Trudgill, Italian is the most beautiful language – ch’esige anco
un'eloquio ornato e polito. Spinti dal bisogno di giustificare criticamente
1'immensa letteratura fantastica che il ri-fiorire degli studi ritorna alla
luce e all'ammirazione, gl’umanisti, superando le dottrine poetiche del Medioevo che suonano sprezzo o
condanna della poesia, e procedendo di superamento in superamento, passando
cioè attraverso le concezioni della natura della poesia in termini prima di
teologia, poeta theologus, poi d’oratoria, poeta orator, poi di rettorica e
filologia, poeta-rhetor e philologus, finirono col restituire la loro
indipendenza d’ogni funzione allegorica ai
prodotti dell'immaginazione e col
rimettere la poesia al posto che le spetta nella vita e nell'arte, giungendo
così insieme a riconsacrare la bellezza classica e a proclamare come base
estetica della letteratura l'imitazione dei classici: quindi studio
dell'artificio della poesia classica, quindi ricerca di principi e regole
pratiche pella più perfetta imitazione,
e, tra queste, anche le grammaticali.
D'altra parte, il VOLGARE – tedesco,
volgare --, il che vuol dire la nostra gloriosa tradizione, non mai del tutto
negletto pur nel periodo più febbrile e intemperante della indagine erudita
sull'antichità classica, è venuto levando audacemente il capo sopra il
sentimento stesso del proprio valore. Già l'umanesimo stesso non è mica, che
non puo essere, ri-sorgimento, re-incarnazione dello spirito classico: tutta la vita medioevale non è
vissuta indarno e non se ne potevan con un tratto di penna cancellare non dice
T. le tracce, ma gl’effetti sullo spirito!/ moderno: che è anzi essa se non ROMANESIMO,
nella sua sostanza incorruttibile, più che non fosse o potesse essere il soffio
inane onde si voleva ravvivare un presunto cadavere? E poiché quella vita è espressa
in opere volgari come la divina commedia,
il decameron, il canzoniere, e ora ad altre correnti spirituali, alla dottrina
e alla speculazione si vede pure che IL VOLGARE – tedesco, il volgare -- è più che bastevole, il difenderlo dove ben
apparire vittoria sicura, l'affermarne la virtù un dovere, e un diritto
l'estendere anche ai suoi precedenti monumenti letterari il canone dell’imitazione:
i nostri massimi fiorentini dovevan
valere quanto i classici di ROMA: quindi studio e osservazione della loro forma
esteriore, applicazione pratica delle loro regole: quindi anche grammatica
volgare. Questo processo, d'intuitiva evidenza specie per chi tenga presente la
storia della poetica del ri-nascimento, ci spiega esattamente il contenuto e le
fogge della PRIMA GRAMMATICA, i germi in sé
concepiti del suo svolgimento, dice T
anche la sua mossa e il punto di partenza nel tempo e nello spazio.
Vossler, Poetische Theorien in der
italienischen FrUhrenaissance,
Berlin. Spingarn. A renderne più convincente la dimostrazione, ci soccorre, per
buona fortuna, un documento molto interessante, che ri-entra poi per sé stesso
e proprio qui all'ingresso del nostro cammino, come oggetto diretto della storia di T.: quelle regole
della volger lingua fiorentina, che si trovavano manoscritte nella libreria medicea,
e di cui T. pubblica il testo secondo una copia ricavatane conservata nella biblioteca
vaticana, cod. vat. reg.. Codeste regole, come ben appare non solo dal titolo
ma dal proemio e da tutta l'operetta, sono fondate con piena coscienza sull'uso
vivo fiorentino, mentre la prima
grammatica italiana che viede la luce, Fortunio, Bembo, ha il suo fondamento
negl'imitandi classici, che per i
volgaristi sono quel che pegli’umanisti CICERONE e LIVIO. Basta questo fatto a
dimostrare che la prima grammatica italiana ha la sua origine in quel movimento
umanistico che consacra il principio
dell'imitazione dei classici ed è perciò connessa colla poetica del ri-nascimento; muove cioè, quel
che più importa osservare a T., verso il suo intento precettistico d’una spinta
dice T. così estetica o, in qualche modo, d'ordine scientifico; mentre la grammatica vaticana è, non solo
espres- [MORANDI (si veda), Il primo vocabolario e la prima grammatiche della
nostra lingua, Antologia. Sensi, Un libro che si crede perduto, ALBERTI (si
veda) grammatico, in // Fanf. d. Dom. Al Cian,
che nel suo bel saggio su Bembo, Un
decennio della vita di Bembo, Torino, dubitando della possibilità di
ritrovar il libretto catalogato nell’inventario della libreria medicea,
manifesta rincrescimento di non poter sapere che cosa sono quelle regole della
lingua fiorentina, sfugge forse la segnalazione che della copia vaticana d’esse
fa Torri nell'edizione dell’opere minori
d’ALIGHIERI (si veda), Livorno, sbagliando, però, come avverte Morandi, a cui
non è sfuggita, nell'aftèrmare che l'originale senza dubbio appartene a Lorenzo
de’MEDICI (si veda), Duca d'Urbino, quando invece l'avvertenza del copista, Sumptum
ex bibliotecha L. medices Romae
anno humanatj Dej. Decembris ultima
exactum va riferita a Lorenzo il mgnifico,
Leon riscatta dai frati di San Marco in Firenze e fatto portare nel suo palazzo
in Roma la biblioteca paterna. Ne è punto da dubitare che questa copia fatta
in Roma e passata da Bourdelot a sione
d'un bisogno pratico già sentito in un momento di decadenza del volgare sotto
l' irrompere della cultura umanistica e pel quale si collega perciò a quel
particolare movimento in favore del volgare che culmina col certame coronario,
ma specialmente dimostrazione e applicazione, fatte con fini polemici, d'un
altro principio teorico di grande importanza, primamente scaturito dalle
discussioni coeve sui rapporti tra LA LINGUA DEL LAZIO e il volgare.
Mentre, pertanto, Xe^Jl regole di FORTUNIO (si veda) iniziano
uno svolgimento che dura, per un rispetto,
ne concludono un’altro, di cui si potrebbero rintracciare i lontani
precedenti nell'insegnamento de'dettatori di BOLOGNA e nell’elevate cure spese
dall'ALIGHIERI (si veda) a vantaggio del volgar materno – Brook, Potter, Our
mother tongue. Per ciò che concerne poi la motivazione critica, tra l’inedita
grammatica vaticana e la prima nostra grammatica edita, per T. è quasi una
soluzione di continuità, se con quella
non è congiunta d’una comune coscienza dell'importanza della lingua della
nazione d’ITALIA, che è in se insita; e se volessimo trovarle una
continuazione, meglio che riallacciarla colla grammatica dei toscani, Giambullari,
che non è eseguita secondo i principi
pur additati da Gelli, dovremmo scendere addirittura alla grammatica di MANZONI del Cristina di Svezia, e quindi alla biblioteca vaticana,
dove si trova in principio del cod. reg., a
ce., non è una copia dell'originale mediceo che col titolo di Regule
lingue fiorentine, o di Regole della lingua
fiorentina, si trova indicato in tre esemplari dell'inventario d’essa
Libreria, compilato, e da PICCOLOMINI (si veda) dato in luce, Arch. stor. Hai.,
Morandi. Il cod. che consta d’una raccolta
di codicetti diversi, contiene anche il
trattato d’ALIGHIERI, DE VVLGARI
ELOVENTIA, che appartenne a Bembo, e col quale la grammatichetta scambia la guardia: infatti la guardia che
precede il trattato dantesco reca Della THOSCANA SENZ’AUTTORE, e davanti alla grammatichetta vi son due
guardie, una delle quali reca sul recto Dante della Volo. Lino, e l'altra sul
verso Dantes de Vulgari [diomate. Cir . Il trattato De vulgari eloquentia
cur. R.AJNA, Milano. È curioso che la
grammatichetta sia venuta a trovarsi congiunta coll'insigne operetta di Dante
copiata per Bembo, che quella grammatichetta non dove mai vedere e ne dovette anzi ignorar l'esistenza. uso vivo fiorentino. La nostra
tradizione grammaticale benché resti sempre vero quel ch’è osservato da Morandi: aver i letterati
italiani in certi intervalli sostenuta la tesi di MANZONI (si veda), è
classica, vale a dire fu dominata soprattutto dal principio del classicismo,
che doveva necessariamente disfarla. E si potrebbe aggiungere, se fè il caso di
discorrere di ciò che non avvenne, che la grammatica normativa avrebbe forse
alla pratica rtsi maggiori servizi, s’avesse continuato nella forma e
cogl'intenti della grammatica vaticana,
certo assai più consoni e praticamente utili a quell'esigenza pella quale è
giustificabile, l'apprendimento della lingua. Ben diversa è la spinta teorica
della grammatichetta, che l’assegna, sia rispetto ai suoi precedenti letterari,
sia rispetto alle prossime produzioni consimili, un posto a sé, dandole una
singolare importanza, assai maggiore di quella che possono avere le prime grammatiche del classicismo,
che non nacquero con un problema proprio, ma sono nutrite dello spirito che
alimenta tutta la poetica. Sia o no d’ALBERTI (si veda), nel qual caso è da
riportare indubitatamente di là dall’anno del De componendis cifris in cui ALBERTI
(si veda) vi accenna come ad opera compiuta, la grammatichetta vaticana è senza
alcun dubbio da riconnettere all'azione
che Alberti stesso ed altri degni di lui promossero in favore del volgare:
tanto essa rispecchia il carattere delle dispute linguistiche ch’agitano i
dotti, e tanto strettamente è congiunta con quella che ha a campioni Biondo e
Bruni. Que’che affermano, questo è il proemio della grammatichetta, la lingua
latina non essere stata comune a tutti e'populi latini, ma solo propria di certi dotti scolastici, come hoggi
la vediamo in pochi; credo deporanno quello errore, vedendo questo nostro
opuscholo, in quale io racolsi l'uso [Sensi
sostiene che è d’Alberti, per molte somiglianze di pensiero e di forma
che ha con passi dell’Operette morali e perchè è ben degna dell’alte vedute di
quella niente altissima. Ma Morandi, ch’attende a un nuovo studio intorno alle prime grammatiche e ai primi vocabolari,
m’usa la cortesia d'avvertirmi ch’Alberti è d’escludere, e ch’è da pensare ad
altri, accennandomi i nomi di Pulci e, nientemeno, di VINCI (si veda).] della
lingua nostra in brevissime annotationi: qual cosa simile fecero gl'ingegni
grandi e studiosi presso a’Latini: et chiamorno queste simili ammonitioni, apte
a scrivere e favellare senza corruptela,
suo nome della LETTERATVRA. Quest’arte quale ella sia in la lingua nostra,
leggietemi e intenderetela. È precisamente Bruni quegli che sostene essersi
usate in Roma due lingue nettamente distinte, l'uma delle scritture e de'pochi
dotti, l'altra comune a tutto il volgo, il quale non avrebbe inteso un'orazione
forense o una commedia più che non intenda la messa, e non sa ammettere che le femminette riuscissero a
esprimersi naturalmente in una forma grammaticale, morfologica e sintattica di
difficilissimo acquisto pei dotti di professione. E non ad altri ch’a Bruni e a
suoi seguaci risponde Alberti quando altrove osserva. E dicono non potere
credere che in que'tempi le femmine
sapessero quante cose oggi sono in quella lingua del LAZIO a molto e ben dottissimi difficile e oscure. E per questo
concludono la lingua nella quale scriveno i dotti essere una quasi arte ed
invenzione scolastica piuttosto ch’intesa e saputa da molti. Ma questa è precisamente
l'opinione di Biondo, a cui si deve appunto la scoperta e l'affermazione d'un
fatto inchiudente quell'importante principio teorico che presede alla
compilazione della grammatichetta
vaticana: uno de'non molti principi teorici di grande importanza critica
pella nostra storia, che siano stati asseriti in tutto il nostro periodo
grammaticale avanti il sorgere della critica della grammatica con BORDONI Scaligero
e Sanzio e Portoreale. BIONDO (si veda) ha solo di recente la meritata
giustizia. mentre a BRUNI (si veda) sono d’assai tempo tributati i massimi
onori come a un felice indicatore dell’origini
del nostro volgare. L'oggetto della discussione avvenuta nelle anticamere
pontificie tra i segretari della curia, presenti Lusco, Romano, Fiocchi,
Bracciolini, Biondo e Bruni e che è poi trattata per iscritto In SENSI. Cfr.
anche Rossi, Il rinascimento, Milano. D’un infelice quanto valoroso nostro
corregkmario troppo presto rapito agli studi, MIGRIMI (si veda) di Perugia, il
quale ri-stampa nel Propugnatore con da Biondo nel De locutione romana, da
Bruni noli' Epistole, dal Poggio nelle Historiae convivales disceptativae , da
Filelfo Ep. e d’ALBERTI (si veda) nel proemio al libro della famiglia, era
stato il seguente, così definito da Biondo stesso: materno ne et passim apud
rudem una lucida prefazioncella l'epistola di Biondo a Bruni De locutione
romana, sempre rimasta alla sua edizione principe. Credo dì poter indicare come
e per qual via fosse condotto Biondo a toccare il problema della lingua volgare
e romana. Al tempo d’Eugenio, Roma è talmente rumata, che dieci altri anni,
dice Biondo in una lettera al pontefice restauratore, premessa alla sua Roma
instaurata, che ne foste stato absente, essendo ella già e per la sua
antichità, e pelle tante passate affìitioni, mezza minata, di certo, che la ne sarebbe del tutto
ita per terra. Come il papa intese a restaurare con tanta liberalità e
larghezza la città eterna, Biondo s'è dato a rinfrescar nelle memorie degl’uomini
la notitza degl’antichi edificii; anzi delle mine, ch'ora si veggono nella
città di Roma già capo e signora del mondo; ma
specialmente l'ha mosso l' ignoranza ne'secoli a dietro delle buone
lettere, tale e tanta, che quel poco che si sa degl’antichi edifici, è tutto con false e barbare voci sporcato e
guasto. E con quest'animo s'è messo alla nobile fatica: Porrò dunque mano
all'opera con speranza che i pochi hanno a giudicare, se la chiesa ed il
palazzo di San Pietro, e di San Giovanni in Laterano riconci, e per lo più rinovati, e se le porte di bronzo
fatte alla chiesa di San Pietro, e le
riconcie mura di Vaticano, e di borgo, colle strade della città rifatte, habbiano ad esser più stabili, ed a
durare per più tempo, per questa via
d'opera di calcie, di pietre, di bronzo, che pella via delle lettere della
scrittura: e medesimamente s'io m'habbia possuto co'1 rozzo stile imitare e
giugnere niente a così belli lavori con
tante dispese fatte. Come degl’edilìzi, egli dunque dove osservare la
corruzione della lingua, e attribuirne la causa alle medesime incursioni
barbariche. Questa è la manchevolezza della sua tesi; ma, se nell'additar la
causa dello scadimento Biondo erra, la materia di cui parla è però quella che
veramente soggia all'evoluzione e s'è
tramutata nel volgare. Mi son giovato della versione fatta da Fanno delle due opere di
Biondo intorno a Roma e all'Italia, perchè essa, riprodotta in più stampe, ci
spiega come il De locutione romana, edito primamente in fine alla Roma
instaurata, non vede poi mai più la luce, non avendo seguito nella versione
l'opera maggiore. Roma ristaurata, ed Italia illustrata di Biondo da Forlì.
Tradotte in buona lingua volgare per Fanno, Venezia, i ed.
Mehus. iS indoctamque multitudinem aetate nostra vulgato idiomate, an
gramaticae artis usu, quod latinum appellamus, instituto loquendi more Romani orare
fuerint soli. Bruni, che concepisce la grammatica non crede possibile ch’il
popolo inflette nomi e verbi, quasi che, dice Mignini, la regolarità non è stata
allora e poi assolutamente ex casti: sostene perciò esistere una differenza sostanziale tra LA LINGUA DEL
LAZIO de'dotti e il popolare, come tra due lingue diverse, né più né meno come
tra LA LINGUA DEL LAZIO e il volgare d’altri tempi. I contemporanei
magnificarono l’idee di Bruni, quasi dimostra l'origine del volgare: ma Bruni,
come ben vede Mignini, fa solo una questione preliminare a questa, e la
conclusione che ne scaturisce
logicamente è che la lingua volgare non
deriva dalla LINGUA DEL LAZIO
volgare, essendo state sempre immobili e inalterate le due lingue dei latini,
la degl’OTTIMATI e la plebea: LA LINGUA
DEL LAZIO volgare o plebea per Bruni non è il padre della lingua volgare d’ITALIA,
ma è questo stesso sempre vivo e verde e inalterato, senza che né le mutazioni
naturali della lingua, né quelle delle popolazioni italiane avessero
avuto su esso, la minima influenza. Biondo invece sostene che tra le due lingue
non c’è differenza sostanziale: la differenza è solo di forma, prodotta dall’educazione
domestica, dalla cura e dalla riflessione degli scrittori: e se non la deduce
dall’iscrizioni e solo dalle testimonianze degli scrittori latini, ha però
sempre di mira la reale condizione della
lingua degl’OTTIMATI e popolare sotto I
ROMANI, e non fa per suo conto, come parve a Schuchardt, una questione
nominale. Ma quel che per noi vale assai di più è che, mentre sin allora la
grammatica è stata concepita, come ancora Bruni la concipisce, una serie di
regole stabilite a priori e per sempre, e quindi una lingua del tutto
artificiale e immutabile, Biondo invece avverte
anche nella lingua popolare romana una sua propria regolarità, distinta
naturalmente da quella che deriva dalla riflessione e dall'arte congiunta a
quella che viene dalla natura. Egli voleva che ai suoi avversari questa
risposta soddisface: nec naturae ac bonae consuetudinis munere regulas indoctam
multitudinem scivisse, quibus grammaticam orationem omni ex partem
congruam i.m eret, ncque etiam tam longe
a variationibtfs inclinationibusque et reliqua grammaticae orationis
compositione illius latinitatem abfuisse, quin litterata, qualem mediocriter
aetate nostra docti habent orario et videretur et esset. E una speciale
regolarità venne a riconoscere conseguentemente nella lingua volgare de'suoi
tempi, ponendo così il principio teorico della
possibilità d'una grammatica del
volgare, in parole ben chiare: omnibus ubique APVD ITALOS CORRVPTISSIMA etiam
VVLGARITATE loquentibus idiomatis natura ìnsitum videmus, ut nemo tam rusticus,
nemo tam rudis, tamque ingenio hebes sit, qui modo loqui possit, quin aliqua ex
parte tempora casus modosque et numeros noverit dicendo variare, prout
narrandae rei tempus ratioque videbuntur
postulare. Questa regolarità, osserva benissimo Migninij insitam
idiomatis natura, è il primo Biondo, che io sappia, a notarla, e dopo di lui
ripeteno l'osservazione Filelfo, Ep., ed Alberti, Proemio. Si fa così un'ottima
correzione alle dottrine grammaticali, e insieme si muove un primo passo verso
gli studi grammaticali sulla lingua volgare, impossibili a farsi, finché questa
si crede assolutamente ex casti. Tante
vero che, è Alberti o altri, certo è un seguace di Biondo quegli che muove il
secondo e ultimo passo e compone la grammatichetta vaticana, fondandola
sull'uso vivo di Firenze. Ed è questo che distingue profondamente il
significativo libretto dalla grammatica di Fortunio e la di Bembo, cioè il
principio informatore: quello scaturisce dalla riconosciuta regolarità insita nel volgare, cioè d’un
chiaro principio che ammette la possibilità della legiferazione grammaticale;
queste, sorte quando ormai la causa del volgare è vinta per quella via, cioè colla
forza ch’esso stesso reca in sé e che non è se non la vita della nazione
d’ITALIA, e quando è inalzato teoricamente al medesimo grado di nobiltà e di
perfezione della LINGUA DEL LAZIO e
quindi la possibilità di regolarla non si puo più affacciar come discutibile, sono
create col prin- [ed. Mignini. Nel discorso o dialogo, attribuito a MACHIAVELLO
(si veda) MACHIAVELLI, dove pella prima volta avanti le regole di FORTUNIO (si veda), e dopo, s'intende, il
movimento che s'accentra nella grammatichetta vaticana, si discorre dell’VIII
parti del discorso nella lingua
fiorentina, non è traccia alcuna di dubbio che codesta lingua non puo
esser trattata grammaticalmente come la lingua del LAZIO. Si noti peraltro che
Machiavelli in tanto parla di regolarità, in quanto ha cipio dell'imitazione,
senz’alcuna coscienza del problema scientifico insito in questo prodotto pseudo-scientifico
che è appunto la grammatica. Certo, senza un grande amore pel volgar nativo, cioè senz’aver della letteratura un
caldo sentimento di grandezza, quel riconoscimento di Biondo non basta a crear
la prima grammatica, anche a non considerar che, s’egli una certa regolarità
tutta sua, insita, naturale, gliela riconosce, non credo la ritenesse tale d’esser
presa a modello: Biondo è un classico da quanto e più ancora di Bruni: bisogna
veder nel volgare qualità ancor più nobili e virtuose, e d’efficacia e di
bellezza, perchè si puo additarle, quasi classificarle e schematizzarle in una
rassegna da porre di fronte alla nobile granitica della LINGUA DEL LAZIO, senza
timore o vergogna veruna. Sicché, in sostanza, il classicismo viene anche qui a
far valere i suoi diritti, come vedremo essere avvenuto in un problema
consimile già agitato dalla mente
suprema d'Alighieri; ma il compilatore non puo esser ch’un estimatore
convinto del volgare. Comunque, colla grammatica vaticana lo spregiato volgare viene,
quasi di punto in bianco, come l'antica grammatica, inalzato all'onore di
lingua letteraria. Gli giova, s'intende,
anche l'esser fiorentino, che non solo, per quei certi criteri formali che i
credenti nella grammatica non possono non
far valere, è il più polito e sonante dialetto d'Italia, m’ha in suo
attivo tutta la splendida tradizione letteraria antecedente. E certo quella
pratica dimostrazione della regolarità del volgare dove valere assai meglio e
più d'ogni e qualunque ragionamento in favore d’esso, e nel fiorentino parlato viene così a essere specchiata la
grammatica della lingua letteraria. Sul contenuto e il metodo d’essa, anche
perchè qui è integralmente riferita, non
occorre dir troppe parole. Basterà ri in mente un'unità linguistica ben
determinata, perchè, p. es., alla lingua della corte di Roma, d'un luogo dove
si parla di tanti modi, di quante nationi vi sono, pensa che non se li puo dare
in modo alcuno regola. Cito, col Rajna, La
lingua cortigiana, in Miscellanea linguistica in onore d’ASCOLI (si veda),
Torino, dal cod. orig. di Ricci, che è
il Pai. E. B., io,ce. r.° chiamar
l'attenzione sull'uso didattico degli specchi, ordine delle lettere, e dei
paradigmi, declinazioni e coniugazioni; sull'osservazione riguardante la
nomenclatura, in molta parte identica a quella della grammatica della LINGUA
DEL LAZIO; sugli accenni di grammatica storica, p. es. la formazione dei nomi dall'ablativo latino; sugl’esempi che,
come ha già hen visto Morandi, sono
concettosi e arguti. Su talune forme idiomatiche registrate come correnti -- savamo, savate; eravamo, eravate --; sui vitij del favellar, in cui si cade
introducendo forestierumi o storpiando l'uso, e sulla dottrina dell'IDIOTISMO –
Grice, idio-lect, idio-syncrasy]; sopra i richiami ad altri idiomi non italiani;
sopra il metodo di trattar non
separatamente le forme e l'uso delle varie parti del discorso. Conviene anche
notare poiché siamo davanti alla prima grammatica che de'nomi son fatte due
sole declinazioni: masculini la cui ultima vocale si converte in i, femminini,
la cui ultima vocale si converte in e, eccettuandosi “mano” che fa “mani”,
e i femminini finienti al singolare in “-e”, che fanno al plurale in “-i”; e che i verbi son trattati più per paradigmi
che per regole. Quel che ci preme anche
porre in rilievo è l'intento avuto di mira dal nostro autore nell'esecuzione,
veramente felice perchè rapida e chiara, del suo trattatello, e il calore
che vi mette, tanto da farsene un merito
patriottico, in altri termini il punto di vista donde ha raccolto le sue
osservazioni. Egli intende sbozzare la
fisionomia grammaticale della lingua viva di Firenze, perchè dal confronto con
quella della LINGUA DEL LAZIO, ne risultasse la bellezza e la perfezion
dell'organismo: non è tanto intento precettivo quanto praticamente
dimostrativo. Egli è tutt'altro che spregiatore della LINGUA DEL LAZIO, di cui anzi accoglie la nomenclatura, gli
schemi e adopera forme e nessi grafici; ma
sente tutta l'importanza e la virtù dell'idioma materno, che vorrebbe
onorato di pari culto e maggiore. Sono da ricordare a questo proposito i
rimproveri ch’Alberti dirige agl’umanisti che amano piuttosto piacere ai
pochi che cittadini miei, presovi, se
presso di voj hano luogo le mie fatighe, riabbiate a t^rado questo animo mio, cupido d’onorare la
patria nostra, chiusa). giovare ai molti,
adoperando una lingua convenzionale e non la naturale intesa da tutti.
Questi rimproveri ci richiamano facilmente alla memoria quelli più sonanti che
l'autore del convito scaglia contro gli scelleratissimi che coltivano lo
volgare altrui e lo proprio dispregiavano: né questo è ravvicinamento che fa
per suo capriccio la memoria; perchè, evidentemente, tra, non dice T. il
concetto filosofico, ma
l'interessamento pel volgare d’Alberti e quello d’Alighieri corre un intimo
nesso, come la grammatichetta è, per un rispetto, ultimo anello d'una lunga
catena che mette capo al primo
affermarsi del nostro volgare nella coscienza critica dei suoi primi
studiosi: siamo insomma su quella linea della tradizione nazionale che
congiunge appunto i dettatori di BOLOGNA e a quanti con Dante coltivarono il volgare, ai difensori
delle tre corone, ai propugnatori del volgare, tra i quali spetta ad Alberti il
primo posto. Occorre appena avvertire che il più benemerito di tutti i
rappresentanti di codesta tradizione, non solamente nella pratica ma anche
nella teorica è Alighieri. Fosse un pensiero maturo, o un profondo
presentimento, certo è ardito e degno della sua mente altissima il concetto onde il volgare viene glorificato
come sole il quale sorge ove tramonta
l'usato. Se il segreto intendimento di Dante è quello di far del volgare
una lingua come la lingua del LAZIO per
detronizzar questo, è materia d’ardua discussione: indubitabile però è, quale
dove esser la natura e la funzione del volgare così esaltato, che egli abbia
voluto renderlo [Si ricordino anche le
fiere parole della nota protesta fattaci conoscere da Flamini e integralmente
pubblicata da Mancini, Un documento del certame coronario di Firenze del -//.
in Arc/t. si. il., S. 1 L'ha forse già avvertito chi accozza in un medesimo volume la grammatichetta
attribuita ad Alberti e il trattatello dantesco? [Wesselofscky ha in brevi ma
limpide linee indicato l'importanza dell'avvenimento della lingua italiana agl’onori
della letteratura, e la parte che vi ha Alighieri, dal quale propriamente
incomincia il ri-nascimento nel senso nazionale, da lui s'informa e da lui,
piuttosto che da tutt'altro nome, noi vorremmo intitolare quel periodo che
precede al ri-nascimento classico dei Medici. In Dante e Firenze di Zenatti,
Firenze;/. per forza di lavoro crìtico e di
educazione artistica atto a ogni più elevata espressione d'arte e di
pensiero. A codesta altissima meta, conseguita, è inutile l'osservarlo così
eccellentemente nel fatto col poema divino l né altrimenti che nel fatto è conseguibile,
poiché PARLARE È ESPRIMERE E ESPRIMERE E PARLAR BENE e bellamente, tende il
magnanimo sforzo del De vulgari eloquentìa, che è o dove essere \ix\ ars grammatica, rhetorica e poetica
insieme sui generis. Che, sia pur affermato solo riguardo alla questione della
lingua italiana, non vi si tratti di lingua italiana né punto né poco, che in
ciò che è venuto fino a noi, e in ciò che ci manca, tutto s'aggiri intorno a
canzoni, ballate, sonetti, tragedia, commedia, elegia, cose da cantarsi; sempre
poesia, niente altro che poesia, è a torto
sostenuto da Manzoni, perchè bisogna non aver occhi per non vedere che
non vi si parla e non vi si dove parlare che di lingua e di
lingue e specie di lingue, le parole loqui, locutio, IDIOMA, Grice,
idio-lect, idio-syncrasy, idio-tism, vi ricorrono da cima in fondo, e di lingua
poetica e di lingua prosastica, e di lingua letteraria e di lingua parlata, inferiora
vulgaria illuminare curabimus, gradatim
descendentes ad illud, quod unius solius familie propinili est; ma che l'intento del trattato è precettistico
non ne'riguardi del solo dire in rima, come manchevolmente intendeno e Capponi
e Manzoni, che allega la testimonianza di Boccaccio, ma ne'riguardi d’ogni
forma di dire e di comporre, nessuno può
ragionevolmente negare. Ciò si desume non solamente dallo stato d'animo dell'autore che è, specie se messo in
relazione con quello che si rivela nel Rajna, Il trattato De vulgari eloquentia, lectura Dantis, Firenze, e recensione d’un saggio di BELARDINELLI
(si veda), La questione della lingua, ecc., in Bull. d. Soc. dant.; Parodi,
Bull. d. Soc. dant.; Vossler, Die góttliche Komòdie. Entwickelungsgeschichte
und Erklàrung: religiose und
philosophische Entwickelungsgeschichte,
Heidelberg, e Zingarelli, nella recens. di questo libro in La Cultura. Lettera
ifitorno al De vulgari eloquio d’Alighieri, in
Manzoni, Poesie minori, lettere inedite e sparse, pensieri e sentenze,
con note di Bertoldi, Firenze, Ed. Rajna. Mi son valso anche dell'ed. minore, Firenze. Prose minori. Convivio, di vivissima simpatia
pel volgare, di trepido desiderio che
esso è la luce alle genti, e dal titolo che non può essere che De
vulgari eloquentia, ma da più luoghi del trattato, ove quell'intento è
esplicitamente asserito e dichiarato, e particolarmente nel primo paragrafo.
Alighieri è mosso a scrivere dal vedere neminem de vulgaris eloquentie doctrina
quicquam tractasse, che tale eloquenza è a tutti necessaria, osservandosi che
perfino i fanciulli si sforzano di conseguirla, e si propone locutioni
vulgarium gentìum prodesse, non soltanto attingendo alla fonte del proprio
ingegno, ma accipiendo vel compilando ab aliis. Grammatici, retori, trattatisti
di poetica è facile affermare che sono i suoi autori: e quando si vogliono
cercar termini di paragone a misurare l'altezza della trattazione, il pensiero
corre a grammatiche, metriche, Donatus proensalis, Las razos de frodar, a summe,
Les leys d'amour, che sono appunto una grammatica, una rettorica e una poetica,
e doctrive de compondre dìctats, ad Tempo, a Gidino, insomma a precettistiche e
a precettisti: anche per quel libro che
non scrive, ma che si può matematicamente asserire dedica alla prosa ilhistre,
il pensiero corre alle trattazioni concernenti LA LINGUA DEL LAZIO, che certo
non è neppur concepibile che da lui si ricalcassero, come benissimo giudica chi
tanto s'è reso benemerito degli studi sul trattato, ma che non sono se non
trattazioni di rettorica e di grammatica. Trattar di lingua è dunque
inevitabile, essendo quella la materia del discorso; ma fine è insegnarne non
l'acquisto, l'apprendimento, sì bene un uso di maggiore o minor grado artistico secondo le varie classi di
parlanti, ma artistico, insomma un'espressione. Un intento siffatto, che è
quello d'ogni arte poetica, è anti-scientifico, perchè l'espressione non
s'insegna: ma lo sforzo che si compie per conseguirlo, può avere una portata
scientifica: e grandissima l'ha questo
d'Alighieri, pella dottrina, l'acume, e la partecipazione interiore, che non è se
non una forte coscienza estetica,
onde l'ha compiuto, anche
indipendentemente dalla cultura della sua età: sentire in quel modo così
profondo, quale specialmente c’è svelato dal convivio, il volgar materne, vedasi
specialmente il paragrafo dove si parla del naturale amore pella i'i
Rajna, Lect. nostra loquela, e
sollevarlo nella teoria, con uno slancio d'entusiasmo non più avvertito tra
noi, alla medesima altezza a cui è stato
o sarebbe stato portato nella pratica, e segnare le linee di svolgimento con
mano così ferma e scultoria, questo è vero progresso scientifico d’un valore,
starei per dire, anche più considerevole dell' altro di cui va egualmente
superbo Alighieri, d'averci data cioè una descrizione storica del volgare
romanzo, che pur ferma la maraviglia d'ogni grande filologo. Perchè, come l'intendimento precettistico,
così, sebbene sovranamente mirabile pell'uso che ne fa nel disegno del suo
ideale artistico, anti-scientifica appare la concezioned’ALIGHIERI della
lingua, della locutio: la quale in sé stessa non supera la scienza dell'età
sua, che ha il suo fondamento ella Bibbia e nella lotta tra nominalisti e
realisti riprende le discussioni dei sofisti, se la lingua è per natura o per volontà. M’ALIGHIERI supera
il suo tempo nel conciliare in un sistema solo la tradizione biblica e le
teorie filosofiche, mettendo in rilievo lo stato originario della lingua, e
quello che si determina dopo la torre di Babele; innumerevoli lingue
variabili continuamente d’una parte, e
1'artificiosa grammatica dall'altra. Il genere umano ha bisogno ad comunicandum
inter se conceptiones suas di un
rationale signum et SENSVALE [Croce,
Estetica o Aesthesis – SENSIBILIA] in quantum sonus est; rationale in quantum
aliquid SIGNIFICARE videtur AD PLACITVM, cioè SECONDOLA RAGIONE DALLA QUALE
L’UOMO è mosso. Di quel SEGNO il primo uomo è dotato da Dio, ed è quale è richiesto
dalla perfetta natura umana, cioè perfetto. In
vero, anche a non prescindere da questo che è poi un atto di fede, a
stare alle parole [Vossler, Die
góttliche Kòmodie, illustra in modo
molto evidente quanto acuto questo disegno, seguendo il pensiero
linguistico-filosofico d’ALIGHIERI dal suo primo sbocciare nella vita e nel convivio
all'altezze del De vulg. E.., donde tuttavia non scopre il mistero delle
terzine volgari della Commedia. L’idee d’ALIGHIERI
circa la voce e la parola, come suono, s'accordano più particolarmente coi due
grandi espositori scolastici del LIZIO: Alberto ed AQUINO (si veda). Busetto,
Saggi di varia psicologia dantesca, Giorn. dant., Pratom Toscana. Alberto
definisce la voce percussio respirati aeris ad arteriam vocativam ab anima per
immaginationem aliquam eam formantem,
quae est in partibus illis quæ ad respirationem congruunt. Vossler.] che
ALIGHIERI (si veda) adopera e al tono di
tutto il discorso, pare lampeggiar qua e là quasi un vago concetto della
sintesi interna di pensiero e parola, come quando dice certam formam locutionis
a Deo cum anima prima concreatam fuisse; e già quell'esaltare la lingua come
una dote data all'uomo perchè se ne
gloriasse ipse qui gratis dotaverat, eia facoltà divina che è in noi per
cui actu nostrorum affectuum letamur, ci suscita l'idea d'un atto spirituale
meglio che naturale e meccanico – H. P. Grice contro C. L. Stevenson – “mean”
in scare quotes --; anche la prossimità, affermata nel convivio tra la lingua
volgare parlata e LA PERSONA CHE LA PARLA – H. P. Grice, utterer’s meaning --, ci spinge verso quella intuizione; così
ancora, per addurre altri indizi, se non argomenti, quell'insistente relazione
posta tra la irriducibilità del volgare a regole fisse e la mutabilità e
variabilità dello spirito umano; il cenno della qualità della prima espressione
che l'uomo preferiscee PROFERISCE avanti il peccato, la similitudine posta in
Convivio tra la lingua e la bella donna, insomma l'enfasi onde il poeta parla della parola
umana; ma nel fatto la lingua è poi sempre concepita come SEGNO, cioè un'esteriorità di cui la mente si giova
per manifestarsi: quella certa forvia è tale quantum ad rerum vocabula, et
quantum ad vocabulorum constructionem, et quantum ad constructionis PROLATIONEM,
ed è la lingua che parlano Adamo ed il genere umano tutto prima della confusione delle lingue, e che rimase
poi al popolo ebreo, la lingua che, dopo la confusione, riprodussero appunto artificialmente gl’inventores
grammaticae facultatis, vale a dire la grammatica: una lingua dunque
grammaticale, stereotipata, beli' e formata, non producibile, ad ogni
espressione del pensiero. Con questa concezione della locutio e la nozione
storica de'vari ydiomata che tutti ammiriamo
e il fine che s'è dichiarato, Dante continua a svolgere il suo trattato, che
conduce fino al principio del seguente libro colla dottrina del volgare
illustre applicata alla poesia: nel terzo, in immediatis libris, avrebbe detto
del medesimo volgare applicato alla prosa, come s'è visto potersi con sicurezza
congetturare; nel [Vossler già avverte che come poi questi dotti ottenessero
questa grammatica, Dante non dice; e che d'altra parte grammatica non è solo LA
LINGUA DEL LAZIO, per Dante, ma anche qualche altra lingua] quarto ^a un
dantista veramente egregio, Zingarelli, nella recensione fatta nella Cultura)
dell'opera cit. di Vossler, Die góttliche
Komòdie. Vossler riprende la tesi
ch’è già in germe nelle parole del Rajna {Lect.. Il volgare dunque s’incammina a insediarsi dove sta LA LINGUA
DEL LAZIO, o almeno accanto a lui; e per insediarvisi non solo, che è poco, ma
potervi rimanere, gl’occorreranno in misura non troppo scarsa le doti di
stabilità e universalità che LA LINGUA DEL LAIO ed ogni grammatica possiedono,
e che sono inconciliabili con una parlata qualsiasi. Conseguibili non sono per
Dante altro che da una lingua
fabbricata, e uscita dall'accordo di molte genti diverse, quale appunto egli
crede essere LA LINGUA DEL LAZIO. E di certo, mettendo da parte la stabilità,
che verrà a resultare di conseguenza, nulla pare poter rendere più agevole il
consenso d’una moltitudine d’eteroglossi in una forma sola d’una lingua, che
l'estrarre quella forma da tutti, in cambio di prenderla da taluno e volerla imporre agl’altri. Si pensi ai tentativi
di lingua universale, e che Parodi aveva accolta, dichiarando esplicitamente
che, insomma, Dante intende fondare una
grammatica, Bull. d. Soc. datit.
Zingarelli sostiene che questo puo essere un presentimento profondo, ma non
un pensiero, non un proposito recondito, a insegnar reg. di lingua. Rajna.]dizione
di critici che ebbero del idioma una
piena e profonda coscienza, cioè della tradizione nazionale di contro alla
classica; ma anche primo e non meno elevato rappresentante dell'altra ch’intende
a rinnovarsi nell'imitazione dei classici: nella prima veste si ricongiunge
all'autore della grammatica vaticana, ai toscani, a Manzoni; nella seconda a
Bembo e alla lunga tratta de'suoi seguaci classicisti: capo e propulsore delle due correnti in cui s’estrinseca lo
spirito italiano nella critica letteraria, maggiore di tutti, come accade
d'essere ai grandi, del suo tempo, per originalità e vastità di siero e
mirabile accordo di facoltà. Ma con Dante il germe della grammatica italiana
sboccia e avvizze, appunto perchè nessuno ebbe al pari di lui la coscienza
della letteratura, e la comune concezione della lingua e della grammatica e il germogliare
dell'umanesimo sull'istesso tronco spezzato dell’altissima letteratura
assicurano ancora alla lingua del LAZIO il predominio sul volgare come lingua
della scienza e della coltura. Perfino Petrarca e Boccaccio, che pur tennero
alla loro arte volgare quanto se non più
che alla lingua del LAZIO, rimaneno tutti estra Dante alimenta la contesa tra
umanisti e difensori del volgare; il suo
spirito aleggia nei sostenitori del volgare che promuovono il certame e
nell'autore della rammatichetta; col trattato De vulgari eloquentia sono
connesse le prime nostre contese ortografiche e tutta, in genere, la questione
della nostra lingua ne'suoi momenti più
salienti a Manzoni. Bembo e
Trissino d’ORO (vedasi), in fondo, non eseguirono ciascuno un piano identico a quello di Dante? La
dimostrazione data per Petrarca dal Cian {Nugellae vulgares f
questione di Petrarca, in La Favilla di
Perugia, ciie cioè il nostro maggior lirico tenesse tutt'altro che in
conto di Nugellae le sue Rime, si può ripetere
e me ne avverte il Cian stesso per
Boccaccio con eguale certezza. Che la’ecloga di PETRARCA sia una disputa intesa
a dimostrare la superiorità della poesia
italiana sulla di quella della GALLIA
esclude E. Carrara Giorn. st. d. leti, it., e conviene con lui Busetto, PETRARCA (si veda) satirico e polemista in Padova in onore di F.
P., Estr. Padova. Boccaccio anche nell'esposizione in
volgare della divina commedia, dove avrebbe potuto esser tratto facilmente a
osservazioni anche di forma esteriore, non va oltre la spiegazione di singoli boli, rimanendo
sempre sotto l'influenza delle sue dottrine poetiche. Difende calorosamente
Dante dell'aver poetato in volgare piuttosto nei a un qualsiasi movimento
coscientemente teorico in favor dell'idioma nativo. Quel che si fa in questo
per tutto il territorio romanzo, è diretto a intenti puramente pratici, di
grammatica in servizio della poetica o degli
stranieri, di vera e propria metrica, di rettorica in servizio dell’epistolografìa,
della notaria, e di chi dove tenere parlamenti e dicerie. Il Donatz proensal,
composto da Faidit prima in Italia a
richiesta di Morra e Sterleto e tradotto anche nella LINGUA DEL LAZIO per maggior utilità degl’italiani, è un ri-calco
sull’Ars minor di Donato. Senz'accennar a teorie linguistiche, né a scopi speciali, comincia subito a trattar dell’VIII
parti del vulgar proensal, nom, pronom, verbe, adverbe, particip, conjunctios,
prepositios, interjecios, e si chiude con un rimario abbondantissimo, De las
Rimai. Qui il vulgar proensal è trattato come una lingua letteraria, come una
grammatica pegl'italiani, quale dove appunto apparir loro la fiorente
letteratura provenzale: è insomma il
provenzale letterario, anzi poetico, classificato e chiuso negli schemi
della grammatica della LINGUA DEL LAZIO pell'apprendimento degli stranieri.
Certo quel poterlo cosi trattare come la grammatica dove ben valere a
dimostrare che dunque anche gl’altri volgari, non esclusi gl’italiani, che nella lingua del LAZIO, non solo col
criterio della fama, ma anche della bellezza e virtuosità del volgare, Zenatti, Dante
e Firenze: eppure della
regolarità del volgare neppur un cenno. Pe'più il volgare è una lingua
dispregiata, e Boccaccio ricorda che appunto quella è la caligine sotto cui
rimane nascosa la luce del valore di Dante, Dal Commento, ed.
Zenatti, Roma. E ragion vuol che
si dica che, se Boccaccio aveva difeso, meglio di Petrarca, la poesia, perchè
non aveva fatta differenza tra la lingua
del LAZIO e la volgare, commentando
la divina commedia concede, sia pure per non inasprire
gl’avversari, che s’Alighieri avesse poetato nella LINGUA DEL LAZIO col
l'eleganza onde tratta il volgar materno, avrebbe senza dubbio fatto opera più
artificiosa e sublime; e con quest'opinione veniva tra poco a concordanza un
altro ammiratore del poeta, Salutati \Ep., ed. Movati. Sull'attività critica ch’accompagna
il sorgere della letteratura nazionale è da vedere La Critica letteraria dall'Antichità classica, di Bacci, Milano, alla quale T. rimanda
anche per altre notizie di circostanze e fatti aventi qualche relazione col suo
argomento. potevan esser ugualmente trattati, e non avremmo così dovuto
aspettar Biondo perchè tosse intravvista
e riconosciuta una certa regolarità nel nostro idioma: pure all’ipotesi
d'una grammatica italiana non si venne.
Las razos de frodar sono anch'esse una
grammatica, ma in servizio delle forme poetiche, e, appunto perchè nate
in suolo provenzale, non eseguiscono tutta intera la trattazione grammaticale e
contengono dichiarazioni simili a quelle dei primi nostri grammatici che,
avendo ancora in mente LA LINGUA DEL
LAZIO e credendo molto fosse il conoscerla, dicono non esser necessario
svolgere questa o quella categoria o esemplificazione. E notevole altresì che
vi si trovano considerazioni intorno alla proprietà dei vari volgari e vi si vada come in cerca d'un volgare
illustre. La parladura PARLATURA galla vai mais et plus avinenz a far romanz e
pasturellas; ma cella de Lemosin vai
mais per far vers e cansons e serventes. È un orientamento, come ben si vide,
simile a quello del De vulgari eloquentia, e appunto per questo c’è davanti
l'abbozzo d'una grammatica provenzale,
come materia grammaticale abbiamo nel trattato dantesco; ma quale differenza! Quella che nelle Razos è
un'osservazione fuggevole e quasi inconscia del pratico che vuol giovare ai rimatori, qui è lo sforzo e
l'ardimento di chi vuol creare una lingua pella vita e pelll'arte. Anche le
Regles de trobar di Jaufré de Foixà, che sono un seguito dell'opera di Vidal,
sono compilate per domanda del re di Sicilia, Giacomo. Osservazioni di metrica,
parte forse di opera più vasta e perduta, contiene la doctrina de compondrc
dìctats. E per tacer d'altri rimaneggiamenti
delle Razos e d’altre arti
metriche, grammatica, metrica e rettorica sono Las Leys d'Amors o Flors
del gay saber che Molinier ha l'incarico, qual segretario o cancelliere, di
comporre in Tolosa dalla compagnia della Gaya scie?isa, perchè fossero un
codice della buona poesia, e dove il provenzale è appunto legiferato
grammaticalmente come una lingua lette- [Vidal, Las razos de trobar, ed. Stengel, Die beideìi àltesten
provenz. Gra/tim,, Marburgo. Si confrontino a questo proposito
anche Las leys d'amors. Anche per Donatz, questa edizione. Su J. de
Foixà Meyer, Romania,. raria. La lingua GALLICA nella GALLIA non ha nulla di
simile, allora, e le sue prime vere grammatiche le ha appunto molto più tardi, dopo di noi, per
effetto del medesimo movimento critico
che determina il sorger delle nostre. In terra italiana, oltre il trattato
delle Rime volgari di Tempo, e
l'imitazione che un contemporaneo de'nipoti del giudice Sommacampagna ne fa in
veronese di corte, pure arti metriche, e il trattatela metrico di Barberino, si
ricorda un trattateli simile che avrebbe composto, ma che in realtà non
compose. CAVALCANTI (si veda), secondo la
testimonianza di Villani che l'avrebbe avuto tra mano e di Fausto che
1'avrebbe visto e lo cita. Un confronto tra Las
razos e Donatz istituì Ovidio in
Giorn. st. d. lett. il. Sugl’ammaestramenti grammaticali
pella LINGUA GALLICA nel
medioevo, Brunot, Hist. d. la
langue gallique. L'abitudine, a lungo conservatasi nella Britannia, d’usare la
lingua gallica (Honi soit qui mal y pense – “anglo-normanno” di H. P. Grice,
originariamente ‘gris,’ grigio), fa sorgere tutta una serie di saggi, che rimaneno
senza paragone per molto tempo sul continente d’Europa e costituiscono la sola
letteratura grammaticale anteriore.
Delle rime volgari, trattato di Tempo, giudice padovano, dato in luce integralmente per cura
di Grion, Bologna. In rhetoricis delectatus studijs eandem
artem ad rhythmorum vulgarium compositionem eleganter traduxit. Villani, De Florentiae
famosis civiòus. Fausto, Introduzione alla Untiuà volgare in Gkio, nel capitolo
dell'ordinare la prosa: delle parole bisillabe e trisillabe sono alcune
aspirate come honore, alcune hanno geminate le liquide, come novella, fiamma,
anno, carro, lasso; consonante dopo muta doppia, fabbro; ovvero muta in mezzo liquide, sepolcro: e cotali
Dante chiama nella sua volgar Eloquenza, e Cavalcanti nella sua Grammatica, irsute: chi fa combinazione
di questa senza dubbie, seria dura e roggia orazione. Qui evidentemente la
parola grammatica è usurpata per significar metrica: fatto comune
nell'erudizione, tanto che Bacchi nel suo elogio di Cavalcanti, Elogia, Firenze,
attribuisce a CAVALCANTI una vera e propria
grammatica: quod multa CAVALCANTI scripserit, non desunt qui affirment,
ut de eloquentia sui seculi, de regulis linguae etruscae, de natura verborum,
quibus fit oratio numeris astrictior, artifieijs ornatior. Il trattato di Tempo
traduce nel suo dialetto Barati-Ila, sedicenne, figlio di Laureo.] Ma NON GRAMMATICA, come la chiama appunto Fausto, come GRAMMATICA NON È la sua
Introduzione alla lingua volgare, ch’è invece metrica e RETORICA. Insomma,
quanto di grammaticale o SINTASSI – MORFO-SINTASSI (“rules of formation” –
“syntax” – H. P. Grice – SYSTEM G -- vi può essere in tutte queste somme
romanze escluso Donatz è solo in servizio della metrica e della rettorica,
senza alcuna vera funzione propriamente
grammaticale, e assolutamente indipendente dal realmente parlato; mentre Dante
ha coscienza d'uno schietto criterio della regolarità grammaticale, onde anche
sia disciplinabile sull'esempio del latino il volgare italiano, e l'applica:
nel che egli differisce da Biondo in quanto questi riconosce nel volgare una
regolarità di fatto, e Dante gliela riconosce solo in germe: resta di fargliela acquistare. Così, e questo è tempo
ornai di concludere, prima dell'autore della grammatichetta vaticana ch’integra
i due criteri e fa il primo tentativo, una vera e propria grammatica
dell'italiano non è stesa. Lo studio strettamente grammaticale è fatto
esclusivamente ne'riguardi del latino sull'Ars minor di Donato: l'insegnamento
ne'riguardi del volgare, quando l'arte de'Dictamina è fatta
passare dal latino al volgare, rimane, com'era stato pel latino, di
carattere rettorico, alla H. P. Grice
nella caratterizazione di G. N. Leech, ‘pramatic, not logical.’ Certo, in
quelle Sutnmè dictaminis, in quelle Artes dictandi, ?w/ariae, concìonandi, non
mancano osservazioni che potrebbero chiamarsi di dominio puramente
grammaticale. Una parte di' viltà, che in principio della Summa di FABA (si veda) si raccomandano
d'evitare, riguarda Loreggia. Nel proemio di Tempo s’avverte che alla
versificazione giova la conoscenza della
grammatica, s'intenda IL LATINO;
si nota che lingua tusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae
linguae, et ideo magis est communis et intelligibilis. Item ultimo notandum
est, s’avverte, quod quemadmodum in
oratione literali [il latino] debet vitari barbarismus et
soloecismus, ita in vulgari rithimo. Ma si tene ben distinta la trattazione
grammaticale dalla metrica: Vocales
autem literæ secundum grammaticos sunt V,
scilicet a e i o u, reliquae vero sunt literæ consonantes. Est tamen
alia etiam differentia inter consonantes literas: de quo nihil ad praesens
disputare intendo, quia satis per
grammaticas est ostensum. Invece il ragazzo compendiatore si distende
sulle vocali, sulle sillabe, sui dittonghi, sull’elisione, il troncamento e
altre figure: il bisogno della trattazione grammaticale s’è andato facendo
sempre più vivo! Il compendio di Baratella sta insieme coll'ed. delle rime
volgari di Tempo, ed. Grion. Guidonis
Fabe, Summa dictaminis in II Propugnatore, ed. Gaudenzi. la collisio, il frenum, lo hiatus, il
metacismus, il laudacìsmus, ossia figure grammaticali. Nella parte seconda, non
tutto ciò che riguarda la pronuntiaiio è garbo, ma correttezza – H. P. Grice on
stress as garbo, non corretteza. Il
dictamen è locutio ne'due aspetti di competens et decora: competens dicitur
quantum ad congruitatem vel incongruitatem tam
bone sententie quam recte
gramatice. Il dictamen dicitur autem pròsaycum a proson, quod est
longum, quia ne legi metrice vel rythmice subiacens, congrue se potest
extendere. Circa dispositionem si vuole che il dictator laboret ut ordinetur
sub verborum serie competenti, et postmodum ad colores – GRICE FREGE FARBUNG -- procedat rethoricos. Poi vi sono le osservazioni de punctis et
virgulis et regulis eoruni; quelle
della constructio, in cui duplex est
ordo: Naturalis est ille qui pertinet ad espositionem, quando nominativus cum
determinatione sua precedit, et verbum sequitur cum sua, ut ego amo te. Artificialis ordo est illa
compositio que pertinet ad dictationem, quando partes pulcrius disponuntur; qui
sic a CICERONE (si veda) diffinitur. Compositio artificialis est
constructio dictaminis equabiliter per polita.
Si parla de regulis occurrentibus in dictamine: nello zeugma l'aggettivo
concorda col nome più prossimo: es. Socrates et Berta est alba: nella concepito
PREVALE IL MASCHIO: vir et mulier – i
promesi sposi -- sunt albi; il neutro prevale sul maschile e il femminile:
mancipium vir et mulier sunt alba. Si tratta dei verbi trasmissivi, de origine,
possessione et significatione quofundam
ver borimi, al de relativis et antecedentìbus; e quando anche s’è in pieno
campo rettorico De ornatu orationis et
colorìbus – FREGE GRICE FARBUNG -- retkorìcis, si trova indirettamente tutta la
declinazione perchè, parlando de
inseptione nominis per omnrs casus tanto al singolare, ((pianto al
plurale, le forme vengon tutte fuori, e medesimamente accade pei verbi e l’altre parti del discorso, gerundio,
supino, participio, pro-nome, pro-posizione,
pre-posizione, avverbi, di cui si passano in
rassegna gl’usi che se ne fanno al principio e alla fine dell'orazione – The exhibition was
visited by the King of France. Sicché sotto l'efficacia de’due insegnamenti
d'alta e umile grammatica, dei dettatori e dei grammatici, dove venirsi
praticamente e indirettamente elaborando
anche la grammatica del volgare, la quale poi appare direttamente quando
appunto il dictamen passa dal latino al volgare. Era un movimento, insomma,
fecondo in favore del volgare quello dei dettatori di BOLOGNA, e in
genere di quanti avevan che fare colle due lingue: e da qualunque aspetto le
fossero coltivate, a qualsiasi fine fosse rivolto l'esercizio, la grammatica del volgare spunta accanto a
quella del latino, ombra d’essa. Quel di-rozzamento del volgare fatto dai
maestri nelle scuole e nei libri a pratici fini rettorici, nelle prime come
nell’ultime scuole, non poteva non far sorgere ne'principianti, negli studiosi,
negli scrittori come la coscienza riflessa delle forme grammaticali del
volgare, apprendendole loro senza che s’accorgessero, senza somministrarne paradigmi, definizioni,
classificazioni. Tra il volgare e il
latino e il latino e il volgare sono continui e necessari i confronti sia nella
scuola letteraria che in quella giuridica. Tanto per chi s'avvia per i pubblici
uffici, che richiedeno faconda e ornata
parola, e possesso dello stile epistolare, quanto per chi si dedica al
notariato, lo studio del volgare sia pure pella via della grammatica latina era una necessità. Negli statuti che la società de’notaj
di Bologna promulga, gl’aspiranti al diploma di notaro doveno dimostrare
qualiter scirent scribere et qualiter legere scripturas quas fecerint
vulgariter et literaliter, et qualiter latinare et dictare. E a ciò non poteva
bastare uno studio stilistico, ma occorre anche lo studio delle forme e delle relazioni sintattiche. A un tale studio dovevan esser invitati o
condotti anche i discepoli di quel Signa, che fu de'primi a far sentir
l'influsso della Toscana alla sua scolaresca di BOLOGNA, e, meglio ancora, di
quel Faba, il cui conato di far
trionfare il volgare sul latino non potè esser solamente individuale. Faba,
osserva Monaci, viene a prendere il primo posto nella serie di quei maestri
che, facendo passare dal latino al
volgare l'arte dei dictamina, contribuirono assai più di quel che non si creda
alla formazione del nostro idioma letterario, e perciò alla determinazione sia
pure orale delle regole d’esso. Che l'insegnamento fosse porto in volgare confermano
anche i testi grammaticali esplorati da Thurot, il (piale osserva: On einsegnait la gram- [È
superfluo ch'io ricordi quanto e insegna su
questi argomenti Xovati, di cui
ora si può vedere il saggio, a Milano, su
Le Origini. Intorno alle Artes dictandi discorre anche Lisio, L'arte del
periodo nell’opere volgari d’Alighieri, Bologna. Sulla Gemma purpurea e altri
scritti volgari di FAVA (si veda) o FABA (si veda), maestro di grammatica in
BOLOGNA, in Rend. Lincei.] maire aux petits enfants sous une forme tout élémentaire,
d'après le Donatus minor, et mème en langue vulgaire; car, quoique je
n'aie rencontré que deux manuscrits qui contiennent des grammaires élémentaires
rédigées en francais, le traduction de casus par le substantif féminin case et
de modus par meuf montre que ces termes
étaient assez souvent employés pour avoir été accomodés au genie de la langue
vulgaire. Nel prepararsi
inoltre a pronunziare in volgare le
dicerie preparate in latino, nel leggere nel testo volgare, dato per disteso o
in compendio, le formule epistolari modellate in LATINO, ognuno era
naturalmente tratto a osservare le regole del volgare. Medesimente
gl'innumerevoli traduttori dal latino e
dal gallo, e anche dal provenzale, come
avrebbero potuto condurre l'opera loro, così minuta e analitica, senza notare le differenze morfologiche e
sintattiche fra l'una e l'altra lingua?
Codeste stesse volgarizzazioni, specie di opera di filosofia pratica e di varia
erudizione storico-letteraria e retorica, così diffuse e popolari, venivano
indirettamente ma non per questo meno efficacemente a propagare la conoscenza e
l'uso della regolarità del nostro volgare. Anzi le riduzioni e le traduzioni
dei testi di rettorica Notices et
extraits de diverses manuscrits latins, pour servir à l’histoire des doctrines
grammaticales aie moyen àge, in Noi. et extr., ecc. dell'Istituto imp. di Francia, Paris. Gli stessi testi di
grammatica latina dapprima redatti, com'era naturale, in latino, e poi, quando
e dove la conoscenza del latini' si era venuta facendo più scarsa, corredati
della versione volgare almeno nelle parti più necessarie tvocaboli, verbi,
nomi, avverbi, locuzioni, esempi, temi, finiron coll'esser redatti unicamente
in volgare. Son note le vicende di quel fortunato trattatela di grammatica
latina che fu tramandato di generazione in generazione, di paese in paese sotto
il nome di Janna, e che usurpa spesso il nome a Donato e gli disputa la
supremazia nelle scuole. Copiata e ri-copiata
e ri-stampata talvolta anche col titolo di Donato al Senno, adottata nel
corso preparatorio di Guarino, edita da Mancinelli col titolo di grammaticae
aditus tanna, fu ben per tempo volgarizzata non soltanto da un anonimo
bergamasco, ma da Mancinelli stesso, e nuovamente in Milano col titolo di
Donato al Senno con il Calo volgarizzalo; trad. in greco da Planude, servì ai
Costantinopolitani per impararvi IL LATINO, come agl’umanisti per impararvi nella versione di
Planude il greco. Sabbadini Fior di rettorica, la Retorica di
Tullio, ecc., se non contenevano
precetti di grammatica volgare, mirano però direttamente a metter in grado gl'indotti che ignorano il
latino, di parlare ornatamente nel volgar materno. E il compilatore del Fior di
Retorica riduce in volgare gli esempi
latini. Chi non vede gl’effetti di simili libri e ammaestramenti? Ben a ragione
Villani, parlando nella Cronica, Vili, io, di Latini, lo chiama digrossatore
de'fiorentini in farli scorti in bene parlare, ed in sapere guidare e reggere
la repubblica secondo la politica; e con non minor verità la critica afferma di
lui che mostra un certo presentimento degli alti e utili uiticj a'quali
eran chiamati i nuovi volgari romanzi: lode che in parte spetta anche a
Barberino. Per quanto concerne il latino, sorsero ben presto vocabolari e grammatiche
latino-volgari, che rappre [Ancona e
Bacci, Manuale. Sull'insegnamento che potè aver impartito Latini a Firenze
intorno all'ars dictandi, v. Fr.
Novati, Lect. cit., Le
epistole. Nei Reggimenti e
costume delle donne Onestate dice a Elocjuenza:
E parlerai sol nel volgar toscano E porrai mescidare alcun volgar
consonante ad esso di que'paesi dov'hai più usato pigliando i belli e i non
belli lasciando. Cito, tanto per far qualche
esempio, il dizionarietto latino-volgare contenuto nel cod. della comunale
di Perugia; il VOCABOLARIO
LATINO-ITALIANO contenuto nel cod. della Riccardiana, diviso per materia,
o meglio per gruppi di parole aventi un
identico significato, una specie di vocabolario de'sinonimi: di contro, p. es.,
alla colonna di sepultura, tumulus, baralrum, sepulcrum, pilum, tumba,
monimentum, monumentimi, colossus, cenothaphius abbiamo le corrispondenti voci
volgari la sepoltura, el monimento; la grammatichetta latino-volgare contenuta
nel cod.
di Verona, Biadego, Cai. descr. d. mss. d. Bibl. Coni,
di V. Verona. Un frammento di
grammatica latino-bergamasca ha illustrato negli Studi medievali Sabbadini, il
quale ci ricorda l'osservazione fatta da Thurot che nelle grammatiche latine
del Mezzogiorno d'Europa, dove era più scarsa la conoscenza del latino, sono
interpretati in volgare i thaemata che servivano all'applicazione delle regole. Una nuova grammatica
latino-italiana [veronese] ex ha fatto cono sentano, in ogni modo,
l'ingresso del volgare nelle scuole e nei libri scolastici, come strumento
necessario allo studio del latino, e il primo passo d’esso mosso nel campo
teorico sulla via dell'emancipazione da questo, dove procedette sì ostacolato
ma senza mai fermarsi. Tuttavia, questo ed altro di che si potrebbe
agevolmente dire, non spinse alcuno a
trattar di proposito la regolarità grammaticale ne nei libri né, a quanto si
può sapere, nelle scuole. Anzi quanto si
fece a prò del volgare, agevolandone il naturai uso orale, può considerarsi
come un ostacolo ad avvertir la necessità di quella trattazione. Il concetto teorico
scere Stefani, Revue des langues romanes. È notevole, secondo T., che vi s’espongano
significazioni e costruzioni irregolari e difficili. Un glossario
latino-bergamasco è pubb. da Grion in
II Propugn., e da Lorch ne'suoi
Altbergamkischc Sprachdenkmaler.
Altri testi grammaticali indica Rajna, Introd. cit. Per la spinosa questione, v. Zenatti, Dante e Firenze. La tesi di
Zenatti è che Dante a Ravenna potè aver insegnato nello studio retorica
volgare. La Romagna annunzia che Amaducci pone fine a un lavoro in cui crede d’aver
dimostrato che Dante in Ravenna tenne l'insegnamento della rettorica. Noi ammettiamo la possibilità
dell'insegnamento dantesco di retorica e anche di grammatica volgare, solo per
ciò che abbiamo detto della dottrina d'Alighieri circa la grammatica, e del
carattere precettistico del De vulgari eloquentia;
che, comunque s'andassero ormai modificando le condizioni e l’esigenze degli
studi, un insegnamento di lingua, grammatica, retorica volgare con intenti
letterari non è possibile. Se Dante lo imparte, fu solo, come solo fu a elevare
l'edificio del De Vulgari Eloquentia in quanto ha di nuovo circa la lingua e la
grammatica. Colgo qui l'occasione per dichiarare che dalla vasta letteratura
dell'insegnamento pubblico nessuna luce ho potuto trarre pel mio argomento, non
riguardando essa che fatti del tutto esteriori. Non giovò neppure il fatto die
ormai nel corpo stesso della grammatica latina se ne veniva introducendo tanta
parte di quella volgare da quasi bilanciarla, se s’eccettuino le definizioni.
Le nostre biblioteche sono ricche non solo di Prisciani, di Servi e di Donati,
e di grammatiche latine di noti e
ignoti, ma di compendi e trattati grammaticali latino-volgari veramente
preziosi anche pella storia della lingua, come, p. es., quello contenuto nel
cod. della Riccardiana, in
margine: Bucinensis Epistolae quinque de nonnullis Piscium, Avium, Herbarum, Anima della grammatica identifica
la grammatica col latino, la lingua immutabile, regolata: e checché si pensa
dell' origine e dello svolgimento del
volgare, questo non appare al certo in quella sua anche troppo vistosa mobilità
capace d'esser regolato; anzi i prodigiosi monumenti letterari che il genio dei
tre coronati produce, di tanto superiori a quelli pur così ammirati del periodo
precedente, distolsero vie più dall'idea che fosse necessario osservar le
regole della grammatica d'una lingua in cui, senz'esse, Dante, Petrarca e Boccaccio avevano assegniti,
sì alti fastigi. Né alla grammatica si fa ricorso ne'momenti in cui, cessando
il primato toscano, riaffermandosi le letterature regionali, che innanzi a
quello avevano quasi d'un tratto ammutito, spezzatasi l'unità linguistica nella
stessa Toscana, potè lium Artificium vocabuli, che raccoglie liste di vocaboli
assai importanti (berlingozzi, insalata,
erbastrella, starna, fagiani, merla, giandaia, ecc. Il riccard. L,
contenente una traduzione latina dell’Iliade, ne' Rudimenti grammaticali, ha
lunghissime liste di avverbi, preposizioni e verbi con tutte le corrispondenze
italiane; gli è simile il I3 della nazionale di Firenze; altre liste di verbi
volgari contengono gli Ashburnam della Mediceo-Laurenziana, il riccard., il
misceli. della Casanatense frammento colle
corrispondenze romanesche, vardare, robare, cengere: notevole, tra quanti ho
potuto consultare di siffatto genere, il
riccard. contenente un tractatus grammaticalis ne'cui margini, in
corrispondenza del paradigma latino, è, segnata sempre rosso per miglior uso e
servizio mnemonico, la parte morfologica e sintattica del volgare, che, presa a
sé, è abbondante quanto quasi le regole
di Fortunio. E gli esempi vanno dalla singola parola, el poeta, la musa, lo
homo, la donna, la forestiera a costrutti participiali e gerundivi insegnando
ogni dì, intesi bene principia, volendo il discepolo imparare, e periodici di
più ampia tessitura, avendoti io amato e servito più volte, tu dovevi
richordartene. Questi testi grammaticali, oltre che al comodo comune, servirono
all'istituzione degl’appartenenti a famiglie di qualche importanza. Nell'ultima
pagina del Prisciano contenuto nel cod. riccardiano, è detto: io Lorenzo de
girolamo di Domenico di tingho o venduto q" Prisciano a Alexandre de
Romigi degli Strozzi e al prezzo de lire nove e per fide, ecc. Noto qui, come
per incidente, che molto sarebbe da raccogliere di prezioso materiale
linguistico dialettale o semi-letterario
anche nelle grammatiche latine umanistiche, essendo che i loro autori, Guarino,
Perotti, Scoppa, ecc., abbiano fatto
uso, pelle corrispondenze, del loro dialetto o del dialetto italianizzato.] parere che la letteratura
nazionale è signoreggiata come d’uno spirito d'indisciplina: il che veniva a
ribadire il concetto tradizionale della grammatica. Gello racconta che i literati, che primi usano all'orto de'Rucellai si maravigliarono
di alcuni literati poco avanti la loro età, che avevano composto in versi e in
prosa di questa lingua senza alcuna osservazione: parendo loro impossibile che,
avendo pur veduti gli scritti di que'tre famosi, e'non avessero aperti gli
occhi alle loro osservazioni e non si fossero accorti in quanta corruzione
fusse incorsa la bellissima lingua che
parliamo. Neppur la lettura pubblica nello studio, che pur non poteva non dar
occasione ad avvertimenti grammaticali, suggerì l'idea della compilazione delle
regole prima di Landino, che avvenne pelle ragioni che già vedemmo. Che più?
Dalla morte, anzi dagl’ultimi anni di Dante, che dove ascoltare i rimpianti di
Giovanni del Virgilio del non avere egli scritto in latino il poema, sin oltre l’invettiva di Rinuccini,
cioè fino agl’ultimi echi del giudizio di Niccoli, che ha dopo morte un
difensore in Poggio la quistione sulla preferenza di Dante pel volgare, che è
di quelle che parrebbero fatte apposta per fecondare la critica sulla natura e
la struttura delle lingue e il modo di studiarle, fu a questo proposito
inutilmente agitata: tanto le accuse come le difese non andarono oltre i termini vaghi e generali di
bruttezza e bellezza. Di fronte agl’attacchi e ai dispregi rivolti ad Alighieri
pella forma e la lingua onde compone la commedia non cessati neppur dinanzi
all'opera mirabile compiuta, Guido da PISA (si veda), nel commento latino della dichiarazione
poetica dell'Inferno, si scaglia contro gl’ignoranti che, perchè scritta in
volgare fructum qui latet in ipsa,
quaerere negligimi et abhorrent. Corteccia è la lingua anche per BOCCACCIO (si
veda), che in tre momenti per lui solenni, Epistola a Petrarca per accompa- [È
discretamente abbondante anche la letteratura dei commentatori di Dante e di Petrarca,
ma ben pochi elementi fornisce al nostro tema dal punto di vista teorico. È
largamente trattata da Zenatti in Dante e Firenze, I brani che T. cita in proposito son tutti di
qui, e a questo saggio rimanda per molte altre notizie che gettano luce
sul nostro tema. gnar il testo della commedia,
trattatello in laude d’ALIGHIERI (si veda), lettura in Santo Stefano, difese
con tanto calore il suo ammirato poeta di tutte le accuse. E quando
l'intemperante e intollerante umanista lancia contro Alighieri il titolo di
poeta da calzolai, Rinuccini risponde
osservando che gl’umani fatti dipigne in volgare più tosto per far più utile a
suo'cittadini che non farebbe in latino, e affermando ch’il volgar rimare è
molto più malagevole e meritevole che'1 versificare litterale. Ser Domenico di
maestro Andrea da Prato anda più in là. dicendo che esso volgare nel quale scrive
Dante è più autentico e degno di laude che il
latino e'1 greco ch’essi hanno. Dopo questo stadio acuto della questione
i giudizi s'andaron facendo più miti. E quegli stessi che vi partecipano d’avversari
del poeta, finirono coll'ammirarlo: Bruni, p. es., che dichiara ne' noti dialogi
ad Petrum Histrum, di pensarla come Niccoli, scrive contro questo 1'oratio in
nebulonem maledicum e la vita di Dante e di Petrarca. Il Eilelfo
non isdegna leggere tutte le domeniche al popolo la commedia.
S' intende, anche ora detrattori non mancano, e Filelfo stesso dove purgare il poeta
degli spregi d'ignorantissimi emuli. Ma ormai l'umanesimo trionfante poteva
guardar la passata letteratura
senz'inimicizia, avvicinarla, ammetterla: il certame coronario fu pos- Il
dissidio, s'intende, era più apparente che reale, era più nella mente de' dotti colpita dall’esteriorità e imbevuta di
pregiudizi che non nel fatto: quel latino e quel volgare sono legittimi
prodotti dello spirito italiano, sono due modi d'esprimersi che apparentemente
designano una doppia serie di spiriti diversamente conformati; ma non era né
poteva esser cosi. Era un'età di transizione, e come tale presenta i suoi
contrasti, che sembrano e sono più stridenti
quando il nuovo irrompe colla sfrenatezza e l'intemperanza che gli è
consueta. Negli stessi singoli individui s’avvertono apparenti discordanze:
anche nei tre maggiori non mancano a proposito di questa stessa questione, del
riconoscimento cioè del volgare: semhrano contraddirsi, sembrano oscillare, ma
in realtà essi son sempre d'accordo e coerenti con sé stessi e coll'età. Così
avviene per Bruni e per Niccoli: il
primo muove dal latino per andar verso il volgare; il secondo dagl’entusiasmi
pel volgare che gli fanno imparar a memoria la divina commedia, passa agli
oltraggi contro il poeta divino. Poi tutta la gloriosa schiera degl’umanisti
accoglie in sé latino e volgare, e Alberti,] sibile appunto, perchè le ire sono
sbollite, e il volgare poteva presumere di misurarsi col latino. È appunto, cred'io, per questi
raffronti istituiti senza fiere opposizioni, se non in amichevole accordo delle
parti contendenti, che le discussioni, che dovettero derivarne, poterono
avviarsi a qualche conclusione utile; ora era proprio di lingua, che si poteva
parlare, indipendentemente dalle persone e dalle dottrine poetiche. Il fatto è
che appunto di questi tempi ha luogo, comunque
originata, la già accennata controversia di Biondo e di Bruni, donde
abbiam visto uscire il concetto della regolarità grammaticale del volgare,
concetto veramente rivoluzionario rispetto a quello che si aveva prima della
grammatica. E coll'implicita affermazione della possibilità della grammatica
del volgare, sorgere la grammatica. Anzi
ci fu anche qualcosa di più che quell'affermazione; Landino, nell'orazione tenuta incominciando a
leggere i sonetti di Petrarca, accenna esplicitamente al bisogno di scoprire e
rissare le regole grammaticali del volgare, intorno appunto agl’anni in cui una
mano stende la prima grammatica della lineria italiana. Poliziano, Lorenzo, Sannazaro son glorie di tutt'e due
le letterature. é Medesimamente, quando si parla dello scadimento della lingua volgare, s’adopera un termine
improprio, pelle ragioni che non importa ripetere. Per quel che concerne poi la
copia della produzione, basta, pella
poesia, vedere il volume di Flamini, La lirica loscatia anteriore ai tempi del
magnifico, Pisa, e pella prosa, quel che ne discorre Baco, nel libro Prosa e Prosatori, Palermo, al qual
volume rimando pell’abbondanti notizie bibliografiche concernenti i rapporti tra il latino e
il volgare. E pell'interesse onde fu proseguita
la tradizione nazionale, basta pensare alla lettura di Dante, al circolo di
Coluccio, a quello del paradiso degl’Alberti, alle conversazioni del convento
di S. Spirito, all’improvvisazioni
de'canterini in S. Martino, alle radunanze di
S. Maria del Fiore, all'ufficio
dell'araldo della signoria, all'opera
letteraria de'giudici e notai della cancelleria,
al circolo della bottega di Calimala, a quello della bottega del Bisticci, all’accademia
senese, agl’Orti, e, in genere, all’esercitazioni poetiche mantenute tra le
faccende giornaliere della vita, nelle cancellerie, nelle case signorili, nei
ritrovi, ne'fondachi. In Corazzini, Miscellanea di cose inedite o rare,
Firenze. LANDINO (si veda) è eletto professore pella poesia e l'oratoria. Ma il
caso rimane isolato appunto perchè ormai il movimento a favore del volgare fu
così intensificato, che non ci fu il tempo perchè la via segnata dalla
grammatichetta vaticana potesse essere ila altri battuta. Si sa che dopo l'anno
del certame, L’ITALIANO anda guadagnando sempre maggiori sim-[Avemmo tentativi
parziali d’ortografia, e, anche più particolari di punteggiatura. Onesta
precedenza nella costituzione di regole ortografiche e di punteggiatura ebbe
due diverse cause, oltre quella del dissidio tra il latino e il volgare: le
esigenze create dall'invenzione dell'arte della stampa, e il gusto che il
classicismo veniva sempre più raffinando e che voleva dimostrare anche nei
minimi particolari della scrittura. Per tale rispetto il costituirsi di questa parte della grammatica in norme
speciali era un avviamento di progresso, perchè moveva dal bisogno sentito
dall'artista di conservare alla sua parola tutta quella vita o la parte di
quella sua vita di cui egli aveva coscienza. È, al proposito, della massima
importanza il vedere quello che recentemente s'è scoperto praticasse PETRARCA (si veda) in armonia con una teoria
quasi certamente sua nello stendere in
definitiva forma il suo canzoniere, egli che da quel grande umanista che era e
artista di squisitissimo sentimento, il più squisito che noi avemmo, ben è in
grado d’avvertire le più impercettibili sfumature d'accento e di suono ne'suoi
schietti e luminosi fantasmi. Egli, oltre il suspensivus (/), la nostra virgola, il colon (.), il nostro punto, l' interrogativus anche talora in forza d'esclamativo f., il
nostro interrogativo, adopera per speciali atteggiamenti di pensiero DUE ALTRI
SEGNI speciali: un punto sottostante a una virgola (.'), simile nella forma al
nostro esclamativo, pella clausola non chiusa
nell’INTENZIONE (vide Grice, “I KNOW vs. I know” -dello scrittore – R.
M. Hare sub-atomic particles of logic; e un punto attraversato da una virgola (/), per esprimere un'idea enfatica – cf. Grice on stress - di
particolare interesse per lui. Do un esempio del primo segno. Da be rami
scendea dolce nella memoria. Una pioggia di fior sovral suo grembo. Ed ella si
sedea Humile 7
tanta gloria couerta già de lamoroso nembo. Qual fior cadea sul lembo.
Qual sulle trecce bionde Choro forbito e perle
Eran quel dì a vederle. Ed ecco un esempio del secondo. Voi cui
fortuna a posto in mano il freno delle belle contrade Di che nulla pietà par
che vi siringa. Codesti segni, che si trovano adoperati anche nel vat. hit.,
contenente il bucolicum cat'tnen e nel vat. lat., contenente il de sui ipsius et multorum ignorantia,
corrispondono perfettamente a quelli di cui si discorre in un’ars punctandi, attribuita
a PETRARCA, e che questi avrebbe esposto
in una lettera a Salutati in risposta a un quesito di lui. L'edizione è fatta a
Lipsia con i tipi d’Arnaldo da Colonia, e comprende tre opuscoli riuniti certo
per uso scolastico: Il modus epistola/idi di Saphonenn, l'ars patie e aiuti da
parte de'dotti, e dalla Toscana il moto si propaga con molta rapidità nelle
altre regioni d'Italia, specie nel Veneto, dove scrissero o insegnarono le regole della lingua volgare
Augurello e Gabriello, e punctandi di Petrarca, e il Dyalogus de arte punctandi
di Giovanni de lapide. Società filologica
romana, iI canzoniere di Petrarca riprodotto letteralmente dal cod. vat.
lai., coti tre foto-incisioni, cur. Modigliani, in Roma, presso la Società.
Ili, Prefazione. Per altro, devesi osservare che questi trattatelli di ars
punctandi, come altri d'altro argomento
affine, quale il trattato De aspiratione di Pontano, erano dettati non in
servizio del volgare, ma specialmente in servizio del latino. Il volgare v’entra
in ispecie pelle varietà che veniva offrendo rispetto al latino, e l’osservazioni
erano poi più o meno seguite dai nostri grammatici del volgare. P. es.,
Fortunio ci dice. Come che il dottissimo Pontano nel suo trattato d'aspiratione dice, la pre-posizione
di questa lettera g a'vocali [come
in Giano, gioco, Giove] nella volgar lingua esser processo da barbari:
ma, la Tosca pronunciatione seguendo, a me par che vi si convenga. Se non s’ebbero
speciali trattati ortografici, non manca peraltro chi nelle trascrizioni
seguisse un sistema determinato di pronunzia. Mi basti citare 1'esempio messo
in luce da Rajna, Osservazioni
fonologiche a proposito d’un ms. della
Magliab., il libro della storia di
Fioravanti, in II Propugu., Dell'insegnamento di Trifon Gabriele, autore d'una Institutione della
grammatica volgare, uno de'grammatici e critici più riputati, e chiamato il
Socrate di quella età, Sanctis, Storia, ci lascia notizia in uno de'suoi dialoghi
Speroni, dove introduce a parlare de'
propri studi Brocardo. Questo nostro buon padre primieramente mi fa noti
i vocaboli, poi mi die regole da conoscere le declinazioni e coniugazioni di
nomi e verbi toscani, finalmente gl’articoli, i pronomi, i participii, gl’avverbi
e l’altre parti dell'orazione distintamente mi dichiara. Tanto clic accoltein
uno le cose imparate, io ne composi una mia grammatica con la quale scrivendo
io mi reggevo. In Sanctis. Per ogni
notizia riguardante Augurello, Gabriello
e altri, rimando al cit. libro di Cian, Un
decennio ecc. Per Augurello, in particolare, Serena, Attorno ad Augurello,
Treviso, e Pavanello, Un maestro: Auguralo, Venezia. 11 P. non sa dirci nulla se
l'A. scrive la grammatica; ma afferma l'esistenza dell'insegnamento a
Padova, a Venezia, a Treviso, e dà altre
indicazioni importanti circa uomini e cose di questo periodo e di quanti
sono in
relazione con Bembo. Bembo anda meditando quelle che poi divennero le
sue celebri prose, mettendo insieme, a
richiesta d'una sua amica, un libretto di Votazioni. La grammatica ormai cade
sotto il dominio della poetica del ri-nascimento e si sottopone al principio
dell'imitazione: la qualità di Toscano
non era più necessaria per occuparsi autorevolmente ed efficacemente del
volgare, che veniva a esser considerato come lingua morta, e come tale studiato
e regolato nella grammatica. E senza negare che pur in Toscana le cure spese
intorno ad esso né s'arrestano né s'affiochirono, che anzi troveremo non pochi
tra i Toscani escogitatori di concetti e di riforme veramente originali,
pure il movimento si svolge segnatamente
fuor di Toscana, almeno nei rapporti della compilazione scritta delle regole.
Ci basta il ricordare che a confessione stessa di Bembo, sono alquanti che
scriveno della lingua volgare. Codesti dovevan esser certamente fuori di quel
circolo cui egli dirige il manoscritto delle sue prose e che era composto di
Trifon Gabriele, suo principale corrispondente,
d’Augurello, di Tiepolo, di Valerio, di Ramusio e di Navagero. Chi
fossero non è ben chiaro, ma nella mente di Bembo dovevan esser con ogni
probabilità, oltre il Calmeta, che accusa di plagio, Fortunio, Liburnio, Colocci. Se tutti costoro insegnassero o
scrivessero, come Augurello e Trifone, regole della volgar lingua, non sappiamo;
come non sappiamo se e come si concretassero
l’osservazioni della lingua che, secondo la testimonianza di Trissino,
sarebbero andati facendo Dolfin, Fracastoro, Giulio Su Calmeta v. specialmente Rajna,
La lingua cortigiana Anche a Colocci sono attribuite d’Ubaldini regole
della lingua, che però dovrebbero essere state confuse, come ben suppone Cian,
non tanto col vocabolario, che effettivamente esiste nei due codd.
vaticani, sì bene coll’annotazioni su
varii autori volgari e latini o colla
Colleclio vocum Petrarchae et aliorum, die realmente esistono ancora Oggidì fra i codici vaticani. Per
Colocci, Rajna, recens. cit. del libro di Belardinelli, nella
quale -ohm anche messi a profitto due
altri scritti riguardanti Colocci, l'uno di Neri, Nota sulla letteratura
cortigiana del Rinascimento, in Bull. il. di Bordeaux, e l'altro di Debenedetti, Intorno ad
alcune postille di A. C, in Zeit. f. rom. Philol.. 4S Sforici
della Grammatica Camillo, e quel Amaseo di cui, mentre
pronunzia una gonfia orazione a BOLOGNA in difesa del latino, ormai
detronizzato, si sa che spiegava al proprio figliuolo e a un altro scolaro le regole della volgar Ungila,
e l'altro gruppo di letterati di cui ci tiene parola Dolce nelle sue Osservazioni, Cappello, Veniero, ZANE (si veda), Gradenigo, Baroer, Amalteo,
ecc. – TUTTI VENETI. Ma se non tutti sono stati intenti a scriver e
compilar grammatiche, di cose grammaticali certo s'occupano e molto s'
intendevano, specie coloro a'quali Bembo richiede l'opera di correttori e di
consiglieri, e, per tornare in Toscana, i frequentatori di quegli orti
Oricellari, alle cui discussioni presero
parte, tra gli altri, TRISSINO (si veda), che vi espone le sue dottrine
ortografiche, e il grande segretario fiorentino che bolla d'inonestissimi i
seguaci di Trissino, sostenendo che quella tale lingua curiale non esiste se non in quanto il fiorentino
de'sommi si sarebbe imposto all'uso letterario di tutta Italia, arricchito nel
vocabolario, ma invariato nella grammatica,
e che, primo Per una grammatica di Camillo
v. più innanzi. Zambaldi, Delle teorie ortografiche in Italia, estr. dagl’Atti
del R. Istituto veneto, Venezia. Sensi
(M. Claudio Volo/nei e le controversie
sull'ortografia italiana, non è disposto
a cedere la priorità e la maggior importanza del movimento grammaticale toscano
di contro a quello delle altre regioni d'Italia, e raccomanda che questo punto sia meglio riveduto. Egli anche
a parer mio ha perfettamente ragione, (pianilo parla d’un interessamento dei
Toscani vivo, continuo e intenso versoli loro idioma, che manifestano specie in
radunanze e ritrovi, nello sforzo di parlarlo meglio che possono; ma in fatto di produzione di
grammatiche, fatto concreto e accertabile e accertato quella vaticana è
l'eccezione che ha il valore che abbiam
visto il posto d'onore spetta a non toscani. Quella stessa testimonianza di
Pazzi quel che noi ridiente diciavamo, loro si sono messi a far sul serio
indica la coscienza che di questo fatto avevano i toscani; e vedremo che fino a
Giambullari, la Toscana non ebbe un vero e proprio grammatico del volgare, e
quando i Toscani vi posero mano tu proprio anche per un certo sentimento di vergogna che li punse nel
vedersi legiferare la loro lingua dagl’altri – “which reminds me of Otto
Jersperson!” H. P. Grice. Su gl’Orti, Scott, The Orti Oricellari, Firenze. Pella
composizione del Dialogo intorno alla
lingua di Machiavelli, v. Rajna, in
Rend. d. Acc. d. Lincei, fra tutti, intuì il valore dell'elemento
sintattico nella lingua, come fecero
poi, tra gli altri, il Martelli e
Gelli. Tutto questo è detto per dimostrare che, quando Fortunio pubblica le sue
regole, la necessità dello studio grammaticale del volgare era largamente riconosciuta, sia come effetto della sorta
coscienza dell'importanza della letteratura, sia in tanto in quanto a parlar
bene nel patrio idioma occorr, in ordine al canone dell' imitazione formulato
dal classicismo, osservare la regolarità
de'nostri sommi. Quando Fortunio pubblica le sue regole, due fatti si maturano,
la vittoria definitiva del volgare sul LATINO e il comporsi della dottrina
dell'imitazione in una salda unità di principi. Anzi esse ne sono la prima comune manifestazione. Primo e
principale effetto di quella dottrina è lo studio della forma esteriore così
nella letteratura antica che nella
moderna, elevata ai medesimi onori di quella: della forma nessun aspetto
fu trascurato, parendo essa
quasi tutto il meglio del- [Regole
grammaticali della volgar lingua di
i/tesser FORTUNIO (si veda), reviste,
e con somma diligentia corrette. Aldus. La prima edizione ne è fatta in Ancona
per Vercellese. In poco più di trentanni sono ristampate diciotto volte.
Un'altra edizione da T. consultata è
quella di Vinegia, per Bindoni e Pasini compagni. Una
bibliografia de’nostri antichi grammatici s’ha nella Biblioteca
dell'eloquenza italiana di FONTANINI (si veda) annotata da Zeno, Venezia. Di
grammatici s’occupa di proposito anche Tiraboschi nella sua storia della
letteratura italiana, Roma. Grammatici italiani in volgare; Contese ortografiche, sul titolo della lingua, ecc.; GRAMMATICI FILOSOFICI TOSCANI. Notizie a
loro relative si possono raccogliere in tutte le storie letterarie: T. cita per
tutte quella scritta d’una società di professori e edita per cura di Yallardi,
ma ricordando in particolare la storia di Canello, Milano. Ai meriti di Sanctis
anche verso la storia, l'opera
d'arte, ivi scoprendosi tutto l'artifìcio dello
scrittore: quindi sceltezza di lingua,
correzione, regolarità, eleganza, armonia nel disegno totale e in
ogiir-rniirimo particolare sono le doti volute alla perfezione d'un' opera: si
discusse dove e come studiarle: sono studiate, poi legiferate, codificate in
altrettanti particolari trattati: grammatiche, vocabolari, disamine
linguistiche, metriche, rettoriche: l'osservazione è tradotta in legge: sorge
così il purismo classico:
l'erudizione cede il passo all'estetica.
Di queste particolari trattazioni, se stiamo alle date delle principali opere
critiche, sorge prima la grammatica: che le prose di BemboT dove, oltre la grammatica, son trattati
l'effetto poetico dei diversi suoni e il valore onomatopeico delle varie vocali
e consonanti, sono del 25, il De Arte poetica di Vida, dove si danno le leggi d’armonia
imitativa, è del 27, la Poetica di
Trissino, che discorre di lingua e metrica toscana, è del 29, del 35 è il primo vero vocabolario toscano, al
39 risale il tentativo di Tolomei
d'introdurre i metri classici nella poesia volgare ecc. Se ciò non dipese dal
caso, la ragione è da ricercare nel fatto che, come la regolarità grammaticale
è la caratteristica che prima colpisce l'occhio del lettore e dello studioso ed
è, diremo, la dote essenziale della
forma esteriore d'una scrittura, così è o sembra più facile e nel tempo stesso più utile e
necessario il codificarla. La grammatica inoltre, e questa della grammatica ho già accennato, e torna a
discorrerne direttamente a suo luogo. Notizie di grammatici s’hanno, naturalmente,
in tutti i libri che trattano la questione della lingua: bastera che T. ricordi qui: Caix, Die Streitfrage ilber d. ital. Sprache, neh'
Italia dell' Hillebrand; Ovidio, Le correzioni ai promessi sposi e la questione
della lingua; Napoli; Vivaldi, Le controversie intorno alla nostra lingua;
Catanzaro, Foffano, Giorn. si. d. leti. il., dove si tien conto de'grammatici con
molta diligenza; Luzzatto, Pro e contro Firenze, Sensi, Pass. Bibl.; ora, Belardinelli, La questione della lingua.
Un capitolo di storia della letteratura
italiana. Da Dante a Muzio. Con una fonte, Roma, cit.
receus. Rajna Su i primi
grammatici della lingua italiana è scritto, oltre che da Morandi già
cit., da Ferrari, Rivista europea.
Anche nel Canone è la prima scienza. è ragione forse di maggior peso che non la
precedente, è in intima connessione con ognuna delle trattazioni che possono
esser condotte anche separatamente;
perchè è linguistica, se indaga l'origine e lo sviluppo della lingua che
studia, è vocabolario in quanto registra, nei paradigmi e negl’esempi, molte serie
di parole, è storia dove tratta
d'etimologia, è metrica, e, fino a un certo segno anche rettorica, specie dove discorre dell'uso e
della collocazione delle parole e delle figure grammaticali. Lo sguardo
del grammatico, insomma, può spingersi
in ogni aspetto della forma, s’è largo e
profondo. L'opera del nostro Fortunio, infatti, di cui abbiamo i primi due
libri soltanto, l'uno del dirittamente parlare, morfologici, l'altro del
correttamente scrivere, ortografia, comprende, secondo quant'egli afferma nel
proemio, in altri tre libri, la trattazione delli più riposti vocaboli, etimologia,
stilistica, della costruttione varia
delli verbi, sintassi, e della volgare
arte metrica, svolgendo così tutta o quasi la materia grammaticale, senza dire
che nel primo e secondo libro sono spesso discusse delle questioncelle di
critica ermeneutica, quasi saggio d'un'ampia appendice, che pure aveva tracciata
nel suo disegno. Ad ogni modo, questo primo tentativo d'abbracciar tutta la
forma della lingua che s’offre ora allo
studio e alla imitazione, rivela il calore onde la critica s'applica alla letteratura.
Ma, in generale, all'elaborazione della grammatica volgare, com'è già avvenuto per quella vaticana, presede il
modello della latina. Dei grammatici latini quelli che conservano fino al ri-nascimento
la maggiore autorità, sono Donato, ch'alla
prima arte volle pella mano, e Prisciano
Cesariense, della turba grama
dantesca: Donato specialmente, nell’Ars minor, pella prima istituzione
grammaticale, e Prisciano, il più completo fra tutti, pello studio più elevato;
ma il ri-nascimento sente il bisogno d’adattarli per i tironi riducendoli e
integrando l'uno coll'altro. Un primo tentativo di riduzione ha eseguito per
tempo Zonino da Pistoia, che è il primo a imporre il nome di Reguìa~e~?i\\%. grammatica latina; ma non ha molta fortuna. Assai più largamente adottati sono invece
Guarino e Perotti. Quest'ultimo gode ancora il vivo favore dei discenti, come
vedremo sulla testimonianza del
Conte di
S. Martino, che lo copia
letteralmente nelle sue osservazioni di grammatica toscana. T. da in nota, per
comodità dei lettori e per evitarsi continui raffronti
e ripetizioni, un'indicazione sommaria
delle due arti di Donato e dell’instituzioni di Prisciano, valendosi
delle loro stesse parole: di Prisciano,
che non si presta pella sua abbondanza di
Ecco lo schema della Donati De partibus orationis ars minor, ed. Kiel,
Lipsiae. Partes orationis VIII – I nomen
II pro-nomen III verbum IV adverbium V participium VI coniunctio VII praepositio VIII
interiectio.Nomen est =df pars orationis cum casu corpus aut rem proprie communiterve SIGNIFICANS
(Grice ; ‘shaggy.’) Nomini accidunt, sex: qualitas, proprium – FIDO --, appellativum – shaggy conparatio positivo comparativo
supperlativo, genus, maschile, femmenile commune promiscuo numerus singulare
duale – ‘ambedue’ --, plurale, figura, simpice, conposta, casus VI. Pro-nomen est =df pars orationis –
Grice, “Someone, I, is hearing a noise, quæ pro nomine posita tantunden paene SIGNIFICAT
PERSONAMque – Grice, “PERSONAL IDENTITTY: “Something is hearing a noise” --
interdum recipit. Pronomini accidunt, sex) : qualitas, genus, numerus, figura. Verbum est (=df) pars orationis cum tempore et
persona sine casu aut agere aliquid aut pati aut neutrum SIGNIFICANS. Verbo accidunt septem
qualitas in modis indicativo imperativo ottativo
coniuctivo infinitivo impersonale. In formis perfecta meditativa frequentativa inchoativa.
Coniugatio PRIMA, AM-o, -as, -bo, -bor; SECONDA,
doceo; TERZA, lego genus attivo passivo neutro deponente
com.ì; numerus f singolare, duale, plurale
figura isimplice composta tempus praesens, praeterito imperfetto perfetto plusquamperfectum; futuro),
persona prima – Grice, “I am hearing a noise”, SECONDA TERZA “Someone is
hearing a noise). Adverbium
– e. g. ‘non,’ compostodi ‘ne’ e ‘on’ – est =df pars orationis, quæ adiecta verbo
SIGNIFICATIONEM eius explanat atque inplet. Adverbio accidunt tria: significano
loci temporis numeri NEGANDI (‘non’) affirmandi demostrandi optandi hortandi
ordinis interrogandi similitudinis qualitalis quantitatis dubitandi personæ vocandi
respondendi separandi iurandi eligendi congruendi prohibendi eventus comparandi
comparatiti figura. Participium est =df. pars orationis partem capiens
nominis, partem verbi;
nominis genera et casus, verbi tempora
et SIGNIFICATIONES, utriusque numerimi et figuram. Participio accidunt
sex: genus casus tempus SIGNIFICATIO numerus
figura. Coniunctio est =df. pars oratiois adnectens ordinansque
sententiam. Coniuctioni accidunt irta: potestas
coppulativa – e -- disgiunctiva – o -- expl. – ‘se’ --, caus., ration. figura ordo praep., subs., coiti.
Prae-positio est =df. pars orationis quæ praeposita aliis partibus orationis SIGNIFICATIONEM casum aut conplet
aut mutat aut minuit. Praepositioni accidit unum: casus. Interiectio est =df. pars
orationis SIGNIFICANS MENTIS [ANIMAE] AFFECTUM VOCE INCONDITA. Interiectioni accidit
unum: SIGNIFICATIO (la intelligimus cum multis
aliis etiam comprehensivum, verbale, principale, adverbiale. de comparativis et
sup. et eorum diversis extremitatis: ex
quibus positivis et qua ratinili formantur; de diminutivis: quot eorum species,
ex quibus declinationibus nominimi, quomodo formantur de denominativis et verbalibus
et part. et adv.: quot eorum species, ex quibus primitivis, quomodo
nasenntur. de generibus dinoscendis
per singulas terminationes; de
nunieris; de figuris
et earum compage;
de casti. Genera: masculinum, femininum, commune et
neutrum vocis magis qualitade quam natura dinoscuntur, quae sunt sibi contraria,
epicœna vel promiscua. clnbia. Numerus dictionis forma, quae discretionem quantitatis
facere potest. singularis vel pluralis.
Figura quoque dictionis
in quantitate comprehenditur: vel
eiiim simplex, vel
composita, vel decomposita. Casus est
declinatio nominis vel aliarum casualium dictionum quae fit maxime in fine.
de nominativo casu per singulas extremitates omnium nominnm, tam in vocales
quam in consonantes desinentium, per ordinem; de genetivorum tam
ultimis quam penultimis
syllabis, de ceteris
obliquis casibus, tam
singularibus quam pluralibus, de verbo
et eius accidentibus. VERBVM est pars
orationis cum temporibus et modis,
sine casu, agendi vel patiendi SIGNIFICATIVM. accidunt octo. Significatio sive
genus, tempus, modus, species, figura, coniugatio et persona cum numero, quando afifectus
animi definiti. Significatio: activus,
passivus, neutrum (absolutum i, deponens. tempus: praesens, prateritum et futurum:
praeteritum in tria, imperi"., perf.,
plusquamp. modi sunt diversae inclinationes animi, varios eius
affectus demonstrantes. sunt autem quinque: ind. sive definitivus, imp., opt., subiun.,
infinitus. ind.us, quo indicamus vel
definimus, quid agitur a nobis vel ab aliis, qui ideo primus ponitur, quia
perfectus est in omnibus tam personis quam temporibus et quia ex ipso omnes
modi accipiunt regulam et derivativa
nomina sive verba vel participia ex hoc nascuntur, et quia primo positio
verbi, quae videtur ab ipsa natura esse prolata, in hoc est modo, quemadmodum in nominibus est CASVS NOMINATIVS,
et quia substantiam sive essentiam rei SIGNIFICAT, quod in aliis modis non est.
neque enim qui imperat neque qui optat nequi qui dubitat in subiunctivo substantiam
actus vel passionem significat, sed tantummodo varias animi voluntates de re cavente
substantia. Species sunt verborum
duae, primitiva et derivativa, quae inveniuntur fere in omnibus partibus orationi.
diversae species inchoativa, -sco, meditativa, -urio, frequentativa, desiderativa,
et aliæ a nominibus (patrisso) et a verbis (albico). Impersonalia Figura quoque accidit verbo,
quomodo nomini. Coniugatio est consequens
verborum declinatio. Sunt igitur personae verborum tres. Numerus accidit verbis
uterque, quomodo et omnibus casualibus, singularis, pluralis. de regulis generalibus
omnium coniugationum. de praterito perfecto. de participio. de pronomine. est pars orationis, quae pro nomine
proprio uniuscuiusque accipitur
personasque finitas recipit.
accidunt sex: species,
personae, genus, numerus,
figura, casus. species: primitiva derivativa, persona prima et secunda persona
singula habent pronomina, tertia sex
diversas voces. demonstrativa, hic, relativa, is, praesens iuxta, iste, absens
vel longe posita, ille, demonstrativa et relativa. genus: m., f., n. figura: s.,
e. numerus: s., pi. casus: quemadmodum
nominibus. De præpositione. Apolloni auctoritam in omnibus sequendam
putavi. pars orationis indecl., quae prep. aliis part. vel appositione vel
comp. cognationes de potestate separatae praepositiones vel acc. vel abl. adiunguntur. De adverbio
et interiectione. Pars orationis ind., cuius significatio verbis adicitur. accidunt
species, significatio. figura species prim.
der. conp. sup. dim. significatio
adverbiorum diversas species
liabet tempus locum dehortativa confirmativa figura: simpl. conp. deconp.
iurativa dub. discretiva ord. intentiva comp. super, etc. Interiectionem Graeci inter adv. ponunt, quoniam haec quoque
ve] adiungitur verbis
vel verba ei
subaudiuntur, ut si
dicam papae, quid video?',
vel per se
'papae', etiamsi non
addatur 'miror', habet
in se ipsius
verbi significationeni. quae res maxime fecit, Romanorum artium scriptores
separatim liane partem ab adverbiis accipere, quia videtur affectum habere in se
verbi et plenam modus animi significationem, etiamsi non addatur verbum, demonstrare.
interiectio tamen non solum quem dicunt græci oxerMao/uóv significat, sed etiam
voces, quae cuiuscumque passionis animi
pulsa per exclamationem
intericiuntur. habent igitur
diversas significationem: gaudii,
doloris, timoris, etc optime tamen
de accentibus earum
docuit DONATO E PRISCIANO, quod non sunt certi, quippe, cura et
abscondita voce, id est 6r non piane expressa, proferantur et prò affectus commati
qualitate, confunduntur in eis accentus De coniunctione. e. est pars orationis
ind. coniunctiva aliorum o. quibus consignìflcat, vini vel ordinationem demonstrans:
vim, piando simul essires aliquas significat, ut et pius et fortis fnit Ænaeas;
ordinem, quando consequentiam aliquarum demonstrat
rerum, ut si ambulat, movetur. accidunt:
figura et species, quam alii poteitatem nominant, quae est in significatione coniunctionum,
praeterea ordo. figura: s., e. species:
copulativa, continuativa,
subcontinuativa adiunctiva causalis effectiva approbativa disiunctiva subdis. disertiva
abl. praesump. advers. abneg. collect. vel rationalis dub. completiva ordo: praeponuntur.
subponuntur. de constructiono sive ordinatione
partium orationis, inter se. Quoniam
in ante expositis
libris de partibus orationis in plerisque Apolloni auctoritàtem sumus secuti,
aliorum qtwque sive nostrorum sive Graecorum non intermittentes necessaria et si
quid ipsi quoque novi potuerimus addere, nunc quoque eiusdem maxime de ordinatione
sive constructione dictionum, quam Graeci ovvra^iv vocant, vestigia sequntes, si
quid etiam ex aliis vel ex nobis congruum inveniantur, non recusemus
intercipere. necessariam ad
auctorum expositionem. est oratio comprehensio dictionum aptissime ordinatarum,
quomodo syllaba comprehensio literarum aptissime coniunctarum, et quomodo ex syllabarum
coniunctione dictio, sic etiam ex dictionum coniunctione perfecta oratio constat.
Exempla: per abundantiam: literae, relliquias, syllabae, tutudi, dictionis, me,
me adsum qui feci; literae prorfest, syllabae, inafoperator, dictionis, sic ore locuta est: per defectionem: literae, audacter,
syllabae, commovit, dictionis, urbs antiqua fuit quam, Tyrii tenuere coloni. Quomodo autem literarum rationem vel scripturae
inspectione vel aurium sensu diiudicamus, sic etiam in dictionum ordinatione disceptamus
rationem contextus, utrumque recta sii an non. nani si incongrua sit, soloecismum
faciet, quasi elementis orationis inconcinne
coeuntibus, quomodo inconcinnitas literarum vel syllabarum vel eis accidentium
in singulis dictionis facit barbarismum. sicut igitur recta ratio scripturae docet
literarum congruam iuncturam, sic etiam rectam orationis compositionem ratio ordinationis
ostendit: dementa, syllabae, dictiones, orationes praeponuntur et postponuntur,
dividuntur et coniunguntur, transmutantur, aliae prò aliis accipiuntur. Solet quaeri causa ordinis
elementorum, quare a ante b et cetera; sic etiam de ordinatione casuum et generum
et temporum et ipsarum partium orationis solet quaeri. restat igitur de supra dictis
tractare, et primum de ordinatione,collocatio, partium, quamvis quidam suae solacium
imperitiae quaerentes aiunt, non oportere de huiuscemodi rebus quaerere, suspicantes fortuitas esse ordinationum positiones. sed quantum
ad eorum opinionem, evenit generaliter nihil per ordinationum accipi nec contra
ordinationem peccari, quod existimare penitus stultum. si autem in quibusdam concedunt
esse ordinationem, necesse est etiam omnibus eam concedere, sicut igitur apta ordinatione
perfecta redditur oratio, sic ordinatione apta traditati sunt a doctissimis artium scriptoribus partes orationis, cum primo
loco nomen, secundo verbum posuerunt, quippe cum nulla oratio sine iis completur,
quod licet ostendere a constructione, quae continet paene omnes partes
orationis. a qua si tollas nomen aut verbum, imperfecta rit oratio; sin autem cetera
subtrahas omnia, non necesse est orationem deficere, ut si dicas: idem homo lapsus
ben bodie concidit, en omnes insunt partes orationes ausane comunctione, quae si
addatili, aliarti orationem exigit. Possumus autem et amplioribus rationibus
de ordinatione partium demonstrare; sed quia non de ea propo sitimi nobis est, sumciat
hucusque dicere. Quaestio quare interrogativa dictionum in duas partes orationis
solas concesserunt, id est in nomen et in adverbium: an haec etiam approbatio est,
principales duas esse partes orationis nomen et verbum, quae quando in notitia non
sunt, habere de se interrogationem frequenter
accipiendam? Ouoniam de bis, quae
loco articulorum accipi possunt apud Latinos in supra dictis ostendimus et de generaliter
infinitis vel relativis vel interrogativis nominibus, quae relationis causa stoici
inter articulos ponere solebant, et de adverbiis, quae vel ex eis nascuntur vel
eorum diversas sequuntur
SIGNIFICATIONES, consequens esse existimo, de pronuininimi quoque constructione
disserere. Partes orationis
ad aptam coniunctiones ferri debent. per figurarti, quam Graeci à.kkoiòxt\xa vocant,
id est variationem, et per nQÓÀrjynv vel
ovMeipiv, id est praeceptionem sive conceptionem, et per geBypia, id est
adiunctionem et concidentiam, quam
ovvé/ATtxcùOiv Graeci vocant,
vel procidentiam, id
est àvrwirwow, et numeri diversi et
diversa genera et diversi casus et tempora et personae non solum transitive et per
reciprocationem. sed etiam intransitive copulanti, quae diversis auctorum exemplis
tam nostrorum quam Gra osservarle, a insegnarle, a compilarle sono ormai una schiera,
e il fine questo conta ancor più è in tutti unito: trovar i principi onde condur
con profitto lo studio e la 1 Vó stretto; per la s dolce propose il 0, per il eh
seguito da i atono il k, per il suono gì
la grafia Ij, lasciando il e e il g col suono gutturale dinanzi a tutte le vocali,
e il eh e gh pel palatale, e il digramma se. Sicché il suo alfabeto, quale ci è
messo sott'occhio nella Grammatichetta, presenta 33 rappresentazioni: a b e d e
f g eh e gh k i 1 j m nopqr^stouz v § x y th ph h, delle quali
fa 28 SIGNIFICATIV, cioè, rappresentative degl’elementi
della voce, V
oziose -- x, y, ph, th, h -- benché
“h” non lo consideri
una *lettera*, ma
un accento aspirato. Le SIGNIFICATIVE distingue in VII vocali
(aeeiocju) e 2i consonanti. Colle vocali
forma 13 dipthomgi, ai au ei eu ei
ia ie ie io ico iu oi uo e un triphthngG>
(iu 99 renze e a Siena se ne fosse parlato, non mancali prove che l’attestino.
Lasciando dell'atteggiamento preso contro Trissino e quant'è di personale nella
polemica, e la contestata possibilità di conseguir l'intento in materia siffatta,
gl’oppositori accettarono la distinzione per
Vu e il v, quella dell', per convenzione. Tratta poi del nome, e non va
più innanzi, perchè da lui rivegna a noi, di tutte le cose conoscimento, forma e sostanza.
Secondo il novero e il grado, secondo che SIGNIFICA Corpo o ver Cosa, che sia d'altrui
qualità propria o
comune, otto ne
sono gli osservamenti: Specie Qualità Comparazione Geno
Novero Forma Grado e Terminazione. Date tutte [È
la vera traduzione
dell' alviariKÓv de’greci.
Trattandosi della prima grammatica dove si affacci un
intendimento classificatorio – o tassonomico, i. e., non-esplicativo –
adequazione descrittiva --, credo meriti
la spesa il riferire le definizioni di quest’accidenti grammaticali. Specie ee,
una natia disposizione, di che che sia voce; per cui de'1 primo suo essere discernimento
riesca, o soccedente dopo. Geno ee egli, uno racconoscimento dell'un sesso all'altro,
dallo anziposto articolo, naturalmente tratto, o dall'autorità degli scrittori,
alle genti rimase. Novero e egli, uno accrescimento di quantità, d’uno a più procedente;
per terminazione distinto. Forma ee ella, uno racconoscimento della parola sempiamente
detta, o congiunta e apposta altrui. Grado fia egli, un certo movimento della variazione,
ne '1 Novero, racconoscimento per anziposto
articolo sempiamente addetto, o con preposizione
riposto. I casi son detti: nominativo vocativo genitivo acquisitivo causa-] guaito
le relative definizioni, porge i paradigmi delle terminazioni, declinazioni, di
cui fa cinque classi a; o; e; i; Gerì, Portici,
Napoli; cons. David, Babel e infine un Notamente
vocabolarietto de Nomi di che sia detto nello costui ragionamento. La medesima
applicazione del concetto di TRISSINO D’ORO del volgare illustre al canzoniere
fa un altro curioso seguace di Bembo, il conte di S. Martino nelle sue osservazioni grammaticali
e poetiche della lingua d’ITALIA, dove lo schematismo grammaticale acquista quanto
e più che nella grammatica dell'Ateneo un considerevole sviluppo. Difendendosi dall'accusa
rivoltagli d'incapace, qual nato sul confine,
a osservar le regole del volgare, egli fa intendere che non occorre esser toscani
per comprender Petrarca, il quale non iscrive nel puro fiorentino, ma nell'ITALICOi,
che rappresenterebbe per noi quel che per i Greci la Kotvfj òià/.EKTos(l). Egualmente dichiara d’attenersi ai modi facili
e intesi da tutti, non tolti di mezzo la Toscana, e usando anche vocaboli latini
un m. Nicolò Tani dal Borgo a S. Sepolcro che, pur trattando della nostra lingua
toscana, scrive i suoi avvertimenti sopra
le regole toscane colla formazione de’1 verbi, e variatione delle voci, non pe'toscani,
tivo, Terminativo. Qualità ee, un partimento di nomi, de gl’uni agl’altri, altri
fatto commone o proprio, a cose divertevoli tratto.Comparazione ee un accrescere
o scemare di qualificato accidente, con anziponimento di se: per l’additioni fattone,
significanti diminuzione, o accrescimento d’appellazione che sia. Terminazione,
osservamento sezzaio, una fine esser diciamo, di che che sia Appellazione; variata per gradi, et in uno de
vocali pello sempre finiente; con barbari alquanti in consonante formati. I nomi
son divisi in essistenti, sostantivi, e adherenti, aggettivi, shaggy. La doppia
uscita è chiamata geminamente chiostro, -a;
calle, -a; martire,
-o. Delle parti del discorso fa nove
classi: nome, pronome, articolo, dittione,
verbo, partecipante, additione, avverbio, preposizione, congiuntione, interposizione:
che corrispondono press'a poco alle nostre, tranne che fa una classe del participio
e non dell' 'aggettivo, che fonde col nome. A questo raffronto hanno ricorso altri
propugnatori dell'italiano comune, a cominciar da CALMETA, che se ne sarebbe servito
per persuadere, ma indarno, la sua dottrina a TRIFONE. Cfr.
Ra.ina, La lingua
cortigiana cit.In Venezia,
per Giovita Ripario. Sono lodati da Fedeli in una sua lettera posta dietro le rime di Torelli.
E infatti pell'uso a cui la destina l'autore, sono esposti con certa bravura didattica,
e ricchi principalmente di
paradigmi. S'in- [ma per quei fuori d'Italia.
Un bel riscontro alla precedente offre questa dichiarazione che Citolini,
autore della Tipocosmìa, fa nella sua lettera in difesa della lingua volgare: io
voglio starmi nella Toscana non come in una prigione, ma come in una bella e spaziosa piazza, dove tutti
i nobili spiriti d'Italia si riducono. Né mancarono de'seguaci di Trissino più trissiniani
di lui – more Griceian than Grice -- come Arezzo nelle sue osservaniii della LINGUA
SICILIANA O e Achillini nel dialogo dell’annotazioni della volgar lingua
[Arezzo, partendo dal concetto che l'antico siciliano è lingua più pulita che non
sia il moderno, e tale concetto appoggia coll'autorità di Dante, scrive la grammatica _p_er icojr^ regger questo e ridurlo all'antico splendore,
sicché i siciliani possano adoperarlo come
lingua propria letteraria. Non è una
grammatica completa, perù che io non
altro fari intendo chi purgar la nostra lingua mutando alcuni palori non ben usati.
Cita l'autorità di poeti siciliani viventi; ammette per necessità l'uso di parole
latine e fiorentine per ragioni di stile italianizzate. E dà una raccoltina di sue
canzoni per mostrare come sarebbe da scrivere, ponendo in margine il commento. dugia
molto sui mutamenti di vocali in principio, nel mezzo e nel fine delle parole; dei
vocaboli composti; del troncamento e dell'accrescimento. E notevole l'osservazione
riguardante i participi sincopati,che sono ancor oggi una delle caratteristiche del dialetto della
regione di cui è l'autore: ingombro, cerco, scuro, inchino, desto, franco, molesto,
stanco, lasso, ecc. da ingombrato, cercato, scurato, inchinato, ecc. Oggi vi si
sente, p. es., 'nsénto per insegnato. La lettera è datata da Roma; ed è edita in
Venezia per Marcolini da Forlì.
Vi si dice
che il Citolini
conversava con m.
Trifone; e che
la lettera trovavasi
manoscritta nelle mani
di Zane. Fu ripubblicata
in compagnia d'una
lettera del Ruscelli
al Muzio, in
Venezia al segno del Pozzo Osservaniii; Della lingua siciliana ecanzoni, j
in lo, proprio idioma, Arezzo,
| gititi/' Homo, sa | ragusano. Ad
instantia di Siminara. In Missina per Spira.
Annotationi della volgar lingua d’Achillino, Bologna da Bonardo da Parma e Marcantonio
da Carpo dall'originale dell'Autore. Eccone un
esempio: Vinci disdegno d'ogni amor
la forza: Volsi diri: chi cosa Muta lo cori, e trasforma la vogla: nixuna pò
mutar [Achillini loda ed esalta Dante, Petrarca e Boccaccio perchè lo meritano,
e quando gl’accade volentiera gVimita: gli
piace anche il fiorentino quando è pronunziato bene, ma ritiene più corretta, in
qualche parte, la comune e bolognese nostra: perchè derogar' alle più belle parole
nostre non intendo, non sol alle nostre bolognesi, ma di quale altra si voglia patria, che sono delle
thosche migliori, le piglio, e le thosche abbandono. Non però di libertà privando coloro, che thoscanamente vogliono procedere. E con pieno sentimento della bontà
della parola viva, argutamente soggiunge;
A noi ìntraviene come a coloro ch'hanno in casa bianco e ben cotto pane,
e vanno in prestanza dal vicino a tuorne de'1 negro et mal cotto. E s' argomenta rafforzare questo sentimento
estetico della lingua colla ragione storica. Così preferisce Olempo ad Olimpo, perchè
questi due elementi i ed e hanno sì grande insieme l'amicitia che quando quella /
dalla romana ovvero latina si parte
per farsi volgare, ed ella in molti dittioni in e si trasforma, come in ancella
da anelila; più Olempo gli fa comodo perchè rima con tempo! E preferisce zeloso, che viene da zelo,
-as, a geloso, perchè noi bolognesi, toscanizzando geloso, si fa come il gentil che butta via la gentil moglie,
e ne piglia una bastardella. Bologna docet dal tempo di Teodosio: dunque Bologna
è la madre, dunque a Bologna la lingua volgare nostra il suo rifugio sempre mai
d'aver deve, specialmente ne'1 bene, e che li figli cordialmente ama.
Achillini è E lo mio cori mai forzao: nen forza: lo cori so,
di lo amor Ne lo rimossi di l'antica
dogla: della sua donna, Anzi la vidi
vigurosa smorza stanti la fidi e Foco, chi
di disdegno si ricogla, la constantia, E la costantia: chi di novo sforza: la qual costringi
la Costringi la radici a nova soglia. radici
di l'arboro di lo amori a novi effetti. Pulejo Ettore,
Sul più antico abbozzo di grammatica
siciliana, Atti e rend. dell' accad. dafnica d’Acireale; e Sabbadini,
Studi medievali. Con questi criteri Achillini compone un suo poema
didascalico ad imitazione del Dittamondo, intitolato il Fedele. Frati, Giorn. st.
d. leti, it. Ad Achillini dobbiamo quelle Collettame grece, latine e vulgari
sulla morte dell'ardente AQUILANO (si veda) in un corpo redutte, che Ancona
illustra, Studi, e dove sono rappresentate quasi tutte le città della pe- [l'unico che voglia parlar la propria lingua,
lasciando piena libertà agl’altri, ai toscani di parlar la loro. Ed è il più logico.
O meglio, chi mostra anche più buon senso in tanto variar d'opinioni e meno vaga
coscienza di quel che sia la lingua, è Bolzani, il cui dialogo è
male che non vede la luce che quasi un secolo
dopo da che era stato disteso, sotto l'impressione di dispute avvenute, presente
Trissino. Lelio, uno degl’interlocutori,
a' quali nisola.
Non possiam forse
parlare d'una dottrina
del volgare illustre
dantesco che gli
serva di fondamento
ideale; ma nel
fatto nulla vieta
di considerarlo un
omaggio a tutte
le parlate di
Italia che l'Achillini
egualmente rispettava. Dialogo
della volgar lingua di Valeriano, Bellunese, non prima uscito in luce. In
Venetia, nella Stamperia di Gio. Battista
Ciotti. Fu ristampato
dal Ticozzi, Storia
dei lett. e
degli artisti del
Dipartim. della Piave,
Belluno. La composizione di
questo Dialogo, il
secondo dopo quello
del Machiavelli, in
cui si riflettono
le discussioni sulla
lingua che il
Trissino avvivò discorrendo del
De Vulgari Eloquentia,
di cui possedeva
uno de' pochi
esemplari, si suol
riportare (G. Percopo,
Giorn. st. d.
lett. il., cioè a
un tempo di
poco lontano alla
composizione del dialogo
machiavelliano e alla breve
fermata fatta dal Trissino
in Firenze e
alla probabile visita
dell'anno successivo alle medesime
radunanze. È ben
noto che discussioni simili a quelle degli
Orti e nelle
quali medesimamente, come
apprendiamo in ispecie
dal Cesano, il
trattato dantesco era
oggetto e materia, avvennero
in Roma, presente
anche qui il
Trissino, che risiedette colà. (Rajna,
Introduz. eh., p.
L'I. Ora, il
Dialogo del Valeriano,
che, come ogni
scritto consimile, se
non è riproduzione
dal vero, è
finzione che nel
vero deve avere
qualche radice, a me sembra
che rispecchi assai
meglio le radunanze
romane del 24
che non le
fiorentine del 13
e 14. La
scena è collocata
in Roma e
ne sono interlocutori
Lelio, il Marostica,
e Angelo Colotio
(il Colocci): e
il Colocci vi
riferisce agli altri
due il dialogo
avvenuto la sera
innanzi in altra
casa, dove egli
fu trattenuto, in
Roma stessa. Può
esser tutta finzione
questa e il
contenuto del riferito
Dialogo appartenere alle discussioni
fiorentine; ma l'allegazione
del pensiero del
Papa e il
richiamo della tirannide
che il fiorentinismo
aveva impiantato alla
capitale e le
macchiette di quei
canzonatori fiorentini, sono
indizi a' quali
mal si sa
dare una realtà
tutta immaginaria. Quel
che, per altro,
secondo noi, basta
a dirimer la
questione, è la
teoria del Tolomei
intorno al volgare,
la quale corrispondeva
perfettamente a quanto
il Tolomei veniva
pensando e scrivendo
appunto in quel
bat- il Colocci riferisce
il Dialogo avvenuto
tra il Trissino,
il Tolomeij il
Tibaldi e il
Poggi, dice: Io
non sento la
più sciocca cosa,
che '1 parlar
toscano da uno,
che non sia
Toscano; e riesce
ridicolo per lo
più, chi vuol
parlar la lingua
d'altri, perchè non
può star tanto
sull'aviso, che a
lungo andar non
iscappi nel naturale, poiché la
radice tien sempre
della sua natura
(p. 15). Il
Marostica, un altro
interlocutore, si duole
in modo veramente
spiritoso di non
aver assistito al
dialogo. Dio, perchè non
mi smi io
trovato a questi
ragionamenti per poter
finalmente risolvere, se ho
da parlar con
la mia lingua,
o con quella
d'altri, eh' è una
compassione il fatto
mio, ogni volta,
che ho da
scrivere a un amico,
star a freneticar,
s' io ho da
usar la mia
lingua, 0 mandar
per un'altra al
macello. Messer Angelo,
non si può
più vivere, dapoichè
son usciti fuora
certi soventi, certi
eglino, certi uopi,
certi chenti, e
simili strani galavroni;
non posso passeggiar
per Parione, che
vengano questi giovanotti
dottarelli, barbette recitanti,
e stanno ascoltando,
quel che ragioniamo
insieme, e ci puntano
negli accenti, nelle
parole, e sulle
figure del dire,
che non sono
Toscane senza una
compassion al mondo,
ridendosi di noi, che se ben ha verno messo la barba bianca
tagliero 24, e che non
so da quale
altra fonte, se
non dal ricordo
delle radunanze romane, Valeriano avrebbe
potuto attingere. E
anche la presenza
del Pazzi è
ben significativa. Cosicché
io inchino a
credere che questo
caratteristico scritterello sia
da riferire a
un tempo non
anteriore. L'oggetto della
disputa che vi
è riferito era
stato: se questa
lingua Volgare era
nostra, o d'altri,
e se l'era toscana, e
di che paese,
e se si
poteva scriver in
volgare altramente che
con forme Toscane.
Poi si trattò,
se per Lingua
Toscana, s'intendeva solo
la Fiorentina, e
sopra tutto qual
convenisse a un
galant'homo. La disputa,
invece, quale è
rispecchiata nel Dialogo
del Machiavelli, che
da ogni accento
mostra esser vero,
è ben diversa.
E anche le
parole, che si
potrebbero allegare per
metter il Dialogo
del Valeriano in
relazione con le discussioni
degli Orti: Misser Giangiorgio
[disse], che stava
sopra una fantasia
di certe lettere,
che mancavano nel
nostro alfabeto, poiché
avendo la pronuntia
diversa, si notavano
con la medesima figura, vanno
assai meglio pel
24, l'anno appunto
in cui la
riforma trissiniana fu
resa pubblica. Noto con
piacere che anche
Rajna nella già
cit. recens. (che
vedo ora nel
riveder le bozze)
del saggio di Belardinelli, su
cui parimenti getto
lo sguardo ora
appunto per la
spinta di quella
recensione, con quest'ultimo
de' miei argomenti e
altre parole propugnata nuovamente dal Belardinelli.] negli studi,
non sapemo quello,
che mai non
ci sognassemo d'imparare.
Non dico già,
che, poiché havemo
un Principe Toscano, e
di tal dottrina,
virtù, e benignità
dotato, non debba
ogniuno accomodarse, ingegnarse,
arfaticarse con tutta
l'industria, che può, di
fargli cosa grata.
Ma io povero
vecchiarello, come posso
hora imparar di
nuovo a parlare,
che, come vedete,
m'incominciano cascar li
denti? Certo, che
m'è venuta qualche
volta tentatione di
partirmi di Roma
per non esser
tenuto forse per
ribello, perchè non
parlo toscano, e
mi scappa di
quando in quando
mi, e ti
(pp. io-ii). E
il Colocci risponde
con altrettanta arguzia, e
fors'anche verità storica: Messer Antonio,
la cosa non
passa in questo
modo. Il Principe
non ha fantasia,
ne pensier, ne
interesse alcuno in
questa materia; è
homo universale, dotto come
sapete, in lettere
greche, e latine,
et esercitato in tutte
l'arti, che appartengono
a un vero,
e gran signore; e
si prende piacere
d'ogni esercitio d'ingegno,
ma particolarmente di
queste dispute, et
osservationi; perchè havendo
la lingua nativa,
e libera, se
ride di questi,
che la mendicano, ma
molto più di
quelli, che la
vogliono restringere, e
limitar tutto il
dì, e farla
star a regola
nelle stinche, si
che non pensate
che questo si
faccia per adularli,
che tanto amerà
egli una cosa
ben detta nella
Cappella di Bergamo,
quanto un'altra detta
sotto la Cuppola
di Firenze. La
quistion è fra
questi begli ingegni
e scientiati de',
nostri tempi. E
tale quistione è
riassunta nel Dialogo
con molta esattezza,
s' intende riguardo
allo spirito: le
dottrine del Tebaldo,
che rappresenterebbe la corrente
dialettale non toscana;
del Pazzi, sostenitore
del fiorentino, del
Tolomei, propugnatore del
Senese o meglio
del Toscano in
genere, del Trissino,
che vagheggiava dantescamente l'uso cortigiano,
sono con obiettività
tale riferite, da
far apparir appena
che il Valeriano
stia più dalla
parte del Trissino che
non de' Toscani.
E anche l'ultimo
pensiero messo in
bocca al Trissino
a conchiusione del
dialogo e come
sintesi dei principi
da seguire, è
di tal forma
che i Toscani
stessi avrebbero potuto accettarlo.
Infatti, ciascuno, come
avrò più volte
osservato, aveva perfettamente
ragione dal suo
punto di vista,
e tutti, come
su per giù
convenivano, per quant'
era possibile, nella
pratica (ciò che
avviene poi in
ogni secolo, perchè
in ogni secolo
o periodo storico
gli spiriti sono
su per giù
tutti conformati all'ìstesso modo),
così, tra tante
divergenze e contradizioni
anche con sé
stessi, finivano per
convenire nella teoria
d'una lingua letteraria
comune, che, fatta
ragione di particolari predilezioni dialettali
o letterarie, era e non
poteva non essere
che il fiorentino
(piale la letteratura
nazionale l'aveva adoperato.
Il Machiavelli stesso
si trovava più
d'accordo con Dante,
di quel che
certo egli e
gli altri non
credessero. Era proprio
come diceva il
Colocci: La quistione è
fra questi begli
ingegni e scientiati
de' nostri tempi.
L'importanza derivava dal
modo e dalle
ragioni della disputa: e
anche per noi
quel che importa,
è che una
tale questione fosse
stata agitata, e
si tenesse così
vivo l' interesse per il
linguaggio. Ma i
più camminavano sulla
via nella quale
s'era messo il
Bembo, trattando nelle
grammatiche la regolarità
trecentesca, specialmente
del Canzoniere, e
raccogliendola in dizionari.
Annotazioni su vari
autori volgari e
latini e una
Colleclio vocum Petrarchae
et aliorum ,
intorno a cui
avrebbe lavorato nel
medesimo tempo in
cui il Bembo
stendeva le Prose,
ci ha lasciato,
come vedemmo, Angelo
Colocci suo grande
amico, cui, pertanto,
spetterebbe il merito
di priorità nella
compilazione d'un vocabolario
volgare sul Liburnio
{Le tre Fontane),
sul Mi nerbi
che diede una raccolta
di voci del
Decameron e ne prometteva
una del Canzoniere,
sul Luna che
nel 36 ne
diede una di
cinquemila vocabulì toschi del
Furioso, Bocaccio, Petrarcha
ed ALIGHIERI, sul Di
Falco, autore d'un
Rimario, dove rimanda
al J Vocabolario
della Fingila Volgara di
prossima ma non
mai avvenuta pubblicazione. Osservazioni
sopra Petrarca, puro lessico
della lingua, come
lo chiamano Carducci e
Ferrari, del resto utilissimo,
ma qua e
là arricchito di
qualche breve spiegazione ,
come aggiunge il
Morandi, compilò Francesco
Alunno, che nel
50 ne diede
fuori una seconda
edizione meglio ordinata
e più compiuta,
dopo che aveva
messo in luce
le altre due
voluminose raccolte delle Ricchezze
della lingua volgare
sopra il Boccaccio e
della Fabbrica del
mondo, che con- Sono
ancora tra i
codd. vaticani. Cfr.
Cian. Cfr. Morandi] tiene le
voci di Dante,
del Petrarca e
del Boccaccio e di altri,
ed è anche
una specie di
enciclopedia. Di grammaticale
nelle opere di
questo eccellente anatomista
delle composizioni volgari
, come egli
stesso modestamente si fa chiamare
in una lettera
che finge direttagli
dal Petrarca medesimo,
c'è poco più
che la classificazione dei
vocaboli nelle varie
categorie delle parti
del discorso. Il
di più consiste
in qualche notazione
etimologica come in
Donna, quasi domina
levata la /
et mutata la
M in N...;
nell'unione degli epiteti
o agiettivi ai
loro sostantivi; in
regolette e osservazioni
riguardanti le particelle;
e nell'indicazione de' vari
modi in cui
i verbi si
variano secondo le
variationi de i suoi tempi;
nelle osservazioncelle ortografiche
che sono in
fine alla raccolta;
non entrando nel
campo strettamente grammaticale,
non dico alcuni
cenni biografici o
storici, ma le
dichiarationi delle voci
, onde le
voci sono accompagnate.
Le Ricchezze furono
ristampate da Aldo
in Venezia, con
le dichiarazioni, regole,
osservazioni, cadenze e
desinenze di tutte
le voci del
Boccaccio e del
Petrarca per ordine
d'alfabeto, e col
Decameron secondo l'originale
ecc. La forma tipica
di questi zibaldoni
tra lessicali e
grammaticali e spositivi quali
eran richiesti dai
bisogni di chi
s' introduce nello studio
e nel culto
del volgare con
la guida del
Bembo, ci è
data nella sua
opera intitolata Vocabolario,
Grammatica et Orthographia de
la Lingua volgare,
con ispositioni di MORANDI. Lombardelli giudica
così l'Alunno: Fin'oggi, è
il più facile,
più comune, e
più utile scrittor
di questa schiera,
per quanto però
da una semplice
e debol Teorica
si penda alla
pratica, per ordinario può
far benefizio ai
Giovani e a'
principianti; a certe
occasioni levar fatica
a' bene introdotti;
e per dubbi
che nascono all'improvviso intorno all'uso
delle voci Toscane
giovare ugualmente a'
nostri, forestieri, deboli,
gagliardi. Nelle osservazioni
sopra il Petrarca
esamina principalmente le voci,
e le locuzioni
poetiche; nelle Ricchezze
i parlari, che
alla prosa convengono;
nella Fabbrica le
voci e le
guise di dire
comuni, e popolaresche,
scelte però da
lui con assai
buon giudizio da
tre principali scrittori
Toscani e talvolta
dal Sannazaro, dall'Ariosto
e dal Bembo.
In certe dichiarazioni
se ben per
lo più vi
è gito pesato,
o sospeso, non
è la più
sicura cosa del
Mondo. / fonti,
pp. 55-6. Delle
opere lessicografiche dell'Alunno
riconosceva l'opportunità il
Giraldi, Scritti estetici,
Milano. Cfr. L.
Arrigoni, F. Alunno
da Ferrala, ecc.,
Firenze.] molti luoghi di
/laute, di Petrarca e Boccaccio, d’Accarisio,
che già nel
38 aveva mandato
Cuori separatamente una
grammaticheita, certe
regolette latte leggendo
il Bembo e
grammatici, spositioni delle
prose del Bembo
in brevità redotte, et
tale che chiunque
vorrà imparare, piglierà
speranza in breve di vedere
il fine. L'Accarisio
ha cura di
tener distinto il
linguaggio della prosa
da quello della
poesia, come aveva
inteso di fare
il Minerbi col
vocabolario petrarchesco da lui annunziato,
e come su
per giù intendevano
ormai far tutti
più o meno
esplicitamente: Regole, osservanze,
e avvertimenti sopra
lo scrivere correttamente
Cento. Una seconda
edizione con Privilegio
di N. S.
et d'altri Principi
per anni A"
ne fu fatta
in Venetia alla
bottega d' Erasmo di
Vincenzo Valgrisio. La Grammatica
volgare di M.
Alberto de Gl'Acharisi
da Cento. In
Venezia per Nicolini
da Sabio. Ad
instantia di M.
Merchiore Sessa. Fu
ristampata più volte.
Di questo libriccino
io ho potuto
vedere, per cortesia
del prof. Teza,
l'edizione del 43: La Grommati
ca volgare di
M. Al |
berto de gli
Acha | risi
da Cento. Dopo
II fine: stampata
in Vinezia per
Francesco Bindoni e
Mapheo Pasini, piccolissimo di
fogli 4. È
dedicata al sig.
Conte Giulio Boiardo
signore di Scandiano.
Alti lettori l'A.
dice di non
aver voluto essere
scrittore di regole
volgar, ma che
per imparar leggendo
le prose del
Bembo e altri
auttori, da i
loro scritti per
mia utilità questa
brevissima regoletta mi
feci... saranno spositioni
delle prose del
Bembo in brevità
redotte. Raccomanda di studiar
Bembo, Boccaccio, Petrarca e Dante: apprendete la facilità
del dire, l'abondantia,
le belle sententie,
le clausole numerose,
et fuggite gli
antichi vocaboli, che
hoggi se eglino
vivessero non userebbono, per
lo nuovo uso
mutatisi, et scrivendo
thoscanamente, scrivete con
tale facilità, et
vocaboli sì, che
da chi gli
scritti vostri leggerà,
siate intesi, acciocché
del vitio deiraffettione non
siate ripresi. Poi
scrive: Incominciamo le
regoli (sic) volgari
dell' Acharisio , e
tratta degli Articoli,
del Nome, del
Pronome. È notevole
che nella trattazione
de' pronomi parli
della forma latina,
che declina in
tutti i casi,
sicché si ha
una doppia declinazione
italiano-latina di ipse,
ille = quegli
(per Egli non
trova la corrispondente latina),
iste, alius, idem,
nullus, quis. Poi
espone le quattro
regole o maniere
del verbo, e
toccato dei Gerundi
e Partecipi, tratta
Degl'avverbi locali, e
qui ritorna la
corrispondente latina, hic,
huc, hinc, ecc.
Molt'altre ne lascio
facili d'apprendersi da sé. Accenna,
al proposito di
tornar sopra all'argomento
per mostrar che
sia da fuggire
ciò che non
è toscano. S
la li?igìia Toscana,
indifferente (l'aquila, il
passero), comune (portatore,
-trice). i') Definisce
l'accento temperamento, et
armonia di ciascuna
sillaba, o lettera
significante, dividendolo in
grave,' acuto, misto
"•), converso (',
apostrofo). Capitolo quarto
127 espressivo. Il
che accade sempre
quando si perdono
i contatti con
la parola viva.
Fra tutte le
parti, due sono
di maggior pcrtettione,
che l'altre. Il
nome, et verbo,
li quali giunti
insieme fanno per sé stessi
concludere una perfetta
sententia come Rinaldo scrive. T. Dico
per tanto il
nome esser tra
le parti, diesi
variali, quello, per
cui l'essenza, et
la qualità di
ciascuna cosa corporale,
o non corporale
che sia particolarmente et
in universale si discerne:
corporali son quelle
cose che toccar
si possono, et
vedere come libro.
Rinaldo. Homo. Non
corporali son quelle,
che con l'intelletto
solo si comprendono,
come studio. Ingegno
et valore. Da
questa funzione logica
attribuita alle categorie
grammaticali e dalla
conseguente interpretazione di
regolarità data alle
forme, deriva l'accoglimento fatto
dal Corso ne'
suoi fondamenti alla
parte della concordia
delle parti principali
insieme (sintassi di
concordanza), e delle
figure, che sono
deviazioni di pronunzia, di
forma, di costrutto,
di ortografia dalla
regolarità tipica. Per
la strada in
cui s'era messo
il Corso, ritroviamo
un altro poligrafo
assai più prolifico,
Lodovico Dolce, del
quale il Lomdardelli
disse che può
dare una facile
introduzzione, e commoda
assai per li
principianti , e
che da sé
si rannoda al
Fortunio che poteva
esser più copioso
nelle cose necessarie
, e al
Bembo, che volendo
vestir questa materia
con i ricchi
panni della eloquenza,
ragionò solamente a
Dotti. Egli si
rivolge, pertanto, ai principianti,
e tratterà la
grammatica volgare, come
gli antichi grammatici
trattarono della latina.
Le osservazioni constano
di quattro parti:
la I contiene
le regole della
volgar gramatica; la
II l'ortografia, nel
modo che c'è
insegnata dalla ragione,
dimostrata dall'uso, e
conlermata dall'autorità; la
III X ordine del
puntare e gli
accenti; la IV
poetica, metrica e
ritmica. Della concordanza
delle parti discorre
nella I sezione,
dove non tralascia
le figure grammaticali : di
fonologia discorre sotto
l'ordine dell'accento. Di
molta importanza è
anchora l'ordine e
la testura delle
parole; Dove, quando fosse
chi della Volgar
Grammatica trattasse in
quel modo, che
gli antichi Grammatici
trattarono della Latina;
senza dubbio essi
quel medesimo profitto
ne trarrebbero, che
ne hanno tratto
molti appo i
Latini, senza niuna
contezza haver della
Greca. Pref. all'ottava
ediz. di Gabriel
Giolito de' Ferrari.] ma
questa è parte,
che appartiene al
Rhetore, e non
a scrittore di
Grammatica. Si propone
anche il Dolce
il quesito se
La volgar lingua
si dee chiamare
italiana o thoscana
, e lo
risolve nel senso
voluto dal Bembo,
cui prodiga grandi
lodi anche di
scrittore e poeta,
ripetendo per lui
il detto di
Quintiliano: ille se
proferisse sciat cui Cicero
valde placebit; crede
perciò che si
debba chiamare volgare
e thoscana, ma non in
modo che i
Toscani se ne
insuperbiscano ! La
facultà di lettere,
com'anche è chiamata l'arte di
parlare e scriver
bene, si divide in
lettera, sillaba, parola,
che da i
latini è chiamata
Dittione , e
parlamento, detto da'
medesimi oratione. Ammette (citando
particolari trattatisti, non
escluso Pontano) 22
lettere: a b e d e f g h i 1 m n o p q r s t v x y z, di
cui V vocali e XV
consonanti (escludendone l' “h” e
il “v” semivocale), così
distribuite: 8 mutole,
bcdgpqtz; 7 mezzevocali,
f 1 m n r s x, di cui
4 liquide, 1
m n r.
Delle parti del
discorso due sono
principali, il nome
e il verbo,
le altre secondarie,
pronome, participio, avverbio,
preposizione, interiezione,
congiunzione. A proposito del nome, distinto
in sostantivo e aggettivo (shaggy),
che a sua
volta si suddistingue in generale e particolare, tocca
il problema dell'origine della favella se per natura o per convenzione. Discorre
poi, pur non
avendone fatta una
categoria, de gli
articoli, e di
quei segni che
a i nomi
invece di casi
si danno :
a di da
valgono per i
casi retto, strumentale
o effettivo o
operativo, e locale.
Molto assottigliata, rispetto
al Bembo, è
la trattazione de'
pronomi, distinti semplicemente
in principali (io)
e derivati (mio).
Al verbo, parte
principale e più
nobile del parlamento
, indicante o
operazione, o cosa
operata, attribuisce cinque
tempi: pres., impf.,
pass., pperf., avvenire;
cinque modi, dimostrativo,
inip., desiderativo, cong.,
in/.; tre figure:
semplice, composta, ricomposta;
due numeri; tre
pe?'sone; due ma?iiere
(coniugazioni), secondo il
criterio della 3
ps. ind. pres.
Dà i paradigmi
dalle due maniere,
degli irregolari (come sono
e vado), degl'
impersonali; tratta de' g
erondi e
participi, e degli
anomali. Parla degli
avverbi secondo le
significazioni (tempo, qualità, affermare,
accrescere, paragonare, luogo);
delle preposizioni, divise
in separate o
aggiunte, e delle
loro combinazioni; dell'
intergettione, che esprime
vari sentimenti, come mostra
con molti esempi
di versi; della
congiun Capitolo quarto
129 tionc che
va incatenando e
ordinando il parlamento.
Le figure grammaticali
sono villose o
bellezze: le prime
dipendono dal cattivo
suono (onde si
ha il bischizzo,
che qualche volta
ha grazia come
nel v. del
fiorir queste inanzi
tempo tempie ),
dall'ai- giunqer paro/e di
soverchio, dal tacerle,
dall' invertirle, dall' usarle
iniproprianiente (ellissi, pleonasmo,
inversione ecc.); le
bellezze dall'uso dell'ai,
alla greca ( h
umida gli occhi
), della parte
per il tutto,
della ripetizione, del
polisindeto ecc. Nella
trattazione dell'ortografia segue
un criterio opposto
a quello del
Trissino, che chiama
eretico, senza nominarlo,
ma limitandosi alle
cose più elementari:
Basta haver dimostro
come si debba
fuggir il porre
insieme alcune consonanti;
come le lettere
si cangino l'ima
nell'altra; come si
ha ad usar
1' h, come a
raddoppiar esse consonanti
sì ne' nomi
come ne' verbi.
Nel terzo libro
segue la bellissima
inventione del Bembo.
Tratta dell' accento
(da ad-ca?itus, concento
), che è
acido, grave e
rivolto (apostrofo). Sulla
scorta delle dottrine
degli antichi (Donato,
Sergio, Fortunantiano, Diomede)
sul puntare, tratta
della distinzione, suddistinzione, mezzadistinzione, che
si hanno secondo
che il periodo
( clausola ) è terminato
in tutto, in
metà, o in
parte. Illustra così
l'uso del punto, .,
della coma,,, del punto
coma, ;, de' due punti, :, dell 'interrogativo, ?, della
parentesi o traposizione
(()). Raccomanda infine
lo studio del
Petrarca e del
Boccaccio, ma non
lascino da parte
Dante. Perciocché anchora
che egli non
sia, (come nel
vero non si
può negare) molte
volte, delle regole
osservatore; dal suo
divino Poema molte
belle forme di
dire si potranno
apprendere. Il libro
IV sulla Poetica,
che occupa quasi
un terzo dell'opera (pp. 87-115)0
si fonda principalmente su
Antonio da Tempo
e sul Bembo. L'opera di
Dolce, specie nella
sua prima edizione
("), non Osservazioni nella
volgar lingua. Di
31. Lodovico Dolce
divise m quattro
libri. Con privilegio.
In Vinegia appresso
Gabriel Giolito de
Ferrari. La più
completa e corretta
è la seguente:
I quattro libri delle
osservationi di m.
Lodovico Dolce di
nuovo ristampate et
con somma diligenza
corrette. Con le
postille e due
tavole: una de'
capitoli e l'altra
delle voci, et
come si deono
usare nello scrivere.
In Vinegia presso Salicato. Nuove
osservazioni C Trabalza.
q Storia de/la
Grammatica andò esente
né da critiche
né da beffe,
da parte soprattutto
del Ruscelli, col
quale ebbe una
fiera polemica, e
dal Muzio, ai
quali certo non
potevano mancar appigli:
essa è una
compilazione abborracciata
secondo il costume
del Dolce, che
vi mise di
suo ciò che
poteva metterci un
compilatore in questo
periodo, la parte
schematica e 1'
ordinamento, favorendo il
processo di cristallizzazione delle osservazioni
condotte personalmente dai
primi grammatici con
discreto senso della
lingua sulle opere
degli scrittori. Un
piemontese, Matteo Conte
di S. Martino
e di Vische
, riattaccandosi egualmente
al Fortunio, al
Bembo, da cui
forse più di
luce prende ,
e al Trissino,
delle cui dottrine
abbiam visto 1'
applicazione fatta alla
forma petrarchesca, nelle
sue Osservazioni grammaticali
e poetiche della
lingua ita/iana (1),
adottò interamente, con
piccolissime varianti, lo
schematismo dei Rudimenta
gramatices di Perotti
divulgatissimi(!)/ Basti recar
l'esempio della trattazione
del nome. Esso
è diviso: A
secoyido la sustanzia:
I proprio; II
comune: 1. -a)
primitivo (es. Giulio),
primitivo-appellativo
(terra), derivativo proprio
(Giuliano); derivativo-appellativo; corporale proprio
(Pietro), corporale appellativo
(huomo); incorporale proprio e
appellativo; 5. univoco
proprio e appellativo;
6. equivoco proprio
o sinonimo appellativo;
B secondo la
qualità: 1. sustanziale
a) proprio; b)
aggiuntivo (epiteto); 2.
(il sostanziale e l'aggiuntivo
comprendono poi) 17
classi di appellativi:
I. intelligibile al
detto (patre, tìglio);
2. id. (giorno,
notte); della lingua
volgare scelte da
Lodovico Dolce con
gli artifici usati
dal T Ariosto nel suo
Poema. In Venezia
per li Sessa (-8n).
Si devono al
Dolce anche Modi
a/figurati^ e voci
scelti et eleganti, Venezia, 1564.
In Roma presso
Valerio Dorico e
Luigi fratelli. Le
osservazioni poetiche (che
l'autore intitola //
Poeta) sono una
poetica che l'autore
stesso dichiara compilata
sul Filosofo e sui nostri
principali trattatisti,
Dante, Antonio da
Tempo, Bembo e
Trissino; ma riguardano
particolarmente l'elocuzione e la metrica.
1 Nicolai Perotti,
ed. cit. (:t)
Quod est ad aliquid dietimi?
Quod sine intellectu
eius ad quod
dicitur proferre non
potest: ut fiiius:
pater. (Perotti). Quasi
ad aliquid dictum
quod est? Quod quamvis
habeat contrarium et
quasi semper adherens:
tamen neq. ipso nomine significat
etiam illud: nec
secum interimit: ut
nox: dies. (Perotti.). gentilizio (greco);
patrio (torinese); interrogativo
(chi?); infinito (quale);
relativo (larga esemplificazione); collettivo (volgo); distributivo
o dividilo (ciascuno);
io. faciisio (crich); generale (animale);
speciale (elefante);
ordinale (primo); numerale
(ventuno); assoluto (Dio); temporale
(ora); locale (vicino); C
secondo la qua?itità,
dal derivativo uscendo
9 maniere: patronimico; comparativo; superlativo;
possessivo; diminutivo; denominativo; verbale; partecipiate; adverbiale. Abbiamo
dunque una cinquantina
di classi o
categorie solo del
nome ! Il
quale ha cinque
accidenti: genere (m.
e f.), mimerò
(s. e p.),
caso (diritto e
obliquo in sei
forme), specie (primitiva
o derivata), figura
(sempl. o comp.);
sette regole (declinazioni): i.a
sing. -a, pi. -e, opp.
sing. -a, pi. -i; i.a
-e, -i, opp.
-o, -i; 3."
-o, -a opp.
-ora; 4." eterocliti;
5.11 -a o
-e, -i; 6.a
comuni; 7/1 di
doppia forma {lodo,
loda). Una vera
ridda. Di contro
a tale interesse
per lo schematismo,
che corrispondeva, anzi derivava
dall'esaurimento
dell'attività osservatrice delle
forme realmente prodotte
dagli scrittori, dalla
infecondità stessa del
criterio d'osservazione assunto
fin da principio
e che aveva
dato quanto aveva
potuto dare e
da tutte le
circostanze alle quali
siamo venuti alludendo,
sorse il bisogno
non che di
ristampare le grammatiche
più o meno
originali che s'erano
desunte dalla diretta
osservazione delle opere
letterarie, non che di ridurle
a metodo, di
raccoglierle come in
un corpo unico
d'erudizione grammaticale, dove
le une integrassero
le altre e
sodisfacessero così all'esigenze
ancor vive e
urgenti dell'apprendimento
della lingua e
del complicato maneggio
di essa richiesto
dalle teoriche poetiche
e rettoriche. Per
tal modo si
ebbero ben presto
le Osservazioni della
lingua volgare di
diversi uomini illustri,
cioè del Bembo,
del Gabbriello, del
Fortunio, dell' Accarisio
e d'altri scrittori^)
(che si riducono
tutti al Corso),
per opera del
Sansovino, distinte in
cinque libri, quant' erano
appunto le grammatiche
integralmente ristampate, con
brevi relative notizie
caratteristiche: del Bembo
(lib. I), riprodotto
specialmente per la
questione dell'origine e
del nome della
lingua, vi è
detto che imitò
YOrator; del Fortunio
(II), che imitò
i Grammatici In
Venezia per Francesco
Sansovino; più volte
ristampate. 132 Storia
della Grammatica antichi
della lingua latina
: del Gabriello,
che ebbe le
regole da suo
zio Trifone; del
Corso (IV), di
cui è dato
il giudizio che
già conosciamo; dell' Accarisio (V),
che ha tenuto
l'ordine de' latini
o per meglio
dir di Donato...
Ma io direi
che innanzi che
altri leggesse le
cose del Bembo,
o del Gabriele,
o del Corso,
si arrecasse innanzi
quelle dell' Accarisio, conciosia
che risolutamente abbozza nella
mente degl' imparanti
le regole pure
et semplici de'
nomi, de' verbi,
e de gli
altri membri di
questa lingua, li
quali appresso ria
poi agevol cosa
il capir ciò
che ne ragionali
gli altri scrittori.
Voglio anco che
lo studioso, habbia
innanzi /'osservatone del
Petrarca fatte dall'Alunno,
la Fabrica e
le Ricchezze pur
del medesimo... Più
tardi un f.
Giovanni da S.
Demetrio, Aquilano, O.F.M.,
diede un manuale
di Regole della
lingua toscana con
brevità, chiarezza, et
ordi?ie raccolte, e
scielte da quelle
del Bembo, del
Corso, del Fortunio,
del Gabriele, del Dolce,
e dell' Accarisio
(son gli stessi
del Sansovino, aggiuntovi
il Dolce) che
trattano quelle parli
che ?iella seguente
faccia si notano:
Nome, Articolo, Pronome,
\erbd, Gerundio, Participio,
Verbo passivo, impersonale.
Avverbio, Preposizione, Interiezione,
Congiunzione, Lettere. Punti.
Accenti, Ortografia, forma
di comporre o
vero scrivere. Le
Prose del Bembo,
già ristampate con
indici e tavole,
furono ridotte a
metodo sotto il
nome di M.
A. Flaminio a
Napoli. Prima degli
Avvertimenti del Salviati, appena
due o tre
grammatichette (")
dell'indirizzo che fin qui
abbiamo esaminato, furon pubblicate: (*)
meritano appena tra
queste d'esser particolarmente menzionate Venezia. Minturno e
il Tiraboschi ricordano
un'Opera divina sulla
toscana favella di
Giambattista Bacchili i modenese
(Vivaldi, Le Controversie), che
io non ho
potuto vedere. (iraniniatiche vere e proprie
non si posson
chiamare né la
Regola della lingua
losca dell'ortografia volgare
e latina raccolta
da m. Girolamo
Labella dalli discorsi
fatti dal diligentissimo //umanista Girolamo Gafaro
nella Accad. Cafarea.
Novamente mandata in
luce. In Venetia,
Appresso Fr. Rampazetto
(vi si danno
avvertimenti vari sull'art., sui
nomi sost. e
agg., sui pronomi,
sulle coniugazioni: poi
alcune regole ortografiche:
1. santo da
sanctus; 2. dotto
da doctus, ecc.),
uè II Tesoro
della votgar lingua
di Reginaldo Acceto.
In Napoli per
Cacchi (contiene appena XXIII
regole grammaticali delle
CLVIII che secondo Zeno dove
contenere). Capitolo quarto
133 le Regole
della Thoseana lingua
di m. Yinckntio
Menni Perugino, con un
Breve modo di
Comporre varie sorti
di RimeQ), sunterello
elementare del terzo
libro delle Prose
del Bembo e
poco più'(e). Rimasero
inediti alcuni scritti
grammaticali di Alberto Lollio(3) e
nuli' altn che zibaldoni
latino-volgari sono al[In
Perugia per Andrea
Bresciano (di pp.
40 un. nel
recto). Al M.
dobbiamo la versione
della Bucolica (Perugia,
Bianchini) e dei
primi sei libri
dell' Eneide (Perugia, Bresciano. M.
esalta su tutti
il Bembo di
supreme lodi dignissimo
veramente.... Ma perciocché
[le regole in
cui egli ridusse
la lingua toscana]
paiono a molti
ardue, et difficili,
mi è caduto
nell'animo di riducere....
le regole della
Toscana lingua in
brevissimo volume, con
tale facilità, che....
qual si voglia
persona senza alcun
principio di latina
grammatica potrà facilmente
apprendere il modo
del parlare, et
scrivere Thoscanamente: Alla
quale opera ho
voluto aggiungere alcuni
brevissimi precetti circa
il modo del
comporre varie sorti
di rime, acciocché
da questa mia
fatica si possano
cogliere vari), et
diversi frutti. Senza l'aiuto
[de' Grammatici] non
possiamo venire ad
apprendere scienza alcuna.
Del Bembo conserva
anche la dicitura
dei termini grammaticali,
e tutti i
criteri d'armonia, ma
meccanizzandoli al punto da
specificare quali sono
le vocali più
buone e quelle
meno buone. Un
punto è tolto
dal Cesano del
Tolomei, quello cioè
in cui si
parla dell'eccezione di
alcune parolette terminanti
in consonante piuttosto che
in vocale {in,
con, per, ecc.).
Come il Petrarca
è il modello
degli antichi, co sì
il Sannazzaro e
'1 Bembo sono
vivacissimi lumi della moderna
poesia. Chiude ponendo
per ordine di
Grammatica e d'Alfabeto
quelle voci che
sono del verso
et non della
prosa, et così
anchora quelle che
alla prosa et
non al verso
si concedono. Cf. Filippo
Cavicchi, Scritti grammaticali
inediti di A.
Lollio in Rass.
bibl. d. lett.
it. Sono in
due cedici della
Com. di Ferrara: a\
tav. di alcune
voci delle Prose
del Bembo (dalla
Historia vinitiana: a
doppia colonna, vocaboli
e frasi, confrontata
col latino, osservazioni
ortografiche e sintattiche,
dichiarazioni storiche,
quasi un indice
analitico); b) brevi
regolette sopra la
volgar lingua (sono
79 senz'ordine, ma
riferentesi a tutte
le parti del
discorso, con esempi
tratti dall'uso vivo,
e riferimenti al
latino, le più
di morfologia, poche
di sintassi); e)
due lunghi spogli
di Dante e
Petrarca (questioncelle metriche);
d) Osservazioni di
M. Giulio Costantino sopra la
volgar lingua; Compendio di
alcune voci proprie
della lingua toscana
e provenzale (ma
delle voci provenzali
promesse non ci
dà nulla affatto:
il resto è
un vocabolarietto italiano-ferrarese ì; b)
Proverbi e motti.
A stampa abbiamo
un'Orazione della lingua
toscana, Venezia, ripubblicata
nel 63 e
poi in Prose
fiorentme del Dati.
Il L. è
per l'opinione del
Tolomei, che vuole
doversi chiamar toscana
la lingua. 134
Storia della Grammatica
cune delle molte
abborracciate compilazioni di cui riempì
il mondo letterario
per più d'un
ventennio Orazio Toscanella,
e elucubrazioni superricialissime quelli,
in genere, epistolari
del Citolini, il
noto miracolo di
natura, cui già
s'è accennato. Le
ristampe come le
raccolte e le
riduzioni a metodo,
che tennero il
campo in vece
di più recenti
grammatiche dove quasi
nullo era il
contenuto e sviluppatissimo lo
schematismo, e che
anzi impedirono il
moltiplicarsi di siffatte
manipolazioni, se da
una parte attestano
d'una diminuzione di
fervore e d'interesse nella ricerca
diretta o, per
lo meno, d'un'
incapacità ad allargare
e ad approfondire
il campo dell'
osservazione, sono indizio
però, dall'altra parte,
d'un certo bisogno
di mantenersi a
contatto almeno con
la voce e
l'esempio degli scrittori
che più erano
stati studiati, d'un
interessamento confa dire
estetico, più o
meno fervente e
cosciente, verso l'opera
d'arte, piuttosto che
verso lo schema
per sé stesso.
Il cinquecento è
secolo di passione artistica, che
la critica formalistica
non riesce a
smorzare, e pur
sotto l'imperio sempre
più assoluto di
essa e tra
lo svolgersi d' una letteratura
grammaticale-retorica
conserva sempre j vivo il
sentimento della bellezza
sia pure esteriore:
passione I multiforme,
che intendeva sodisfarsi
pienamente nel possesso
cTP^ I soli
titoli delle opere
del T. ci
rivelano i caratteri
di certa produzione
scolastica del tempo:
Istituzioni grammaticali volgari,
et latine a
facilissima intelligenza ridotte
da O. T.
della famiglia di
maestro Luca fiorentino: et
dichiarate per tutto
dove è stato
necessario, con piena
chiarezza dal medesimo,
fatica utilissima a
tutti quelli che
ad imparare Greco, Latino
e volgare si
datino. Et con
una tavola copiosissima. In Vinegia
Appresso Gabriele Giolito
de' Ferrari. Nella
chiusa, pp. 507-23,
è un trattatello
Dell'ortografia volgare e punti, e
in fine dichiara
che stamperà a
parte la metrica,
e la grammatica greca che
egli insegna con
la lingua latina.
Ma in codeste
Istituzioni, d' italiano non
e' è che
la traduzione dei
vocaboli e frasi
latine, e la
grammatica è soprattutto
in servizio del
latino. L'ortografia è divisa
in a) parola;
b) punti; e)
accenti. Delle congiugationi
dei verbi qui
non scrivo; perchè
ne ho scritto
a pieno nel
volgareggiare le congiugationi
dei verbi latini;
come si può
veder più su
al luoco loro.
Concetti e forme
di Cicerone, del
Boccaccio, del Bembo,
Venezia per Lodovico
degli Avanzi, Eleganze latine
con i suoi
volgari. Venezia per
Bariletto. Dictionariolum
latino gallicuvi, Ciceroniana
Epitheta, Parisiis per
Michaelem Sonnium.] tutti gli
clementi formali della
prosa e del
verso, e della
lingua voleva saggiare
tutte le essenze.
Un libro che
mirava ad appagare
codesta passione, qualunque
sia il suo
valore speciale come
esecuzione, e che
è sulla linea
di svolgimento che
abbiamo seguita sin
qui, sono i
Commentari della lingua italiana^)
d' un fecondo
quanto abborracciante poligrafo,
Girolamo Ruscelli, usciti
postumi per cura
del nipote nel
15H1, ma terminati
almeno un decennio
innanzi, e composti
tra il 55
e il 70,
nel periodo cioè
in cui si
conchiudeva l'attività
grammaticale esercitata sull'opera
dei primi grammatici
originali, quando già erano
usciti i Tre
discorsi a Dolce, coi
quali il Ruscelli
aveva preso posto
fra i grammatici
del suo tempo.
Questi Commentari sono
un grosso zibaldone
di 574 pagine
in-8": de' sette
libri onde si
compongono, solo il
secondo, che però
è il più
lungo, tratta di
vera e propria
grammatica: il primo discorre
dell'origine e dell'eccellenza della
favella ; il terzo
è un' epitome
del secondo, in
servizio de' meno
introdotti; il quinto
è un ricettario
degli vitii da
fuggire, ma non
di quelli commessi
da' forestieri o
dagT Italiani delle
varie Provincie, sì
bene da' Toscani
o Toscanizzanti, e
ne parla sistematicamente seguendo l'ordine
delle parti del
Discorso (Articolo '
parte principale del
Nome ', Nome,
ecc.), per ciascuna
delle quali fioccano
i vitii, libro
ben caratteristico del
purismo grammaticale del Ruscelli
(?); gli altri
sono un miscuglio
di precetti di
ret In Venezia
per Damian Zenari.
Dei Commentarti della
lingua italiana del
sig. Girolamo Ruscelli
Viterbese, Libri VII.
In Venetia, appresso
Zenaro, alla Salamandra. Dobbiamo al
Ruscelli Tre discorsi
al Dolce: Atmotazioni
sopra il Decamerone,
Annotazioni al Furioso,
un Vocabolario: più
un Dialogo ove
si ragiona della
ortografia, cioè del
modo di regolatamente
scrivere, così nelle
parole come ne
gli accenti, et
ne' punti. Cavato
novamente dalle scritture
di m. Girolamo
Ruscelli. Et agiuntovi
la sottoscrittione, et
soprascrittione di componimenti
di lettere. In
Venetia, Appresso Pietro
de' Franceschi. (")
De' vitii son
fatte due categorie:
a) contro l'eufonia
(il spirito, il studio
non lo spirito,
lo studio; ma
li scogli non
gli scogli); b)
contro la grammatica
('vitii espressi'): l'osservo/gli
osservo, con il/col,
con i/coi, dalli/da
i, d' i/de i,
per i/per li,
de '1/del, el/il,
gli, o li/a
loro, a lei, i/li, o gli/a lui,
cotesto per questo/questo, le gente/le
genti, dua/due, leggeno/eggono, pariamo/par- [torica grammaticale
(Dell'ornamento): specchio, per
quanto appannato, se
non riassunto, delle
varie indagini condotte
sull'organismo della lingua dai
precedenti grammatici e
retori, le cui
opinioni vi sono
spesso richiamate, con
le antiche e
nuove definizioni di termini,
con la loro
varia nomenclatura; ricco
di confronti dell'italiano
con altre lingue,
specie la ebraica;
discorsivo, frondoso. Da alcuni
luoghi della trattazione
degli articoli e de' verbi,
parrebbe che il
Ruscelli avesse dovuto
aver sott'occhio la
prima Giunta castel vetrina (1562),
ma del metodo
del grammatico modenese,
egli è la
negazione: la sua
è grammatica empirica; il
suo principale maestro
e autore è
il Bembo. Fu
raccomandato dal Lombardelli
con qualche riserva,
e dal Meduna,
ma biasimato da
altri, e specialmente
da un intendente
sicuro di cose
linguistiche, il Borghesi.
Ma non è
sull'ordinamento e la compagine
del libro né
sulle trasgressioni contro
la lingua, che
si ferma la
nostra attenzione, sì
bene sul principio
che serve di
fondamento alla grammatica,
logica e necessaria
conchiusione
dell'elaborazione a cui
avea dovuto soggiacere:
il principio della perfetta
regolarità, dell' ordine
più assoluto della
nostra divina favella,
col quale è
accolto nel corpo
della gram liamo
{havemo, senio si
possono adoperar con
discrezione, perchè li
adoperano anche i
Trecentisti), amono =
amano, andavo =
andava, andorno, andassimo,
andaressimo, andarci, venesti,
contenirà, odesti, habbi,
facci, ecc. Questa
trattazione rettorica incorporata
in un trattato
grammaticale dimostra che ormai
la poetica in
quanto elocuzione si
era staccata dalla
rettorica e che
la prosa richiedeva
una trattazione a
parte. R. altresì
può giovare et
a' principianti, ed
a gli introdotti,
parlo, ne' Commentari;
perchè tratta la
nostra Gramatica distesamente
declinando, e dando
molti avvertimenti comuni,
e utili. Ha
ben certe oppenioni che se non
gli passano agevolmente, e spende anche molte parole nel suo discorrere,
riavendo hauto per natura dell'Asiatico. Ne'discorsi a Dolce ricerca di belle
sottigliezze, e contengono
un certo gastigo
di coloro, che
troppo ardita, e
baldanzosamente si mettono
a scrivere in
questa lingua. Nell'Annotazioni al
Furioso, e sopr'
al Decamerone, e
nel detto Vocabolario,
dichiara e voci
e modi di dire, ove
un forestiero può
imparare assai. Fu
studioso di più
lingue, e di questa
particolarmente: onde mi
sovvien d'avvertire, che
egli corresse, o
illustrò molti scrittori:
per lo che
si potranno quasi
legger sicuramente, quando
nel principio si
troverà suo proemio,
giudizio, censura, o
elogio. I fonti.] matìca tutto
ciò che è
regolato (l), e
ripudiato, cacciato nel
vocabolario, come in
luogo di pena,
tutto il resto
che non si
presta a misurazione,
o abbandonato a
sé stesso: lo
spirito estetico animatore della
favella è così
completamente distrutto, e
conservata dell'espressione soltanto
la forma geometrica.
La ripugnanza all'
irregolare si esprime
nel Ruscelli in
una forma che
ha del comico,
come (piando se
la prende coi
moltiplicatori delle difficoltà
con dir Muta
in questo, Togli
in quello, Aggiungi in
quell'altro. Né codesto
principio è professato
così all'ingrosso: anzi è dedotto
a fil di
logica, in un
ragionamento che vai la
pena di riassumere,
e porre qui
come pietra miliare
sul cammino della
nostra storia. Prima fu
il parlamento che
le leggi sue.
L' uomo ha
da Dio o LA NATURA (GRICE)
il dono
di comprender coll’intelletto e ESPRIMER
COLLA FAVELLA quanto si contiene
nella gran macchina
dell'universo in forma
perfettamente ordinata,
ripugnando la mente
nostra dal disordine.
Onde nell'osservazione delle lingue,
i grammatici scartarono
tutto ciò che
è scorrezione d'ignoranti, usando
dello stesso criterio
de’giudiziosi che nel
fare le regole
delle bellezze d'un
corpo, o d'un
volto, elessero o
i volti più
belli, e più
conformi con l'ordine,
riuscendo a prevalere sull'USO SCORRETTO (Grice: meaning not = use) di chi
neh' usarla o nel
porla in regola
s'attenne al peggio.
La nostra grammatica
si stampò sulla
latina per la
dipendenza della nostra
lingua e anche
della greca, e
l'averla compilata primi
il Bembo e
altre persone rare,
fa che non
gioverebbe rinnovarla. Perciocché,
s'ella fosse lingua
[l'italiana], che hor
nascesse, et che
noi fossimo i
primi che la
riducessimo in osservatione,
et in regole,
ci governeremmo con la
ragione, et con
l'ordine della Natura,
come fanno gli
Ebrei, et come
nella Greca era
opinione d'Aristotele, cioè
che le parti
del parlamento fossero
solamente tre... Et
in queste potean
veramente contentarsi di
divider la loro
i nostri Latini,
et ogn'altra natione. Nondimeno,
perchè, come cominciai
a dire, non
scriviamo hora regole
di lingua, che
hor nasca nella
sua grammatica, et
perchè ancora questa
nostra ha fondamento,
imi Nel secondo
de' Tre discorsi
al Dolce (Venezia,
cioè nelle Osservazioni
di lingua volgare,
infierisce contro l'autore
delle Osservazioni anche
perchè oltre ai
discutibili errori di
grammatica vi aveva trovato
scorrezioni di questo
genere: lotto per
lóto, ametto per
ammetto e Ameto,
bevvo per bevo.
13S Storia della
Grammatica tatione, ornamento,
et forma dalla
Latina, per questo
parve a i
nostri di volerle
tenere congiunte, et
conformi tra esse
quanto più sia
possibile ne i
modi principali, et
nell'ordine universale di
tutto il composto
con le sue
parti (pp. 72-6).
Insomma, il Ruscelli
in omaggio alla
venerabile antichità, all'
imperio della tradizione,
mantiene la grammatica
così come lui
T ha trovata,
ma se la
cosa dipendesse da
lui, ne divorerebbe
per lo meno
due terzi: tanti
ne sono superflui,
e la ridurrebbe
a due o
tre categorie, sotto
le quali dovrebbe
ubbidire servilmente l'umano pensiero,
inquadrandovisi nel più
perfetto ordine.
Giustificare e difendere,
di fronte e di contro
il latino, la
lingua volgare, studiare
i mezzi adatti
a condurla alla
perfezione, secondo la corrente
concezione del linguaggio,
era ornai intento
comune de' letterati
italiani: la differenza
sorgeva ne' criteri
da adottarsi per
conseguir codesto intento,
differenza che corrispondeva
alla varietà della
cultura, delle disposizioni,
e delle condizioni
etniche de' letterati
medesimi. La dottrina
bembesca raccoglieva le
maggiori adesioni, anche
presso i Toscani,
i quali, però,
come quelli che
sapevano di non
essere stati punto
estranei al movimento
in favor del
volgare e, si
badi, al tentativo
di una legiferazione
grammaticale di esso
nel fatto, codesto
movimento nel Quattrocento
era stato quasi
esclusivamente toscano, anzi
fiorentino, né tra
il chiudersi dell' un secolo
e l'aprirsi dell'altro,
rispetto alla sorta
attività degli altri
Italiani, era punto
diminuito l'interesse de'
Toscani per la
loro lingua non potevano
aver caro che [Sensi, M.
Claudio Tolomei e le controversie
sull'ortografia italiana. Nota
da tener presente
anche per altri
luoghi di questo
capitolo. (2) A
non rammentar molte
prove, basti la
cit. lettera di
Alessandro de' Pazzi a
Francesco Vettori, e il
Dialogo du Machiavelli, donde
appare quanto vivo
fosse in Toscana
e in Firenze
il culto dell'
idioma natio e l'
interesse che si
poneva nello studiarlo
anche analiticamente. Tra
i criteri onde
negli Orti si
140 Storia della
Grammatica i non
Toscani si fosser
mossi e gareggiassero
a discorrer di
lingua toscana e
a dettarne le
regole: una tale
legiferazione non poteva
non risolversi in
una violenza contro
il loro senso
linguistico, tanto maggiore
quando a fondamento
di quelle regole
non era assunta
la toscanità trecentesca,
ma l' italiano parlato
presentemente nelle varie
corti d' Italia.
Sicché, tra le
cercava di determinare
le affinità e
le differenze tra
le varie lingue
e i vari
dialetti, si applicò
anche quello strettamente
grammaticale. Il Machiavelli,
appunto, ci dice:
e dicono che
chi considera bene
le otto parti
dell'orazione, nelle quali
ogni parlar si
divide, troverà che
quella che si
chiama verbo, è
la catena, ed
il nervo della
lingua, ed ogni
volta che in
questa parte non
si varia [cioè
non c'è differenza
tra la lingua
e lingua], ancoraché
nelle altre si
variasse assai, conviene che
le lingue abbiano
una comune intelligenza,
perchè quelli nomi
che ci sono
incogniti, ce li
fa intendere il
verbo, il quale
infra loro è
collocato, e così
per contrario dove
li verbi sono
differenti, ancoraché vi fusse
similitudine ne' nomi,
diventa quella lingua
differente: e per
esemplo si può
dire la provincia
d'Italia, la quale
è in una
minima parte differente
nei verbi, ma
nei nomi differentissima, perchè
ciascuno Italiano dice
amare, stare e
leggere, ma ciascuno
di loro non
dice già deschetto,
tavola, e guastada.
Intra i pronomi
quelli che importano
più, sono variati,
siccome è mi,
in vece di
io, e ti,
per tu. Quello
che fa ancora
differenti le lingue,
ma non tanto
che elle non
s'intendano, sono la
pronunzia, e gli
accenti. Li Toscani
fermano tutte le loro
parole in sulle
vocali, ma li
Lombardi, e li
Romagnoli quasi tutte le
sospendono sulle consonanti,
come Patte, Pan.
Discorso. Qui abbiamo un
germe, se non
un cenno schematico
di grammatica italiana,
ed è il
primo, come s'è
già osservato, nel Cinquecento
avanti delle Regole
del Fortunio. Il
più notevole è, oltre
la verità estetica,
che con questo
e con altri
argomenti il.Machiavelli dimostra
acutamente l'origine fiorentina
della lingua letteraria d'Italia. Quella
lingua si chiama
d'una patria, la
quale converte i
vocaboli ch'ella ha
accattati da altri,
nell'uso, ed è
sì potente che
i vocaboli accattati
non la disordinano,
ma ella disordina
loro, perchè quello
ch'ella reca da
altri lo tira
a se in
modo, che par
suo.... Ma tinello
che inganna molti
circa i vocaboli
comuni, è, che
tu [Dante], e
gli altri che
hanno scritto, essendo
stati celebrati, e
letti in varj
luoghi, molti vocaboli
nostri sono stati
imparati da molti
forestieri, ed osservati
da loro, talché
di propri nostri
son diventati comuni.
Quanto poi sia
calzante la dimostrazione
che Dante scrisse
in fiorentino, è cosa
già ben assodata.
Non così esatta
è l' interpretazionidel trattato
dantesco, ma il
dedottone ammaestramento, gli
uomini che scrivono
in quella lingua,
come amorevoli di
essa, debbono far
quello ch'hai fatto
tu [Dante], ma
non dir quello
ch'hai detto tu,
è tra le
cose più acute
che siano state
osservate in tanto
e tale dibattito.
Capito/a quint 14
[ voci ili
protesta impregnata talvolta
di sarcasmo, venner
fuori ben presto
anche inviti ad
accingersi alla compilazione
della grammatica. Il
Norchiati nel dedicare
al suo molto
honorando messer Pierfrancesco
Giambullari il Trattato
dei Dittonghi^, constatando
che rin allora molti
non Toscani avevano
scritto ordini, regole
e modi d'imparar
la lingua, senza
voler giudicare, pur
ringraziandoli, se avessero
giovato o no,
ammoniva che era ormai
tempo che i
Toscani si ponessero
a dettar essi
quelle regole: ciò
che egli intanto
faceva per i
dittonghi. E nel
trattatello notevole, nell' esaltare sui
Greci e Latini
i suoni Toscani,
assai più abbondanti,
perchè rendono gratia
et leggiadria inestimabile
all'orecchio , osserva
che al pronuntiar
bene quadrisona {tuoi)
bissogna grandissima pratica
et attitudine a
far sonare in
essa gli quattro
suoni delle sue
quattro vocali, senza
lassarne adietrio o
gittarne via alcuno:
e che tutti
si sentino chiari
speditamente in tal
pronuntia, come noi
in Firenze, e
gli altri toscani con
grandissima facilità, sonorità,
et dolcezza perfettamente
pronuntiano; e avvertiva
che nell'elisione i
fiorentini non gettai: via
nulla, pronunziando assa'
meglio 1' i
che non sappian
fare i non
Toscani. Il Lenzoni
nella sua Difesa
della lingua fiorentina
se la prendeva
più tardi coi grammatici non Toscani
che pretendevano insegnar
la grammatica, e,
con una certa
bravura schermistica, postillava
in margine le sue osservazioni
con questi motti:
questo va al
Ruscelli et all'Alunno,
et questo al Bembo.
Ma all'elaborazione della
grammatica volgare i
Toscani avevano contribuito anche
a prescinder dalla
grammatichetta vaticana e
contribuirono più di
quanto essi stessi
non credessero, e certo
con effetti assai
migliori per lo
sviluppo delle idee
sul linguaggio. (M
Trattato de Diphthongi
Toscani, di messer
Giovanni Norchiati canonico di
S. Lorenzo. In
Vinezia per Giovanni
Antonio di Nicolini
da Sabio. Ad
instantia di Sessa. Difesa della
lingua fiorentina, e
di Dante con
le regole di
far bella, e
numerosa la prosa.
In Firenze per
Lorenzo Torrentino. Fu
pubbl. da Cosimo
Bartoli, e avrebbe
dovuto esser pubblicata
dal Giambullari, che
preparò per la
stampa, gli appunti
lasciati dal Lenzoni.
La p. Ili
è costituita tutta
di frammenti. Dalla
pag. 76 incomincia
la mano del
Giambullari. 142 Storia
della Grammatica I
Toscani, che si
trovavano in possesso
della lingua adottata dalla letteratura,
non sentirono mai il bisogno
d' apprenderla dai libri, e
nello sforzo di
perfezionarla, secondo l'esempio
dell'Alighieri, perchè potesse
competere con le
lingue classiche, non
solo non perdevano
il senso della
parola viva, ma
eran condotti a
dar assai minor
importanza al precetto
grammaticale, che seguiva
non produceva il
fatto linguistico: questo
affermarono il Tolomei, il
Gelli e il
Salviati medesimo. Essi,
vedremo, ammettevano la
possibilità e l'opportunità
della grammatica sol
quando si fosse
potuto giudicar giunta
alla sua perfezione,
la lingua, e le attribuivano
ufficio di conservazione, più
che di regola. Questa riconosciuta
forza intima del
linguaggio, la sua
capacità a svolgersi
e perfezionarsi sotto
il soffio delle
idee e della
civiltà progredienti è il vanto
della scuola toscana,
anche se la
grammatica che ne
usci, quella del
Giambullari, non supera d'un
grado solo la
contemporanea letteratura grammaticale,
e tutto il
movimento toscano non
potè sottrarsi al
dominio dello spirito
classico. Alcune delle
idee espresse nel
suo Dialogo dal
Machiavelli, vero principe,
per l'altezza del
suo punto di
vista, di questa
scuola, valgono assai
più di parecchie
grammatiche di questo
periodo prese insieme:
come quella già
riferita sulla forza
che ha la
lingua particolare d'un
popolo intellettualmente forte,
di convertire in
proprio uso i
vocaboli accattati da
altri, non solo
senza rimanerne disordinata
ma in modo
da disordinar essa
loro, perchè quello
ch'ella reca da
altri lo tira
a sé in
modo, che par
suo: concetto a
cui non mancherebbe
nulla per esser
profondamente estetico, se
nella mente del
Segretario fiorentino il linguaggio
fosse stato tutt'uno
con l'espressione, perchè,
nel vero, il
realmente parlato non
è se non
il vecchio materiale
linguistico rielaborato nelle
nuove espressioni. Nello
studio grammaticale, storico
e poetico della
lingua che si
fece per oltre
un trentennio, dal
sorgere delle controversie
ortografiche
all'inaspriménto della battaglia
linguistica provocata dalla
famosa Canzone de'
Gigli d'oro, il
senese Claudio Tqlprnei,
si può dire
che faccia parte
per sé stesso
in virtù della
sua maggior cultura
e penetrazione filologica,
onde anche'a ragione è reputato
uno de' più
fecondi precursori della
grammatica storica. Non digiuno
di filosofia, cultore
appassionato delle muse,
oratore politico di
qualche nerbo, epistolografo
de' meno sonnolenti,
egli cercò sempre
di slanciarsi a
più alto volo
che le penne del
puro grammatico non
consentano, benché la
grammatica restasse pur sempre
la sua principale
occupazione, e alle
scoperte e innovazioni
ivi fatte, ortografiche,
metriche, fonologiche, sia legata
la sua rinomanza.
Stando alle testimonianze
che si posson
raccoglier dalle sue
lettere, il suo
animo fu sempre
diviso tra le
compiacenze che pur
gli procuravano i
resultati in gran
parte nuovi delle
sue ricerche e il fastidio
che un tale
studio recava con
sé. In una
lettera al signor
Alessandro V. dichiara d'aver
trovato per li
campi della grammatica... più tosto
spine che fiori
, e chiama
la grammatica cosa
fastidiosissima. Non che
non la ritenga
una scienza vera
e propria come
le altre; non
che giudichi inutile
l'apprenderla come corpo
di dottrina e
come mezzo indispensabile alla
piena intelligenza degli
scrittori; ma nega
che possa mai
apprendersi
indipendentemente dallo studio
degli autori, e
annette la più
grande importanza a
la destrezza del
maestro, il qual
deve con bei
modi infiammare il
discepolo a li
studij, sforzandosi di
agevolarli, e addolcirli
queste vie spinose
de la Grammatica,
acciocché si possa senza
troppo offesa caminare.
Lo scritto che
ora tocca più
davvicino il nostro
tema, è il
Cesano, divulgatissimo, e meditato,
se non abbozzato,
contemporaneamente alla collaborazione al
Polito del Franci.
Consta nella Delle
lettere di m.
Claudio Tolomet, libri
sette. In Venetia,
Appresso i Guerra. Cesano,
Dialogo di m.
Claudio Tolomei, nel
quale da più
dotti Huotnini si
disputa del Nome,
col quale si
dee ragionevolmetite chiamare la
volgar lingua. In
Vinegia Appresso Gabriel
Giolito De Ferrari,
et Fratelli, MDLV,
pp. 198-9. Sulla
composizione, la fortuna
e i manoscritti del Cesano,
e le sue
relazioni col trattato
dantesco, è da
vedere l'importante % 2, Le
allegazioni di Tolomei
della più volte
cit. Introduz. del
Rajna alla 'sua
ediz. crit. del
De Vu/g. Eloq..
p. LX sgg.
Il Dialogo ci
riporta a Roma
e agli anni
1524-5; il signor mio
Illustrissimo a cui
il Cesano è
diretto, sarebbe il
card. Ippolito de' Medici,
patrono del Tolomei,
che apparisce propriamente
a' suoi servigi
da una lettera;
è probabile che
a scrivere il
Cesano deva il
Tolomei essersi messo
per effetto del
mancato Concilio di cui s'è
parlato. Del Cesano,
a conoscenza del Rajna,
sono quattro testi
a penna: uno
è a Firenze
(Magliabech.), due si
trovano a Siena
(Bibl. Com., G. e K, e
il quarto è
a Roma, alla
Vittorio Emanuele (Fondo
S. Pantaleo, S6
[5.8]. Il romano
fu nelle mani
di Celso Cittadini,
il quale, per
144 Storia della
Grammatica '-1 esposizione
del Cesano di due parti
oltre l'obbiettiva esposizione
delle teorie del
Bembo, del Castiglione,
del Trissino, del
Pazzi: T una,
generale, riguarda il
linguaggio e il
nome da dare
alla lingua volgare,
l'altra, speciale, il
confronto tra le
forme del latino e
quelle del toscano,
propugnato dal Tolomei.
Il parlare ,
basterà metter in
rilievo alcuni particolari
pensieri per riassumere
la questione speculativa, a
gli huomini è
naturale, ma i
vocaboli, che le
cose ci mostrano,
sono non dalla
natura: ma dall'arte,
o dal caso
in sul fondamento
della natura formati,
la quale ci
fece tutti et
disposti al parlare,
et a sceglier
la lingua in
queste parole et
in quelle. Né
fu mai l'oppinione
di Nigidio Figulo
ricevuta per vera,
il quale istimava
che tutti i
vocaboli fossero naturali,
perchè quantunque alcuni
se ne trovino,
che par sieno
dalla natura, et
midolla della cosa,
che significano, cavati
fuori: come strepito,
crepito, fischio, tuono,
et altri simili
a questi non
però il monte
grande de' vocaboli si
governa da [questa
avvertenza. E come
sorgono le lingue
particolari? Il parlar
chiaro , cioè
la facoltà di
esprimer chiaramente i propri
pensieri, data dalla
natura all' uomo
( non alli
angeli per non
esser loro necessaria,
non alle bestie
per non esserne
degne ), riceve
ne' suoi effetti
varie modificazioni dalla varietà
de i tempi,
et la differentia
de' luoghi, che
sono sempre di
diversi vocaboli et
di diverse lingue
produttrici . E superfluo
avvertire qui l'eco
delle antiche dispute
circa l'origine del
linguaggio: a noi
importa rilevare l'importanza
che ha l'averle
riprese, e l'applicazione fattane.
Non essendo altro
vero Idioma, che
un raccoglimento di
più e più
vocaboli ordinato a
servire a una
diversità di più
huomini per potere
isprimere i secreti
de gli animi
loro, certo di
coloro sarà sempre,
compiacere, a quanto
pare, al desiderio
di Belisario Bulgarini,
che doveva esserne
il possessore, vi
segnò molte correzioni,
tenendo a riscontro
la stampa del
Giolito, e spesso
vi restituì le
usanze linguistiche
dell'autore di cui
nessuno per certo
poteva avere maggior
pratica di questo suo
grande depredatore. La
fonte del Tolomei
parrebbe risultare il codice
di Grenoble del
De l'ulg. Eloq.
La prerogativa del Tolomei
si riduce secondo
ogni verosimiglianza ad
essere il primo
studioso a cui
apparisca noto il
codice del D.
V. E. che
perverrà nelle mani del
Corbinelli, e forse
l'avrà visto a
Padova nell'estate o autunno
del 1532 nell'occasione di
una sua andata
in Austria. che da
teneri anni con
le madri et
co i padri
hanno imparato, et
poscia cresciuto ad
ogni movimento del
pensier loro, con
gli altri di
quella Città parimente
usato. Cosi è
naturale che il
Tolomei prenda posizione
pel se?iese, lasciando
che il Bembo
adduca le ragioni
in favor del
nome volgare, il
Trissino per Vitaliano,
il Castiglione per
il cortigiano, e
Alessandro de' Pazzi
pel fiorentino. Affermato
il carattere peculiare
de' vari Idiomi,
esce in un'osservazione acuta,
che, se meglio
meditata e fecondata, avrebbe gettato
un insolito sprazzo
di luce sulla
natura del linguaggio,
là dove afferma
che il parlar
prima dee esser
notissimo a colui,
che lo parla,
perchè con lui
è più unito,
che con alcun
altro. Di qui
al riconoscere che
il linguaggio è
individua creazione
spirituale il passo
non sarebbe stato
davvero lungo. Dalla
questione speculativa passando
alla storica, il
Tolomei si fa
a seguire le
vicende della nostra
lingua, derivandola dalla
trasformazione del latino
operata, come si
credeva general Su
questo punto, che,
come sappiamo, non
è una scoperta
del Tolomei, mentre
è suo peculiar
vanto l'aver tracciate
alcune ben ferme
linee di grammatica
storica, debbo osservare
che mi sembra
caratteristico
l'atteggiamento onde il
Tolomei guarda il
problema. Il filologo moderno,
descrivendo il trasformarsi
della parola latina
nelle varie parole
romanze, non solo
tratta il suo
tema, sereno, senza
predilezione per il
latino o per
i nuovi volgari,
ma vede in
quella trasformazione un
fatto che si
svolge naturalmente con le sue
leggi precise e
costanti, un divenire
continuatamente regolare, che,
quasi facendo scomparire
agli occhi di
lui l'esistenza di
due lingue distinte,
attira sopra di sé tutto
il suo interesse
e glielo esaurisce.
Invece, il Tolomei,
volendo dimostrare che la lingua
toscana è propria lingua, indipendente
dal latino, bella
per conto proprio,
e libera da
ogni debito verso
quello, ha sì
coscienza di quella
trasformazione e, se
non nel Cesano,
ne' suoi trattati
inediti, ne addita
e ne determina le
leggi, ma guarda
il fatto non
come una necessità,
in cui il
latino almeno come
materia ha la
sua funzione, ma
quasi come un
continuo sforzo di
riazione e di
ribellione compiuto dal
volgare per differenziarsi dal
latino, staccarsene, anzi
voltargli bruscamente le
spalle, per ricomparirgli
poi dinanzi, sotto
forme nuove e
in abito di
gala per dirgli,
tra il gnive
e il canzonatorio,
' eccomi qua,
ci sono anch'io,
e posso anche
misurarmi teco'. Questa
è l'impressione che
desta la lettura
del Cesano; onde
non è maraviglia
che chi potè
esser informato dei
discorsi del Tolomei
o direttamente o
indirettamente, fosse tratto
ad attribuirgli l'erronea
opinione che il
toscano non derivasse dal
latino: Non vi
concedo , si
fa dire al Tolomei nel
Diati. Trabalza. io 146
Storia della Grammatica
mente, dalle incursioni
barbariche e dalla
questione storica è
condotto a comparare
le caratteristiche del
toscano con quelle
I del latino,
concludendo che, se
bella è la
lingua latina, nulla
/ deve invidiarle
la nostra che,
pur essendo stata
manomessa dai barbari,
si piegò mirabilmente
a esprimer con
arte efficace i|
nuovi pensamenti del
popolo e si
concretò e si organò in
opere di letteratura
immortali. Ecco i
risultati di tale
comparazione dedotta per
tutti gli -4 ordini
della grammatica, e
che riesce, però,
quasi a un
abbozzo della grammatica
stessa del toscano:
1. I suoni
e gli '
elementi ' (lettere),
come fu dimostrato
dal Polito, non
son più nel
Toscano gli stessi
che eran nel
latino, perchè alcuni di
quelli si perdettero
ed altri se
ne produssero di nuovi.
2. Nella testura
degli elementi il
Toscano fugge l'asprezza
come non fa
il Latino: a)
due mute diverse
che fanno aspra
testura il Toscano
non le tollera;
ò) né ogni
muta può trovarsi
innanzi alla.S; e)
lo / e
lo V liquido
si usa dopo
ciascuna consonante, che
addolcisce con quel
distruggersi et liquefarsi
tutta la parola :
nel latino questo
avviene solo in
due casi. IL LATINO fugge generalmente
il RADOPPIAMENTO delle consonanti.
Nulla di
questo aggrada più al Toscano.
logo del Valeriano,
messer Giangiorgio, che LA
LINGUA TOSCANA si' peggior della
cortigiana, o come
voi dite, della
commune, perchè si
discosti più della
latina; ne vi
concedo, che la
toscana venga dal
latino, perchè è lingua
propria e separata,
e indipendente, et
ha le sue
proprie inflessioni, e
forme, e figure,
et eleganze di
dire forse assai
più, che non
ha la latina.
Et come questa
vostra commune, Italica
dite esser derivata
dalla latina, così
la toscana moderna
potemo creder, che venga
dall'antica lingua Etrusca,
ecc. Aggiungerò che
il tentativo di
riformar la nutrica
italiana, secondo quella
classica, mosse nel Tolomei
dal medesimo principio
della virtuosità e
dell'eccellenza del toscano rispetto
al latino. Ora
questo atteggiamento in uno che
pur seppe stabilire
qualche principio irrefutabile
di grammatica storica, da
che era determinato
se non dalla
coscienza della bellezza
della nuova lingua,
cioè dall'attribuire alla
parola viva la
virtù artistica propria
dell'espressione? Ma qui
debbo avvertire che,
come vedremo parlando
del Cittadini, codesto
atteggiamento muta nelle
operette grammaticali inedite,
dove di proposito
s'indaga il modo
della derivazione dell'italiano. Lo L
in mezzo delle
mute e delle
vocali cambiasi nel
Toscano in un / liquido
('pieno, chiave, fiato'):
e i vocaboli
in cui lo
L si trova
(come in '
Plora, implora, splende,
plebe') • non
furono presi dal
mezzo delle piazze
di Te scana: ma
posti innanzi da
gli scrittori :
il popolo avrebbe
detto ' piora,
implora, spiende, pieve', come
di quest'ultimo ne
habbiamo manifesto segno, che
volgarmente pieve si
chiama quella sorte
di Chiesa ordinata
alla Religione d'una
Plebe. I vocaboli
latini finiscono spesso
in consonante, o
mute, o liquide,
o mezze vocali:
il Toscano termina
sempre in vocale,
tranne alcuni pochi
monosillabi (' non,
in, con, per,
il, ver =
verso, pur, ancora
che il Boccaccio
usi pure ').
Questi fenomeni avvengono
nelle ' pure
dittioni ', ossia
in quelle di
formazione popolare. 6.
I vocaboli si
partono da la
natura o per
prolungamento o
accrescimento e per
accorciamento (cfr. il
d eufonico e
epentetico; i suffissi
' facissigliene gli
si ce ne
fa ', nel
primo caso; nel
secondo, oltre la
sinalefe, comune ai
Latini, Greci e
Toscani, il troncamento
delle sillabe in
liquida / m n
r, spesso anche
quando la liquida
sia doppia: '
augel, han =
augello, hanno '):
a) codesto troncamento
non può aver
sempre luogo in
causa dell'accento: nel
Toscano non si
patisce mai che
per qualunque o
accrescimento, o sminuimento
della medesima dittione
l'accento trapassi di
una sillaba in
un' altra ;
non è possibile
il troncamento nel
fine de' nomi
femminili in a,
tanto nel sing.
che nel plur.
Gli altri casi
raccogliere con ogni cura
minutamente lascieremo a
coloro, che la
Toscana Grammatica ci
vogliono interamente insegnare.
A noi basta
per hora intender,
come questa usanza
dello sminuir così
le parole nel
fine, è bella
et varia, et de' Toscani
molto propria. Ma
passiamo più oltre
a ragionare di
quegli ornamenti, che
vestono la parola, che
sono tempo, accento
et fiato, overo
aspiratone, et veggiamo per
Dio se in
questa parte ha
la nostra lingua
ricchezza alcuna propria,
che a' Latini
renderla non bisogni.
La quantità. Noi
non abbiam più
lunghe e brevi,
benché et forse
non senza ragione
io non istimi,
che ancora nella
lingua nostra vi
sia la misura,
tempo lungo et
breve, lo quale
se conosciuto ben
fusse a musiche
regole temperato, vie
più dolce renderebbe
il parlare et
il comporre de'
Toscani. Vedremo dell'esito
della folta caccagio?ie
alla quale annunziava il
Tolomei di porsi
per ritrovarli e
dell'uso che dei
trovamenti egli fece
nella sua nuova
poesia. \J accento.
Più largo certo
et più spazioso
è '1 corso
de gli accenti
Toscani, che non
è quel de'
Latini , che
non s'estende più là dell'antipenultima, mentre
i Toscani si
sospendon lontan dalla
line otto sillabe,
quattro per conto
della prima parola,
et tre per
conto delle affisse:
es. ' favolanosicenegliene '. E
torna a ribadir
la regola dell'immutabilità dell'accento, ancora,
che vi si
aggiunghino quattro particole,
ciò che non
avvien del Latino,
dove l'enclitica que
basta a trasportar
l'accento di pattern
all'ultima sillaba: patremque. L ' aspiratio?ie
è anche diversa,
perchè i Latini
aspiravano il principio delle
sillabe, se pur
honor e hieri
e simili non
succedessin dal greco,
mentre i Toscani
non aspirano niuna
sillaba che habbia
in principio la
vocale, ma quelle
sole, che incominciano
da quattro lettere,
et l'altre due
giunte dal Polito,
secondo eh' egli
brevemente et per
verissime regole ne
parla, nelle quali
non si trova
simiglianza alcuna con l'
aspiratione latina. io.
I dittonghi toscani
o non si
spatriano per la
Toscana quali erano
i cinque latini,
o molti più
di questi senza
dubbio alcuno. Gli
articoli. Usangli anchora
i toscani, come i greci, e
ne' maschi et
nelle femmine e
nel maggior numero,
et nel minor
differenti. Li quali
oltre, che distinguono
l'un sesso dall'altro, et questo
numero da quello,
hanno forza di
terminare et far
più certa quella
cosa, alla quale
sono applicati. Et
evi differenza di
sentimento in quelle
parole, che hanno
l'articolo in quelle,
che non lo
hanno. I casi.
Variasi per cagione
de' casi molto
più. La struttura (sintassi
de' casi). Et ordina
senza dubbio diverso
in tutto et
differente forma di
struttura. La tela et V
orditura delle nostre
parole (costruzione) son
diversissime nell'una e
nell'altra lingua, com'è
dimostrato dalle traduzioni, perchè
chi voglia far
toscano Cicerone o
latino il Boccaccio
col medesimo filo
e corso di
parole, s' avvedrà chiaramente
quanto la prima
fatica sia sciocca,
la seconda fasti-'
diosa. E sintetizzando
le riassunte osservazioni, conclude:
Che direni dunque? non
esser questa propria
lingua, (piando et
ne' suoni.Ielle voci
sue, et nella
struttura delle sue
lettere insieme, et nel finimento
delle parole, et nel modo
dell'accrescere, o sminuire
quelle, ne' gli
accenti, et ne’tempi,
nell' aspirationi. Che più?
ne' dittonghi, ne'
gli articoli, ne'
casi, nelle costruttioni,
et ordinatimi delle
parole, nelle figure
del dire, et
finalmente nella maggior parte
delle cose sia
dall'antica Romana cotanto
differente? Forse perchè
ella serba molti
Latini vocaboli, ma epiesto che
ci noia, per
Dio, non ha
ella nel thesoro
suo cpiasi infiniti,
ancora, che non
dirò forma, propria
pur ritengono dal
Latino? Leggasi Dante,
trascorrasi il Boccaccio,
odansi gli huomini
parlar da' paesi
nostri, e vedrassi
quanto quella heredità,
che gli fu
da' Latini lasciata,
ella fusse riccamente
vestita.... ben si
può dire quasi
della vecchia moneta
esserne nella Zecca
stampata moneta nuova.
E all'obiezione dell'alfabeto
risponde che questo
è un meccanismo,
un espediente qualsiasi
inventato dall'arte, dove
la lingua è
dono della natura
per aprire le
fantasie di ciascuno
a coloro, che
intorno gli sono.
Dall'aver descritti i
caratteri naturali del
Toscano, passa a
magnificarne l'eccellenza, la
bellezza, la ricchezza,
la dolcezza, scagliandosi
contro tutti i
pedanti che s'astengono
dallo scrivere perchè i
loro pensieri non
nacquero già nella
mente de' tre
sommi trecentisti da
poterli dipingere col
loro colore. Che ci
bisognerebbe fare se
'1 Boccaccio non
havesse il suo
Decamerone scritto, o
Petrarca i suoi
versi? tacer forse
per questo, o
punto non scrivere?
Insomma la nostra
lingua non è
tutta ne' libri:
le sue ricchezze
ella con la
viva voce le
va a parte
a parte discoprendo.
La misura della
ricchezza è nell'avere
per ogni cosa
un distinto vocabolo.
Così è condotto
a far l'elogio
della nostra letteratura,
dove trova che
ciascuno scrittore nel
grado suo, et
nello stil suo
arriva a ogni
maggior finezza di
pregiata eccellenza. All'obiezione che
la lingua Toscana
non obbedisce a
regole di grammatica,
il Tolomei risponde
che è la
Grammatica che nasce
dalla lingua e
non questa da
quella, e che
se non sono
state trovate le
regole ancora (il
che tutto non
si può dire,
essendoci stato già il
Fortunio e aspettandosi
le Prose del
Bembo), le si
troveranno, e saranno
complete quando altri
tragedie, altri Comedie,
Satire altri, et
altri altissime Poesie
partoriranno: né mancherà
chi l'infiammato stile
dell' Oratione, il piano
e l'aperto della Historia,
il familiare della
Epistola faccia illustre,
adornarsi con questa
lingua quella parte
di Philosohia, che
a' costumi s'appartiene,
quella che al
disputare, et l'altra
forse, che alla
natura, et finalmente
non fia o
arte nobile, o
bella disciplina, che dipinta
con le parole
di Toscana non
si mostri agli
occhi de' riguardanti
vaghissima, et '1
potersi con quelle
honoratamente le cose
scrivere, facendo segno
non oscuro i
nostri antichi scrittori,
i quali quello,
che volsero così
facilmente con la
penna scolpirono, che si conosce
esser più tosto
insino alla nostra
età mancata copia
di eccellenti scrittori,
che ella sia
già alli scrittori
mancata . A
questo accrescimento, a
questo perfezionamento del
volgare, il Tolomei veniva
pazientemente dissodando il
terreno della fonetica,
per ritrovar i
principi su cui
fondar la nuova
poesia onde doveva
aumentarsi la patria
letteratura, sì che
non avesse nulla
da invidiare alla
latina, pagando così
il suo tributo
a quel classicismo,
contro cui intendeva
innalzare l'edificio delle
nuove lettere. Furono
indagini laboriose, e
di cui aveva
piena coscienza. E
notevole ciò che
scrisse al Benvoglienti
circa taluni belli ingegni
co' quali ebbe
a ragionare dell'
inve?itione della nuova
poesia, e che
crederono, e dissero
che tutta quest'arte
si doveva risolvere
in queste poche
regolette, che voi
udirete. Tutte le
sillabe, dove è
l'accento acuto son
longhe. Tutte le
sillabe, che son
dinanzi a l'accento
acuto son brevi,
se già non
v' è l'addoppiamento. Tutte
le sillabe, che
son dopo l'accento
acuto son brevi,
ancora che vi
sia l'addoppiamento, e così volevano, che
tessonsi, romperne, volgerlo
havessero la sillaba
di mezzo breve Io
alhora assomiglia' costoro
a medici, che
da sé stessi
si chiamavan Metodici,
li quali per lo contrario
Galeno soleva chiamare
àjiièvoòovs; perchè con
quattro, o sei
regolette volevano, insegnar
tutta la medicina,
omne laxum astringendum,
omne strictum laxandum,
omne cavum implendum:
e in ciò
non considerava!! né
età, né veruna
altra cosa buona.
Ma veramente sì
come ne la
medicina fa mestiero
riguardar tutte queste
cose distintamente, così
nella nostra inventione
bisogna contemplar tutta
la lingua insieme,
le parti separatamente, e
veder molto Concluderemo più
presto esser mancati
alla lingua uomini,
che l'esercitino, che
la lingua as;ii
uomini e alla
materia. Lorenzo de'
Medici, Commento alle
rime, in Torraca,
Manuale d. I.
bene da qual
fonte nasce la
Longhezza, o la
brevità del tempo,
e come ciascuna
parola con l'altre
e con sé
stessa si misuri
e si contrapesi;
e per qual
riferimento e jroog
to il longo
sia longo, e
'1 breve sia
breve, e come
in questa contemplazione si
pigli il mezzo
e l'estremo. Che
più? bisogna sottilmente
considerar, se tutte
le sillabe longhe,
sono egualmente longhe,
e le brevi,
brevi, e le
communi, communi parimenti:
il che è
principio e origine
di grande intendimento.
E oltre di ciò è
forza scoprir alcuni
segreti, li quali
insieme con l'altre
cose spero vederete
distintamente dichiarate ne la
nostra operetta sopra
di ciò fatta . L'operetta
usci col titolo Versi
e Regole de
la nuova poesia
toscana^), contrassegnando, come
è stato ben
avvertito, un'epoca nelle
lettere del secolo
XVI , per
il movimento che presto
se ne propagò
in tutta l'Europa
occidentale (). Scopo
dell'operetta era di
difendere l'uso de'
metri classici nella
lingua volgare, offrendone
le regole e
gli esempi, forniti
da un gruppo
di letterati riuniti
in un circolo,
Y Accademia della
nuova poesia, di cui il
Tolomei doveva esser
ritenuto fondatore e
espositore dell'innovazione.
All' inventione non
dovè esser estraneo
quel medesimo spirito
aristocratico, che palesemente
affermarono in Francia
il Du Bellav,
l'autore della Défence
et illustration de la langue
fra?icaise), il programma
della nuova scuola
che si chiamò
la Pleiade, e
Jean de la
Taille, autore di
La manière de
faire de vers
en franfois, comme
en grcc et in latin
e che ispirò
Jean Antoine de
Bai'f a istituire
sull'esempio appunto de\Y
Accademia della nuova
poesia, un' Académie
de poesie et
de musique, accettando
le riforme fonetiche
propugnate da Ramus
nella sua Grammar.
La concezione aristocratica
che della poesia
si sarebbe fatta
il Tolomei non
sfuggì agli stessi
cinquecentisti : così il
Ruscelli raccontava che
la facilità di
far versi volgari....
comune ad artegiani,
femminelle, et perfino
a fanciulli di X
o XII anni
fu prima et
perfetta cagione di
muovere Tentativi
d'introdurre i metri
classici nella poesia
volgare e relativi
saggi risalgono, è
noto, in Italia
al Quattrocento. Carducci,
La poesia barbara,
Bologna. Nel voi. carducciano
ora citato. E
cfr. G. Mignini,
Saggio di gramm.
st. it.: i
versi italiani in
metrica latina, Perugia Spingarn Spingarn Tolomei, et
tutta quella bellissima
schiera a ritrovare
una sorte di
versi nella lingua
nostra, per li
quali si conoscessero
i dotti da
gli indotti, che
per far versi
il Molino, il
Veniero, il Contile,
il Varchi, il
Costanzo, il Rota,
il Tansillo, il
Tolomei, il Caro, il
Cinthio et ogn'altro
dotto, et giudicioso
scrittore, non venissero a
farsi fratelli, et
d'una schiera, o
scuola stessa con
Baldassare Olimpo e
mille altri tali . Con
la De f enee del
Du Bellay il
Cesano ha non
pochi punti di
simiglianza, non solo
quanto alla condotta
e tessitura generale, ma
anche ai vari
elementi classici e
romantici che vi
sono egualmente contemperati,
come dove, rispetto
alla lingua, di
contro alla necessità
che l' idioma volgare
s'elevi alla perfezione
de' classici, si
afferma l' indipendenza dagli
scrittori, decidendosi in
quella contro les
tradictions des règles,
in questo contro
l'avversione dei timidi a
parlare e a
scrivere per non
essere altrettanti Boccacci e
Danti. Più notevole
è la corrispondenza nella
motivazione di queste
decisioni: il non
esserci regole che
si possano accettare,
non essendosi raggiunto
ancora quel grado
di perfezione che
sarebbe desiderabile. Quanto
al problema capitale le
due opere mostrano
un'altra corrispondenza: nella
prima parte esso
consiste in questa
tesi, che niente
vieta alla lingua
volgare di conseguir
la sua perfezione;
nella seconda, riguardante
i mezzi, la
corrispondenza non è
altrettanto piena: pure
se nella determinazione di
essi il Du
Bellay non vede
altra via che l'
imitazione del greco
e latino, in
molte premesse e
in certi altri
resultati l'accordo è
abbastanza notevole. Entrambi
sostengono che la
diversità delle lingue
ne' vari paesi
si deve ascrivere
al capriccio degli
uomini (il Tolomei
aggiunge anche quello
del caso e
le modificazioni d ell'ambiente), e
che perciò il
perfezionarla è dovere
di quei che
la parlano, e
a nessuno è
lecito esimersi dall' obbligo
di concorrere al
perfezionamento dell'idioma nativo:
che non basta
attenersi agli antichi
autori nazionali, perchè altrimenti
non ci sarebbe
progresso. Qui il
Du Bellay consiglia
di studiare i
greci, i latini
e gl'italiani, astenendosi dal comporre
rondò, ballate, strambotti
e épiceries, che
corrompono il gusto,
e di adoperare
le migliori forme
poetiche, epigrammi, elegie,
odi, ecloghe, sonetti;
il Tolomei non
insiste (1j Discorsi.] troppo su
queir imitazione, ma,
oltreché pel verso,
p. es., propugna la
quantità degli antichi,
fa derivar la
perfezione della lingua
dal trattar tragedie,
commedie, satire, orazioni,
istorie, epistole ecc.,
che vuol dire
le forme più
elevate delle letterature
classiche. La lingua,
la poesia, la
letteratura, la filosofia, dei
moderni devono venire, insomma,
per vivere e
prosperare, a patti
con quelle degli
antichi, nonostante l'affermata
totale indipendenza della
struttura del toscano
dal latino. Altri
resultati delle ricerche
del Tolomei venivano
comunicati occasionalmente
agli amici nelle
lettere, spesso, com'era
l'usanza, scritte con
lo scopo della
pubblicazione, e che
furono Questo ravvicinamento occorrerebbe dirlo?
non importa che
la Défence derivi
dal Cesano; ma,
poiché lo Spingarn
ha additato come probabile
fonte della Défence
il De Vulvari
Eloquentia e il
Yossler ha sollevato
de' dubbi su
tale derivazione, e
il Farinelli li ha confermati
di sue ricerche,
senza che però
lo Spingarn abbia
rinunziato alla sua tesi,
che anzi ha
ribadito col dire
che l'affinità è
tale che merita
ulteriori studi e
più particolari, il
nostro ravvicinamento potrebbe
gettar un po'
di luce sulla
questione, e servire
a dimostrar che
il problema del
volgare, quale era
stato impostato dall'Alighieri, veniva
ora ripreso, con
e senza l'aiuto
dell'operetta dantesca, alle medesime
basi da più
parti, per le
condizioni in cui
di contro alle
lingue classiche permaneva
ancora il volgare.
Quel problema è in
fondo una gagliarda
espressione della coscienza
della nuova letteratura
e da Dante
al Salviati, per tutto
cioè il periodo
in cui si
maturò la dottrina
poetica del Rinascimento,
tutti i maggiori
letterati vi si
travagliarono intorno. In
ogni modo, che
al Cesano dia
molta materia il
trattato dantesco è
fuor d'ogni dubbio:
anzi, si può
affermare che, seguendo
le varie esposizioni
che ciascun interlocutore
(Bembo, Castiglione,
Trissino, De' Pazzi)
fa della propria
dottrina appoggiandola con
passi del trattato
che sembrano confermarla,
siamo per un
buon pezzo in
compagnia dell'Alighieri; e
con esso ci
ritroviamo ancora coll'ultimo
interlocutore, il Cesano,
il quale, fatto
il dilemma che
il trattato (come
aveva sostenuto il
Martelli non è
di Dante, o,
se è di
Dante, non prova
nulla contro i
Toscani per la
promiscuità dei termini
da lui adoperati
a designar il
toscano, penetra nella
sostanza della distinzione
circa il latino
e il volgare
e nel significato
stesso dell'operetta, nel
modo, secondo noi, più
acuto: quand'ella [la
lingua] è chiamata
Volgare, è all'
hora da coloro,
che così la
chiamano considerata, come
distinta dalla latina,
la quale in
questi tempi non
era più nelle
bocche del Volgo,
né naturalmente da
ciascuno si parlava,
ma per arte
e studio solo
s'acquistava. Parmi finalmente
che il Tolomei
avesse veduto anche
il Discorso del
Machiavelli, specie per la parlata
che mette in
bocca al De'
Pazzi e, in
genere, per l'opposizione
a Dante.] pubblicate infatti
in un grosso
volume. Sono tra
esse assai notevoli,
oltre le citate
al Firenzuola e
ad Alessandro V.
per quanto concerne
il Congresso bolognese
e l' insegnamento della grammatica, quella
al Caro, dove
avvertisce alcune cose
sopra l'ortografìa grammatica
Toscana, come dir
s'egli è meglio
dir celarò nel
frutto [futuro] che
celerò, et altri
simili, una al
Citolini, dove dichiara
che cosa sia
H in Toscano,
e dove si
proferisca con aspiratione,
e quale uso
sia d'essa ,
e quella al
Benvoglienti, dove ragiona
di una disputa
fatta sopra l'inventione
nuova del verso
Hesametro in Toscana
. Tolomei morì
nell’anno stesso in
cui il Giolito
gli pubblica il
Cesano, che forse
sarebbe rimasto inedito,
quantunque il Giolito dicesse
d'averlo pubblicato per
sottrarlo a una
cattiva stampa, come
inedite rimasero le
molte operette grammaticali del filologo
senese. Perdute del
tutto gli andarono,
vivo ancor il
Tolomei, un'opera de V
eccellenza de la
lingua Toscana (svolgimento,
forse, d' idee già
sostenute nel Cesano)
ed altre scritture,
durante quello scellerato
sacco di Roma,
il quale oltre
agli altri gravi
danni che mi
fece, non si
vergognò por la
brutta mano ne
le scritture, e
dispergermi questa insieme
con alcune altre
mie povere, e
misere fatiche. Frequenti
sono i cenni
e i richiami
nelle sue lettere
ad altre scritture.
Nella lettera al
Caro in cui rispondeva
circa l'uso di
celarò per celerò
e simili e
di alcune forme
ortografiche, diceva che
l'avrebbe giustificato a
suo tempo, quando
avesse condotto a
compimento altri suoi
lavori: onde mi
sarà forza finir
prima e poi
stampar que' libri,
ch'io ho incominciato
de' principi '/, e
de gli altri
delle nature, e
que' terzi delle
forme della lingua
Toscana, oltre a
certi piccoli volumi
di grammatica, che
io ho scritti
sopra questa nostra
lingua. Dell'anno della
pubblicazione delle due Orazioni
è un'altra sua
lettera al Citabili
da Parma, nella
quale gli annunziava
di acconciarsi per
iscriver una operetta
de le quattro
lingue di Toscana
, da mandare
a M. Annibal
Caro, la quale
aprirà una grandissima
finistra per illuminar
il corpo de
la nostra lingua,
e crediate per
certo che senza
questo lume ci
si cammina al
buio. Notevole è anche
sotto il rispetto
grammaticale l'altra al
Caro sopra l'abuso
del dire altrui
Sua Signoria, Sua
Eccellenza, intorno a
cui molto allora
si disputò. È
riprodotta nella bella
raccolta del Faxfam.
Lettere precettive di
eccellenti scritturi, Firenze. Le
operette grammaticali che
ci restano del
Tolomei e formano il
noto cod. della Comunale
di Siena, vertono
tutte su questioni
di fonetica, anche
quando riguardino la
morfologia e la metrica:
Grammatica Toscana (lettere dell'alfabeto
e loro classificazione); Tratta/o
delle forme (passaggi
de' suoni latini
negl'italiani la teoria
de' suoni in
relazione con le
loro rappresentazioni grafiche);
3. La rima
che cosa sia
e quante lettere
bisogna rimare; Delle
rime proprie e
delle improprie; De
lo e chiaro
e fosco; De
l'o chiaro e
fosco (che sono
i due trattati
che andarono a
costituire il cap. VI
delle Origini del
Cittadini); Stili'* sordo
e sonoro; Stillo
z sordo e
sonoro. Su di
esse, che certo
rappresentano il maggior titolo
di lode pel
Tolomei e gli
assegnano un posto
eminente nella storia
della filologia romanza,
crediamo opportuno discorrere
quando incontreremo il
Cittadini col quale
vedono in qualche
modo la luce,
entrando direttamente nel
circolo delle idee. Intanto
osserviamo che fu
male che questi
trattatelli, che avrebbero
potuto fecondare un
più intenso e
metodico studio storico della
lingua, non vedessero
la luce; ma
una discreta parte
si deve credere
che ignota del
tutto non rimanesse
al mondo letterario,
date le relazioni
del Tolomei e
il costume letterario
dell'età. In ogni
modo l'opera del
Tolomei, considerata nel suo
complesso, avanza in
valore la comune
produzione grammaticale del
tempo, per le
idee critiche generali
sul linguaggio e gì'
idiomi in particolare
e le conoscenze
positive circa l'evoluzione
del Toscano. Se
non così notevoli,
certo importanti, non
pel fatto della
grammatica concreta che ne derivò,
ma sì per
i canoni linguistici ripresi in
discussione e le
vedute per cui
die luogo circa
la possibilità della
grammatica, furono i
resultati a cui
menò l'iniziativa presa
dall' 'Accademia fiorentina l'anno
stesso in cui
si rinnovellava sul tronco
non vecchio ma
infrenato degli Umidi,
allegroni ben degni
di godere il
frizzo del Lasca,
che dai solenni
uomini della riformazione
generale fu con
l'espulsione punito de' suoi
ribelli sdegni contro
la pedanteria stravincente sulla giovialità.
Gelli e Giambullari
furono de' quattro
che l'Accademia elesse
all'ordinamento grammaticale della
lingua, divenuta l'oggetto
della sua attività
dalla compiuta riforma. E
l'uno e l'altro
si diedero infatti
a osservare e a comporre
le leggi della
lingua fiorentina. Ma Gelli, dopo un anno di studio
amoroso, rinunziò all'impresa,
che gli parve
fortemente difficile, anzi
quasi impossibile ad
essere attuata. Egli,
se non fu
un filosofo, esercitò
però il pensiero
sui problemi morali meglio
di molti suoi
contemporanei : da
questi suoi amori
con la filosofia
dovette esser tratto
naturalmente a considerare
il difficile problema
d'una grammatica toscana,
e, con acume degno
del suo fine
intelletto, lo risolse
negativamente; in ciò
è sopratutto il
suo merito, anzi
per questo merita
una nota particolare
in una storia
come questa, anche
se a codesta
soluzione non giunse
con ragioni critiche
sempre e in
tutto fondate e dedotte
da un criterio
scientifico. Egli ne
fece l'esposizione (a
richiesta del Giambullari
stesso, che nella
prima tornata era
stato rieletto nel
numero di quegli
uomini, che debbono
riordinare et ridurre
a regola la
nostra lingua fiorentina
, e dell'esposizione si
valse come di
acconcia prefazione alla
sua grammatica già
da tre anni
composta e in quello
stesso della rielezione
pubblicata) in un
Ragionamento, che egli finge
avvenuto o che
avvenne il giorno
stesso di quella
tornata e poi
distese per iscritto,
infra Bartoli et
Gelli (sé stesso)
sopra le diffìcultà
del mettere in
Regole, la nostra
lingua. Le ragioni
, comincia col
confessare il nostro
critico, et le
diffìcultà che non
solo mi hanno
fatto levar via
l'animo da questa
impresa; ma ancora
giudicarla quasi impossibile,
sono et molte,
et molto potenti:
et quanto più
vi pensava intorno,
più mi se
ne offerivano sempre
alla mente, dell'altre
nuove. Così mentre
che io stava
lontano al mettere
in atto questa
formazione delle Regole;
me le imaginava
piccola cosa. Ma Egli
apprende ed applica
tenacemente; sì che
un' idea sola,
il contrasto fra
so/so e ragione,
regge tutta l'opera
sua, nei dialoghi
morali e ne'
commenti, anch'essi morali,
a Dante e
al Petrarca; ma
non è ingegno
che avanzi, nemmeno
d'un punto, che
sulle cognizioni apprese
operi attivo per
arricchirle, per trasformarle
in sé, per
acuirle a nuovi
concetti. F. Ne.,
recens. delle pubblicazioni
gelliane dell'Ugolini e
del Fresco in
Giorn. st. d.
lett. il. Giambullari, Della
lingua che si
parla e scrive
in Firenze, e un
Dialogo di Gelli,
Sopra la difficoltà
dell'ordinare detta lingua, In
Firenze, per Torrentino.] quando poi
tentammo porla ad
effetto, quanto più
la considerai, tanto
più mi parve
difficile. L' impresa anzi
sarebbe al tutto
impossibile per la
diversità di nomi
et delle pronunzie
che si trovano
per le città
di Toscana: ciascuna
delle quali pregiando
più le sue
cose, che quelle
d'altri, stimerebbe et
terrebbe errore quello
che in Firenze
sarebbe regola :
che è già
un bel principio positivo contro
la possibilità d'una
grammatica che voglia
abbracciare un nucleo
di linguaggio più
ampio di quel
che sia il
proprio d'una sola
città, e dal
quale non era
difficile dedur l'altro
che, un fiorentino
non essendo l'altro,
la grammatica d'uno
non può esser
la grammatica dell'altro.
Ma per meglio
esplicarvi ancora questo
capo, mi bisogna
cominciarmi da un
altro principio. Ditemi
chi fa l'ima
l'altra, o le
regole le lingue,
o le lingue
le regole? E
chi non sa
che le lingue
fanno le regole, essendo quelle
innanzi che queste:
et non essendo
fondate queste in
altro uè avendo
altra pruova chi
le confermi, se non la
autorità di esse
lingue? Et da
questo essendo egli
com'egli è vero,
nasce che e'
non si può
far regola alcuna
che sia veramente regola: non
solo alla lingua
Toscana; ma anche
alla Fiorentina . Solo
delle lingue invariabili
come quella sacra
della Bibbia, certamente
cosa fuori di
Natura; et che
non può attribuirsi se non
a Dio ,
si posson far
regole: e è
pur cosa certa
che anche si
posson agevolmente metter
in regola le
variabili morte, come
sarebbe la lingua
latina: ma de
le vive che e' non
sia solamente difficile
il farvi regola
alcuna perfetta e vera; ma
che e' sia
quasi al tutto
impossibile. Perchè le
lingue vive progrediscono
fino a un
massimo di perfezione
e poi, dopo
una certa stasi,
come avviene del
sasso che lanciato
a una certa
altezza, per calare,
deve pur fermarsi
un istante, decadono;
ma, non potendosi
conoscere questa loro
stasi di perfezione, perchè, la
civiltà continuamente avanzando,
non e' è
grado di perfezione
che non possa
esser superato da un grado
più eccellente, viene
a mancare la
fonte più pura
donde si cavino regole
perfette ed intere.
Dice molto meglio
di noi il
Gelli> Non si
potendo sapere nelle
lingue vive, quando
sia questo loro
stato et questo
colmo della loro
perfezione: Egli non
si può ancora
conseguentemente farne regole
perfette ed intere.
Perchè sebbene e'
si può sapere
mediante gli scrittori
di quelle quando
meglio che mai,
elle si sierto
favellate per il
passato: Nessuno è
però che si possa
promettere per il
futuro, che insino a
che elle non
mancano, elle non
si possino favellar
meglio; Et così
che e' non
possino surgere ancora
alcuni scrittori, ch e le
iscrivino molto meglio.
Qui appaiono evidenti
tutti i concetti
erronei che servono
di base al
ragionamento del Gelli:
quello della lingua
considerata come organismo
staccato dal pensiero,
quello della sua
evoluzione coi relativi
gradi di ascensione,
perfezione, decadenza, quello
della lingua perfetta
o modello e
l'altro, che ne
conseguita, della facoltà
acquisibile di parlar
con piena correttezza
mediante regole perfette
ed intere cavate
da una lingua
nel colmo della
sua perfezione. Qui
l'atto del linguaggio come
cosa viva non
è più libera
creazione spirituale, e la
grammatica viene argomentata
possibile: conclusione
assolutamente contraria alla
tesi annunziata: la
grammatica è ineseguibile ignorandosi
il grado di perfezione
della lingua e mancando
altre condizioni, come
una ricca letteratura;
ma, eliminati questi
ostacoli, è possibile.
L'altra difficoltà è la seguente.
Quel che fu
concesso ai Grammatici
latini non si
può fare nella
lingua Fiorentina, et
molto meno nella
Toscana, che et
vivono ancora, et
non hanno scrittori
da fondarvi lo
intento suo, non
si sapendo, se
elle sono ancor
pervenute a '1
colmo dello Arco.
Et se questo
non si può fare per
via de gli
scritti; chi vieta
che e' non
si faccia almanco
per via dello
uso? Et di
quale uso? Oh
questa è l'altra
difficoltà, et non punto
minore della precedente.
Et perchè? In
sostanza, perchè i
Romani, padroni del
mondo, potevano imporre la
loro lingua, e noi Fiorentini
che si vale?
Noi non ci
abbiamo Imperio alcuno
così grande, che
e' muova (come
i Romani) le città
sottoposteli, a cercare
spontaneamente di favellare et
onorare quella lingua,
che favelli che
le comanda. Nientedimanco e'
si vede pur
manifestamente ne' tempi
nostri che molte
persone di qualche
spirito, così fuor
d'Italia come in
Italia, s' ingegnano con
molto studio, di
apprendere, et di
favellare questa nostra lingua,
non per altro
che per amore.
A questo punto
il Gelli tira
il ragionamento a
sostenere garbatamente il
primato di Firenze,
nella lingua, non
che sul1' Italia,
sulla Toscana stessa,
e a dar
ragione del decadimento
di esso dai
tempi del Triumvirato
e del suo
risorgimento presente
avvenuto per effetto
della rinascenza, dell'amore
e del culto,
cioè, degli studi
classici, latini e
greci. Et da
che vi pensate
che nasca questo?
Se non da
l'essere oggi in
Firenze così gran numero
di Persone che
hanno bonissima cognizione)
della lingua Latina:
La quale essendo state necessitate
nello impararle, a
vedere i veri
Poeti hanno assai
chiaramente conosciuto, che
cosa sia Poesia;
et quanto sia
verbigrazia contro i
precetti dell'Arte, il
ridurre, tutta la
vita di un
huomo, o pur
le azzioni di XXV o
XXX anni, in
due, o tre
ore di tempo
che si consuma
nel recitare. Oltre a
questo, avendo appreso per
via di Regole,
quelle due lingue,
conoscendo quante e
quali sieno le
parti del Parlare,
et in che
modo elle debbino
accompagnarsi j cominciano a
favellare tanto rettamente,
et con tanta
leggiadria, che io
mi persuado gagliardamente la
nostra lingua esser
molto vicina a
quel sommo grado
della perfezione, oltre il
quale non si
può salire. I
nostri tre massimi
scrittori stessi, aggiunge
il Gelli, furono
i primi in
questi Paesi ad
aver notizia e
a diffondere la
conoscenza del latino
e del greco,
essi stessi cominciando
a parlare rettamente
et ordinatamente,
migliorando et inalzando
tanto il nostro
Idioma da quello
che egli era
Ma che e'
non furon già
poi seguiti né
imitati nello allevarla,
secondo i modi
posti da loro
, come ora
s'è tornato a
fare in gloria
della lingua. Inoltre
concorrono a ciò
altre cause: l'imitazione
di coloro che
non voglion esser
da meno e
nel parlare e
sì co '1
tradurre, arrecandoci le
scienze et l'arti
che elli imparano
nelle altre lingue;
l'uso più esteso
della lingua materna
fatto da parte
dei principi e
gli uomini grandi
et qualificati, a
scrivere in questa
lingua, le importantissime cose de'
Governi degli Stati,
i maneggi delle
Guerre, e gli
altri negotij gravi
delle faccende che
da non molto
indietro si scrivevano
tutti in lingua
latina. Perchè non
vi date a
intendere che una lingua
diventi mai ricca
et bella, per
i ragionamenti de' Plebei,
et delle Donnicciuole,
che favellali' sempre
(rispetto a lo
avere concetti vilissimi)
di cose basse:
che e' sono
solamente gli huomini
grandi e virtuosi,
quelli che inalzano,
et tanno grandi
le lingue. Imperoche
avendo sempre concetti
nobili et alti, et
trattando et maneggiando
cose di gran
momento, et ragionando
benespesso et discorrendo
sopra quelle in
prò et in
contro, persuadendo o
dissuadendo, accusando o
lodando: Et tal
volta ancora ammonendo
et insegnando; fanno
le lingue loro,
copiose, onorate, ricche,
et leggiadre .
Conseguentemente il Gelli
conclude che la
lingua fiorentina non
essendo però ancor
pervenuta a lo
stato suo, non
se ne i6o
Storia della Grammatica
possa far regola,
che in tempo
non molto lungo,
non abbia a
scoprirsi defettuosa; et
non più tale,
quale oggi forse
ci apparirebbe . Ma
si fa opportunamente obiettare
dal suo interlocutore: Orsù, ponghiamo
per le tante
cose allegate da
te, che alla
Accademia non si
convenga il fare
queste Regole: vuoi tu
però affermare al
tutto, che una
Persona privata et
particulare; lasciando
favellare ad arbitrio
loro qualunque Città
et luogo della
Toscana, senza difettargli,
o riputargli da
meno per questo:
Non possa almanco
da i tre
primi nostri scrittori
et da l'uso
di Firenze, formare
le Regole, che a' tempi
d'oggi, insegnino favellare rettamente a
Fiorentini stessi, et
a chi pur
volesse imitargli ? E gli risponde:
Oh questo Nò,
messer Cosimo, perchè
io mi credo
pure, che un'
solo, in suo
nome proprio, et
non di Accademia,
con tutte quelle
avvertenzie che voi
avete dette, sicuramente
le possa fare
. Fattosi poi
domandare et con
qual'ordine? e in
che maniera? quelle
regole si potrebber
formare, risponde distinguendo
nella lingua due
parti principali, la materia
ciò è et
la forma: la
materia sono le
parole de le
quali ella è
fatta: et la
forma è quel modo et
quell'ordine, col quale
son' contestate et
tessute insieme l'una
parola con l'altra,
che si chiama
ordinariamente la costruzzione
. Quanto alla
materia, trova facile
ordinarla in un
Vocabolario, ricordando a
questo punto il
lavoro poi perduto
del Norchiati, e
permettendoci cosi da questa
citazione di argomentare
che il Gel
li avrebbe voluto
un Vocabolario metodico.
Quanto alla forma,
dopo aver accennato
alla maggior dolcezza
del periodo e
delle clausole della
favella fiorentina, osserva
che i grammatici
anteriori troppo s'
indugiarono e si
distesero nelle declinazioni
solamente , passandosi della
costruzione senza parlarne
se non pochissimo:
come cosa troppo
difficile; et ad
essi forse (appunto
perchè forestieri!) mal
riuscibile. Là onde
circa al formar
queste regole, non
mi affaticherei molto
nella prima parte:
Ma dichiarate le parti
della Orazione, et
dimostrate le declinabili
et le indeclinabili, et
gli esempli de'
verbi massimamente con
quella diversità che
è tra l'uso
moderno, et quello
che è dicono
de' nostri antichi,
me n'andrei tutto
alla costruzione. Nella
quale, consistendovi (come
ho detto) tutta
la importanzia eli
questa lingua, vorrei
io certamente usare
una diligentia più
la che estrema:
Togliendo da' tre
sopra detti, tutto
quel che fusse
ben detto. Il che
al giudizio mio
solamente sarebbe quello,
che l'uso di
oggi si ha
mantenuto: Essendo l'orecchio
nostro inclinato naturalmente
a lasciar sempre
le cose aspre,
dure, et difficili;
et seguitare le
dolci e le
facili . Ho
riportato questo brano
anche perchè mi
risparmia un più
lungo discorso sulla
grammatica del Giambullari,
in quanto che
il Gelli si
fa dire dal
Bartoli: Questo è
appunto l'ordine stesso,
et il modo
che il nostro
Giambullari, tenne in
quelle sue Regole,
che egli già
son tre anni,
donò allo illustrissimo
signor Don Francesco
de' Medici primogenito
di S. Eccellenza
. E il
Gelli lo conferma
aggiungendo d'averle viste,
poiché il Giambullari gliele aveva
conferite molte volte
et massimamente l'anno
passato, quando eravamo
in questo maneggio
, e parergli
che egli avesse
trovato la vera
via, et con
una diligenzia maravigliosa,
fatto ciò che
fusse possibile farsi
in questa materia
. E chiesta
la ragione per cui ormai
non le comunica
con la stampa
a tutte le
Genti che le
desiderano , il
Bartoli gli annunzia
d'aver finalmente a
ciò indotto il
Giambullari: et così
fra non molti
giorni, comincerò a
farle stampare, che
di tanto son
convenuto co '1
Torrentino. Nell'eseguire però
il programma tracciatogli
dal Gelli, il
Giambullari, secondo quanto
anche afferma il
Lombardelli, sulla fede
del Giambullari stesso
proemiante all'operetta, tenne
per quanto gli
fu lecito, la
maniera del vostro
Linacro in quella
eccellente opera de
struchira latini sermonis,
e seguitò anco
la strada comune
de' Gramatici latini,
e forse di
Costantino Lascari greco;
onde può ammaestrare
i principianti, e
giovare agl'introdotti; e
io per me
gli ho grande
obbligo; come anco
voi dite di
avergliene, persuaso a
pigliarlo in pratico
da quelle lodi,
che io già
gli diedi nel
Proemio della Pronunzia
Toscana . Degli
otto libri onde
il trattato si
compone, due son
dedicati alla morfologia, e
non senza rincrescimento dell'autore,
che ne avrebbe
voluto far un
solo (p. io),
e gli altri
sei alla sintassi. Definite le
lettere, le sillabe,
le parole, l'orazione
(diceria, parlare, la
nostra ' proposizione
' ) che divide
in perfetta o
imperfetta (' elittica '),
e classificate le
parti di essa
(nome, pronome, articolo, verbo,
avverbio, participio, preposizione,
inframesso = interiezione, legatura
= congiunzione), passa
a trattare i
' | I
/otiti delle
cinque declinabili nel
primo libro, e
delle quattro indeclinabili nel secondo,
dando di tutto
poco più che
gli schemi. Così
nella trattazione del
nome, son quasi
del tutto abolite
le declinazioni ; del
pronome ha tagliato
via tutta l'esemplificazione che
trovammo nel Fortunio
e nel Bembo;
dell'articolo fa una
sola classe; del
verbo conserva solo
la distinzione di transitivo e
intransitivo, distinguendo invece tra i modi l'esortativo, il desiderativo,
il potenziale; ammette una quinta
coniugazione dei verbi che partecipano della terza e della quarta,
come porre; del
participio tratta anche
il passivo futuro
{reverendo). Più rapida e
schematica è la
trattazione del secondo
libro. Distingue le
preposizioni in a)
segni di casi
(de, di, a,
da) e b)
preposizioni vere e schiette:
più parla delle
affisse; enumera le
varie 'specie' e
'sottospecie' di avverbi,
dell' inframesso (es. d'inframessi
' timidi ':
sta sta, zi,
babà, appartenenti al
linguaggio degli uomini
bassi, non degli
scrittori); chiude con
alcune poche specie
di legature. E
viene a trattare
della ' costruzione
'. L'esposizione è
notevole, perchè ci richiama
una recente distinzione
della sintassi in
regularis e figurata
nelle relative forme
di ellissi, pleonasmo,
inversione o per imitazione . Infatti
Giambullari ammette della
costruzione 'due spezie'
principalmente: l'ima delle quali non
manca e non
soprabbonda di cosa
alcuna, né ha
in sé stessa
trasmutamento, od alterazione,
come p. es.,
la bellezza diletta
l'occhio: Et l'altra
per l'opposito, manca
[ellissi], e soprabbonda
[pieo?iasmo] di qualche
cosa, o riceve
alcun mutamento [inversione^, come p.
es. La vita
il fine, e
'1 dì loda
la sera .
Chiama la prima
' costruzzione intera
' [' syntaxis
regularis '], la
seconda ' figurata
' [' fgurata
']. Quanto al
giudizio dell'una e
dell'altra, il Giambullari
approva e raccomanda
ai giovinetti la
prima, e giustifica
l'altra sull'esempio de'
grandissimi nostri scrittori,
che non debbono
però essere imitati
dai giovinetti. La
costruzione intera è
trattata in tre
libri, abbracciando la SINTASSI
del nome, dell'articolo, del
pronome, nel IV
quella del verbo,
nel V quella
delle parti indeclinabili: hi
fgurata comprende gli ultimi
tre, di cui
il VI è tutto dedicato
allo scambio (enallage,
antimeria), il VII
alle figure di
parola, ('] L'ordine
con cui tratta
dello scambio, è
questo: comincia da]
nome, e parla
di tutti gli
scambi del nome
(una spezie per
un'altra, l'YIII alle figure
di sentenza: oggetti
questi del rettorico,
ma di competenza
anche del grammatico,
perchè anche il
grammatico spiega gli scrittori
(enarratio poetarum). Delle
figure ne sono
inventariate coi loro
rispettivi nomi greci,
latini e italiani,
coniati bizzarramente dal
Giambullari, circa dugento!
Così, teoricamente, neppur
con questo valoroso
gruppo di Toscani,
che avevano invocato
per sé il
diritto di legiferare
in punto grammatica,
nessun punto di
vista nuovo veniva
conquistato con cui meglio
scrutar la natura
del linguaggio: praticamente, la grammatica
normativa, diremo così,
ufficiale era elaborata sul
vecchio stampo, ridotta
nella parte morfologica,
accresciuta in quella SINTATTICA,
gonfiata a dismisura
in quella retorica
delle figure (quella
che fu appunto
compilata da Giambullari,
non esiterei a
chiamar un regresso
rispetto all'abbozzo grammaticale che troviamo
nel Cesano del
Tolomei, appunto perchè
qui si notavano
le caratteristiche del
toscano vivo senz'
intendimento precettistico):
teoria e pratica,
prese a trattare
con certo spirito
nuovo, quasi di
ribellione, e non
nascosto intendimento di progresso,
rimanevano sostanzialmente sotto
il dominio del classicismo
e delle regole.
Pure, guadagni se
n'ebbero e non scarsi.
Il maggiore e
più positivo fu l'
indagine storica condotta
con così bei
resultati dal Tolomei:
i suoi accertamenti
vanno soggetti a
correzioni non poche
né lievi, ma
contengono un elemento
conoscitivo irrefutabile per
la filologia moderna, né
del tutto disutile
per la stessa
ricerca speculativa: quei
fatti linguistici (come
li chiamano) da
lui de ovvero
il proprio per
lo appellativo, p.
es. Imagine per
Imaginazione: Petrarca, '
Et sì diviso
| da la
imagine vera ' |; lo
appellativo per il
parti/ivo; il proprio
per il possessivo,
ecc.), e del
nome scambiato per
un'altra parte del
discorso (il nome
per il participio,
per la preposizione, ecc.); poi
dello scambio del
pronome, e così
di seguito, di
quello di tutte
le altre parti
del discorso: litania
interminabile di classificazioni, definizioni, esempi. Come
a Gelli un
Trattatello dell'origine di
Firenze, così al
Giambullari dobbiamo un
Ragionamento, intitolato il
Getto, della prima
ed antica origine
della Toscana e
particolarmente della lingua
fiorentina, dove, com'è
risaputo, il famoso
storico tanto spropositò
nella spiegazione di quest'ultimo
problema. Per entrambi
i libretti, cfr.
M. Barbi, //
trattatello sull'origine di
Firenze di G.
G. Gelli, Firenze,
1894. Sul Giambullari,
cfr. Valacca, La
vita e le
opere di P.
F. G., Bitonto.
scritti non sono
il linguaggio reale,
ma non sono
neppure semplici e
astratte categorie: e
certo valgono assai
più del precetto, delle regole
come aiuti a
penetrare la natura
dell'atto che li
crea. Nell'ordine delle
idee, germi di
progresso contengono quella
calda difesa del
volgare, e particolarmente di
quello parlato in Toscana
di contro al
latino e all'italiano
del Trissino, astrazione
d'un'astrazione, che il
Tolomei fece con
tanto acume; la
poca simpatia di
lui per la
grammatica come disciplina
precettiva, in cambio della
quale era consigliata
più francamente la
lettura degli scrittori;
quel travagliarsi del
Gelli intorno alla
difficoltà e all'
impossibilità del mettere
in regola la
lingua viva che
è in continuo
moto, anche se
il fondamento della
dimostrazione è erroneo; quel
riconoscer necessaria una
maggior trattazione della sintassi,
un'altra categoria di
più, che permette
di veder meglio
per entro lo
spirito della lingua;
il riconoscere che
la lingua s'accresce
e si perfeziona
non tanto per
la virtù del
precetto quanto pel
predominio del popolo
che la impone,
per l'aumento della
cultura, il dibattito
delle idee, il
coltivar nuovi generi
letterari; e quant'altro
s' è messo
particolarmente in rilievo:
lievito, di poca
forza espansiva, se
vuoisi, ma lievito, senza cui
la scienza non
si sviluppa. La revisione
della grammatica e il consolidarsi
del purismo. Svolgimento
della grammatica storico-metodica. (A.
Caro L. Castelvetro
B. Varchi G.
Muzio). Il naturale
determinarsi e permutarsi
del principio direttivo
della critica letteraria
del Cinquecento nelle
sue forme di
imitazione, teoria, legge, fu
rapido quanto intenso
era il movimento
che il ricomparire
delle opere classiche
e segnatamente della
Poetica aristotelica aveva
avvivato. Col codificarsi
delle regole, lo
spirito critico divenne,
come doveva accadere,
sempre più restrittivo
e sottile, e,
nelle applicazioni, pervicace
e litigioso: nacquero
così, com'è noto,
numerose dispute letterarie
e polemiche personali che,
peraltro, giovarono assai
allo sviluppo della
ritica medesima: né
la grammatica, meno
d'altre discipline, potè
rimanerne immune. Già
prima che il
Sansovino nella sua
raccolta dei principali
grammatici della prima
metà del secolo,
aveva il Varchi
ristampate le Prose del
Bembo: ora, se
tali ristampe erano,
come abbiamo mostrato,
una conseguenza dei
metodi ond'era stata
elaborata la grammatica
del volgare, questa,
in quella forma
tanto poco sistematica
e tanto, incompleta e
così poco imperativa, non corrispondeva
più al nuovo
spirito critico, al
nuovo orientamento: quindi
doveva necessariamente soggiacere
a un lavoro
di revisione e
di correzione. E
l'uomo proprio ad
hoc fu Ludovico
Castelvetro, che impersona
e incarna, meglio
d'ogni i66 Storia
della Grammatica altro
di quei gagliardi
letterati, lo spirito
e la cultura
della sua età.
E dalla ristampa
del Varchi mosse
appunto a rivedere
tutta l'opera bembesca
tanto favorevolmente accolta.
Ne venne fuori
un volume molto
grande , in
cui, a detta
del Castel vetro
iuniore, erano minutissimamente [trattate?]
tutte le parti
della grammatica della
lingua volgare, nella
guisa che fa
Prisciano quelle della
latina . Di
codesto volume, a
cui l'autore dovè
attendere parecchi anni, e
che si perde
a Lione di
Francia, quando si
ruppe la guerra
la seconda volta
tra il Re
ed i suoi
sudditi per conto
della Religione, una
parte, la Guaita
fatta al ragionamento
degli articoli et
de' verbi, era
già venuta fuori
anonima, ma con
l'indubbio segno della
paternità, pei tipi
del Gadaldini di
Modena : altre, non
sappiamo se rifatte
o superstiti alla
perdita, riguardanti il
secondo e il
terzo libro delle
Prose, furono pubblicate
postume a Basilea.
Sembra che l' incentivo
alla edizione della
prima Ghinta sia
stata la polemica
col Caro, che
non aveva ancor
permesso al Castelvetro
di mostrare tutta
la sua valentia
di linguista e
di grammatico. Comunque, è
certo che il
contenuto di questa
lunga polemica dal
primo Parere del Castelvetro
sulla Canzone de'
Gigli d'oro del
Caro sino all'ultima
sua fase esclusa
(Ercolano del Varchi,
composto verso il 1560 ma
pubblicato solo nel
70, e Correzione
del Castelvetro), è,
sotto il rispetto
puramente filologico e grammaticale,
molto scarso. Poiché
la controversia tranne,
s'intende, nella parte
diremo personale, che
è senza dubbio
divertente e anche,
pel costume, interessante s'aggirò
tutta e sempre,
nelle varie scritture
dell'un partito e
dell'altro, sul potersi
o no usare
questa o quella
parola nel rispetto della loro
legittimità e del
loro significato {falli
di parole e falli
di sentimento sono
le due categorie
della Ragione^*) del
Castelvetro); e, per
quanto l'uno e
l'altro polemista abbian
Nel 1536 aveva
recato in ordine
d'abicì li vocaboli
latini di Valerio
con la spositione
volgare, fiducioso che
tale fatica sarebbe
stata a ognuno
utile. Castelvetro jun.,
Biogr. di L.
C. {Race. Calogerà),
in Bertoni, op.
qui appresso cit..
C) In G.
Cavazzuti, Lodovico Castelvetro,
Modena, 1903, p.
122. (:i) Giunta
fatta al Ragiona
\ mento degli
articoli et \ de verbi
di Messer Bembo. |
KEKPIKA. In fine: In
Modona, Per gli
Hcredi di Cornelio
Gadaldino. Parma] cercato di deviare
dalla question principale
nello svolgersi del
dibattito, pure il
carattere di essa
riman sempre quello
che benissimo è espresso
nelle tanto discusse
parole del Castelvetro:
il Petrarca [codeste
voci adoperate dal
Caro] non le
isserebbe. La polemica
verte essenzialmente sur
una questione di
elocuzione poetica:
argomenti e sofismi
son sempre cavati
dai comuni criteri
estrinseci e arbitrari
della forma: tra
l'aspra selva delle
osservazioni del Castelvetro
e i fiorami
umoristici e eleganti
del Caro e
compagni di difesa,
potete sempre scovare
il serpentello della
rettorica corrente, il
criterio delle voci
belle e delle
voci brutte. Valga
quest'esempio: Inviolata. Se
questa voce non
vi piace, vi
puzzano le viole,
e le rose.
Non potendo essere,
ne la più
soave, né la
più moscata di
questa. Se '1
Petrarca non l'annasò;
forse quando le
capitò alle mani,
era infreddato. Ma il Boccaccio, che non
aveva si delicato
bocchino, né sì
schifo naso, come
voi; la volle
pure in certe
sue insalitine (sic):
e la fiutò
volentieri. Leggete ne
l'Ameto. E però
con solecitudine i
fuochi nostri, che
di qui porterai,
fa che Inviolati
servi. Et appresso.
Acciocché quelle di
costumi, e d'arte,
Inviolata serbandomi ornassero
la mia bellezza. La
Ghmta castelvetrina, invece,
ha ben altra
importanza, ed è
veramente a dolere
che le sue
compagne relative alle
altre parti del
discorso siano andate
perdute, perchè avremmo
avuto un ammirevole
esempio di grammatica
metodica e storica:
essa in ogni
modo è, anche
così, un documento
de' più significativi! perchè,
per la prima
volta, viene svolto
di proposito nella
grammatica normativa
l'elemento propriamente storico
e introdotto il
vero metodo. Questo
avea già ben
visto un giudice
di grammatiche assai autorevole,
come quegli che
le leggeva e
le sapeva leggere
da un punto
di vista elevato,
Francesco De Sanctis.
Il quale, dopo
aver osservato che
la grammatica italiana
dapprima non fu
se non una
raccolta di regole
ed osservazioni sulla
nostra lingua succedentisi
a caso ,
mette bene in
rilievo i pregi
delle opere grammaticali
di grammatici superiori
come il Bembo,
il Castelvetro e il
Salviati per quanto
concerne la parte
storica, la diligenza del
raccogliere, la conoscenza
delle proprietà de'
vocaboli, ecc., e segnala
particolarmente il Castelvetro
e il Salviati
('i Apologia, Parma,
pp. 52-^ i68
Storia della Grammatica
come perfezionatori della
grammatica storica e
avviatori di quella
metodica . E
su questa Guaita
fermeremo in particolare
la nostra attenzione, benché a
chi voglia portar
un giudizio complessivo
sull'attività filologica del
Castelvetro, quale ricostruttore e
interprete di testi, indagatore
dell'origine e della
natura dei linguaggi, esploratore di
etimi ignoti ("),
convenga tener presenti,
oltre la Poetica,
tutte le altre
opere di lui. Castelvetro, nella
grammatica come nella
poetica e nel
resto, manifesta assai
chiaramente il carattere
del suo ingegno.
L'avevano ben capito
gli stessi suoi
contemporanei, tra i
quali mi basti
citare il Lombardelli: Il
Castelvetro, con le
sottigliezze di sua dottrina,
fa star sospesi
molto dallo scriver
toscano, tanto in teorica
quanto in pratica,
e di vero
può molto aiutare
i fortemente introdotti,
sì per gli
avvertimenti particolari, sì per
la finezza del
giudizio, che altri
vien acquistando in
legger le costui
scritture, fondate nelle
scienze, e nelle
lingue più famose .
Lambiccato e falso
nelle sue sottigliezze
lo disse già Sanctis. Recentemente,
per un fortunato
incontro della storia letteraria
e della filosofia,
il Castelvetro ha
avuto il suo
degno biografo e
i suoi degni
critici, sicché ora la sua
figura sorge intera
e vera: le
analisi del Vivaldi e
del Capasso da un
lato, la biografia
critica del Cavazzuti
da un altro
e per un
terzo i cenni
del Croce e
dello Spingarn e [Sulla notevole
pagina dei Nuovi
Saggi Critici (Napoli),
riportata opportunamente dal
Fusco nella sua
Poetica del Castelvetro, Napoli,si deve
peraltro osservare che il Bembo
trattò la parte
storica della lingua
non nel senso
di Castelvetro: il
Bembo ci mette
sott' occhio V uso storico
della nostra lingua;
il Castelvetro ci
dà la storia,
dirò, interna, delle
forme, quali si
svolsero dal latino,
subordinandone però l'indagine
al precetto grammaticale che veniva
così incorporato a
un elemento conoscitivo.
Fusco. Un notevole posto
tra queste occupa
la Spositionc a
XIX canti dell
Inferno (Modena. I fonti. SANCTIS. Una polemica
e le controversie
intorno alla nostra
lingua, Napoli. Note critiche
su la Polemica
tra il Caro
e il Castelvetro,
Napoli. la monografia del
Fusco hanno ormai
messo in piena
luce così la
vita come l'attività
individuale e il
pensiero vario di
lui. Acato l'uomo
e sottili le
cose da lui
scritte , torna
a ripeter l'ultimo
suo critico, il
Fusco, sia che
si affatichi a
dare un certo
che d'armonico al
sistema e a farne vedere
le parti legate
L'ima all'altra dal
vincolo di causalità;
sia che per
distinguersi proponga dimostrazioni
originali di tesi
in sé sgangherate
e interpetrazioni bizzarre
di problemi insoluti
e insolubili; sia
finalmente che, conscio de'
vuoti, cui non
gli riesce di
colmare, si sforzi
di dissimularli e
di coprirli con
foglie più trasparenti
che pietose dommatico come
un pontefice, dottorale,
fiero, soprattutto insopportabilmente lungo
e secco, innegabilmente lambiccato
e falso nelle
sue sottigliezze; [sempre]
lui, lo scolastico
colla somma di
difetti propria degli
scolastici, pe' quali
la presunzione di
essere a priori
in possesso della
verità è ostacolo
a trovarla, arzigogolanti
in un mondo,
che è quello
delle nuvole, aventi
a supremo fine
la forma, non
la sostanza del
discorso; di tutto
sprezzanti che non
si adagi nel
rigido schema di
un sillogismo: lui, il critico
ottuso, più che
mai ottuso alle pure
e immediate impressioni
dell'arte; lui, "un
curioso miscuglio di dotto
acume e di
vuota sofisticheria che
ondeggiava tra un pedantesco
timore e un
linguaggio scorretto, artificiale
e provincialesco, come
nello stile riusciva
insieme arido e
prolisso,, ("). Specialmente
in fatto di
poetica, dalla prima
all'ultima pagina rivela costante
l'oscillazione del pensiero,
la perplessità psicologica, l'incertezza
tra il sì
e il no.
Il risultato... ein
bedenklicher Rùckfall in
die Unklarheit der
ersten theoretischen Versuche,
come si esprime
il Klein (3).
Ed era inevitabile
quando il metodo
della ricerca e
dell'esame, comunque allargato, restava invariato
nella sostanza: al
fatto particolare e
mutabile dato il valore
di legge universale
e meccanica: il
capriccio dell'artista di
ieri assegnato come
norma all'artista di
oggi: l'empirismo sostituito
alla scienza; l'arte
messa alla dipendenza
immediata del lavoro
scientifico e della
storicità; la poesia,
che si appartiene
tutta alla fantasia,
edificata e giudicata
con criteri Son
parole d’Ovidio, Le
correz.) Der Chor
in den wichtig sten Tragòdien
der franzòsischen Renaissance,
Erlangen und Leipzig] logici o
pratici, morali o
intellettuali: l'estetica fondata
sempre o quasi
sempre su motivi
extra od anti-estetici
. Sicché il volerlo mettere
in linea, caratterizzarlo, ridurlo
sotto uno degli
indirizzi che dominarono
nella coltura italiana
è impossibile o
difficile e non
senza pericolo di
confusione; tutti i
venti lo fecero
piegare un po',
nessuno lo vinse.
Non classicista, non romantico,
non aristotelico, pure
lascia tracce non
lievi e di
classicismo e di
romanticismo, figura multiforme,
a diverse facce,
changeante, che sta
sola a sé
e per sé
in tutto il suo secolo:
novatore e continuatore
di pregiudizi; progressista
ne' gesti e
retrogrado nel fatto...
ebbe acuto ingegno,
indipendenza di giudizio, superiorità
di critico: nondimeno
sopravvive pedante tra
pedanti: primus inter
aequales . Filosofo
del linguaggio, dunque,
il Castelvetro non
poteva essere né fu: anzi,
quant'egli scrisse intorno
al lato teorico
della forma poetica
e intorno al
lato pratico {precettistica), non
lo pone certo
al di sopra
d'altri grammatici che,
come vedemmo, ebbero
più d'una felice
intuizione circa la
natura dell'espressione. N'ebbe
anch'egli, a dir
vero, come quando
scrisse queste che
sono veramente come il
Fusco le ha
chiamate auree parole:
Con lo splendore
della favella non si deve
oscurare la luce
della sententia...; perchè
deve essere stimato
vitio che la
favella sia in
guisa vaga che
altri riguardi più
in ammirar lei
che in considerare il sentimento,
essendosi trovata la
favella per lo
sentimento e non
lo sentimento per
la favella. Ma i precetti
della vecchia rettorica,
teoria dell'ornato e
teoria del conveniente,
l'arbitraria distinzione di
prosa e versi,
ecc. ecc., son
tutti dal Castelvetro
mantenuti, anzi moltiplicati. Dove,
invece, il Castelvetro,
per comune consenso,
eccelle, è nella
filologia (erudizione linguistica
spicciola, grammatica storica)
e nella grammatica
normativa; e se
è impresa tutt'altro
che facile il
tirare la somma
di tanti suoi
accettabili o no
accertamenti e dati positivi
in fatto di
lingua, fonologia, etimologia,
morfologia, ortografia, lessico,
sintassi, versificazione, tuttavia
dalla limacciosa e
dilagante corrente di
tanta sua dottrina
quasi tutta d' intonazione vivacemente,
ostinatamente,
sofisticamente polemica, balzano
fuori in tutta
la loro chiarezza
la giusta tesi
Fusco.] dell'origine del volgare
e il diritto
metodo della dimostrazione
e della relativa
indagine delle forme.
Egli, infatti, non
si limita ad
affermare che il
volgare italiano (e,
è lecito ammettere,
anche il provenzale
e gli altri
idiomi romanzi) ,
derivò dal latino
e dal latino
parlato, che non
era quello che
i dotti scrivevano
o gli oratori
adoperavano ne' pubblici
discorsi, ma osserva
che la diversità del
nostro idioma volgare
da quel volgare
latino è nella
declinazione,
principalmente, non nel
lessico, ossia nella
variazione che le voci
hanno subito e
non in una
diversità di etimi:
e, prescindendo per
ora dalle leggi
fonetiche da lui
poste, ingegnosissimo si
mostra nello spiegare
le circostanze, le
cause esterne delle
trasformazioni del volgare
(:ì): e la
nostra ammirazione certo aumenterebbe
se di molta
parte de' suoi
studi sull'antico italiano non
dovessimo lamentare la
perdita. Non è cosa, peraltro,
da maravigliar troppo
chi ripensi quanto
propizi volgessero ormai i
tempi per gli
studi romanzi, di
cui bene può
il Castelvetro, nei
rispetti della grammatica
italiana, considerarsi uno de'
principali campioni anche
a fianco del
Barbieri e del
Corbinelli, per citar
solo i maggiori,
i quali, per
l'uso sapiente fatto
del criterio comparativo,
godono, l'uno nell'ordine
storico letterario, l'altro
nell'ordine linguistico, un
vero primato ( "). Meno
coerente e avveduto
fu forse nella
famosa que ('
Cavazzuti. Delle prove dell'
esistenza del latino
volgare il Castelvetro
non fu ricercatore
compiuto, poiché non
ebbe l'occhio specialmente,
come doveva, al
materiale epigrafico, ma
quelle che indicò
in vocaboli e modi
di dire popolari
della letteratura scritta
e massimamente nelle
commedie, colpiscono nel
segno. Cavazzuti. Castelvetro non
ignorò altri idiomi
neolatini, ma in
essi non acquistò
una speciale competenza:
quanto al provenzale,
p. es., sono
state ridotte a
cinque o sei
note linguistiche quella
che dal Canello
era stata chiamata
straordinaria erudizione; in
questo campo valse
assai più, non
dico il Barbieri,
che a dir
del nipote Ludovico
avrebbe insegnato il
provenzale al Castelvetro
e se lo
sarebbe associato nel trasportar
in volgare le
vite de' migliori
trovatori (Cavazzuti), ma
il Bembo stesso. Cfr.
V. Crescini, Di
J. Corbinelli, in
Riv. crii. d.
leti, il., II,
col. 189 (cit.
dal Bertoni nell'op.
qui appresso cit.).
Per la storia
degli studi romanzi
in Italia nel
sec. XVI, v.
V. Crescini, J.
Corbinelli in Per
gli studi romanzi
Saggi ed appunti,
Padova, e Bertoni, Barbieri
e gli sludi
romanzi nel sec.
XVI, Modena. stione
della lingua italiana;
ma ciò dipese
dall'essere in sostanza, ossia nella
veduta e nella
direttiva principale d'accordo
col Bembo, col
Caro e anche
col Varchi, e
dall'aver voluto, troppo
indulgendo al suo
bollente genio, combatterli
ad ogni costo
e ad oltranza,
per abbattere il
loro edificio e
costruirne un altro
con diverso materiale
e diverso metodo
ma d'eguale architettura
e decorazione. Il
D'Ovidio dice: La
sua polemica col
Caro rientra solo
di sbieco nella
questione generale della
lingua... Se si
prescinde dal modo
come il Castelvetro
scriveva e criticava
le scritture altrui,
se si riguarda
alla sua astratta
teoria quale si
disviluppa dalle infinite
perplessità delle sue
Giunte alle Prose
del Bembo, si
può dire che
col Caro egli
s'accordasse interamente, proclamando
che si debba
scrivere nella lingua
del proprio secolo
e che sia
impossibile gareggiar nella
lingua del Trecento
coi trecentisti, e
che i fiorentini
si trovino per
lo scrivere in condizioni
migliori di tutti
gli altri (Giunta.
Il Castelvetro non
era ingegno da
star saldo in
un principio e
concentrarvisi tutto intorno.
A note di
fonetica lo conduceva
da una parte
la sua passione per
l'etimologia, dall'altra il
proposito di combattere Bembo nelle questioni specialmente
morfologiche. Codeste note, per altro, sono sparse un po’dappertutto. È miracoloso,
scrive Castelvetro iuniore,
nel DEDURRE L’ETIMOLOGIA DALLA LINGUA
LATINA per servirsene nella lingua volgare. Il PARTICIPIALE DI SPERANZA-GRICE:
“Etymologically speaking, ‘mean’ means ‘mind.’” Scelse tutte
le parole oscure
e non intese
dagli altri, che
sono nelle Novelle
antiche e l' interpretò tutte
coll'etimologie, e le
mise in un
volume sotto ordine
dell'alfabeto, il qual saggio
s'è perduto con
altre scritture in
Lione. Conviene pertanto spigolare
le sue note
etimologiche. Cavazzuti
segnal, illustrando il
metodo che Castelvetro
segue nel cavarle, alcune
etimologie di lui,
quella di mai,
di punto, di
cavelle o cove/le,
dell'articolo il, di
arancia, di bozze,
di niente, e
altre. Ma più che
queste e le
moltissime altre che
con speciale predilezione
si sofferma a tirare,
è da ammirare
in Castelvetro, a
giudizio di Vivaldi, l'aver
ammessa la possibilità
della scienza, quando
altri, come Varchi,
contro cui validamente
la sostenne, la
nega. Un esem- [Le
correz. V. anche
Cavazzuti. In Cavazzuti] pio caratteristico dell'acume
che Castelvetro adopera
nel terreno della fonetica,
è la spiegazione
ch'egli da del
futuro italiano, dove puo dimostrare
la sua dottrina
in tatto di
consonantismo. V non vuole,
egli dice, innanzi
a sé C,
G, P; 15.
D, H; LI,
M, Nn, Rn,
Ou, T, Tt,
Ct, Nt, V;
quindi avviene che accostandosi
le predette lettere
a V consonante,
essa si tramuta
in S, e
quelle sono costrette
a tramutarsi in
quelle consonanti, o
a prendere di
quelle, che possono
comportare la compagnia
della S, o
a dileguarsi; sì
come B è
costretto a tramutarsi in
simile caso in P {scripsi),
o in S
(iussi); D in
S (cessi), H in C
(traxi); M in
S {pressi); Mn
in Mp (tempsi);
V in C
(yixi), ecc. .Su queste
basi egli osservava:
è da sapere
che la lingua
nostra non ha
voce semplice futura,
se non tre
sole in un
verbo disusato, o non usato
mai... ma le
ha composte del presente
del verbo avere,
e dello infinito
del verbo, il
cui futuro si
richiede; dicendosi dire
ho nella guisa
che si dice
appresso i Greci
Àsyrive^to, e appresso
i Latini dicere
habeo, significandosi il
futuro Aé^oj, dicam
, spiegazione integrata da
un luogo della
Correzione, dove riferisce
un colloquio avuto
su tale argomento
col Varchi: ....
mi domandò come
del verbo Amo
la voce del
tempo imperfetto Avi
ab avi veniva
in vulgare. Et
io gli dissi
che mutata B
in V, et
gittato M finale
riusciva Amava. Perchè,
adunque, soggiunse egli,
se B si
muta in V
in Amava, non
si può ancora
in B in
Amabo vegnente in vulgare
mutare in R
con trasportamento dell'accento,
et dirsi Amerò?
Non si può,
gli risposi io,
perciò che B
si può mutare,
e si muta
in V, conciosia
cosa che V,
B, P, F
sieno lettere pazienti
et cambievoli l'una
nell'altra, della schiera
delle quali non
è R, senza
che non si
potrebbe mostrare quando
anchora concedessi questo,
come di Legam
et d'Audiam si
potesse dire leggerò
et udirò. De'
mutamenti fonetici vide
la causa in
quei principi fisiologici
che tentano di
resistere ancora alla
critica negativa di
essi Q: Non
ha dubbio, scriveva,
che [In Cavazzuti. Corr.
/.éyeiv è/o secondo
l'Errata Corride del
Castelv. stesso non
vista dal Cavazzuti.
V. più innanzi.
Giunta LXVIII, in
Cavazzuti. In Cavazzuti. Croce,
La Critica.] la diversità
dell'aere generi diversità
di lingue; poiché
opererà che si proffereranno
le parole più
o meno addentro
nella gola; e
appresso che alcune
consonanti si distingueranno o
più o meno
l'ima dall'altra; e
per avventura ancora
alcune vocali; e
si darà il
fine alle parole
o più o
meno perfetto. Questo
egli scriveva molti
anni prima, dunque,
che del massimo
fonologo del Cinquecento, Bartoli, fosse
apparso quel mirabile
trattato che il
Teza illustrò da
par suo con
tanto compiacimento. E,
valga o non
valga una tale
dottrina, non si
può lesinare l'ammirazione che il
Castelvetro certo si
merita, anche non
dimenticando i progressi del
Tolomei su questa
parte della grammatica storica.Vero corpo
di scienza grammaticale,
storica e precettiva
e metodica insieme
è la prima
Gninta. Consta di
due parti: ia,
[15] corpi [de'
quali la maggior parte
suddivisi in paragrafi]
delle cose contenute
nella Giunta di
ciascuna particella degli
articoli (pp. 2-16);
2a, [70] corpi
[suddivisi parimenti in
paragrafi] delle cose
contenute nella Giunta
di ciascuna particella
de' verbi. In tutto
dunque 85 giunte,
in 77 -h 273
(2U parte) =
350 paragrafi, ossia osservazioni
(selva selvaggia ed
aspra e forte!);
che son poi
altrettante contraddizioni a
quelle del Bembo.
Nella prima parte,
Degli Articoli, non
parla soltanto di
questi, come parrebbe,
ma trova modo
di toccare anche
delle parti declinabili
del discorso (nomi,
[sostantivi e adiettivi],
vicenomi) ; trattazione metodica
perchè condotta quasi
sempre sul filo
conduttore della storia.
Dove il Bembo
aveva chiamato gli
articoli parte de'
nomi, egli, fondandosi
sull'origine dell'articolo dal
pronome latino, ne
rivendica V indipendenza.
Dove il Bembo
aveva ammesso i
vicecasi non sapendoli distinguere
dai veri proponimenti,
egli par escludere
l'esistenza de' vicecasi,
sostenendo che la
decimazione volgare ha due soli
casi (il diretto
e l'oggetto), e
riconoscere solo l'esistenza
de' proponimenti co'
quali si formano
tante combinazioni
(complementi) quanti essi
sono. Tratta ampiamente
della declinazione e
dell'uso degli articoli:
il, lo, 1",
la, i, gli,
le, che deriva
non solo da
ille, ma da
hoc, citando per
i pi. da hi e
o sing. (1 In CAVAZZUTI.] da hoc
le vecchie stampe
e l' iscrizione a
un quadro esistente
in una sala
del palazzo Fulvio
Rangone di Modena
in cui era
dipinta l'historia della
Teseide del Boccaccio:
O re Theseo,
A o re
Theseo = il
re Teseo, al
re Teseo, della
cui forma afferma
esser riscontri nella
lingua gallica più antica
e del regno
di Napoli (o
re = il
re). Qui comincia
a delinearsi il
metodo del Castelvetro,
che se non
coincide con quello
della filologia moderna
(è facile vederne le
differenze), lo precorre
però almeno per
l'uso del criterio
storico genetico e
comparativo insieme, e
in ogni modo
non è il
puro empirico degli
altri grammatici. Invece
di seguire passo
passo il Castelvetro
nella sua confutazione del Bembo
e di istituire
un confronto perpetuo,
abbiamo creduto meglio di
ricavarne una specie
di trattatello grammaticale, onde insieme
con la materia
da lui esposta
ne appaia anche
il metodo della
trattazione, pienamente sistematica
pur tra tanto
apparente intrigo. Dell'articolo. J
articolo è voce separata
e non parte
di nome perchè ha origine
dal vice-nome ille
e ne conserva
la forza, tanto
che può esser
sostituito da quello,
ed è declinabile. Di
da de, al
da ad, da
da de non
sono vicecasi neppur
essi, ma proponimenti,
come tutte le
altre propositioni e
sono d'altronde altrettanti
supplimenti de segni
di casi, essendo
che la nostra
lingua ha due
soli veri casi,
l'operante e l'operato,
ne' sostantivi come
in molti vicenomi,
e gli altri
casi essendo tanti
quante sono le
combinazioni del sostantivo o
del vicenome con
i proponimenti. Gli articoli
vulgari si originano
dai vicenomi latini e
si adoperano nel modo
seguente: o da
lioc. Es. O re Theseo neh'
" historia della
Theseida di Boccaccio dipinta
non molto tempo
dopo la morte
di lui in una
sala
del conte Fulvio
Rangone in Modena
Il re Theseo.
O re (nel
regno di Napoli
e nell'ant. frane.)
= Il re
b) i, pi.
m., dal pi.
di hoc, cioè
hi '). S\ota.
Il co in
compagnia, puro o
mutato, non è
più articolo, perchè
non si declina
(cotale, questo, quello),
eccetto in uguanno
da Così, analogamente, qui
da hicqui, qua
da hacqua (per
hoco orig. da
hocquo, cfr. hoco
+ ilio quello. Non
è biasimevole chi
li deriva dai
greci o e
01! 176 Storia
detta Grammatica hoco-anno,
dove rimane in
forza d'articolo, perchè
uguanno è voce
fermata in su
un senso e in su
un numero, né
di nuovo può
ricevere altro articolo, anchora
che io l'habbia
per voce averbiale
di tempo . il
sing. m. dinanzi
a cons. nel
i° e 4"
caso, da ilio,
per essersi dovuto
restringere sotto l'accento
del nome come
bel giovane, quel giovane
da bello e
quello giovane. b)
lo sing. m.,
dinanzi a vocale,
o s impura,
o, nei casi
né primo né
quarto, a semplice
cons., come non
si può troncare
bello e quello
davanti a Intorno
e scelerato. Lo si usò (cfr.
Petrarca e Boccaccio) in. tutte
e due i
casi, e come rimase nelle
combinazioni con mi ti si
ci vi, onde
melo, telo, ecc.,
dove potè troncarsi
dinanzi a cons.,
così rimase e
si potè troncare
in tutte le
proposizioni articolate: del
(= delo), al (=
alo), dal, col,
ecc., voci che
non si devono
spiegare con di
-f il, ecc.,
perchè da di
+ il verrebbe
dil e non
del. Quindi è
errato scrivere de
'l, co 'l,
da 'l cielo,
ecc. A. i da
hi, pi. m.
dinanzi a cons.,
non comportandosi il
contrario per l'iati) (l'it.
non ha voci
comincianti da ia,
ie, ii, io,
hi; quindi non
è lecito i
amori, i heretici,
i italiani, i
homicioli, i humidori;
né i stormenti,
perchè potrebbe confondersi
con istormetiti). B.
li da i/li,
pi. m., dinanzi
a voc, a s impura,
a semplice cons.
di nomi non
usati al primo
e quarto caso. li
diventa gli dinanzi
a vocale per
la forza di
questa (cfr. vaglio,
voglio); ma dovrebbe
restar //davanti a s impura;
li stormenti, e non gli
stormenti. Li, come
lo conservato in
del, ecc. da
delo, ecc., conservasi
nel pi. de'
casi secondo, terzo,
sesto: quindi deli,
ali, dati, ecc.,
riducibili a de, a,
da, come quali
si riduce a
qua, e elli
a e, e
tolti a to,
poiché non iscrivesi
de', a', da'
per dei, ai,
dai da de
i, a i.
da i, essendo questa derivazione
errata. la da illa,
sing. femm.; le, pi.
di la; e)
sta da ista
in stamane, stamattina,
stasera, stanotte, benché
siano avverbi. 2 4. L'elisione
della vocale finale
dell'articolo è regolata
da questa legge": che
la lingua nostra
non comporta ordine
di vocali per
accidente se non le può comportare
per natura ,
Spesso si elide,
invece che la
finale voc. dell'art.,
la iniziale del
nome quando comincia
per in o
im disaccentata: es.
lo 'nventore, la
'mperfettione. ('i Monsignor
lo, Messer lo
son comuni; analogamente:
tutto il mondo,
ambe le mani
ecc. Nel Petr.
quattro nomi hanno
lo: qua/, cuor,
mio, bel, per
conservar l'uso antico. Boccaccio n'ù
pieno. I lei
ha sempre //,
nel Petrarca. Capi
fola sesto Lo
e // o;7/
si conservano con
/éT dinanzi a
consonante nei casi
secondo, terzo e
sesto analogamente a
lo delle preposizioni
del, al e
da/, ecc. Es.
per lo petto,
per li fianchi. Per
quanto s'è detto,
non si deve
raddoppiar 17 in
de/o, alo, da/o,
ne lo, ecc.
(benché anche l'autore
segua l'uso invalso
di raddoppiarlo: mirabile e
raro esempio d'ossequio
in un tal
contradittore); ma sì
in collo perchè
viene da con
e lo. Il d
di ad volgare
è eufonico e
non d'origine latina,
come od, sedi
ned, c/ied. A/lui,
asse, dal/ui, dassc
sono errori, ma
non son tali
accendere, apportare e
simili. Il ri da re,
in composizione. 2 8. Sottrazione
di di a
Colui, Colei, Coloro,
Costui, Costei, Costoro; di
a, a Lui
e Lei (da il li
/mie, illae ei);
di di e
a a Loro,
Altrui, Lui; di
con, di, a,
in, per, da
a Che; di
di a nome
dipendente da Casa,
a Dio dipendente
da Mercè; di di e
dell'ara, a Giudicio
dipendente da Die e
a nomi dipendenti
da Metà, e
a nomi delle
famiglie dipendenti da
nomi propri maschili,
e a Quattro
Tempora dipendente da
Digiuna: di per
a Mercè, a
Gratia, a Bontà;
di per a
Tempo; di a
a Malgrado. Nei
complementi di specificazione l'uso
dell'articolo (prep. articolata)
è determinato dal
significato o forza
che l'art., analogamente
al vicenome quello,
ha di preterito
(reiteramento), futuro (premostramento), presente
(additamento), dal suo
scopo di particolareggiare o
universalizzare il significato
del nome, e dal significato
particolare o universale
del nome disarticolato. Ci
sono poi dei
nomi (Capo, Testa,
Collo, Tavola in
compagnia d' In
z: Su; Piede,
Dorso, Gola in
compagnia d' In =
Intorno) che rifiutano
l'art.; altri (Città,
Casa, Piazza, Palazzo,
Chiesa in compagnia
d' A, d'
In, di Di,
di Da; Mano
in compagnia di
Con, e Cintula
in compagnia di
Da, e Lato
in compagnia di A
e di Da,
e Bocca in
compagnia d' In
e d' A) e gli
aggettivi Mio, Tuo, Nostro,
e Vostro antiposti
a nomi, possono
lasciare l'articolo. \
io. I nomi propri
femminili comportano l'art,
det.; de' ma
X schili solo quelli
in cui operi una notabile qualità
(antonomasia), o che
siano preceduti da
un aggettivo e
in cui l'agg.
funga da sostantivo
il cattivello d'Andriuccio). Quando
l'aggiunto si pospone,
l'art. segue il
nome sia maschile
che femminile. I nomi
femminili di continente,
d'isole maggiori (eccetto
Lift~^ pari, Cresi,
Ischia, Maiorica, Minorica
e simili), stati
e regioni, seguono la
regola de' nomi
propri di persona,
cioè possono ricevere
l'articolo. I maschili
non seguono la
regola de' nomi
propri maschili; ma
anch'essi possono ricevere
l'articolo. I nomi di
città e castelli
rifiutano l'articolo
(eccetto gli edificati
dopo la perdita
del latino: Il
Cairo, La Mirandola,
ecc.i; de' fium i,
possono riceverlo e
rifiutare; de' fonti,
i più lo
rifiutano. Preceduti da un aggiunto,
tutti lo ricevono. Fratelmo, Patremo,
Matrema, Mogliema, Figliuolto,
Signorto, Moglieta, fiammata,
Signorso; Dio; gli honorativi
(Papa, Sere, ecc.); i
pronomi personali o
no e il
relativo rifiutano l'articolo; i
nomi antonomastici e
i congiunti con
tutti e numeri
seguenti, e i vocativi
possono ricevere l'articolo.
Ma Vaghe le
montanine e pastorelle è
dell'uso della favella
vile, non della
nobile. Le quattro coniugazioni
del verbo si determinano solo
dall'infinito (-are, -ère,
-ere, -ire), essendo
in volgare la
2a ps. ind.
uguale in tutt'
e quattro. La primiera
voce (cioè, meglio,
la ia ps.
pres. ind. att.)
ne' verbi volgari
varia. Agli esempi
del Bembo: Seggo
Seggio Siedo, Leggo
Leggio Veggo Veggio
Veo Vedo, Deggio
Debbo, Vegno Vengo,
Tegno Tengo Seguo
Sego, Creo Crio
Credo, Voglio Vo,
sono da aggiungere:
Muoro Muoio, Paro
Paio, Salgo Saio,
Doglio Dolgo. Toglio
Tolgo Sono Son
So, Ho Habbo
Haggio, So Saccio,
Fo Faccio, Deo
(Deggio Debbo), Supplico
Supplico, Rimagno Rimango,
Coglio Colgo, Chiedo
Chieggio, Vado Vo,
Scioglio Sciolgo, Scieglio
Scielgo, Fiedo Feggio
Beo Bibo Descrivo Describo Appruovo Approbo Ripiovo Repluo Priego Preco Miro
Mirro Replico Replico Foe Fo Soe Sono Do Doe Vo Voe (Vado) Haio
(Ho) Deio (Debbo) Creio (Credo) Cado Caggio Sospiro Sospir Uccido
OccidoAncido Ubedisco Obedisco Allevio Alleggio Cambio Caggio Manduco Mangio
Manuco, Giudico Giuggio,
Vendico Veggio, Simiglio
Semblo Sembro Annumero Annovero, Ricupero Ricovero Valico Varco,
Sepero Scevro, Delibero
Delivro Dimentico Dismento, ecc.
Ragioni fonetiche: D,
B davanti a
voc. i (da
e) seguita da
voc. = g
geminato: Deggio (Debeo),
Haggio Habeo), Seggio
(Sedeo). Veggio (Video;,
e, per analogia,
Creggio (come da
Credeo), Feggio (come
da Fedeo), Caggio
(come da Cadeo),
[Tu] Regge (Dante)
da Redeo. Il
gg e ce
si dileguarono nell'ant.
ital. agevolmente. P davanti
a voc. i
seguita da voc.
= Ch: Schiantare
(da Piantare), Schiazzare
(da Piazza), Saccio
per Sacchio (da
Sapio), cfr. prov.
Sapche. e) L,
N \i -j-'voc.
vogliono g avanti,
o anche L, N -je
-fvoc: Nap. Chiagnere Piangere. Consiglio, Bologna,
Sanguigno, Oglio. Quindi
Saglio, Vegno, Tegno,
Rimagno e, per
analogia, Voglio (quasi
da Voleo) come
Doglio (da Doleo).
Il g e
1 si possono
posporre: Doglio, Dolgo.
d) R prec.
da A o
O e seguita
da I o
E prec. da
voc, si dilegua
via: Frimaio, Cuoio,
Aia (Primarius, Corium,
Area). Quindi Muoio,
Paio. L tra
vocali = i:
ìtaXóg gaio, pitllus
buio. Quindi Voio
(da volo) lomb.,
Yoo \'o. f)
L'è paragogico di
doe, foc, ecc.,
tue, sue, ecc.,
coste, ecc., die,
ecc., è avvenuto
per cagione di
più soave e
riposata preferenza .
I di Seggio
è naturale. In
Debbo, Habbo ecc.
è caduta. Di
queste voci alcune
sono poetiche altre
prosaiche. La ia ppl.
ind. pres. att.
si è formata
dal pres. del
cong. confuso col
pres. ind. in
due modi: a)
dalla ia pi.
della 2a e
4" valeamus, sentiamus
= sentiam, valeam);
b) dalla i"
ppl. della 1*
(amemus), amemo e,
per analogia, valemo,
leggemo, sentemo. Mai
leggerlo deriverebbe da legimus!
E lo conferma
anche il senio
da shnus. \
4. La 2H ps.
ind. pres. è presa
dalla 2a ps. sogg.
o dall'indicativo, confusamente. Non mai si
origina dalla 1"
ps. ind. pres.
La voce volgare
si origina sempre
dalla latina! Un argomento
fortissimo della derivazione dal sogg.
sono: giacci, dagli,
pai, vinchi, proferiscili,
sagli. \ 5.
La 3a ps.
pres. ind. si
passiona per tre
vie o per
mutamento, o per
levamento o per
aggiugnimento. Esempi e
ragioni fonetiche. La 2a
ppl. deriva dalla
2a ppl. latina.
Nella 3a coniug.
avviene egualmente per analogia.
Leggete quasi da
Legetis. Neil' uso
antico anche sull’esempio
della quarta: leggile,
vedile. Bembo aveva detto
che Vi di
tieni da tengo,
di siedi da
seggo, Vii di
duoli da doglio,
di vuoti da
voglio, di suoli
da soglio, di
puoi da posso,
è vocale di
compenso per la
caduta del g
e del ss.
Il C. dimostra
che quelle vocali
sono effetto d' uno scempiamento,
tant'è vero che
scompaiono fuori d'
accento, e che
il g è
naturale nella ia
ps., e sarebbe
fuor di luogo
nella 2*. Quanto
a. posso rimanda alla
trattazione di sono.
2. I verbi
che nella 2"
ps. perdono la
cons. o le
cons. della ia
appartengono alla 2*
e 3" coniug:.
e quattro sole
sono in effetto
le cons. che
si perdono (C
e G, V
e P, D
e T, L).
Verbi in -io
di tutte e
quattro le coniug.
che nella 2a
ps. perdono o
non perdono una
vocale o una cons.
nella 2a ps.
3. Altre particolarità
fonetiche sulla ia
e 2a ps.,
specie sulla fogliazione di L
e R, sulla
geminazione di GG,
di RR in
Trarre, ecc. sull'elisione
di R in
Paro e Muoro. Del
G e dell'
N naturali si
ragiona nella Giunta. Il
G fognato nei GERONDI. La 3a
ppl. dalla corrisp.
latina, esemplandosi la
3* coniug. sulla
2*. Eccezioni, dipendenti
dai mutamenti fonetici.
Particolarità di altri
verbi. \ Il
pendente (= imperfetto).
Il V della
i" e 2*
ppl., poiché è
in sillaba accentata,
non può dileguarsi.
Nella 3 sin^.
e pi. e
nella 2a sing.
il V non
si elide quando
lascerebbe due vocali
eguali: dunque non
amaa, amaano, e
[tu] udii (per
udivi), come vedea,
vedeano, dovei. Riguardo
alla forma della
3a ppl. haviéno,
moviéno, serviéno, conteniéno,
si osservi che
la ia e
3" ps. pres.
ind. della 2"
e 3a coniug.
in provenzale e
italiano si modellarono
sulla 4" che
aveva audibant e
andiebant onde udivano,
udiano e udieno,
quindi havia, solia,
credia, potia, vincia,
vinia. Analogamente la
ia e 2a
ppl. della 2a,
3" e 4"
coniugaz. si modellarono
sulla 1"; quindi
credavamo, credavate. Del preterito. La
ia ps. ha
sei regole; la
ia ppl. due.
in cong. 2a
e 3B 4'1
/' ps.: -ai
(o -iaij -ei
(iei) -etti, -si,
e lat. -i,
son tutte dalle
corrisp. latine. I finienti
in -si e
i ritenenti il
fine latino non
mutano l'accento della
sillaba radicale, come
tutti gli altri
finienti ne' modi
predetti. I mutamenti
di -avi lat.
in ai vulg.,
di -idi, in
-etti e, per
analogia, anche in quelli
non provenienti da
-idi, sono facili a
spiegarsi. Così il
-si'. Di questo son due classi,
secondo che conservano
l'istesso numero di
consonanti che nel
presente, o ne
hanno di meno
o di più.
I verbi col
finimento latino sono
io della 2",
11 della 3",
1 della 4a:
malagevolmente possono cadere
sotto la regola
d'un fini-. Nella 4a
più forme: audivi,
udij (udì), e
udìo. Verbi in
-are e in
-ire (colorai, colorii)
ecc., cioè della
ia e 4",
della 2" e
4" (offersi e
offerii). j" ps. i° conili"-, -ó,
-io. Ant. dial.
siciliano: Passao, Mostrao,
Cangiao, ecc. 2a
e 3° coniug.
-é, o -ié
(-éo), se la ia è
-ei o -iéi;
-ette, -se, da
-etti, -si. 4a
coniug. -i (-io),
-ie. 3" Ppl- -ero, -ono; -éttero, -éttono; -àrono o
-iàrono, -aro e -iàro quando la 3"
sg. è -ó, -io; -érono, -iérono, -èro, -iéro, se -é, -ié; -irono, -irò,
se -ì.
L'o finale è
troncabile. Questa 3a
ppl. deriva dalla
corrisp. latina. In
poesia si sincopa:
levórno, usato anche
in Lomb. Finalmente
c'è la terminazione
-enno, -eno, -inno, -onno. Faro
e Foro. /"ppl1°
e 4a coniug.
da -àvitnus, -ivimus,
àvmus, ivnuis, -animo,
immo e per
analogia -emrao nella
2* e 3",
come se si
dicesse valevimus, legevimus.
l) finimento lutino,
per ora. Medesimamente
si formò la
jK ppl. e
sitig., osservandosi: i"
l'accento si trasporta
sulla seguente sillaba: da
vàhti, valeste, da
legi, leggeste (fummo come
da fùvimus e
non fuimus, gimmo
da ivimus); che
si dice udiste
e sonaste, benché
la i" è
odo, suono. \
io. Pariefici preteriti. -ato,
-ito, -uto, -so dalle
corrisp. latine. In
quei in -ato
si ha il
raccoglimento, che del
resto già era avvenuto
nei latini Saucius, Lassus,
Lacerus, Potus per
Sauciatus ecc. In
quei in -ito
(4" coniug. sulla
quale si modella
anche Resistito benché
sia della 3'),
ant. -uto n'è rimasto venuto) per
l'analogia che alcuni
verbi della 4"
avevano con quelli
della 2" e
3" (cfr. uscì
e uscetti, udì
e udetti, feri
e ferretti, venni e
vennetti). Quando nel part. -ito,
e' è r,
avviene la sincope:
morto, proferto, ecc.;
ma non ferto,
perto, smarto e sim.; ratto
da rapito, sepolto. Nella 2a
e 3" coniug.
-uto e iuto
a) to puro
6) to con
cons. o impuro;
-so puro e
-so impuro. a)
-to puro (dalla
forma di /oattiis,
tribntus, cautus e
sim. e sui
preteriti in -èi
o -ici e
-ètti e -ietti
della 2" e
3a coniug., e su quelli
che hanno il
finimento latino. Irregolarità
e doppioni (pentuto
e pentito, perduto e
perso, conceputo e
concetto ecc.). b)
-io impuro, 1"
e 3" coniug.
pret. in -si
prec. da cons.
che si conserva
se è L,
N, R, e
si muta in
T se è
S. Tuttavia -si
prec. da R
o R dà
-so, conservandosi R e S.
Es. volsi volto
(assolto e assoluto), (ma salito,
caluto, valuto); giunsi
giunto (ma stretto
da strinsi); sparsi
sparto (in verso
sparso; porretto per
porto nel volgarizzator
di Giudici), strussi,
strutto (fisso per
fitto). -so puro,
scesi, sceso (impeso
e impenduto; accenso
e acceso, offenso
e offéso, nascosto
e nascoso). Ma
risposto, chiesto, posto
e messo (poet.
miso). -so impuro,
pret. -si con
r o s;
tersi, terso (presso
e premuto) scossi,
scosso (visso e vivuto); scisso
da scindo, ma
scosceso da sconscindo.
Ma arroto (da
arroguto) e non
arroso, pret. arrosi. Poet.
priso preso e
altri partefici che
sono latinismi veri
anche in prosa:
digesto, deposito, inquisito,
ecc. Critica della trattaz.
De’partefici di Bembo.
Si può osservare:
la vocalizzazione del
v cons. di
ivi in docni,
explicui, sapui ecc.
non potendosi dire
dóc(i)vi, explìc(i)vi, sàp(i(vi;
la sibilizzazione del
v cons. in duri,
finxi, repsi, non potendosi dire
dic(i)vi, fìng(i)vi, rè- [Morto
sarà da morsi
(morii) come dicesi in Lombardia ,
a Lombardia ha in Castelvetro il
senso generico che ha anticamente) e quindi profferta e
simili non saranno
d;escludere dalla schiera
de" participi in
-ito? pCi)vi. Sicché
il x non
sarebbe da cs
ma da cv,
gv, pv. Medesimamente il V
non può avere
stato dopo B,
D, H, LL,
M, MN, RN,
QV, T, TT,
CT, NT, V
(cons.). Indi il
V di ivi,
volendo conservar natura
di consonante, si
tramuta in s,
obbligando le precedenti
cons. a dileguarsi
o a assimilarsi.
Onde B =
P o B
= S ecc.
con tutta la
lunga e facile
tramutazione. Insomma il
si de' pret.
latini non è
mai originario. TEMPI COMPOSTI.
SIGNIFICATO. “Havere” congiunto col
partefice passato affigge
termine certo all'attione
perfetta, il qual
termine si ferma
nel tempo del
verbo “Havere”. PASSATO PRESENTE: “ho amato”: affigge il termine del fatto
al principio del
presente [cf. H. P. Grice, on von Wright, “Actions and events”. PASSATO IMPERFETTO (haveva amato):
congiunge il fine del fatto col
principio dell’imperfetto.
PASSATO PASSATO: hebbi amato”: congiunge
il fine del fatto col principio del
fatto. PASSATO FUTURO, “havrò
amato”, congiunge
l'estremità dell'unione
perfetta col principio
del futuro. Consecutio
temporum. Concordanza del participio
de' tempi composti
col soggetto o coll'oggetto,
secondo il valore
del termine dell’AZIONE [cf. Grice, “Actions and
events”). Il futuro. La
lingua nostra non
ha voce semplice
futura se non
tre sole in
un verbo disusato,
o non usato
mai, e sono
queste: Fia, Fie, o Fia, Fieno o
Fiano b
Fiero. Ma le ha
composte del verbo “havere”, e
dell'infinito del verbo
il cui futuro
si richiede, dicendosi
“Dire ho,” nella guisa
che si dice
appresso i greci
Xèysiv ryo>, e
appresso i latini, “dicere habeo,” SIGNIFICANDOSI IL FUTURO. M§6ì
Dicam . I verbi
della itt coniug.
si modellano su
quella della 2*. Quindi “amerò” e non “amaro”
(ma cfr. sen. “amaro”, “sarò”
per “serò”, Possanza
da Possendo, Sanza
da Absentiaì. Avendo
avere nella r'
ps. ho, haggio,
habbo, avremo: amerò, risapraggio,
torrabbo. Analogamente, amerai, amerà, ameremo,
amerete, ameranno. Consonantismo. Dileguo
della cons. verb.
e della voc.
anzi terminante. Es. “farò”, per “faceró”. Dileguo
della vocale: “andrò” per
“anderó. Dileguo della vocale
e mutamento della
cons.: merrò per
menrò per menerò. Madonna Iancofiore
havendo alcuna cosa sentito de
fatti suoi gli
posa gli occhi
addosso. Qui alcuna cosa
fa dell'averbio. Eccezioni e
casi speciali. Del
comandativo. a) Possiamo
comandare non pure
cose presenti, ma
future anchora, et
non solamente con le seconde
voci, ma con
le terze. Il
comandativo ha una
sola voce propria,
la 2a sing.
della i" coniti
gaz. Troncamenti della
vocale e della
sillaba tinaie. L'
inf. pel coni.
nelle frasi neg.
secondo i greci
e gli ebrei:
salvo se non
vogliamo dire, che
v'habbi difetto di
dei. Non dire
in quel modo,
Non dèi dire
in quel modo.
Il che a
me pare assai
verisimile. \ 15.
Dello infinito. 1
Nervazione. Habbiamo mostrato
infin a qui
le voci de'
verbi vulgari nascere
dalle latine, dalle
future dell’indicativo infuori,
sì come anchora
nascono queste dell’infinito. Perchè
non è da
dire, che esse
o reggano, o
formino le altre
voci trattene le
voci del futuro dell’indicativo, e
quelle del POTENZIALE,
come si vedrà,
o sieno rette,
o formate da
alcune delle altre. Uso
dell'infinito. Sono quattro casi molto tra se differenti, ne quali lo
'rifinito richiede il
primo caso della
persona, o della
cosa che fa.
i° quando si
pone in luoo
di gerondio, il
che si fa:
con le particelle
Per, In, Con,
A, Senza e
simili: In farnegli
io una; o
con 1' art.
masch. sing. Il
volere io le mie poche
forze sottoporre a
gravissimi pesi, m'é
di questa infermità
stata cagione . 20
con Chi, Cui,
Quale, Che, Dove,
Come, per ellissi
del verbo: Qui
è questa cena
e non saria
chi mangiarla ecc.
3° quando ha
forza di comandativo,
forse per ellissi
del verbo: non
far tu .
4° nelle frasi
consecutive: queste cose
son da farle
gli scherani. Uso dell'ausiliare coi
partefici Potuto e
Voluto, e coi
verbi stanti cioè
intransitivi: verbi che finiscono
in sé 1'
attione . Infinito
futuro. Non ha voce
propria, ma un’espressione fraseologica. La teoria
generale del MODO [cf. Grice,
Mode, not Mood] si può
restringere nel seguente
prospetto. Su essa torna
Castelvetro nella Spositione della Poetica
aristotelica. o E o
re ~ n O O O c £ •-
= ór. "1
' £ 5 o o,->
. .5 c/5 tO
l_l re -E
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O) ~ )Z -1
'o *** v
-2 a e
-O e r re re
-E 2 2 "re re] È dunque
una concezione del
modo un po'
diversa dalla comune,
derivando
dall'interpretazione
diversa del sentimento
che racchiude. Formazione del
comunemente detto Soggiuntivo',
amerei 0 ameria,
e amassi : amerei
da amare 4 liei
= hebbi ameresti + hesti =
havesti amerebbe + hebbe
ameremmo + hemmo = riavemmo
amereste + heste =
riaveste,, ero i hebbe
amerebb + ono I
hebbono parrave da pàr(eire
+ have (lomb.)
=3 hebbe ameria ia
ps. da amare
+ ibam ameria 3*
ps. -fibat (ameriamo 1"
ppl. + ibamus
ameriano 3' ppl.
+ ibant opp.
amerieno (per analogia
con udieno). satisfarà
(Dante) per satisfarla
(eug. e prov.)
Così Fora, Forano,
= foria, fonano
da fore -fibat.
Per e da a in
amerà, cfr. formaz.
futuro (ma sarei
e non serei).
amassi da ama(vi)ssem.
Nella 3 ps.
perciò anche amassi
come in Dante
e Petr. amàssimo
da ama(vi)ssimus amaste
da amàs(sijte da
amà(vi)ssetis amassero e
amassimo quasi da
amavisserunt per analogia
della 3 ppl.
pret. perf. ind.,
invece di amassino
(come in alcuni
poeti o amasseno
(come nel Petr.)
da amai vi)ssent.
La 2a e
3R coniug. in
queste voci si
modellarono per analogia
sulla ia e
43, leggessi e
valessi come da
legé(vi)ssem e valé(vi)ssem
ecc. Significato di amerei
e ameria, e
amassi. Amerei (quasi
Habbi ad amare;
gr. potenziale con
àv, lat. Amareni)
significa deliberatione, o
ubligatione, o potentia
cominciata già nel
passato, et riguardante
all'adempimento futuro. Ameria
ha questa medesima
forza. Perciocché deliberatione, o
movimento a far
significa, et poi
che niuno comunemente
si muove a
far, se non
è ubligato, significa
anchora per questa
cagione ubligatione, et oltre
a ciò potentia
essendo anchora il
preterito imperfetto appresso
i greci potentiale. Secondo' l'uso di
que d'ogobbio dove
abitò | Dante]
alcun tempo. Amassi (benché
derivi da Amavissem)
significa tempo presente
o futuro a
noi, che parliamo,
ma passato havendo
riguardo all'essecutione della
deliberatione, o dell'ubligatione, o
della potentia, che
va avanti .
Alcune particolarità di
forma e di
significato. Formazione del presente
del soggiuntivo. Le
voci di questo
tempo derivano dalle
corrispondenti latine, tranne
la ia e
2a ppl. della 1" e
3a coniug. che
si modellarono sulla
2R e 4",
amiamo e amiate,
leggiamo e leggiate
quasi da ameamus
o amiamus, ameatis
o amiatis, legearnus
o legiamus, legiatis
o legiatis, e
non amemo e
anche, leggamo e
leggate come sarebbe
naturale. Spiegazione delle
terminaz. in -e,
-i, -a nella
3* p. sing.:
vegga, vegghi, vegghe
e veggi, vegge. Gerondio. Formazione, Uso. I Gerondi
vulgari seguitano i
vestigi de latini,
conservando la consonante,
o le consonanti
loro verbali, che
prese la prima
volta non si
lasciano per modi,
persone, tempi, et
numeri del suo
verbo... et si
contentano d'essere simplici,
ma ne verbi
che non continuano
la consonante, o
le consonanti prese
la prima volta
per tutti i
modi, persone, et
numeri: si truovano
essere i gerondi doppi,
cioè o con
la consonante o
con le consonanti
sue naturali, o
con le prese
di nuovo, o
con alcuna delle
prese. Il gerondio
dei verbi intrans,
riceve indifferentemente il
primo e il
sesto caso (cfr.
l'uso del come
da quomodo e
da cum, del
verb. essere, e
del grido affettuoso
o schiamazzo, il
nostro vocativo o
esclamativo) ; quello di
trans, solo il
primo. Osservaz. sui
pronomi relativi e dimostrativi,
e su luì
e lei. \ 21. Il
passivo. Il si
rende passive la
3" ps. e pi. e
l'inf. (benché questo
sia fatto passivo
dal veggo, da
resto, da sono
con le particelle
r7 da di
da per per
licenza e quasi
per errore, essendo
propri e regolati [passivi] que
del partefice preterito
col verbo sono).
Il si ha
significato riflessivo (Narcisso
amasi o s'ama,
cioè ama sé
stesso), o reiterativo
ossia intensivo (Eco
s'ama o amasi
Narcisso). Nelle orìgini
del volgare, quando
il soggetto in
questo secondo caso
era sottinteso per
essere un nome
indeterminato (nel qual
caso dicevasi anche
huomo cfr. il
fr. on e
i nostri scrittori
antichi), si perde
la nozione del
quarto caso e
questo sembrò primo.
In s'ama la
dorma, non si
vide più il soggetto alcuno
o uom, e
la donna sembrò
soggetto, e il
s'ama verbo passivo.
Così il si
acquistò la virtù
di far passivi
i verbi. Verbi anomali.
(Accenniamo, per brevità,
solo alla trattazione del verbo
sostantivo, la quale
è fondata su
questo principio, che le voci
procedano da sei
verbi: esso, ero,
o, fuo, fio
e sto, cinque
dei quali non
usitati sono, ma
alcune intere, alcune
diminuite, alcune dimuite
insieme e accresciute,
alcune diminuite insieme
e tramutate, e
alcune dileguate ).
Participio futuro attivo
e passivo. Mancano
al volgare, benché
abbi. insi futuro, venturo
e reverendo, e,
in Dante, fatturo,
passino, e, in
Bocc, redituro, venerando,
ammirando. Questa sorta
di participi futuri
passivi hanno perduta
la loro forza
di tempi futuri.
Ma la lingua
volgare usa alcune
formazioni analoghe per
i sost. femminili
sul part. fut.
att.: scrittura, natura,
creatura, lettura, ventura,
tagliatura, copritura, sull'esempio
del latino (cfr.
natura da nascitura).
Ma non i
maschili: habituro è
formato su tugurio.
Cfr. il lomb.
alturio, aiutorio, aiuto.
Sul part. fut.
pass.: facenda, merenda,
vivanda, randa (da
haereo) cfr. arente
opp. a rente
a rente. \
24. Participio pres.
att. e passato
passivo (preterito). I
partefici vulgari che
derivano dai corrispondenti latini
significano attione o
passione, ma non
mai tempo, tranne
i preteriti in tre casi:
i° col verbo
havere; 20 col
verbo essere; 3"
usati assolutamente. Dai
partefici presenti si
formano i sost.
in -anza e
-enza. Dai partefici
preteriti si formano
i sost. in
-ione, -aggio, e
gli aggiunti in
-ivo, -iva. -ore,
-trice. Concordanza del
participio e uso
del gerondio. Giunti al
termine del nostro
rapido riassunto, possiamo
molto facilmente stabilire
i meriti di Castelvetro verso
la grammatica. Confrontando
il trattato castelvetrino
con le analoghe
parti delle recenti
grammatiche storico-comparative dell'italiano, in
quanto concerne le
conclusioni della storia
delle forme, ci
accorgiamo subito che una
non iscarsa parte
di esse ebbe
la sua prima
sistematica elaborazione dal
Castelvetro: osservinsi, particolarmente, la derivazione
dell'articolo, le desinenze
delle persone verbali, la
derivazione de' tempi,
e specialmente del
futuro e del
condizionale, e molti
mutamenti fonetici specie
consonantici." Fuori
del campo strettamente
fonetico e morfologico,
sono poi da
segnalare specialmente, come
altra proprietà esclusiva
del Castelvetro, il
tentativo d' interpretazione psicologica
de' modi, la
spiegazione del significato
del futuro e
della doppia forma
del condizionale (amerei,
ameria), e la
determinazione del significato
de' tempi composti
dell' indicativo. Senza
dire delle etimologie
e dei ravvicinamenti nuovi
se non sempre
esatti disseminati per entro
la Giunta; ne
della trattazione incidentale
delle altre parti
del discorso (vicenomi,
sostantivi, aggiunti, verbi,
segnacasi, congiungimenti, schiamazzi). Ma
tutti questi accertamenti,
come si vogliono
.chiamare, positivi, veri
in gran parte,
non sono propriamente quel
che iS8 Storia
della Grammatica costituisce
il principal merito
del Castelvetro; questo
è soprattutto, in linea
generale: i" sulla
conoscenza quasi completa
del materiale linguistico
di studio, che
si può dire
che non c'è
forma, non dico
d'articolo, ma verbale
dell'antico e del
moderno italiano (senza distinzione
di dialetti toscani,
meridionali e lombardi) che
il Castelvetro non
conosca, o mostri
di conoscere, come
si può vedere
da un confronto
con le forme
studiate nella Grammatica
del Meyer Li'ibke;
2° il metodo
dell'indagine, arieggiarne nella sua
naturale e parziale
imperfezione, quello che
informa la moderna filologia:
è poco dire
che il Castelvetro
muove sempre dalla
parola latina e
che si serve
della comparazione (estesa
al greco e
all'ebreo, oltre che
al provenz. e
al francese): egli
ha anche altre
virtù, come quella
essenziale di porre
la fonetica a base
d'ogni sua ulteriore
ricerca; 30 il
metodo della trattazione: abbiam visto
che, a proposito
de' verbi, p.
es., eglb muove
dallo stabilire le
coniugazioni, poi, tempo
per tempo, studia le
desinenze delle persone,
e la formazione
de' tempi e
de' modi, con l'
illustrazione degli esempi
ricca e varia.
In linea particolare :
i° l'importanza data
2W accento: 2"
la funzione della
legge de\Y analogia.
Qui anzi, più
che in qualunque
altra parte, per
noi è il
merito principalissimo del
Castelvetro. L'importanza dell'accento
non era stata
ignota neppure al
Fortunio, come vedemmo:
di fonetica ammirammo
la competenza nel
Tolomei; ma l'analogia,
prima di Castelvetro,
era un fatto
pressoché ignoto ai
nostri grammatici: e
anche sorprende di
meraviglia il modo,
se non sempre
sicuro e preciso,
sempre però acutissimo,
che il Castelvetro
usò nell' applicarla nella
spiegazione delle forme.
Col Castelvetro fa
un passo notevole
non solo la
grammatica storica, ma la
metodica e la
precettistica: egli nelle
parti che elaborò
e con tutte
le sue manchevolezze
è il grammatico
più completo, per
larghezza d'indagine e pel metodo,
non solo di
tvitto il Cinquecento,
ma di tutto
il periodo anteriore
alla moderna filologia. Il
che vuol anchedire
che non solo
le sue ricerche non
furono proseguite e
fecondate sistematicamente, ma
che, salvo forse
pel Salviati e
pel Buommattei, che
pure si deve
confessare che non
seppero in tutto
profittarne, avemmo certamente un
regresso: un regresso
rispetto s'intende a
(pul ehe, nel
terreno puramente empirico,
si suol chiamare
progresso. Nella polemica
originata dalla Canzone
de' Gigli d'oro
e chiusasi con
la pubblicazione postuma
della Correzione del
Ca Capito/o sesto
1S9 stelvetro all' F.r colano di Varchi,
l'esaminata Giunta castelvet
rina alle Pi
ose del Bembo
è, piti che
una parentesi o
una digressione, un assalto
di fianco da
schermidore destro e
coraggioso: codesto scritto pare
ed è, di
fatto, rivolto ad
abbattere l'edifìcio grammaticale
tanto ammirato del
Bembo, ma il
fine dell'affrettata e
parziale pubblicazione, non
v'ha dubbio, fu
quello, come ha
bene intuito il
Cavazzuti, di mostrare
al Caro e
compagni la soda
e straordinaria dottrina
filologica dell'autore. Abbiam visto
se un tal
fine fu conseguito
e con (pianto
buon aumento della
scienza grammaticale. Dobbiamo
ora vedere se
Y Er co latto di
Varchi, nato ed
elaborato nel modo
che si sa,
portò a codesta
scienza un ugual
contributo. benedetto Varchi
fu tutt'altro che
un meschino e
puro grammatico: è
nota la risposta
data al Celimi
che l'avea pregato della
revision della Vita,
piacergli più il
simplice discorso di quell'opera,
in quello stile,
che essendo rilimato
e ritocco da
altrui . Ed
è la l'ita
il capolavoro più
sgrammaticato che abbia la
nostra letteratura, e
forse non la
nostra soltanto. In una
di quelle lettere
dirette allo Strozzi,
che, come benissimo
ha dettoli Manacorda,
racchiudono come un
piccolo trattato di
propedeutica allo studio
delle umane lettere
, quanto a'
conienti, lo confortava,
non solamente a non leggergli,
ma a non
gli havere pure
in vicinanza, non
che in casa,
salvo Donato sopra
Terentio et Virg.
et Servio sopra
Vir. et simili;
dico simili, ciò è
che non siano
moderni d' hoggi,
perchè Asconio sopra
Cicerone è divino,
et volessi Dio
si trovassi tutto,
e '1 Vittorino
sopra la Rettorica
di Cic. non
solo si può,
ma si clebbe
leggere: io intendo
i commenti: il
Beroaldo, il Pio,
Ascensio et tutti
gli altri simili
veneni et pesti,
et se peggio
è che peste
et veneno, che sono da
sbandire non meno
che i gramatici. L' Ercolano dialogo
di M. Benedetto
Varchi nel quale
si ragiona delle lingue
ed in particolare
della Toscana e
della Fiorentina. Culla
Correzione ad esso
fatta da ///esser
Lodovico Castelvetro; e
colla Varchino di
///esser Girolamo Muzio.
Impressione accuratissima come
si può vedere
nella seguente Prefazione.
In Padova, Appresso
Giuseppe Cornino. Benedetto
Varchi, l'uomo, il
poeta, il critico,
Pisa, 1903, (Estr.
dagli Annali della
R. Scuola Normale
di Pisa.Carte Strozz.,
e. 95, in
Manacorda. Varchi fu tra
i più enciclopedici
de' letterati del Rinascimento.
Critico, ripete con
Manacorda, poeta, storico,
filosofo, in quasi
tutti i rami
dello scibile umano
diede prove della
mirabile sua operosità
. Si procurò
una discreta conoscenza delle lingue
antiche e moderne;
ebbe cultura giuridica
e artistica; ma,
come la sua
cultura, se pur
svariata, non fu
profonda, così la
sua erudizione fu
pedantesca, grave, spesso
non ben digesta.
Forse il meglio
che produsse fu
nella critica letteraria e
nella poetica: dalla
monografia dello Spingarn
s'argomenta che non fu
solo un divulgatore
della Poetica aristotelica, ma fissò
dei canoni nuovi
ed ebbe qualche
veduta modernista non in
tutto trascurabile: ma
resta sempre vera
l'affermazione del Manacorda che
la critica letteraria
del Varchi portò
in sé il
gran difetto d'essere
applicazione rigida sempre
e inflessibile di principi,
che avrebbero dovuto
intendersi con molta
larghezza D'altra parte non
la palesa matura
la tendenza a
voler costringere entro
limiti troppo precisi
le manifestazioni letterarie
anche più complesse,
a considerare l'opera
d'arte semplicemente qual'è, non
quale s'è formata.
L'opera più importante
del Varchi, una
delle più importanti
fra le migliori
trattazioni cinquecentesche sulla
lingua, sia o
no, come s'afferma
dal D'Ovidio e si nega
dal Manacorda, un
capolavoro, è V Ercolano.
Esso, nella sua
parte essenziale, è
veramente, come il
Manacorda l'ha definito, una
trattazione compiuta (s)
de' tre punti
del problema a
cui principalmente si
riducono tutte le
questioni per tanto
tempo dibattute: l'origine,
la struttura e
l'apprendimento e l'uso
della nostra lingua,
con l'immancabile preambolo
metafisico circa l' origine
della favella e
la classificazione dei linguaggi.
A non ripeter
cose per noi
non più nuove,
ci basti qui
ricordare che il
Varchi fu un
sostenitore della fiorentinità (che esaltò
anche sul greco
e il latino)
sia nel rispetto
storico che pratico,
d'una fiorentinità scelta
ma rinfrescata via
via nell'uso de'
meglio parlanti e del popolo
{letterati, idioti, (Da
vedere per la
storia degli studi
romanzi: De Benedetti,
B. V. Provenzalista, Torino,
(Estr. dagli Atti
d. Acc. delle
scienze di Torino;
ma v. tutto
il riassunto del
Dialogo. iqi non idioti)^
e la propugnò
specialmente contro il
Trissino, giovandosi indubbiamente
del Dialogo cK-1
Machiavelli, che però
non cita, come
e pel preambolo
e per la
rassegna de' quattordici volgari italiani
ebbe ricorso al
trattato dantesco. Di
esso a noi
interessa la parte
strettamente grammaticale, la
quale, anche col
complementi! di altre
scritture linguistiche del
Varchi, come le
due Lezioni di
lingua, il Discorso
sopra le lingue,
la Lettera a*,
la Lezione sul
verbo farneticare (a
tacer della Grammatica
provenzale, versione del
Donato provenzale^, e
il frammento del
Trattatello ms. delle
lettere e dell'
alfabeto toscano (*), non è davvero
un gran che:
anzi, non solo
a confronto della
Giunta castelvetrina, ma
di altre grammatiche
anteriori, non rappresenta
alcun progresso, se
non in quanto,
allargando la trattazione
linguistica e sollevando
l'importanza del problema,
riscalda e tiene
vivo il dibattito
e prepara il
trionfo del fiorentinismo : che,
del resto, non
solo il suo
naturale carattere empirico, è,
dirò troppo empirico,
ma non contiene
alcun elemento storico.
Che ci sembra
strana cosa assai.
Forse la sua
tendenza più filosofica
che filologica, il suo guardar
l'arte e il
linguaggio più attraverso
i canoni aristotelici
e rettorie! che
non nella loro
vita reale, lo
distolse dal ricercare
nella parola le
leggi della sua
formazione storica: il
certo è che,
come nella parte
generale della grammatica
non disse nulla
di nuovo ne
di originale, così
nelle parti speciali,
a prescindere da
un certo contributo
che reca all'arricchimento del
Vocabolario, col registrare
parole e locuzioni raccolte dalla
viva parlata, non
fu più che
un osservatore comune. La GRAMMATICA RAZIONALE O RAGIONATA è, per VARCHI (si veda), una
facilità o disciplina come la
Rettorica, la Logica,
la Storia e
la Poetica, che FA
PARTE DELLA FILOSOFIA. Solo per traslato puo dirsi scienza od arte,
ma non è
l'una cosa né
l'altra, perchè l'arti e
le scienze fan
parte della filosofia e
la superano quindi
in nobiltà. Dovendosi
d’ogni disciplina ricercar
sempre il subbietto
ed il fine,
si dice che subbietto
della grammatica è IL FAVELARE. Fine: 'l'insegnare
FAVELARE RETTAMENTE. Più propriamente
tuttavia lsu subbietto
la dittione, cioè le
lettere, le sillabe
e le parti
del discorso. Nelle ('i Biadexe,
in Studi d.
FU. rovi.. Ili 1SS5.
Manacorda. prime dovranno considerarsi
il numero, il
nome, l'ordine e
la figura (la
rappresentazione grafica): nelle
seconde il numero,
l'accento, lo spirito
e il tempo.
Le parti del
discorso poi sono VIII.
Quattro sono DECLINABILI: Nome, Pronome,
Verbo e Participio. Quattro sono IN-DECLINABILI: Preposizione,
Avverbio, Interiezione e
Congiunzione. Ciascuna delle
declinabili presenta naturalmente
vari accidenti, come sarebbero:
genere, numero, caso,
persona, e cosi via
discorrendo. Manacorda, che ha
riassunto la parte
generale della trattazione grammaticale sparsa
nell' Ercolano e altrove,
dopo aver ricordato
la definizione e
le classificazioni della
grammatica e la
funzione attribuitagli da
Varchi, gli ha
fatto merito d'aver
riconosciuto, meglio che
non fa Bembo,
il valore speciale di
ciascuna delle parti
declinabili. Ma tra Bembo
e Varchi corre
quasi un quarantennio
di produzione grammaticale, nel quale
c'è stato chi tratta delle
parti del discorso
con maggior compiutezza
di Varchi. Anche
nell'escogitazione dell’alfabeto rimasta
ms. non sappiamo
vedere nulla di
notevole, tranne appunto
la riconosciuta importanza della
rappresentazione grafica delle
parole, che non è
ormai più un
merito particolare. Nei
punti specialissimi poi, come
sarebbero quelli indicati
da MANACORDA (si veda), e cioè
gl’articoli, gl’affìssi, i
gradi degli aggettivi,
il valore dell’etimologia, troviamo
ragioni più di
sorpresa che d'ammirazione. Mentre Castelvetro
fa le scoperte
che abbiamo dovuto veramente ammirare,
Varchi non sa
osservar altro che LA
LINGUA VOLGARE HA GL’ARTICOLI I QUALI NO HA LA LATINA, ma
sibbene la lingua grecia, i
quali articoli sono di grandissima importanza, e
apparare non si possono,
se non nelle
citile, o da
coloro clie nelle
zane, cioè nelle cune,
apparati gl’hanno, perchè
in molte cose
sono diversi dagli
articoli greci così prepositivi,
come suppositivi; e in
alcuni luoghi, senzachè ragione nessuna assegnare se ne possa, se
non l'uso del
parlare, non solo
si pos [ i1) Op.,
II, 796 e
passim e Lett.
a * in
.Manacorda. Ecco l'alfabeto proposto
da Varchi: a b e (ten.) eli
fasp.i d e
(chiuso) è (aperto) f g tenue
gh (aspirato g molle i voc. e
consonante, o ver
liquida), ! m
u (> 1
chiuso, lungo) o
(aperto, tonda) p
qu r s dura s molle /
u (voc.) V consonante v liquida z zeta
dolce Z aspero. .Manacorda] sono, ma
si debbono porre.
E quando osserva che “ del” e “al” NON sono
articoli, ma segni
de' casi, fa
esclamare. Questa vostra lingua
ha più regole,
più segreti e
più ripostigli, che io
non avrei mai
pensato! Nulla sa della legge dell'accento né dell'analogia. Ognuno pronunzia
nel numero del
meno. Io odo, tu
odi, e in quello del
più. Noi udimo, ovvero
udiamo, voi udite;
ma ognuno non
sa (neppure Castelvetro?) perchè “vo” si muti
in “u.” Similmente, ciascuno pronunzia nel
singulare. Io esco, tu
esci, e nel
plurale, noi uscimo,
ovvero lisciamo, voi
uscite, ma non
ciascuno sa la
cagione perchè ciò
si fa, e
perchè nella terza
non si dice “udono” ma “odono”,
e non “uscono” ma
“escono.” Buona, quando è
positivo, si scrive
per u liquida
innanzi Vo; ma
quando è superlativo, non si
può, e non
si deve profferire,
né scrivere buonissimo, COME FANNO MOLTI FORESTIERI. Ma bisogna
per forza scrivere, e
pronunziare bollissimo senza
la u liquida
(:t). Per dimostrare la ricchezza di
lingua meravigliosa fa
un interminabile trattato degl’affissi,
intorno ai quali
già tanto a
lungo vedemmo indugiarsi Bembo, ma
non riuscendo ad
altro che a
fare infinite combinazioni
di forme e
radici verbali con
particelle pronominali da
servire per ottimo
esercizio di scioglilingua. In
luogo del vocalismo
e del consonantismo, tratta così,
sull'esempio di Bembo,
Dolce ed altri, le
qualità fonetiche delle parole
e delle sillabe. Tutte le
lingue sono composte
d'ORAZIONE (Grice: SENTENCE),
e l'orazioni di PAROLE
(Grice: WORD), e le
parole di sillabe, e
le sillabe di
lettere, e ciascuna
lettera ha un
suo proprio, e particolare
suono diverso da
quello di ciascuna
altra, i quali
suoni sono ora
dolci, ora aspri,
ora duri, ora
snelli, e spediti, ora
impediti, e tardi,
e ora d'altre
qualità quando più,
e quando meno. E il
medesimo, anzi più,
si dee intendere
delle sillabe, che di cotali
lettere si compongono,
essendone alcune di PURO
suono, alcune di
più PURO, e
alcune di PURISSIMO,
e molto più
delle parole, che
di sì fatte
sillabe si generano,
e vie più
poi dell’orazioni, le
quali dalle sopradette
parole si producono ;
onde quella lingua è più
dolce la quale ha
più dolci [Vi IJ
Er colano.] parole, e più
soavi orazioni. Dunque la
dolcezza delle lingue
nella dolcezza consiste
delle orazioni. E
seguita così a
parlare delle tre dimensioni
delle sillabe : lunghezza,
altezza o profondità, e
larghezza. Di questo
spirito rettorico è
tutto pervaso ERCOLANO (si veda), il
quale deve la
sua celebrità, non
solo alla storia
della controversia in cui
venne a trovarsi
episodio importantissimo, non
solo a certe
sue qualità formali
di stile e
di classica struttura
e larghezza di
variata esposizione, non
solo a qualche
indubbiamente ammirevole intuizione,
ma soprattutto a
una felice contemperanza di tante
argomentazioni altrui a
prò della tesi
che dove poi
esser ripresa e
fatta trionfare, in
quel che è possibile,
da MANZONI (si veda) e
al lucido e
elegante riassunto delle
teoriche dell’elocuzione quali sono
lungo il
secolo eloborate. Nessun valore
scientifico nella trattazione
concreta di tutte
le questioni linguistiche
connesse a codeste
tesi. Ma per la
scienza non è
del tutto trascurabile
il (significato e
la tendenza della
difesa che Varchi
fa del volgare
e della sua
letteratura, che è
un'altra più profonda
affermazione d'una coscienza
critica dell’importanza e dell’indipendenza artistica
di esso dalle
antiche letterature, e
spiana la via al
trionfo che specialmente
per opera di Salviati
avrebbe ha il
fiorentino nell'elaborazione della
grammatica. Le vicende
d’Ercolano non sono
certo ingloriose. Ha ristampe
e commenti e
postille, ma le
scritture più celebri
che ad esso
si congiungono direttamente
sono la Difesa
d’ALIGHIERI di MAZZONI (si veda), la
Correzione di CASTELVETRO (si
vda) e la Varchina
di MUZIO (si veda). Ma
grammaticalmente, com'è naturale,
poco o nulla
c'è da raccogliere
sia nelle postille,
sia nelle opposizioni,
data la scarsezza con
cui è trattato di
grammatica propriamente detta neh' Ercolano stesso.
La tartiniana di Bottari,
la cominiana diSeghezzi,
la milanese di Mauri, la
fiorentina del Dal
Rio, quella che fa
parte delle Opere
di Varchi, tra
l'altre. Bottari, Seghezzi, Mauri,
Dal Rio, Alfieri,
Tassoni, Volpi. Mi
meraviglio non poco
di lui, dice
Castelvetro (Cor)e:., che
avvilendo tanto la
materia della mia
disputa, nobiliti tanto
quella del presente
suo Dialogo delle
Lingue, dove non si
parla, co- [La parte
più notevole che e' interessa
della Correzione, fatta
astrazione, s'intende, da
questioncelle minute di
linguistica, è quella che
concerne Y etimologia. E
facile immaginare quel
che poteva osservare
l'autore della Giìinta
al filologo n>iatica
cese (e tedesca)
raffrontate alla nostra:
comparazione non ispregevole
e di cui
piacemi dar qui
un esempio. Nello
spagnolo: i. talvolta
/ non si
pronunzia; 2. //si
pron. come il
gì del nostro
egli; 3. nn
si pron. come
il nostro gn ;
4. lo j
si usa pel
nostro ii e
si pronun. come
il g del
nostro seggio; 5.
x si pron.
come se del
nostro sciocco, ecc.
Nel fraticese: 1.
ai ora si
pron. a: lignaige
pr. lìnnage, ora
£.• satisfaire, pr.
satisfere. 2. ajy
si pron. £:
z^raj/, wumenlo sopra
alcuni versi della
Cometa del /J/7
dove anco si
dimostra la nobiltà
e Capitolo settimo
217 Il Sai
viari occupa un
posto notevole anche
nella storia della
poetica: ma il
vero suo regno
fu la grammatica,
dove potè meglio
sfoggiare tutta la
sua vasta e
minuta erudizione linguistica.
L'impulso all'opera principale
e maggiore in
tale campo di
studi gli venne
dalla correzione del
Decameron (1582) che
gli fu commessa dal
Granduca Francesco di
Toscana, per compiacere
a Sisto V,
entrambi mal contenti
che i Deputati
alla correzione del
73 non avessero
castrato a bastanza
e a dovere
il grande novelliere
fiorentino. Il Decameron
fu da quanto
il Canzoniere e
ancor più nella
seconda metà la
bibbia grammaticale del
Cinquecento, poiché offriva il
miglior modello di
prosa numerosa secondo le
teorie rettoriche che
si venivano svolgendo:
e le ristampe
più o meno
corrette e le
correzioni che se
ne fecero per
ridurlo a edificante
universal lettura, dimostrano
quanto viva fosse
la fede nella
forma esteriore di
quel libro veramente
per il rispetto
dell'arte maraviglioso, e qual
fosse il credo
grammaticale di quell'età, come anzi
fossero andati in
generale sempre più
restringendosi i criteri linguistici
e grammaticali del
secolo a mano
a mano che quella forma
accresceva intorno a sé l'ammirazione, nonostante
il progredir della
grammatica storica e
l'allargarsi del giudizio
critico e certe
parziali intuizioni della
vera natura del
linguaggio. Il meglio
che e ristampe
e correzioni produssero
nel campo linguistico-grammaticale furono,
oltre varie osservazioni
del Borghesi e
del Castel vetro,
giustamente aspri censori
delle storpiature del
Ruscelli, da un
lato le Annotazioni
dei Deputati alle
correzioni del 73,
dall'altro gli Avvertimenti
del Salviati. la
vera pronuncia della
lingua italiana, Venezia,
1579; Alberto Bissa,
Gemine della lingua
volgare et latina
( dotte locutioni
e modi eloquenti di
parlare usati da più illustri
: la parte
latina è indipendente
dall' it. (Milano,
Pacifico Pontio); Institutiones
linguae italìcae cum
interpretatione gallica in
gratiam exterorum, opera
et sedulitati Lentuli
Scipionis neapolitani, Antonii
Francisci M addii f.
Patavini editio postrema, Patavii,
1641 (La lettera
del Maddi. Il
Fontanini ricorda due
opere perdute di
natura etimologica, l'una di
Niccolò Eritreo, Lo
Stoico, Dialogo delle
origini della nostra
lingua volgare, l'altra,
Seminarla linguae vertiaculae
di quel Celio
Calcagnimi che, contrariamente a
quanto sosteneva li
Salviati circa l'eccellenza
del volgare, in
un lavoro indirizzato
al Giraldi Cintio....
manifesta, fra l'altro
la speranza che
la lingua italiana
e tutte le
opere in essa
scritte vengano dimenticate
dal mondo. (Spingarx). Di quelle
già il Lombardelli
ne' suoi Foriti
ebbe ad osservare
che arrecano in
mezo avvertimenti diversi
intorno alle voci
et alle forme
del dire, che
possono in gran
maniera giovare a
chi vuol da
vero, e solennemente
studiare in questa
favella: perchè son
guidati con fondamenti
saldi, con ragioni
isquisite, e con
esempi notevoli .
Le Annotazioni furono
nella massima parte
opera di quel
Vincenzio Borghini che
è stato ben
a ragione chiamato
il principe de'
critici (critici nel
senso di editori
di testi) e
eruditi del Cinquecento
, e interessano
così direttamente il
linguista come il filologo,
contenendo osservazioni di
lingua e di
grammatica storica e
pratica illustrate dalla
comparazione di esempi
perspicui quasi sempre
criticamente vagliati. Vincenzo
Borghini fin dal
1569 aveva avuto
in animo di
scrivere un trattato
sulla lingua, che
né la Difesa
del Lenzoni né
la Grammatica del
Giambullari erano tali
da sodisfar i
Toscani e ridurre al
silenzio gli avversari:
anche dopo la
Giunta castelvetrina aveva
scritto al Varchi
non aver nessuno
sino allora aperta la
natura della lingua
italiana. Quando arò
parlato dell'origine, sito, edificazione,
territorio, et altre
particolarità di Firenze, e
risposto alle opposizioni
e contradizioni che
ci son del
Mei e d'altri
e che ci
potessero per avventura
essere, et a
questo proposito tocco
tutto che bisogna,
della cittadinanza romana,
delle colonie, delle
legioni, delle divisioni
de' terreni e
molte altre cose,
venire a parlare
di questa lingua,
ove ho questi
capi: onde ella
è nata e cresciuta, che
ella è nostra
propria, perchè è
sì bella, e
della sua qualità,
ultimamente il modo
di conservarla e
liberarla dalle forestiere
che la imbrattano
e guastano. Sicché,
quando il Granduca ordina una
compilazione delle regole
della lingua fiorentina
da leggersi in
tutte le scuole,
Borghini fa plauso
con gioia al
magnifico decreto e
scrisse a B.
Baldini, suggerendo con- [Per
la stima in che
è tenuto già da'
suoi contemporanei BORGHINI (si veda), si ricorda qui le
parole che, quanto
all'edizione del Decameron,
scrisse Corbinelli in
una delle sue
lettere già ricordate
al Pinelli. Quel che
non ha fatto
a sufficienza Don
Yinc." Borghini non
credo il possa
fare [non che
il Salviati] altri,
in Ckkscim. Quitti., Naz.
Firenze, cit. in
Barbi, Degli studi
di V. Borghini,
sopra la storia
e la lingua
di Firenze [Il Pr
optigli.), di cui mi giovo
per questi cenni
intorno al Borghini.
Capitolo sei ti
ìlio 219 sigli:
si deputassero alla
bisogna tre o
quattro intendenti con
facoltà ili aggregarsi
de' giovani. Nel
1574, come l'ordine
granducale non aveva avuto
effetto, tornava al
proposito di far
della lingua un
trattato a sé. La conoscenza
dei precedenti grammatici (dei quali
taceva molto stima
del Bembo, corifeo,
che giudicava però scarsetto;
il Giambuilari non
gli pareva molto
gagliardo né sicuro; migliore
il Varchi, ma
non finito; il
Tornitane bisognoso d'essere burattato;
il Castelvetro non
meno sottile che sofistico
nelle sue prose
contro il Caro
e il Bembo:
Dubio non è
che la sua
dottrina non è
generalmente sana. Io
dico in conto
di lingua, ma
dall'altra parte e' non manca
di letteratura ; ha
visto assai e
non è privo
d'acume, e può
essere sprone a
far considerar molte
cose; il Ruscelli,
vano, pochissimo intendente di
lingue; nomina il
Fenucci, il Dolce,
l'Acarisio, Fortunio, il
Corso, il Gabriele,
il Muzio, il
Trissino), la conoscenza,
dico, di tutti
i precedenti grammatici
e gli studi
larghi fatti in
specie per la
rassettatura del Decamerone
e del Novellino
su tutti gli
scrittori grandi e
piccoli del Trecento,
lo designavano veramente
pari all'impresa ideata
con tanta ampiezza. Ma
il trattato non
fu compiuto. Ne restano
alcuni appunti su
argomenti ne' quali
era riuscito a
esser sicuro: essere e
qualità della lingua
fiorentina; natura sua,
delle sue parti
e proprietà e
aiuti e mancamenti
(la lingua varia
in una medesima provincia e
città; l'italiana derivò
dalla latina con
le favelle degl'invasori); il
nome (non ha
casi, ma due
generi; ha gli
articoli); il verbo
(non ha passivo),
ecc. Il Borghini,
essendo sotto la
vecchia concezione della
natura del linguaggio,
che è 1
In una leti,
a Varchi del 9
maggio 1563, l'anno
della pubblicazione della Giunta
castelvetrina, fin Salvini,
Fasti Cons., cit.
dal Fontanini), lo
spronava a tirar
avanti il suo
Dialogo, lodando il
Bembo e biasimando
il Castelvetro, annunziando
ebe l'Accademia Veneziana
non sarebbe rimasta
muta. Lasciò in
vece un volume
di Lettere filologiche
e un altro
di Discorsi. In
Fiorenza presso i
Giunti, oltre, s'
intende quanto è suo
delle Annotazioni e
discorsi sopra alcuni
luoghi del Decamerone
di m. Giovanni
Boccacci, fatti dai
molto magnifici signori Deputati di
loro Altezza Serenissima
sopra la correzione
di esso B.
stampata in Fiorenza
nella stamperia de'
Giunti. Noto qui, come
testimonianza del conto
che s'è fatto
modernamente dal Borghini,
che dal suo
nome fu intitolata
una rivista filologica,
// Borghini, non
inutilmente vissuta. Storia
della Grammatica mutarsi,
crescere, abbellirsi e
peggiorare ancora, perdere
e pigliare voci
di nuovo e
simili altri accidenti
, ritiene il
Trecento il secolo d'oro
della lingua: Io
ho veduto (scriveva
nella lettera del
71 circa la
compilazione delle regole)
libri scritti fino all’anno della gran
mortalità, e scritti pur da persone
idiote e semplici,
e non vi
si trova un error
di
lingua. Havvene alcuno
intorno all'ortografia, della
quale i nostri
antichi non seppero
né curarono troppo.
Similmente ne ho veduti,
e si veggono
regolatissimamente osservate
le coniugazioni, i
numeri, i modi,
i tempi, e tutto
quello, ove oggi
si pecca assai
bruttamente. E si
conosce, che la
natura stessa o
l'uso comune, che
sia me' dire,
era in quella
età regola vera
e sicura. Si
comincia a trovare
qualche errore, ma
non tanti e
un pezzo quanti
oggi. Ella da un
gran tracollo, e
di questo tempo
in qua è
venuta di mano
in mano talmente
peggiorando, che quasi
si può dir
guasta in alcune
sue parti, che
quel tutto buono
e come naturale
corpo del vero e puro
toscano si è
per sempre mantenuto.
Oltre a questa
classificazione de' pregi
della lingua per
cinquantenni, il Borghini
ne faceva un'altra
per gradi: prosastica
e poetica; nobile,
media, plebea ecc.
Così anche la
lingua, come la
poesia, era rigorosamente chiusa nel
codice delle regole
più assolute e
ristrette: a tale che
la grammatica diremo
degl'Italiani, che aveva
preso a fondamento
l'uso letterario non
pur del Trecento
ma del Cinquecento, quando si
trova e vi si trova spesso in
discordia con l'uso
fiorentino, qual era
consacrato nel Decameron, veniva senz'
altro combattuta e
ripudiata. Cosi avemmo
una singolare reazione
contro la grammatica
da parte di
quegli stessi che
vi dovevan necessariamente credere.
A questo menava
la correzione del
testo del Deca?neron,
ch*e col criterio
dell'uso comune s'era
venuto guastando dall'edizione ventisettina per
tutto un cinquantennio
e che ciascuno
aveva tirato a
documentar quelle regole
che meglio gli
piaceva di porre.
I Toscani, e
specialmente i Fiorentini,
non potevano lasciar
correre tanto strazio,
e benché anch'essi
fossero credenti nella
grammatica, tra la
grammatica e il
Decameron, stavano per
questo, naturalmente, e
non si stancarono
mai di ripetere [In
Barbi, op. e
loc. cit. Capitolo
settimo che le
regole furori sempre
cavate dall'uso naturale,
e non l'uso
da quelle (l).
Gli Annotatori all'edizione
del 73 si
giovaron perfino de'
notai di que'
tempi, la grammatica
[intendasi il latino] de'
quali era poco
meno che un
semplice corrente volgare che
finisse in us
et in as.
Così parallela a
quella del purismo
grammaticale, vediamo svolgersi
in Toscana e particolarmente in
Firenze una tradizione
che potremmo chiamare
del purismo antigrammaticale, o
che intanto accettava la
grammatica in quanto
essa rispecchiava fedelmente
l'uso popolare trecentesco,
che era quello
seguito dal Boccaccio
e dagli altri
trecentisti e risonava
ancora, salvo qualche
modificazione di pronunzia, sulle
bocche de' Fiorentini.
Tutto era ridotto
all'uso, appo il
quale è tutta
la balia, anzi,
che direni meglio,
il quale è
la balia, la
ragione e la
regola del parlare.
A proposito d'un
esempio di quei
molti ' AvavóXofìa
o ' Avavranóbara ond'è
pieno il Decameron,
gli Annotatori escono
in questa osservazione: Quegli
che volsono fuggire
questo o figurato
o vizioso parlare
che e' sia,
e che pur
hanno fitto nell'animo quello ' Ego amo
Deum delle prime regole,
mutarono Il quale
in Del quale,
e cosi appianarono
questo scoglio. Queste
sono dichiarazioni gravi
contro la grammatica, e
Annotazioni e Discorsi
sopra alcuni luoghi
del Decameroti di
M. Giovanni Boccacci,
fatti da' Deputati
alla correzione del
medesimo. Quarta edizione
diligentemente corretta, con
aggiunte di Borghini, e con postille
del medesimo, e di A.
M. Salvini, riscontrate sugli Autografi
ed emendate da
gravi errori. Firenze,
Felice Le Monnier. È
anche notevole quel
che dicono dell'analogia: è
una cotal regola
che va dietro
al simile, e
suol esser il
riparo di chi
è straniero in
una lingua, o
sa poco della
propria natura .
(4) Op. cit.,
p. 70. In
questo stesso luogo
si conclude così:
Noi in questi
luoghi tutti abbiamo
fedelmente mantenuta la
lezione dei migliori
libri, amando in
questo più la
verità, che o
la facilità di
quel parlar così
piano, o la
stitichezza di certe
regole, che più
servono, chi ben le
guarda, a lingua
composta e artificiata,
che a naturale e
propria. Altrove la
lingua è assomigliata
a un mare
p. 91). Oltre
le già addotte,
eccone un'altra: E generalmente nelle
voci del tempo,
et in quelle
del luogo, non
è molto scrupolosa,
né tanto fastidiosa
la lingua nostra,
quanto per avventura
alcuni troppo sottili
si credono, che
lutto il di
cercarlo di legarla,
e (direni cosi)
impastoiarla stranamente. Del resto
si può dir
che queste tanto
ammirate e ammirevoli
Annotazioni siano una
protesta conti Storia
della Grammatica devono
essere ricordate per
non mettere tutti
in un fascio
i puristi del
Cinquecento. S' intende, anche
codesti franchi assertori dell'uso, erano
sotto l'imperio delle
regole: seguire il
Boccaccio perchè era
stato il Boccaccio,
era una regola
anche più grave
de\Y Ego amo Deiun;
ma il Boccaccio
era più vicino
ad essi, che
certi regolatissimi prosatori
del Cinquecento, e
stavano con Boccaccio. Non
solo, ma essi
riuscivano all'annullamento
della grammatica anche
per un'altra strada.
Per loro ogni
forma adoperata dal
Boccaccio diventava legge:
ora a far
d'ogni più piccolo
fatto linguistico una
regola, la grammatica
veniva ad annullar
se stessa in
questa sterminata selva
di regole e
il buon senso
era vendicato. E
tra le Annotazioni
del Borghini, gli
Avvertimenti del Salviati
e le osservazioni
del Borghesi, il volgar
fiorentino veniva a
esser codificato e
preparato così per
il travasamento nel
Vocabolario della Crusca.
Gli Avvertimenti nel
Salviati erano stati
concepiti in tre
parti, ma videro
la luce solo
il i" e
2" volume. nuata
contro la grammatica,
tendendo esse a
giustificare l'uso del
Boccaccio, sia stato
o no ratificato
dalle grammatiche cinquecentesche. E si noti
che la giustificazione non
è fatta sempre
con la ragion
dell'uso, ma spesso s'appoggia
a considerazioni anco
artistiche. Citerò un
esempio per tutti.
In Landolfo Luffolo
è detto: Venutagli
alle mani una
tavola ad essa
si appiccò, se
forse Iddio, indugiando
egli lo affogare,
gli mandasse qualche
aiuto. Alcuni interpreti
avevan interpolato sperando avanti
a se forse
Iddio. Orbene, gli
Annotatori, restituendo,
sulle testimonianze d'altre
simili costruzioni, il
testo antico, osservano:
Queste locuzioni così
un pochetto rotte
(che in somma
son proprie di
questa lingua) danno
talvolta più grazia,
e mostrano più
forza, e fanno
il parlar più vivo, come
poi avviene; dove
questa costruzione non
così piana e
facile, ma alquanto
alterata {alterata però
quanto e a
que' che vorrebbero
le locuzioni sempre
a un modo,
e quelle senza
industria o cura
nessuna), scuopre più
l'affanno e periglio
del misero Landolfo,
e par quasi
(per dir così)
che fortuneggi anch'ella
, pp. 88-9.
Non è critica
neppur questa, ma
per lo meno
vi si avverte
lo sforzo di
penetrar la visione
dell'artista senza la
mediazione della grammatica.
1 Degli avvertimenti
della lingua sopra
' l Decamerone. Volume
Primo del cavalier
Lionardo Salviati Diviso
in tre libri:
il I in tutto dependente
dall'ultima correzione di
quell'Opera: il II
dì quistioni, e
di storie, che
pertengono a' fondamenti
della favella: il
III diffusamente di
tutta l'Ortografia. Ne'
quali si discorre
partitamente dell'opera, e
del pregio di
forse cento Prosatori
del miglior tempo, che
non sono in
istampa, de' cui
esempli, quasi infiniti,
è pieno il [La
correzione fu fatta
nel 1582 e
fu edita non
senza notizie grammaticali:
gli Avvertimenti sono
il necessario svolgimento
di esse. Noi
ci restringeremo qui
a toccar delle
questioni generali che
più e' interessano
e a esporre
il metodo grammaticale
del nostro e
a dar conto
dello sviluppo del
corpo della grammatica
precettiva, sebbene il
Salviati tratti solo
delle regole a
cui porge occasione
il Decameron, lasciando
da parte quanto
si riferisce alla
critica del testo
e all'ermeneutica boccaccesca.
Vedemmo come Gelli
rinunziasse a dettar
le regole del
volgare e ne
dimostrasse l'impossibilità. Pare
non sia stato
solo a sostener
questa ragionevole tesi,
perchè il Salviati
al principio del
secondo libro del
primo volume s'indugia
a confutar gli
argomenti di alcuni che
tolgono alle lingue
vive il ristringnerle, con
ammaestramenti raccolti in
iscrittura, sotto alcuna
ferma regola. Gli
argomenti addotti da
quei tali, erano:
1. vivendo la voce
del maestro, ciò
si è il
popolo, che la
favella, quella fatica
è soverchia; 2.
la cosa esser
vana, perchè il
popolo, non tollerando
che gli sia
tocca la sua
giurisdizione, seguita a parlare
a modo suo;
3. quand'anche si
potesse dettargli legge, l'effetto
non potrebbe esser
che dannoso. Noi
non ci fermeremo
neppure a -notare
quanto sien giudiziosi
siffatti argomenti, per quanto
non si vedano
fondati in una
tesi filosofica; e
indicheremo il pensiero
del Salviati, il
quale non può
non riconoscere che quelle
sian belle ragioni
e che hanno
forse dell'efficacia ; ma
tuttavia, guardandole con
alcune distinzioni, crede
di potere e
dover giustificar la
grammatica così: si
tratta non di
formare, ma di
raccoglier le regole
per conservar i guadagni fatti,
in modo che,
deteriorandosi la favella,
tutto non sia
andato perduto. Né si
lega per tutto
ciò, come essi
dicono, le mani
al volgo, o
se gli mette
quasi la museruola;
ma tuttavia lasciandolo
nella sua libertà,
si pone in
sicuro il guadagno,
che s'è fatto
fino allora, sì
che il tempo
avvenire noi possa
più portar via, e del
futuro se gli
lascia quasi libero
il traffico nelle
mani (p. 71).
Né la fatica
è vana, perchè
il popolo non
si può aver
volume. Oltr'a ciò
si risponde a
certi mordaci scrittori,
e alcuni sofistichi Autori si
ribattono, e si
ragiona dello stile,
che s'usa da'
più lodati. In
Venezia. Presso Domenico, et
Gio. Battista Guerra,
fratelli S" gr. sempre
appresso, né, se
ciò fosse possibile,
parla tutto a un modo.
Onde conviene prender
dal popolo il
materiale e vagliarlo
al vaglio degli
scrittori, tra i
quali, naturalmente, il
Salviati dà la
preminenza ai Trecentisti
e al Boccaccio
del Decameron in
particolare. Risorge il vecchio
concetto bembesco e
con esso tutta
la critica ammirativa
delle qualità eccellenti
del volgar fiorentino
degli scrittori dell'aureo
secolo, l'efficacia, la
brevità, la chiarezza,
la bellezza, la
vaghezza, la dolcezza,
la purità e
la semplice leggiadria. Ma è
facile notare come
l'uso vivo venga
solennemente affermato, e come sia
largo il criterio
fondamentale della grammatica. L'esempio e
l'autorità degli scrittori
sono appunto quelle
cose, che le
regole della lingua
si chiamano comunemente.
Del favellare sia
arbitro il popolo,
dello scrivere l'uso
approvato dal consenso
de' buoni: sicché
nel formar le
regole venga primo
il Boccaccio, poi
i contemporanei di
lui, indi il
popolo, il cui
presente favellar è
meno nobile di
quello del Boccacio.
Nel fondo, però,
pur con tutte
queste larghezze, il
Salviati riesce un un gran
purista. Disapprova il
parlar degli scapigliati
che non adoravano
il bembesco e
il boccaccevole stile;
cita come un
barbarismo X applauso universale
da loro usato.
Si scaglia contro
il gergo cancelleresco
cortigiano, segretariesco, contro
V autore della Giunta
che scrive al
buio volendo imitare
il Boccaccio; contro
il latino, i
latinizzanti e le
scuole di latino
che contribuirono a corrompere
il volgare. Esalta
invece le benemerenze
del Poliziano e
più di Bembo.
Toglie parzialmente agli
scrittori del buon
secolo il vanto
delle cose pertinenti
a gramaiica, e
glielo dà in
purità di vocaboli,
modi del dire,
breve, vaga e
semplice legatura. Propugna
la pubblicazione d'un
Vocabolario della Toscana
linguai^. . Indi sbozza
una storia critica
degli scrittori del buon
secolo. Conclude col
dire che la
grammatica resterà fissa sugli
scrittori del 300,
e che il vocabolario potrà
continuamente migliorare, distinguendo
tra prosa e
poesia per quanto
riguarda l'ortografia, i
solecismi ecc., al
qual punto rimanda alla
sua Poetica.] in
ultimo accenna alla
prova [Questa discussione del
Salviati fece fortuna,
perchè, staccata dagli
Avvertimenti, fu riprodotta
a parte in
una miscellanea di
Regole, di cui avremo
occasione di parlare,
in Firenze, col titolo:
Se le lingue
sien da restringer
sotto Regole e
spezialmente il volgar
nostro. Da chi
si debbano raccor
le Regole, e
prender le parole
nelle Lingue che
si favellano, con
un Sunto d'alcuni
avvertimenti dilla Lingua,
sotto il nome,
s'intende, del Salviati.] proposta dal
Varchi di paragonar
il fiorentino con
gli altri dialetti d'Italia, riportando
in fin del
volume varie versioni
italiane della novella
boccaccesca del re
di Cipro. Il
III libro svolge la
parte dell 'ortografia.
Dichiara che rispetterà
la nomenclatura grammaticale
ormai in uso
(quindi pronome, non
vicenome, participio non
partefice, congiunzione non
giuntura, esclamazione non
schiamazzio, che fa
ridere), e la
comune esposizione, forma
, cioè distribuzione
e condotta, già
ricevuta dall'uso delle
scuole, benché in
tutto non perfetta,
sacrificando il suo
particolar modo di
vedere all'utilità comune che
dalle novità sarebbe
stata frustata. Sicché
questi Avvertimenti del
Salviati, sotto questo
rispetto, ci rappresentano
il consentimento ufficiale
scolastico intorno al
corpo e allo
schema della grammatica;
anzi essi si
possono considerare la
prima vera grammatica
scolastica dell'Italia, quale
la didattica secolare
se l'era venuta
formando. Consideriamo dunque
brevemente il contenuto
speciale che il
Salviati, desumendolo dallo
studio del Decameron,
ha di suo
versato in quello
schema. Le Lettere sono
nella vista (segni)
della scrittura 21:
a b e
defghil. mn'opqrstuxz, ma
nella voce (suoni)
32. Delle lettere
h è mezza
lettera, il q
è inutile, il
k è fuor
d'uso perchè non
dolce. Confuta la
riforma trissiniana. Vocali
Q) in scrittura
son 5: a,
e, i, o,
u in fonetica
8: a, è,
é, i sottile,
i grasso, ó, ò, u.
Diltongi, 49, quanti
sono gli accoppiamenti
( distesi Es. làude
delle vocali e
sono . \
raccolti guato. Trittongi
e quattrittongi che
si possono raccogliere
in una sillaba
sola: lacciuoi. Ricorda
le divisioni di
Platone, nel Cratilo
(vocali, mezze vocali,
e mutole), ripetute
da Aristotile nella
Poetica. Nella Storia degli
animali Aristotile accenna
anche alla formazione
delle vocali dalla voce
e dal gorgozzule,
delle consonanti dalla
lingua e dai
labbri. Su questa
base fondarono retori
e grammatici latini
la loro fonetica.
Platone dice le
vocali la catena,
e '1 legame
senza '1 quale
l'altre lettere esprimer
non si potrebbero. Le consonanti
in vista son 16, semivocali,
che partono ^dall'ugola
madre delta nella
zw^, almen 25
(sauere, sapere), tra
la / e
la n (calonica,
canonica), tra la
/ e la
r (albori, arbori),
tra la /
e la d
(olore, odore), tra la /
e \\g (li,
gli articoli, quelli,
quegli, cavalli, cavagli,
salì, saglì, dolgo,
doglio), tra la
n e il
g (piangere, piagnere),
tra la r
e il d
(dierono, diedono), tra la s
e la z
aspra (solfo, zolfo),
tra la ^
e il e
(Sicilia, Cicilia), tra la ^
e la f
(sino, fino), tra
la .? e
il / (nascoso, nascosto), tra
chi e sii
(schiena, stiena), tra
la. s e
z aspre e
sottili di altri
popoli (pesso, pezzo;
strossare per istrozzare;
Orazio per Orazio),
tra la z
sottile o aspra
e il e
ora scempio ora
doppio (beneficio, benefizio),
tra la z
rozza e il
d (fronzuto, fronduto),
tra la z
e il g
(ammonigione, ammonizione), tra
il b e
il g (abbia,
aggia), tra il
b e il
p (brivilegi, privilegi),
tra eh e
ce (Antioco, Antioccio),
tra il “c”
e il “g” (“Caio,” “Gaio”), tra
il de il
g (vedendo, veggendo),
tra il d e il
/ (cadmio, catuno). Passa
poi alle jnllabe.
Qui fa una
distinzione curiosa: dice
che quel che
significa sillaba è
stato determinato dai
filosofi, e che
a dividerle insegnano
i pedagoghi, non
più; ma sarebbe stato
importante che ci
avesse accennato qualcosa
di particolare intorno alla
definizione data dai
filosofi. Chiude il
trattato parlando del
modo di scrivere
molte parole, della copula,
degli accenti, delle
maiuscole, e de'
segni di punteggiatura. Assennatissime le
osservazioni sulla punteggiatura. Ricorda le
moderne dottrine circa
la storia della
punteggiatura, inclinando a credere,
sulla testimonianza di
Aristotile, che gli
antichi punteggiassero con
minuzia. Si dichiara
soddisfatto de' punti usati
al suo tempo
, ma riconosce
che questa .:;,
? f )
cioè punto fermo,
mezo punto, punto
coma, coma, interrogativo, parentasi.
Del fermo, per
altro, fa, secondo
la necessità della
posa (pausa), quattro
specie: fermo, trafermo,
fermissimo, trafermissitno . ]materia è
meno che altra
atta a esser
legiferata, e convien
lasci.ire alla pratica
degli scrittori la
più ampia libertà,
acciocché siano ben
rese e la
tela (costruzione) e
la SENTENZIA (SIGNIFICATO)
del discorso. Rispetto,
non dico alla
fonetica di Castelvetro, ma
anche alle spiegazioni
d'altri grammatici che s'occuparono di
questa parte, non
escluso il Fortunio
stesso, il primo
di quelli editi,
questo trattato del
Salviati è certamente
un regresso, per
quanto qualche osservazione
supponga una teoria
meno empirica: se
non che, e
la giustificazione della
grammatica fatta dal
Salviati e la
relatività assegnata alle regole
di esse da
una parte, e
la legiferazione così
minuta dell'ortografia intesa
nel senso più
largo fondata su
dati storici positivi, sui
caratteri del volgare
cinquecentesco usato dal
popolo, non escluso
quello della dolcezza
e musicalità dell'idioma fiorentino, dall'altra,
assegnano agli Avvertimenti
del famoso accademico un
discreto valore scientifico
nel primo rispetto,
e, nel secondo,
un notevole posto
nella storia di
quei prodotti che
indirettamente concorsero alla
dissoluzione del loro
stesso contenuto : nella
somma di questa
duplice qualità, dunque,
il pregio di
documento principalissimo per
la nostra narrazione.
Dell'importanza data dal
Salviati alla grammatica
abbiamo già fatto
cenno. Quanto alle
osservazioni donde son
ricche le particelle
della sua trattazione,
in questo senso
noi affermiamo che
sono notevoli, che,
legiferando un'infinità di
esigenze formali dell'idioma
nostro, sviluppando quasi
all'infinito il corpo
della grammatica e
nell'istesso tempo assottigliandolo fino a ridurlo
un'ombra di sé
stesso, col fare
d'ogni minimo caso
una legge, riducono
ai minimi termini
il rigore, la
rigidità, l'inflessibilità della
legge grammaticale,
preparandone il totale
annullamento. Ho detto
esigenze formali, ma non
sono solamente tali.
Quelli che sono
stati chiamati i
criteri formalistici dei
letterati del Cinquecento
dal Bembo, appunto, al
Salviati, di fatto
erano criteri estetici
sostanziali. Gli abiti
mentali di quella
generazione di scrittori
e di critici,
il loro ideale
di bellezza, il
loro modo d'esprimere
e riflettere nel
verso e nel
discorso sciolto il
proprio contenuto, questo
stesso contenuto, conducevano
tanto chi esercitava
l'arte quanto chi
esercitava la critica
a quella concezione
della forma che
a noi può
sembrare pretta esteriorità
vuota di contenuto,
ma che per
loro era la
sostanza stessa del
loro pensiero. Il
formalismo dunque legife rancio
sé stesso, sodisfaceva
a un bisogno,
esprimeva in regole
la scarsa e
superficiale vita interiore,
che era vita
formale essa stessa,
riuscendo così a
una critica indirettamente negativa
della grammatica, dove
a noi parrebbe
di dover vedere
un rafforzamento di
fede grammaticale. In
altre parole, a
me par di
poter mettere sulla
stessa linea progressiva
il Salviati e
i migliori recenti
costruttori di categorie
grammaticali e rettoriche
a base di
psicologia, con questo
profondo divario ridondante a
tutto onore degli
ultimi, che questi
han coscienza di
quel che fanno,
cioè di fare
una critica della
grammatica, e il
Salviati no. Il
Salviati legifera gli
atteggiamenti della lingua, gli
affetti, quasi direi,
delle parole e
degli elementi di
essa (tant'è vero
che parla dell'a?nisià
delle lettere) rispondenti
alle tendenze del
pensiero; quelli descrivono
le forme in
che si concretano
i movimenti dello
spirito: in fondo
menano dritti sì
gli uni che
gli altri all'affermazione della
formula tal contenuto
tal forma, che
non dà più
luogo a grammatica,
a legge veruna
regolatrice della favella
(l). Nel secondo
volume degli Avvertimenti
("), dedicato a
Francesco Panicarola
architetto dell'arte del
ben parlare ,
tromba del nostro
secolo , tratta,
ne' primi due
libri, del nome,
deWaccompagnanome, dell' articolo
e del vicecaso;
ma quello che
fu il desiderio
de' contemporanei e,
particolarmente, del Lombardelli,
che cioè venissero
trattati con la
medesima felicità l'altre
parti, rimase inappagato,
nonostante che l'impulso
a pubblicar questo
secondo volume venisse
al Salviati e lo
dichiara nella dedicatoria con viva
compiacenza dal giudizio
favorevole dato sul [Per
questo problema fondamentale
della critica della
grammatica, si ricordi in
particolare la polemica
Vossler-Croce, originata dal
saggio di Vossler
sulla Vita del
Cellini, e precisamente:
Atti d. Acc.
Pont., Literaturblatt f.
gertn. u. rovi.
Pini., 1900, 1;
Flegrea, 1 apr.
1900; Zeitschr. f.
rom. Pliil.; La
Critica. Della polemica
fa la storia
lo stesso Vossler,
nel suo recente
libro, Posilivistmis inni
Ldealismus, già citato,
riuscendo ad un pieno
accordo con la
dottrina sostenuta dal
Croce. Cfr. anche
Rossi, Contro la
stilistica, Firenze. Del secondo
volume degli Avvertimenti
della Lingua sopra
il Decamerone. Libri
due del Cavalier
Lionardo Salviati. Il
Primo del Nome,
e d'una Parte,
che l'accompagna. Il
Secondo dell'Articolo, e del Vicecaso.
In Firenze, nella
Stamperia de' Giunti.] primo da
tre valent'huomini di
sottilissimo intendimento: il
utilissimo Cavalier Batista
Guarirli, delizie delle
belle lettere de'
nostri tempi, il
Patrizio, le cui
scritture e spezialmente
quest'ultime della Poetica,
hanno fatto stupire
il mondo, e
quel Mazzoni, huomo,
se mai ne fu alcuno,
in supremo grado
scienziato, cittadino in
tutti i linguaggi,
maestro perfettissimo in
tutte le l'acuità:
che tanto sa,
di quanto si
rammemoria; di tanto
si rammemoria, (pianto
egli ha letto:
cotanto ha letto,
(pianto oggi si
truova scritto, al
quale sia sempre,
per lo nostro
maggior poeta, obbligata
la patria mia.
Nella trattazione di
queste parti del
discorso ritornano, per
altro, le infinite
e complicate classificazioni e
distinzioni che rendono la
morfologia fastidiosa e
difficile e di
scarsa efficacia all'apprendimento della grammatica.
Il nome è
diviso secondo la
sentenza e secondo
la voce: sotto
questo rispetto, è
semplice o composto,
primitivo o derivato;
sotto l'altro sostantivo
o adiettivo: il
sostantivo è proprio
o appellativo e
questo collettivo o no; V
adiettivo è perfetto
e ha 3
gradi {positivo, comparativo, superlativo)
o imperfetto, e si divide
in 3 gruppi:
appartengono al primo
il relativo, il
rassomigliativo, il renditivo,
V interrogativo, il dubitativo,
il relativo indefinito;
al secondo il
partitivo, Y universale, il
partictdare, il distributivo,
il numerale o
denominativo; al terzo
il possessivo, il
materiale, il locale
(patria, nazione, distanza).
Ha tre accidenti:
il genere (maschile,
femminile, neutrale, comune, dubbio,
indifferente), il mimerò
(singolare, plurale o
maggiore; non duale
altrimenti ci dovrebb'esser
il triale, il
quattrale, il cinqualé),
il caso (uno
pel singolare, uno
pel plurale). Si
declina in quattro
modi: a) maschili
sing. -a, pi.
-i; b) femminili,
-a, -e; e)
comuni, -e, -i;
d) comuni, -o,
-i. L ' accompagnaìiome sarebbe
l'articolo indeterminativo uno,
una. Quasi un
cento pagine son dedicate,
al solito, alX articolo,
il cavai di
battaglia di tutti
i maggiori grammatici
del Cinquecento. Il
Salviati ne ragiona
in due pagine
con gran solennità
la definizione; polemizza
contro chi non lo vorrebbe
in italiano, non
essendoci nel latino
che è lingua
più nobile: ne
spiega la forza,
V ufficio, V opera, che
è di determinare
la cosa precisamente....e di
tutta insieme abbracciarla.
E qui spiega
un'infinità di sottili distinzioni,
indulgendo a quel
fine senso estetico formale di
cui ho parlato
più sopra. Ripiglia
la questione del
mortaio della pietra,
affermando che nessuno,
insomma, fin qui
ebbe confutato in
ptibblico il Bembo.
Neppure il Castelvetro?
Eppure spesso il
Salviati si ferma
a discuter col
critico modenese, del quale
non ha certo
la sottile e abbondante dottrina filologica né il
metodo. L'opera di Salviati suscitò
un vero entusiasmo
al suo tempo,
e il Lombardelli,
che fu quasi
sempre il fedele
interprete dell'opinione
comune, cosi ne
discorse ne' suoi
Fonti: Il Salviati
ha ritrovati i
principi, le parti
e gli ornamenti
di questa lingua;
et ha scoperto
i modi, e
le strade vere
di conoscerla, d'affinarla
e di tenerla
in riputazione. Nel
I volume scioglie
molti bellissimi dubbi; fa
la censura degli
scrittori antichi, e
tratta nobilmente i fondamenti
più generali della
lingua. Ne' due
primi libri del
II volume tratta
del Nome, Accompagnanome, Articolo
e Vicecaso, con tal
copia, e spirito,
e vivacità, e
chiarezza; che ne
fa desiderar di
veder trattate con
la medesima felicità
l'altre parti. Queste
e l'altre scritture
sue, dove si
tratta di teorica,
possono arrecar giovamento aiuto
e forza tanto
maggiormente, quanto più
fiero sarà l'intendimento di
chi si metterà
a studiarla, ed
a trarne frutto.
Non tacerò che,
a chi legge,
oltre a quel
che impara capo per
capo e parte
per parte, se
gli affina a
maraviglia il giudizio
di maniera che
può aspirare alla
perfezion dell'intender gli
Autori, del parlar
bene, e dello
scriver con lode.
Quest'affinamento di giudizio
veniva certamente prodotto
in altrui dal Salviati appunto
con quel suo
discuter parte per
parte, capo per
capo, gli esempi
addotti in gran
copia, secondo il
suo fine sentimento
formale. Di modo
che, sia per
questo sia per
esser fondata la sua trattazione
sopra la critica
e l'esegesi del
testo decameronico, cioè
sopra una base
concreta, sia ancora
per la infinita
serie di regole,
il Salviati più
che una grammatica
nel senso pedantesco
e scolastico della
parola, in questi
suoi Avvertimenti ci ha
porto un esempio
notevole della larghezza
con cui dovrebbe
esser condotto l'insegnamento grammaticale,
mentre, dall'altro canto,
ha sviluppato il
corpo della grammatica
in siffatto modo,
che il progresso
del disfacimento ne
veniva certamente accelerato. Salviati, a
cui dobbiamo anche
oltre un giudizio
alcune aii7iotazioni tra
linguistiche e grammaticali sul
Pastor fido del Marini,
Ma l'ammirazione non
fu senza contrasti.
Accennerò alla polemica
che, un anno
dopo la pubblicazione
del secondo volume,
s'accese tra il
Papazzoni e Beni.
Il primo nella
sua Ampliazione della
lingua volgare (
fondata parte in ragion
chiarissima, e parte
in autorità d'autori
principali) , rimproverò
al Salviati il
modo onde aveva
legiferato intorno alla grammatica
e la corruzione
fatta del testo
boccaccesco. Gli rispose
nell'anno medesimo il
Pescetti, uno dei
più litigiosi grammatici
che abbia avuto
l'Italia. Era di
Marradi dalla diocesi
di Faenza passata
alla signoria de'
Fiorentini : un toscano
un po' bastardo,
dunque. Insegnò grammatica a
Verona, dove, un
anno dopo della
polemica col Papazzoni,
s'attaccò con Giandomenico
Candido per la
Difesa della Zeta,
intorno a cui
aveva pubblicato un'operetta
il Lombardelli, e la contesa
si fece così
accanita, che dovette
mettersi in mezzo
Valerio Palermo dirigendo
una lettera latina
ad ambedue. Il
Papazzoni replicò ancora
con una Apologia
in difesa dell' Ampliazione contro r
opposizione del signor
O. P. Ma
ormai divampava la
tremenda contesa tassesca,
a cui prese
parte quasi tutta
l'Italia e le
piccole gare grammaticali
e ortografiche perdettero
il loro interesse.
Sicché, rimase senz'eco
anche il dialogo
di Pierantonio Corsuto,
// Capece ovvero
le Riprensioni, diretto
contro gli Avvertimenti
del Salviati. Non solo, ma
anche la produzione
grammaticale ora diminuì,
intese alla compilazione
non solo di
quello dell'Accademia, ma
d'un suo proprio
Vocabolario, che però
non vide mai
la luce. In
una di quelle
annotazioni, egli stesso
dice: Tutto che'
io m' assicuri
d'affermarlo assolutamente
senza vedere la
bozza del mio
imbastito Vocabolario, il quale
ora non ho
appreso, crederei all'improvviso che
di fora per
fosse o per
fossi, non vi
abbia esempio sicuro....
Prose inedite del
Cav. Leonardo Salviati
raccolte da Luigi
Manzoni, Bologna. Sembra
ormai fuor di
dubbio che del
Salviati sia il
Discorso nel quale
si /nostra l'in/perfezione della
Commedia, diffuso ms. piu
tardi pubblicato. Cfr. Flamini,
Avviamento allo studio
della D. C,
Livorno. In Venezia
per Paolo Meietti,
1587, 8°. (2)
Epistola lalerii Palermi
ad Orlandum Pescettium,
et Io. Dominicum
Candiduiu de uso
litterae Z disceptantes,
In Verona, presso
Girolamo Discepolo. In
Padova, per Meietti.] tanto che
avremo quasi da
arrivare al Buommatteri
per ritovare un
corpo di regole
da gareggiare con
gli Avvertimenti e
le altre fondamentali
opere grammaticali del
Cinquecento. Il s££q1ol_sì
chiudeva con la
ristampa delle Osservazioni
del Dolce, e
l'altro si apriva
con la compilazione
del Vocabolario della
Crusca. Più gravi,
per la competenza
e l'autorità di
chi li moveva,
e un più
vivo clamore avrebbero
suscitato, se espressi
in pubblico, gli appunti
che contro gli
Avvertimenti rivolse il
Corbinelli nelle molte
lettere dirette al
suo amico Pinelli,
tra le quali
ha così proficuamente
spigolato il Crescini
. Il Corbinelli,
che aveva avuto
il Salviati quasi
scolaro a Firenze,
havendo il medesimo
homore da giovinetti
, non confidava troppo nella
valentia linguistica del
Salviati, che giudica
uomo di non grandi spiriti,
ma diligenti, giuditio
mediocre , sofisticuzzo nelle
sue cose ,
e torna a
qualificare, dopo lettine
gli Avvertimenti, vago
di non lasciar
nulla indetto ,
incline a spezzare
il cervello in
minutar mille e...
nerie , principalmente per una
sostanziale differenza circa
i criteri e
al metodo, coi quali
condurre lo studio
della nostra lingua. Il
Salviati, come pareva
anche al Corbinelli,
tirava di lungo
e non vedeva
più oltre che
la lingua sua;
il Corbinelli, conscio
della sororità o
fratellanza delle due
lingue cioè franzese
et italiana , convinto
che dalle lingue
barbare [francese, provenzale] noi haviam
ritenuto una infinità
di cose: et
che bisogna saperle
per volere fare
il grammatico: non
dico per scrivere
, procedeva nell'
indagine linguistica col
metodo comparativo, non per
proporre niente da
imitare e odiando
le regole (%):
l'uno era un
empirico precettista, l'altro
uno storico comparatore.
Che il Corbinelli,
anche non spiegando
esattamente, come gli
accadde spesso, le
forme linguistiche nella
loro formazione storica,
potesse aver buon giuoco
sul Salviati per
ciò che riguarda
questo [Per gli studi
romanzi cit.. In Crescini,
op. cit., p.
194, 195, 204,
206. Col Salviati
il Corbinelli appaiò
il Muzio, di
cui così scrisse:
Io lo trovo
quasi quanto il
Salviati et sì
bene egli è ignorante nella
maggior parte delle
cose, ancor si
ha egli osservate
molte, se non
altamente, curiosamente, et
bene mi piace,
che e' dice
volentier male. V'ho
trovato il mio
povero Corbaccio .
Crescini. In Crescini] aspetto del
problema della lingua,
è più che
naturale ; mala
presunzione che il
Salviati, perchè non
intendente del francese
e del provenzale,
dovesse essere impari
al suo compito
che era di
grammatico normativo e non di
storico, è illegittimo,
poiché i due
punti di vista
sono protondamente diversi:
con l'uno si
descrive la lingua
quale fu prodotta
e fissata nella
scrittura, con l'altro
si compie uno
sforzo, per quanto
disperato, di apprenderne il valore
espressivo: con l'uno
si lavora in
un piano, con
l'altro in un
altro, pur non disconoscendosi che
la grammatica normativa,
in quanto espediente
didattico, sarà tanto
più efficace quanto più
fedelmente elaborerà le
sue regole sui
risultamenti dell' indagine
storica. Il Corbinelli
odia le regole,
perchè il suo
è un interesse
storico, e come
egli trova i
libri scritti variare,
così stima queste
cose indifferenti, et
se in parlando
suol dire et
udire ' andavo
', ' facevo
', ' stavo
', tanto scriverà
così, se la
penna harà fatto
un v òvofiàrcìv)
; questioni agitate
confusamente e che
Alcune linee di
questo brevissimo riassunto
della storia della
grammatica presso i
Greci toljjo dalla
Histoirc de la
Littérature grecque par
Alfred et Maurice
Croiset, Paris. Per maggiori
e più sistematiche
informazioni, oltre l' Egger
che citiamo più
innanzi, H. Steinthal,
Geschichte der Sprachwissenschaft bei
den Griechen uud
Romeni mit besonderer
Riieksicht auf die
Logik,'Berlino, 1890-1. Y.
l'interpretazione del Benfev,
accettata dal Bonghi,
nelV Appendici' seconda al
Cratilo in Dialoghi
di Plafone tradotti
da Ruggero Bonghi, voi.
V, Roma, 1S85,
pp. 404-10. Capitolo
ottavo 243 hanno
il loro monumento
nell'oscuro Cratilo platonico,
che sembra ondeggiare
tra soluzioni diverse
. Poco o
nulla progredì la
teoria grammaticale coi
teorici della grande
eloquenza attica e
gli storiografi che
s'informarono ai loro
principi e imitarono
i grandi oratori,
sebbene un d'essi,
Eforo, scrivesse anche
un trattato sullo stile
(jtsqì Àé^eoc;), come nessun
impulso era venuto
alla grammatica dai
primi retori siciliani.
Ln_ Aristotile la teoria
grammaticale si congiunge ancor
più direttamente e
intimamente con la
logica che non
con la retlorica
e la poetica,
dove ne' rispettivi
capitoli sull'elocuzione, pur
si parla di
parti del discorso.
Nella Rettorica (1.
IID, affermato che
il principio della
buona locuzione è
la correttezza, si
spiegano i vari
modi di conseguirla,
che sono: 1.
collocar bene le
congiunzioni; 2. usare
i nomi propri
e non circoscritti;
3. non usare
i dubbi; 4.
dare a ciascuno
il suo genere, maschile, femminile
e neutro; 5.
dare il numero
suo, singolare, duale, plurale.
Nella Poetica, tutto
un capitolo (il
XX), che sembra
a ragione interpolato
(2), è dedicato
alle parti dell'orazione, che sarebbero:
lettera o elemeyito,
sillaba, congiunzione, nome,
verbo, [articolo], caso,
orazione. Ma le
vere categorie grammaticali
che Aristotile realmente
e in modo
chiaro elaborò, sono
il no7ne e
il verbo, i
due termini della
proposizione enunciativa, di
cui tratta nei
pochi capitoletti jtvoì
'Eoneveiag (De in
Croce, Estetica cit.,
p. 176. •)
Tale lo giudica
l'ultimo editore della
Poetica aristotelica, che
espunge anche, come
interpolazione nel brano
interpolato, la categoria
dell'articolo (òodQOv). The Poetics
of Aristotle edited
with criticai notes
and a translation
by S. H.
Butcher, London. Osservo
che l' interpolazione del
paragrafo era stata
già avvertita dal
Barthélemy Saint-Hilaire, ma
con una considerazione che
non ci sembra
del tutto opportuna.
Il gran divulgatore
d'Aristotile osserva infatti
que toutes ces
théories quelle sull'elocuzione, d'ailleurs
très contestables, quand
elles ne sont
pas tout à
fait erronées, sont
très-déplacées dans un
ouvrage tei que
celui-ci. Cesi de
la grammaire ; ce
n'est plus de
la poétique. Je
n' hésite pas à déclarer
qu 'elles ne peuvent
ètre d'Aristote, et
je me fonde
surtout pour les
repousesser sur V Herménéia,
qui prouve une
connaissance de ces
matières, si ce
n'est plus étendue,
du moins beaucoup
plus exacte. Les
chapitres qui vont
suivre [XX sgg.]
sont donc une
interpolation. Poétique
d'Aristote trad. en fr. et accomp.
de notes perpètuelles par]. Barthélemv Saint-Hilaire, Paris.
De', meriti del
nostro Castelvetro sotto
il rispetto della
critica del testo,
s'è già accennato
e torneremo qui
a darne altre
prove. 244 Storia
della Grammatica terpretatione, o
Della proposizione, secondo
è stato tradotto
il vocabolo). Uno
svolgimento ancor più
considerevole che in
Aristotile ebbe la grammatica
dalla dialettica degli
stoici, pe' quali
la logica era
la scienza preliminare
delle condizioni della
conoscenza o del metodo,
e che si servirono del
linguaggio per determinare le leggi
che segue la
ragione: essi conobbero
cinque parti del
discorso, nome, pronome,
verbo, avverbio, congiunzione.
Fondata la Biblioteca
d'Alessandria, con tante
opere da curare
e studiare, segnatamente
i poemi omerici,
l'elaborazione della grammatica
ebbe la spinta
verso il suo
completo assetto con
le dispute suW
analogia e V anomalia.
Aristofane di Bisanzio
volle vedere in
tutti i fatti
linguistici una razionale
regolarità, e si
diede a svolgere
la declinazione greca
per darne la
prova convincente, seguito da
Aristarco che ne
divenne un caldo
sostenitore: Crate di
Mallo, uno stoico
condotto dalla sua
stessa filosofia agli
studi grammaticali seguendo
Crisippo, sostenne invece
la teoria dell'irregolarità grammaticale.
La conclusione della
disputa fu come
sappiamo, l'accettazione del
principio della recta
coìisìictudine, cioè della
contradizione organizzata .
Chi sistemò tutta
la scienza grammaticale
dell'antichità fu Dionigi
Trace, la cui
Tèyyr) yQajufiaxatr} tenne
il campo per
oltre due secoli
fino ad Apollonio Discolo, compendiata,
commentata, amplificata. Per
dare un esempio
dello spirito ancor
tutto greco sottile
e classificatorio di
Dionigi, è stato
già osservato che
egli coniuga anche
le forme verbali
logicamente corrette, benché
non usate. I
Romani, di questo
periodo, copiarono i
Greci: Varrone è
sotto l'influenza della
disputa tra analogisti
e anomalisti, nella
quale non riesce
a veder chiaro.
La sofistica ebbe
ancora un'ultima e non meno
forte efficacia sulla
grammatica, con Apollonio,
il quale si
sforza di darle
un carattere scientifico,
rapportando ogni singolo
fatto linguistico a una
legge logica. Egli
sostiene il principio
che ogni parte
del discorso procede
da un'idea che
gli è propria:
'Ekclotov òè ui'Tox'
è§ ìòiag èvvoiag
àvàyeuai, e vi
fonda su tutta
una nuova sintassi
di reggimento, che,
accettata poi dai
grammatici romani, segnatamente
da Prisciano, ritornò
quasi integra dopo
la deformazione che n'ebbe
fatto il Medioevo,
al Rinascimento, e
in molti particolari
accolta dai Portorealisti
e dai grammatici
logici dell'Enciclopedia, rimane
ancora, con le
debite mo Croce,
Estetica cit., p.
498. Capitolo ottavo
245 dificazioni che il tempo
apporta, in tutta
la grammatica moderna.
Ma, com'è stato
ben osservato, Apollonio,
non fondando la sintassi
sullo studio della
proposizione, ma sulle
singole categorie
grammaticali, non ha
costruito una grammatica
filosofica. Dopo di
lui (sec. II)
fino appunto a
Prisciano (sec. VI)
la grammatica ebbe
dai trattatisti romani
vari rimaneggiamenti, ma
nella sostanza non
fu modificata ('")•
Con Donato (sec.
IV), il più
metodico, e Prisciano,
il più infuso
di spirito "filosofico, servì
al Medioevo e
risorse tal quale
nel Rinascimento, che,
come abbiamo già
visto sull'esempio del
Perotti, congiunse Donato
e Prisciano, perduta
però ogni coscienza
dell'origine della funzione
delle categorie. Codesta
perdita era già
avvenuta nel Medioevo, Apollonio ha
avuto un diligente
e acuto illustratore
in un grecista
di gran valore,
l'Egger, il quale
per altro lo
critica dal punto
di vista della
grammatica generale quale
era stata sistemata
in Francia. V. Apollonius
Dy scole. Essai sur
l'histoire des thèories
grammaticales dans l'antiquitè
par E. Egger,
Paris. À part des
erreurs de détail
qui seront relevées
dans les chapitres
suivants, sa classification des
parties du discours
est, en general, fort
louable, parce qu'elle
ne méconnait ni
l'unite essentielle de
la proposition, ni
la variété très-réelle
des mots qui
concourent à former
une phrase. Réduire
à trois les
parties du discours sous prétextes que la proposition n'a que trois
termes élémentaires, c'est taire
abus de logique;
comme se serait,
en quelque sort,
faire abus de
grammaire que d'admettre
douze ou quinze
partie du discours
en donnant ces
nom aux espèces
secondaires au lieu
de le réserver
pour les véritables
genres. L'observation des
mots et l'analyse
des idées, la
grammaire positive et la logique
sont deux sciences
distinctes, dont l'alliance
produit ce qu'
on appelle la
philosophie des langues.
Pp73'4L'Egger è
un credente nella
grammatica e anche
nella logica formalistica: come
non si abusi
né della grammatica
né della logica a
riconoscere otto o
nove parti del
discorso, invece di
tre o di
quindici, è un
segreto che sanno
solo l'Egger e
i suoi compagni
di fede: che
cosa sia poi
la filosofia del
linguaggio fondata sull'alleanza
della grammatica e
della logica, ci
è ben noto.
(2) Un particolare
contributo all'elaborazione della
grammatica antica avrebbero
recato i grammatici
romani specie per
ciò che concerne la
sintassi dei casi,
secondo il Sabbadini,
Elementi nazionali nella
teoria grammaticale dei
Roma?ii, in Studi
di filologia classica,
dove, anche si
nega, contro Golling
[Ristorisene Grammatik der latemischen
Sprache) che la
riforma della grammatica
scolastica latina risalga
a Guarino, per
la storia delle
cui Regole il
Sabbadini stesso rimanda
al suo libro
La scuola e
gli studi di
Guarino Guarirti veronese,
Catania] in cui logica
e grammatica si
disciolgono dai comuni
vincoli onde fin
dalla nascita s'erano
mantenute legate nei GRAMMATICI
RAZIONALI come Apollonio, per
sottomettersi entrambe a
un processo di
decomposizione e di
degenerazione: la grammatica,
prima delle scienze
del nuovo canone,
e, rimasta, ne'
secoli di maggiori
tenebre, quasi l'unica
a esser coltivata,
diviene un campo
di esercitazioni pedantesche
e di polemiche
interminabili su argomenti oziosissimi (se
tutti i verbi,
p. es., abbiano
il frequentativo; se ergo
abbia il vocativo
ecc.; la logica,
analogamente, che pur
con Aristotile s'è sollevata
alla scoperta di
principi di vero
carattere scientifico, ha
nella scolastica la
sua massima espansione
formale, perdendo tutta
la vitalità che
aveva avuto da
Aristotile, il quale
peraltro rimase al
giudizio dei critici
del Rinascimento il
responsabile dello strazio
che s'era poi
fatto di lui.
Contro la doppia
degenerazione della grammatica
e della logica sorsero ben
presto le proteste. Rinuccini lamentato
che i grammatici
passassero tutto il
loro tempo in
fantasticherie, lasciando il
più utile della
grammatica; lunga da se
la fanno lunghissima,
ma la significazione, la
distinzione, la temologia
de’vocaboli, la concordanza
delle parti dell'orazione, l'ortografia,
il pulito e
proprio parlare litterale
niente istudiano di
sapere. Di quelle
terribili dispute è
documento notissimo il Bellum
grammaticale, così fortunato,
di Guarna salernitano, dove
quei due potentissimi
re che sono
il nome e
il verbo inter
se contendtint de
principalitate orationis . Le
riforme, già in
qualche modo invocate
dai corifei [Testimonianze varie
e numerose delle
lotte tra le
scuole grammaticali del medioevo
si possono raccogliere
nella monografia d’Ancona,
Le rappresentazioni allegoriche
delle arti liberali
nel m.-e. e
nel rinasc., in
L' Arte. In Wesselofskv,
// Paradiso degli
Alberti. Ritrovi e
ragionamenti del 1.389. Romanzo
di Giov. da
Prato, Bologna. (Vi Parisiis,
Ex officina Roberti
Stephani. VI (ma
la prima ed.
è Parmae, per
Fr. Ugolettum et
Octavianum Salàdum): a.
e. 3, Griimaticale bellum
nominis et verbi
regi!, de principalitate orationis
inter se contendentium, Andrea
Salernitano patritio Cremonensi authore.
La sentenza della
lite fu che:
in conficienda solenni
oratione uterque Grammaticae
rex cimi suis
sequacibus conveniat, Verbum
scilicet et Nomen,
Participium, Adverbium, Prepositio,
Interiectio, et Coniunctio.
In quotidiana vero
et dell' Umanesimo
e particolarmente dal
Petrarca, che si
scagliò contro gli
scolastici insanum et
clamorosum vulgus ,
degeneri d'Aristotile, schiccheratori di
frascherie , guastatori
dell'insegnamento elementare
(l), furono richieste
con insistenza nei
primi anni del
Cinquecento: esse miravano
al contenuto, al
metodo e alla
lingua dell'insegnamento scolastico
della logica. Il
Vives, nel II
libro intitolato Grammatica
della sua opera
De causis corruptarum
artìum sosteneva che
la lingua dovesse
esser presa dall'uso vivo
(3). Ramus lamenta che VARRONE (si veda), Prisciano,
Diomede, Festo non si
leggessero più, e
di sé racconta. Grammaticam puer
miseris adhuc temporibus
et dialecticam fere
eodem modo doctus
sum, disputando de
praeceptis et altercando.
La grammatica poi
voleva che fosse
insegnata sugli scrittori:
nec familiari oratione,
soli Nomen et
Verbum, onus sustinebunt,
arcessentes in patrocinium
suum quos ex
suis volent. e.
35. Qui s'è
inteso fare all'ingrosso
una distinzione di
poesìa e prosa,
di arte e
pensiero, di fantasia
e d’intelletto, insomma
della funzione estetica
e della funzione
logica, su questo
fondamento vacillante, sebbene
fosse appunto qui
da fondare la
distinzione, che il
parlare artistico, poetico,
sia il solenne,
il fuori dell’ordinario, e
il prosastico, non
artistico, puramente logico, il
quotidiano e familiare. Altre minori
sentenze in Bellitm
riguardano i rapporti
tra il relativo
e l'antecedente, tra
l'aggettivo e il sostantivo,
tra il reggente
e il termine
retto, il determinante e il
determinato, la orazione
perfetta e la
non perfetta, la
novità, il barbarismo, ecc.:
materia, come ognun
vede, quasi tutta
logica, che ci spiega,
confermando la nostra
tesi, la fortuna
del libretto; ristampato
spesso (p. es.,
Cremona), è anche tradotto
in versi {Race,
d'opusc.), e in
sestine anacreontiche da
Ricci, Firenze. In
N. Busetto, Fr.
P. satirico e
polemista. Caldi, La
critica contro la
logica aristotelica e l'
insegnamento scolastico, Udine. Le
citazioni seguenti di
Vives, Ramus e NIZOLI
(si veda) son prese da
questa esposizione riassuntiva.
Vives è un gran
propugnatore del metodo
pratico nell'apprendimento
delle lingue (cfr.
De studii puerilis
ratione, Oxoniae), e
lo applica in
un'opera [Flores italici
ac latini idiomatis:
ho l'edizione di
Venezia), che ristampata
con la traduzione
nel 1779 (del
Carlini, in Venezia,
col titolo Colloquj
latini e volgari),
è raccomandata in nuova
veste anche oggi,
se non erriamo,
dal Turri. E
una conversazione perpetua
tra maestro e
discepolo su cose
e fatti della
vita ordinaria llevata
della mattina, il
primo saluto, l'accompagnamento a scuola,
quei che vanno
a scuola, la. lezione,
il ritorno a
casa e i
giuochi de' fanciulli,
la refezione scolastica,
ecc.). grammaticam puerum solis
grammaticae praeceptis futur.um
putamus; sed exemplis
poétarum, oratorum omnium
denique hominum pure
et latine loquentium
eognoscendis imitandis. Anche
il Nizoli raccomandava
lo studio della
grammatica e della
rettorica senza cui
omnis doctrina est
indocta et omnis
eruditio inerudita, e confrontandole con la dialettica
e la metafisica
diceva: grammaticae et
rhetoricae praeceptiones ac
traditiones sunt multo
veriores dialecticis et
metaphysicis, et omnino
ad veritatem investigandam, recteque
philosophandum longe utilior
magisque necessaria est
grammaticae et rhetoricae
cognitio quam dialecticae
et metaphysicae . L'anno
in cui
il Ramus otteneva
il grado di
professore nell'Università di
Parigi, sostenendo vittoriosamente la tesi
che le dottrine
di Aristotile, nessuna
eccettuata, erano false, e
in cui in
Italia si pubblicava
la Poetica nel
testo greco dal
Trincaveli, nella versione
latina del Pazzi,
può essere riguardato,
ha ben osservato
lo Spingarn, come
il principio della
supremazia di Aristotele
in letteratura e
del declinare della
sua autorità dittatoria
in filosofia. Con la Poetica
aristotelica, come poco
appresso con la
sua Retorica, risorgeva appunto la
critica delle categorie
grammaticali, che avevano nell'una e
nell'altro la loro
descrizione: nei medesimi
anni si ripubblicava
il De iyiterpretatione, già
diffuso con lunghissimi commenti per
le stampe sul
finire del Quattrocento,
e con esso
medesimamente era ripresentata
alla disputa la
teoria della proposizione.
Nelle versioni ed esposizioni di
queste opere aristoteliche viene, come
dicevano, esaurito quell'interesse per la grammatica
generale che abbiam
visto mancare alle
grammatiche empiriche: e
i medesimi problemi,
benché sotto altra
forma, ci ritroviamo
dinanzi con BORDONI (si veda) Scaligero e
il Sanzio critici
della grammatica tradizionale
latina, e rappresentanti d'un aristotelismo
ammordernato. La differenza
tra le opere
critiche anteriori o
estranee alla diffusione
dei testi aristotelici
e delle loro
versioni e quelle
posteriori, e che
ne subirono gli
effetti, è sensibilissima. Ba[
(1 Magentini in
Aristotelis librum de
interpretatione explanatio Joanne
Baptista Rasarlo interprete,
Venetiis apud Hieronymum
Scotum. Aristotelis jtsqì 'JEQfirjveias, hoc
est, de interpretatione liber,
a magno Angustino
Nipho Philosoplw Suessano
interpreta tus et expositus,
Venetiis, apud Octavianum
Scotum D. Amadei.] sterà addurre
qualche esempio. Un
testo di rettorica
che veniva ristampato
intorno agli anni
in cui si
ripubblicavano i testi
della poetica d'Aristotile,
è la Retorica
di Ser Rrtinetto
Latini in volgar
fiorentino . Orbene,
la trattazione grammaticale di codest' opera
è ridotta a
semplici accenni. Nel
Libro primo della
inventione over trovamento
di M. T.
C. tradotto e
comentato in volgare
fiorentino per Ser
Brunetto Latini Cittadino di Firenze
è detto: Dittare è
uno diritto et
ornato trattamento di ciascuna
cosa convenevolmente a
quella cosa aconcia.
Questa è la
diffinitione del dettare,
e perciò convien
intendere ciascuna parola
d'essa diffinitione. Onde
nota che dice
diritto trattamento, -perciò
che le parole
che si mettono
in una lettera
dettate debbono essere
messe a diritto
sì che s'accordi
il nome col
verbo, e '1
mascolino col feminino,
e '1 plurale,
e '1 singolare, e
la prima persona,
et la seconda,
et la terza,
et l'altre cose
che s'insegnano in
grammatica, delle quali
lo sponitore dirà
un poco in
quella parte del
libro, che sia
più auenante, et
questo diritto trattamento
si richiede in
tutte le parti
di retorica dicendo, et
dictando (z). E
al luogo indicato
l'esposizione va veramente poco più
in là di
queste semplici linee
della sintassi di
concordanza: tutto, come
si vede, si
riduce all' affermazione del
principio della rettitudine:
è il principio
grammaticale puro e
semplice della antica
rettorica di CICERONE (si veda) quale
conserva il medioevo, senza
che tra esso
e IL FONDAMENTO RAZIONALE
(“logico”) DEL DISCORSO – Grice – è avvertito
alcun altro nesso
e sia affatto
accennato il problema
delle CATEGORIE grammaticali
e sintattiche e
MORFO-SINTATTICHE. Medesimamente nelle divisioni della
Poetica di TRISSINO (si veda) apparse in
luce nel 1529
(:ì), dove si
seguono ALIGHIERI (si veda) e
Antonio da Tempo
(Aristotile, qui semplicemente
nominato per la
definizione della poesia, è
invece il maestro
seguito nella quinta
e sesta divisione),
la trattazione grammaticale
non [Stampata in Roma
In Campo di
Fiore per M.
Valerio Dorico, et
Luigi fratelli Bresciani. Il
testo è corredato
di un'esposizione marginale. K. In Vicenza
per Tolomeo Janiculo.
Nel MDXIX, Di
Aprde. La quinta e
la sesta divisione
della poetica di Trissino.
In Venetia, appresso
Andrea Arrivabene. ...e
non mi partirò dalle
regole, e dai
precetti de gl’antichi,
e spetialmenK' di
Aristotele nel LIZIO, il
quale scrive di
tal arte divinamente.] si distende
molto di più
che nel De
vidgari eloqueyilia, mentre
è assai più
sviluppata quella della
scelta delle parole.
Illustrata la elezione, che fa
ALIGHIERI (si veda) de le
parole, che si
denno usare ne
le canzoni: la
quale ne in
tutto loda ne in tutto
vitupera , espone
la particolare elezione
che egli ha
escogitato, le varie
forme del dire
(chiarezza, grandezza, bellezza,
velocità, costume, verità, artificio),
che si debbono
adoperare, e le
passioni de le parole
, che è
materiale .grammaticale, e
che non son
altro che le
quattro tradizionali figure
grammaticali:
Soprabondantia, mancamento, mutazione
e trasposizione (Div.
I). A proposito
de le rime
(Div. II), tratta
a) de le
lettere; b) de
le sillabe; e)
de li accenti
(*). Nella terza
divisione ( De
l'accordar de le
desinenzie ) e
nella quarta (Del
Sonetto, delle Ballate,
delle Canzoni, de'
Mandriali, de' Sirventesi),
nulla vi ha,
naturalmente, di grammaticale.
Viceversa nella quinta
e sesta, le
quali trattano della
inventiva della Poesia,
e della sua
imitatione, e dei
modi, coi quali
si fa la
detta poesia, cioè
della Tragedia, dello
Heroico, della Comedia,
della Ecloga, delle
Canzoni e Sonetti,
e d'altre cose
simili , ritorna,
certo per effetto
del maggiore svolgimento
che la teoria
dell'elocuzione aveva ormai
avuto, a parlare
più ampiamente delle conversioni, e le
figure del parlare,
di quello che
nella Tragedia havemo
fatto, la qual
cosa apporterà molta
utilità, et ornamento
a tutti i
poemi, che havemo
detto, e che
dicemo . Così
tratta delle conversioni
[tropi] delle parole
(onomatopeia, epiteto, catacresi,
metafora, metalepsi, sinecdoche,
metonimia, antinomasia, antifrasi,
ecfrasi), e delle
conversioni della construttione
(figure: pleonasmo, perifrasi,
iperbato, parembola, pallilogia,
epanafora, epanodo, homoteleuto,
pariso, paronomasia, elipsi,
asindeto, asintacto, che
si ha scambiando
il genere de'
nomi, il numero
(Enalage), spetie e
casi, congiunzioni, preposizioni,
adverbi, lasciando preposizioni
ecc., benché queste
cose si po
Io sono stato
un poco diffuso
in questi toni,
perciò, che sì
come i Latini,
et i Greci
governavano i loro
poemi per i
tempi, noi, come
vederemo, li governiamo
per li toni;
benché, chiunque vorrà
considerare la lunghezza,
e brevità di
alcune sillabe, così
gravi, come acute,
trarrà molta utilità
di tal cosa,
e darà molto
ornamento a li
suoi poemi. Qui
è come un
germe della dottrina
del Tolomei su
la nuova poesia,
quale espose dieci
anni dopo.] trebberò anchora
riferire all’elipsi, facendo
apostrophe ecc., prosopopeia,
diatyposis, ironia (e
sarcasmo), allegoria, iperbole). Così nella
Dichiaratione, onde SEGNI (si
veda) accompagna la
sua versione ITALIANA
della Rettorica e
della Poetica d'Aristotile,
già si avvertono
tracce d' un
maggior interesse per
le categorie grammaticali
e sintattiche e MORFO-SINTATTICHE. Qui
cade in acconcio
un'osservazione. Saint-Hilaire,
per impugnare l'autenticità
di quella parte
della poetica aristotelica,
dove si tratta
della locuzione, ha
detto, come s'
è visto, che
ce n'est plus
de la poetique,
c’est de la
grammaìre. Ma tale considerazione muove
dal pressupposto che
l'espressione linguistica è di
esclusiva pertinenza della
logica, mentre, se
la grammatica non
è ne la
logica né l'estetica,
in quanto materiale espressivo, è
di pertinenza d'entrambe.
Questo spiega come
(sia o non
sia, così come
e' è pervenuto,
d’Aristotile, il brano
che si giudica
interpolato) il filosofo,
che fa un’osservazione capitale
circa l'esistenza di
altre proposizioni, oltre l’emendative esprimenti
il vero e il falso
(logico), che non
dicono né il
vero né il falso (logico),
come l'espressioni delle
aspirazioni e dei
desideri (£##)) e
che son perciò
di pertinenza non
già dell'esposizione logica, ma
della poetica e
della rettorica, spiega,
dicevo, come il filosofo
tanto nella poetica
e nella rettorica
qifanto nella logica è
tratto a occuparsi
in quelle d’analisi
grammaticale-rettorica, in questa
di analisi logico-grammaticale, nelle
proporzioni e differenze
volute da quelle discipline – o rami della filosofia --
particolari. Infatti nella poetica,
la disciplina o rama della
filosofia dell'arte pura,
sono formate con
maggior compiutezza le
parti di tutta
la locuzione non
senza accennare alla bontà
della locutione (barbarismo – solecismo, malaprop – A nice
derangement of epitaphs --, METAFORA
–you are the cream in my coffee --,
nome ornato, nome
proprio – Fido --,
allungamento, concisione e
cambiamento del nome). Nella rettorica,
la disciplina o rama della
filosofia della parola
ornata in servizio
della mozione degl’affetti
-- prottesi di H. P. Grice -- e
della persuasione, s' illustra con egual
compiutezza la dottrina
dell'oratione (pendente Rettorica, et
Poetica d'Aristotile, Trad.
di Greco in
Lingua Vulgare Fiorentina
da SEGNI (si veda), Gentil'
Incorno, et Accademico Fiorentino. In
Firenze, appresso
Torrentino, Impressor' Ducale. Croce, Logica
e grammatica. Croce, Estetica.] distesa (Caro
), distorta =
ripiegata (Caro)) nel
periodo; nel jteqì
'EQ/Lirjveias, teoria della
proposizione emendativa, l'espressione più semplice
dell'attività logica, si
tratta del nome
e del verbo
in quanto nel
giudizio rappresentano lLuno
il sostantivo, il
soggetto, l'altro il
predicato. ypfL'autorità d'Aristotile
ha perpetuato tali
dottrine e tale
sistematica, che l'era
classica dell'aristotelismo letterario,
e anche dopo, NON
SOLO IN ITALIA, ma fuori,
attrassero invincibilmente l'attenzione
e lo studio
dei dotti. Ripresa
la disputa medioevale intorno
alla classificazione delle rami o discipline della filosofia imperniata sul raggruppamento aristotelico,
s'indagarono con sottigliezza pedantesca i rapporti
delle varie rami o discipline della filosofia e particolarmente della grammatica razionale o filosofica, della
rettorica, della poetica,
della isterica e della
logica, congiunte, come
già la seconda,
la terza e
l'ultima sono state
da Aristotile, nell'unica
categoria di filosofia pratica. E
anche in questo
si può constatare
il progresso del
logicismo aristotelico, fin
tanto che i
termini di gusto e di
fantasia non sorgono
a detronizzare quello
di ragione. Lìl
isterica, iniziata dagl’umanisti (Pontano,
Actius dialogus e
Valla, Dialedicae disputationes
contra Aristote lieo
s), ha nella
classificazione di Varchi il suo
riconoscimento ufficiale, quando
già flveva avuto
dal Robertello, De historica
facilitate, un ampio
trattato, e, per
effètto dell'importanza assunta
dalla storiografia umanistica
e di quella
che vienne assumendo
con gl’eminenti storici
nostri, feconda in
questo secolo una
letteratura ricchisima. Pure alcuni
dei medesimi trattatisti
la mettono come
in una posizione
d'inferiorità rispetto alle
altre rami o discipline della
filosofia, quasi una
loro schiava: l'historico, dice
Speroni, bene accorderà, se
in descrivendo le
cose sue ricorrerà
alla Gramatica, et
alla Retorica, et
tali' hora anche
alla Poesia, a
lor precetti artificiosi di tutto
core obbligandosi; la
Poesia esser arte [Rettorica d'Aristotile
fatta in lingua
Toscana dal Conmi.
Annibal Caro, in Venezia. Essendo il
parlare composto di
nomi, et di
verbi, et essendo
i nomi di
tante sorti, di
quante nella Poetica
s'è dimostrato: Intra
tutte le dette
sorti, dico, ecc..
Rhet.y III, nella
cit. versione di
Segni. Vedine i titoli
in Bernheim, La
storiografia e la
filosofia della storia,
trad. Barbati, Palermo,
App. Bibliografica. Dell'
Historia, Dialoghi II
in Dialoghi.] più nobile
dell'Historia, pruova Aristotile,
perchè eli' è dell'Universale, e la
Historia è del
particolare. Insomma: la
Grammatica – o letteratura --, insegna
parlar drittamente, la
Historia parla, la
Poesia imita, la
Rhettorica prova persuadendo
nelle città, la
Dialettica prova sillogizzando
la opinione . Ma ZABARELLA
(si veda), interlocutore, con Antoniano
e Manuzio, nel
Dialogo di Speroni), che
è uno degl’ultimi rappresentanti dell'insegnamento aristotelico,
nella sua ampissima
opera sulla natura
della logica, va
ancora più in
là, e, mentre
fa della rettorica
e della poetica
due parti sì
bene distinte della
logica, nega quest'onore,
non che alla
grammatica, alla isterica,
che bistratta spietatamente. Ars tamen
historica non modo
ab Aristotele, sed
a nemine hactenus
-- ma questo non
era affatto vero -- scripta comperitur.
nec fortasse digna
est, in qua
scribenda tempus conteratur:
ea namque in
simplici, ac nuda
rerum gestarum narratone consistit. At Historia
nil huiusmodi tractat.
sed est nuda
gestorum narratio, quae
omni artificio caret,
praeterquam fortasse elocutionis,
quod quidem, et
alia eiusmodi quisque
sanae mentis extranea,
et accidentaria ipsi
historiae esse iudicaret;
quicquid enim artificij
in historia notari
potest, illud omne
vel a Grammatica,
vel a Rhetorica,
vel ab aliqua
arte desumptum est. GRAMMATICA ENIM NON EST LOGICA, Historica
ars non datur.
ZABARELLA (si veda), Opera
Logica, Coloniae, Sumptibus
Lazari Zetzneri, CI3I3CII
(ma la prima
ed. del De
natura Logicae è anteriore.
In che
senso ammetta lo
Zabarella che la
poesia sia una
forma di FILOSOFIA,
fu già spiegato
dallo Spingarn. Quanto
alla relazione della
rettorica con la
logica, basti qui
osservare che ZABARELLA si
fonda sull'autorità di
Aristotile, il quale
(Rhet.) dice che
oratoriam artem in
argumentationibus
consistere, quas etiam
ipsius orationis corpus
asserit, e riprende
i retori de’suoi
tempi, che, lasciando
la parte argomentativa, insegnano solo l’elocutio, estranea
alla natura di
quest'arte. Compito del retore
è movere gl’affetti
-- la prottesi di Grice, influencing and being influenced -- per mezzo
degli argomenti. Elocutio autem
est saltem accidentaria,
et secundaria respicitur. Patet igitur
non esse necessariam,
neque perpetuala inter
has duas artes
differentiam illam quae
per manum clausam
et apertam significatur. L'immagine della
mano chiusa e
aperta per dinotare
la dialettica e
la rettorica è
già definitivamente consacrata nell' Origini d'Isidoro. In
queste trattazioni vienne
naturalmente a esser
elaborato il concetto
della grammatica e
delle sue categorie,
e, più particolarmente ne’luoghi in
cui veniva esposta
la teoria dell'elocuzione specifica per
ciascuna di quelle
scienze o arti
o facoltà, come
variamente è apprezzata.
Si determinarono così
quattro diverse nature
di periodo. Lo storico,
il retorico, il
poetico o ritmico,
il logico, e
la grammatica è
riservata a insegnarne
la dirittura formale.
Questi nostri dotti
si trovarono così
per le mani
il vero problema
delle manifestazioni di
tutte le attività
nostre conoscitive, MA IL FILO
D’ARIANNA, CHE È LA NATURA DEL LINGUAGGIO, NON È RITROVATO, E SI PERDE NEL
LABIRINTO. Il periodo
retorico e poetico,
che la scienza moderna,
identifica, è la
forma espressiva della
verità, intuita, il
logico del concetto,
l'istorico della realtà.
Il filosofo, dirò
con parole eioquentissime, che
guarda il cielo
e non riconosce
la terra sulla
quale pone i
piedi, è un'astrazione o una
deficienza: il concreto,
il perfetto è
l'uomo che immagina, pensa e
riconosce l'immaginato: l'uomo,
che vive la
realtà nell'intuizione artistica,
la pensa nel
concetto filosofico, la
rivive nella riflessa
intuizione storica, nella
quale si acqueta
compiutamente, perchè il
circolo del pensiero
è chiuso (2).
Delle categorie grammaticali
e sintattiche elaborate
fuori delle grammatiche
propriamente dette e'
informano largamente, e
su esse pertanto
fermeremo la nostra
attenzione, due opere
ben caratteristiche e.
importanti, la Retorica
deb Cavalcanti O
e la Poetica_de\
Castelvetro. Quella, anche per
quanto riguarda [Si ricordino
a questo proposito
e per maggiormente convincersi
che non è possibile un'indifferenza teorica per uniforma che in pratica, cioè
nella coscienza dei produttori di letteratura, ha un così grande valore, l’acute
osservazioni di SANCTIS (si veda) sopra il periodoe l’ottava, le due forme
analitiche e descrittive di Boccaccio, divenute la base della letteratura, Storia,
e sulla parodia che della loro degenerazione ne
fa col suo LATINO MACCHERONICO Folengo. Croce, Lineamenti d’na logica. La storia come il resultato dell'arte e della filosofia. La
retorica di Cavalcanti. In
Vinegia, appresso Gabriel Giolito de'Ferrari. Poetica d' Aristotele
vulgarizzata, e sposta per Castelvetro. Riveduta, ed ammendata secondo
l'originale e la mente dell'autore. Stampata in Basilea ad istanza di Sedabonis.]
la logica, di cui olire un largo, minuto, chiaro riassunto. Naturalmente,
la prima ci mette sott'occhio
le CATEGORIE SINTATTICHE E
MORFO-SINTATTICHE, la seconda le grammaticali. Della rettorica di
Cavalcanti ci riguardano più direttamente il libro della dialettica, e quello dell'elocuzione.
Le vie del persuadere riassumeremo quanto più brevemente è possibile sono tre.
Provare con argomenti, muovere l'auditore
-- o IL RECETTORE, dato che l’emissore puo ussare gesti – GRICE -- con passioni
-- la prottetica di Grice: influencing and being influeced -- ; procacciarsi fede e favore da lui con quella
maniera di parlare, la quale nomina costume. Di qui è manifesto, che questa
facultà è quasi un rampollo della dialettica e di quella facultà la quale il LIZIO chiama civile. Le persuasioni sono
artificiose e SENZA ARTIFICIO – Grice, “Those spots mean measles – Grice’s
FROWN. L’artificiose si dividono in argomenti, affetti, costumi. Per trattar d’esse
convien considerare quattro cose: la forma, la materia, i luoghi, il modo di
sciorre gl’argomenti. In ultimo le
sentenze. Argomento è ragione colla quale si prova una cosa dubbia; argomentazione è espressione dell'argomento,
ed essa forma che gli si dà. Conclusione è quello che con argomento viene
provato e manifestato. Ora, perciò che la retorica, quanto agl’argomenti,
dipende dalla dialettica e gl’istrumenti, con i quali ella argomenta, e che
come suoi propri le sono stati assegnati, rispondono agl’instrumenti della dialettica,
e da quegli derivano: e' pare, che non
si possa dichiarare bene la forma degl’argomenti retorici, se quella dalla
quale questa ha origine, prima non si dichiara. Quest’inclusione dei principi
logici nella rettorica è giustificata da Cavalcanti colla considerazione che IL
LIZIO ne tratta separatamente, perchè i suoi libri della logica sono ben noti,
mentre non ha ancora, ch'io sappia, la
nostra lingua parte alcuna della logica,
o dialettica, che dire vogliamo. Le maniere dell'argomentazione sono
due: il sillogismo e 1'induttione, donde discendono l’entimema -- ragionamento implicito di Grice -- e l’esempio,
che, secondo Aristotile,
sono propri della
rettorica. Il sillogismo
categorico o assoluto
si fa di
proposizioni assolute. La proposizione assoluta è
un parlare il
quale afferma o
nega qualche cosa [Non è
perfettamente esatto. Per
lo meno s’ha già
la Loica di MASSA
(si veda). In Venezia per
Bindoni.] dì qualche altra,
afferma quando a
una cosa ne
dà un'altra, come
questa. “La virtù è
laudabile.” Nega, quando toglie,
come questa. “Lw ricchezze
NON sono il
sommo bene.” – Grice, “Negation
and priation,” “Lectures on negation.” Quindi
le proposizioni rispetto
alla qualità si
dividono in affermative e negative. Per quantità
in iiniversali, particolari, determinate,
ed indeterminate. Si hanno
così queste varie CATEGORIE
– kantiane --. Universali affermative
e negative; particolari
affermative e negative;
indeterminate; determinate
affermative e negative.
La proposizione si
compone di soggetto
e di predicato (‘shggy’). Es., “L'uomo
è animale.” Llhuomo è
il soggetto, del
quale si dice, e
si manifesta l'essere animale. Il
predicato è “animale,” o shaggy, che si
attribuisce all'uomo, et si manifesta
di lui. Il
soggetto e il
predicato sono i due
termini –iniziale e finale -- della
proposizione. Le altre
particelle congiuntive NON
sono termini. I
termini sono semplici
o composti. Semplici
come uomo, arte,
edifica, discorre, e
in somma nomi
e verbi. Composto è un
parlare imperfetto fatto
di più termini
semplici, come questo: “l’arte della
guerra”. Nella proposizione
si possono trovare termini semplici e
composti, un semplice
e un composto,
ambidue semplici, ambidue
composti. Es. “l'arte della
guerra” -soggetto, composto di
termini semplici – “... porta ai
soldati molti pericoli -- che è
l'altro parlare simile,
PREDICATO. Il sillogismo
è una specie
di parlare, nel
quale essendo poste
alcune cose ne
seguita per virtù
di quelle, una
diversa da quelle;
le quali sono,
o universalmente, o
per lo più.
Vi concorrono TRE termini – Grice: Barbara --, due proposizioni,
una conclusione. I
termini sono maggiore – SOGGETO – iniziale --, minore (estremità) – PREDICATO, finale --, mezano
(termine comune): perchè
essendo il sillogismo
un certo discorso,
nel quale noi INTENDIAMO
[Grice: intending is essential! -- ] di
fare conclusione, e
in quella unire
l'una estremità con
l'altra, non si può far
questo, se noi
non usassimo un
mezzo, che con
l'una, et con
l'altra estremità ha
qualche convenienza. La
figura del sillogismo
varia secondo la
disposizione del medio.
Essa è una
ordinata disposizione dei
termini: e ciascuna delle
figure contiene più
modi: e modo
pare, che altro
non sia che
una certa ordinatione
delle proposizioni: e
circa la quantità, come universali
e particolari; e circa
la qualità, come
affermativa, et negativa. Le
figure sono tre:
della prima, distinta in
quattro modi, le
conditioni sono due: l'ima
che la maggiore
proposizione sia universale:
l'altra, che la
minore sia affermativa -- Barbara; della
seconda, in quattro
modi, che la
maggiore sia universale, et
che la minore
sia dissimile da
quella; della terza, in sci modi,
che la minore
sia affermativa, e
la conclusione particolare.
I LATINI, come CICERONE (si veda), vuoleno estenderle a
cinque, aggiungendo le
prove. Ma queste fan
parte delle proposizioni,
o sono nuovi
argomenti. L'entimema è
sillogismo imperfetto, composto di
verisimile, E DI SEGNI –
semiotica di Eco. Aristotile vuole
che esso è il
sillogismo rettorico. Vi
manca una proposta che
è concepita mentalmente.
Vi è poi, SECONDO
I LATINI, il sillogismo
hipotetico o SUPPOSITIVO o CONDITIONALE – da: con-dire –
‘se p, q” -- dove il legame
delle assolute si fa
col se e
simili (o), onde
le proposizioni risultano
condizionali o disgiunte,
e anche copulate
o copulative. La
condizionale dividesi in precedente
e consegìiente. Analogamente
si ha l’entimema
condizionale. Nell’induttione le
universali si conchiudono per mezzo
delle particolari. Ma
Aristotile le nega
schietta natura rettorica.
L'induttione rettorica per
Aristotile è Y
esempio, un modo
cioè di procedere
dal particolare al
particolare, che si può
moltiplicare e variare
per affermativa, et
negativa assoluta, et
condizionale. Superflue, rettoricamente, sono
le altre forme
del dilemma ('complexio',
sillogismo condizionale,
congiunto o disgiunto),
dell' enumeratio (entimema assoluto) e
della subiectio (altra
forma di enumeratio),
submissio, oppositio, violaiio,
collectio. Alcuni ammettono,
infine, il sorite,
che è una
massa di sillogismi,
e può esser
anche condizionale. Sì
come la forma,
che io ho
dichiarata, è la
naturale, e (per
dir così) pura
forma degl’argomenti; così
e' si può
alterarla, et variarla
senza mutare la
sostanza, et la
virtù di quella. Nel
vero la eloquenza
molto meno ammette
(ed ecco che
la natura fantastica
dell'espressione non logica
richiede i suoi
diritti!) quella superstiziosa
osservatione, e schifa
volentieri ogni fanciullesca, minuta, et
bassa cosa; abborrisce
tutto quello, che
porta seco odore
di scuola, et
di MAESTRO (Grice sotto Strawson), né
può patire d'essere a
così strette leggi
sottoposta. Sì come
adunque è necessario dichiarare la
naturale, et pura
forma de gli
argomenti. Così fa di
mestieri la tramutata
et alterata dimostrare.
E qui Cavalcanti
si fa ad
esporre tutta la
varietà degl’esempi, spesso
valendosi, come anche
pel resto, degli
schemi periodici del
Decameron. Infine tratta della
materia (il probabile,
il verisimile, I SEGNI – la semiotica d’Eco), dei
luoghi e del
modo di scìorre
gl’argomenti e delle
sentenze. Basta, pel
nostro argomento, riassumere
la dottrina de'
luoghi. Pongo i
luoghi in tre
gradi. Il primo
contiene quegli, che
sono nella sostaìiza
della cosa: cioè
la diffinitionc. la
descrittione –cf. Grice, ‘the,’ definite descriptor --, 1'
interpretatione del nome. Nel
secondo pongo quelli
che seguitano et
accompagnano la sostanza,
et sono d' intorno
alla cosa; i
quali, senza fare
distintione di gradi
tra loro, dico
essere questi. Genere,
spelte, differenza, et
proprio, tutto, parte,
numero di spetie,
et di parti,
overo divisione, forma,
fine, causa efficiente,
materia, effetto, uso,
generatione, corruilioìie . adherenti,
luogo, tempo, modo,
congiogati. Nel terzo
grado sono i
luoghi presi di
fuore, et disgiunti
dalla cosa, sì
che sono massimamente estrinsechi: e
questi sono il
simile, la proportione,
il dissimile, i
pari, il più
et il meno,
i contrari, i
privativi, i rispettivi,
i contraditlo?i, i
ripugnanti, l'autorità, la
transuntione . Quanto
all' elocuzione, Cavalcanti
dichiara di presupporre
e di non
voler replicare le
cose che nella
Grammatica di questa
lingua lussino dichiarate,
o si dovessino
ancora (non era
dunque molto sodisfatto
delle grammatiche già
compilate) più esquisitamente dichiarare circa
la nettezza, et
l'altre conditioni del
regolato parlare . Ma
già questa presupposizione dimostra,
dato il fondamento
di tutto il
sistema, l' inscindibilità anche
di rettorica e
grammatica. Muove perciò
dalle parole sole,
che divide in
proprie e improprie
e, seguendo i
grammatici, in animate
e inanimate; tratta
della composizione delle
parole, che, specialmente rispetto al
suono sono alte,
basse, dolci, aspre,
pigre correnti ; ma
io non intendo
far qui una
fastidiosa e quasi
fanciullesca (per dir così)
disamina di lettere,
sillabe, parole (era
stata già fatta
e minuziosa da
Bembo, da Tomitano, da Lenzoni
e da altri).
Si trattiene perciò
di più su
quel che nella
continuazione del parlare si
richiede, circa 1"
l'ordine e la
commissura delle parole
l'una coll'altra; 2"
i membri, i
concisi, i periodi.
Due sono i
criteri principali: 1"
le parole di
maggior forza e
significazione devono 'esser
collocate prima, e le altre
dopo; 2" è
necessario che qualcosa
divida e posi
il nostro parlare. Quel
che in poetica
è il verso,
nella prosa è
il membro, un
parlare, il quale
finisce, o tutto
un concetto separato
da per sé,
o tutta una
parte d'un intero
concetto . Quando
è breve, il
membro si chiama
inciso o conciso:
es., conosci te
stesso; questa fu
la rovina d'Italia.
Tanto i membri
che gl'incisi sono
legati o disgiunti. Il periodo, quale
è definito da
Aristotile, è un
parlare che ha
principio, et fine
per se stesso,
et grandezza da poterlo
agevolmente tutto insieme
comprendere: esso Capìtolo
ottavo 259 é
una composizione di
membri, et di
concisi bene acconci
a far compito
e perfetto tutto
il concetto, che
ella contiene, come
dice Falereo .
Qui, fatte altre
distinzioni del periodo,
si affaccia a Cavalcanti
un altro grave
problema, che egli
risolve in modo in
vero acuto e,
date le premesse
della dottrina generale,
conseguente: v òè
negi Tfp> Aètjiv
. Altro è
invece il quesito
da risolvere, ed è precisamente
questo: se le
voci del verbo
chiamato comandativo da
grammatici possano ricevere il
significato del pregare,
si come si
sa, che ricevono quello del
comandare (l). E
il Castelvetro lo
risolve affermativamente,
anzi affermando che
quanto al significato
tra le voci
del verbo del
modo chiamato da
grammatici comandativo, e tra
le voci del
verbo chiamato desiderativo non
vi è differenza alcuna. E
qui richiamandosi a
quanto ha già
detto nella sua
giunta al trattato
de' verbi di
messer Pietro Bembo
, si fa
a spiegare come
la sospensione della
certezza dell'atto, 0
della privatione ,
quindi il modo
del desiderio e
della preghiera (desiderativo, ottativo),
si ottiene in
due maniere, o
manifestando i due sentimenti
(del desiderio e
della cosa desiderata)
o uno manifestandolo e
l'altro no: Ami
io o Priego
dio, acciocché io
AMI, valgono la
medesima cosa. Protagora,
invece di vedervi
una sospensione, vedeva
nelYàeiòe una disposisione,
mentre vi si
può vedere e
l'una e l'altra,
il che è
affar di grammatica.
E confuta un
altro difensore di
Omero, Eusthathio, che
intende Y àride
come incitamento, perchè
si comanda al
minore, si conforta, o
s' incita l'uguale, et
si priega il
maggiore , e
nel comandativo non si
ha determinazione di
certezza, ma pure
lo loda perchè
mostra, meglio d'Aristotile,
d' intendere e
riconoscere il vigore del
comandativo. La questione
della funzione espressiva
de’modi de’verbi è
risorta anch'essa di
recente con rinnovate
teorie grammaticali. Ma la
definizione di essi
s'è dimostra inseguibile, perchè
se può esser
vero che, p.
es., il CONGIUNTIVO – cf. Grice, INDICATIVE
conditionals -- esprima il pensato,
non è vero
l' inverso, che cioè [Crediamo superfluo
rilevare qui l'acutezza
onde Castelvetro pone
il problema, meglio
che non abbian
saputo i moderni
editori d'Aristotile, non escluso
Barthélemy Saint-Hilaire. La questione
sollevata da Protagora,
per quanto sottile,
è di grammatica,
e il Castelvetro l'ha risoluta
colla grammatica e
certo non meno
acutamente di quanto
avrebbe saputo fare
un qualsiasi moderno
credente nella grammatica.
Sicché, per un
certo rispetto, si
potrebbe dir di
lui, quel che
è stato detto
di filologi moderni,
che ha ridotto
la grammatica da
muro di bronzo
a un sottilissimo
velo, in cui.
basti soffiar dentro
per distruggerlo, senza
più adoperare il
piccone: merito non
piccolo, certamente.] il pensato
si esprima sempre
col congiuntivo. Ed
è il problema di
tutta la grammatica:
dall'estetico al logico
è lecito il
passaggio, ma non
è lecito ripassare
dal logico all'estetico,
e dare una
funzione espressiva alla
categoria ottenuta con
una elaborazione logica dell'estetico
e relativo annullamento
dell'espressione. Neil'
iniziare l'esposizione delle
parti della favella
poste da Aristotile
(elemento, sillaba, legame,,
nome, verbo, articolo,
caso, diffinitione), Castelvetro
fa una prudente
dichiarazione preliminare, che
cioè le cose di
che si ragiona nella
poetica possono anchora essere
communi alla prosa,
ciò è alla
ritorica, o anchora
ad altra arte,
et ad altri,
che a poeti,
come alla grammatica,
et a coloro
che imparano a
leggere: e su
questa distinzione torna
più spesso ad
insistere, mentre altra
volta non tralascia
d'avvertire che queste differenze
(delle vocali e
delle consonanti) da
quella della lunghezza,
e della brevità
in fuori pertengono
alla compositione (prosa),
et non a
l'arte versificatola; e che versificatola
e poetica non
sono arti disgiungibili, il
che menerebbe ad
ammettere, ciò che
per lui non
è, potersi un
poema comporre in
prosa. Castelvetro sente
vagamente il carattere
intuitivo della parola,
ma la concezione
fornialistica gl’impedisce di
penetrarlo e assumerne
coscienza. Onde anche
le infinite e
minute distinzioni. Quelle
parti della favella
egli classifica come SIGNIFICATIVE,
non significative – “pirot” --, divisibili
e indivisibili,
ricostituendole poi in
tre gruppi: significative
e divisibili (diffinitione, verbo,
nome, caso); non-significative e
divisibili (articolo – “the” –
cf. “THE THE” Grice, ‘formal device’ --,
legame, sillaba); non-significative e
indivisibili (elementi).
Divisi gl’elementi (lettere) in
vocali e consonanti,
classifica le une:
per quantità di
tempo; per diversità
di snono: di
spirilo; di acce?ito;
di preferenza; di
nome (osservando che
questa consideratione tocca
ne alla verificatola,
ne alla compositione,
ma alla grammatica,
et a colui
che insegna a
leggere); e le
altre: 1" per
siniplicità, et compositione; per
cominciare, et finire
la sillaba; CROCE (si veda), Siile, ritmo
e rima, in
La Critica. La definizione,
che, correggendo quella
d'Aristotile ( OTOi%£tov
/iri' inni' tp
jteqì èQfir}veiag {Part.).
Su questo punto
essenziale s’osserva,
seguendo CROCE (si veda), che
Aristotile ha intuita la
natura fantastica delle proposizioni
non-logiche, ma che
non riusce a
separare la funzione
linguistica dell’espressioni dalla
funzione logica, il
che lo conduce a
gettare le fondamenta
dell'estetica come è intesa
modernamente. Né purtroppo
Castelvetro riesce a
vedere nel grave
problema più chiaramente
d’Aristotile. Ma è
suo merito l'averne
vista tutta l'importanza
e l'averlo riagitato.
Da questo punto
fino alla fine
della sposizione della
terza parte della
Poetica (Particelle) la
trattazione esce dal campo
strettamente grammaticale per
entrare nel dominio
particolare della teoria
dell’ornato, che non
c'interessa che
indirettamente e per
particolari punti di
vista (p. es.
pel barbarismo e l’aggiunto). Onde ci
fermiamo nella persuasione
d'avere sufficientemente dimostrato,
esponendo, in ispecie,
le teorie di Cavalcanti
e di Castelvetro,
che il problema
delle categorie grammaticali
e sintattiche è sebben fuori
della grammatica propriamente detta, ampiamente
e intimamente, per
quanto i tempi
lo concedevano, trattato:
sicché tutti gli
schemi grammaticali si
può dire che
sieno stati illustrati
nelle loro origini
e nelle loro
funzioni, e non
solo gli schemi,
sì grammaticali che
logici, ma tutte
l’altre classi di
accidenti grammaticali: il caso,
la persona, il numero,
il genere, il
modo, il tempo,
ecc. Il punto
di vista generale
rimane, s' intende, l'aristotelico, cioè
il logico. Ma anche
in questo, non
che nel fatto
stesso d'aver ripreso
il problema fondamentale
della grammatica, è un
progresso. SI PREPARA LA VIA ALL’ELABORAZIONE DELLA GRAMMATICA RAZIONALE
O FILOSOFICA alla Groce. E al medesimo
fine e coi
medesimi mezzi forniti
d’Aristotile, riuscivano i critici
della grammatica LATINA,
BORDONI (si veda) Scaligero
e SANZIO (si veda). La
divampante polemica tassesca,
attirando sopra di
sé o le
attività critiche o
l'attenzione curiosa della
maggior parte de' letterati
d'Italia, non è
l'ultima cagione per
cui, smorzandosi le
minori polemiche intorno
agl’avvertimenti di Salviati e
alle questioni linguistico-grammaticali, gli
eruditi e i
grammatici sono come distratti
dall'opera di legiferazione
del volgare, o
meglio dalla continuazione
d'un lavorio ormai
secolare a cui per
forza d' inerzia e
per quel consenso
che sempre viene
accordato alla tradizione
forse avrebbero, in
mancanza d'altro, potuto
attendere. Cade qui
in acconcio un'
osservazione già stata fatta
da altri a
proposito della smoderata
letteratura dantesca
contemporanea. Vi è in ogni
periodo storico una folla
di spiriti inerti
e oziosi, benché
nelle loro ilia
ca Una sommaria esposizione
degli studi e
delle compilazioni di
lingua, di grammatiche
e di vocabolari
nel Seicento, come
complemento del suo contributo
alla storia della
critica, ' La
critica letteraria nel sec.
XVI ', diede
in Ricerche letterarie,
Livorno, 1897, pp.
2S8-312, F. Foffano,
che, col Vivaldi,
fu dei pochissimi
a rivolgere l'attenzione su
questi prodotti letterari.
1 Su questa
e le altre,
U. Cosmo, Le
polemiche tassesche, la
Crusca e Dante
sullo scorcio del
cinque e il
principio del seicento, in
Giorn. st. d.
leti, il. (:,j Croce,
// monoteismo dantesco,
in La Critica. nifestazioni esteriori
sembrino molto attivi,
che ha bisogno
di gettarsi sopra
l'argomento di moda
e sfogare in
esso un' inutile avidità di
sapere: dantisti oggi,
manzoniani ieri, puristi
ier l'altro, arcadi
in tempi meno
recenti, lettori accademici,
legislatori del bello,
grammatici in più
lontane età. Tra
il cader del
Cinquecento e gli
albori del Seicento,
oltre la tassesca
e quella non
mai interrotta della
lingua, più altre
questioni tenevano agitata la
repubblica letteraria, che
ben rispondevano allo
spirito che si
rinnovava, a quel
bollor di vita,
che potè sembrare e
fu in gran
parte bizzarra, stranamente
gonfia ed enfatica, ma
che pur era
vita: questioni che,
come le altre
due specificatamente
accennate, si riducevano
e rientravano in
fondo tutte in
quella generalissima della
poetica, ormai cresciuta
ed organizzata in
corpo sistematicamente completo
e sviluppatissimo di
dottrina, che dall'Italia
trasmigrava per tutta
1' Europa colta.
Eravamo allora in
quel più acuto
studio della poetica
in cui la
teoria, uscita ben
determinata dall' imitazione,
nel diventar legge, cioè
nel giungere alla
sua codificazione completa per
esser subito poi,
con lo scoppiar
del razionalismo e
le formule dell'
ingegno e del
gusto, completamente disfatta,
doveva essere applicata
alle opere d' immaginazione o
già passate o
che ora venivano
spuntando: l' Orlando Furioso,
la Gerusalemme Liberata,
Y Orbecche, il
Pastor fido, oltre
che la Divina
Commedia sempre immanente nell'ammirazione e
nel cuore degl'Italiani, benché cedesse
ora il campo
al Tasso; e
ben si comprende come i
dibattiti teorici, intrecciandosi naturalmente
alle polemiche personali
la serie dalla
caro-castelvetrina già da
noi discussa alle più
recenti sarebbe lunghissima
e attirando su
di sé gli
spiriti accaldati, quasi
non altro da
fare lasciassero ai letterati
in questo campo
di critica, cioè
nell'unico campo della
critica allora aperto,
che la parte
d'attori o di
spettatori appassionati nel
gran torneo schermistico.
La grammatica, che
dalla poetica era
ritenuta quasi vile
strumento meccanico, cioè
dunque facoltà considerata
assai inferiore, perdeva
necessariamente ogni attrattiva. Senza
dire che un
altro sfogatoio erane
le lezioni onde
risuonarono tutte le
Accademie d'Italia, e
specialmente ora quelle
di Firenze e
di Padova; e
che uno sfogatoio
anche maggiore sarebbe
stato tra poco la
prima edizione del vocabolario dell'Accademia della
CRUSCA, su cui
si dovevano versare
in tutti i
secoli posteriori tanti
fiumi d' inchiostro. Capitolo
nono 269 Ma
all' infuori di queste
circostanze clica taluno
potrebbero sembrar troppo
esteriori ed estranee
al movimento grammaticale, due altre
intimamente con esso
connesse lo attenuarono
in questo periodo:
1" l'ordinamento scolastico;
l'essersi detto quanto
s'era potuto dire
in fatto di
grammatica; cioè da
una parte l' essersi
con le ricerche
e sistemazioni del
Salviati conchiuso il vero
periodo produttivo delle
osservazioni delle redole, dall'altro il non schiudersi
ancora le scuole
all'accoglimento, non già del
volgare, ma del
suo codice grammaticale. In
sostanza quella che
fu detta, ma,
come altrove accennammo, in fondo
non fu, la
reazione del volgare
contro il predominio tirannico del
latino, si era
affermata inalberando con
la ferma mano
del Bembo il
vessillo dell'uso trecentesco
specialmente petrarchesco
per la poesia,
decameronico per la
prosa, e sotto
quel vessillo e
con quel duce
aveva lottato ostinatamente
e finendo col
trionfare, per tutto
il Cinquecento: antibembeschi
più o meno
valorosi, più o
meno coerenti, non
eran mancati; ma,
di contro ai
comuni avversari, cioè
i pedanti del
latinismo, gli umanisti
bastardi e in
ritardo, la lotta
era stata più
o meno concorde,
e l'aveva animata
un medesimo spirito
di modernità e d'
italianità, e, felice
espediente o necessità
storica che fosse,
il segreto della
vittoria era stato
appunto quell'essersi eletto
a rocca di
difesa un sicuro
punto strategico, il
Trecento, donde si
poteva fronteggiare l'esercito
del classicismo antico
senza perder dietro
sé le schiere
dei novissimi soldati
dell'arte moderna. In
altre parole, la
causa del volgare
si sarebbe vinta
con una concessione, cioè non
legiferando solo sull'uso
vivo, ma ponendo
a base della
nuova grammatica quanto
della lingua ormai
vincente poteva parere ed
era già consacrato
da un periodo
non breve di
due secoli. Comunque, con
quell'orientamento o in
quell'atteggiamento s'era
combattuto e vinto:
di maniera che,
da quella bibbia, in
cui era stata
la fede, del
Decameron e con
quei fondamentali principi ond'
era stata interpretata,
del Bembo, s' era
finito di cavare,
con gli Avvertimenti
del Salviati, tutto
il nuovo credo
grammaticale, con cui
si doveva e
parlare e scrivere
raodtrnamente e italianamente, e,
quali e quanti
si fossero i
seguaci di codesta
dottrina, quali e
quante fossero state
le opposizioni, le
restrizioni e le riserve, il
certo si è
che ormai tutto
si poteva •
msiderar come già
detto, dimostrato, codificato,
e nulla rimaner
di nuovo da
poter dire e
fare in quel
campo: come succede quando una
legge è sanzionata,
ormai si trattava
di solo applicarla: in questo
si poteva desiderare
come un regolamento,
cioè uno strumento
facile, che servisse
di guida e
di lume nell'applicazione; e vedremo
infatti tra poco
il Lombardelli, il
quasi credutosi incaricato
di compilar codesto
regolamento, desiderare
una grammatica intera,
piena, risoluta e
facile, la quale
appena si potrebbe
cavare da tutt'i
detti Autori ;
ma di una
nuova produzione o
investigazione grammaticale non
si sentì, e
non si poteva
nel fatto sentire,
il bisogno, tanto
più che, come
ora diremo, nei
quadri dell' insegnamento
scolastico la grammatica del volgare
non era ancora
stata ricevuta come
disciplina autonoma e necessaria. Anche
qui, per riflesso
della più vasta
guerra combattuta nel
campo della cultura
in difesa del
volgare, anzi per
un conseguente movimento strategico
(si pensi che
nella scuola, di
natura sua conservatrice, le
novità si fanno
strada quando non
sono più tali),
s'era lottato e,
se non vinto,
non anco per
certo perduto, non
dico imponendo, ma
accettando un patto
conciliativo : l'
insegnamento grammaticale doveva
esser impartito ancora con
e per la
grammatica latina e
per l'uso del
latino, ma per
mezzo, e non
sicuramente in opposizione
violenta del volgare:
così si sarebbe
poi finito col
conciliare in un
medesimo insegnamento l'una e
l'altra lingua, pur
sempre tuttavia, s'intende,
con lo schematismo
grammaticale latino, sino
a tanto che
anche l' italiano non
avesse avuto con
la sua grammatica
il suo insegnamento ufficiale autonomo,
che invero per
la generalità accadde assai tardi.
Del resto, senza
richiamarci alla più
antica tradizione dell'
insegnamento rettorico de'
dettatori bolognesi e
di Dante stesso,
che potè esser
maestro, se non di grammatica,
di rettorica volgare
ne' suoi cadenti
anni ravennati, né
alla meno antica
de' lettori quattrocentisti dello
Studio fiorentino disputanti
anche di grammatica
volgare intorno all'arte
delle tre Corone,
basti il ricordare
qui un fatto
già accennato da
noi come prova d'un'altra
dimostrazione, che cioè,
vale a dire
nel primo vero
affermarsi della grammatica
del volgare, e
un anno o
due prima di
quell' imbelle e
non estremo attacco
del convegno bolognese
in contradittorio preparato
e fallito anche
perchè non preso
sul serio a'
danni dell'italiano, un
anonimo grammatico latinista, che, se
è vera la
congettura dello Zeno,
del vetusto Donato
portavaanche il nome,
dato che fosse
quel Donato, veronese, che s'era distinto
nella pubblicazione di
altrettanti lavori latini
e greci col
medesimo tipografo, non
s'era peritato di
stampare una Gramatica latina
in volgare ,
invocando, si badi
bene a questa
assai eloquente circostanza,
invocando, dico, perdono,
se non ivi
gli era riuscito
di servare tutte
le regole e
osservazioni della lingua volgare:
Avete già veduta
rettorica in volgare, aritmetica, geometria,
astrologia, medicina, filosofia,
teologia, ed altre innumerabili
scienze: avete veduta
eziandio gramatica della lingua
volgare: non vi
rincresca vedere ancora
questa della Ungila
latina, non forse
men necessaria di
quell'altra. E se per
avventura, troverete non
aver lui [l'Autore]
servate tutte le
regole ed osservazioni
della lingua volgare;
perdonategli, perciocché non la
volgare gramatica, ma
la latina vuol
insegnarvi hi parlar
volgare C). Opera
nuova questa non
era, come l'anonimo
autore non senza
pur legittima compiacenza, asseverava: poiché
di grammatiche latine-volgari in
volgare, come anche latine-francesi in
francese, argomentammo essersene divulgate necessariamente, sebben
poche, nientedimeno fin
dal sec. XIII:
nel sec. XV,
nel pieno rigoglio
dell'umanesimo, codeste
grammatiche latino-volgari, salvo
rarissime eccezioni, s'era
tornati a dettare
naturalmente in latino:
il che spiega
il vanto dell'anonimo
cinquecentista: ma sì
era nuovo lo
spirito e l'atteggiamento con cui
la pubblicava, e
che era quello
di chi pur
aveva e non
poco da concedere
così presto al
volgare che veniva
imponendosi perfino nei
penetrali più intimi
del latino, cioè
nella sua grammatica,
come più volte
vedemmo. Per entro
il più maturo
Cinquecento numerose prove
si potrebbero raccogliere di altrettali,
ora più ora
meno ampie, concessioni
e nei dibattiti
e nei trattati
e nelle scuole,
che per amore
di brevità e
perchè le istituzioni
scolastiche non sono
per l'appunto l'oggetto diretto della
nostra ricerca, noi
tralasceremo: ma non
senza averne addotte
alcune poche di
età diverse quasi
a stabilire le pietre
miliari d'una lunga
via che doveva
condurre alla logica
risoluzione d'un così
complesso problema. Ne
ho data una
di poco posteriore
al primo quarto
del secolo. Verso
la VI qui. La
grammatica della lingua
romana in volgare,
assai più nota
e divulgata, di
Priscianese.] metà e poco
prima d'essa, Fabrini
da Fighine così annotava
un luogo del
Sacro regno, da
lui di latino tradotto in
volgare, del Patrizio:
Discostandomi un poco
dall'opinione del mio
Patritio, dico che
non manco ne
la volgare si debbe
affaticare , perchè
tutti che s'
hanno a dare
a le scienze,
debbono imparare prima
bene la grammatica
volgare, cioè della
lingua loro (:),
osservazione parsa fortissima
al Gerini, memore
del luogo del
Varchi, in cui
è affermato l'assoluto
divieto, a cui
non si mancava
senza esser puniti,
di servirsi del
volgare nelle scuole,
e del De
liberis recte instituendis
del Sadoleto, dove
non si fa
alcun cenno della
lingua italiana (s).
Se non che
questo silenzio e
quello stesso divieto
che cos'altro dimostrano se
non la forza
irresistibile del volgare?
Nel terzo quarto
di secolo, e
precisamente, una prova
più forte ce
la fornisce quell'arguto
libretto, degno d'esser
raccomandato ancor oggi
a maestri di
latino e di
italiano, che va
sotto il nome
di Aonio Paleario,
uno degl' interlocutori
del Dialogo, anzi
l'interlocutore, che, biasimando
le false esercitazioni
de' grammatici, addita
sull'autorità di CICERONE (si veda), i
sani precetti, dal
titolo // graviatico
ovvero delle false
esercitazioni nelle scuole.
L'operetta è diretta
agi' insegnanti di
latino e a
condannare il metodo
di chiosare il
latino col latino
già lamentato da
Cicerone, e col quale
in luogo delle
buone, e proprie
parole, che aveva
usate il buon
Poeta, dichiarando così,
[il grammatico] poneva
le non proprie,
e non idonee
(p. 37); così,
cioè sosti I
' De la
Teorica della lingua
dove s'insegna con
regole generali et
infallibili a tramutar
tutte le lingue
ne la lingua
latina . In
Venetia, appresso G.
B. Marchio Sessa
et fratelli, Appresso Nicolini).
Nella deci, a
Cosimo de' Medici
accenna a una.
pratica della lingua
da lui fatta,
che è un
volume grandissimo. Il canone
del Fabrini si
riassume in queste
sue parole della
medesima dedica: Non
trovo né trovai
mai, né il
più fedele, né
il più dotto,
né il più
pratico consigliere che la sperienza
. La Teorica
è una bella
sintassi de' casi
con altre regole
concernenti i gerundi,
(piai è stata
poi esposta recentemente
ne' volumetti tipo
Gandino. In Venezia,
appresso Domenico e
Giov. Battista Guerra,
fratelli; ma la
prima edizione è
del 47. (J)
Gerini, Codesto libro
fu (rad. da
1. Montanari con
annotaz., Ili ed.,
Parma, Fiaccadori, 1S47.
(4) Venezia: ma
io ho l'edizione
perugina del Costantini,
MDCCXVII. Capitolo nono
273 tuendo ad
Arma virumqiu amo
' Ego Virgilius
canto bella et
Aeneam illuni hominem
fortissimum ', come
farebbe chi, volendo
chiosar la sentenza
onde s'apre il
Decameron, ' Umana
cosa è aver
compassione agli afflitti ',
dicesse 'è, existe,
appare: cosa, una
faccenda, una impresa,
una bisogna, umana
di uomo, o
mortale, o di
mortale, aver compassione,
aver misericordia '. E qual
metodo suggerisce il
Paleario? La parafrasi
in volgare, la
versione e la
retroversione, cioè il
metodo comparativo che
importa lo strumento
e l'uso della
grammatica e della
lingua volgare. Né,
si badi, perdendo
di vista gl'interessi
del volgare, anzi
intimamente collegandoli con quelli
del latino, in
modo che gli
uni non si
favoriscano senza insieme
favorir gli altri.
Voi dite ,
si fa dire
Aonio dal suo
interlocutore, che il
modo che tegniamo,
nel leggere e
nel dichiarare le
lezioni latine, farà,
che non mai
i fanciulli impareranno
la lingua latina:
e l'epistole, che
noi diamo volgari,
acciocché le facciano
latine, faranno, che
non mai sapranno
scrivere non solamente
un'Epistola latina, ma
non pure una
leggiadra lettera volgare
(p. 16), per
poi così ammaestrarlo: dichiarate
le lezioni latine
con la lingua
volgare, e così esercitate
i fanciulli che
repetano volgarmente, e
non corromperete la
lingua latina, ma
in un medesimo
tempo insegnerete loro
la copia, e
la proprietà di
due lingue, di
maniera, che in breve
potranno verissimamente scrivere
coll'una, e coll'altra,
ed avendo imparato
da voi, potrannoi
giovanetti esercitarsi in
tradurre l'epistole di
Marco Tullio, ed
essendo loro mostro
dal Maestro le
maniere, ed i modi di
dire diversi, scriveranno
da loro stessi
lettere, ed orazioni
latine, e toscane
leggiadrissimamente (p. 52).
E contro l'uso,
prevalente anc'oggi nelle
nostre scuole, delle
traduzioni dal volgare
in latino, così
esplicitamente ammonisce, dandone
lumi anche per
l'arte dello scrivere
in italiano: l'idioma
della lingua latina
è molto diverso
dal nostro volgare,
ne è maggior
sciocchezza al mondo,
che voler esser
volgar latino, o
latino volgare. Da
questi errori sono
nati gli stili
falsi Toscani del
Polifilo, e gli
stili falsi latini,
o moderni, di
che è impestato
il mondo: a
volere scrivere dunque
leggiadramente nell'una, e
nell'altra lingua, bisogna
avere tuttavia l'occhio,
e la mente
a questa diversità,
ed oltre alle
parole di tali
lingue, i modi,
le maniere, i
tratti, le grazie,
gli ornamenti, li
quali si mostrano
sparsi negli scritti
degli buoni Autori,
non altrimenti, che
nelle più serene
notti le stelle,
nel Cielo. E,
additati i cattivi
effetti che nascono
e permangono per
tutta la vita
da codeste false
esercitazioni, acutamente osserva:
e quello, che
è cosa maravigliosa,
se alcuni si voltano,
e si danno
alla miglior letteratura,
avviene, perchè sono
di eccellentissimo ingegno,
il quale essendo
avvezzo in tutte
le azioni sue
a seguire la
ragione, come verissima
guida, veduto, e
conosciuto il vero,
si, muove con
grande impeto, e spezza,
rompe e fracassa
ogni velo, ogni
falsa opinione, che
teneva occupato e
prigione l'animo. Laonde
camminando col lume
della ragione per
nuova via, fanno
cose miracolose. E
senza tuttavia abolire
addirittura l' insegnamento della
grammatica che riduce
a' suoi veri
termini e contro
cui arriva a formulare
questo rivoluzionario principio,
" non fidarsi
mai di regole
di grammatico alcuno,
manifestamente dimostra che, se un esercizio
giova, questo è di leggere
gli scrittori e in
essi studiare le
regole. Osservato che
giovinetti riescono a
scrivere boccaccescamente e
alcuna donna a
scrivere petrarchescamente,
domanda: Chi insegnò
a quella Donna?
alcun maestro di
grammatica le dette
il Tema?... Chi
adunque le insegnò, altro che
la diligenza nel
leggere, ed osservare
le parole, conoscere
i concetti, dilettarsi
dell'armonia, de' numeri,
ch'empiono le orecchie, accendono
l'animo all' imitare?. Non
è peraltro per
illustrare il buon
metodo consigliato da
lui che noi
ci siamo qm
indugiati intorno alle
vedute del Paleario,
ma specialmente per dimostrare
coni' egli, discorrendo
di precettistica grammaticale
latina, ha continuamente
il pensiero al
volgare, senza il
(piale, non era
ormai più possibile
1' insegnamento classico e al
quale, ben s'argomenta,
miravano le scuole
stesse come a
disciplina in cui
non era più
lecito ormai non
erudire i fanciulli. Un
altro pedagogista tutt'altro che
moderno, Meduna di
Motta [L'ufizio del
gramatico, come poco
dianzi elicevamo, è
insegnare con la lingua
che ha propria,
e che è
comune a lui,
ed agli scolari;
conoscere le parti
dell’orazione, e variare,
o declinare, come
voi dite, le
parti declinabili, e
congiungere attamente le
parole insieme sempre avendo
l'esempio avanti cieli ì
buoni autori, etc.
Abbiam visto il
Lapini scriver in
latino la grammatica
del fiorentino. Ricordisi
anche la Contesa
di cui si
fece cenno. di Livenza
nel Friuli, in una sua
opera in tre
libri intitolata Lo
scolare nel quale
si forma a pieno un
perfetto scolare, discorrendo della Grammatica,
che chiama, secondo
l'antichissimo canone, madre di
tutte le altre
discipline, e che,
secondo lui, impone
leggi all' ortografìa,
alla prosodia, all'
etimo logia, alla sintassi,
alle figure, ai
tropi, alle sentenze,
all' 'analogia, raccomanda egualmente
lo studio teorico
e l'esercizio pratico,
il primo sui
testi antichi e
moderni quali il
Valla e il
Perotto, ma aggiungendo
che non si
sarà grammatico senza
aver imparato a memoria
tutto Donato con
le regole di
Guerino, per lasciar da
un lato i
Cantatici e i
Mancinelli • una vera
indigestione, insomma, di grammatica
latina d'ogni età
e d'ogni fatta.
Eppure non dimentica
la lingua volgare
né di raccomandar
in proposito le
Prose del Bembo,
le Osservanze del
Dolce, le Annotazioni del Ruscelli,
sparse, e la
Grammatica del Castelvetro C), cioè
tutti i veri
grammatici stati in
voga nel Cinquecento
fino all'anno in cui egli
scriveva e venivano
in luce gli
Avvertimenti del Salviati, che
evidentemente ancora egli
non conosceva. Anche l'Antoniano,
che il Castelvetro
chiamò miracoloso mostro di
natura , ne'
tre libri dell' Educazione cristiana
de* figli ', dove
consiglia di liberar
i fanciulli dalle
molestie della grammatica,
di cui non
intendono i termini,
facendogliela apprendere
indirettamente sugli autori,
non riprende qualche
studio della lingua
volgare e a
tal uopo consiglia
le versioni. Finalmente,
per arrivare al
tempo in cui
ci troviamo con
la nostra narrazione,
due altri notevoli
esempi dovrei addurre,
quello del Possevino,
autore di un
De cultura inge?iiorum
e l'altro del
perugino Crispolti, autore
di un Idea
dello scolaro che
versa negli studi
(fi), entrambi scriventi nel
1604, per confermare
come la tradizione
che Venetia, Fachinetti,
-S ',yr. Cfr. Gekinm. op.
cit., II, 405.
Correzione all' Er colano
cit., p. 54.
In Verona, per
Bustina delle Donne,
15S4. Il Castelvetro
lo dice scolaro
di L. G.
Giraldi; il Varchi,
nell'Ere ola no
(ed. cit., p.
423 e l'annotatore
delle Opere di
Sp. Spero?ii (tomo
II, p. 2ir)
lo dicono scolaro
del Caro, ma il Castelvetro
( Correa., in
Ercol. cit., p.
32 lo nega.
Cfr. Gkrini. Venetia, Ciotti.
Cfr. Gerini, Ant.
Possevino scrittore educativo, in
L'oss. scolastico, Perugia.] si ricollega
a quell'anonimo del
1529, fosse andata
ormai mettendo sempre
più salde radici.
Tuttavia e concluderò
così questa lunga
parentesi l' insegnamento della
grammatica volgare non era peranco
ufficialmente riconosciuto , né aveva
perciò programmi e
testi suoi, se
anche indirettamente venissero
ad essere svolti
gli uni e
consigliati gli altri:
e al consiglio
bastavano i grammatici cinquecentisti or
or nominati, aggiuntovi
naturalmente il Salviati.
Queste le varie
cause onde secondo
noi in questo
periodo, che dal
Salviati va al Buommattei
e al Cinonio
editi che il
primo di questi
due cominciò ad
attendere all'opera sua non
leggera né facile
fin dal 1612,
la rigogliosa fioritura
grammaticale cinquecentesca s'arrestò;
ma senza, naturalmente,
avvizzire ne intristire
del tutto. Non
foss' altro, se anche
non furono propriamente
grammatici nel senso ristrettissimo e
compiuto della parola,
avemmo due diversamente
benemeriti e orientati
cultori delle discipline
grammaticali, entrambi senesi,
come senesi furono
in questo momento ben
altri partecipi del
movimento linguistico, quasi
l'accampamento di Firenze si
fosse attendato a
Siena, che di
valore per tutto
il Cinquecento aveva
mostrato notevoli esempi,
basti ricordare il
massimo del Tolomei:
Orazio Lombardelli, cioè,
e Celso Cittadini:
l'uno, precettista pur
esso d'una parte
della grammatica, 1'
ortografia, la pronunzia
e la punteggiatura, che,
riassumendo e vagliando
i meriti di
precedenti grammatici e
vagheggiando un nuovo
tipo di grammatica
più nei rispetti
dell'assetto esteriore che del
contenuto legislativo, additò,
come conscio de'
bisogni d' un'
educazione intellettuale più
vasta e moderna
per gli effetti
della produzione letteraria,
se non un
piano di riforma
degli studi, certo
un sistema più
organico e complesso
dove fossero mostrati
nella loro rispettiva
funzione i fonti
dell'arte, gli strumenti,
i metodi, i
fini; l'altro, filologo
per proprio o
per altrui merito,
che, plagiario o no,
dimostrò d'intendere il valore
delle indagini dei
Tolomei, dei Castelvetri,
dei Bartoli, divulgando
i principi e
gli elementi di
quella gramma (,'j
Una Cattedra di
lingua toscana tu
istituita, come s'è
visto, dal Granduca:
a Siena ne
fu primo lettore
il Borghesi nel
1589. Col decreto del
1571 ricordato dal
Borghini il Granduca
ordinò che fossero
compilate regole della
lingua fiorentina da
leggersi in tutte
le scuole.] tìca storica,
che, già rosi
ben promettente nel
suo giovanil rigoglio e
assurta già .1
fastigi veramente impensati,
senza per altro
che quei cultori
si stringessero scientemente
come pochi ma
saldi anelli di
una catena in
una comune tradizione,
doveva poi, a
maggiore danno, almeno
per tutto il
Seicento, quasi miseramente perire o
giacere dispetta e
scura, di contro
alle in gran
parte inutili, infeconde
e noiose logomachie
intorno al vocabolario della Crusca.
Il Lombardelli, anch'esso
già da altri
lodato di non
aver mai disgiunto
nella sua precettistica
e nel suo
insegnamento gli studi
del volgare da
quelli del latino,
non fu davvero
poco ferace nella sua
vita che non
dovette esser lunga:
poiché delle sue
opere, elencate tutte
da lui stesso
ne' suoi Aforismi
scolastici^, le grammaticali o che con
la grammatica hanno
una certa relazione
se non altro
per il metodo,
a prescindere dalla
parte anche da
lui presa alla
polemica tassesca, sono
nientemeno che dodici.
le più d' indole
strettamente ortografica o
ortoepiche, altre quasi lessicali,
e quasi tre
pedagogiche o didattiche: di tutte
la più notevole
è naturalmente quella
dei Fonti Toscani.
Della principale di
quelle ortografiche, V Arte
del puntargli scritti edita
nel 15S5, ma
di cui aveva
già dato un
saggio molto bene
accolto fin dal
66, sarebbe detto
tutto quando, ri
Gerini. In Siena presso
Salvatore Marchetti, 1603
(sono 887, distribuiti in 68
distinzioni). \z L'elenco
è ripetuto in
Gerini. Quelle che più
direttamente c'interessano sono:
I. Dei punti
e degli accenti,
clic ai nostri
tempi sono in
uso tanto appresso
i Latini quanto
appresso i Volgari.
In Firenze, per
li Giunti, 1566.
II. L'arte del
puntar gli scritti,
formata ed illustrata,
Siena, presso Bonetti.
Memoriale dell'arte del puntar
gli scritti. In
Siena, Bonetti, 158S
(Verona, 1596). IV. La
difesa del zeta
(già cit.). V.
/ riscontri grammaticali. In Firenze,
due volte e
in Siena. VI.
La pronuncia toscana.
In Fiorenza, presso
il Marescotti. VII. L fonti
toscani. In Firenze, appresso Marescotti (cfr. Conte
Silvio Feronio, //
Chiariti, Dialogo, ove
trattandosi de' fonti
toscani d'Orazio
Lombardelli, si va
ragionando d'altre cose.
In Lucca, presso
il Busdrago. Le eleganze
toscane e latine.
In Siena, 1568,
e in Firenze,
Marescotti, 1587. IX.
LI giovane studente.
\\\ Venetia. Gli
aforismi, S conosciutane
l'abbondanza e la
metodica trattazione della
materia, si fosse ripetuto
l'aforisma a cui
egli s' ispirò nel
forviarla ed illustrarla:
lingua fiorentina in
bocca senese, principio
contradittorio, col quale
egli cercò di
trovare una via
conciliativa tra il
primato fiorentino e
il diritto che
Siena s'arrogò e
le fu riconosciuto
d'emular Firenze e
che esprime, come
vedremo, .issai bene
uno de' nuovi
aspetti della rinnovantesi
critica letteraria; ma, a
lode del libro,
occorre aggiungere che
ha il merito
d'aver registrato, al
cap. 4 della
parte prima, per
ordine alfabetico, tutti
i precedenti trattatisti
italiani e latini
della materia con
l'indicazione delle opere
o de' punti
particolari ih cui
ne trattarono: tra
i latini, Aldo
Pio Manuzio in
calce libri quarti
grammaticarìim institutionum, il
Valla al cap.
41 lib. YI
Elega?iliarum, lo Scoppa,
il Vives nel
suo De ratione
studii; tra gl'italiani,
il Franci, il
Firenzuola, Cavalcanti (5'1 della
Rettorica), il Lenzoni
(3a giorn. della
Difesa della lingua
fior, e di
Dante), il Tolomei
(in una lettera
a m. F.
Benvoglienti), V Alunno, il
Trissino, il Ruscelli
(in Del modo
di comporre in
versi e sopra
il Furioso), il
Salviati, il Castelvetro
{Sposiz. della i&
particella della V
parte della Poetica
di Aristotele), il
Dolce, il Toscanclla,
il Giambullari, il
Bembo, il Neri
Dortelata {Osservai, per la
pr. por.). Quanto
al contenuto, basterà
osservare che, premesse
alcune avvertenze per
intender più agevolmente
l'opera e servirsene
con frutto, circa
le persone a
cui si aspetti
la cognizione e il
buon uso de'
punti (maestri, stampatori,
scrittori, pubblici ufficiali),
sulle cagioni de'
grandi abusi, che
nell'arte del puntar
si passano (3),
sugli autori che
hanno scritto de'
punti (4), sulle
stampe che sono
più corrette nel
buon uso de'
punti, passa alla
descrizione del punto trattando del
trovamento, della necessità,
e dell'ordine naturale
de' punti, degli
Autori che rendon
testimonianza dell'autorità de'
punti (3), della
convenenza, e disconvenenza, o
vero della comunità,
e differenza, che
si ritruova tra'
Punti '4); indi
a discorrere del
sospensivo (la nostra
virgola), trattando del
nome, figura, ordine,
necessità, descrizione, regole
con appendici e eccettuazioni: poi
del mezopunto, ;, del coma, :, (VI)
mobile (.), interrogativo, affettuosa (la
nostra esclamazione), Parentesi,
Apostrofe, Periodo. Onesti
trattati di punteggiatura, più
o unno completi,
]>iù ci meno
polemici, accompagnarono sempre
in connessione 0
no con i
vari sistemi ortografici
in tutto il
suo secolare svolgimento
la vessatissima questione
della lingua, non
pure a partir
dai precursori senesi
e fiorentini del
Trissino nella riforma
delle nuove lettere
fino agli ultimi
manzoniani, senza che
ancor Oggi, .1
proposito di vecchi
e di nuovi
sistemi di punteggiatura
(si ricordino gli
esempi del Leopardi
seguiti da Carducci e
ancor più dal
D'Annunzio parchissimo eli
punti e del
Manzoni che n'è
invece larghissimo), non
si tenti con
inutilità manifesta rinnovar
le vecchie diatribe,
ma anche nel
precedente periodo che
corre dal De
vulgari eloquentia alle
contese quattrocentesche prò
e contra le
tre Corone. Vedemmo
già, a non
ricordar altri, il
Petrarca risponder con
un trattatello dell'arte
di puntar gli
scritti al Salutati
che gliene aveva
mosso questione. Ho
parlato d'inutilità manifesta:
poiché, risoluto ormai,
come dobbiamo ritener
che s'è fatto,
il problema filosofico
sul linguaggio con identificare l'estetica
con la linguistica
generale, non s'intende
proprio come si
chieda, per es.,
al D'Annunzio perchè
non si degni
conformarsi all'uso ormai
comune e intorno
al quale l'accordo s'è
ottenuto così nella
grafia come, s' intende,
essendo l'i - .1 questione,
nella punteggiatura, quasi
volendolo rimproverar come d'un'inutile
bizzarria o d'una
posa e chiamandolo
responsabile de' cattivi
effetti che il
suo capriccio tirannico
può produrre sull'arte
e sulla scuola.
O non sono
anch'esse e le
forme speciali ortografiche
e le specialissime
interpunzioni d'un poeta
le sue parole
interiori? Egli parla
con sé a
quel modo, ed è illogica
e tirannica quanto
vana la pretesa
di voler che
e' parli secondo
un uso astratto,
cioè dica delle
parole mute. Anche
ne' punti è
egli sempre il
Poeta quale si
dimostra in tutta
l'originalità delle sue
visioni. Mentre invece
il problema non
era vanamente trattato
e discusso con
più o meno
vivo calore, quando,
nel! 'affermarsi e nello
svolgersi della nuova
letteratura e, concedo
ancora, nel romantico
rinnovarsi di essa,
allor che ancora
la vera formula
estetico-filosofica non era
stata [Riguardavano,
s'intende, specialmente il
latino; ma, a
tacer d'altro, il
Borghini, come abbiani
visto, ricordava d'aver
visto un libro
tra quelli del
periodo intorno all'ortografia, della
quale i nostri
antichi -non curarono
affatto , loc.
cit. 280 Storia
della Grammatica trovata,
la coscienza artistica
non si poteva
appagare degli scarsi
segni eravamo ridotti
quasi al solo
punto ereditati dal
primo Trecento, né
de' nuovi che
venivano o rintracciati
nell'antichissimo uso o novellamente
foggiati. Nessuno di
que' nostri trattati fu
inutile o arbitrario
prodotto da trascurarsi
a chi fa
la storia e delle istituzioni
didattiche e dello
spirito filosofico, poiché
ciascun d'essi era
l'effetto d'uno sforzo,
d'un bisogno a
cui ben si
sentiva non era
facile sottrarsi, quando
si fosse voluto
esprimere con pienezza il
proprio pensiero; o
meglio quando si
fosse voluta schiarire
e possedere l' immagine
interiore del proprio
pensiero. Potevano credere
quei trattatisti di
dirigersi al comodo
pratico non pur
degli apprendenti sì
anche de' tipografi
e scrivani pubblici;
in latto essi
rispondevano ai quesiti infiniti che
sorgevano nella coscienza
artistica de' nuovi
produttori della letteratura:
e il moltiplicarsi
di codesti trattati,
e l' ingrandirsi del
loro corpo fino
alla mostruosità dell'ampio
volume veniva a
segnar via via
il loro fallimento
completo di fronte
alla scienza, che
non conosce leggi
fonetiche, né grammaticali, né, particolarmente, ortografiche
o di accentuazione
e interpunzione. Si
noti, infine, a
conferma di tutto
questo, che ciascun
d'essi s'eleggeva il
principio che meglio
e più rispondeva alla sua
coscienza artistica, appunto
perchè il loro
senso estetico, ossia
il loro particolar
modo di sentire,
si ribellava a
ogni altra legge
che in qualche
modo lo violentasse
nella sua libera
e piena manifestazione: e
il Lombardelli non
cavò di sua
testa il principio
che è fondamento
della sua dottrina
ortografica, lingua
fiorentina in bocca
se?iese, né nel
formularlo s' ispirò) come
dice il D'
Ovidio , al
lodevole esempio di
moderazione che gli era
stato porto dal
suo più illustre
concittadino Tolomei; ma lo
dedusse dal suo
particolar gusto di
senese, anzi di artista,
quale si fosse,
del suo volere
e dover esser
lui e non
altri. Il Petrarca
s'è già visto
era arrivato perfino a
crearsi de' segni
particolari, più che
d'interpunzione, di rilievo,
direi quasi, e
di colorimento per
certi speciali atteggiamenti del
suo pensiero artistico.
Sui fonti Toscani,
la più nota
e diffusa opera
del Lombardelli, ebbe già
a portare la
propria attenzione il
D'Ovidio, che ne ] biasimò
il titolo per
esservi stati sotto
compresi concetti disparatissimi con
criterio goffamente didattico,
e non ne
risparmiò naturalmente il contenuto.
Riconosce peraltro che
il libercolo non
iindegno di studio;
giacchèj quantunque farraginoso
e sconnesso, ha
qualche importanza per la questione
della lingua e per quella
dell'origine, contiene qualche
buon ragguaglio, e
propugna con urbanità
opinioni temperate e
conciliative. Retto e
mite per natura, quale
si dimostra anche
nell'atteggiamento benigno verso
il povero Tasso,
il Lombardelli non
cadde in eccessi
(l), come il
Bargagli, vero separatista
tra il fiorentino
e il senese,
né in quella
violenza in cui
trascese, più tardi,
per esserne il
capro espiatorio, il
Gigli ("). Per
fonti il Lombardelli
intende tutte le
sorgenti onde possiamo derivare rivoli
e fiumi d'eloquenza
toscana. Ne fa
dodici categorie: la lingua
latina; la voce
viva dei popoli
di Toscana ; le
scritture del buon
secolo; i linguaggi
italiani; la lingua
greca; i linguaggi
stranieri; gli autori
della teorica di
nostra lingua; le
traduzioni; gli scrittori
di prosa moderna;
io. i poeti;
i prosatori scelti;
e i tre sommi
del Trecento. Quanto
alla settima, osservisi
che gli autori
della teorica di
nostra lingua per
il Lombardelli non
sono solamente i
grammatici, ma tutti
coloro i quali
ci insegnano, come
si debbia parlare,
e scriver lodevolmente,
con regole, avvertimenti,
e precetti di
Grammatica, di Rettorica,
e di Dialettica,
guidati anco talora,
e praticati per
via di Istorie
e con ragioni,
prese dalla Filosofia,
e d'altronde (pp.
46-7). De' grammatici
propriamente detti raccomanda i
più recenti, designandone
il grado d'attendibilità: se
pur nel Dolce
ha difetti, si
trovan notati dal
Ruscelli, se nel
Bulgarino, si trovan
ripresi dal Zoppio,
e difesi da
lui proprio e
dal Borghesi. Se
finalmente dal Borghesi
e dal Salviati,
né ho da
parlar io nelle
riprese dodicesima e
tredicesima del penultimo
fonte. Ma torno
a dire intanto
che per quanto
appartiene a questa
parte della
Teorica di nostra
lingua, gli ho
per guide sicuris
Pe' plagiari del
Tolomei, in Pass,
bibliogr., I, 467.
Ma di plagio
non si può
parlare riconosce il
D'Ovidio tranne che
pel titolo e
qualche idea e
osservazione particolare. Il
Lombardelli non ricorda
del Tolomei solo
le opere a
stampa. (:) Le
corr. cit. 2S2
Storia della Grammatica
sime (p. 58).
Ma ciò non
toglie che egli
non si taccia
a esporre un
lungo catalogo di
desiderata con la
più grande disinvoltura:
si desidera una
Gramatica intera, piena,
risoluta, e facile:
la quale appena
si potrebbe cavar
da tutt'i detti
Autori. Poi un
ampio Tesoro, dove
sien raccolte tutte
le voci attenenti
al puro toscanesimo, scelte con
buon giudizio tra
le antiche, e
le moderne, sposte
con la copia,
esaminate nella origine,
nella proprietà, nella
proporzione, o
corrispondenza, nelle differenze,
nelle costruzioni semplici,
e nelle figure,
avvivate con gli
opposti, ornate degli
epiteti e degli
aggiunti, assicurate finalmente,
ed approvate con
diverse parti degli
scrittori del buon
secolo e de'
più regolari del
nostro, specialmente di
quei dello ultimo
fonte... Mancane un
Vocabolario, non indirizzato
a quei che
aspirano all'eloquenza, ma
alla turba, per
intendere tutt'i vocaboli
del Volgo e
degli Antichi: e
potrebbe farsi a
imitazione o di
quel Polluce greco,
o di quel
d'Anton Nebrisense, spaglinolo,
e latino: poiché
non ci può
sodisfar la Tipocosmia
d'Alessandro Citolini da
Serravalle. Mancavi un
Dizzionario poetico; e forse
alcun altro d'altra
sorte rispetto alle diverse
arti e professioni.). Ci
manca un Proverbiarlo cominciato già
dal nostro sodo
Intronato. Una sindacatila [manca] sopra
a tutti i
pregiati scrittori toscani
antichi e moderni, come
fu fatto per
gli antichi da
Quintiliano e Tacito
in Cicerone, da
Polemone in Sallustio,
da altri in
( hnero e
Virgilio, dal Valla
in diversi (ib.).
Ricordate le promesse
di Vocabolari di
G. C. Dal
Minio, del Ruscelli,
del Salviati, annunzia quelli del
Persio e della
Crusca: ragguaglia che
Ottaviani Ottaviano suo
allevato, scolaro di
medicina, stava componendo la
correzione degli abusi
introdotti nella lingua
(forestierumi, dialettalismi e
idiotismi vernacoli); annunziala [Il Lombardelli era,
sembra, scontento della
non scarsa letteratura proverbiariesca a
lui anteriore: per
lo meno ignote
non gli dovevano
essere le varie
edizioni della Civil
conversazionidi Stefano Guazzo.
Cfr. per questo
argomento, Xovati, Le
serie alfabetiche
proverbiali e gli
alfabeti disposti nella
letteratura italiana dei
primi tre secoli,
in Giorn. si.
d. leti, il.,
voi. XY e
XVIII; e L.
Boni-ioi.i, Stefano Guazzo
e la sua
raccolta di proverbi
in Niccolò Tommaseo.
In ogni modo
il desiderio espresso
dal Lombardelli vien
ad essere una
diretta conferma del
tatto, dal Bonfigli
affermato, che la
mania per i
proverbi era nell'aria.
In gran parte
l'avrebbe invece, soddisfatto,
tra poco il
Monosini, di cui
s'è già discorso.] Semenza delle
burle d'un suo
amico, contenente centinaia
di voci non
mai uscite in
istampa, proverbi, sbeffamenti,
sentenze popolaresche. e per comodo
de' forestieri, con le corrispondenze nobili, sì
che un detto
burlesco venga dichiarato,
ad es., in
dieci 0 venti
modi nobili. Porge
infine degli avvertimenti
speciali ai forestieri"
{soggiorno in Toscana;
lettura delle opere grammaticali
del Dolce, del
Ruscelli, del Salviati,
del Bembo, del
Borghesi: la lettura
degli scrittori antichi;
la Fabbrica dell'Alunno;
composizioni; traduzioni; corrispondenza con
toscani), ai fanciulli
toscani, alle donne,
agli studenti, dottori e
nobili artefic i (deplorando la
scarsa cultura degli
artisti!), ai notai
e cancellieri, ai
segretari, agli accademici,
ai predicatori ('•ammaestrati prima
ne' fonti della
Gramatica, Greca, Latina,
e Toscana, come
Appollonio Alessandrino, Urbano,
Demetrio, Prisciano, Emanuele
Alvaro, Mario Corrado,
Tommè Linacro, Agostin
Lazaronio, Giovanni Scopa,
il Manuzio, Anton
da Nebrisa, il
Ruscelli, il Bembo,
il Castelvetro, il
Salviati e altri),
agli Umanisti, Traduttori,
Poeti, Istorici e
altri. Il carattere
zibaldonesco del libro
e quello un
po' cervellotico de' principi
secondo cui è
stato imbastito, saltano
subito all'occhio; pure
di tra la
farragine e delle
cose e de'
principi un fatto
balza anche fuori
che torna a
tutta lode del
Lombardelli ; questo, che
egli, additando sì
disparati modi e
strumenti onde dovesse
e potesse acquistarsi
dalle varie classi
sociali la cultura
e l'arte letteraria,
mostrava d'intendere che
non c'è una
sol via per
imparare a scrivere
e a parlare,
e che l'intelletto
va -'i-citato e
nutrito non con
le sole regole
ma con più
sorta di cibi o di
ricambi. La grammatica,
anzi, nel piano
educativo da lui
disegnato, occupa una
parte molto secondaria,
è una parte
d'uno de' dodici
fonti: ed essa
stessa non è
pedantesca, ma è
concepita e desiderata
liberale e facile.
Egli non la
corrode filosoficamente, ma ne
attenua, nel fatto,
la portata. Ed
anche questo per
la storia è
notevole. La scarsa
fede, in sostanza,
in un prodotto
antiscientifico, se non
è indizio di
senso scientifico, è
certo segno di
buon senso, che
è base di
quello. Il Cittadini,
dai sommi altari
della filologia a cui era
stato elevato tra
i profumi dell'incenso
e il coro
delle lodi, è
caduto ìgnominiosamente a
terra: e oggi
non se ne pronunzia il
nome, senza chiamarlo
grande depredatore del
Tolomei, malo affastellatore di
scritti non suoi,
e con epiteti
consimili; ma cancellarlo
dalla storia non
si può. Parliamone
dunque anche noi,
senza più oltre
incrudelire: cosa facile
grazie alle diligenti
fatiche d'un altro nostro
valoroso corregionario, Filippo
Sensi, che, per
ripetere una frase
del Rajna, ha
i due Senesi
sulla punta delle
dita. Cominceremo dal
riassumere del Sensi
lo scritto principale.
L'egregio studioso, a
metter bene in
chiaro i gravissimi
debiti del Cittadini
verso il Tolomei,
rivolge primieramente uno
sguardo generale alle
Origini del Cittadini.
Le Origini della
Volgar Toscana favella si
rannodano con un
precedente trattato del
Cittadini stesso, che
reca un titolo
consimile: Della vera
origine, e del
processo, e nome
della nostra Lingua.
Il Sensi stesso
riconosce che qui,
oltre il concetto
della derivazione
dell'italiano dal latino
popolare, si ha
un abbozzo veramente pregevole di
storia di questo
latino; ma quando
si viene a
chiarire il modo
di quella derivazione,
la ricerca è
abbandonata sul più bello.
Esaminata in confuso
e come per
esempio del restante
l'origine de' pronomi,
si rimanda al
Bembo, al Castelvetro,
al Salviati, ne'
quali invano si
cerca qualcosa di
simile pel concetto
e pel metodo. Nelle Origini
la ricerca [Per
la storia della
filologia neolatina in
Italia. Appunti di
F. Sensi: I.
Claudio Tolomei e
Celso Cittadini, in
Arch. gioii. Hai. (cfr.
D'Ovidio, in Pass,
bibliogr. d. lei/.
Hai., I, 46-9;
e Sensi). Le ...
ecc., per Cittadini
lettor publico di
essa nello Studio
di Siena e
Censor perpetuo della
medesima nell'Accademia de
Filomati. App.: Salvestro
Marchetti, in Siena. L'ed.
di E. Gori,
Siena, è detta
dallo Zeno migliore
della prima. (Il
Vivaldi, op. cit.,
I, 166, attribuisce
a Ercole Gori
un trattato grammaticale, che
io non ho
potuto rintracciare. E
una svista?). Le
Opere di Celso
Cittadini gentiluomo sanese
con varie altre
del medesimo non
stampate furono raccolte
da Girolamo Gigli.
In Roma, per Rossi.
Oltre i due
trattati dell'origine questa
raccolta contiene il
Trattato degl'idiomi toscani,
le Note marginali
alla Giunta del
Castelvetro, e le
Note sopra le
Prose del Bembo.
Trattato della ecc.
scritto in volgar
Sanese da Celso
Cittadini. In Venetia,
per Giambattista Ciotti. Io
credo che per Castelvetro debba
farsi qualche riserva:
la posizione del
Castelvetro verso la
grammatica storica non
storia della lingua,
si badi sia
molto diversa da
quella del Bembo
e del Salviati,
perchè, se il
Castelvetro nella trattazione
delle forme non
adoperò il concetto
tolomeiano-cittadinesco del latino
popolare, dal latino
in ogni modo
mosse e con
criteri non certo
retorici. Capitolo nono
285 vi assume
un aspetto, dice
il Sensi, semifilo
so fi co,
pretendendosi spiegare la derivazione
dell'italiano per via
di dieci origini, senz'esser una
continuazione del Trattato,
rimasta cosa monca,
anzi ne sono
un regresso in
confronto del metodo
tutto analitico e
storico, di cui
l'autore aveva dato
quel saggio. Vi
si unta poi,
oltre la poca
corrispondenza al fine
proposto, una grave
sproporzione tra la
parte fatta alla
trattazione dell'i? e
dell'0, che ricorre
attraverso tutte le
singole origini, e
il disegno vasto che
abbracciava non l'origine
solo, ma questioni
intorno alla pronunzia
e alla scrittura
del Toscano, in
ogni varietà, specie nella
fiorentina e nella
senese, intrecciandosi o
era criterio allo
studio principale la
fondamentale distinzione di
tutto il linguaggio
toscano in quattro
suddivisioni, alle prime
due delle quali
sarebbero appartenuti i
vocaboli nati dalle
prime nove origini,
alle altre quelli
della decima: distinzione
importante, perchè verte sull'origine
letteraria e popolare
de' vocaboli, e
che sarebbe un
bel vanto del
libro. Sicché, senza
tener conto di
inconseguenze,
contraddizioni e trascurarle,
è da concludere
che esso è
un insieme inorganico
di elementi greggi,
un mal riuscito
affastellamento delle operette
inedite del Tolomei.
Qui il Sensi,
metodicamente si fa
a considerare ($
II) codeste operette raccolte nella
nota copia della
Coni, di Siena,
ricordando che al
Tolomei, autore degli
scritti da noi
altrove esaminati, poco
si badò, e
che a nulla
valse che il
Benvoglienti s'accorgesse del
plagio, perchè tale
scoperta rimase inedita.
Da quella considerazione la
figura del Tolomei
ne vien fuori
pari, se non
superiore, a ogni
altra nella storia
della grammatica neolatina a lui anteriore,
benché da' vari
materiali non si
possa ricostruire quella
Grammatica toscana che
il Tolomei diceva
di voler comporre,
prima che il
Giambullari ponesse mano
alla sua. Forse
il Tolomei avrebbe
trattato in un
primo libro di
questioni generali, in un secondo
di propria grammatica, e
nel terzo, come
appendice, dissertato di
vari argomenti. Il
Cittadini di questi
materiali non si
servì per ricostruire;
ma volle [Poleni
(cit. dal Sensii
nelle Exercitationes Vitruvianae,
Patavii, dice che
Uberto Benvoglienti, eruditissimo,
era d'opinione che
l'autore del Polito
fosse non il
Franci, ma il
Tolomei e deduceva dalla
lettura delle opere
inedite del Tolomei
il plagio del
Cittadini a danno
del Tolomei, nell'opera
Delle Origini.] solo plagiare:
e base della
sua compilazione fu
il trattatello delTolomei :
De"1 fonti de la Lingua
Toscana. Codesti fonti
(e siamo così
al § III)
sarebbero nove: de
l'origine, de la
forma, de la
derivanza, de la
figura, de la
differenza, de la
frequenza, de l'affetto,
del rappresentamento, de
la disuguaglianza. Il
disegno, giudica Sensi, n'è
ampio, ma la
trattazione meschina, quasi
un sommario. A
ben intenderli poi
occorre la conoscenza
delle scritture del
Tolomei parallele a'
' Tonti ', cioè il
Proemio de le
4 lingue, il
Ritratto de le q lingue
toscane, e del
relativo criterio, che
serve loro di
base, di due
strati idiomatici, '
il bandolo ' della
sua ricerca, la
prima lingua essendo
costituita di un
fondo schiettamente popolare
identico al toscano,
le altre tre
de' vocaboli introdotti
dagli scrittori; ma
le caratteristiche ne
sono ben poco
chiare. I confini
dell'opera forse non
oltrepassavano quelli della fonetica,
e probabilmente era
destinata a costituire la
sezione preliminare della
Grammatica, insieme con
trattati maggiori che
ne svolgevano i
capitoli più importanti.
' La dimostrazione
del plagio del
Cittadini ', ristabilite
cosi le cose,
divien ora (§
V) pel Sensi
assai facile. Ne
sono spia, oltre
la simiglianza del
titolo, le aggiunte.
Colpito dal ricorrere
degli e e
degli 0 nell'esemplificazione de'
Fonti, e trattone
a esagerare l'importanza, gli
parve fortuna ritrovare
le due dissertazioni De lo
e chiaro e
fosco e De
/'o chiaro e
fosco, e gli
aggiunse nel cap. Della
Differenza, nel mezzo
dell'opera. Gli altri, quasi
tutti, rimasero inalterati.
Al I cap..
Natura, furono aggiunte le dissertazioncelle del
Tolomei conservate nel ms.
senese; 'qualsia miglior
parlar: fosse vero
o fisse vero
'; ' stetti
non è per
forma ripigliata da
' steli latino,
ma è preterito
disteso ': '
Propio esser il
vero J 'ocabolo toscano
e non proprio
'; ' De
la figura agg ionia
' . Una breve
giunta ebbe il
cap. Figura; quello
della Frequenza le
maggiori a spese
del trattato delle
figure grammaticali, costituito
di tre scritti
(' Da Virtude,
Virtù e da
Salute non Salù
': ' Che
e se ricevono
il primo corrodimene)
'; 'Dopo se
e che con il e
in si fa
il corrodimento secondo
'). Nella Conclusione
mise il Proemio
del Tolomei, e,
infine, la nota
dichiarazione di riconoscenza! Lo
scritto del Sensi
è di quelli
che non lasciano
adito a obiezioni
e riserve: né
è il caso,
e tanto meno
qui, di valutare
la confessione fatta
dal Cittadini de'
suoi debiti verso
il Tolomei Capilo/o
nono 287 e
richiamare alla mente
le abitudini letterarie
del tempo (che
permettevano, p. es.,
al Giolito di
prendere il Cesano
e stamparlo senza chieder
alcun permesso all'autore'
per giudicare giuridicamente e
moralmente del plagio
del Cittadini, il
quale lece quel
che fece. Si
tratta invece di
vedere, .secondo noi,
quel che mise
di suo che
qualcosa avrà pur
dovuto metterci nella
manipolazione o nell'uso
che fece negli
scritti del Tolomei,
e di determinare
il punto di
vista donde elabori
la manipolazione cioè interpretarla
nel suo valore
nel rispetto del
progresso dello spirito critico
che importa qui
seguire; oltre, s'intende, alla considerazione di
quanto potè il
Cittadini intellettualmente
operare indipendentemente dall'opera
del Tolomei: si
tratta, insomma, tenuto
conto del plagio
e del resto,
di assegnare al Cittadini
il posto che
gli compete in
una storia come
la nostra. Nessuno
intanto potrà contestare
al Cittadini il
merito, dirò con
un apparente paradosso,
del suo stesso
plagiare, che importa un
apprezzamento della materia
plagiata: il conto
fatto dal Cittadini
delle idee e
delle ricerche del
Tolomei è già
un valore criticamente:
non è solo
l'aver rimesso in
circolazione delle conclusioni
positive dimenticate e
perciò nulle che
costituisce il merito qui
abbiamo ancora il
plagiario, ma aver
dato loro un
valore, aver cioè
aggiunto ad esse
qualcosa di proprio.
Ora questo merito
non è venuto
al Cittadini dal
di dentro delle
verità stesse che
gli si fecero
innanzi: occorreva che
egli avesse in sé svolto
una disposizione a
comprenderle. Non bisogna
qui dimenticare che
il Cittadini tutta
codesta materia delle Origini
aveva esposta per
sei anni, com'egli
afferma nella dedica
a Fabio Sergardi,
nello Studio senese
dalla cattedra, sia
pure, com'è facile
supporre, desumendola fin
d'allora e per
quell'uso dalle operette
del Tolomei: vi
era stato poi
intorno nel tentare
di sistemarla sia
pure meccanicamente, in
un libi' n'avrà
discusso, e se
ne sarà giovato
nelle polemiche a
cui prese parte:
altro disse per
conto proprio nel
dare, attenendosi anche
qui al Tolomei,
brevi caratteristiche di
ciascuno degl' idiomi toscani, nelle note
alle Prose del
Bembo, e alla
Guaita del Castelvetro,
oltre che nell'altro
breve Trattato degli
articoli e di
alcime altre particelle
della volgar lingua,
che congiunse al
maggior Trattato della
zera origine. Non
solo, ma lesse
e tradusse il De
l'ulgari Eloquentia di
Dante, che non
è libro certo
2ifo/o nono 2S9
portante non solo
ne' riguardi dell'opera
individuale del Cittadini, sì
anellidi tutta la
stòria della filologia
romanza anteriori', il famoso
plagiario era pervenuto
quasi di primo
acchito in quel
primo de' suoi
trattati, quello Della
vera origine, che
nessuno finora ha
dimostrato essere un
plagio. E se
è vero che
l'atteggiamento assunto dal
Tolomei di fronte
a codesto problema, quale ci
venne fatto di
caratterizzare secondo gl'indizi
1 'flirtici dal Tolomei
stesso nei suoi
scritti editi {Polito,
in quel che
contiene di suo,
Regole, Cesano, Lettere)
dev'esser ora corretto
secondo quanto risulta
dall'esame dell'operette inedite,
nel senso che
non permanga quello
di chi non
abbia avuto vera
coscienza dell'oggetto e
della portata delle
sue ricerche, è
anche vero che
il Cittadini ci
si mostra collocato
dinanzi ad esso
da un punto
di vista che
direi più obiettivo,
cioè a dire
con più piena
coscienza di quel
che sia il
divenire linguistico nel
suo ritmo e
nelle sue leggi.
E anche sotto
questo rispetto a noi pare
che Cittadini rappresenti
un reale progresso.
Ma un altro
reale e maggiore
progresso è, per
noi, l'aver agitato
il problema storico della
lingua in un
momento in cui
avveniva la finale
codificazione dell'osservazione
grammaticale e la lingua era
per cristallizzarsi nel vocabolario:
nel momento in
cui l'uso degli
scrittori fiorentini del Trecento
voleva essere imposto
a tutta Italia.
Egli, a differenza
di quasi tutti
i senesi che
propugnarono il senese col
medesimo calore con
cui i fiorentini
avevano propugnato il
fiorentino, in piena
concordia con sé
stessi, non ebbe
prepotenti predilezioni municipali,
ma come, quegli
che aveva visto
più addentro nella formazione
e nello sviluppo
del linguaggio sotto
il rispetto esteriore,
storico, mostrò d'intendere
che allo scrittore
dovesse esser lasciata
una maggiore libertà
e non prescritto
uno stampo determinato,
e tanto meno
quello d'un particolar
dialetto, persuaso che, come
intitolava il §
3 del lib.
I della sua
versione del trattato
dantesco, il Parlar
regolato vuol lungo
studio . Era
un credo grammaticale
questo, ma chi
lo metta in
relazione e con
lo spirito e lo sforzo
della dottrina dantesca
é coi convincimenti
che si può
formare chi studia
storicamente e non
grammaticalmente la lingua,
un credo assai
meno irragionale di quello
che la comune
grammatica normativa aveva
formulato, e veniva
così a risolversi
in un'opposizione a
questa. Onde possiamo
concludere che, se
nella pura storia
della filologia neolatina
in Italia, per
quanto si riferisce
alla materia plagiata, al
Cittadini non compete
altro posto che
quello che l'esame indistruttibile del
Sensi gli ha
assegnato, mentre un
posto assai distinto
gli va assegnato
per la soluzione
e per il
più esatto orientamento
dato non solamente
in termini generali
al problema della
derivazione dell'italiano dal
latino popolare, in
una storia come
la nostra ne
spetta al Cittadini
uno ben altrimenti
onorevole, quello di chi
introduce nella grammatica
empirica un elemento
conoscitivo e un
criterio meglio che
puramente grammaticale. E
certo è a
lamentare che le
condizioni critiche e
letterarie dell'età impedissero
che il Cittadini
avesse de' continuatori
in questo indirizzo
non certo filosofico,
ma storico e
metodico da lui
impresso alla grammatica,
riallacciando la bella
tradizione iniziata dal
Bruni e dal
Biondo, affermata con
ricerche analitiche positive dal
Tolomei, proseguita con
molto acume intuitivo dal
Castelvetro. Invece, se uno studio
in tutto il
Seicento e non
in questo secolo soltanto fu
trascurato, si fu
appunto questo della
grammatica storica. E per
converso quanto scarsi
guadagni non solo
dalle contese prese nel
loro insieme ("),
che i senesi
sostennero contro i
maggiori avversari, i
fiorentini, ma da
quelle intorno al
vocabolario, benché non trascurabili
come segno d'una
salutare ribellione al pedantismo
e purismo grammaticale,
e dalle opere
stesse de' grammatici,
benché tra esse
avremo da annoverarne
di abbastanza originali nel
loro principio ispiratore,
come quelle del
Baratoli, se il razionalismo
non fosse venuto
col veicolo della
gramma- [Qualche
continuatore che facesse
servire le idee
del Cittadini a
combatter la Crusca,
come vedremo, non
mancò; ma fu
azione di scarso
valore. Un avversario della
Crusca, appunto, ne
cantò l'elogio funebre: Orazione
per l'esequie del
dottor Celso Cittadini
recitata nelVAcc. de' Fi
toma ti da
Giulio Piccolomini, lettor
pubblico della toscana
favella. In Siena,
presso il Bonetti,
1628. (•) Tutta
la loro importanza
è in questo,
che, facendo esse
sorgere a fianco del
principio fiorentinesco quale
si fosse il
suo valore storicamente parlando
un altro principio,
quello del sanesismo,
non meno arbitrario
del primo rispetto
alla realtà del
linguaggio, venivano
implicitamente a corrodere
l'uno e l'altro,
o almeno a
sottoporli a una
discussione, che è
il virus della
corruzione e quindi
del risanamento. Capitolo
nono 291 tica
di Poftoreale a
scuotere il giogo
grammaticale che sarebbe
sceso sul collo
della nazione e
se, per quanto
inascoltata e incompresa, la voce
del Vico non
si fosse levata
contro l'empirismo grammaticale,
essa sola bastevole
alla gloria d'un
secolo e d'una
nazione. Poiché questo
è da avvertire
qui, che, mentre
la produzione grammaticale cinquecentesca, anche
a non voler
considerare i meriti suoi
verso la scienza,
fu almeno spontanea
e nacque dalla
diffusa coscienza della
importanza della nuova
letteratura e reca
perciò in sé
l'impressione spesso calda
d'un fatto nuovo
che interessava grandemente
l'anima italiana e
d'un bisogno a
cui occorreva dare
una qualsiasi soddisfazione, quella
del Seicento fu
in generale, per
quanto concerne specialmente le vere
e proprie grammatiche,
piuttosto fredda, quasi
direi di testa,
di riflessione. Il
prototipo ne fu
per la parte
pratica il Buonmattei,
che perciò ebbe
più seguito di
tutti i predecessori
e contemporanei, e
distolse altri dal
tentar cosa nuova
o diversa. Il
Buonmattei pubblicò integralmente
la sua grammatica
nel 1643, ma
l'aveva già tutta
distesa circa un
ventennio avanti, quando
n'ebbe pubblicato il
primo libro, e
cominciata un trentennio prima, cioè quando
usciva il Trattato
del Pergamini. Prima
di questo anno,
oltre il Turavano
del Bargagli, le
Considerazioni tassoniane, un
discorso del Politi,
avemmo un'Arte di
puntare di Iacopo
Vit // Turammo,
ovvero del parlare
e dello scrivere
sauese, del cavaliere Scipione Bargagli.
In Siena, per
Matteo Fiorini in
Bianchi. Il Cittadini,
come c'informa anche
il Lombardelli, vi
è citato con
molta lode si
per la formatione,
ò piegatura de' verbi, sì
per la maniera
del proferire, e
sì per la diversità
non piccola de'
vocaboli, e delle
forme del nostro
parlare proprie, chiare,
che si rendono
da quelle de'
vicini, e degli
strani belle, e
distinte, sì anco
per la giocondità, ed utilità
che di esse
s'è udita seguitare
. I fonti,
p. 116. ')
Considerazioni sopra le
Rime del Petrarca.
Cfr. O. Baco,
Le, ecc. Firenze. Discorso di
Lorenzo Salvi della
vera denominazione della lingua volgare
usata da' buoni
scrittori, in Le
Lettere di Adriano
Politi. In Roma, per
Iacopo Mascardi. Dimostra
che si
deve chiamar volgare,
come fu chiamata
dagli aurei scrittori. Politi diede
anche avvertimenti grammaticali nella [torio da
Spello), un Compendio
grammaticale in forma
eli lessico del
Salici e una
vera e propria
grammatichetta assai poco
nota, Le regole
per parlar bene
nella lingua toscana
di Girolamo Buoninsegni.
Del primo qui
accade di dover
dir poco, ma,
in compenso, quasi
e in certo
senso tutto in
sua lode. E
stato già osservato
dal D'Ovidio che
egli superò tutti
i compagni d'arme
senesi (Bulgarini ,
Lombardelli, Benvoglienti ,
Cittadini) nell'audacia di un
radicale concetto d'autonomia,
e, che in
suon diverso dice
lo stesso, [rispetto
al primato fiorentino,
almeno nel fatto più
o meno riconosciuto
perfin dal Gigli,
tra i senesi
così ribelle], solo
Ini, il Bargagli, col
pesante dialogo del
Turammo, sostenne, con
tranquilla cortezza e
con pieno accordo
della teoria con la pratica,
che come in
Grecia così in
Toscana ciascuno scrivesse
nella loquela propria,
senza impacciarsi nell' affettazione d'imitare
l'altrui (p. 204):
il che giunta
al suo Dizionario
Toscano, scritto in
opposizione alla Crusca,
stampato la prima
volta nel 1614
e poi in Venezia per
Andrea Babà, 1629:
v. Diz. Tose,
di A. P.
con la giunta
di assaissime voci
e avvertimenti necessari per
iscrivere perfettamente Toscano.
In Venezia, appresso Giovanni Guerigli
e Francesco Bolzetta,
1615, II ed.
Jì/odo di puntare
le scritture volgari
e latine. In
Perugia, per Vittorio
Colombara, 1608. (-)
Compendio d'utilissime osserva/ioni
nella lingua volgare
di D. Gio.
Andrea Salici di
Como, di nuovo
ristampalo, ricorretto, et
accresciuto dall' Autore. In
Venezia, MDCVII, presso
Altobello Sali cato. In Siena. Gerini
si maraviglia che ne
tacciano il Tiraboschi,
lo Zeno, il
Cinelli (Bibl. volante),
il Morelli (Bibl. stor.-rag.
della Tose.), l'Inghirami
(SI. d. Tose.).
Domandò di supplire
il Cittadini nella
cattedra senese (cfr.
Archivio Mediceo, Gov.
di Siena, filza,
1942, cit. dal
Gerini). Il Casotti
nella Vita del
Buonmattei accenna a
un Tommaso Buoninsegni. B., per
occasione di considerare
V Inf., il Purg.
e il Par.
di D. e
di difender sé
stesso, o di
censurar certi, che
l'oppugnavano, esamina varie
cose, attenenti a
questa lingua, con
ben intesi discorsi
. Lombardelli, /
fonti, p. 51.
Criticato dallo Zoppio
si difese da
sé e fu
difeso dal Borghesi. Considerazioni, Repliche
alle risposte del
sig. Orazio Capponi,
Risposta ai ragionamenti
del sig. Peroni n/o
Zoppio. Opuscoli diversi sopra
la lingua italiana,
raccolti da F.
Idelfonso di S.
Luigi, Firenze, 1771.
Capitolo nono 293
nel sentimento comune
è manifesto e
grossolano errore. Noi
siamo naturalmente di
diversissimo, se non
opposto, avviso, né
il sorriso che
vediamo spuntar sul
labbro de' più,
ci trattiene dall' apertamente affermare
che nel pensiero
del Bargagli questo
vidi errato, che
si dia forma
di precetto a
ciò che è
invece un fatto.
Tutti scriviamo nella
loquela che ci
è propria, cioè
in quella che
la nostra educazione
e la nostra
cultura ci hanno
formato, o meglio quella
che con esse
s'è formata in
noi: chi fa
altrimenti, fa male e
cade appunto nell'affettazione: il
danno sorge quando
dell'osservazione d'un fatto
se ne fa
una norma più
o meno arbitraria.
Il Bargagli, lungi
dall'essere il più
paradossale, fu il
più logico di
tutti, in quanto
sostenne quel che
sostenne: solo non
doveva appunto cavar
da un'osservazione di
fatto una legge,
intendendo per loquela
propria il nostro
particolar dialetto nel
senso stretto e
angusto della parola.
Pel resto, il
suo principio affermato
appunto in tutta
la sua crudezza
e assolutezza era,
nel fondo, il
risultato della profonda
ribellione che egli
sentiva per la
grammatica, ma che
non si rendeva
ben chiara a
sé stesso e
ragionava e propugnava
da un punto
di vista empirico
e però di
scarsa portata filosofica.
Ai medesimi principi del
Bargagli giungeva un
anno dopo per
diversa via e
senza intenzione certo
di copiarlo, un
altro suo concittadino,
il Politi, in
quello de' due
suoi discorsi sulla
lingua che serve
d'introduzione al suo TACITO
(si veda) tradotto e nel
suo Dizionario Toscano.
Infatti egli, come
anche si rileva
da una lettera
del Pergamini che
lo Zeno, correggendo
il Fontanini, dice
riferirsi a questo
non già all'altro
suo Discorso, dove solo
parla, sotto lo
pseudonimo di Lorenzo
Salvi, della vera
denominazione della lingua
volgare usata da'
óuoni scrittori, vi
sostiene doversi: 1"
scrivere alla Sanese
senza obbligarsi ai fiorentini;
2" accomodarsi all'
idioma della sua
patria e all'uso
comune regolato però
dal giudizio. E
poiché non approvava il
gergo della traduzione
del Davanzati, in
fine alla propria
mise la dichiarazione
delle voci meno
intese e vi
sostituì le comuni:
un dizionarietto, dunque,
sanese-italiano. Un altro
letterato di certo
libere vedute, il
Tassoni, che incontriamo
spesso in tutta
la prima metà
del sec. XVII
e che qui
si presenta per
le Considerazioni sulle
Rime del Petrarca,
interessa più la
storia della poetica
che non quella
della grammatica. Lo ritroveremo
oppugnatore dell'Accademia nell'opera
294 Storia della
Grammatica concreta del
Vocabolario , come
in esse Considerazioni lo
vediamo schernire la Fabbrica
dell'Alunno, che dice
costruita di mattoni
malcotti. In complesso,
per le sue
spicciolate osservazioni
grammaticali disseminate qua
e là un
po' da per
tutto, egli ci
si manifesta non
troppo tenero amico
della grammatica. Di
che dobbiamo contentarci.
Di Iacopo Vittorio
di Spello e
Girolamo Buoninsegni che
diedero opera alla
grammatica propriamente precettiva
e didattica, basti aver
ricordato il nome,
e così del
Salici, il quale
di sé stesso
dice che con
quella chiarezza, e
brevità e' ha
potuto maggiore è
andato discrivendo l'alterationi, i
vari sensi, le
radduplicationi, che patiscono
le lettere dell'Alfabeto, così
l'uso de' pronomi,
delle prepositioni, e
de gli avverbi,
il tutto comprobando
con autorità de'
più classici scrittori,
che scritto habbiano
in lingua Italiana,
o Toscana, che
diciamo ('"). Meglio
che con questi
trattatelli, ritorniamo nel
dominio della vera grammatica
precettiva con Jacopo
Pergamini di Fossombrone.
La grammatica (s)
del Perganini, il
noto compilatore del [Le
Atinotazioni sopra il
vocabolario degli Accademici
della Crusca, Venezia,
169S, ormai è
noto che .non
sono del Tassoni,
ma dell'OTTONELLi, che
fu grammatico celebrato
a' suoi tempi
da quanto il
Bembo. Perduti sono
i suoi quattro
libri di ragionamenti
in difesa del
Tasso; degli Arringhi
abbreviati per lo
vocabolario della Crusca
resta qualche frammento;
e restano anche
alcune postille al
Pergamini nell'Estense. Un esemplare
del Voc. della
Crusca si trova
all'Est. postillato di
mano del Tassoni,
che scrisse di
lingua anche ne
Pensieri diversi. E un misto
di grammatica, di
ortografia, di sinonimia
e doppioni, d'etimologia, disposto
in ordine alfabetico.
Sulle due facce
nel margine superiore
del libretto è
perpetuamente ripetuto Ortografia
volgare. Ma l'ordine alfabetico
non vi è
per nulla rispettato,
e il criterio etimologico de'
vari raggruppamenti è
troppo balordo per
prenderlo sul serio. Sotto
Posporre, p. es.,
troviamo, ma non
questo soltanto. Possa, Possessione,
Pozzuoli, Prestezza, Prezzemolo,
Procaccio, Processione, Prossimo,
Pulcella, Pupillo, Puzza.
(3) Trattato della
lingua del signor Pergamini di
Fossombrone, nel quale con
una piena, e
distinta Instruttione si
dichiarano tutte le
Regole, i Fondamenti
della Favella Italiana.
In Venetia, presso
Ciotti; e in
Venezia, per Niccolò
Pezzana, 1664. Tra
questi limiti estremi,
si ebbero altre
edizioni: quella del
17 qui appresso
accennata con un
Supplimento di voci
d'autori moderni, fatta
per consiglio del
Politi, la terza
del 1657 con
un'altra Aggiunta di
mille e più
voci tratta da
celebri autori contemporanei, opera
di Paolo Abriani.
( 'aditolo nono
295 Memoriale della
lingua (' ),
è un primo
tentativo di ridurre
a metodo per
uso scolastieo ilei
principianti le più
ampie e e
spesso farraginose trattazioni
precedenti. Si divide
in tre parti,
suoni, parti del
discorso, accenti e
punti, e conserva
su per giù
le medesime categorie,
tranne che tra le parti
' invariabili '
dell'Oratione include una
classe di 'Particelle'
che si usano
solo per vaghezza,
et ornamento senz'altro
significato: delle quali
alcune servono per
principio di ragionare:
altre si pongono
per entro il
ragionamento come Egli,
E', Bene, Hor,
Ne, Ci, Si
. Del nessun
interesse per la
funzione logica delle
categorie può esser prova
anche quel che
dice del gerundio:
E lasciando da parte
il motivo, che
fanno alcuni, se
gerondio sia parte
formale dell'oratione, o
più tosto membro
del Partecipio: il
che per mio
credere, monta poco,
o niente. Dico
prima, ch'ogni Verbo
ha ordinariame?ite il
suo Gerundio; e
di rado, o
non mai n'è
senza . Meglio
ancora appare dalle
definizioni: La quarta
Parte principale dell'oratione
è il Verbo,
il quale congiunto
co'l Nome fa
il parlare intero,
gli Accidenti del
Quale sono Genere:
Tempo: Modo: Numero:
Persona: e Maniera
. Insomma è conservato
tutto lo schematismo,
ma ridotto a
semplici e nudi
cartellini per raggrupparvi
le forme, delle
quali peraltro non
si da più
che l'esempio. Il
metodo, infine, è
inteso proprio alla
rovescia: il proposito
di semplificare la
trattazione, rendere il libro
facile e di
pronto uso conduce
l'autore non già
a cercare una
razionale disposizione della
materia, ma ad
ammucchiare i fatti con
procedimento del tutto
meccanico, a portare
il vocabolario nella
grammatica. Parlando, p.
es., della Vocale
A, osserva che
è ' fine
ordinario delle voci
femminili nel numero del
meno ', segno
del caso Terzo,
e Quarto del
Nome, e del
Numero del meno:
segnato hor coli' Accento Grave;
hora [Venezia, Ciotti,
1601. Questo Memoriale
ebbe una certa
fortuna. E consigliato
da G. V.
Gravina in Regolamento
degli studi di
nob. e vai.
donna nella Nuova
race, Napoli; TIRABOSCHI (si veda) lo dice
il migliore di
quanti ne furon
pubblicati nel sec.
XVI, benché uscito
in luce nel
1601. Sul Pergamini,
Ferruccio Benini, La
vita e le
opere di Giacomo
Pergamini con scritti
inediti [postille al
yJ/razio?ii e il
discorso. Par qui
giustificare la Declinai,
de' Verbi del
Buonmattei che il
Dati accolse nella
prima ediz. e
a cui, nella
seconda, fece seguire la
declinazione de' Verl>i
anomali.] tedre di lingua
toscana, destinandovi Professori
di vaglia, e
di abilità conosciuta.
I buoni scrittori
toscani di questi
ultimi tempi, come
oltre allo stesso
Dati, il Redi,
il Segneri, il
Buonaroti, i due
Salvini, e parecchi
altri, han conosciuta
questa verità, e
se ne sono
approfittati confessando che
non basta il
nascimento a voler
scrivere purgatamente, ma
che bisogna aggiungervi
studio e fatica
. E per
la preminenza del
volgare sul latino
asserita dal Dati secondo
il Fontanini, lo
Zeno aggiungeva: Il
Dati non mette
ne troppo né
molto la lingua
volgare sopra la
latina per via
di sofismi; ma
solamente dice che
in questa scriveremo
sempre imperfettamente con
tutto che ci
durassimo grandissima fatica,
e che in
quella, cioè nella
volgare, si arriverà
facilmente alla perfezione
(pp. 130-1). Anche
qui, oltre quella
coscienza della letteratura
nazionale cui più
volte alludemmo, si
sente appunto l'eco delle
Battaglie del Muzio
in difesa della
italiana lingua contro
i caldeggiatori del
latino, che pare
non si sentissero del tutto
debellati, se osavano
ancora, come indirettamente il
Fontanini, rialzare il
capo. Ma nella
necessità dello studio
e delle regole
il Fontanini e
lo Zeno concordavano,
e con essi
tutti i vincolati
in un modo
o in un altro all'Accademia, la
quale appunto, non
solamente con l'opera
concreta del Vocabolario
reggeva o credeva
di, reggere i freni
degli scrittori, ma
con l'autorità morale
che le veniva
dalla sua stessa
compagine, dalla funzione
che in tempi
accademici si svolgeva
con il rispetto
è l'ammirazione de'
più, e ancora
dall'appoggio del governo
granducale. Il ristamparsi de'
discorsi in cui
si sosteneva la
necessità delle regole è
altro indizio della
fede che esse
riscotevano. Le Osservazioni
dello Strozzi, incorporate
nella raccolta del
Dati e ricomparse
nella seconda edizione
d' esse, vedevano
la luce anche
separatamente, come s'è
visto: l' istesso discorso
del Dati fu
stampat o almeno tre
volte. E l'aver
accolto nella seconda edizione la
Declinazione de' verbi
anomali del Buonmattei
e la Costruzione
irregolare del Menzini
e un discorso
del medesimo sopra
le figure grammaticali
(pleonasmo, ellissi, zeumma,
iperbato, ecc.); insomma
quanto sapeva d'irregolare,
che veniva poi
giustificato con criteri
rettoria e l'autorità
degli scrittori, conferma
gli scopi di
questa nuova campagna
che il Dati,
nell'ambito dell'azione della
Crusca, tenacemente batteva.
Ma con eguale
e forse con
maggiore baldanza combattevano gli avversari,
e segnatamente il
Bartoli, proclamando il
Capitolo undicesimo 339
principio dell' indipendenza
individuale in relazione
al buon gusto,
la nuova parola
che s'era fatta
strada, segnacolo d'una
tendenza molto significativa. L'editore
del 1709 delle
Osservazioni del Cinonio giustifica
il poco spaccio
della prima edizione
d' esse COIl
la decadenza del
buon gusto, e
la ricerea che
poi se ne
lece verso il
1659, quando le
iurono nuovamente ristampate, col risveglio
di esso buon
gusto. Destandosi però
di quando in
quando l'intorpidito Buon
gusto, andavasi cercando
quest'opera e se ne
vide nel 1659
la più attesa
divulgazione. Nel 1655,
come avvertimmo, uscivano
CL Osse?-vazioni del
p. Daniello Bartoli,
cresciute nel 57
a CLXXV, nel
68 (*) a
CCLXX, e, dopo
altre ristampe, ripubblicate
(:) con copiose
osservazioni di Niccolò Amenta,
che muove al
Bartoli molte eccezioni, e
poi del Cito,
nipote dell' Amenta, che ne rincara
la dse (;!).
Il libro, dice
D'Ovidio, non è che un'argutissima e
dotta polemica grammaticale
e lessicale contro
i divieti capricciosi
de' linguai, né
tocca la questione
generale [della lingua]
se non in
quanto, sottintendendo il
primato toscano ma
badando piuttosto alla
tradizione letteraria, loda
e compie la
Crusca . Ma pare per
lo meno che
quello del Bartoli
fosse un ben
curioso modo di
lodare e di
compire la Crusca.
Già, chi erano
ormai que' linguai contro i
cui capricciosi divieti
argutamente e dottamente
polemizzava il Bartoli, se
non accademici della
Crusca o cruscanti?
Poi, che rimanevan
più il primato
toscano e la
tradizione letteraria,
ammessi pure e
rispettati dal Bartoli,
d'accordo in questo,
ma in questo
solo con la
Crusca, cioè in
un riconoscimento a
parole, quando, non
solo si sarebbe
dovuto ammettere con
lui che //
Torto, e '/
Diritto del ?ion
si può, dato
in giudizio sopra
molte regole della
lingua italiana, esaminato
da Ferrante Longobardi.
In Roma, per
lo Varese, 1668,
8". Il Bartoli
si difese con
Y Apologia. In
Napoli, per Antonio
Abri, 171 7. (3)
// torto e
'/ diritto del
non si può,
dato in giudizio
sopra moltiregole della
lingua italiana esaminato
da Ferrante Longobardi
cioè da P.
I). B. Colle
osservazioni del sig.
Niccolò Amenta, e
con altre annotazioni
dell'ab. sig. \).
Gius. Cito. Aw.
Napoletano. In Napoli,
1728, a spese
di Niccolò Rispoli,
e di Felice
Mosca. Voli. 3.
34° Storia della
Grammatica anche i
migliori trecentisti scrissero
non di rado
fuori di regola ,
e che era
dunque stolta baldanza
il censurar vocaboli
e locuzioni sol
perchè non approvati
dall' autorità degli
scrittori del buon secolo,
cioè a dire
della Crusca; che
i non Toscani avrebbero meglio
provveduto a sé
stessi col latineggiare
un po' di
più, anziché ostentare
idiotismi d'accatto, che
era un allontanarsi
dal codice dell'Accademia; ma
si fosse anche
dovuto riconoscere con lui
che un principio
onde regolare bene
il parlare non
esisteva: non le
decisioni de' grammatici,
non l'uso del
popolo o de'
più eletti, non
l'autorità degli scrittori,
non la prerogativa
del tempo, non
l'etimologia, non l'analogia... esser
veri principii, ma or l'uno
or l'altro di
questi principi aver
forza, ma più di tutti
l'arbitrio dello scrittore?!
Meno inesattamente lo
Zambaldi così ebbe
a parlare de'
due libri del
Bartoli, che, per
il loro contenuto
più ristretto all'ortografia, non perdono
valore di fronte
ai principi generali
linguistici e grammaticali: Press'a
poco le stesse
idee [degli oppositori Toscani] furono
sostenute nel sec.
seguente da Daniello
Bartoli in quel
libro singolare che s'
intitola il Torto
e il Diritto del
non si può,
dove in mezzo
a molti paradossi
trovi gran libertà
di giudizio e
mirabile erudizione. Egli
ordinò poi la sua dottrina
nel Trattato dell'
Ortografia (1), dove
dice che questa
deve seguire tre
principi: V autorità, la
ragione, Yuso. Ma
essendo spesse volte questi
principi in contradizione
l' uno con l'altro,
lo scrittore dovrà
usare il suo
giudizio, e talvolta
anche l'arbitrio.... Il
Bartoli, nel combattere
il dominio assoluto
della pronunzia toscana
e certe regole
troppo esclusive della
Crusca, ebbe forse
l'intuizione vaga e
confusa d'un principio
vero; ma non
seppe trovare i
giusti limiti fra
il regno dell'uso
e quello dell'etimologia, né
dare stabile fondamento
all'uno e all'altro. DclP ortografia italiana
trattato del P. D. B.
In Roma, per
Ignazio de' Lazzeri,
1670. Questo trattato
fu ristampato più
volte anche in
tempi vicini a
noi: p. es.,
a Milano, per
Giovanni Silvestri, e
Reggio, Torreggiani. Il
Foffano, op. cit.,
p. 303, ricorda
che non si ha più
notizia dell'operetta disegnata
dal Bartoli, delle
proprietà o per
così dire passioni
di ' z,
ibi, cit. nell' Apologia, p. 18. Capi/o/o
undicesimi) 341 A
noi quest' insufficienza
riesce meno condannevole
di quanto sia
sembrato e possa
ad altri sembrare.
Il Bartori era
quello che oggi
si chiamerebbe uno
stilista, un affine
a Annunzio descrittore: uno
scrittore insomma di
quelli che esauriscono
tutta la vitalità
del loro pensiero
nella tranquilla, olimpica
contemplazione degli oggetti esteriori,
moltiplicandosi il godimento
e il diletto
con l'accarezzare minutamente
le proprie immagini,
le risonanze varie
che essi stessi
si sono destati
nell'anima. Per siffatti
scrittori la forma
è più che
mai tutto ciò
che l'interi è essa per
se la sostanza
dell'arte loro. E
naturale che siffatti
scrittori sdegnino più
d'ogni altro il
treno delle regole
e proclamino la indipendenza
assoluta del loro
giudizio, o, meglio,
la necessità dell'arbitrio. L'arbitrio
per essi è
la libertà. Nel
fatto tutti i
veramente scrittori hanno
sentito e praticato
un tale principio,
perchè questa è la natura
dell'arte, checche dicano le
poetiche. Ma dai
temperamenti artistici, a
cui alludevamo, è maggiormente
sentito il bisogno
di regolarsi nell'espressione esteriore secondo
il tumultuare e
il fluttuare interno
delle immagini, delle
armonie, dei colori.
E arbitrario e
tirannico oltre che inutile
è il chiedere
ad essi, come
per un'altra simile
questione ho osservato,
che si tengano
alle norme in
cui i grammatici
e l'uso moderno
ormai convengono: essi
andranno sempre per la loro
strada, indulgendo al
loro genio: anche
quella che in
loro è evidentemente
ricerca dell'effetto stilistico
formale, è in
fondo un'attività che
ha radice nel
loro particolare atteggiamento
artistico. La loro
grammatica è la
loro natura artistica :
regolarsi secondo detta
dentro, caso per
caso: c'è chi
si forma un
suo sistema particolare
al quale strettamente
s'attiene, perchè non
solo non gl'impedisee
la libera estrinsecazione delle
sue forme interiori,
ma corrisponde sì
pienamente ad esse
che il non
seguirlo sarebbe farsi
violenza: Annunzio è
di questi. C'è
chi si fa
un sistema del
non seguirne alcuno
per lasciarsi trasportare
in ogni singolo
problema formale dalle
esigenze del momento,
sicché l'attenersi a
una regola per
quanto liberamente impostasi
sarebbe un violentarsi,
e di questi
è il Bartoli.
Il quale mi
par che abbia
formulato l'unico principio
didattico che possa
conciliarsi con la
libertà e l'indipendenza dell'arte,
che non ne
tollera alcuno: principio
che viene a
concordanza piena con
quanto scaturisce d'
insegnamento per la
pratica e l'esercizio
dello scrivere da una
recente
polemica sull'Idioma gentile
del De Amicis. A
chi obiettava recentemente
al Croce che
la sua tesi
circa i precetti,
illustrati dal De
Amicis nel suo
libro, per l'apprendimento delle
lingue e l'arte
dello scrivere, sarebbe
stata la più
gradita ai discepoli,
perchè li dispensava
da qualsiasi studio,
il Croce, tra
le maraviglie di
chi non riusciva
a vedere come
si potesse accordare
con la teoria
l'utilità di una
pratica che in teoria
non è giustificata,
rispondeva affermando l'utilità
dell'esercizio pratico e
pienamente giustificando la
comodità dell'empirismo . Ora
il Bartoli nella
prefa,2Ìone al suo
Trattato del? ortografia, con
acutezza e precisione
veramente sorprendenti e
in tutto degne
d'una veduta estetica
superiore, scriveva: Né
niun v'è, il
quale, per quantunque
professi e vanti
di tenersi strettissimo
alle osservanze dello
scrivere regolato, di
parecchie maniere che
userà, possa allegare
altra più vera
cagione che il
così parergli, e
così aggradirgli; e
chi più studierà
in questa professione,
ogni dì meglio
intenderà non potersene
altrimenti. Dal che
due cose a
me par che ne sieguano:
l'ima, che mal
si farebbe, riprovando
in altrui quel
che si vuol
lecito a sé
stesso: l'altra, che
v' ha due
strade possibili a
tenersi, da chi
ama, non solamente
di scrivere regolato,
ma sufficientemente difeso;
cioè: Dare una
volta quanto è
bisogno di studio
a comprendere interamente la materia,
e tutte averne
davanti le necessità
e gli arbitri,
le diversità e
le somiglianze, le
strettezze e le
larghezze, i perchè
a gli usi,
così moderni, come
antichi: in somma
quanto (fino a
una conveniente misura) può
dirsene e sapersi:
e così INFORMATO SENZA PIÙ
CHE SÉ STESSO,
E IL SUO
BUON GIUDICIO seco,
farsi da sé
medesimo un dettato
d'ortografia, secondo il
saviamente partitogli più convenevole
ad usarsi, e
più sicuro a
darne, bisognando, ragione
a chi ne
l'addimandasse. E a
questo intendo io
che abbia a
servire {se può
bastare a tanto)
il presente Trattato.
L'altra via è
[ma questa non
è da lui
evidentemente preferita, anzi
il modo stesso
con cui l'enuncia
par tirare a
metterla (piasi in ridicolo],
del non prendersi
maggior noia e
fatica che di
leggere, e far
sue le regole
che questo o
quell'altro buon maestro
in professione di
lingua avrà dettate;
e fon esse
in mano, seguitarlo
a chiusi occhi.
E se altri
l'addimandasse del Croce
in La Critica,
IV, S9 sgg.,
e Y, 71
sgg. I V.
anche del Crock,
// padrone g giumento della
Scenica, in La
Critica. perchè) ili qual
che sia particolarità
del suo scrivere,
soddisfare a tutto
con quella sola
e universale risposta
che è l'antichissimo Ipse
dixit. Ma questo
non dovrà mica
voler più avanti
che uso proprio:
non per ardirsi
a far dell'arbitro,
e diffinitore del
Così va riè
si de' altrimenti;
non sapendo non
che le cagioni
dellWtrimentì che può,
e per avventura
dee farsi, ma
né pure il
perchè dee così
far egli, se
non il così
far ch'egli siegue;
come appresso Dante
le pecorelle, (piando
escon del chiuso,
E ciò che
fa la prima,
e l'altre tanno,
Addossandosi a lei
s'ella s'arresta Semplici
e chete, E
lo perchì-: non
sanno . In
tutto questo discorso
mi par che
questo pensiero si
rilevi chiaramente: si
studi la grammatica
e si facciano
esercizi grammaticali, ma, poi,
nell'espressione non se
tenga alcun conto,
lasciando piena libertà al
proprio buon genio.
Il che ha
una portata maggiore, filosoficamente parlando,
di quel che
gli sia stata
fin epti riconosciuta,
benché il Bartoli
non muova da
un determinato sistema: era
il buon senso
dello scrittore che
lo rendeva ribelle
alle regole, e
il suo gusto
particolare: sicché egli,
e per questa
ribellione e per
la motivazione, rappresenta
un progresso perfino
sulla dottrina che
seguirono il Buonmattei
e il Cinonio.
Questi parlavano di
ragione: egli affermava
l'esigenza del gusto,
accordandosi così ai
tempi, ne' quali
appunto si veniva
scoprendo un'altra facoltà diversa
dalla ragione, che
presiedeva alla produzione
dell'arte: la fantasia:
non era certamente
ancora la scienza:
era il lievito
che la veniva
fermentando. La dottrina
del Bartoli aveva
in sé un
po' di questo
lievito: e questo
è il suo
merito principale (?).
E lievito è
anche quel curioso
libro del Vincenti
che s' intitola 7/
' ne quid
nimis' della lingua
volgare nelle Regole
più praticabili e
principali: ( !) dove,
tra tante bizzarrie
e anche balordaggini specie nella
motivazione della sua
indifferenza per l'uso
di questa o
quella parola sostanzialmente identica,
si pro Milano,
per Giovanni Silvestri. Croce, Est.
Storia;, III, p.
209. opera non
volgare, Roma, per
[gnatio de Laz,
nel 1665. Cfr.
C. Trabalza, Un
curioso criterio stilistico
d'un grammatico secentista, in Sludi
e Profili, Torino,
1903, p. Sr
sgg. 344 Storia
del/a Grammatica pugna
un concetto di
indipendenza dalle strettezze
della grammatica pedantesca. Una
ben curiosa apparizione
moveva ancora contro
la lingua fiorentina
come già nel
Cinquecento con Mario d'Aretio
dalla Sicilia, dove
la tradizione del
primato poetico dugentesco
è durata si
può dir sino
a ieri nella
coscienza di grammatici
e critici: vedremo,
del 1836, una
Glottopedia italo-sicida o
grammatica italiana
dialettica: ora, dunque,
cioè nel 1660,
Antonino Merello e
Pio Mora in
un Discorso che
fa la lingua
Vulgate dove si
vede il suo
nascimento essere siciliano
facevano che la
lingua siciliana, vedendo
svaleggiata la sua
cittadinanza da' fiorentini,
che Toscana, s'appellano
(p. 5), insorgesse
contro la vana
petolanza della Toscaneria,
eccitando i siciliani a
non starsene neghittosi.
E due anni
dopo in un
nuovo Discorso dove
si mostra che
la Sicilia sia
stata Madre non
solo dello scrivere,
e poetare, ma
anco della lingua
volgare^, dicevano : Eche
habbia la lingua
volgare gran parte
della lingua greca,
leggete il Discorso
di Ascanio Persio,
e negavano all'Allacci che la
Sicilia sia stata
solamente genetrice del
rimare e poetare.
Più rispettoso verso
la Crusca par
mostrarsi lo Sforza
Pallavicino, a cui dobbiamo
alcuni Avvertimenti grammaticali
per chi scrive
in lingua italiana,
dati in luce
dal p. Francesco
Rainaldi della Compagnia
di Gesù (!)
nel 1661 e
più volte ristam
i Messina, 1660,
per Paolo Bonacata.
! In Cosenza,
per Gio: Battista
Mojo e Gio:
Battista Rossi, M
DC LXII. In
questo oltre li
Osservanti dell'Aretio, si
cita un D
iscorso che la Ungila
italiana hebbe nella
Sicilia il suo
nascimento di Francesco
Pio. Il FOFFANO,
attingendo al Mongitore,
ricorda un 7)iseorso
di Luigi La
Farina, in cui
si prova la
lingua siciliana esser
madre dell'italiana, dove anche
è citato un
BRUMALDI (Montalbani), che
ne iscorso che la
Ungila italiana hebbe
nella Sicilia il
suo nascimento di
Francesco Pio. Il
FOFFANO, attingendo al
Mongitore, ricorda un
7)iseorso di Luigi
La Farina, in
cui si prova
la lingua siciliana
esser madre dell'italiana
, op. cit.,
p. 299, dove
anche è citato
un BRUMALDI (Ovidio Montalbani),
che ne l suo
Vocabolista bolognese
(Bologna, 1660) pretese
dimostrare che il
dialetto di Bologna
è da considerarsi
come la madre
lingua d'Italia .
Nel 500 aveva
inneggiato l'Achillini a
codesto dialetto. Che
ogni scrittore illustrar
dee l'idioma nativo
et anche arricchirlo
con alcune forme
giudiziosamente portate dal latino,
volle provare G.
F. BoNOMl, Bologna,
i6Sr. 1 i
In Roma, per
lo Varese, 1661;
per Ignazio de'
Lazzeri, 1675; in
Roma et in
Perugia, per gli
Eredi di Sebastiano
Zentrini, 1674 (ediz.
che ho sott'occhioj.
L'originale del Pallavicini
è nel Cod.
marciano, CLXXVI (Catal.] pati, pochi
(sono in tutti
121), invero, ma
non senza traccia
di quel saporifilosofico che fa del
noto cardinale un
partecipe di quel
presentimento critico del
sec. XVII a
cui, anche poco
sopra, abbiamo accennato.
Più rispettoso, abbiam
detto; ma anch'egli,
come il Bartoli
e il Vincenti,
non conosce leggi
grammaticali assolute. Le
sue osserva/ioni empiriche
non sono mai
infondate: egli sa
osservare che in
alcune voci la
pronunzia fiorentina è
diversa da quella
del rimanente della
Toscana e dell'Italia;
come in dire
Abate, Ujìzio, Roba,
con le consonanti
semplici: Immagine, Innalzare,
Ovvidio, con le
raddoppiate. In questi
e simili casi
non sarà degno
di riprensione chi
seguirà o l'una
0 l'altra maniera
(p. 46). Didatticamente, segue
un principio molto
ragionevole e discreto.
Col nome d'errori
dunque intendo quelli, che
si scostano dall'uso
ordinario degli scrittori
buoni, e pregiati
per politezza di
lingua. Tacerò le
ragioni, 0 solo
talvolta ne darò
un cenno: però
eh' elle sono
difficili ad apprendersi,
e vagliono solo
al sapere: là
dove i nudi
insegnamenti s' imparano con agevolezza
e bastano per
operare (pp.3-4). Ma gli avvertimenti
caratteristici son quelli
onde si chiude
il volumetto. Conchiuderò
con due brevi
avvertimenti. L'uno è,
che questi contenuti
nel presente Capitolo
sono più tosto
consigli che precetti: Onde
meriterà lode chi
gli osserva; ma
non biasimo chiunque
in picciola parte
se ne allontana.
L'altro è, che
in questa, come
in tutte le
arti, ninna regola
è sufficiente se
non maneggiata e
posta in uso
a guisa di
mero istrumento dal
giudicio, il quale
solo è /'Architetto
di tutte le
opere. Ognun vede
coma il fondamento
di questa conclusiva
sentenza è nel
sistema filosofico che
mette il Pallavicino
in un posto
non disonorevole nella
storia dell'estetica, come
quello che affrancava
la fantasia dall'
intellettualismo, benché la
identificasse poi col sensualismo
marinesco , e, in ogni
modo, l'arte dalle
regole. Croce, Estetica.
Accanto agli Avvertimenti
dello Sforza Pallavicino
registriamo alcune altre
simili operette. Le
prime lince o
Lezioni della lingua
italiana per regolarne
il disegno ai
suoi signori scolari
concentrate dal maestro
di lingua Gio:
Pietro Erico rivelano
se non una
certa ingegnosità, una
certa smania di
voler far entrar
in modo facile
la grammatica nella
testa degli scolari.
Vi si fa
largo uso dei
paradigmi; gli elementi
(vocali e consonanti
sono raggruppate in
più modi per
346 Storia della
Grammatica Dietro l'esempio
del Bartoli per
oltre un cinquantennio, più
spesso contro la
Crusca che in
favore, e sempre
in consonanza col
movimento linguistico a
cui aveva dato
impulso il Vocabolario, si misero
a compilare grossi
e piccoli zibaldoni
specialmente d'indole
ortografica, a stendere
dissertazioni, lezioni e
dialoghi, a postillare
raccolte maggiori, e
in connessione con
l'ortografia a trattar
di pronunzia e
di prosodia ,
specie della agevolar
la pronunzia); avverbi,
modi avverbiali, congiunzióni,
intergettioni, preposizioni sono
ammariniti per elenchi;
il nome vi
è trattato ancora secondo
la qualità, il
numero, il caso,
la figura, la
motione; i verbi
son dati in
tavole; vi si
additano esercizi per la concordanza. (Si debbono
all'Erico anche: Generis
humanae linguae, Venetiis,
1697 e Renatum
e 'Mysterio principiiun
phiiologicum, Patavii. Sono
state ricordate qualche
volta le Osservazioni
della lingua volgare
di Pio Rossi,
Piacenza, e la
Pratlica, e compendiosa
istruzzione a' principianti
circa l'uso emendato,
et elegante della
lingua italiana del
RoGACCl. In appendice agli
Avvisi di Parnaso
ai poeti toschi,
Venezia, s. a.,
Marcantonio Nali, dette
un trattato sulla
dieresi, sulla sineresi,
sui dittonghi, e
sull'accento; Loreto Mattei (il
noto poeta vernacolo reatino), una
Teorica del Verso
volgare, e Prattica
di retta pronunzia,
in Venezia, per
Girolamo Albrizzi.(Neil'
Apologia della z
cita una Neogrammalogia di
un Anonimo, dove
si proponeva il segno dell'.?
per lo z
aspro (fortezza, bellezza)
per distinguerlo dal
suono di: in
donzella, grazia, amazzone.
Nella lezione La
lingua toscana in bilancia
con la latina
il Mattei pone
la prima superiore
alla seconda). In
questo campo il
libro classico è
la Prosodia italiana
ovvero l'arte con l' uso
degli accenti nella
volgar favella d'Italia,
accordati dal padre Placido
Spadafora, palerm. della
Comp. d. G.,
colla Giunta di
tre brevi trattati:
l'uno della Zeta,
e sue varietà:
l'altro dell', verbo
sost., apposizione =
ellissi del verbo
sost., preposiz., avverbi,
congiunz., pronome,
intercezione, intere sentenze,
che se il
loia, dello zeuma,
falsa zeuma, .sillessi, trasposizione, iperbato,
anastrofe, tniesi, parentesi,
e sinchisi.]anzi
ultrapurista, per dirla
col suo recente
biografo , ma,
mutati gli abiti mentali
e slargato il
suo orizzonte anelie
per effetto delle lingue
apprese ne' suoi
viaggi all'estero, fini
quasi ribelle. Scienziato,
filosofo e teologo,
erudito, novellatore e
poeta, epistolografo, quale
accademico della Crusca
attese a studi
linguistici diversi, di
spoglio, d'etimologia, d'ortografia,
di cui introdusse
qualche novità anche
ne' suoi scritti
(ò, ài, à
per ho, hai.
ha, secondo l'antica
proposta del Tolomei);
ma precettista di grammatica
non fu. A
noi basterà caratterizzar
tutta la sua
operosità grammaticale, osservando
che egli non
si peritò d'accogliere
voci straniere, che fu anzi
uno de' primi
neologisti, e riferendo
quel che nel
1677 scriveva al
Bassetti circa la
compilazione del
Vocabolario: tutto l'arricchimento maggiore,
che si pensa
dare a quest'opera
è il rifrustar
manoscritti antichi, e
aggiunger voci Ora io non vorrei
che ci trafilassimo
a cavar fuori
e a spiegar
voci, che in
questo secolo non
accaderà che un
uomo l'oda nominare
una sola volta
in vita sua,
e trascurassimo quelle, che
occorrono in ogni
discorso e che
mal usurpate rendono chi
le dice ridicolo
('"). Voi mettete
, tornava a
ripetergli, in questo
vocabolario voci antiche,
voci rancide. voci
disusate, voci, che
son ridicole a
voi medesimi, e
poi, non distinguendole dalle
buone, ci date
mescolate la crusca,
o piuttosto le reste
e la paglia
istessa, con la
farina . A
base di quest'osservazione è sempre la
vieta concezione del
linguaggio; ma questo
bollar di ridicolo
le voci rancide
e chi le
adopera, indica per
lo meno la
coscienza della contradizione
tra parola vecchia
e idea nuova,
un sentimento insoddisfatto
dell'unità dell'espressione, un segno,
in ogni modo,
di salutare reazione.
Nel raccomandare alla
risorta Accademia di
aprir le porte
al Tasso; di
mettere de' contrassegni
alle voci arcaiche,
alle non comuni,
alle plebee: e di esser
meno difettosa nell'accogliere le
buone voci forestiere
(:i), invidiando alle
altre nazioni l'uso
vivo della lingua,
precorreva il Manzoni.
Fu pertanto considerato,
come egli stesso
confessava, per corruttore
della severa onestà
de' Stefano Fermi, Lorenzo
Dlagatotti scienziato e
letterato ( Studio
biografico bibliografico critico
con ritratto, Firenze,
1903, p. 171.
Leti, fam.., t.
II, p. 68,
in Fermi. Ovidio] nostri antichi
:
ma non così
largamente che dal
Panciatichi, residente nel
1671 a Parigi,
non fosse invitato
sebbene inutilmente a prender
le difese di
nostra lingua contro
gli attacchi famosi
del Bouhours, che
trovò in Italia
il suo avversario
nel Conti. Più
importante di quella
del Magalotti e
de' comuni consoci è
forse l'opera d'uno
de' due Salvini,
Anton Maria: a
Savino, dobbiamo, tra l'altro,
la prima storia
dell'Accademia ('"): storia,
si dica subito,
che dimostra l'importanza
che l'Istituto famoso
aveva ormai acquistato,
ma, anche, la
chiusura d'un periodo d'attività che
aveva fatto il
suo tempo e
non rispondeva più ai nuovi
tempi. Salvini è purista
dello stampo del
Dati, suo antecessore,
di cui cita
con lode il
ricordato discorso siili' Obbligo
di ben parlare
la propria lingua;
fu, direi, l'incarnazione de'
principi che prevalsero
in questo tempo
nelV Accademia; fu il
perfetto accademico; anche
i modi della
sua attività letteraria
contraddistinguono il carattere
della sua mente:
fu oratore accademico
e postillatore: le
Prose toscane e
i Discorsi accademici offrono
una buona parte
di quell'attività; ma
è altrettanto considerevole
la materia trattata
da lui nelle
annotazioni a opere e
libri famosi : il
Malmantile del Lippi,
la Piera e
la Tancia del
Buonarroti, la Perfetta
poesia del Muratori,
le Origini del
Menagio, il Vocabolario,
la Grammatica del
Buonmattei, V Anticrusca del
Beni. Le più
importanti al fatto
nostro sono le
postille all'opera muratoriana,
specie per ciò
che concerne l'efficacia
delle regole grammaticali. Lett. in
Belloni, // seicento,
p. 452. ('-')
Ragionamento sopra V origine
dell'Accademia della Crusca,
Firenze. Su esso, dott.
Carmelo Cordaro, Anton
Maria Salvini, saggio
critico-biografico, Parma, 1906,
e la notizia
che di questo
libro dà R. Fornaci ari.
Un filologo fiorentino
del sec. XVIII,
in Nuova Antologia.
[] Vivaldi esclude,
con l'inoppugnabile argomento
del tempo, che
sia del Salvini,
n. il quel
progetto di risposta da
farsi all' Anticrusca
per opera del
Fioretti che la
fece infatti nel
1614, che il
Moreni pubblicò nel
1S26 traendolo dalla
iMagliabechiana. (6) Nei
Discorsi Accada n.
xxi, p. 3
l'A. esordisce col
sostenere che l'obbligo di
ben parlare la
propria lingua fu
dimostrata con Capitolo
undicesimo 353 K
noto che uno
de' punti cui
s'agitò la controversia,
che è stata
chiamata della lingua,
fu l'eccellenza del
Trecento sul Cinquecento e
i secoli posteriori.
Il Muratori fu
perii Cinquecento : e
il Salvini, naturalmente,
pel Trecento. Tra
gli argomenti che
il Muratori adduceva,
era questo, che
nel Trecento la
lingua non poteva
essere arrivata alla
sua perfezione, perchè,
tra l'altro, non se n'erano
peranco stabilite le
regole e ognuno
scriveva a suo
talento, usando parole
e locuzioni straniere,
rozze, plebee, cadendo
per ciò senz'accorgersene in
barbarismi e solecismi,
trascurando anche la retta
ortografia. Il Salvini
gli ritorce codesto
argomento così: il
non essersi stabilite
le regole, né
poste in iscritto,
e scrivendosi tuttavia
da molti e
parlandosi in quel
tempo regolarmente, è
segno che in
quel tempo era
giunta al non più oltre
l'italiana favella; e non fa
che le regole
naturalmente non ci fossero
. In altre
parole il Muratori
sostiene la inferiorità
del Trecento con
la mancanza della
grammatica; il Salvini l'eccellenza di
esso con l'esistenza
virtuale della grammatica :
questione e ragioni
egualmente cervellotiche e
che movono l'ima
e le altre
dal concepire, al
solito, il linguaggio
come un congegno
meccanico che funziona
più o meno
bene secondo l'esattezza sua e
di chi lo
adopera: il confronto
è impossibile ei
termini sono astrazioni.
Che cos'è il
Trecento? che cos'è
il Cinquecento? sono le
opere concrete che si scrissero,
sono le parole {parole nel
senso estetico) che
si pronunziarono: ora
confrontar l'un secolo con
l'altro, è confrontar
la Divina Commedia
con 1' Orlando
Furioso, ossia fare
una cosa inutile
e arbitraria. Spiegar
poi l'eccellenza dell'una
o dell'altra opera
con le re ottime riflessioni dal
suo antecessore, il
nobile e dotto
Carlo Dati.... Vorrebbe
che si coltivassero
i due idiomi
e si scrivesse
nell'uno e nell'altro,
come fecero i
maestri di nostra
lingua, il Bembo,
il Casa, ed
altri. Ma poiché
la nostra favella
non ha quel
corso e quella
voga d'esser parlata
e scritta comunemente,
come, non so
per qual destino,
ha avuto ed
ha l'idioma francese
... perciò chi
di cose scientifiche vuole trattare,
scriva in latino
non perchè a
ciò sia inetta
la nostra lingua,
ma per aver
più gran teatro,
che ascolti, perchè
la lingua latina
è lingua dell'universale e
propria di tutti
i letterati non
obbliando la nostra
che ha i
suoi vezzi e incanti singolarissimi .
In Gerini. Ricordiamo De
i pregi dell'
eloquenza popolare esposta
da L. A.
Muratori, Venezia, M
DCC L, presso
G. B. Pasquali,
fondati sulla dottrina
dell'imitazione.] gole, è pretendere
che le regole
producano l'arte. Siamo
ancora con la
vecchia poetica. Il
Muratori dedicò parecchie
pagine della sua
perfetta poesia al
buon gusto, e
sebbene non accettasse le
vedute dello Sforza
Pallavicino che davano
briglia sciolta alla
fantasia, le fece
larghissima parte ,
ebbe insomma più
larghe vedute del
Salvini: ma il
linguaggio non fu
neppur sospettato né dall'uno
né dall'altro che
potesse esser tutt'uno
con la fantasia.
La poetica del
rinascimento si dissolvette,
senza che la
grammatica, naturalmente, avesse
avuto l'onore in
essa d'una interpretazione degna
d'esser chiamata filosofica:
fu sempre considerata come strumento:
infatti nella classificazione delle
arti, rimase sempre
all'ingresso. Da quell'argomento delle
regole il Salvini
ne trasse un
altro, meno disutile
anche perchè contiene
un elemento che
si può chiarire
con la storia,
ma egualmente infondato
nella sua concatenazione. Prima
una lingua fiorisce,
e la fan
fiorire gli autori
che la mostrano
e scuopronla; e
poi se ne
formano le regole.
Anzi quando si
fanno le regole,
cattivo segno: è segno
che la lingua
non è più
nella sua naturai
perfezione: è scaduta
dal suo primo
fiore e lustro;
ha bisogno di
essere puntellata, perchè
non finisca di
rovinare ("). E
si sforza di
dimostrarlo col fatto
dell 'imbarbarimento del
400 da cui
ci liberò il
Bembo con gli
altri grammatici, ma
non in modo
che scorcordanze e
solecismi non durassero
ancora, consigliando il
ritorno all'imitazione dell'aureo
secolo, quando autori
e volgo parlavano
puro e corretto
e tutti scrivevano
come i testi
a penna dimostrano
senza sconcordanze, e
si avevano le
coniugazioni senza che vi fossero
grammatiche, dell'aureo secolo,
che ebbe, oltre
questi, il merito
di fornire ai
grammatici cinquecentisti la
materia delle regole
loro. Il Vivaldi,
che riferisce queste
idee e argomentazioni delSalvini,
seguendolo passo passo
con la sua
critica, osserva che
quando nascono le
regole in una
lingua, questa non
è più nel
suo stato di
spontaneità, è entrata
in un periodo
riflesso; ma dire
che sia in un periodo
di corruzione e di rovina
mi pare troppo.
Or che vuol
dire che una
Croce, Estetica.) Quest'idea,
annota il Vivaldi,
p. 321, che
la grammatica sorga quando
la lingua si
comincia a corrompere,
è ripetuta in
molti punti dal
Salvini. Leg.ui le
note] lingua e entrata
in un periodo
riflesso? La lingua
è sempre lingua,
cioè creazione spirituale
in ogni momento
del suo prodursi :
slato riflesso sarà
quello della coscienza
di chi la
parla. E certamente
da questi stati
riflessi della coscienza
nascono tutti gli
sforzi che mirano
a spiegare il
passato: le regole,
teoricamente, sono il primo
tentativo della scienza:
praticamente, servono al
bisogno dell'apprendimento della
lingua: Aristotele, Quintiliano,
il Bembo interessano
egualmente ma diversamente
tanto chi fa la storia
delle dottrine poetiche
e grammaticali, quanto
chi si prefìgge
lo scopo pratico
di apprendere o
di insegnare l'arte e
la lingua. Si
può dire, quindi,
aggiunge il Vivaldi,
che, nate le
regole, una lingua
sia meno vivace
di prima; ma
dire che s'incammini
alla corruzione, donde
il bisogno di
essere puntellata, non mi pare.
Come se, quando
spuntavano le regole
del Fortunio e
le Prose del
Bembo, fosse stato
mai impedito all'Ariosto
di condurre a
quello stato di
perfezione o di
vivacità, ond'è mirabile,
il suo Orlando
Fttrioso, o per
effetto di quei
pretesi mali contro
cui insorse la
grammatica del purismo
avesse mai potuto
raffreddarsi il calore
ond'espresse e corresse
i suoi Promessi
Sposi Alessandro Manzoni
! La corruzione
della lingua è
una delle tante
illusioni che il
vecchio concetto del
linguaggio suscita e
alimenta: e la
grammatica non sorge
in aiuto d'un
guasto che è
solo nella fantasia
degli empirici. Ma,
intanto, quanto inchiostro
non s'è versato
in queste discussioni
che ogni tanto,
anche dopo che
la scienza le
ha superate, risorgono
anche tra persone
colte, dividendone gli
animi ! Meglio
che in polemiche
e in particolari
trattazioni, un letterato pugliese, l'ab.
Severino Boccia, autore
del Tasso piangente ,
concretò la sua
opposizione contro la
Crusca in una
vera e ampissima
Grammatica e in
un grande Vocabolario,
che però non
videro mai la
luce . Uno
dei padri della
grani Napoli, Mich.
Monaco, 16S2, sotto
lo pseud. di
Sincero Va/desio. Cfr. Guerrieri,
L'abbate Severino Boccia
grammatico e lessicografo pugliese
del sec. XVII,
Cerignola (estr.). La
Grammatica italiana di
Sincero Valdesio è
contenuta in un
ms. cart. legato
in pelle bianca
di oltre 500
pagine, parte numerate
parte no. Una
postilla in cui
quest'opera viene attribuita
al Boccia, reca
la data iógo.
Di essa fece
un riassunto D.
Felice, Roma, nel
1703, che poi
passò all'Armellini. Il
Voc. è parimenti
ms. in cinque
grossi volumi avrebbe
chiamato il Boccia
quel gran padre
che ne fu
Basilio Puoti, che
potè vedere la
voluminosa opera dell'abate
pugliese . La
Grammatica si apre
con un discorso
sulla lingua, il
suo svolgimento, e
il modo di
studiarla: la grammatica vi
è definita l'arte
di parlare e
scriver bene in
tale idioma, senza
vizio di barbarismo
o solecismo ,
e se ne
deduce che il
favellare è proprio
connaturale all'uomo e che nessuno
può pretendere di
parlare e scrivere
bene, senza l'arte
e lo studio:
la macchina dell'opera
sua poggia sopratre
colonne di bronzo
massiccio, la ragione,
Y autorità, V usanza;
ma l'A. non
ha voluto giurare
sul frullone delia
Crusca, non sulla
zucca degli Intronati,
non sulla gru
degli Oziosi, non
sulla luna degli
Erranti, né in altra
celebre impresa di
questa o di
quella Accademia^). Da quanto
ce ne dice
il Guerrieri la
trattazione è completa, dalle lettere,
vocali e consonanti,
sillabe alle parti
del discorso, al
pleonasmo, all'ortografia e
punteggiatura; il notevole è
che gli esempi
sono tolti tutti
quanti dal Tasso,
sia per le
regole che per
le eccezioni: e
le autorità del Vocabolario, dove
spesso i modi
di dire hanno
il corrispondente latino,
sono di frequente
cavate dal Tasso.
Così la Crusca
veniva contraddetta in due
modi, abbastanza pratici,
nelle regole e
negli esempi, e
l'infelice poeta aveva
in questo grammatico
e lessicografo il più
caldo e fedel
difensore. Pro e
contro la Crusca
stette infine quel GIGLI (si veda) che,
come dice il
D'Ovidio, rinnovò lo
scandalo col Vocabolario Cateriniano,
libro riboccante d'arguzie e
d'umorismo, ma spesso
scurrile, pettegolo e
maligno, non di
rado anche insipido
o adulatore ,
(p. 153) e
del quale scontò
l'audacia con umilissime
ritrattazioni e il
bando da Siena
sua città natale
e da Roma,
dove fu precettore
di D. Alessandro Ruspoli de'
Principi di Cerveteri,
per l'istruzione del
quale ordinò l'operetta
è dicitura che
tolgo dal titolo
che va sotto
il nome di
Regole per la
toscana favella dichiarate per la
più stretta e più larga
osservanza in dialogo
tra (*) Guerrieri,
op. cit., p.
33. {-) Guerrieri. Su
esso, T. Favilli,
G. Gigli senese,
nella vita e
nelle opere, Rocca
S. Casciano, 1907
(ma cfr. I.
Senesi, recens. in
Rass, bibl. d.
leti. It. Maestro e
scolare , una
delle ultime e
vere grammatiche di
questo lungo periodo
di cui siam
venuti notando le
manifestazioni più
caratteristiche, cosa diversa
dalle Lezioni di
li?igua tosca?ia ("),
che furono nuovamente
raccolte dall'ab. G.
Catena Senese. Al
Gigli dobbiamo anche,
tra l'altro, un'Orazione
in lode della toscana
favella, e la
raccolta romana delle
Opere di Celso
Cittadini: egli poi
accenna a tavole
sinottiche de" Verbi
ausiliari e regolari
da lui compilate
per distinguerne in
quattro colonnette l'uso
corretto antico, poetico
e corrotto, distinzione non fatta
dal Pergamini, e
a una sua
grammatica anteriormente
stampata, che è
tutt'uno con le
Lezioni, dove infatti
questa partizione è
adottata. Avverte nella
prefazione che ha
più Grammatiche ornai
la nostra Volgar
Favella, che non
ha genti (stetti
per dire) che
la parli ...;
la chiama bastone
... istoriato dal
Cittadini, fornito della punta
di ferro dal
Castelvetro, contro il
Bembo, o fatto
a nodi contro
il Bartoli, il
Beni, il Muzio;
fornito di manico d'argento dal
Castiglione ...; constata
che l'Indie grammaticali non mandano
altri Ucelli, che
qualche voce spelacchiata dell'H; qualche
verbo anomalo, che ha i
piedi dove altri
hanno il capo;
qualche nome eteroclito
di due sessi
. E questo
supergiù, come abbiam
visto, era vero
per la vecchia
grammatica dell'italiano:
poiché proprio ora,
e precisamente usciva in
Napoli per il
latino il Nuovo
metodo di Portoreale,
che doveva naturalmente
produrre la sua
efficacia anche sull'italiano. Accenna,
infine, a una
nuova edizione del
Donato con Avvertimenli
grammaticali per la
nostra volgar lingua,
curata dal suo
assistente alla cattedra
d'eloquenza, Francesco Tondelli,
che è un
nuovo esempio di
quella fusio ne che
ormai si ve
In Roma. Nella
stamperia di Antonio
de' Rossi, nella strada
del Santuario Romano,
vicino alla Rotonda, Venezia, Giavasina, e
29. Coi tipi del
Pasquali in Venezia.
In Lezioni, Venezia,
1736. (5) In
Roma, per Antonio
De' Rossi. In
Roma, Chracas, 1710.
Ma la prima
ediz. era stata
fatta in Siena.
Un Donato al
Senno ... con
le. loro costruttioni
et toscane dìchiarationi
vide la luce
in Treviso, per
Gasparo Pianto. 35^ Storia
della Grammatica niva
facendo sempre più
completa delle due
grammatiche, l'italiana e
latina, e sulla
quale aveva insistito
ne' suoi Discorsi
accademici (cfr. specialmente
il LXII, t. I, sopra
la lingua latina) e
nelle Prose toscane
(le lezioni 22,
33, 44 sopra
la lingua toscana,
e la 47%
Esortazione a comporne
in toscano) anche
Anton Maria Salvini.
Le Regole come
le Lezioni del
Gigli non hanno
maggior portata filosofica
di quella che
vien loro dall'essere
informate a un
certo spirito liberale
di modernità e
d'opposizione alla grammatica pedantesca e
troppo ristretta, della
quale abbandona il
complesso schematismo, contentandosi
di dar poche
regole tra molti
e vari esercizi
(2); il che
le rende naturalmente
lodevoli sotto l'aspetto didattico.
L'uso che il
Gigli segue è
quello degli scrittori
del Trecento più
comunemente accettati, che
era un utile
criterio per lui
per propugnare quello
della Santa concittadina, in servizio
del quale prese
a compilare il
l'ocabolario Cateriniano, vessillo
intorno a cui
aveva tentato raggruppare
un forte manipolo
di ribelli, dove
s'oppone a riconoscere
in Firenze e nell'Accademia il
diritto esclusivo di
regolar la favella
d'Italia. Per quanto
editore delle opere
del Cittadini, pure
non sembra ne
faccia la debita
stima almeno per
l'utile che ne possa
venire ai discenti
italiani: afferma, invece,
che le ricerche
dell'illustre concittadino
sono assai più
giovevoli agli Oltremontani, Vi si
dice che lo
studio del latino
è necessarissimo per
iscrivere perfettamente nel toscano.
Questi luoghi segnalò
già il Gerixi,
op. cit., p.
8, n. Regole
della poesia sì
Latina che Italiana
per uso delle
scuole erano state
edite per la
3a volta, in
Venezia, presso Giuseppe
Rota niella prefaz.
è detto che
questa è la
prima poetica per
le scuole). (2)
P. es., è
molto pratico quello
indicato in fin
del libro per
conservare a memoria
le Regole addietro
scritte, per via di qualche
racconto mescolato a
studio degli usuali
errori, che si
commettono fra i
Toscani medesimi; i
quali errori qui
si correggono dagli
scolari fra di
loro, con quest'
ordine stesso, che
dagli scolari della
Grammatica Latina si
pratica, ascoltando un
avversario il recitamento
a memoria dell'altro
. Gigli mostrò
di sapersi valere
del dialetto per
l'apprendimento della
lingua. E forse
a questo scopo
avrà disegnato una
Grammatica senese di
cui parla in
una sua lettera
del 28 ott.
1715 (in Favilli,
G. Gigli, se
questa non è
tutt'uno con le
Lezioni o le Regole,
o non è
un termine vago
per indicare i
suoi studi grammaticali
e linguistici. Capitolo
undicesimo 359 ai
quali tiene costantemente
l'occhio specie per
quel clie concerne la
grafia. Né può
esser lodato per
ciò che concerne
la critica de'
testi e l'etimologia.
Batte molto su
i criteri stilistici,
distinguendo come gli
abbiam visto far
per i verbi,
un uso retto,
antico, poetico, corrotto,
che corrisponderebbe su
per giù alle
distinzioni fatte poi
dal Manzoni. Ma
è sempre sarebbe
inutile osservarlo da quanto
sin qui s'è
detto sotto la
vecchia concezione del
linguaggio, per cui
s'aggira costantemente nell'equivoco: Non
troverete sollecismo ,
dice, che non
possa con qualche
esempio salvarsi, o
del Dante, o
de' suoi Coetanei, o
di S. Caterina
da Siena, e
simili autorevoli Prosatori
Poeti. Il pensiero
com'è formulato determina
il carattere del
vecchio dogmatismo
grammaticale. Il Gigli
ci richiama al
pensiero un sostenitore
della Crusca, Niccolò
Amenta (' ),
già ricordato come
Annotatore del Torto
del Bartoli, e
del quale anche,
per ragion di
tempo, ci dobbiamo ora
occupare. L' Amenta già
nelle Annotazioni al
Torto aveva preso
posizione netta contro
il Bartoli e
in favor della
Crusca, giudicando che
il Bartoli, menando
beffe e strazio
de' grammatici, non aveva
seguito né le
loro decisioni, né
l'uso, o sia
del popolo o
de' più eletti,
né l'autorità degli
scrittori, né la
prerogativa del tempo, né
l'uso latino o
il suo contrario,
né la convenenza
de' simili; ma or l'uno
or l'altro, or
due o tre
insieme e più di tutto
Y arbitrio, a
cui una gran
parte rimane in
libertà, ed è per
avventura la più
diffìcile a ben
usare, richiedendovisi un
buon gusto proveniente
da buon giudicio
(p. 15). L'accusava
d'aver plagiato il
Cinonio, di cui
non par facesse
molta stima: e
concludeva: se adunque
vorrà tutto ciò
considerare qualunque
affezionato al P. B., ho
per fermo, che
compatirammi, s'io in
queste osservazioni tra
la forza che
m'ha tatto principalmente la
ragione, e per
la riverenza che
ho avuto a'
Testi, a' buoni
Grammatici, ed a'
signori Accademici fiorentini,
spessissime volte gli
ho contraddetto. Protestando
ad ognuno che se '1
B. scrisse questo
libro (come già
pare ch'egli stesso
volesse) per far
conoscere, che nella
Toscana favella prevaglia
(' spesso così
accoppiati discussi dal
Vico) poterono sodisfargli
l'intendimento circa la
guisa del nascime?ito,
ossia la natura
delle lingue, che
troppo ci ha
costo di aspra
meditazione i1), e
la cui Discoverta,
ch'è la chiave
maestra di questa
Scienza, ci ha
costo la Ricerca
ostinata di quasi
tutta la nostra
vita letteraria. Medesimamente lo
lasciarono insodisfatto i
grammatici del rinascimento,
da lui criticati
e nella massima
opera enel breve
Giudizio intorno alla
Grammatica d'Aronne. La
metafisica è una
scienza, comincia VICO (si veda), la
quale ha per
oggetto la mente
umana. Ond'ella si
stende a tutto
ciò che può
giammai pensar l'uomo.
Quindi ella scende
ad illuminare tutte le
Arti, e le
Scienze, che compiono
il subietto dell'umana Sapienza. Le
prime tra queste
sono la Grammatica,
e la Logica;
l'ima, che dà
le regole del
parlar dritto, l'altra
del parlar vero.
E perchè per
ordine di Natura
dee precedere il
parlar vero al
parlar dritto; perciò
con generoso sforzo
Giulio Cesare della
Scala, seguitato poi
da tutti i
migliori Grammatici che
gli vennero dietro,
si diede a
ragionare delle cagioni
della Lingua Latina
co' principj di LOGICA. Ma
in ciò venne
fallito il gran
disegno con attaccarsi
ai principj di
Logica, che ne
pensò un particolare
uomo filosofo, cioè
colla Logica di
Aristotile, i cui principj
essendo troppo universali,
non riescono a
spiegare i quasi
infiniti particolari, che
per natura vengono
innanzi a chiunque vuol
ragionare d'una lingua.
Onde Francesco Sanzio,
che con magnanimo
ordine gli tenne
dietro nella sua
Minerva, si sforza
colla sua famosa
Ellissi di spiegare
gl'innumerabili particolari, che
osserva nella Lingua
Latina; e con
infelice successo, per salvare
gli universali principj
della Logica di
Aristotile, riesce sforzato
e importuno in una quasi
innumerabile copia di parlari
Latini, dei quali
crede supplire i
leggiadri ed eleganti difetti,
che la Lingua
Latina usa nello
spie- [In Croce. Scienza Nuova,
Milano, Truffi. Non è
questa la migliore
edizione del gran
libro; ma, avendo
condotto su essa
il mio studio,
mi è difficile
ora concordare le
citazioni con la
seconda edizione Ferrari.
Cfr. Croce, Bibliogr.
vichiana, Napoli, e
Suppli'Diento.] garsi. Ma il
quanto acuto, tanto
avveduto Autore di
questa novella Grammatica ha
ridotto tutte le maniere di
pensare, che nascer
mai possono in
mente umana intorno
la sostanza, e
le innumerabili varie
diverse modificazioni di
essa, a certi
principi metafisici cosi
utili e comodi,
che si ritrovano
avverati in tutto
ciò che la
Grammatica Latina propone
nelle sue regole,
e nelle sue
eccezioni. Il frutto
di una sì
fatta grammatica è
grandissimo, perchè il
fanciullo, senz'avvedersene, viene
informato di una
metafisica, per dir
così, pratica, con
cui rende ragione
di tutte le
maniere del suo
pensare; appunto come
colla Geometria i
giovani, pur senz'avvedersene, apprendono
un abito di
pensar ordinatamente. Per
tutto ciò, secondo
il mio debole
e corto giudizio,
stimo questa Grammatica
degna della pubblica
luce, siccome quella
che porta seco
una discoverta di
grandissimi lumi alla
Repubblica delle Lettere.
Lasciando per ora
da parte il
rispetto del Vico
verso la grammatica
ancor classificata secondo
il vecchio canone,
è agevole vedere come
la posizione presa
da lui contro
lo Scaligero e
il Sanzio, acutamente
distinti tra tutti
i grammatici dell'antichità e del
rinascimento, sia determinata
appunto dal suo
concetto fondamentale di fantasia
e d'intelletto. Il
Sanzio, moviamo da questo
perchè supera lo
Scaligero, pur avanzando
di tanto i
precedenti grammatici nell'interpretazione delle
forme e de'
costrutti latini, come quegli
che ne cercava
le radici nello
spirito e non in un
convenzionale ed esterior
meccanismo ("), nel
fatto linguistico e
grammaticale non vedeva
che un fatto
logico, e, con quest'unico
criterio, spiegava non
solamente i casi
('j Opuscoli di
Giovanni Battista Vico
raccolti e pubblicati
da Carlantonio de
Rosa marchese di
Villarosa. Napoli. Presso
Piorelli. È notevole il
tono, più che
polemico, sarcastico e
sprezzante con cui
combatte le dottrine
de' precedenti grammatici
tutt' altro che indegni
di alta stima
come il Valla.
Le espressioni che
adopera contro di
loro sono di
questo tenore: Ridicala
vero sunt quae
inculcat Valla de
Unus et Solus....
An non risu
res digna est,
quum Valla et
Grammatici docent in his orationibus:
Fortiores Troianorum superavit,
et fortissimos Troianorum
superavit: in priore
esse genitivum partitionis,
in posteriore minime?
Sed horum insaniam
Minerva exagitat. Quella
Minerva nel nome
della quale intitolò
l'opera sua maggiore
De caitsis linguae
latinae di cui
le Verae brevesque
Grammaticae latinae institutiones
sono un anticipato
compendio. Capitolo dodicesimo
371 regolari della
sintassi latina, ma
tutte le apparenti
irregolarità, mirando unicamente
a questo, cioè
a ridurre l'irregolare
al regolare con quella
che egli stesso
chiamò la doctrina
s?tpp tendi (l).
ossia la dottrina
dell'ellissi. Naturalmente non
con la sola
ellissi spiegava tutte
le anomalie: poiché
egli ammetteva cinque
figure: il pleonasmo,
l'ellissi, lo zeugma,
la sillessi e
l'iperbato, chiamando nionstrosi partus
Grammaticarum (") l'antiptosi,
la prolessi, la sintesi,
V apposizione, V evocazione, la
sinecdoche; ma latissime
patet Ellipsis (;i),
e perciò sull'ellissi
particolarmente si diffonde
, praeclarum munus
. Dovunque l'espressione
non è assolutamente
geometrica, il Sanzio
trova un' ellissi,
e spiega il
modo onde si
supplisce, non accorgendosi
della solenne smentita
che dà alla
propria dottrina, quando,
come fa nell'introduzione alle Regulae
generales (''), afferma
che però sarebbe
barbaro, neologistico, insomma
inelegante, il modo
regolare supplito, sciogliendo
l'ellissi, all'irregolare. ...quid
leporis habebunt tot
proverbia, si integra
referantur ?... Multa
edam Grammaticae ratio
nos cogit intelligere,
quae si apponerentur
latinitatis elegantiam disturbarent,
aut sensum dubium
facerent... Alia rursus
videmus desiderari, quae
sine barbarismo suppleri
nequeunt et tamen
Grammatica necessitas supplebit.
In questo il
Sanzio seguiva un'antica
e sanissima veduta
rappresentata principalmente da Quintiliano,
il quale diceva:
Aliud est Latine
loqui, aliud Grammatice
loqui, e seguita
anche da Orazio,
che il Sanzio
cita con tanto
maggior entusiasmo quanto
più acremente rifiuta
la tesi degli
avversari, che pare
non fossero né
pochi ne in
vero ignoranti. Supplementum ,
dicevan co- [Nell'opera qui
appresso cit.: Doctrinam
supplendi esse valde
necessariam. SANCTIS (si veda)
Brocensts in inclyta
Salmanticensi Academia primarij
Rhetorices, Graecaeque linguae
doctoris, verae, brevesque
Gramatices latinae institutiones, Salmanticae,
excudebat Ma- thias
Gastius. La introduzione si
chiude con quest'enfa-
tiche parole: Liceat iam
nobis per Grammaticos
thesauros Ellipseos aperire,
sine quibus iniuriam
facit Latino Sermoni,
qui se Latinum
audet nominare.] storo, reffugium
est miserorum: si
nobis liceat supplere
quod volumus, omnes
erunt valde bonae
orationes . E
non avevano torto,
intuendo, senz'accorgersene, una
profonda verità, quella
cioè dell'impossibilità estetica
della sostituzione della
frase co- siddetta propria all'impropria, propria
essendo solamente, cioè
artistica, vera, espressiva,
quella che s'è
usata con tutti
i suoi apparenti
difetti. Horatius ,
dunque, diceva il
Sanzio, quasi nostras
partes agens, et
Ellipsin amplectens, dixit
li. I. Saty.
io. Est brevitate
opus, ut currat
sententia, non se
impediat verbis lassas
onerantibus aures . Dove, come
pure nella sentenza quintilianea, la
Grammatica è solennemente
liquidata e inverasi
a maraviglia all'inverso
il motto degli
avversari del Sanzio:
supplementum reffugium est
miserorum ! Addurre
esempi de' supplementi
sanziani è superfluo
e inutile, perchè occorrerebbe
addurne tutto l'infinito
numero, per vedere
a che punto
spinge il Sanzio
l'applicazione della sua
dottrina. Ora chi
conosce una lingua,
sa che il
più è l'irregolare;
onde converrebbe chiamar
una lingua tutta
una figura continuata.
Il Vico, che
aveva del linguaggio
e della poesia
una ben diversa
concezione, derivandoli non
dall'intelletto, ma dalla
fantasia, in questo
sforzo del Sanzio
non poteva che
vedere un'illusione, e,
con disinvolta profondità,
lo confuta e
lo supera con
quella semplice osservazione,
che egli riesce
sforzato e importuno
in una quasi
innumerabile copia di
parlari latini, dei
quali crede supplire
i leggiadri ed
eleganti difetti che
la lingua latina
usa nello spiegarsi
; dove la
natura della lingua,
i diritti della
fantasia e i
principi critici si
affermano in una
mirabile concordia veramente
degna di quell'altissima mente.
Così, egli, more
solito, cioè con la
massima semplicità, superava
tutti i migliori
grammatici, ripigliando con
coscienza di causa
l'antica tesi degli
avversari del .Sanzio.
Tuttavia non in
questo Giudizio, dove
pur non si
vorrebbe conservata alla
grammatica l'antica posizione
che aveva nel
canone tradizionale né fatta
quella sottil distinzione
tra parlar vero
e parlar diritto,
residui di vecchie
vedute, non in
questo Giudizio si
esaurisce la sua
critica della grammatica.
Questa anzi è
principalmente costituita dalla
spiegazione della genesi
delle parti dell'orazione
e della sintassi
che il Vico
porge nei terzi
Corollarj al cap.
Della Logica poetica
del libro secondo
della Scienza nuova.
Capitolo ti od
ice si mo
Lo Scaligero e
il Sanzio avevano
accettata tal quale
la dottrina aristotelica delle
categorie grammaticali: Aristotile
aveva, in sostanza,
dato al nome
la funzione di
esprimere la materia
o Volte, al
verbo quella di
esprimere il moto
o V azione, aveva
cioè attribuito a
astrazioni della nostra
niente un valore
effettivo e reale, aveva
scam biato un concetto
con un fatto.
Accettar questa dottrina
era, come benissimo
osserva il Vico,
conchiudendo que' corollari, un
ammettere che i
popoli, che si
ritrovaron le lingue,
avessero prima dovuto
andare a scuola
d' Aristotile (l); era
un ammettere la
preesistenza di categorie
alla produzione del
pensiero, un asserire
che i parlanti
si servirono di
schemi astratti, per
esprimere determinate parole,
che fecero cioè
l'impossibile. Il Vico
diede invece una genesi naturale
alle parti dell'orazione e alla
sintassi, e insieme
indicò V ordine con
cui esse nacquero
e la sintassi
si formò. La
lingua articolata mi
rifò da questo
punto per tenermi
strettamente al mio
argomento quella cioè
delle tre che
cominciarono nello stesso tempo
( intendendo sempre
andar loro del
pari le lettere
(") ), degli
Dei, degli Eroi
e degli Uomini,
cominciò con l'onomatopea, con
la quale tuttavia
osserviamo spiegarsi i
fanciulli (ricordisi che
nella sua storia
ideale umana il
Vico paragona sempre
i momenti di
sviluppo dell'umanità con
quelli dell'uomo); seguitò
a formarsi con l'
Interiezione; che sono
voci articolate all'empito
di passioni violente,
che in tutte
le lingue son
monosillabe ; poi
coi pronomi; imperocché le
interiezioni sfogano le
passioni proprie, lo
che si fa
anco da' soli;
ma i -bronomi
servono per comunicare
le nostre idee
con altrui d'intorno
a quelle cose,
che co' nomi
propj o noi
non sappiamo appellare,
o altri non
sappia intendere: e
i pronomi pur
quasi tutti in
tutte le Lingue
la maggior parte
son monosillabi, il primo
de' quali, o
almeno tra primi
dovett'esser quello, di
che n' è rimasto
quel luogo d'oro
d'Ennio, Aspice hoc
sublime cadens, quem
omnes invocant Jovem,
ov'è detto hoc
invece di Coelum,
e ne restò
in volgar Latino,
Luciscit hoc jam;
Qui il Vico
ricorda il Trissino.
374 Storia della
Grammatica in vece
di albescit Coelum:
e gli articoli
dalla lor nascita
[avvertasi il trapasso dalla
spiegazione dell'origine de'
pronomi a quella
degli articoli, che,
se non prendiamo
abbaglio, nella mente
del Vico rappresenterebbero una
cotal funzione di
determinare il nome generata
dal pronome, quando
non scompagnandosi dal nome,
perdette la sua
vera funzione] hanno
questa eterna proprietà
d'andare innanzi a'
nomi, a' quali
son attaccati. Dopo si
formarono le particelle,
delle quali son
gran parte le
preposizioni, che pur
quasi in tutte
le lingue son
monosillabe; che conservano
col nome questa
eterna proprietà di
andar innanzi a' nomi,
che le domandano,
ed a' verbi,
co' quali vanno
a comporsi. Tratto
tratto s'andarono formando
i nomi: de'
quali nell' Origini
della lingua Latiiia
ritrovate in quest'
Opera la prima
volta stampata, si
novera una gran
quantità nati dentro
nel Lazio dalla
vita d'essi Latini
selvaggia per la
contadinesca infin alla
prima civile, formati
tutti monosillabi, che
non hanno nulla
d'origini forestiere nemmeno
greche, a riserba
di quattro voci
fiovg. ovg, jav$,
o>jij>, eh' a
Latini significa siepe,
e a' Greci
serpe... ed esser
nati i nomi
prima de' verbi,
ci è approvato
da questa eterna
proprietà; che non
regge Orazione se
non comincia da
nome, ch'espresso, o
taciuto la regga.
Finalmente gli Autori
delle lingue si
formarono i verbi
come osserviamo i
fanciulli spiegar nomi,
particelle, e tacer
i verbi, perchè
i nomi destano
idee, che lasciano
fermi vestigi; le
particelle, che significano
esse modificazioni, fanno
il medesimo: ma
i verbi significano
moti, i quali
portano l'innanzi, e
'1 dopo, che
sono misurati dall'indivisibile del
presente difficilissimo ad intendersi dagli
stessi filosofi. Ed è un 'osservazione fisica,
che di molto
approva ciò, che
diciamo; che tra
noi vive un
uomo onesto tocco
da gravissima apoplessia,
il quale mentova
nomi e si
è affatto dimenticato de' verbi.
E pur i
verbi, che sono
generi di tutti
gli altri, quali
sono sum dell
'essere, al quale
si riducono tutte
V essenze, ch'è tanto
dire tutte le
cose metafisiche: sto
della quiete, co
del moto, a'
quali si riducono
tutte le cose
fisiche, do, dico
e facio, a'
(piali si riducono
tutte le cose
agìbili, sien o
morali o famigliari,
o finalmente civili:
dovetter incominciar dagli
imperativi ; perchè nello
Stato delle famiglie,
povero in sommo
grado di lingua,
i Padri soli
dovettero favellare e
dar gli ordini a'
figliuòli, ed a'
famoli; e questi
sotto i terribili
imperj famigliari, quali
poco appresso vedremo,
con cieco ossequio
dovevano tacendo eseguirne
i romandi; i
quali imperativi sono
tutti monosillabi, quali
ci son rimasti
es, sta, i,
da, dic,fac. Analogamente
si ritroverebbe, par
che voglia dire
il Vico, • Y
ordine, con cui
nacquero le parti
dell'orazione, e 'n
conseguenza le //aturali cagioni
della SINTASSI (COM-POSITIO). Ora,
date per provate
tutte queste asserzioni
di fatto del
Vico riguardanti l'origine
e la formazione
nelle sue successive
tasi delle lingue,
qual è la
differenza che passa
tra la dottrina
aristotelica delle categorie
grammaticali e quella
di VICO (si veda)? A me sembra profondissima. Di
Aristotile abbiamo visto.
Il Vico par
ammettere l'esistenza di
queste categorie; ma
è solo question
di parole; perchè,
nella sua dimostrazione
storico-genetica viene in
sostanza ad annullarle.
Le parti del
discorso pel Vico
corrisponderebbero ad altrettanti
momenti della formazione
del linguaggio o, eh'
è lo
stesso, della storia
ideale dell'umanità: ogni
parte è una
fase della coscienza
umana allargantesi alla
concezione e all'espressione di
nuove idee: perciò
queste parti del
discorso non sono
categorie ricavate astrattamente
dalla distruzione
dell'espressione, come fa
chi sottopone il
fatto estetico unico,
indivisibile a un'elaborazione logica;
ma son vere
e proprie parole, che
il Vico appella
coi nomi tradizionali
della grammatica, tanto per
farsi intendere, ma
che non sarebbe
affatto necessario chiamar
in tal modo:
ognuna di codeste
parole è un
fatto reale espressivo
naturale per sé
stante che si
produce spontaneamente da una causa
interiore. Se veramente
codeste parole si
sian formate nel
modo accennato anzi
affermato dal Vico
e in quell'ordine,
non possiamo storicamente
provare, né il
Vico può provarlo
(gli esempi de'
fancndli e de'
paralitici valgon ben
poco, secondo noi);
ma, comunque siano
andate le cose,
questo é con
piena evidenza chiarito
che le lingue
crebbero per fatto naturale,
e che il
discorso si andò
sempre meglio organizzando a
mano a mano
che la coscienza
dell'umanità si sviluppava,
e che le
parti di codesto
discorso ne segnano
le tappe successive:
anzi, parti non
potrebbero chiamarsi, poiché
ognuna d'esse essendo
una parola, ogni
volta che questa
veniva pronunziata, era
un' espressioìie intera, cioè
diceva tutto quello
che il parlante
voleva dire. Quel
motto onomatopeico, quelì'ùiteriezione, quel
pronome, quell' articolo, quel
nome, quel verbo,
anzi quell' imperativo, pronunziati
dall'uomo primitivo, non
sono categorie grammaticali,
schemi preesistenti alla
concezione stessa dell'idea in
essi rappresentata e
necessari assolutamente alla
estrinsecazione di essa
di cui sarebbero
la formula d'espressione, ma
veri vocaboli, vere
parole, veri fatti
espressivi, individuali e
interi, che possono
esser chiamati con
quei nomi, ma
per mera convenzione
e senza alcuna
necessità. Il Vico
chiama il fatto
estetico naturalmente prodotto
coi nomi convenzionali
astrattamente ricavati con un
procedimento logico; Aristotile
pretende che astrazioni
logiche si esprimano
con determinate parole.
Come si vede,
siamo agli antipodi;
cioè z\V origine
e quasi alla
fine della grammatica.
Dico qtiasi alla
fine, perchè l' intuizione
di VICO (si veda) non è
rigorosamente e metodicamente
dimostrata: e in
ogni modo quello
stesso parlar ancora
di parti del
discorso, non solo,
ma il ripeter
la definizione tradizionale
del verbo, che
significa il moto, ingenera
per lo meno
confusioni e dubbiezze;
ma, presa nel
suo insieme e
nel suo spirito,
la critica di VICO (si veda) si
può ben dire
che supera le
precedenti vedute, e
scioglie il problema.
Ma, com'è noto,
il Vico ebbe,
almeno per allora,
poca fortuna, e anche
in questo terreno
grammaticale i semi
da lui sparsi
non diedero alcun
frutto, mentre sarebbe
stato facile il
fecondarli per opera
di degni interpreti
e continuatori. D'altra
parte, neppur l'indirizzo
logico-grammaticale di Porto-Reale
fu, in questo
periodo, seguitato in
Italia con molto
calore nei rispetti
della lingua italiana,
il Barba è
una magnifica eccezione mentre
invece specialmente in
Francia alimentava una viva
ed elevata letteratura
grammaticale. Non che
l'Italia fosse intellettualmente prostata
o esaurita: decadimento
ci fu, ma
era solamente letterario
e nessuno oggi
oserebbe più estendere
a tutto il
pensiero e alla
vita italiana del
primo Settecento quant'era
proprio solo dell'Arcadia.
L'Italia si volgeva ad
altri studi, specialmente
a quelli d'erudizione
e di critica
storica, ne' quali
si doveva rifar
la coscienza, ripigliando le tradizioni
cinquecentesche iniziate da
Sigonio e da
Borghini e trasmigrate
nel Seicento in
Germania e in
Olanda. Oggetto di
questi fervidi studi
furono le costituzioni
e le vicende politiche, il
diritto, le costumanze,
le origini e
anche la lingua
dell'Italia nuova, e,
col Vico stesso,
era alla testa
del movimento Muratori,
il rappresentante più
caratteristico dell'attività
intellettuale di quest'epoca
italiana . Cardicci,
Prefaz. alle Letture
del Risorgimento ita/.,
Bologna, 1896, e
ora in Opere,
XVI, Poesia e
Storia. Ma quello per la lingua
fu un interesse
non più solamente
glottologico: allo studio
della lingua antica
d'Italia i nostri
eruditi si volsero anche
per la luce
che ne potevano
trarre sulla vita
italiana e sulla
condizione degli Italiani
nel Medio-evo. Si
rinnoveranno le controversie
particolari sull'origine degli
idiomi italiani, sul
De Vulgari Eloqìientia,
sull'eccellenza del Trecento
e altrettali che
costituiscono la cosidetta
questione della lingua,
ma il problema
non è più
solamente linguistico, è
anche storico : non
si tratta più
di sole parole,
ma di cose.
La nuova coscienza
italiana colorisce della
sua luce le
discussioni, rendendole
meglio vitali e
interessanti: nel Cinque
e Seicento era
la coscienza letteraria,
ora è anche
la coscienza civile
che si propone il
problema della lingua,
della poesia e
della letteratura quale
testimonianza de' tempi.
Siamo ai prodromi
di quel rinnovamento scientifico che
nella seconda metà
del secolo determinerà il radicale
rivolgimento degli stati
europei. Non occorre
che io ricordi
qui più che
i nomi del
Crescimbeni, del Gravina,
del Fontanini, del
Gimma, del Maffei,
del Giannone, dello
Zeno, del Quadrio,
ciascuno de' quali
in opere d'indole
e di soggetto
varii discusse dell'origine
o dello svolgimento
della lingua, ma
tutti, chi più
chi meno, dominati
dal concetto della
reciproca influenza che
popoli di civiltà
diversa possono esercitarsi,
e delle intime
relazioni tra civiltà
e letteratura, tra
civiltà e lingua.
In tali condizioni
diminuirono le attrattive
de' letterati verso
la pura e
arida grammatica, anche,
non tenendo conto
delle ampie, se
non in tutto
esaurienti, compilazioni grammaticali,
come quelle del
Buonmattei e del
Cinonio, con la
lunga tratta de'
loro seguaci, sempre
ancor circondate delle
più vive simpatie,
che non potevano
non sviare dal
proposito di nuove
consimili fatiche. Cosicché
chi si volse
alla grammatica, se
volle far cosa
nuova, dovette tentar
le uniche vie
che almeno per
ora rimanevano aperte: rinfrescar
lo studio grammaticale
che veniva rendendosi
obbligatorio, con eleganti
esposizioni, correggendo, vagliando;
oppure, ch'era ormai
vera necessità didattica,
ridurre a metodo il
sovrabbondante e spesso
farraginoso materiale. L'una via
e l'altra furono
battute ugualmente: quella
da Domenico Maria
Manni, questa da
Salvadore Corticelli: due
letterati che si
somigliano in più
cose. Anzitutto nel
sincero e fervente
desiderio di tener
desto e vivo
il culto della
prosa e della
lingua toscana: poi
nell'uso de' mezzi
che scelsero a
Capitolo tredicesimo 379
tal uopo, mezzi
dirò così teorici
e pratici: l'uno
e l'altro intatti dettarono, pur
tacendo cosa diversissima,
regole e osservazioni di lingua,
e racconti piacevoli
che dilettando istruissero
e incitassero allo
studio di essa.
Entrambi furono Accademici
della Crusca. Le
Lezioni di lingua
toscana, di cui
una terza edizione
fu fatta nel
1773 (l), furon
tenute dal Manni
nel Seminario Arcivescovile di Firenze
il 1736, per
elezione dell'arcivescovo Giuseppe Maria Martelli,
dove nulla sembrava
mancare, fuorché lo
studio, e la
lettura della patria
lingua. In Firenze
pubbliche cattedre di
lingua toscana, come
vedemmo, e in
Siena e altrove
in Toscana, furono
istituite dai Granduchi
fin dal Cinquecento, e già
prima nello Studio
a principiar dal
Boccaccio v'erano stati
espositori di Dante
e poi, nel
Quattrocento, anche del
Petrarca. Ma queste
non furono mai
vere e proprie
istituzioni scolastiche in servizio
esclusivo de' giovani
e di contenuto
puramente grammaticale: si
rivolgevano al comodo
del largo pubblico
d'ogni ceto ed
età. Se il
Dati e altri
letterati del tardo
Seicento tornavano a
lamentare che non
si studiassero le
regole e a
predicare che non
basta il nascimento
per iscriver bene,
ma occorrono studio
e fatica, ciò
vuol dire che
un insegnamento metodico
della grammatica non
si era peranco
istituito neppur in
Toscana, e la
testimonianza del Manni,
per quanto riguardi
un solo istituto,
dimostra che quello
del Martelli fu
un primo tentativo
d'introdurre ufficialmente nelle
scuole l'insegnamento della
grammatica: altrove, come
a Napoli, un
insegnamento siffatto mancò,
anche dopo che
lo sdoppiamento della
cattedra di retorica
del Vico inaugurò
nell'Università quello d'eloquenza
italiana ("). Il
latino continuò per
un pezzo a
tener il campo
della grammatica (3):
e anche in
queste Lezioni del
Manni ne vedremo
altre prove, dichiarandovisi spesso
che a certe
trattazioni sarebbe
superfluo attendere, da
poi che si
compiono nella grammatica
latina e sono
sufficienti anche per
chi studia quella
del volgare. In
ogni modo, almeno
a Firenze, [Ho
questa sott'occhio: fu
fatta in Lucca,
appresso Giuseppe Rocchi.
GENTILE (si veda), Il figlio
di Vico, cit.
più innanzi. Perfino
la grammatica generale
s'innestò al' latina
prima che alle
lingue vive. 380
Storia della Grammatica
non pare che
ci fosse un
insegnante speciale di
lingua italiana, poiché
nelle scuole laiche
la materia delle
lingue sarà stata
disciplinata non diversamente dalle
ecclesiastiche. Il Manni
fu un grand'erudito, oltre
che un grammatico:
la sua Istoria
del Decamerone è
suo nobile titolo
d'onore: queste Lezioni
risentono in ogni
pagina di questo
spirito d'erudizione, e
sono ricche di
utili notizie anche
per la storia
della grammatica. Egli stesso
anzi dichiarava che
l'incarico commessogli dall'arcivescovo gli sarebbe
servito di ben
acuto sprone a
compilare, in quel modo
che avrebbe potuto,
una breve Gramatica
della Lingua Toscana,
quantunque sentisse esser
ella da altri
omeri soma, che
da' suoi. Son lezioni
così distribuite: della necessità
e facilità della Lingua
Toscana, Delle lettere, Del nome, Parimenti del
nome, Del pronome, Altresì del
pronome, Del verbo, Dell'avverbio,
Del periodo toscano, Dell'ortografìa. Come
si vede, è
un'esposizione saltuaria di
talune parti dell'orazione
e della grammatica,
credendo l'autore non
esser necessario fermarsi
su tutto, conforme
gl’esempi fornitigli da Strozzi
e Sansovino, come fa, p. es.,
rispetto alle sillabe,
tanto più che
di esse cosa
non ci ha
quasi di dire
che ai Latini insieme non
appartenga (p. 46);
né diffondersi con
soverchia minuzia sui singoli
argomenti, come usò,
p. es., il
Buonmattei a proposito
de' verbi, de'
quali discorse con
rincrescevole lunghezza: eguale
indifferenza dimostra il
nostro Autore per
i problemi della
grammatica storica, che
non servono ad
altro che a
far gittar via il tempo
(p. 146). Tutto
l'interesse del Manni
è per la
sovrabbondante bellezza
della nostra lingua
il che ci
dice subito qua!
sia la concezion
che ne ha
e per le
questioni ermeneutiche, nella
risoluzion delle quali
egli poteva mettere
a profitto la
sua conoscenza degli antichi
manoscritti, e il
rigore assoluto che
professava in fatto di
regole. Quindi, mentre
da un lato
egli, sodisfatte U' principali
esigenze a cui
non si può
sottrarre chiunque debba
pur dar ilei
paradigmi e delle
norme generali intorno
alle parti dell'orazione, si
tien lontano dalla
minuziosa trattazione metodica
della sua materia,
dall'altro e' si
profonde in Capitolo
tredicesimo 381 elucubrazioni elogiative
della ricchezza e
varietà ili nostra
lingua, e s'ingolfa
in particolarissime questioncelle
veramente di scarsa
importanza, come quelle
del mai se
significhi negazione senza
il non, del
lui e del
lei se possano
essere adoperati per
egli ed ella,
del cui se
stia per chi
soggetto. Sulla prima
delle quali questioni,
riferisce una curiosissima
Sentenzia, data per
le stampe in
un foglio a
sé, dell' Illustrissima et
Eccellentissima Signora la
Signora Donna Isabella
Medici Orsina Duchessa
di Bracciano, sopra
la differenza fra
Don Pietro della
Rocca Messinese Cavaliere di
Malta, et Cosimo
Gacci da Castiglione,
sopra la voce
mai, se è
negativa, o affermativa,
secondo la quale
si giudicava : esso
cavaliere Don Pietro
della Rocca, che
teneva, che mai
negasse senza la
negativa, ha bene
sentito, e tenuto
secondo il commune, et
buon uso del
parlare Toscano ,
e che si
chiudeva con queste
sacramentali e solenni
parole: In fede
di che habbiamo
fatto scrivere questo
nostro lodo, dichiarazione, et
sentenzia, la quale
sarà affermata di
nostra propria mano,
et segnata col
nostro solito sigillo.
Data, nel nostro
Palazzo a Baroncelli
a dì XX,
presenti M. Roberto
de' Ricci, et
M. Giovanni Antinori,
gentil' huomini fiorentini. Noi
Donna Isabella Medici
Orsina, Duchessa di
Bracciano affermiamo quanto di
sopra . Era
l'anno della celebre
rassettatura del Decameron, e il rumore
di quel gran
lavorìo aveva, si
vede, degli echi
anche nelle corti,
dividendo gli animi
come se si
trattasse della salute
dell'Italia. A tanta
sentenza non s'inchina il
Mannij che ricorda
le parole dello
Strozzi affermanti che
il mai Dante,
il Petrarcha il
Bembo e il
Casa non l'hanno
mai fatto negare
senza il non
! (pp. 182-4).
Medesimamente non accetta
il lui e
il lei per
casi retti, e vi spende
intorno ben ventidue
pagine, raccontando la
storia della questione
e impugnando, come già
aveva fatto il
Fortunio, che però
non cita, la
lezione di quell'emistichio petrarchesco,
E ciò, che
non è lei
del son. Pien
di qicell' ineffabile dolcezza,
che si dovrebbe
leggere E ciò
che non è
in lei, secondo
anche un ms.
o di quel
torno della libreria
Riccardi, segnato 0,19
! È noto
che dal Filelfo
al Monti è
stato discusso su
questo passo, e
anche dopo, finché
quelle che il
Mestica ha chiamato
invincibili ragioni estetiche
e grammaticali Q}
del Monti non
ebbero la conferma
dell' auto Ed. critica,
Firenze] grafo vaticano 3195,
che infatti legge
E ciò che
none lei, come
ora ognun può
vedere nella riproduzione
letterale data dalla
Filologica romana . Secolare
questione, tenuta sempre
viva dal pedantismo
grammaticale tenacemente ribelle
a riconoscere funzione soggettiva a
lui e lei
! Simili investigazioni e
discussioni ci porgono
la misura del
valore di queste
Lezioni, e di
quel che sarebbe
stata la Grammatica che era
nell'intendimento del Manni:
tranne per qualche
correzione ermeneutica da
accettare perchè fondata
su dati di
fatto documentati da
manoscritti autentici, la
dottrina grammaticale del Manni
rappresenta un regresso
per l'età sua,
un puro ritorno
alle vedute cinquecentesche dei
più puristi senza
il pregio della
spontaneità
dell'osservazione, che allora
corrispondeva a un
bisogno pur mo
nato di comprendere
le forme esteriori
d'una letteratura che
andava sempre più
acquistando importanza e grandezza.
Le IX lezioni
Del periodo toscano
hanno un particolare
interesse per le
considerazioni alle quali
possono offrire occasione.
Abbiamo visto come
alla sintassi sia
stata fatta sempre
poca o nessuna
parte nelle grammatiche
italiane: nel Cinquecento
l'esempio del Giambullari,
che fu il
primo, sotto il
consiglio del Gelli,
a trattar largamente
della costruzione intera
e figurata secondo l'uso
de' retori latini
e greci, non
fu molto seguito, e
restò quasi isolato;
tanto che il
riassuntore di tutte
le più che
secolari osservazioni grammaticali,
il Buonmattei, nella
sua voluminosa grammatica,
non dà luogo
affatto alla sintassi
e se parla
del ripieno (pleonasmo),
lo fa perchè
lo considera come
parte dell'orazione, non
necessaria per altro
alla tela grammaticale, e non
come figura sintattica.
Della costruzione tornò
a trattare, come
vedemmo, il Menzini,
ma solo in
quanto gli dava
materia di discorrere
appunto delle figure
grammaticali, non del
vero e proprio
reggimento, e per
influenza della grammatica sanziana e
particolarmente della teoria
dell'ellissi; supplì, come
pure vedemmo, il
Cinonio all'assenza della
trattazione sintattica, con
quel suo speciale
sistema di passare
in rassegna l'uso
delle cosidette particelle: ma
neppure il Cinonio
trattò A cura
di E. Modigliani] quella che
propriamente si chiama
la sintassi. Di
questa, vedremo tra poco,
e perchè, s'occupò
direttamente e di
proposito il Corticelli, trasportando
di peso il
metodo della grammatica
latina nell'italiana e
rimanendo così a
mezza strada. Ma
al periodo pochissimi
grammatici , come
s'è visto, rivolsero la
loro attenzione, come
ad oggetto diretto
d'osservazione grammaticale. Né poteva
esser diversamente. Avremo
anche più volte
ripetuto che nella
sua esterna compagine
la nostra grammatica si venne modellando
sulla latina, svolgendo
negli schemi da
questa offerti il
nuovo suo contenuto.
Ora la trattazione
del periodo per i latini
non fu mai
materia di grammatica, ma, come
organismo d'arte e
di pensiero, apparteneva
alla rettorica. Così
esso entrava nelle
Artes dictandi de'
nostri antichi dittatori,
che erano, anche
se si chiamano
grammatici e maestri
di grammatica, essenzialmente retori
e maestri di
rettorica. Il periodo insomma
riguardava quella sezione
della rettorica antica che
è l'elocuzione. Il
nostro Manni, infatti,
accingendosi nella detta lezione,
a discorrere del
periodo, cita il
retore Demetrio Falereo, il
quale nel suo
celebre Trattato dell'Elocuzione accintosi a
parlar del periodo,
tratta prima de
i Membri, e
degl'Incisi, come parti
sostanziali, da cui
riceve esso materialmente
il suo essere;
poiché dalla chiara
cognizione di questi,
la perfetta intelligenza
di quello si
facilita, se non
in tutto, in
gran parte. Quindi
per ispiegare in
un tempo stesso
e del Periodo
e de i
Membri, e degl'Incisi
l'essenza, con un
esemplo, a mio
giudicio, esprimente, rassembra
il Periodo a
una mano, della
quale ogni dito
che si consideri
separatamente da quella,
si trova essere
un tutto in
sé stesso perfetto;
laddove poi se col
risguardo all'intera mano
si osservi, altro
non è, che
un membro, ed
una picciola parte
fra l'altre tutte,
che vengono a
comporlo. E poi
cita subito il
Panigarola nel Commento alla
Particella terza della
prima parte del
suo Demetrio, e
poi il cap.
9 del 30
della Rettorica d'Aristotile,
doveil periodo vien
poi diviso in
Semplice, e in
Composto, non altro
essendo il Periodo
semplice, che quello,
che fatto è
d'un Membro solo;
il composto quel
di più Membri. Ricordo, tra
gli altri, il
Gagliaro . Y. qui
il cap. Vili
e particolarmente la
p. 25; Sulla
scorta dei trattatisti
antichi e moderni
, che hanno
fatto sopra di
ciò trattati pienissimi
, dichiara il
Manni che potrebbe
molte cose portare
ai suoi discepoli;
ma le tralascia,
per non ripeter
ciò che è
stato detto dagli
altri e che
ognuno può veder
da sé, e
perchè le cose
che dir potrebbonsi,
non meno appartengono
al Greco, ed
al Latino periodo,
di quel che
al nostro Toscano
abbiano attinenza (p.
200). Suo intendimento
è ragionare soltanto
del Periodo Toscano
dal Boccaccio con
sottile accorgimento nella
Lingua nostra introdotto
, mirando a
eliminare un inconveniente comune
negli scrittori e
oratori. E appena
necessario avvertire che
il Manni concepisce
il periodo come
un esteriore meccanismo
o strumento per
l'espressione del pensiero, che
si può togliere
in prestito, insegnare
o trasmettere da
scrittore a scrittore.
Le particolari osservazioni
movono tutte da
questa concezione, che
è poi quasi
interamente rettorica e
punto grammaticale. Il
forte, e l'essenziale
del discorso ed
il fondamento della
buona eloquenza si
è in primo
luogo l'abbondevolezza delle
cose, e la
robustezza de' concetti,
e de i
sentimenti sul capitale
di un gran
sapere accumulata (p.
201). Poi la
giudiziosa scelta del
genere di parlare
(lo stile), se
alto, mediocre, o
umile ('"), che
però appartiene all'arte
di dire. Da
questi principi, derivano l'uso de'
termini, degli epiteti,
e degli avverbi
ottima, ed abbondevole
guernigione di nostra
lingua. Ma la
prima caratteristica del
periodo toscano è V
ordine del tutto
e delle parti.
L'ordine dev'esser naturale:
da esso non
si disgiunge la
naturalezza e la
chiarezza, cui è
compagna la sonorità.
Questa bisogna conseguire
specialmente al principio
r al fine
del periodo, e
particolarmente al fine.
I Greci per
conseguirla erano esercitati dal
I^onasco, esercitatore della
pronunzia . Essa in
gran parte dipende
dalla misura delle
sillabe, negata da
Bartolomeo Cavalcanti all'italiano,
benché prima della [Tra questicita
Giovita Rapicio, autore
d'un Trattato del
numero oratorio [De numero
oratorio'], e lodatissimo
maestro e scrittori.li
ose grammaticali e
pedagogiche. Cfr. Gekini,
op. cit., p.
124 sgg. Recentemente
gli è stata
dedicata una monografia.
Reca l'esempio di
sinonimi del verbo
morire: Trar l'aiuolo,
Tirar le cuoia.
Render l'anima al
Creatore suo, Pagare
alla natura il
suo diritto.] sua morte
la fosse stata
asserita nel 1556
dal Ragionamento del Lenzoni,
edito dal Giambullari,
sulla quantità delle
nostre sillabe, de'
nostri piedi, de'
nostri periodi, e
prima ancora dagli Accademici
della Virtù che
ne diedero per
le stampe i
precetti. essendone stato
primo autore Alberti.
I Latini avevano
le lunghe e
le brevi, e
noi abbiamo gli
accenti. Il periodo
non vuol esser
terminato né da
voci monosillabiche né
assai lunghe. Il
Boccaccio comincia e
finisce il suo
primo periodo del
Decamerone con due
trisillabe piane. Modello
di numero oratorio
è l'orazione del
Casa per la
restituzion di Piacenza.
Utile a conseguir
la sonorità è
esercitarsi a dir
improvviso versi di
cinque, di sette,
e d'otto piedi,
alla mescolata, ma senza
incorrer nel biasimo
quintilianeo dell'uso de'
versi interi nella
prosa. Vizio rimproverato
già al Boccaccio,
ma dall'annotatore de\V
Ercolano del Varchi
non ritenuto tanto
riprovevole, essendo
impossibile non adoperar
versi ne' periodi.
Vizio è quando
il verso si
raffigura, o sia si fa
sentire troppo spiccatamente, e
l'editore delle Novelle
che ne trasse
fuori i versi
adoperatevi, è lui
biasimevole che la
sua brevissima dedicatoria cominciò con
una filza di
versi. Il Panigarola
si restringe a disapprovar
nella prosa solo
la rima. E
un fatto che
la bellezza del
periodo dipende dalle
parole bellamente acconce:
volendo, ad es.,
conseguir la grandezza
e la magni
fi ee7iza, si
deve far uso in principio
de' casi obliqui,
di repliche giudiziose,
e anche di
parlare alquanto oscuro,
e tardo ! .
Analogamente si conseguono
l'evidenza, la vaghezza e
la leggiadria, con
simili espedienti: così
la dolcezza è
prodotta da parole
dolci (Luce, Desio,
Gioia), la languidezza
e bassezza da
parole lunghe, e
sdrucciole; l' asprezza, la
durezza, la severità da
parole simili a
queste: Stordimento, Discoraggiare, Stranezza, Frastuono .
Insomma con la
scelta delle parole,
che meglio paroleggiamento appellar
si potrebbe ,
si conseguono effetti
sorprendenti. Son questi:
Il sommo pregio
dell'uom meritevole Non
resta mai all'augusto
confine Di sua
dimora; ma perennemente
Ovunque è cognizione
di virtù Vera
si spande; quindi
l'Eccellenza Vostra sdegnar
non deve ch'io
da lunge ecc.
C. Trabalza. 386
Storia della Grammatica
Finalmente tre cose
bisogna evitar nel
periodo: Lunghezza eccedente,
Trasposizioni non naturali,
il Verbo al
fin trascinato. Ho
voluto esporre questa
dottrina del periodo
che il Manni formulava
nel 1736 per
far notare, come,
mentre le dottrine grammaticali del
Vico superavano il
logicismo scaligero-sanziano, e questo,
in ogni modo,
fecondato dai solitari
di Portoreale, produceva
quella sì ricca
letteratura di grammatiche ragionate o
filosofiche, in Italia,
ne' nostri istituti,
si era ancora
con l'antichissima rettorica,
cioè proprio agli
antipodi delle più
nuove dottrine. Come
s'è visto, nell'organismo periodico il
Manni non ha
intravvisto nessun legame
tra le parole,
l'ordine di esse
e il pensiero,
che non fosse
rettorico; tutta la
concordanza è tra
la figura dirò
così geometrica e
musicale del periodo
e una cotal
forma di pensiero
in essa rispecchiata. Tra
la nona e
l'ultima lezione il
Manni espone il
Galateo, e con
la decima sull'ortografia, un
gruppetto di osservazioni
spicciolate di poco
valore, chiude il
corso. Né meno
lontano del Manni
dalle alture grammaticali
dell'indirizzo filosofico contemporaneo
troviamo il Corticelli,
benché le sue
Regole ed Osservazioni
portino scritto in
fronte la parola
?netodo(~). Alla tradizione
seguita dal Manni
appartengono quel p.
Onofrio Branda, che nel
suo Dialogo della
lingua toscana tenne
fermo con tirannide
pedantesca e inurbana
il culto del
toscanismo (Concari, //
Settecento, p. 242)
e Girolamo Rosasco,
de' cui sette
dialoghi sulla lingua toscana avremo
occasione di riparlare
altrove. C') La
parola metodo ha
storicamente, per questo
periodo, due significati,
secondo che era
adoperata dai seguaci
di Portoreale, o dai grammatici
puristi che intendevano
sistemare didatticamente la
materia grammaticale: per quelli
il metodo riguarda
V interno della grammatica, per questi
Veslerno. 11 Nuovo
Metodo di Portoreale,
dopo la prima
ediz. ital. cui già
s'è accennato, cominciava
a esser ora
più largamente diffuso
e ristampato in
Italia con più
frequenza. Dal latino,
pel quale primamente
fu escogitato, passò
di leggieri al
greco, e quindi
al francese e
all'italiano. I Portorealisti
stessi avevano eseguiti i
vari metodi. Un
Nuovo metodo per
la lingua italiana
la più scelta
estensivo a tutte
le lingue pubblicò
G. A. Martignoni
a Milano. Ma
anche in quello
escogitato per apprendere
la lingua latina
era fatta una
gran parte anche
all'italiana, tanto che
verso l'ultimo trentennio
del secolo usciva
anche, in compendio,
come in Venezia,
col titolo di
Nuovo metodo d'insegnai e
le lingue italiana
e latina. E
anche tipograficamente si
volle distinta la
parte Capitolo tredicesimo
387 Dai diciannove
trattati del Buonmattei e
dalle Particelle del Cinonio,
alle Regole del
Corticelli corre un
secolo preciso, poiché
questa Grammatica vide la
luce la prima
volta, fruttando all'autore
con gli utili
appunti degli Accademici la
nomina a membro
del massimo Istituto
linguistico. Con tutte
le sue novità,
questa Grammatica, che
ha il suo
principal fondamento in
quella del Buonmattei
e che si
ristampava nel 1854,
a due secoli
di distanza dunque
dalla comparsa della
sua fonte, è
nuova testimonianza del
fatto da me
notato, che la
storia della nostra
grammatica precettiva in
quanto contiene una
tendenza filosofica finisce col Buonmattei:
dopo il Buonmattei,
se si vuol
seguire il progresso
scientifico, bisogna percorrere
l'altra via che
si stacca appunto
dal Buommattei medesimo
per quel che
concerne il fondamento
teorico delle grammatiche
ragionate che vi
ha di proposito
la lingua italiana
, coni' è
detto nella prefazione all'ed. seguente,
uscita in luce
negli anni in
cui ci troviamo
col nostro discorso:
Nuovo metodo per
apprendere agevolmente la
lingua Ialina traila
dal francese nell'italico
idioma, e, per
utilità di novelli
scolari, aggiuntovi nel
principio gli Elementi
tolti dal Compendio
della medesima opera,
per intelligenza di
tutte le parti
dell'Orazione e nel
fine un tratta
te Ilo della
Volgar Poesia coir
Indice dell' Opera
sinora desiderato all'uso
del Seminario Napoletano,
in Napoli, Per
Pietro Palumbo, a
spese di Raffaello
Gessari, voli. 2.
Nel proemio è
detto che le
regole vi sono dettate in
versi seguendo le
pedate dell'A. .
Vi si richiamano
lo Scaligero, il
Sanzio e il
Vossio. Si deplora
che nella letteratura
si segua uno
stil figurato [fantasia],
mentre basterebbe il
grammaticale [ragione']: invece
di amare vanno
in pesca di
amore prosegui, benevolentia
complecti! Nella trattazione,
sotto le varie
sezioni e categorie
grammaticali, dopo date
le definizioni e
le regole per
il latino, viene,
in carattere più
piccolo, la parte
per l'italiano. Così a
p. 3 incomincia
l'uso dell'articolo. Ma
non è una
trattazione sistematica per l'italiano
per quanto riguarda
la prima parte,
cioè la morfologia;
e anche nella
seconda, Osservazioni particolari
sopra tutte le
parti dell'Orazione ,
al trattato delle
figure di costruzione ,
delle lettere ,
benché sia detto
che è trattato
'1 tutto in
rapporto alla lingua
italiana (p. 648
sgg.), nell'esecuzione la
promessa è spesso dimenticata. E
questa l'edizione che
seguo: Regole ed
osservazioni della lingua
toscana ridotte a
metodo ed in
tre libri distribuite
da Corticelli bolognese
colle correzioni e
giunte di Pietro
dal Rio ed
altri. Un volume
in due fascicoli.
Venezia, Stabilimento enciclop.
di G. Tasso
edit., M .
DCCC . LIV.
Il Corticelli era
di Piacenza.] e filosofiche,
che in Italia
fanno una non
breve apparizione e,
inaugurate come vedremo
con quella di Soave,
caddero sotto la
scomunica del risorto
purismo incarnato in
Puoti, proprio nel
tempo stesso in
cui il più
illustre scolaro del
Puoti, quasi di
soppiatto del maestro,
concepiva il disegno
d'una nuova grammatica
filosofica che contenesse
anche ed insieme
la grammatica storica e
la grammatica metodica,
facendo una liquidazione generale di
quante grammatiche italiane
da quella del
Fortunio a quella
del Corticelli avevano
codificato il purismo
bembesco-cesariano. Le novità
con cui si
presenta Corticelli, erano queste
tre: il metodo;
la costruzione (sintassi);
un florilegio di
frasi idiomatiche degli
Autori del buon
Secolo. L'ordine della
trattazione è rispettato: MORFOLOGIA, SINTASSI, pronunzia, ed ortografia. Gl'insegnamenti erano
fondati su gli
esempi di buoni,
ed approvati toscani
scrittori , antichi
fino al 400,
moderni dal 500 in poi; gli
esempi tolti in
maggior copia dai
trecentisti, e più specialmente
dal Boccaccio, la
prosa migliore, che
vantar possa la
nostra lingua, secondo
il testo Mannelli.
Questo il carattere
e il pregio
delle regole grammaticali: sono
minuzie, che non
si apprendono senza
molestia: ma il
ben saperle, e l'averle
all'occasione in contanti
è cosa di
molto vantaggio. Qui
troviamo condensati tutti
i criteri che
più tenacemente prevalgono
con la forza
stessa della loro
pedanteria, in parte,
in parte per
quell' esigenza cui
sembra che ineluttabilmente debba
sodisfare chi voglia
apprendere una lingua.
La terza di
quelle tre novità,
era una conseguenza
del criterio principale onde
fu mosso il
Corticelli nella compilazione
della sua fortunata
operetta, la riduzione
del vario e
vasto materiale a metodo:
il bisogno di
ridurre a metodo
i precetti non
poteva non ispirar
l'altro di ridurre
a metodo e
come alla portata di
mano il vocabolario
delle veneri, de1
modi vaghi e
belli onde riboccali
gli aurei scrittori.
Riconosciuta la sconfinata
importanza, la fatidica necessità,
l'assolutezza della grammatica,
unico segreto per
riuscire elegante e
corretto artefice di
prosa, lo studio
degli scrittori doveva
anch'esso ristringersi sotto
il vasto imperio
della grammatica, riducendo
quasi in pillole
e condensando in
confettini il loro
succo migliore: la
conquista dell'arte non
era, non diciamo
effetto di vita
e di elaborazione Capitolo
tredicesimo 389 intcriore,
ma neppur risultato
della lettura degli
artisti di prosa
e di poesia,
ossia dello studio
concreto della letteratura;
essa era infallibile
conseguenza di chi
si fosse bene
impresse le regole della
grammatica e le
belle frasi di
aver pronte al
bisogno, come quelle
che son molte
e fuggono facilmente
dalla menu >ria (ib.).
Era, come ognun
vede, l'allontanamento completo
dalle vive, fresche
e perenni sorgenti
del pensiero e
dell'arte: era il
portare al suo
ultimo grado di
sviluppo degenerativo quella
che, in sostanza,
nel Cinquecento era
stata, più o
men bene condotta osservazione degli
scrittori e non
legge già imperiosamente dedotta:
era insomma l'avvento
tinaie e completo
della grammatica nel peggior
senso della parola,
che è poi,
non dimentichiamolo, il vero
senso di essa.
Quella del metodo
era una novità,
ma fino a
un certo senso:
già nel Cinquecento
le osservazioni grammaticali
contenute nel terzo
libro delle famose
Prose del Bembo
erano state ridotte
a metodo dal
Flaminio e da
altri variamente rassettate
e accomodate all'utilità pratica
degli studiosi della
nostra volgar lingua,
né erano mancate
compilazioni grammaticali che
quella materia stessa
avevano disciplinato: il
bisogno d'aver un
corpo ordinato di
quelle osservazioni che
via via sotto
lo studio diretto
degli scrittori si
eran venute facendo,
da poter esser
consultato volta per
volta oltre che
tenuto come testo
per uno studio
sistematico della grammatica sia
pur fuori dell'ambito
strettamente scolastico, era stato
più o meno
vivamente sentito e
s'era cercato di
sodisfarlo con qualche
successo: e anche
a non citar
i cosiddetti mestieranti che
non il Bembo
soltanto, ma i
principali grammatici cinquecenteschi avevan
raccolto e ordinato
a uso degli
studiosi, lo stesso
Salviati in quei
suoi Avvertimenti sul
Decameron aveva dato
un lodevole esempio
del come le
forme e i
costrutti d' un
cosi ins igne capolavoro
e d'altre opere
dell'aureo secolo potessero esser
studiate metodicamente nelle
tradizionali categorie: e il
Castelvetro, sopra tutti,
pur in quelle
apparentemente farraginose e
selvose e irte
sue Giunte alle
Prose del Bembo
che ebbero a
stancar la pazienza
di lettori non
pochi, non esclusi
i benevoli e
amorevoli critici del
più sottile di
tutti i filologi
nostri antichi, non
aveva forse applicato
un principio eminentemente
metodico di esposizione?
Metodico, nel senso
più elevato della
parola questo soprattutto
interessa qui metter
bene in rilievo
più e meglio
che nell'esposizione 390
Storia della Grammatica
dirò esterna della
materia contenuta nelle
due principali categorie
grammaticali, V articolo e il verbo,
su cui aveva
esercitato il suo
spirito critico, era
stato nella trattazione
interna di essa,
ossia nello svolgerla
nella sua formazione
storica, come quegli
che, precorrendo assai meglio
d'altri precettisti, come
vedemmo, il sistema
d'investigazione linguistica proprio
della moderna filologia,
aveva mosso dalla
parola latina per
ispiegare coi criteri
della fonetica evoluzionistica e
in ispecie con la legge
dell'analogia, la morfologia dell'articolo e
del verbo volgari.
Infine con metodo
aveva cercato di
stendere, nella prima
metà del Seicento,
i suoi trattati
il Buonmattei, elaborati
sul materiale vario
e diverso che
i grammatici del Cinquecento
gli avevano trasmesso.
Anzi, nell'ordine che
chiamerò ideologico, il
Buonmattei è metodico
quant'era stato nell'ordine
storico o filologico
il Castelvetro. Non
solo. Il Buonmattei
avrebbe proprio inaugurato
il vero metodo
dell'esposizione grammaticale
astrazion fatta dal
regresso che rappresenta rispetto al
Castelvetro per quanto
concerne la grammatica storica nel
senso di un
principio filosofico secondo
il quale sorgono
e si dispongono
nella tela grammaticale
le parti dell'orazione, se
tra la sezione
teorica e quella
pratica, onde consta
la sua grammatica,
fosse un ben
più intimo legame
di quel che,
come già notammo,
in realtà non sia, poiché
questa seconda sezione
resta in sostanza
quasi unicamente descrittiva.
Ciò che non
avvenne nelle posteriori
grammatiche generali specie
della Francia, dove
appunto la grammatica
generale s'incorpora nelle
particolari del latino
e delle lingue
moderne con intimo
legame. Non si
può negare che
in codesta descrizione
non sia cercato
il metodo con
piena convinzione e
coscienza; ma Buonmattei era ancora
troppo vicino alle
varie tendenze, alle
polemiche che si svolsero
nel campo della
grammatica cinquecentesca,
perchè non dovesse
risentirne 1' influenza
né lasciarne le
tracce nella sua
trattazione. Inoltre il
troppo definire le
specie e le
sottospecie delle categorie,
la confutazione d'errori
e di teorie
credute sbagliate, una
soverchia abbondanza di
svolgimento e di particolari,
la moltiplicazione delle
categorie stesse portate
a dodici, e
altri che sono
e non sono
difetti, non sono
certamente le caratteristiche meglio
notevoli d'una trattazione
metodica. Egli stesso
trovava il suo
libro di non
facile uso né
di facile intelligenza
e raccomandava che
si studiasse prima
della prima la
seconda parte per
ben comprender l'una
e l'altra e specialmente
la prima. Insomma,
neppure quello del
Buonmattei sembra che
rispondesse al bisogno
d' un libro
di grammatica metodico, chiaro
insieme e, come
dicevano, manesco. Le
aggiunte e correzioni,
inoltre, che il
Cinonio, il Bartoli
e gli altri,
che s'occuparono per
tutto il resto
del secolo e
il principio del
successivo di cose
grammaticali, apportarono al
corpo di quelle
del Buonmattei, e
i mutati ordinamenti
scolastici, ne' cui
piani cominciava ormai
a entrare ufficialmente
e separatamente, come
vedemmo essersi fatto
nell'Arcivescovile seminario
di Firenze, rendevano
ancor più vivo
quel bisogno, anzi
tanto vivo, che potè sembrare
un bisogno recente,
proprio del momento,
e novità quella
di chi introducesse
il metodo nella
trattazione grammaticale. Parrebbe
inoltre che quel
movimento intellettuale che
s'era determinato nel
campo della grammatica
latina con la
discussione e l'applicazione dei
principi aristotelici ripresi
dallo Scaligero e dal Sanzio
e poi nuovamente
fecondati dai Portorealisti, e
che, richiamando gli
studiosi della lingua
a una considerazione più
elevata che non
fosse quella puramente
descrittiva della grammatica,
necessariamente li costringeva
alla ricerca delle
relazioni logiche de'
fatti linguistici e
perciò a una
trattazione disciplinata, sistematica
di esse, parrebbe,
dico, che codesto
movimento
logico-grammaticale del Seicento
cadente e dell'
ineunte Settecento dovesse
far sentire ancor
meglio la necessità del
metodo, né fosse
estraneo appunto all'affermazione corticelliana
dell'urgenza di sopperirvi;
se non che,
non solo questo
non avvenne, ma
a codesto movimento,
non che estraneo,
fu affatto in
opposizione il modo
onde il Corticelli
esplicò il suo
disegno di grammatica
metodica. Precorre in questo
senso il Corticelli
di pochi anni
nelle novità richieste
dai tempi non
si è mai
soli Gaffuri barnabita,
autore di Osservazioni
grammatica/i ridotte a
metodo breve e
facile per chi
desidera correttamente scrivere
nella Italiana favella; dedicato alla
ingenua e studiosa
gioventù Friulana, Udine.
Il Gaffuri dice
appunto che i
fanciulli si spaventano
dinanzi ai volumi
del Buonmattei, del
Castelvetro, del Salviati,
del Cinonio, e non possono profittarne: ed
egli intende con
questo suo libriccino
aver supplito alla debolezza
degl'uni, ed all'impotenza
degl'altri. Ma, all'atto pratico, si
vede che il
metodo è concepito
come abbandono di
tutta la ricchezza
delle osservazioni, e
conservazione di alcuni
pochi schemi. Prima ancora
di Gafi'uri, Bosolini
aveva pub- [Il suo
metodo, in sostanza,
si ridusse a
scarnire fino quasi
allo scheletro il
corpo della grammatica,
e, fattene tre
sezioni, descriverlo pezzo
per pezzo per
regole, osservazioni, eccezioni
e appendici con
semplice meccanismo, senza
mai cercare una
ragione di intima dipendenza
tra una parte
e l'altra o
altra distinzione che quella
del numero progressivo,
badando solo a
render la materia
facilmente imparabile a
memoria, e de'
precedenti grammatici
limitandosi a citar
qualche nome, più
spesso quello del
Buonmattei, e cancellando
quasi ogni traccia
delle vecchie discussioni
anche con rimandi
ad esse, ligio
soprattutto specie per
gli esempi all'autorità
della Crusca, che,
anche per confessione
de" suoi annotatori,
Corticelli continuamente saccheggia
a maggior conferma
della rigidità e
assolutezza de' principi
a' quali s' informa.
Metodo vuol dir
guida razionale, blicato
la Midolla letteraria
della lingua italiana
purgata, e eoi' ietta
con un competente
Saggio de' suoi
quattro principali dialetti
cui s'aggiunge una Midolla
di Le t ter familiari,
per il principiante:
il lutto ordinato
con nuovo metodo
a prò di
un Amico, Venezia;
ma se non
vogliamo credere alle
parole del titolo,
questa grammatica, che
potè esser stata
ispirata dalla pubblicazione
che appunto circa
questo tempo) il
Gigli fece delle
Opere del Cittadini,
più che al
periodo diremo precorticelliano, sarebbe
da riferire a
quello postcittadinesco, per
la parte ivi
data alla fonetica
e ai quattro
idiomi toscani e
al criterio non. esclusivamente municipalistico. Ognuno
deve cercare, dice
l'A., di star
nel proprio terreno,
evitando i due
scogli o di
dover praticar la
pronunzia fiorentina, e
quindi apparire in
casa loro affettati
e ridicoli, o
di scrivere molto
diversamente dal loro
pronunciare, ch'è manifestamente contro
i dettami di
tutti gl'Italiani più
saggi. La grammatica
è contenuta nella
I parte I.
Ortografia: lettere, cons., voc,
ditt., apostr., radd.
o scem., maiusc.
e staccamento; II.
Etimologia: art., nome,
pron., ver., pers.,
anomali, part., accorc,
tronc, ristring., voci;
III. Sintassi', div.
della materia, dialetti
(fior., sen., cur.-rom.,
comune, corrisp. ai
greci attico, gionico,
eoi., dor.), forma
della sint.; Prosodia:
accenti, interp.). Da pp. 16-22
riassume i trattati
cittadineschi sull'i e
Yo aperti e
chiusi. E chiuso,
p. es., è
di 4 cause:
1. per accento
grave: dove, pensoso
(ma penso); per
origine latina: lèttera;
per ragioni della
lettera: seguito da;/
o u: meno;
4. per definimento:
-ménte (altamente ecc.). Di
questa guisa d'errori
[valore de' modi
toscani] abbonda il
Corticelli in queste
sue Appendici ecc.,
i quali attinge
si può dir
tutti dal Voc.
della Crusca. Però
fin da ora
ne sveglio il
lettore, a cui
non istarò a
torre il capo
con noterelle di
questa specie. Uomo
avvisato è mezzo
salvo!] ordine interno di
trattazione, svolgimento sistematico
di relazioni o intellettuali
o storiche: qui,
invece, è scolasticismo, simplitìcazione didattica
ottenuta con criteri
meccanici, mnemonici,
aiutata da partizioni
e suddistinzioni, indici
analitici: che, peraltro,
possono rendere il
libro di facile
consultazione a chi
voglia cercarvi una
regola, ma non
sono certi gli
espedienti migliori a mettere
lo studioso in
possesso dell'argomento. Ma
conviene del pari riconoscere
che tal sorta
di metodo è l'
unica degna d'
un tal prodotto
qual è la
grammatica: codesto metodo
è l'unica logica
di essa, che
non ne ha
appunto nessuna. E
questa è la
ragione per cui
ha finito col
trionfare non nella
sola grammatica italiana,
s' intende, e
prevarrà indubbiamente fino
a che si
studieranno grammatiche. Quello
della grammatica è
studio meccanico: quindi
spogliarla d'ogni intrusione
razionalistica è, nel campo
della didattica, perfettamente
metodico, e renderla
veramente servibile (che
servizio sia, è
inutile dirlo) a
chi voglia o
debba studiarla; non
solo, ma l'innovarla
troppo profondamente in
quel suo tradizionale,
stereotipato schematismo, la
conturba, la trasfigura,
disorientando i lettori:
tanto è ciò
vero che, attraverso
il turbinìo continuo
di nuovi metodi,
l'antico, il comune, il
tradizionale riman sempre
in onore, e
ritorna sempre, difeso
e riverito, a ogni fallire
di quelli. Anco
per questa ragione,
dovendo il Corticelli
eseguire quasi per
la prima volta
nella grammatica italiana
un'esposizione metodica della costruzione
o sintassi toscana,
ne tolse di
peso dalla latina
dell'Alvaro, come il
Puoti avverte, criticandolo,
nella prefazione alla
seconda parte delle
sue Regole (nella
gr. latina elementare s'era
cominciata prima la
scarnificazione appunto perchè
eravamo già lontani
dal Rinascimento, periodo
di vitalità), lo
stampo e ve
lo trasportò integralmente, anche
dove e quando
non solo non
era richiesto, ma
cozzava evidentemente con le nuove
forme a cui
più non s'attagliava:
difetto egualmente avvertito dagli annotatori
suoi, che sentenziavano
quelle regole r,
nelle cui note
è cit. la
copiosa bibliografia che del
Soave diede il
sig. Motta nel
Boll. si. della
Svizz. ìt. Ne ho
l'ediz. di Venezia
del MDCCXCV, nella
stamperia di Giacomo
Storti, dove vanno
uniti col voi.
I delle Istituzioni
di logica, metafisica
ed etica. f:t)
Prefaz., dove è
detto che a
Berlino furono spedite
in una Dissertazione
latina colla divisa
Utilitas expressit nomina
rerum, Lucret. traduzione
italiana. Croce, Est. senza
di cui certamente
la prima non
può formarsi . Né una
società può formarsi
senza il motivo
di bisogni scambievoli
e senza che
gli aiuti reciproci
siano con qualche
segno manifestati. La
natura ne somministra
alcuni spontaneamente: altri
artificiali scaturiscono poi dagli
originari meccanici. I
primi e i
secondi non essendo per
altro bastevoli, la
natura stessa stimolata da
nuovi bisogni conduce
all'istituzione d'altri segni,
e, per gradi,
prepara alla formazione
d'un vero linguaggio.
Oltre la tesi,
è chiaramente indicato,
nella prefazione citata,
anche il metodo
dell'analisi.
L'istituzione primieramente del
linguaggio de' gesti,
appresso delle voci
articolate in generale,
e in seguito
di ciascuna parte
del discorso distintamente
io mi ho
veduto nascere dalla
natura medesima con
maggiore facilità e
semplicità che forse dapprima
non m'attendea .
Ma a ben
seguire lo sviluppo
del linguaggio bisogna
rifarsi dal principio
della storia dell'umanità,
e vedere come
si può formar
la famiglia, e
poi per quali
mezzi dalle famiglie
moltiplicate sorse una
compiuta società che
dallo stato selvaggio
gradatamente passasse a
quello d'una perfetta
coltura . Il
linguaggio progredisce col
progredire della società. Ma
restava a cercare
per quali vie
più naturali e più
semplici, e il
numero de' suoi
vocaboli, successivamente,
potesse moltiplicarsi, e
potessero stabilirsi di
mano in mano
le regole, che
l'essenza costituiscono di
una lingua .
Dal poco che
fin qui s'è
riferito, facilmente s'argomenta
che il Soave
è sotto 1'
influenza del pensiero
vichiano, e ora
dimostreremo come il punto
di partenza e
il sistema della
dimostrazione del sorgere delle
categorie grammaticali sieno
presi dalla Scienza
nuova. Ma qui
mi giova metter
subito in evidenza
come il Soave
abbia assunto del
Vico perfino l'atteggiamento, sebbene
con un gran
pericolo di diventarne
ridicolo. Chi sa
i tormenti fierissimi
in cui si
travagliò 1' intelletto
del sommo filosofo
napoletano per conquistare la
verità, non può
leggere senza sentirsi
preso da profonda
riverenza e commozione
dichiarazioni di questo
genere: La guisa
del loro nascimento,
ossia la natura
delle lingue, troppo
ci ha costo
di aspra meditazione. Ma che
dire del padre
Soave che, copiando
il Vico, al
punto in cui
ne abbiam lasciato
il pensiero, esce
in questa che
è una parafrasi
della dichiarazione vichiana?
questa parte a
prima vista sembrava
la più difficile;
ma con un
attento esame delle
lingue già note,
e con una
seria meditazione su la natura
intima delle lingtie,
ella 4 io Storia
della Grammatica pure
si è ridotta
ad una eguale
semplicità, se non
forse maggiore della prima
. Avrebbe potuto
ritenersi pago seguo
ancora le preziose
confessioni della scoperta;
ma non volle
perder l'occasione di
mostrare l'influenza che
la società e
le lingue hanno
sulla umana cognizione.
Visto dunque lo
stato mentale d'un
uomo abbandonato a
sé solo dal
nascere, vale a.
dire d'un uomo
senza società, e
conseguentemente senza linguaggio,
si fa a
considerarlo in società,
e parlante: e
giunto anche soltanto
all'istituzione de' nomi
e de' verbi
, trova in
lui perfettamente sviluppate
tutte le facoltà
come in noi
e capaci di
cognizioni di altissimo
grado. E si
lusinga che il
vedere in tal
guisa da due
fanciulli abbandonati in
un'Isola deserta nascere
a poco a
poco una società,
nascere una lingua,
e col progresso
dell'una e dell'altra svilupparsi di
mano in mano,
e perfezionarsi le
facoltà, moltiplicarsi le
cognizioni, formerà... un
colpo d'occhio non disgradevole
nel tempo stesso
che varie riflessioni,
molte delle quali
pur crede nuove;
e intorno alla
natura e allo
sviluppamento delle umane
facoltà e cognizioni,
e intorno alla
natura intima delle
lingue non lascieranno
di essere vantaggiose
. Chiude dichiarando
che, malgrado questi
motivi... affine di
non moltiplicare inutilmente
le opere su
d'uno stesso soggetto ,
si sarebbe tenuto
dal pubblicar le
sue ricerche, se
la dissertazione del
sig. Herder, che
meritamente fu coronata,
e eh 'è già
uscita alla luce,
fosse stata da
esse meno dissimile
. E seguendo
l'estratto córsone sui
giornali, istituisce questo
raffronto tra la propria
e la dissertazione
dell'Herder: Sulla prima
parte del quesito
ci sembra essersi
trattenuto principalmente : laddove
io per la
ragione sovraccennata alla
seconda principalmente ho
creduto dovermi appigliare.
Ei non discende
a ninna ipotesi;
io fissata fin
dal principio l'ipotesi
di due fanciulli in
un' isola deserta
abbandonati, a questa
continuamente m'attengo. Egli
colla vastità del
suo ingegno abbraccia
il proposto argomento più in universale,
e più in
astratto, io l'esamino più
in particolare, e,
se m'è lecito
di così dire,
più in concreto.
Insomma le due
memorie, benché s'aggirino
sovra la stessa
materia, possono tuttavia
riguardarsi come due
cose pressoché affatto diverse;
e dove le
mie ricerche non
abbiano altra utilità,
avran quella forse
di supplire a
ciò ch'egli ha
tralasciato. Accennando ai debiti
del Soave verso
il Vico non
abbiamo certamente inteso
d'affermare che la
memoria sia tutt'un
plagio: oltre che
non avrebbe potuto
esser tale per
ragione di estensione,
constando essa di
ben diciannove capitoli,
mentre il Vico
ha tutta condensata
in poche pagine
la materia elaborata
dal Soave, attinge
largamente da scrittori
contemporanei di filosofia
del linguaggio, quali
il De Brosse,
autore del noto
libro De laformation
mécanique des Langues,
il Lery, il
Sulzer e altri.
Particolari affermazioni di VICO
(si veda), Soave ha
fatto proprie: che
le prime a
essere istituite dovettero
esser le interjezioni
-- cf. Grice, “Ouch” – Meaning Revisited; che
i vocaboli da
principio furono mono-sillabi (ouch), o bi-sillabi (ouch ouch) al più. Perciocché innanzi
di aver esercitato
gl’organi della voce
non potran essi
proferire ad un
tratto, che UNA,
o due sillabe solamente. LO STESSO NOI VEGGIAMO NE’FANCIULLI, che le
parole cominciarono da
l'imitazioni delle voci,
e de' suoni NATURALI
(ouch), secondo la
cosidetta dottrina dell' o?iomatopea; che
i verbi cominciarono
dall'imperativo ( non tutti,
però, aggiunge, quasi
voglia correggere il
non citato maestro),
e che anche
i verbi furon
tratti dall'onomatopea ecc. Il
debito principale, tuttavia,
è, come s'è
già detto, in
quel prender le
mosse dallo stato
primitivo della umanità,
dal considerar le manifestazioni del
linguaggio nel fanciullo,
in quel riferire
queste manifestazioni alle
cause naturali agenti
sull'uomo, i loro
progressi ai progressi
della società, nel
distinguerle in mute
e in articolate
secondo che l'uomo
fu abbandonato a
sé stesso o
costituito in società,
in quel seguire
il sorgere progressivo delle categorie
grammaticali e sintattiche
secondo i procedimenti rappresentativi e
logici delle menti
umane più o
meno sviluppate secondo
il progresso sociale,
insomma nell'aver battuta la
medesima via per
giungere alla risoluzione
del problema dell'origine
del linguaggio. Ma,
sarebbe quasi superfluo
il dirlo, le
differenze sono profonde.
VICO (si veda), anzitutto, ha,
come ormai si
sa per la
dimostrazione del Croce,
definita la natura
estetica del linguaggio;
secondo, nello spiegarne
l'origine e lo
sviluppo, ha accennato
solo principi generali
di natura molto
diversa da Su
questo proposito dell'imperativo cita
invece senza accettarla un'opinione del
Berger, Les èléments
priniit. des Lang.,
che ri-, cordava
a sua volta
quella del sapientissimo
Leibnitz: nell'imperativo doversi
cercare la radice
de' verbi della
lingua tedesca] quelli del
Soave, senza scendere
a particolari circostanze,
tenendosi sempre all'altezza dell'aquila.
Per esempio, il
Vico, dopo aver
esaurita la sua
dimostrazione circa il
sorgere delle prime
classi grammaticali tutte
monosillabiche, osserva: Questa
Generazione delle Lingue è
conforme ai Principi
così dell'Universale Natura,
per li quali
gli elementi delle
cose si compongono,
e ne' quali
vanno a risolversi;
come a quelli
della natura particolare umana per
quella Degnila, eh' i fanciulli
nati in questa
copia di lingue,
e eh' hanno
mollissime le fibre
dell' istromento da
articolare le voci,
le incominciano monosillabe;
che molto più si dee
stimare de' primi
uomini delle genti,
i quali l'avevano durissime, né
avevano udito ancor
voce umana. Soave
nota che i
fanciulli non potranno
proferire che una
o due sillabe
solamente e che
non arrivano se
non dopo un
certo tempo a
poterne proferir di
più lunghe. Il
monosillabismo pel Vico
è un principio
universale e particolare insieme e con esso
egli spiega tutta
la primitiva grammatica, ossia tutto
il linguaggio; pel
Soave non è
più nulla, non
solo perchè è
monosillabismo e bisillabismo,
indifferentemente, ma perchè
non è più
un principio, ma
una semplice questione
di maggiore o
minore bravura meccanica.
Terzo, finalmente, Vico,
come più addietro
vedemmo, nel confronto
della sua con
la dottrina aristotelica
delle categorie grammaticali,
fa di queste
degl' indici delle
fasi ideali dell'umanità,
ne fa dei
segni in cui
si siano concretati
e espressi particolari
progressivi atteggiamenti dello
spirito umano: il
Soave con la
logica alla mano
e con una
storia di sua
invenzione, precisa non
solo nei particolari
delle circostanze ma
degli specifici procedimenti
della mente umana,
fa fare all'umanità
un cammino inverso,
appunto, per dirla
con la maniera
stessa di Vico,
come se i
popoli, che si
ritrovaron le lingue,
avessero prima dovuto
andare a scuola
ò? Aristotile . Ma
non propriamente d'Aristotile,
si bene dei
sensisti del secolo
decimottavo. Perchè, appunto,
questo è da
concludere, che il
Soave ha elaborata
la materia vichiana
col sensismo filosofico
del suo tempo.
Insomma, sulla guida
di un'intera e compiuta
grammatica logica, fondata
sulle distinzioni di
materia e forma,
di pensiero e
segni, di idee
sensibili e astratte,
Soave ha costruito
una storia universale
umana, facendo corrispondere ad ogni
classe grammaticale, a
ogni forma inflessiva
di nomi e
di verbi, una
particolare causa sociale
e naturale che
Capitolo quattordicesimo 413
l'abbia prodotta. Tanto
valeva il prescindere
dalla sua fantastica
narrazione de' due
piccoli selvaggi, e
darci addirittura una
grammatica logica. Quella che ci diede,
fu dunque una
copia, un duplicato ;
ma prima che
ne diciamo qualcosa,
ci corre l'obbligo
di accennare per
lo meno alla
grande portata filosofica
che ha invece
la dissertazione dell'Herder.
Lo faremo con
le succose parole,
documentate da opportune
citazioni, del Croce,
che ne porgono
una chiara idea
e un giusto
giudizio. La lingua
egli dice in
quello scritto è
la riflessione o coscienza
(Besonnenheit) dell'uomo. L'uomo
mostra riflessione quando
spiega con tale
libertà la forza
della sua anima
che in tutto
l'oceano di sensazioni
penetranti pe' suoi
sensi, può, per
così dire, separare
un'onda, ritenerla, dirigere
su di essa
l'attenzione, ed esser
conscio che l'osserva.
Egli mostra riflessione quando può,
nell'ondeggiante sogno delle
immagini che passano
innanzi ai suoi
sensi, raccogliersi in
un momento di
veglia, liberamente soffermarsi
su di una
immagine, prenderla in
chiara e calma
considerazione, separarne de'
connotati. Egli mostra,
infine, riflessione quando
non solo può
conoscere vivamente e chiaramente
tutte le proprietà,
ma può riconoscere
una o più
proprietà distintive. Il
linguaggio umano non è l'effetto di
n\\ organizzazione della
bocca, giacché anche
colui ch'è muto
per tutta la
vita, se riflette,
ha in sé linguaggio. NON È UN GRIDO DELLA
SENSAZIONE, giacché esso non
fu trovato da
una macchina respirante,
ma da una CREATURA
RIFLETTENTE. Non è un
fatto d'IMITAZIONE, giacché
l' imitazione della natura
è un mezzo,
e qui si tratta di
spiegare lo scopo;
MOLTO MENO È CONVENZIONE ARBITRARIA [Grice: “Meaning has nothing to do
with convention”]. Il selvaggio nella
solitudine del bosco
avrebbe dovuto CREAR il linguaggio
per sé medesimo,
quand'anche non l'avesse parlato. Il
linguaggio è l'ifitesa
della sua ANIMA
con sé stessa,
intesa tanto necessaria,
quanto che l'uomo è
uomo. Comincia così
la funzione linguistica
ad apparire non
più fatto meccanico
od arbitrio ed
invenzione, ma creazione
ed affermazione prima dell'attività
umana. Benché lo scritto
dell'Herder, come il
Croce stesso nota,
non dia un
risultato netto, e
sia solo un
sintomo e un
presen- [Abhandlung i'cber den
Ursprung der Sprache,
nel libretto: Zwei
Preisschriften etc. (2a
ediz. di Berlino.
Estetica] timento della soluzione
da dare al
problema del linguaggio,
pure ognun vede
quanto e come
esso superi le
vedute filosofiche dell'enciclopedismo francese
seguite dal Soave
e, in qualche
parte e precisamente
per le speciali
teorie dell' interiezione e delV
imitazione, quella dello
stesso Vico, che
l'Herder pur conobbe
ed elogiò. Né
il Vico né
l'Herder, al quale
come anche all'amico
suo Hamann spetta
il merito di
aver fatto sentire
come un soffio
d'aria fresca anche
negli studii di
filosofia linguistica, ebbero tra
noi non dico
la preminenza sulle
dottrine logiche dei
francesi, ma un
equivalente grado di
efficacia, nonostante che
un seguace e
del Vico e
dell'Herder, CESAROTTI (si veda), raccogliesse,
più ancora del
Soave, intorno al
suo Saggio, che
in parte deriva
dagli scritti loro,
non tenui simpatie
basti citare il
nome di Torti
la tradizione logico-grammaticale, che ha il
suo miglior rappresentante nel
Du Marsais, tenne
vittoriosa il campo,
contrastata solo, come
vedremo, dal risorto
purismo cesariano puotiano,
fino oltre la
prima metà del
secolo passato la
Grammatica generale del
Corradini in tutto
dumarsaiana è del
1856! cioè anche
dopo Humboldt, ma spolpata,
dissanguata, scheletrita, ridotta
ai puri schemi,
il che vuol
dire alla sua
forma meno feconda
e più noiosa,
e pur propinata
a a volte
in libercoli di
poche pagine perfino
agli alunni della
prima e seconda
classe elementare !
La grammatica stèssa
del Soave n'ègià
una chiarissima prova.
E divisa in
due libri, uno
dell' Etimologia, l'altro
della Sintassi un
trattatello della ortoepia
e dell'ortografia fu
scritto a parte,
ciascuno de' quali
suddiviso in 4
sezioni: la prima
del I svolge
la parte generale
delle parti del
discorso, la II
il nome (coi
suoi affini, aggettivo
e pronome, e
i suoi servitori,
segnacasi e articoli), la
prima delle parti
logicamente più importanti :
la III il
verbo, l'altra parte
più importante del
discorso (coi suoi
partecipi, gerundi e
aggettivi verbali); la
IV il miscuglio degli accessori
logici (preposizioni, avverbi,
congiun- [Croce, Est., p.
265. T., Della
vita e delle
opere di F.
T., Bevagna, e
Studi sul Boccaccio,
Città di Castello,
e Croce, Per
la storia della
critica e storiografia
letteraria, Napoli. '
Syncathegoremeta ', ' consignificantia '. zioni,
interposti); mentre la
I sezione del
II libro svolge
la prima branca
della sintassi, la
concordanza, la II
la seconda, il
reggimento, la III
la terza, la
costruzione (la triple
synlaxe, diceva
l'Enciclopedia, de co?icordance,
de regime, de
constructiorì), la IV
il miscuglio delle
figure grammaticali (ellissi,
pleonasmo, sillessi, enallage,
iperbato le cinque
figure del Sanzio).
Lo schema, come
qui si vede,
è tracciato sul
tipo divenuto ormai
tradizionale nella grammatica
francese e fondato
sulla dottrina della grammatica
generale: non solo
del Vico, ma
neppur del Soave
autore delle discusse
Ricerche, si ha
più alcun sentore.
Questo tuttavia non
è l'unico danno:
il maggiore è
che lo schema
sia rimasto schema,
mancando quasi affatto
quell'elaborazione logico-critica
della materia grammaticale
che ammirammo già
nel Du Marsais
e nell'Enciclopedia. Tutta
la filosofia si
riduce a definir
gli schemi molto
elementarmente e a
versarvi dentro cataloghi di
forme e di
costrutti con scarsissime
citazioni d'autori, senz'ombra
di spiegazioni genetiche
delle voci, viceversa
conservando qua e là,
come p. es. nel trattato
della costruzione, le
antichissime rettoricherie sulle
fonti dell'armonia nel
discorso. E quel
po' di ragionamento
che tenta illuminare
la parte generale,
e la definizione
del nome e
del verbo, esula
affatto in tutto
il resto delle
classi e specie
e sottospecie grammaticali,
che è dato
così nudo e
crudo, spoglio persino
di quel fare
discorsivo e a
volte vivacemente polemico
e di quell'esemplificazione onde
almeno si ravvivava l' interesse
del lettore nella
vecchia grammatica. La geniale
veduta del Du
Marsais, che le
forme grammaticali, tranne quelle
significatrici di cose,
articoli, casi, ecc.
rappresentino altrettanti punti di
vista e atteggiamenti
dello spirito, che egli
applicava con altrettanta
genialità ai singoli
pezzi d'espressione, spargendovi
sempre un po' di luce
critica, è affatto ignorata da
questa grammatica del
Soave. Tanto che
i compilatori dell'edizione
bresciana del 1830,
tenuta sulla milanese assistita da
Soave stesso, sentirono
il bisogno d'
intercalare delle Appendici
(autore l'ab. Bianchi)
e dei paragrafi per
versarvi con mano
discreta un po' di metafisicherie, facendo
cosi una cosa
ancor più astrusa,
arida e ibrida.
P. es., nell'app.
al cap. I,
i nomi si
dividono in fisici
e metafisici, questi
in metafisici reali
o sostayitivi, e
in metafisici astratti
o ideali: delle
significazioni delle desinenze
di questi poi.
e degli aggettivi derivati nell'app.
I al cap.
VI son date
numerose categorie {-ione,
-ento, -lira, -abile,
-evole, -are, -ivo,
-orlo, -ido, -usto,
-ace, -ile, -ale,
-estre, -ino, -ore,
-ibile, ecc.) con
un imperio d'infallibilità assoluto. E
tutto anzi è
logicamente schematizzato, a
tutto è data
una funzione logica,
in modo che
sembrerebbe impossibile come un
uomo osasse aprir
la bocca senza
aver mandato a memoria
tutta questa grammatica.
Lo scopo dell'apprendimento delle lingue
fallisce così in
modo assoluto, e
anche didatticamente vengono queste
grammatiche ad avere un valore
negativo. Invece la
grammatica filosofica anche
ridotta a tale
schema si diffuse
e divenne di
moda nelle scuole,
come di moda
divennero questa specie di
ricerche filosofiche sul
linguaggio. De' precedenti
italiani, nella prima
metà del secolo,
della grammatica ragionata
s'è avuta occasione
di accennare altrove,
segnalando alcune manifestazioni veramente
notevoli; ma quei
metodi e nuovi
metodi erano ricalchi
di Portoreale e
compendi elementari, che,
in ogni modo,
eran diretti specialmente
allo studio del
latino, per quanta
parte facessero all'italiano;
tant'è vero che
non riuscirono a
diminuire l'interesse per la grammatica
empirica che, invece,
col Buonmattei e
col Corticelli seguitò
a imperare. Solo
nell'ultimo quarto del
secolo cominciò a
divampare il fervore per
la grammatica generale.
Un Piano ovvero
ricerche filosofiche sulle
lingue diede nel
1774 D. Colao
Agata; Riflessioni sugli
oggetti apprensibili, sui
costumi e sulle
cognizioni umane per rapporto
alle lingue ORTES (si veda), libri
che già dal
titolo dichiarano il
loro contenuto; nel
1783 Frane. Ant.
Astore pubblicò a
Napoli in due
grossi volumi La
filosofia dell 'eloquenza o sia l
eloquenza della ragione
(il titolo non
potrebbe esser più chiaro),
strano miscuglio, dice
il Gentile, delle
idee del Vico
con quelle dei
sensisti. Usce il
famoso Saggio sopra
la lingua italiana
di CESAROTTI (si veda), sul quale
ci dobbiamo fermare
un poco per
la sua diretta
connessione con la
critica delle categorie
grammaticali: anzi, se
Il figlio di
G. B. Vico,
nota. In Padova,
nella stamperia Penada
(ristampato col titolo
di Saggio sulla
filosofia delle lingue
nell'ed. pisana delle
Opere, e altre
volte). Su esso
e sulla questione
della lingua in
generale nel sec.
XVIII, G. Mazzoni,
La questione della
lingua italiana nel secolo
XVIII in Tra
libri e carte,
Roma, Su Cesarotti, V. Alemanni,
Un filosofo delle
lettere^ Torino] diverso è
lo scopo finale,
nella sua sostanza
il libro è
una nuova grammatica
filosofica. Ma si
deve dir subito
ad onore del
Cesarotti, tanto più che
trattasi di cosa
poco nota, che
egli fin dal
1769, cioè un
anno prima del
quesito dell'Accademia berlinese e
perciò delle dissertazioni
dell'Herder e del
Soave, aveva pubblicato
a Padova un'
Oratio de lingiiarum
origine, progressi*, vicibus
et pretio, dove
è già manifesta
l'influenza del Vico
e, se non
il germe, certo
la tendenza della
dottrina che poi
doveva sviluppare nel
Saggio . Questo,
dunque, aveva lo
scopo di criticare
cortesemente la Crusca
e di riformarla
e ristorare così
la lingua col
far trionfare le proposte
di Crusche regionali
e d'un Consiglio
italico per la
compilazione di due
diversi vocabolari, l'uno
pe' dotti, l'altro
pel popolo. Ma
più che in
questo e in
altre vedute particolari, come una
maggior considerazione in
che ebbe i
dialetti, la difesa
discreta de' francesismi,
la sconfessione data
a presunte voci
eleganti che non
erano se non
antichi gallicismi, segni
tutti della posizione
diritta e composta
presa dal Cesarotti
nella questione della lingua
verso e in
favore d'un'italianità viva
e comune, il
valore del Saggio
è nella vera
parte filosofica, nella
quale certo s'ispirò
ai pensatori francesi,
ma trasfuse un
poco di (manto
potè far proprio
del pensiero vichiano.
Un limpido e
vivace riassunto del
Saggio diede il
Cesarotti stesso nella
lettera, bella per
arguzia e sincerità,
al suo contraddittore, il conte
Napione, che fu
in concordia con
Cesarotti più di
quanto non credesse
egli stesso .
Io m'era prefisso
, diceva dunque, di
toglier la lingua
al despotismo dell'autorità, e
ai capricci della
moda e dell'uso,
per metterla sotto
il governo legittimo della
ragione e del
gusto; di fissare
i principi filosofici
per giudicar con
fondamento della bellezza
non arbitraria dei termini,
e per diriger
il maneggio della
lingua in ogni
sua parte, cosa
non so se
eseguita pienamente da
altri, e certo
non più tentata
fra noi; di
far ugualmente la
guerra alla superstizione e alla
licenza, per sostituirci
una temperata e giu-
[Croce, Per la
storia della critica
e della storiografia. Cfr. D'Ovidio,
Le correz. Ediz. di
Napoli (Biblioteca portatile
ed istruttiva), G.
Pedone Lauriel. V. in
proposito, il D'Ovidio] diziosa libertà:
di combattere gli
eccessi, gli abusi,
le prevenzioni d'ogni specie;
di temperare le
vane gare, le
ricche parzialità; di applicare
alfine le teorie
della filosofia alla
nostra lingua, d'indicar
i mezzi di
renderla più ricca,
più disinvolta, più
atta a reggere
in ogni maniera
di soggetto e
di stile al
paragone delle più celebri,
come lo può
senza dubbio quando
saggiamente libera sappia prevalersi
della sua naturale
pieghevolezza e fecondità. Per
eseguir questo piano
presi dapprima a
combattere alcune opinioni
dominanti.... Negai la
nobiltà in cuna
di alcune lingue
privilegiate, la superiorità
senza limiti, la
perfezione assoluta, la fissità
inalterabile, la ricchezza
non bisognosa d'aumento,
il pregio inarrivabile
dell'eterna vestali tà
delle lingue... Mi
opposi alla tirannide
dell'uso, all'idolatria dell'esempio,
accordando all'uno e all'altro
quell'autorità che potea
conciliarsi colla ragione,
giudice legittimo e
dell'esempio e dell'uso;
provocai alfine a nome
degli scrittori non
volgari, dal tribunale
dei grammatici pedanteschi
a quello dei
grammatici filosofi, i
quali sanno che
la lingua è
1' interprete del
pensamento, e la
ministra del gusto.
Fatta così strada
al mio assunto,
passai a determinare colie teorie
filosofiche la bellezza
intrinseca ed essenzial
delle lingue, fissandone
i canoni, e
applicandoli a ciascuna
delle loro parti
così logiche che
rettoriche; nella qual
trattazione mi lusingo
(come il Soave!)
d'aver in poco
ristretto molto, detto
più cose non
comuni né inutili,
e gittato sul
mio soggetto qualche
nuovo colpo di
lume atto a
rischiararlo con precisione,
e a prevenir molti abbagli
. E dopo
aver accennato al
confronto tra l'italiano
e il francese,
all'abuso del francesismo,
alla indistruttibile libertà di
crear nuovi vocaboli,
alla storia della
nostra lingua e
allo stato attuale
e allo spirito
dominante del secolo
per escogitar i
mezzi dell'uso e
del giudizio, ecc.,
manifesta che lo
spirito dell'opera sua
era di dire
agi' italiani: ....
sappiate pensare e
sentire, e la
figura del concetto
verrà a stamparsi
nell'espressione, che sarà
conveniente, vivace, italiana
e nostra: voi
non sarete più
schiavi né dei
dizionari uè dei
grammatici, non sarete
né antichisti né
neologisti, né francesisti
né cruscanti, né
imitatori servili né
allettatori di stravaganze:
sarete voi, voglio
dire italiani moderni
che fanno uso
con sicurezza naturale
d'una lingua libera
e viva, e
la improntasentire, e
la figura del
concetto verrà a
stamparsi nell'espressione, che
sarà conveniente, vivace,
italiana e nostra:
voi non sarete
più schiavi né
dei dizionari uè
dei grammatici, non
sarete né antichisti
né neologisti, né
francesisti né cruscanti,
né imitatori servili
né allettatori di
stravaganze: sarete voi,
voglio dire italiani
moderni che fanno
uso con sicurezza
naturale d'una lingua
libera e viva,
e la improntano
delle marche caratteristiche del proprio
individuai sentimento. Sarebbe
superfluo notare che
le vedute filosofiche
domi Capitolo quattordicesimo 419
nauti circa la
lingua é la
grammatica qui non
solo non sono
superate, ma, sotto la
spigliatezza e la
vivacità dell'esposizione, permangono
immutate. Noi, riferendo
quel riassunto, abbiamo
inteso soprattutto mostrare
che la parte veramente
ninna del suo
Saggio anche pel
Cesarotti era l'applicazione dei
canoni filosofici alla spiegazione
delle categorie rettorico-grammaticali. Diamole
uno sguardo. Fissato
che la lingua
scritta dee aver
per base l'uso,
per consigliere l'esempio,
e per direttrice
la ragione lingua
pura è sinonima
di barbara, ogni
lingua essendosi formata
dall' accozzamento di
varj idiomi come
è dimostrato dai
sinonimi delle sostanze,
dalla diversità delle
declinazioni, • e
coniugazioni,
dall'irregolarità dei verbi,
dei nomi, della
sintassi, di cui
abbondano le lingue
più colte e
stabilito che la
giurisdizione sopra la
lingua scritta appartiene
indivisa a tre
facoltà riunite, la FILOSOFIA
(= RAGIONE), l'erudizione (= uso),
ed il gusto
(= esempio) (p.
24), con la
scorta della prima
di queste facoltà,
osserva che la
lingua come materia
del discorso consta
di due parti,
l'ima delle quali
chiameremo logica, l'altra
rettorica. Logica sarà
quella che serve
unicamente all'uso dell'
intelligenza, somministra i
segni delle idee,
del vincolo che
li lega tra
loro, e di
tutti quei rapporti di
dipendenza che ne
formano un tutto
subordinato e connesso. Rettorica è
quella parte che,
oltre all' istruir l'intelletto,
colpisce l'immaginazione; né
contenta di ricordar
l' idea principale, la dipinge,
o la veste,
o l'atteggia in
un modo più
particolare e più vivo,
o ne suscita
contemporaneamente altre d'accessorio, le quali
oltre all'oggetto indicato
dinotano anche un
qualche modo interessante
di percepirlo, o
un grado di
sensazione (p. 24).
I diritti della
fantasia affermati così
recisamente di contro
a quelli dell'
intelletto sono certo
una novità rispetto
alla grammatica ragionata
dell'Enciclopedia che non
conosce alcuna altra funzione
nel discorso diversa
dalla logica; ma
è una veduta
non nuova nelle
opere del Cesarotti,
per le quali
era stato, come
dice il Croce,
celebrato ai suoi
tempi in Italia
come colui che
"colla più pura
face della filosofia
aveva rischiarati gl'intimi
penetrati della Poesia
e dell'Eloquenza, benché
certo non sembri
j>j, nella quale
cerca di combattere
il filosofismo intemperante anche
in materia di
gusto. Riconosce che
la filosofìa ha
distrutto viete idee
anche in materia
di lingua, ma
osserva che non
tutto può distruggere
in modo che
tra lingua e
lingua non ci
sia più distinzione.
Dall'esame dell'origine risica
delle lingue apparisce
in primo luogo
che altre sono
eleganti, altre barbare,
e che alcuna
è pienamente ed
assolutamente superiore ad un'altra;
apparisce inoltre che
una anche cieca
aderenza all'uso, ed agli
scrittori approvati nella
scelta delle parole
discende dalla natura
e dall'indole medesima
del linguaggio. Nel
>j 21 1
Idea della grammatica
e dei grammatici '), alla
tesi che i
grammatici non hanno
alcuna autorità legislativa
contrappone la seguente definizione
della grammatica, dove
par di sentir
un'eco come del
noto brano del
De vulgari eloquentia
in cui della
grammatica (la lingua
immutabile) si porge
l'idea. Non per
nulla il Velo
era concittadino del
primo editore del
libretto dantesco. La
grammatica è una
importantissima; e principalissima parte
della logica; una
cospirazione, un consenso
de' primi scrittori
in alcuni precetti,
ed alcune regole
di favella a
preferenza, ed esclusione di
alcuni altri; cospirazione
e consenso, che
preser consistenza col
tempo e forza
di consuetudine, e
che formano il carattere
proprio e l' indole
d'una lingua scritta
qualunque ; una legislazione
finalmente, ed un
codice convenzionale, ove
ferma ed invariabile
parla l'intenzione d'un
popolo per fissare i
modi vocali di
comunicarsi le proprie
idee, e di
perpetuarle alla posterità cogli
scritti (pp. 48-9).
La protesta del
Velo è un
prodromo della prossima
reazione puristica. Nel 1791
uscì l'opera del
Galeani Napione, Dell'uso
e dei pregi
della Ungila italiana,
le cui principali
accuse, d'indole rettorica
e non grammaticale,
al Saggio del
Cesarotti, sono di
favorire il libertinaggio della
lingua e di
difendere troppo appassionatamente il francesismo.
La nota polemica,
ormai, per quanto
concerne la cosiddetta
questione della lingua,
convenientemente Vicenza, Giusto. Libri
tre, con giunta
degli opuscoli, in
due voli. Seguo
la bella edizione
dello Stabilimento tipografico Fontana,
Torino] illustrata, non
ci riguarda in
modo diretto. Pure,
non vogliamo lasciarci
sfuggir l'occasione di
dire che a
questo eccellente libro
del Napione non
è stata data,
o meglio riconosciuta
tutta l' importanza che meritava:
la sua vera
portata non è
tanto nella tesi
sostenuta, nel campo
strettamente linguistico, d'un'
italianità larga, nobilmente intesa
ed egualmente schiva
del francesismo e dell'
idiotismo fiorentinesco (per
questo riguardo il libro
lascia la secolare
controversia come la
trova), quanto nella
descrizione che vi si
fa delle vicende
della nostra lingua
sotto il rispetto
della civiltà e
dell'anima italiana: esso
è, insomma, un
documento importantissimo per
la storia della
nostra cultura fornito
dalla considerazione rettorica
o stilistica o
estetica come si
voglia chiamare della
lingua italiana specie
in confronto con
la francese e
dall'evocazione delle circostanze
della sua fortuna.
Il fine del
Napione è pedagogico:
favorire per mezzo
della diffusione e del
culto della nobile
lingua d' Italia il
primato civile degl'
Italiani: " satis
mirari non queo
", è il
motto ciceroniano (De
fin.) che il
libro porta in
fronte, " unde
hoc sit tam
insolens domesticarum rerum
fastidium;" in questo
secolo, è detto
subito in principio,
dietro la scorta
dei Le-Clerc, dei
Locke, dei Leibnitz,
nomi grandissimi, i
Genovesi, i Du-Marsais,
i Condillac, i
Michaelis, i Cesarotti
ed altri sottili
ingegni hanno creduto
di dover esaminare
filosoficamente la natura
delle lingue; mentre
altri si sono
applicati più particolarmente ad
osservare e descrivere
il genio, l' indole,
la storia di
un determinato idioma.
Laonde questa materia
di grammaticale e
letteraria, che al
più era, è
diventata filosofica, e
diventar dovrebbe eziandio
politica, mercè il
giovamento che può
arrecare alla civile
società; ma, appunto
per questo, gli
argomenti il Napione
è portato a
trarli dalla storia,
osservando nello specchio
della lingua i
riflessi dello spirito
italiano e nella
fortuna e nella
stima che essa
godette nei secoli
passati specie presso
gli stranieri e
in ogni genere
di letteratura, la sua
feconda ed elastica
virtù. Non possiamo
pretendere dal nostro autore
una considerazione storica
(di storia della
coltura, s'intende, e non artistica)
della lingua italiana
quale può darci
la critica moderna
cosi scaltrita ne'
principi e così
ricca di mezzi,
ma ben possiamo
appagarci dello sforzo
che egli compie
per iscoprire di
sotto alle qualità
rettoriche tradizionalmente
affermate nella nostra
lingua atteggiamenti e
vitalità di spiriti
quali egli per
lo meno sente
nell'anima italiana. Addurrò, per
conchiudere, non potendo
far qui lungo
discorso, qualche esempio.
Per confutare il
Condillac, il quale
sosteneva doversi ascrivere
a difetto e
ad imitazione servile
del genio latino
la tendenza italiana
a riunire e
connettere in un
sol periodo maggior numero di
idee , il
Napione osserva: Ognun
sa che il
vedere e discernere
diversi oggetti in un sol
punto, il conoscerne le
relazioni tra loro,
il comporre di
molte idee particolari una generale,
il veder le
idee secondarie che
rischiarano, confermano o
corteggiano la principale,
si è uno
de' pregi maggiori delle menti
più vaste e
più sublimi. V'ha
pertanto ragion di
credere che questa
pratica degl' Italiani,
di radunare comunemente in un
periodo più cose
che i galli
non fanno, provenga da
una facilità maggiore
di rapidamente trascorrere,
e vedere e
combinare cose diverse
insieme. Chi è
caldo e passionato
odia l'uniformità: coll'alterare, col sospendere
l'ordinata costruzione, attizza
la curiosità, e
tien fissa l'attenzione. Sino il
volgo, se è
commosso, parla in figure, trasposizioni, trasporti di
frasi, e più
in quelle contrade
dove ha maggior fuoco, ha
maggior anima; il che dimostra,
se dobbiamo dar
retta a certuni,
che un popolo,
qual si è
il francese, che
si è fatta
una lingua serva
e pedestre, è
più freddo in
sostanza di quel
che sembri in
apparenza vivace; brio,
che vien però
detto da molti
fuoco fatuo, e
caldo superficiale. Lo
sguardo di NAPIONE (si veda) non arriva
all'intimo accento di particolari espressioni e
di particolari periodi
storici della lingua
e di particolari
affinità spirituali; pure
nell' indagare i
motivi della fortuna
della lingua italiana,
anche se rimane
alla superficie, tenta
di comprendere i
caratteri generali di
determinati periodi meglio
fortunati e generi
linguistici, da poterne
cavare qualche raggio
di luce spirituale.
In og ni modo
egli raccoglie tante
testimonianze e richiama tanti
libri, che, anche
per questo riguardo, è
uno degli autori
più ricchi che
ci possa offrire
la nostra storia.
Tornando al Cesarotti,
aggiungeremo che a
taluno è parso
che anche il
Pignotti, nella sua
Storia della Tosca?ia confutasse forse
con più fortuna
ed efficacia del
Napione il padovano
illustre specialmente per quanto
concerne la toscanità
della lingua italiana
Ci. Ci Bettinelli,
Lett. cit.. (I
Mazzoni, L'Ott. II.
La grammatica ragionata
si propagò ben
presto nelle scuole,
non escluse le
prime classi delle
elementari, ma anche
in uno stato
di pronta, quasi
immediata degenerazione. Ciò
che per altro
non maraviglia. Un
Corso teorico di
Logica e Lingua
Italiana e un discorso
filosofico sulla metafisica
delle lingue aveva
pubblicato già fin
dal 1783 Valdastri,
citato poi spesso
con lode, come
dal Romani e
dal Caleffi, un
sensista che diede
più tardi Lezioni
di analisi delle
idee, dove non
fa che seguire
i dettami dell'intimo
senso, che è il criterio
universale del genere
umano, da cui
solo si possono,
e si devono
ragionevolmente dedurre
(I, xvn), nemi co
acerrimo di Aristotile
che dominava da
tiranno le scuole.
In un Indirizzo
pel ragionato uso
della lingua italiana,
edito a Venezia,
s'insiste sulla necessità
di non far
de' giovinetti de'
pappagalli, ma d' illuminarli con la
ragione, e si
spiega il concetto
di sostanza (da
subtus stans) e
di qualità con
un curioso esercizio
di far osservare un
dato frutto, appressar
le narici e
toccarlo col dito! Un
P. Simionato in
un Nuovo metodo
facile e ragionato
di apprendere la
lingua italiana, che
egli stesso dichiara
unico, comincia la
sua esposizione con
le solenni domande,
che diverranno presto
di moda: Perchè
parlate voi ?
Come vi fate
intendere? E tutto
il ragionio finisce
lì. Il napoletano
Giovanni Vincenzo Meola col
suo Compendio del
nuovo metodo per
apprendere facilmente la
lingua italiana, ritrovato
da' migliori grammatici
aduso de propri
figliuoli^ '), compilato
specialmente allo scopo
di condurre alla
cognizione dell' italiano
senza supporre quella di
alcun altro linguaggio
(p. IX), ritorna
invece al metodo
di Portoreale, come
aveva fatto l'Ajello
per il latino
e il Martorelli
per il greco,
prendendo a fondamento
il Corticelli (ma
intorno al ripieno
par che saccheggi
piuttosto il Buonmattei);
redige le sue
regole in versi,
e annunzia un
Nuovo me Guastalla, Costa.
In Milano Galeazzi.
V. era segretario
scientifico dell'Accademia
di Scienze, Belle
Lettere, ed Arti
di Mantova. Venezia,
1799. Napoli. V.
Orsino.] todo completo in
due volumi, in
cui metterà a
profitto tanti altri
trattati speciali. A
Napoli, per altro,
dove qualche raggio
di luce vichiana
non mancò mai di spandersi
sulle menti, è
lecito credere che
in armonia coli' insegnamento letterario
del Marinelli e con i
principi propugnati
dall'autore del noto
Progetto di legge
del 1809 per
la riforma della
P. I. nel
Reame, la grammatica
non fosse almeno
in quel breve
periodo di tempo
egualmente bistrattata. Il
Vico stesso e
dalla cattedra di
eloquenza latina che
tenne nell'Università di Napoli
e nella sua
scuola privata di
eloquenza e lettere
latine e in
quei documenti pedagogici
che sono il
De nostri temporis
studiorum ratione, le
Insiitutiones oratoriae e la
stessa Vita, tenne
sempre Y eloqjientia
sinonimo di sapie?itia,
diede cioè sempre
un insegnamento più
di cose che
di parole, non
indugiandosi mai in
pedanterie grammaticali,
sebbene fossero da
lui come di
passaggio avvertiti i
vezzi della lingua,
le origini e
proprietà delle voci,
la bellezza e
signoria delle espressioni
, e giudicando
che né la
filosofia cartesiana né
l'aristotelica fé' gran
prò alle cose
oratorie, ma la
platonica, e di
questa la dialettica
(")• Anche per il figlio
Gennaro, che, traendone ispirazione
e conservandone i
sani criteri, degnamente
gli successe nel
medesimo insegnamento che
tenne fino al
1777 per unirvi
quello della poesia
fino al 1786,
quando vi fu
sostituito da Ignazio
Falconieri, la vera
eloquenza fu sempre
quella che scaturisce
dal pieno possesso
dell'argomento; insistè sempre
sull'importanza del contenuto,
combattendo il puro
studio della forma
vuota, le virtuosità
stilistiche, le minuzie
grammaticali, ed incitando i
giovani agli studi
seri e profondi
. Anzi, in
sua lode speciale
dobbiamo aggiungere che i suoi
Avvertimenti per V insegnamento
del latino (editi
dal Gentile sull'autogr.
esistente tra le
carte Villarosa) nella
parte che riguarda
i rudimenti di
grammatica sono anche
nei particolari conformi
al 11) Vita
di G. B.
Vico scritta dal
Solla, cit. in
Gentile, Il figlio
di Vico e
gl'inizi dell' inseg. di
leti, il. /iella/?.
Univ. di Napoli
con docc. inedd.
(Estr. dall' Arck. si.
p. le Prov.
Nap., Napoli, importantissimo volume
che ci serve
di fonte e
di guida a
proposito de' due
Vico e de'
loro successori. C)
Inst. Orai, in
Opere, cit. dal
Gentile. Gentile primo
Metodo del Du
Marsais, che certo
non avrà conosciuto,
non solo perchè
non lo nomina
in nessuna maniera,
ma perchè, come
i suoi Avvertimenti,
quel Metodo fu
steso per un
privato discepolo. Era
insegnamento di grammatica
latina, naturalmente, perchè
di quello della
grammatica volgare anche
in Napoli si
sentì molto tardi
il bisogno: quando fu
sdoppiata la cattedra
di Gennaro Vico
in quella che
il Gentile chiama
la riforma universitaria dell'
illuminismo, e fu
istituita la cattedra
di Eloquenza italiana
(per merito, pare
al Napoli-Signorelli, di
Ferdinando IY, e
per un'ispirazione che
risale, nota il
Gentile, al Genovesi,
che fu il
primo a insegnar
in italiano e già dal
1767 aveva proposto
' una scuola
di lingua, di
eloquenza e di
poesia toscana '),
allora, dico, a
certi vecchioni la
novità fece un'impressione di maraviglia:
Quali cattedre (van
dicendo) ! lingua
italiana, agricoltura, chimica,
commercio, diplomatica, storia
naturale, geografia fisica. Fa
mestieri di un
pubblico professore per
istudiar la lingua
volgare che parliamo
dalle fasce..?. Ma
lo spirito della
tradizione restava. Restò
infatti, anche se
il Vico è
probabile sia stato
tra quei vecchioni,
non tanto forse
perchè quel nuovo
insegnamento non fu
che una duplicazione
della vecchia Rettorica,
che s'insegnava nell'Università di
Napoli dalla metà
del cinquecento ,
quanto perchè della
sorte toccatagli di
raggiungere dopo 40
anni d'insegnamento quello
stipendio di 300
ducati, che altri
aveva ottenuto tanto
più presto, p.
e. Serio, ebbe,
nel 1797, a
muovere non lievi
lagnanze. Quel Serio stesso,
infatti, che fu
assunto alla nuova
cattedra, in un
manifesto con cui
dopo 14 d' insegnamento, annunziò
la pubblicazione delle
sue Istituzioni, che
non sembra poi
vedessero la luce
(3), diceva che
il primo tomo
conterrebbe le più
importanti questioni intorno
all'origine, all'indole ed
al carattere della
lingua; e... tutto
ciò, che principalmente alla
grammatica appartiene, ma
con animo di
veder come esser
possa una delle
fonti dell'eloquenza .
Dove non par
solo di sentire Gennaro Vico,
ma anche il
Cesarotti e compagni.
Tuttavia l' insegnamento del
Serio non è
neppur paragonabile con
quello Gentile. (?) Gentile. Gentile. Agli amatori
della bella letteratura
in Gentile, op.
e loc. cit.
Capito/o quattordicesimo 433
che dovette impartire
il Marinelli, assunto
nel 1808 alla
medesima cattedra abolita
nel 99 e
ristabilita sotto Giuseppe
Napoleone e autore
d'una molto lodata
Filosofia dell'eloquenza^. Il
fondo, dice il
Gentile, che ne
ha esaminate la
Prolusione e dopo questa
l'opera ora accennata,
è ancorala rettorica:
ma che rivoluzione
! Tale insegnamento,
concludeva il Marinelli
in quella Prolusione,
avrebbe istruita la
gioventù senza obbligarla
al meccanismo de'
precetti, e senz'ingolfarla nelle
minuzie grammaticali, che sono
per lo più
disgradevoli alle persone
di già avanzate
negli studj .
Alla Filosofia dell'eloquenza, dove
si grida contro
le regole colle
quali si vorrebbe
supplire al talento
di un'anima che
signoreggia sulle anime
mercè l'ascendente della
parola (p. io)(3),
e dove qua
e là lampeggia
un ingegno critico non
comune, corrisponde per
importanza di vedute
il già cit.
Rapporto o progetto
di legge presentato
a G. Murat
dalla Commissione straordinaria
pel riordinamento della
P. I. nel
Regno di Napoli,
di cui fece
parte quello spirito
illuminato di Melchiorre
Delfico, ma fu
relatore e vero
autore Vincenzo Cuoco
(4). In questo
che il Gentile
chiama il documento pedagogico e
scientifico più notevole
in cui si
sia imbattuto nella sua
ricerca, il Cuoco
grandeggia come un
alto spirito solitario,
giacché egli si
rannoda direttamente al
pensiero d' un grande
morto, rimasto nome
sacro ma incompreso
per tutto il
periodo che abbiamo
qui addietro percorso
e per cui
si distese la
vita vuota di
Gennaro Vico. Il
nome del padre
di costui ricorre
in questo scritto
più d'una volta.
Sono esplicitamente richiamate alcune
delle idee più
geniali dell'orazione Denostri teinporìs studiorum
ratione (5). A
proposito della Scienza
nuova, dice tra
l'altro: Quello però
che possiam dire
con sicurezza si è,
che la dottrina
del Vico è
nota e adottata
quasi tutta intera
nelle sue applicazioni;
ma n'è rimasta
oscura la teoria
generale, da cui
tali applicazioni dipendono,
e da cui
si possono rendere
più ampie e più certe.
Per la scuola
media, Napoli, presso
Angelo Trani, Gentile. In
Gentile, op. cit.,
p. 126. Gentile. Gentile, op.
cit., pp. 135-6.
Gentile. CUOCO (si veda)
inizia una riforma
capitale, mettendo a
capo di tutte
le materie da
insegnarvi la lingua
italiana, della quale
nelle scuole mezzane
non s'era pensato
ancora a far
oggetto di studio
speciale . Il
linguaggio , dice
il Rapporto, non
è solamente la
veste delle nostre
idee, siccome i
grammatici dicono, ma
n'è anche l' istrumento. La
prima lingua, che
noi dobbiamo sapere,
è la propria.
L'educazione de' nostri
collegj dava troppo,
ed inutilmente, allo
studio grammaticale delle
lingue morte. Le
lingue non si
possono apprendere bene
per via di
grammatiche e di
vocabolari: lo avverte
benissimo il proverbio:
aliud est grammatico,
aliud est latine
loqui ; e l'esperienza
giornaliera lo conferma.
I precetti della
grammatica in ogni
lingua sono pochi
e semplici, e
tra le grammatiche
la più breve
è sempre la
migliore. Lo studio della
lingua, e non
già della grammatica,
deve esser lungo:
ma ogni studio
soverchio, che si
dà alla grammatica, è
tolto al vero
studio della lingua,
la quale non
si apprende se
non colla lettura
e retta imitazione
de' classici. Noi
diremo anche di più: rende
più facile lo
studio delle lingue
morte il saper
bene la propria
e vivente. Tutte
le lingue hanno
un meccanismo comune, il
quale dipende dalla
natura comune delle
menti umane .
Da questo principio
vichiano il Cuoco
desume che quella
che occorre studiare
è, a proposito
della lingua nostra,
una grammatica generale,
una grammatica con
metodo filosofico, che
faciliti l'apprendimento delle
altre lingue. E
doveva avere in
mente la Grammatica
generale del Du
Marsais, che cita
infatti poco dopo a
proposito dei tropi!1),
ma di un
Du Marsais, osserva poi
il Gentile acutamente,
cuochiano, o vichiano
che si voglia
dire. Ma la
riforma non fu
fatta, e dopo
il Marinelli, col
Ricci(J) Gentile. Gentile. Scrisse Della
vulgati eloquenza libri
due, 1813. Vi
si paragona al
Bembo di cui
vuol ricalcare le
orme. Sa ricordare
che le regoledelia
Grammatica furono fissate
dal Fortunio e
poi dal Bembo,
p. io dell'ed.
di Napoli, Giorn.
delle Due Sicilie.
Tra tanto vecchiume
mi è sembrata
notevole la definizione
della storia letteraria,
e benché qui
proprio non ci
riguardi, ci permettiamo
riferirla anche perchè
non è stata
avvertita da altri.
La storia letteraria
ha per oggetto
di designar gradatamente e
per ordine di
tempi i progressi,
le vicende, e
il decadimento delle
lettere e delle
arti, riducendo di
tratto in tratto si
riebbe l' insegnamento della
vecchia rettorica, e
la letteratura italiana
a Napoli non
si rialzò più
fino al i.s6o.
Alle altezze del
Marinelli e del
Cuoco nessuno in
altre parti d'
Italia seppe sollevarsi.
Pullularono invece le grammatiche
ragionate, tra le
quali pochissime meritano
qualche considerazione. La prima
di queste è
quella scritta in
francese pei francesi
dal Biagioli, e
di cui non
sarebbe qui il
luogo di dir
due parole, se,
anche a non
tener conto della
persona dell'autore, non fosse
stata più volte
ristampata in Italia
e se non
fosse stata citata
con lode anche
dai nostri grammatici.
È intitolata Grammaire
italienne clémentaire et
raisonnéQ). L'Autore dichiara
che ristudierà la
lingua materna coi
principi del Du
Marsais, del Condillac
e del Destutt-Tracy, richiamandosi
al pensiero di
Dante rielaborato dal
Sanzio: La pensée
du Dante, que
Sanctius semole avoìr
envisagée et développée
ainsi: Grammaticorum sine
ratione testimoniisque auctoritas
nulla est (in
Minerva, lib. I,
e. 2), noits
montre che non
si deve fare
un'esposizione dogmatica, ma ragionata.
Bandisce Yusage, il
caprice, Yabus. Nella
parte generale spiega
les principes les
plus simples et
les plus généraux
, nella particolare,
ritorna sui suoi
passi esplicando avec
plus d'étendue ce
qui exige de
la part des
étudians plus d'at
i diversi quadri
del loro stato
generale sotto un
determinato punto di
vista nelle diverse
epoche, e fissando
proporzionalmente i caratteri
del gusto in
ciascuna epoca; il
che equivale per
lei al pregio
della unità indispensabile alla
perfezione della storia
politica. Molti sono
i vantaggi della
storia letteraria: cioè;
1. ella ci
pone sottocchio i
progressi dello spirito umano,
e ce ne
distingue le vie;
2. ci rende
ragione delle rivoluzioni del
gusto; 3. ci
avvezza alla pratica
d'una soda critica:
ed infatti una
giusta critica non
disgiunta dalla storica
imparzialità fedeltà ed
accuratezza, ne costituisce
il pregio principale .
Pp. 95-6. Suivie
d'un traité de
la poesie. La
quinta edizione di
Milano, 1824, aggiunge
ouvrage approuvè par
l'institut de France:
la 2a ediz.
è del 1809:
e la prima
dovette esser di
poco anteriore. Vi
si cita la
precedente del Vinéroni
(Vigueron). Una grammatica
italiana in francese dell'ANTONiNi è
citata da Antonio
Scoppa nella prefazione
al suo Nuovo
metodo stilla grammatica
francese, Roma. Pel
Fulgoni. Le nouveau
maitre italien pubblicò
D. A. Filippi,
Vienne, 1812, con
una lettera del
Metastasio al conte
Bathyny sul miglior
modo d'insegnar l'italiano
all'Imperador Giuseppe JI,
in tempo ch'egli
era principe ereditario
, molto sensata e
pratica. Robello G.,
Grammaire italienne élém.
analysè et r aisonne',
III ed., Paris.
tention et de
travail . Nell'introduzione tratta
de l'origine des
signes de nos
idées per venire
alle parti del
discorso. Per trattare
di queste, parte
sempre da una
frase {oh, ah
Io sono attonito
Io sono amante
Ride piangendo Ho
l'anima avvezza alle
pene Questa donna
è mia Pietro
è morto, voi
lo conoscevate Sto
con mio padre
Parla eloquentemente Ama
la figlia e
la madre). Sulle
preposizioni crede d'aver
trovato delle novità.
Si occupa molto,
da buono studioso del
Sanzio, dell'ellissi, dando
di duecento frasi ellittiche la costruzione piena,
di molti
esercizi, com'è necessità
delle grammatiche per
gli stranieri. Ma
il Biagioli in
sostanza è un
retore, e non un filosofo,
e finisce anche
lui col ripetere
la solita roba nei
soliti schemi. Più
cheper una strana
se non cervellotica
idea che gli
serve di fondamento,
c'interessa per alcune
notiziette riferentisi alla
storia della grammatica
il Saggio sulle
permutazioni della italiana
orazione di Muzzi,
che a Foscolo parve
più un curioso
gingillo di aritmetica
applicata al periodo,
che una serie
di osservazioni giovevoli
a chi cerchi
nel periodare l'armonia,
scopo, per altro,
al quale non*
era stato destinato.
Il noto epigrafista
comincia dall' affermare
che per la
varietà del nostro
idioma e per
l'infinito rimescolarsi delle
parti dell'orazione, sono in
lingua italiana infiniti
i costrutti. Sotto
questo punto di
vista, nel campo
della nostra grammatica
c'è da riempire un
gran vuoto, che
non è stato
colmato neppure dal
(Torricelli, né dal
Fernow, né dal
Biagioli. Il suo
è solo un
saggio e breve
delle permutazioni di
semplici vocaboli presi
uno per uno,
e rappresentativi di
parti differenti del
parlare (p. XVII).
Della miglior grammatica
di nostra lingua
dobbiamo saper grado
a un tedesco:
cario luigi fernovio,
che la stampò
in tubinga. Eccone una,
che indica il
suo metodo: accanto
= à còte;
prìs : 1 (In
luogo posto) accanto
ia canto 1
rispetto 1 al
mare, Bemb., =à
coté de la
mer\ 2. (In
luogo posto) accanto
(rispetto a) le
verdi ripe, Bemb.
= près des
vcrtes rivcs. (-)
P. es.: Bastami
(la disgrazia) d'essere
stato schernito una
volta, B.; Viene
in concio (riguardo)
ai fatti nostri. Ginguené gli
lodò molto nel
Mercure questa grammatica, facendogli
un merito d'aver
seguito Du Marsais
e Condillac. (*)
Milano, De Stefanis,
181 r. Mazzoni,
L'Ott., p. 310.
Ne ebbe notizia
dal Biamonti. Muzzi scrive
tutti i nomi
propri con le
minuscole. Ma, quanto a
sintassi, molti passi
del Boccaccio vi
sono interpretati a
rovescio. Essa pargli la
più doviziosa per
regole, la più
sobria di metafisica
e insieme la
più elegante per
metodo. Ma da
un articolista del
Giornale italiano le
è stata attribuita
una regola che
è invece del
Soave (cfr. l'ediz.
milanese): quella che
l'imperativo negativo ha la forma
infinitiva: non amare
! La regola
principale che forma
il fondamento di tutto
il Saggio è
che la trasposizione
delle parti del
discorso della lingua
italiana segue le
leggi delle permutazioni aritmetiche .
Esempi: veggio pietro
\ In questa
serie abbiamo una
sola pietro veggio
\ permutazione. egli
amava guglielmo egli
guglielmo amava amava
egli guglielmo l
~ . et,., .. Qui
sono sei. amava
guglielmo egli guglielmo
egli amava guglielmo
amava egli Con
la serie 1.
2. 3. 4.
(coloro disprezzano grandemente
arrigo) le permutazioni
aumentano ancora. E
così di seguito.
Qui entra in
confronto col francese
dove è gran
penuria di permutazioni. Viene poi
a osservazioni particolari
circa la maggiore
o minore permutabilità
delle parti del
discorso. La preposizione,
p. e., è
indivisibile dal nome,
ma non così
dalla radice di
un verbo: onde
per meglio fare
ciò invece di
24 permutazioni ne
avrà solo dodici,
dovendo escluder quelle
dove il 2
è collocato prima
di 1. Qui ricorda
che il dépéret
(recherches philosophiques sur
le langage de
sons articulés, in
mém. d. l' ac.
des sciences de tur in,
années X-XI, 1803)
tratta un soggetto
affine al suo,
e il Dubos,
seguito dal Rollili,
che propose un
sistema musicale per
rappresentare cambiamenti di
voce diagnostici degli
affetti. Fatte alcune
osservazioni sulle pause,
conclude col notare
che nel campo
della sintassi del
periodo lo studio
delle permutazioni diventa immenso
(sfido io!), e,
ricordati i Principj
di grammatica generale
del De Sacy,
col far voti
che si compili
una grammatica italiana
migliore nella parte
sintattica. L'osservazione del
Muzzi che la
lingua italiana ha
il privilegio di
permutare straordinariamente le
parti del discorso,
è giustissima: ma
che I 2 2 I I 2 3 I 3 2 2 1 3 2
1 ò
1 3 1 2 3 2 1il fatto
possa dar luogo
a un sistema
di sintassi, a
una nuova sezione
grammaticale, è una
sua inappagabile pretesa.
La sintassi ha già
formato i suoi
schemi per comprendervi
tutte le possibili
permutazioni, ciascuna delle
quali, caso per
caso, vi ha la spiegazione.
Che cosa si
pretenderebbe col sistema
delle permutazioni ?
stabilire forse delle
altre categorie sintattiche
secondo le quali gli
elementi del pensiero
si potrebbero disporre
in un modo
piuttosto che in
un altro? che
ci fossero in
altre parole nuovi ordini
di mezzi espressivi
? Per altro
nel sistema perni utativo
del Muzzi, come
in quello musicale
da lui citato
del Dubos e del Rollili,
abbiamo una nuova
prova, se ne
avessimo bisogno, dell'arbitrarietà delle
categorie grammaticali e
sintattiche, che possono esser
diminuite e accresciute
e ex novo
costruite secondo il mag giore
e minore genio
grammaticale inventivo dei grammàtici
! Parve, alfine,
che la grammatica
auspicata dal Muzzi
spuntasse negli Elementi filosofici
per lo studio
ragionato dì lingua
proposti e dedicati
alla studiosa gioventù
delle Università d' Italia
da Mariano Gigli,
professore di scienze,
(/) che furono
infatti molto lodati
allora e dopo.
Anche il Gigli
comincia dal lamentare che
non vi fosse
ancora un libro...
come il suo:
un libro scritto
dietro la sola
guida del Buon-senso...
è una scienza
affatto nuova nella Repubblica
Letteraria . Veramente
un tal libro
poteva anche esserci:
la sua Lingua
filosofico-universale
(pubbl. a Milano
l'anno avanti), di cui questi
Elementi sono chiarimenti,
aggiunte e correzioni.
Uno de' miei
primari difetti ,
confessa con ironico
candore il Gigli,
è quello di
consultar la Ragione,
e non l'Uso.
Ecco che cosa
gli dice la
Ragione. L'uomo è
un essere sensibile
giudicante: in quanto
vive in società,
e ha bisogno
della parola, in
quanto, cioè, è
un uomo sociale,
è uomo naturale
parlante (p. 8):
u?iico dunque deve
essere il linguaggio per
ciò che riguarda
l'uomo naturale; molteplice per l'uomo
sociale. Avremo dunque
una filosofia di lingua,
e una grammatica
di lingua. Conoscendo
la propria lingua
filosoficamente, conosceremo
tutte le lingue,
e non ci
rimane che Milano. Non so
se sia tutt'uno
con essa l'altra
opera di Gigli,
La metafisica del
linguaggio. Scienza nuova
anche ' dotti
e pe' soli
di buon senso,
Milano.] applicarci allo studio
della grammatica di
ciascuna, per apprendere i
suoni e i
segni attaccati dalla
convenzione alle idee,
e poi V ordine
con cui si
succedono. Onesta conoscenza
si forma con
l'abitudine, e non
ci sarebbe bisogno
di grammatica. Ma
poiché ogni lingua
ha le sue
particolarità, il raccoglier
sotto regole generali
è far cosa
utile. Far dunque
la grammatica di
una lingua, è
formular quelle regole
generali. E facile
vedere che questa
nuova scienza di
Gigli è la
vecchia grammatica generale
caratterizzata con molte
inutili e imprecise
parole. Il suo
buon senso non gì'
ispira che complicazioni. De' giudizi,
p. es. (p.
27), distingue quelli
dazione e quelli
di qualità; ma
ogni giudizio esige
tre cose: r. L’oggetto, cardine
del giudizio'; la
parola, (verbo) voce
di giudizio ';
la voce, che
esprime ciò che
si attribuisce, '
attributo di giudizio
! Non miglior
pregio ha la
Grammatica della lingua
italiana di Bellisomi, autore
anche di una
Grammatica delle due
lingtie italiana e
latina per uso
dei Ginnasi della
Lombardia^) e di
una Introduz. alla
medesima. Sì l'ima
che l'altra furono
molto diffuse, ma
di notevole la
prima ha l'aver
abolito lo schematismo
della consueta grammatica:
poiché il contenuto esposto
in modo discorsivo
per via d'analisi
è su per
giù il medesimo. Un'osservazione è
degna d'esser ricordata
a onore del
Bellisomi: che i bamboli riescono a parlare secondo grammatica pur
non avendone coscienza,
e quando poi
si danno ad
apprender la grammatica,
ricominciano a sbagliare
! (prefaz.) Un
trattato... sul valore,
sulle proprietà e
sull'uso di alcune voci
e di alcune
frasi, un trattato
compiuto, quale sin
qui desideravasi, di sintassi e
di costruzione, un
trattato sul discorso
e sullo stile...
non pochi cenni
storici sull'origine e
sui progressi ('i
Ad uso delle
se. el. della
Lombardia, Milano. Milano. Milano.
Bellisomi ebbe una
lunga polemica grammaticale col Fantoni.
Cfr. Postille alle
osservazioni critiche di
I. Fantoni sopra
la prima parte
della gr. it.
e latina, Milano.
Del Fantoni, si
può vedere Risposta
al libro: Postille,
ecc., Brescia. Il F. critica il
B. coi principi
del Soave, del
Destutt de Tracy
ecc. La polemica getta non
poca luce sull'accaloramento onde
la grammatica generale era
trattata nelle scuole.] della lingua
italiana ... non
per gli uomini
scienziati e d'alte
lettere, ma per
i giovanetti con
istile semplice e
familiare vuole dare
Ziniglio Vianotti (cioè
Giovanni Ziliotti) con
le sue Lezioni
di lingua italiana
in seguito allo
studio della grammatica,
ma non riuscì
che a comporre
un zibaldone di
rettoricherie, di osservazioncelle di
grammatica (p. es.
questa, che il
che è la
congiunzione più importante),
di frasi (è
un italianismo presero
a fuggire). Il fervore
per la grammatica
come scienza era
venuto sempre crescendo:
forse non ci
fu mai per
questa disciplina un'
ammirazione, anzi un'esaltazione come
in Italia in
questo periodo, che
era in ragion
inversa della penetrazione
filosofica degli stessi
che la coltivavano.
Basta vedere la
Dissertazione storico -critico filosofica
di Antonio Adorni
intorno alle Grammatiche,
un ellogio, così
l'autore stesso la
chiama, della grammatica
e insieme un infelice
tentativo di spiegarne
l'origine, per rivelarne
l'antichità, in modo
da farla coincidere
con la stessa
sapienza dei libri
sacri, e esaltarne
la venerabilità indicando
non alla rinfusa,
ma promiscuamente dentro
le grandi epoche
(grecoromana, medievale,
rinascimento, tempi
-moderni) senz' alcun criterio,
i nomi degli
insigni scienziati e
filosofi che la
tratSecondo le vedute
di Cesarotti e Tiraboschi
che infatti non
fa che copiare.
Dobbiamo (ma non
è un gran
debito) allo Ziliotti,
oltre diversi compendi
e metodi grammaticali
anche per il
latino, La ortografìa
italiana citata al
tribunale della sana
critica, Padova, dove
arrossisce di vergogna
per avere tredici
anni addietro (coll'operetta portante
il titolo Ortografia
italiana, ovvero regole
per rettamente scrivere in
lingua italiana) mostrato
al publico come
ei pure la
pensava alla maniera
degli altri in
fatto di ortografia.
Come la pensasse,
s'argomenta ora dal
vederlo scrivere publico,
legere, add ungue, bacciarseli
! Padova. Pubblicò
anche: " Il
fanciullo istruito fin
dalla sua infanzia
in tutto ciò
che il può
risguardare'', Padova, 1817;"
Libretto di devozione pe'
fanciulli ", Vicenza,
1819; " Ortografia
italiana ovvero regole
per rettamente scrivere
in lingua italiana
", Padova (2a
ediz.) 1S24; '•
Introduzione alla grammatica
della lingua latina",
Padova. Guastalla, nella tipografia
di Gaetano Ferrari
e figlio, s.
a. (La ded.
è datata da
Sabbioneta. Una nota
nell'ultima pag., la 54,
dice: Dall'epoca in
cui fu scritta
la presente dissertazione, a quella,
in cui si
pubblica, la morte,
sempre ingorda delle
migliori cose, ci
rapì il sempre
memorabile Bodoni. tarono:
sicché neppur giova
come schizzo d'una
storia della grammatica,
quale un diligente
avrebbe potuto disegnare,
raccogliendo dai vari libri
de' grammatici dove
si ricordano i
nomi de' predecessori
. Tra le
lodi della grammatica
e lo sfogarsi
contro le autorità
che non elevano
alle cattedre gli
uomini veramente grandi (come
lui, certo, che
una n'aveva perduta
e per un'
altra si vide
posposto a un
ignorante di prete
che poi fu
la pietra dello
scandalo degli scolari),
egli, che pur
gli aveva prima
citati in onore
per averla coltivata,
trova modo, forse
per mostrarsi uno di
quei grandi, di
biasimare, perchè non
usavano del metodo
analitico, e l'Alvarez,
e il Despauterio,
e Salvator Corticelli
che modellò ,
e questo era
vero, il suo
corso Grammaticale sul gusto
di quel de'
latini , e
Francesco Soave ne'
suoi elementi di
lingua italiana, quando
volle ridurre a
sette le parti
dell'orazione, facendone una
sola delle sue
specifiche in natura
addiettìvo, e participio,
e in blocco
tant'altri, senza che
appaia se accetti
il sensismo benché
citi il Condillac
o il puro
logicismo. Non parliamo
della sua filosofia
del linguaggio: la
dissertazione s' apre
così. La lingua non
è, come alcun
tra filosofi opinar
volle, figlia dell'
uomo, ma figlia
dell'autore della natura; il
che prova in
nota con argomenti
infallibili. Un considerevole
tentativo eli costituire
un corpo organico
di scienza grammaticale è il termine
caro all' autore L'Adorni stesso,
a dimostrare che
neppure dal nono
e ottavo secolo
infìn ai tempi
dell'Alighieri non fu
come sembra offuscata
di tenebre densissime
la nostra regione
scientifica rimanda ai
documenti addottine in prova
dal celebre Cerretti
nella sua inaugurale
recitata nell'Aula Regia
dell'Università di Pavia
per l'aprimento de'
studi nell'anno millesimo
ottocentesimo quinto, p.
25. Nella quale,
peraltro, a me
non è riuscito
trovar nulla di
strettamente connesso col
nostro tema, come
avevo potuto supporre.
Notevole, invece, m'è
parsa una pagina
d'una lezione del
Cerretti sullo Stile,
dove illustra il
fondamento logico della dottrina
stilistica del Beccaria.
La considerazione delle parole
de' suoni diversi
e diversamente ricevuti
non è riguardata del celebre
Autore, che come
dipendenza della Grammatica: e
però prescinde dalla
stessa, o poco
almeno, e in
un solo paragrafo ne
parla ov'egli ragiona
dell'Armonia; e tutti
colloca i suoi
principj nell'Analisi delle
idee. Seguendo il
D'Alembert, il Cerretti
fa altre osservazioni
sulla chiarezza e
precisione grammaticale dello
stile. Instituzioni di
eloquenza del cavaliere
Luigi Cerretti modonese,
Milano, presso Giuseppe
Maspero] compì Romani di Casalmaggiore, un
matematico che insegnò
e fu preposto a
pubbliche scuole e
istituti educativi, e
tutto infervorato nel
proposito di rinnovare
' il linguaggio
grammaticale ' con
la grammatica filosofica.
Tranne alcuni opuscoli,
i suoi lavori
furono pubblicati postumi tra
il 25 e
il 27 nella
bella edizione delle
Opere complete fatta
dal benemerito Giovanni
Silvestri di Milano.
Ma all'ampiezza del
suo 'piano' e
all'entusiasmo onde attese a
eseguirlo e anche
alla larga informazione
della letteratura grammaticale
non corrispondeva certo
la profondità del
pensiero filosofico. Basterebbe
dire che il
Romani ammette tre
sorte di linguaggi,
uno grammaticale, per
' la manifestazione de'
pensieri', uno oratorio
per ' la
comunicazione degli alletti
', e un
altro poetico per
' la dilettazione
dell'udito; che ritiene
conservato in buono
stato quest'ultimo, un
po' meno il
secondo, assolutamente in
cattive condizioni il
primo, perchè mentre
per gli ultimi
due non occorse
una grammatica, essendo
bastata Son volumi
cosi ripartiti. Teorica de'
sinonimi italiani. Dizionario generale
de" sinonimi italiani. Osservazioni sopra varie
voci del Vocabolario
della Crusca. Teorica
della lingua italiana;
Vili. Opuscoli: Sulla
scienza grammaticale applicata alla lingua
Italiana (ed. Milano):
Mezzi di preservare
la lingua Italiana
dallasua Decadenza (ed.
Casalmaggiore, 1808); 3.
Sulla libertà della
lingua Italiana (ed.
Pesaro; Sull'insufficienza del Vocabolario
della Crusca al
servizio del linguaggio
filosofico Italiano per uso
delle Scienze e
delle Arti; Sopra l'origine,
Formazione e Perftttibilità della
lingua Italiana; Sulla bellezza
della lingua Italiana.
Il secondo di
questi opuscoli era
stato disteso per
la gara di
cui fu vincitore
il Cesari, ma
non fu presentato
al Concorso. Quanto fosse
profonda, non saprei
dire, perchè gli
autori li nomina quasi
sempre per indicare
se conobbero e
applicarono 'la scienza
grammaticale ', ma di
nome e genericamente
conosce quasi tutti
i principali greci
e latini, lo Scaligero
e il Sanzio,
i nostri, e
più particolarmente i logici
francesi. (:i) Che
nel linguaggio degl’affetti,
di cui si
valsero soltanto i
più rinomati Classici
di quel secolo,
si possa parlare
e scrivere senza
un piano meditato
di scienza grammaticale,
convengono tutti que'
filologi che riconoscono
tanto più naturali,
più energiche, più
vive e più
commoventi le produzioni
delle fantasie e
delle passioni, quanto
meno sono frenate
da leggi, e
da grammaticali regolamenti.
Fra i molti
moderni che sostennero
questa ragionevole opinione
si può particolarmente annoverare
il celebre Cesarotti.
l'imitazione degli scrittori
e poeti migliori,
per il primo
mancò quel mezzo:
la grammatica de'
nostri grammatici fu
compilata eoi lodevole
scopo di perfezionare
il linguaggio intellettuale
e filosofico, ma...
sventuratamente si sbagliò
nel mezzo acconcio
per riuscirvi: perchè,
invece di dedurre
le regole dai
legittimi loro fonti,
cioè dai principi
dell'Ontologia e della
Logica, ossia della
vera scienza grammaticale,
[i grammatici del
Cinquecento] le tirarono
materialmente dagli esempj
del linguaggio affettivo
degli scrittori trecentisti,
linguaggio che, prodotto
senza regole, non
poteva somministrar regole
certe ed opportune
al linguaggio istruttivo e filosofico
, e, di
contro al vantaggio
di procurar alla
lingua una t'orma
costante e generale
che pria non
avea , le
recarono però due
funestissimi danni: il
primo di aggravare
senza necessità il
linguaggio affettivo di
regole e l'altro di
privare il linguaggio
intellettuale di tutti
quei canoni, e
ragionato metodo, di cui
abbisognava per giungere
alla sua perfezione.
Onde la necessità
della scienza grammaticale,
che, se ha
nella parte teorica
la dottrina ontologica
a comune con
la Logica, nella
parte pratica non
è però la
Logica. L 'arte della
Logica ha per
fine la rettezza
e la verità
dei pensieri, senza
punto curarsi del
modo o dei
mezzi di esprimerli;
la Grammatica ha
per iscopo la
rettezza e la
verità dell' espressione, senz'incaricarsi dell'esame,
se i pensieri
che debb'esprimere siano
consentanei alle regole
logiche; secondo la
logica i pensieri
sono retti e
veri, quando sono
conformi all'ordine naturale delle cose;
secondo la Grammatica
le espressioni sono
rette e vere,
quando con precisione
riportano i pensieri
nello stesso modo,
estensione, limiti e
stato, con cui
sono concepiti d e
filosofico , e,
di contro al
vantaggio di procurar
alla lingua una
t'orma costante e
generale che pria
non avea ,
le recarono però
due funestissimi danni:
il primo di
aggravare senza necessità
il linguaggio affettivo
di regole e
l'altro di privare
il linguaggio intellettuale
di tutti quei
canoni, e ragionato metodo, di
cui abbisognava per
giungere alla sua
perfezione. Onde la
necessità della scienza
grammaticale, che, se
ha nella parte
teorica la dottrina
ontologica a comune
con la Logica,
nella parte pratica
non è però
la Logica. L 'arte
della Logica ha
per fine la
rettezza e la
verità dei pensieri,
senza punto curarsi
del modo o
dei mezzi di
esprimerli; la Grammatica
ha per iscopo
la rettezza e
la verità dell'
espressione, senz'incaricarsi
dell'esame, se i
pensieri che debb'esprimere siano
consentanei alle regole
logiche; secondo la
logica i pensieri
sono retti e
veri, quando sono
conformi all'ordine naturale delle cose;
secondo la Grammatica
le espressioni sono
rette e vere,
quando con precisione
riportano i pensieri
nello stesso modo,
estensione, limiti e
stato, con cui
sono concepiti dalla
mente, senza incaricarsi
della logica verità
o falsità di
essi; mentre la
parola debbe essere
fedele e precisa
nel riferire i
pensieri della mente tanto
retti che obliqui,
tanto veri che
falsi. Ma siccome il
principio della differenziazione dei
linguaggi è il
fine per cui
si parla, si
ammettono i così
detti linguaggi degli
amanti, dei furbi,
dei legisti, dei
romanzisti ecc. .
Introduz. alla Teorica. Invece di
fermarmi e criticare
queste vedute, rimando
alla discussione fatta
dal Croce sui
rapporti tra Logica
e Grammatica quali
li aveva stabiliti
lo Steinthal col
famoso esempio della
tavola 444 Storia
della Grammatica His
fretus, ovvero su
questi bei fondamenti,
per dirla col
Manzoni, il Romani
si fece a
compilare un Dizionario
di sinonimi, a correggere
la Crusca e
a fabbricare una
nuova Grammatica generale italiana,
che diceva anzi
mancare all' Italia,
anche dopo i
tentativi del Venini,
del Yaldastri e
del Soave, in
due sezioni, Teorica
e Pratica, eseguendo
però solo la
prima; non solo,
ma perchè, insomma,
la scienza grammaticale
penetrasse tutti i meandri
della vita scientifica
della nazione, propose che
una sezione dell'Istituto
Nazionale, composta di
profondi Grammatici filosofi e di Ontologisti,
si occupasse della
redazione delle teorie
e regole di
Grammatica generale dedotte
dai principi di
naturale Ontologia, un'
altra, alla dipendenza
della prima, stabilisse
le regole certe
e immutabili di
pratica attuazione, entrambe compilassero
un completo Dizionario
italiano al sol
servizio del linguaggio
filosofico; fosse poi
esteso a tutte
le Scuole elementari
e Licei dello
Stato lo studio
della Grammatica ragionata di
nostra lingua; i
testi di lettura
fossero scelti tra
quegli autori didascalici
che scrupolosamente si
attennero ai termini
adottati nel nuovo
Dizionario, ed alle
Regole stabilite nella
Grammatica ragionata; che
si accettassero per
maestri solo quelli
che per esame
avessero dimostrato di
conoscere appieno rotonda:
La Critica, ‘QUESTA TAVOLA
ROTONDA È QUADRATA [tautology – contradiction]. A Romani
s'attaglia assai bene
tutto quanto osserva
qui Croce, perchè
egli è veramente
uno di quei
grammatici che, se
par limitarsi a
scrivere sulle pagine
elaborate secondo le
sue regole: Videat
logicus, videat aestheticus,
poi passa dal
campo empirico al
filosofico, da costruttore
di tipi astratti
a giudice di
realtà concreta e
viva. Anzi va
tanto in là
da esclamare seriamente:
che di grammatica
e di regole
possa esentuarsi il
linguaggio dell'intelletto, del
raziocinio, della ragione,
è il punto
che io non
posso accordare, uè
accorderò giammai al
prefato oppositore, giacché
io sono pienamente
convinto che, per
esprimere con precisione,
e con chiarezza
i nostri concetti,
per manifestare con
rettitudine i nostri
giudizi, per coordinare,
e regolarmente legare i
nostri raziocini, per
esporre metodicamente e
sinteticamente i nostri ragionamenti,
siano indispensabili tutti
que' canoni, e
tutte quelle cautele
che ci somministra
la Scienza grammaticale.
E finisce col
far tutt'uno della
Logica e della
Grammatica, come anche si
vede dal fatto
che nella sua
Teorica della lingua
italiana, elabora di
proposito la dottrina
delle Argomentazioni, dichiarando questo,
dominio della grammatica.
V. qui tutto
il brano che
abbiam riportato sulla
degradazione della grammatica.] le
scienze grammaticali; che
a tali prove
fossero sottoposti anche
gli ufficiali dello stato
incaricati di redigere
atti pubblici. Con tali
mezzi io sono
pienamente persuaso che
la Lingua italiana
non solo potrà
esser sollevata dall'
attuale sua decadenza,
ma potrà esser
inoltre preservata per
molti secoli da
qualunque degradamene o degenerazione. Un
vero infatuamene
grammaticale. Senz'indugiarci a
considerar da vicino
come abbia eseguito
i suoi '
piani ' il
nostro ardente grammatico,
dirò soltanto che
se egli non
sostiene che ci
sia una visione
grammaticale delle cose,
concepisce però la
grammatica come una
rettorica (scienza [Il principio
fondamentale onde si fa a
svolgere la sua
Teorica è il
seguente: Secondo le
parole unicamente destinate
alla manifestazione de' nostri
pensieri e delle
affezioni nostre, debbono
necessariamente le lingue essere
fornite di tante
sorte di parole,
quante sono le
diverse operazioni della
mente nostra, perchè
ciascuna di esse
sia adeguatamente e
distintamente rappresentata da
appositi segni. Così
vediamo sorgere le
categorie grammaticali, non
solo, ma tutte
le varietà formali
di esse, tutti
i valori vozionali
(p. es. -orio
acquista nozione d'istrumento
o di località
quando s'accoppia a
una radice: aspersorio,
dormitorio). Cosi, poiché
le nostre nozioni
sono riducibili a
dodici classi capitali,
cioè: Sostanze; Proprietà;
Qualità; Affezioni; Potenze;
Forme; Relazioni; Quantità; Tempo; io.
Luogo; Stato; Moto,
la genealogia de’nomi
viene a esser
la seguente. Nomi Attributivi
Propri Qualitativi Affettivi Formali Potenziali Sostanziali Relativi Comparativi
Qualitativi Quantitativi Occasionali Temporali Locali Statari Motivi CON QUESTO
PROCEDIMENTO SI CREA TUTTO IL LINGUAGGIO intellettuale. Schematizzandolo in
un vasto quadro,
dove l'occhio potesse
tutto comprenderlo, ognuno dispererebbe
di mai parlare.
E dire che
tutta questa brava
gente di grammatici
logici universali, dello
stampo del Romani,
credevano ciecamente nel
loro sistema, senz'accorgersi che
essi parlano egualmente benissimo
e scriveno con
altrettanta facilità, nonostante
che ritenessero non
ancora venuto il
regno della grammatica RAZIONALE FILOSOFICA universale.] d'un'arte chiama
la scienza grammaticale,
e arte la
logica), come una
rettorica della logica,
ossia, per l'appunto la
scienza della tavola rotonda
che è quadrata,
e questo solo,
non anche l'estetica
di una poesia,
che avrebbe per
tipo i versi
celebri, grammaticalmente e
metricalmente impeccabili –
Colourless green ideas sleep furiously. Pirots karulise elatically. C'era una
volta un ricco
poveruomo, Che cavalcava
un nero cavai
bianco; Salì scendendo
il campami del
Duomo, Poggiandosi sul
destro lato manco.] perchè affetti e
suoni, per designar
col termine di Romani
il mondo dell'arte,
le creazioni della
fantasia, son fuori,
non avendone bisogno,
della sfera dell'arte.
Quella che era
stata in CESAROTTI (si veda) una
confusa intuizione del
carattere fantastico del
nostro pensiero, diventa
nel suo scolaro
un insanabile dualismo,
per cui da
una parte si
ha un linguaggio
grammaticale – Colourless green ideas sleep furiously – Pirots karulise
elatically --, dall' altra un
linguaggio agrammaticale (oratoria
e poesia). Un vero
regresso, dunque, rappresenta
questo punto di
vista del Romani,
non pur verso
i grammatici logici
dell'Enciclopedia, ma verso lo
stesso Cesarotti; e
il suo apostolato
ebbe infatti scarso
successo. Giandomenico Nardo
("), che fu
chiamato ' l'ultimo de'
cesarottiani ', lamentava
molti anni più
tardi che gli
scritti di Romani
non fossero studiati
abbastanza; ma, per
ripetere un arguto
giudizio del Mazzoni,
quella era troppa
filosofia, troppa fidanza,
cioè, nel raziocinio,
e troppa noncuranza invece dell'osservazione diretta
sull'uso corrente. Fantastica anche ROMANI una
sua lingua universale;
e così crede, senza
accorgersene, che pur la lingua
nostra si potesse
dipanare via via
a fil di logica dalla
matassa d'una teoria.
Quanto aveva di
ragione, e non
è da negare
che ne avesse,
contro la Croce, in
La Critica. Pubblica
Osservazioni sopra alanti
recenti vocabolari metodici
della lingua nostra
(Rambelli, Carena, Barbaglia,
ecc.), e, come
appendice a una
raccolta di suoi
studi, uno scritto
Sui mezzi indicati
da M. Cesarotti
per avviare l'italiana
favella alla desiderata
perfezione. Prese dal
maestro, osserva il
Mazzoni (L'Olt.), l'idea
buona e in
qualche parte la
praticò, dei vocabolari
dialettali. Si ricordi
l'espediente praticato e
suggerito dal Cesari
circa l'uso del
dialetto (Disser/az., verso
la fine) per
l'apprendimento della lingua,
e la proposta del
Manzoni. Crusca d'allora,
non bastava a
dargli vittoria siffatta
da costituire lui quasi
supremo legislatore, in
nome della Ragione,
sulle grammatiche e
sui vocabolari presenti
e futuri. Era
troppa filosofia per
gli stessi continuatori
di quell'indirizzo. Vanzon nella
sua Grammatica ragionata della
lingua italiana • C
), dove pur
dichiara di aver
seguito un punto
di vista ornai
comune appo le
nazioni più colte
d'Europa, vuol prender
una via di
mezzo distruggendo parte delle
preoccupazioni degli scolastici
e parte accettando
delle filosofiche dottrine
. Infatti, tranne
che per le
definizioni, dove versa
discretamente lo spirito
ideologico, vi segue
i principali grammatici
empirici dal Salviati
al Buonmattei al
Corticelli, attenendosi per
le autorità ai
padri della lingua,
con molte liste
alfabetiche di esempi
e molti esercizi.
Il Calchi nella prefazione
alla terza edizione
della sua Grammatica ragionata della
lingua italiana, dichiarava
d'aver compilata otto anni
avanti una Grammatica
elementare maggiore per
un Corso di
studj, coli' intento
di applicare bensì
la teorica generale del
linguaggio alle regole
proprie e particolari
della nostra favella,
ma non d' inoltrarsi
soverchiamente nelX
ideologiche astrattezze per
non correr pericolo,
invece di aiutare, di
confondere la mente.
Codesta Grammatica infatti, che
tien conto dei
grammatici francesi allora
in voga, il
Tracy e il
Condillac, e i
nostri sia logici
(Vanzon, Valdastri, ecc.)
che pratici (Buonmattei,
Ambrosoli, ecc.), riesce
a un lodevole
contemperamento di filosofia
e di empirismo,
quale era consentito
dai tempi. Anche
vi è ristabilita
quell'antica armonia delle varie
parti della grammatica
{ortologia, etimologia, costruzione,
ortografia, prosodia e
versificazione) che è
stata poi ripresa
modernamente: e alla
grammatica moderna, p.
es. a quella
del Morandi e
Cappuccini, rassomiglia per
aver trattato dell'uso
delle varie parti
del discorso nella
sezione dell'etimologia, di volta
in volta, piuttosto
che nella sintassi.
Il ragionato in
questa Grammatica si
riduce alle dichiarazioni
logiche delle singole
categorie e degli
accidenti grammaticali e
alle dilucidaMazzoni. Livorno. La
prima edizione, esaurita,
dice l'a., in
breve tempo, voleva
essere un' 'Esposizione grammaticale
al suo Dizionario
universale.] zioni delle regole
dell'uso delle varie
parti del discorso. C'ingegneremo di determinare... le
ragioni di esse
regole: né solo
in questa, ma
anche in ogni
altro che verrà
dietro a ciascuno
de' Capitoli successivi,
giacché se una
lingua deve avere
Yuso per base,
come dice il
Cesarotti, V esempio per
consigliere, deve parimenti
avere, sempre che
può, la ragione
per guida. Abbonda
invece di esempi,
che sono tolti
da approvati scrittori
d'ogni secolo, e
di paradigmi. Anzi
in un punto
egli si scusa
di far di
questi un uso
troppo abbondante, più
conveniente ad un
Manuale della lingua
che ad una
Grammatica. Non si
creda peraltro che
il fervore per
la grammatica generale accennasse a
intiepidirsi, anzi si
seguitavano a tradursi
anche gli autori
francesi, perchè fossero
ancor più popolari,
come il Girard
(2). Anzi, ideologia
logica e grammatica
seguitavano a viver
congiunte, come già
ai tempi del
Venini, del Valdastri
e del Soave,
non pur ne'
libri, sì bene
anche nell'insegnamento universitario. A Torino, Bona
inaugurava appunto il
corso di Grammatica
generale con una
lezione proemiale, in
cui, delineando i
concetti fondamentali ed il metodo
di questa disciplina,
diceva: " Poniamo
innanzi tutto che
la cognizione della
Grammatica generale, o
vogliamo dire la
cognizione scientifica dei
principi generali ed
immutabili delle lingue,
bene si può
altrimenti ottenere che
dalla cognizione dei
materiali elementi dei
singoli idiomi e
dal paragone dei
medesimi tra di
loro per discernere
in essi lo
assoluto dal contingente,
lo universale dal
particolare, l'uso dal
diritto... Le leggi
fondamentali del discorso può
l'uomo conoscerle parimenti
per mezzo della
riflessione, rivolgendo la
sua attività intellettiva
all'analisi dell'elemento spirituale
del linguaggio, astrattamente
dallo elemento formale del
medesimo. L'analisi filosofica
del pensiero può
guidare eziandio allo
scopo; questa anzi
deve precedere ogni
Grammatica ragionata della
lingua italiana proposta da Caleffi già
pubblico professore di FILOSOFIA. Terza
edizione fiorentina. Firenze,
a spese dell'Editore. Dell’insegnamento ragionato
della lingua materna
nelle scuole e
nelle famiglie. Trad.
di A. Pace,
Torino. La Grammatica generale
del conte Destutt
de Tracy era
stata tradotta dal
Compagnoni, Milano.] cosa, olii
vuole scientificamente risolvere
i diversi problemi
della teoria dell'umano
linguaggio e conoscere
le leggi fondamentali. Che più
? Non soltanto
fu l' ideologia applicata
alle grammatiche delle varie
lingue, non escluse
quelle comparative (una
Grammatica ragionata italiana
ed ebraica (2)
aveva pubblicato fin
dal 1799 Samuel
Romanelli), ma perfino
anche ai trattati
d'altre arti diverse
dalla parola, e
avemmo così anche
una vera e
propria Grammatica ragionata
della musica considerata
sotto l'aspetto di
lingua (3), fondata,
come l'autore stesso,
Balbi, dichiara sui
principi e le
grammatiche del Tracy,
del Soave e
d'altri (p. 33).
Vero è che
spesse fiate, nell'impresa
di stabilire le
rispondenze
logico-grammaticali tra la
lingua musicale e quell'articolata, è
forza confessare al
nostro autore, mi
si paravano dinanzi
delle difficoltà ed
imbarazzi non piccoli,
allorché mi mancava per
esempio qualche parte
da poter confrontare, ove qualche
altra invece mi
sopravanzava; ma, convinto
dell'identità del principio
logico generatore de'
due modi d'espressione, egli
comincia impavido a
trattar delle parti
costituenti il discorso
musicale e via
via, per tutte
le categorie, considerate
in tutti i loro accidenti
del genere, del
numero, del caso,
ecc., del soggetto,
dell' attributo, della copula,
dell' avverbio, dell'
interposto, della congiunzione,
della preposizione, arriva
fino alla sintassi,
riguardata ne' suoi
mezzi di costruzione,
declinazioìie e creazione
di legami e
riposi (punteggiatura) destinati a
marcare le relazioni
delle altre parti
. E ben
facile rappresentarsi il
contenuto d' un
tal libro; pure gioverà aggiungere qualche esempio.
Il soggetto è,
così, il tono
o modo, vera
sostanza di qualunque
pensiero musicale; V
attributo è la
qualità del tono, scelta
del tempo, indicazione
del movimento, posi- [ZOPPI (citato da VAILATI), LA
FILOSOFIA DELLA GRAMMATICA: studi e memorie
di un maestro
di scuola, La Sapienza,
Unione tipografica-editrice, dove
Bona è citato
così: Boxa, Lez.
proem., Torino, 1847,
P9"IO> cit. dal
Pezzi nella Introd.
allo, studio della
scienza del linguaggio,
Torino. Con trattato, ed
esempi di poesia,
Trieste, Dalla Ces.
Reg. Privil. Stamperia,
Milano, Ricordi. I capitoli sono
stati pubblicati già dall'a.
stesso per Nozze
Treves-Todros e Todros-Treves, a
Rovigo, A. Minelli] zione,
intensità, carattere dei
suoni; il verbo
è la disposizione,
X ordine, delle espresse
o sottintese basi
fondamentali formanti la
cadenza, il di
cui officio è
appunto quello (al
dir del Tracy)
di svolgere le
due idee presentate
dal tono, e
carattere o qualità paragonabili al
soggetto ed ali 'attributo. Siccome
poi, in fatto
di lingua, altro
verbo non esiste,
che l'Essere, derivante
dal suo participio étant
(rozzamente essente) così
nella sola cadenza semplice tonale,
consiste la vera
essenza copulativa o
copula; e giacche qualunque
altro verbo non
può essere che
un composto del
sottinteso essere aggiunto
ad un attributo,
così anche qualunque
altra cadenza non
potrà essere che
composta della tonale
aggiunta a qualche
altro attributivo accordo,
o cadenza in
qualsivoglia maniera, od
espressa, o sottintesa.
Ecco quindi ciò
che forma la
proposizione musicale, che
noi chiameremo pure
col solito titolo
di periodo, canto,
pensiero, motivo, frase,
ecc., a secondo
di quello che
si tratterà, quando
daremo gli elementi
della composizione. Medesimamente
il Balbi vi
parlerà di costruzione
diretta e inversa,
della necessità che Y
aggiuntivo si concordi
col sostantivo, sì
nel numero, come
nel genere e
nel caso, e
perfino del punto
ammirativo e interrogativo! Ma la
cosa è perfettamente
naturale: ammesso che
si possa, per
ragioni pratiche d'apprendimento e
d'altro, sottoporre l'espressione artistica a
un processo di
elaborazione logica, le
categorie grammaticali anche della
musica sorgono immediatamente d'incanto, e
non c'è nulla
da ridire: anzi
si può osservare con
qualche compiacenza il
loro meccanico sorgere
anche fuori del campo
strettamente linguistico. V'ha
di più. Quel
solo porre il
problema di una
grammatica ragionata della
musica considerata come lingua
in tempi di
logicismo e purismo
linguistico, anche se
il criterio assunto
per risolverlo era
quel medesimo di cui si
serviva la grammatica
filosofica, poteva valere
come un suggestivo
richiamo a una
considerazione meglio che
intellettualistica dell'espressione
in genere, potendosi
avvertire in quell'equazione di un
prodotto creduto facilmente
logico e di
un altro di
evidentissima natura artistica
una comunanza più
intimamente spirituale di competenza
dell'estetica meglio che
della logica. Pochi anni
avanti aveva vista
la luce un'
' Opera postuma
di POGGI (si veda) su La scienza
dell'umano intelletto,
ovvero Lezioni a" ideologia di
grammatica di logica. L'opera,
come s'argomenta dal titolo,
è divisa, dopo l’Introduzione, in
tre parti: Della ideologia;
Della Grammatica, e Della logica. POGGI (si veda) è un
condillachiano, e quello
di Condillac è,
se non isbaglio,
l'unico nome che
citi nel suo
grosso volume. Ma, qua
e là, come
a proposito di
metafore e termini-cifre
e di lingue
emblematiche e dipinte
e alfabetiche ecc.,
indica anche un'
influenza, non direi
vichiana, ma cesarottiana.
Parte, appunto, anche
lui dalla istituzione
delle lingue artificiali,
e con la
percezione, i bisogni,
l'utilità, la brevità,
svolge tutta la
dottrina delle categorie
grammaticali e de'
loro accidenti e
poi della sintassi
di costruzione, di
reggimento, di concordanza.
Le prime articolazioni
furon pronunziate per
significare sensazioni
riportate ad oggetti
esteriori: un' interiezione,
dunque, e un
nome bastarono a
esprimere qualunque sensazione.
In ogni interiezione,
in ogni nome
è contenuta un'intera
proposizione. Poiché un' idea
qualunque non è
propriamente che il
risultato di una
sensazione, ne segue
che tutti gli
altri elementi del
discorso non servono ad
esprimere veruna idea
intera e completa,
ma bensì soltanto
delle modificazioni, e
dei rapporti fra
le nostre idee.
Tutto il macchinismo d'ogni
lingua parlata è spiegato
con questo principio:
i verbi, gli
aggettivi, le proposizioni,
le congiunzioni, e
tutte le variazioni
de' nomi e
de' [Firenze. A
spese degli editori
[i figliuoli Poggi], .
Precedono Cenni biografici.
(*) In XXI
lezioni, con un'
Appendice sul l' Idea della
metafisica scolastica. In
due sezioni (lezioni) Della
grammatica: Del PRIMITIVO LINGUAGGIO umano; Degli
elementi del discorso
in qualsivoglia lingua artificiale;
Seguita l'analisi del
discorso; Osservazioni
sull'analisi precedente, massime
intorno al Verbo;
Delle variazioni a cui soggiaciono
gli elementi del
discorso; Dei verbi
ausiliari, irregolari, e composti;
Degli aggettivi di
quantità e di
numero. (lezioni): Della
sintassi; Del reggimento,
e delle altre
condizioni della sintassi;
Di una lingua
dipinta, delineata, o
scritta; Di una
lingua scritta per
caratteri, ossia della
scrittura volgare; Dell'ortografia; Delle
parole aventi più
di un significato,
dei sinonimi, dei tempi
e delle figure
grammaticali. (lezioni): Del
Raziocinio; Delle proposizioni,
e delle varie
forme d'argomentazione.] verbi, si
sviluppano da esso.
V? avverbio e il
participio non sono
vere categorie, perchè
l'avverbio si compone di una preposizione, di un
sostantivo e di
un adiettivo, e
il participio è
una specie di
nome verbale aggettivo.
La cosa è
molto facile: e
perciò, invece di
seguir il nostro
intrepido dipanatore del
linguaggio nella sua
dimostrazione, la lasceremo
immaginare a chi
vuole. Mi piace
invece richiamar l'attenzione
sull'espediente adoperato
dal Poggi per
dar l'idea della
sintassi. Si ricorderà che
il Croce per
mostrare come i
logici hanno cavato
dall'espressione i generi grammaticali,
ha portato l'esempio
d'una pittura che
rappresenti un individuo che
cammina per una
certa via campestre,
e alla quale
corrisponde la frase:
Pietro cammina per
una via campestre.
Come elaborando logicamente
quella pittura si
ottengono i concetti
di moto, azione,
ente, del generale,
dell' individuale, ecc., così
elaborando col medesimo
procedimento quella frase,
si ottengono i
concetti di verbo
(moto o azione), di
nome (materia o
agente), di nome
proprio, di nome
connine ecc., che
pei grammatici sarebbero
le parole, le
espressioni di quei concetti,
ripassando illecitamente dal
logico all'estetico .
Orbene, il nostro
si serve del
medesimo esempio della
pittura per elaborare,
con poca esattezza,
però, non solo
le categorie grammaticali,
ma l'ordinamento, la
sintassi onde vengono a
intrecciarsi armonicamente per
la perfetta espressione
del pensiero. Val la
spesa di riportar
questo brano, senz'altro
dire. Se vi
fate a osservare
un dipinto in
cui siansi per
esempio ritratte varie
figure umane, voi
tosto vedete nel
tutto insieme di
ciascuna figura il
primo elemento di
ogni discorso, cioè
il nome: se
paragonate una figura
coll'altra, vi scorgete
delle differenze
caratteristiche, onde una
si discerne dall'altra;
analizzando queste
differenze vi risultano
delle proprietà ovvero
degli attributi che
voi distinguete egualmente;
ed ecco il
secondo elemento del discorso
che diciamo aggettivo,
mentre aggiunge alcun che
all'idea rappresentata dal
nome: se vi
fate a riguardare
accuratamente le fisonomie,
gli atteggiamenti, e
gli atti delle
figure medesime, scorgete
eziandio le passioni
e gli affetti,
onde sono animate,
dal che scaturisce
il terzo elemento
d'ogni lingua che
appellasi verbo; imperocché
quelle attitudini non
esprimono che i bisogni, le
tendenze, le avversioni
o i desiderj
dei perso- [Est.] naggi ritratti:
infine non esprimono
che le attuali
modificazioni del loro
essere: procedete all'analisi:
osservate come una
figura stia nel
quadro rispetto all'altra,
come gli atti
o i gesti
di questa si
rapportino agli atti
o ai gesti
di quella; poiché
siasi voluto rappresentare
un fatto od un'
azione principale con
altre secondarie ed accessorie;
finalmente in qual
modo tutte quelle
figure, e tutte
quelle attitudini si
leghino insieme, onde
esprimere in complesso
il concetto del
pittore, e voi
scorgete che questi
rapporti e queste circostanze
tengon luogo delle
preposizioni e delle
congiunzioni: mentre esse
isolatamente prese nulla
significano, anzi non
sono nulla, ma
guardate in complesso
nel tutto insieme
del quadro, servono
a determinare, dichiarare
e completare l'idea
principale o il
soggetto della dipintura.
Ora, fermandoci all'addotto
esempio, è altresì
facile il comprendere
che intanto il
concetto del pittore
si manifesta, e
passa nella mente
dell'osservatore, in quanto che
le parti elementari
del dipinto sono
collocate e disposte
in una certa
guisa e con
determinato ordine fra
loro: dal che
dipende la pronta
e chiara intelligenza
del soggetto, ossia
dell'azione principale non
meno che delle
accessorie; di tal maniera
che, se quelle
figure, quegli atti,
quegli emblemi o segni
caratteristici e quelle
mosse si travolgessero, o
confondessero, non avremmo
più espressa intelligibilmente l'idea
del pittore. Questa
collocazione e disposizione
di parti, è
appunto quella che nelle
lingue chiamasi sintassi,
la quale voce
significa ordinamento. Ma non è prezzo
dell'opera il fermarsi
sulle colluvie di
grammatiche ragionate grosse
e piccole che
innondò le scuole
italiane nella prima
metà del secolo
decimonono: sarà già
molto che ne
diamo qui un
elenco, s'intende, imperfetto.Neppur Dove
ho messo questi
puntini, è il
seguente periodo: E
qui cade in
acconcio una bella
e giusta osservazione,
ed è questa,
che l'arte della
pittura fin che
non seppe ritrarre
le affezioni e
i movimenti dell'animo, non
fu che un
linguaggio assai imperfetto,
come quello che
mancava di segni
atti a significare
le modificazioni dell'essere, e quindi
pur anche le
vere relazioni e
i legami di
un affetto o di
un'azione coll'altra e
quindi il dipintore
non potea esprimere che
in parte soltanto
i proprj concetti:
né tampoco imprimere
alcun carattere marcato
e distinto alle
sue figure. (?ì
Martinelli Gius., Modo
per agevolare la
cognizione e l'uso
della lingua toscana,
Venezia, 1800 (Divide
la lingua in
parecchi gèneri di
materie, ciascuno comprendente
parecchie spezie, ai
quali corrispondono vocaboli
proprii e figurati
e maniere di
favellare: è una
fraseologia metodica). Placci
M. F. Gius,
(professore di fisica
nel r. Liceo
di Fermo), Sul
meccanismo della pronuncia
?iella lingua italiana
Osservazioni Vicenza (L'a. dichiara
di essersi giovato dell'opera del
sig. di Kempelen
e di alcune
altre. Il nostro
pensiero va naturalmente
al De Brossei.
Zanotti Fr., Elementi
di grammatica volgare,
Milano (È un opuscolo
in cui s'insegna
tutta la grammatica
compresa la sintassi,
compresovi un discorso
sulla lingua). Brambilla Carminati
Dom., Introduzione alla
grammatica di Soave ossia
Elementi delle due
lingue italiana e
latina, Venezia (ma riguarda
più particolarmente il
latino). Libro di
lettura e Introduzione
alla grammatica italiana
per la classe
II delle scuole
Elementari, Venezia. Franscini Stef.,
Grammatica inferiore della
lingua italiana, Milano, per
la III classe
elem. (compilazione elementare,
ma intonata al
la filosofico). Omezzati Andr.,
Grammatica elementare della
lingua italiana, Mantova.
(Nella prefaz. cita
la dotta grammatica
del Soave, e
le due del
dottissimo Bellisomi, dove
colla più profonda
sottil metafisica ecc.
è porto il
più grande aiuto,
anzi è arato
tutto il campo.
Incomincia al solito
col domandare: Che
cosa è la
grammatica? Che cosa
intenderò per sillaba?). Alcuni cenni
di grammatica comparata
delle lingue italiana
e latina ad
uso della gioventù
con Corollari della
grammatica di Tracy,
di G. B.
D., Padova (Con
l'esempio di alcuni
casi l'it. essere
si costruisce come
il lat. esse,
e i casi
vi sono tanto
in it. che
in lat. dimostra
che si deve
insegnare la grammatica
delle due lingue
e d'altre lingue
parallelamente per eliminare,
anzi per non
creare difficoltà. Vi si cita
il Tracy, che
insegna che una
lingua è migliore
quanto essa più
segue l'ordine naturale
nella costruzione .
Ma il Tracy
ci sta proprio
a pigione. È
notevole, peraltro, per
l'indirizzo che parrebbe
un trovato moderno.
E già questo
ha la barba
lunga !). Elementi
della lingua italiana
ad uso delle
scuole, Milano. Fontana Ant.,
Grammatica pedagogica
elementare italiana, Brescia. Il
fanciullo parli pure
la sua lingua;
e tu gli
mostra quindi come
il detto traducasi
facilmente in Italiano;
scrivi la traduzione
sulla tabella; ed
il fanciullo lo
legga e lo
rilegga, e lo
venga poi ripetendo
dopo che dalla
tabella è cancellato.
Anche l'esercizio delle
traduzioni dialettali si
vorrebbe far passare
oggi per una
novità; mentre il
Fontana ha predecessori perfino nel
Cinquecento!). Iaklitsch Gius.,
prof, a Trieste,
Principi elementari della
lingua italiana, Milano (Distingue la lingua
in generale e
verbale. Le vocali
sono propriamente l'armonia
della voce verbale,
che al suono
della lingua dà
l'amenità e la
soavità del canto;
le consonanti all'incontro
sono più il
carattere distintivo delle
idee per mezzo
delle quali le
parole acquistano e
significato e
intelligibilità, come: colto,
conto, corto, costo,
ove si può
dire che le consonanti /,
//, r, s
della prima sillaba
sono propriamente i segni
caratteristici del significato
delle parole, e
la sillaba è
soltanto una sillaba
derivativa, la quale
modifica il significato
se Capitolo quattordicesimo 455
rondo che cambia
la sua vocale
come pasta, pasto
p. 9. Qui
la filosofia e l'etimologia
a cavallo del
De Brosse galoppano
mirabilmente all'indietro). Visconti
Kr.. Riflessioni ideologiche
intorno al linguaggio
grammaticale dei popoli
colti, Milano, Non sono
propriamenUuna grammatica, ma
contengono dilucidazioni su
ogni categoria grammaticale,
secondo le vedute
delle grammatiche filosofiche, delle quali
l'a. dichiara d'essersi
giovato. Se non che la
grammatica filosofica mi par
che vi sia
trattata a rovescio,
di mostrandovi si
non come sorgono
le categorie grammaticali,
ma come si
sciolgono nelle loro
varie accidentalità. Degli
aggettivi fa sei
categorie, l'ultima delle
quali è come
la pentola in
cui la locandiera
getta il residuo
di vari cibi,
per farne una
qualche vivanda destinata
alle mense dell'indomani. Le precedenti
sono in quella
vece come il
pollo fresco, l'arrosto
ecc.). Scienza della
parola toscana, p.
I., Le diritte
parole della lingua,
Torino. Malvezzi Grammatica nuova
italiana, Milano. Cogo Pietro,
Grammatica italiana
popolare, Padova. Cora
Gius., Nozioni fondamentali su
tutte le parti
del discorso ordinate
ad agevolare la
intelligenza delle prime
scuole della sintassi
italiana e latina,
Venezia (Sono 373 nozioni.
Lo studio logico
deve incominciare quel
giorno stesso in
cui il maestro
comincia le sue lezioni, e
terminare l'ultimo di
dell'insegnamento. Sappiamo dai
filosofi e sopra
tutti dal celeberrimo
ab. di Condillac
che il perfezionamento del
linguaggio e del
pensiero devono proceder
di egual passo.
Fezzi Gius., Tentativo
teorico-pratico per f
insegnamento delle due
lingue italiana e
latina. Guida all'analisi
ed alla pratica
composizione del discorso
applicato alla lingua
italiana e proposta
come primo fondamento
dell'arte del tradurre e del
comporre nelle classi
di grammatica, Cremona Dichiara che
quest' operetta è un sunto
de' sommi predecessori
Soave, Romani. Biagioli,
Ambrosoli ma. specialmente,
Bellisomi e Fontana,
de' quali si
dice discepolo, mutati
solamente l'ordinamento e
l'esposizione della materia
e unita la
teoria alla pratica. Usa
ancora la distinzione
cesarottiana delle parole-segni,
e delle parole-figure. Ha
un'appendice Degli elementi
spirituali del linguaggio).
Mattiello A., Regole
pratiche per {sviluppare
ai giovani i
primi rudimenti dell'
italiana favella in
conformità alla metodica,
Venezia. (Cogli alunni della
I e II
ci. eleni, applica
la IV massima
della metodica generale, come
se si trattasse
d'insegnar loro a
far delle aste.
Sai tu a
che servono le
regole? Non signore). Ànti Giorg.,
Trattato dialogico sopra
la sintassi italiana,
le proposizioni grammaticali
e la ortografia
con alcune tavole
sinottiche e in
fine un picco/o
' dizionario veronese-italiano ',
per comodità e
utilità della studiosa gioventù, Verona. Cestari Tom.
Em., Grammatica italiana teorico-pratica divisa
in ? classi
ad uso specialmente delle
scuole elementari. Venezia, Dello stesso:
Primi eleni, digr.
ital.-lat., Venezia; Genesi
dell'accordo fra il
pensiero logico ed
il linguistico proposto a
chiave dello studio
filologico comparato, Venezia).
Brugxoli Ag., Nuovissimo
repertorio grammaticale, Verona.
Missio Bern., Metodo
d'iniziare i fanciulli
nel comporre e
nella quella del Cerutti
si solleva molto
dalle altre. Elaborata
invece con acume filosofico
è una GRAMMATICA IDEOLOGICA (cf. GRICE – ‘way of
things, way of ideas, way of words -- Grammatica ideologica
uscita senza nome d'autore:
e, per chiarezza
d'esposizione e grammatica
italiana, Treviso. C.
V., Grammatichetta italiana
ad uso delle
scuole elementari intermedie,
Lecco, Lipella Car.,
Grammatica italiana per
la j classe
eleni., Verona (Postuma. Vi si
cita ancora il
Soave, ma non
sempre per difenderlo). Gusberti
D., Grammatica ragionala
della lingua italiana,
Torino. Naturalmente, in correlazione
a questa diffusa
produzione grammaticale, non si
cessò di speculare
sul linguaggio secondo
il comune indirizzo
filosofico-storico. Si ebbero:
Rosa Gabriele, Vicende
delle lingue in
relaziofie alla storia
dei popoli, Padova,
s. a. Volpe Gir.,
Saggio sulle cause
delle vicende delle
lingue, Belluno. [Bidone Em.],
Saggio sull'analisi ed
unità delle lingue,
Voghera, ed altri
siffatti libri che
qui non importa
elencare. Né mancarono,
com'è del pari
naturale, discussioni circa
il metodo dell'insegnamento grammaticale in riviste,
opuscoli (ho ricordato
la polemica Bellisomi-Fantoni), e
conferenze (p. es.
Della istruzione elementare
di grammatica italiana,
Lettura ne IP
Ateneo di Treviso,
Treviso): tutta una
letteratura scolastica, che,
se può interessare
lo storico delle istituzioni
e dei metodi
didattici, non aggiunge
nulla alle conoscenze
che si posson
trarre direttamente dalle
grammatiche per l'argomento
nostro. Medesimamente si
vennero escogitando parecchi sistemi di
lingua universale (i
nostri volapuk e
esperanto), nella illusione
di poter ridurre
a un unico
schema valevole per
tutti i popoli le
singole grammatiche particolari.
Poiché tutti i
popoli si ritrovano nella grammatica
generale uniformi nel
concepimento dell'idee e
nel loro collegamento
logico, doveva pure
potersi formulare un
unico sistema grammaticale
e ortografico insieme
che servisse a
rappresentare e a render
comune e praticamente
comunicabile la lingua
universale. Ricorderò: Matraja
Gio. Gius., Gcnigrafia
italiana, nuovo metodo
di scrivere questo
idioma, Lucca. (Da
genicografia, 'scrittura generale
, Modo
di scrivere generalmente
senza relazione agl'idiomi '.
Molti, ricorda il
Matraja, si affaticarono
per sciogliere il
problema di tale scrittura,
Cartesio, Leibnitz, Wolfio,
Willio, Kircker, Delagarne,
Beclero, Sobbrig, Lambert,
Demaimieux e Richeri;
ma solo a
lui, povero frate,
la Divina Provvidenza
permise di farlo.
Tratta la grammatica
genigrafica in generale,
e poi le
parti dell'orazione ecc.). Proposta per
la rettificazione dell 'alfabeto ad
uso della lingua
italiana di N. N.,
Milano (È fondata su
quella del Court
de Gibelin e
del Klaproth, che
prende a base
l'alfabeto romano portato
a 42 lettere).
Già prima di
Matraja, altri italiani
avevano tentato questo
sistema. Grammatica
filosofica della lingua
italiana, Napoli. Più interessante
è forse la
Vita di Cerutti con
ragionamenti e digressioni
morali e filosofiche
da lui scritta
e pubblicata lui
vivente, anche per
segnare il termine
estremo, dirò così,
più importante dello svolgimento
della grammatica filosofica, notevole ci sembra il compendio di Corradini.
Fondamento della grammatica ideologica, in cui non c'è riuscito riconoscere
l'autore, che vi si designa nel proemio un addetto alla teoria e alla pratica
della giurisprudenza, è il più schietto sensismo condillachiano che prevalse in
Italia, specialmente nell'ambiente scolastico, dove quella corrente puo circolare con molta
facilità. L'autore si mostra assai accalorato pel suo prediletto sistema
filosofico, e recisamente avversario alla crtiica. La dipendenza dalla
grammatica dall'ideologia e seguendo nell'insegnamento il metodo analitico. Se
le cognizioni vengonci tutte da'sensi adoperati nel passato ed attualmente. Se
le regole o teorie non sono che brevi sunti delle osservazioni nate dalla pratica dei fatti e
degl’oggetti sensibili, ne consegue chiaro che lo esemplificare, o il far
nascere l’osservazioni e le regole da'casi concreti, e dalle circostanze
palpabili deve costituire la parte più momentosa dell'insegnamento, la sola e
vera salda base del medesimo. Se la sperienza de'fatti fa toccar con mano a chi
non ismarrì il tatto, che l’astrazioni e generalità d'ogni maniera, classi d'individue cose,
classi d'ognuna delle loro qualità trovata consimile in parecchi individui, e
classi infine di giudizi singolari riuniti a farne un generale, non esistono
che negl’oggetti od individui fatti, non sono fuorché estratti d’essi e delle
loro relazioni di somiglianze, o differenze, o di causa ad effetto; è dunque
pessimo ogni metodo d' insegnare, ch’aggirandosi perpetuamente nelle copie, trascuri gl’originali
siffatti, e'1 cominciar insegnando dall'astrazioni, quali solo tutte le regole
e i precetti, con volar sempre sulle loro ali senza mai calare a terra, al
sensibile. Il saggio consta di due parti, la prima, che contiene Prelezioni
ideologiche indispensabili alla
grammatica, delle facoltà
intellettuali e de'bisogni dell'uomo;
Rapporti, giudizi e teoria dell’astrazioni; le generalità divise in tre
sorta di classi, soggettiva o sostantiva, qualitativa, proposizionale, ossia
l'esposizione dei principi generali su cui è fondata la grammatica; la seconda,
che contiene la grammatica generale, sull’origine della lingua; lingua
naturale, d'azione od affettivo; della grande utilità de'segni o vocaboli anche
solo pel pensare e ragionare; e delle varie specie di proposizioni, ossiano giudizj parlati; del nome, pro-nome, adiettivo
(shaggy), articolo e del verbo in genere; delle pre-posizioni e degl’avverbj; delle
congiunzioni; del verbo, divisione de'verbi tempi; SINTASSI. La dottrina di
questo saggio, sia generale che particolare, sviluppata in un'analisi
certamente eccessiva, sovrabbondante pagine sono indubbiamente troppe per
spiegare la genesi delle categorie
grammaticali, posa su un sistema assai meno complicato di quel che a bella
prima puo sembrare. Senza la pretesa di riassumerla tutta neppur nelle sue
linee generali in poche righe, che per tali opere non è possibile né gioverebbe
molto, tante sono l’analisi particolari di categorie secondarie, e tanto lunga
e spesso noiosa è la via della conclusione, eccola nel suo principale aspetto. Noi siamo intelligenze
servite d’organi, o sieno membri operativi. Colle nostre facoltà o potenze
corporee non possiamo distinguere negl’oggetti che qualità, modi o maniere
d'essere: ogni sensazione corrisponde a una qualità: gli’oggetti non sono che
gruppi o mucchi delle qualità che noi possiamo percepire: sostanza è un
nonnulla che sta sotto alla qualità cui serve
di sostegno, fulcro ed appoggio: grammaticalmente sostanza è anche il
restante mucchio delle qualità d'un oggetto in opposizione a una o due qualità
estratte mentalmente dal mucchio stesso,
cioè per via ed astrazione. Qualità e loro forme mutevoli e astrazioni e
i loro rapporti ecco tutta la nostra conoscenza, ossia tutto il nostro modo di
sentire, intelletto, e di volere, volontà, mediante l'attenzione, la riflessione, i giudizi. Ora
ogni nostra sensazione ha bisogno per esser circoscritta d’un termine proprio;
ma non ci sarebbero vocabolari bastevoli a contener tutti questi termini:
quindi la necessità delle classi, i generi, le specie: è tutto un lavoro di
generalizzazione e d’individuazione per nominare gl’oggetti delle nostre
sensazioni sempre per via d’astrazione: questa è la naturale figliazione delle nostre idee: anche
le pro-posizioni non sono che principj o formole compendiose dell’idee già
acquistate dalla esperienza. La grammatica, non che la logica, trova piane le
sue leggi nell'ordine stesso con cui si
figliano le idee. Siffatta dipendenza volle Dio ordinare tra l'anima umana
nobilissima parte, e la terrena mole, sintantoché vivessimo quaggiù. Il
sensismo che limita le nostre conoscenze
alle sole qualità degl’oggetti di cui abbiamo le sensazioni, giunge all'idea di
Dio senza alcuna difficoltà!] nostre dal sensibile all'astratto per
classificarsi e generalizzarsi. Donde deriva la sua importanza: imperciocché la
natura deve necessariamente esordire, e poi l'arte d’essa aiutata proseguire,
dirozzare; sicché se l'eloquenza è il cuore che naturalmente parla, l'arte è la
ragione che lo rischiara e conduce. La lingua, prodotto naturale della
sensività passa naturalmente per tre gradi: gridi o suoni involontarj; gli stessi usati ad arte o per
volontà; lingua composta di suoni distinti ed articolati ne'suoi successivi
perfezionamenti. Si passa dall'uno all'altro per Ya?ialogia, magistero della
lingua, coi soccorsi dell'onomatopeia. Nella prima naturai lingua ogni intero pensiero s’espresse con un
segno solo, a proposizione intera. È già arte spaccarla in due pezzi, soggetto
(Fido) e predicato (shaggy), ed analisi più raffinata ancora il dividere
sovente il soggetto in parecchi brani e'1 far lo stesso dell'attributo (shagy).
È naturale che la prima pro-posizione intera sia stata un sol cenno di testa, o
un 'interiezione. Poi avvenne un continuo
spaccamento di pro-posizioni. Il naturale è il più composto, ed
inviluppato. L’artificiale è il più decomposto, analizzato e spezzato. La
scienza delle parti del discorso é tutta nell'analisi dello sviluppo del primo
grido. In ou/c'è io soffoco, o io soffro calore: quando avrò
saputo nominar in disparte il soggetto io, il grido 07i f è
ridotto a significar il solo attributo soffoco: così il grido diventa verbo, sicché il verbo, non escluso
il verb' essere, non è che l'attributo della proposizione, cioè una qualità
involgente il verb'essere, segno della concrezione della qualità col soggetto.
Se ci fossero tante parole proprie quanti sono i soggetti e gl’attributi, non
abbisogneremmo che di due specie di parole,
soggetto (Fido) e attributo (is shaggy). Colla parola Paolizzo Paulise puo
significar “amo Paolo (Grice)”. “Amo Fido” (Fidoiso). Dalla necessità di
determinare il pensiero, o meglio d’individuare l'oggetto che non ha nome
proprio (Fido), nacquero tutte l’altre parti del discorso: l'articolo, la pre-posi- [Tutto in noi riducendosi al
ricevere sensazioni, che sono qualità nostre e degl’oggetti, a combinarle, e
così al considerar le cose individue come gruppi di qualità, tra le quali n’estraggiamo
mentalmente una per contemplarla in disparte, e quindi ri-congiugnerla, attribuirla,
al restante mucchio, lo ch'è pensare o giudicare; è chiaro che ogni nostra
manifestazione non contiene mai ch’un giudizio od una serie di pensieri o
giudizi.] -zione ecc. Nel dire il frutto del ciliegio posto iti tal luogo piace
molto al figlio di Cajo, s'io avessi due parole o segni proprii ed esclusivi, p. es., A pel
soggetto tutto, e B, per l'attributo intero, poiché non s’hanno da comparare
che due sole idee, come diverrebbe comodo il dire soltanto A-B. Ma che
spaventoso numero di segni ci abbisognerebbe! Qui sorge la teoria dei rapporti
grammaticali, il rapporto vero è uno solo, il logico, quello con cui si
comparano le due sole idee ch’entrano nella
pro-posizione, colla quale si spiegano, olte le categorie, tutte l’innumerevoli
accidentalità grammaticali, ossia le modificazioni delle parole utili a sempre
più circoscrivere e individuare i nostri giudizi, pe'quali, al solito, mancano
gl’unici termini propri che li significherebbero alla spiccia con somma nostra
gioia e comodità. La pre-posizione e l'avverbio
sono riduzioni di qualità accessorie: le
congiunzioni sono le pre-posizioni delle congiunzioni, anch'esse dunque
riduzioni d’attributi. Quanto abbiamo fin qui esposto, ci sembra sufficiente a
caratterizzare la dottrina di questa grammatica ideologica senz’entrare nelle
particolari trattazioni delle singole categorie grammaticali e sintattiche.
Quanto sia povera e insufficiente a spiegare il superbo miracolo della lingua,
ognun vede facilmente senza che noi
commentiamo di più. Non è nostro scopo far la critica dei sistemi filosofici su
cui si costruirono le varie grammatiche: ci basta solo mostrare la relazione di
questi con quelli. Ma non possiamo non meravigliarci della simpatia che il
sensismo condillachiano ha goduto tra noi per tanto tempo specie come
fondamento alle teorie sulla lingua e all’arti del pensare, del dire, alle grammatiche, che l'ha
goduta ancora dopo che Humboldt specula sulla lingua con tanto acume e
genialità, n'ha finalmente fissata, pur tra incertezze e confusioni che ne
dovevano mantener insoluto il problema, la natura tutta e solamente spirituale
nella sua infinita ricchezza. Col sensismo della nostra grammatica ideologica
quest'alta funzione del nostro spirito,
anzi la vita stessa del nostro spirito si riduce a un semplice
meccanismo, straordinariamente ricco di nomi ma poverissimo di movimenti, che
la natura esteriore manda, a suo bene placito, fornito solo di piacere e di
dolore, i due grandi custodi del nostro essere. E dire che l'autore, fra i nomi
di Condillac, Tracy, Court de Gebelin, Cousin e simili, cita parecchie volte
quello di VICO! Il che conferma quello
che osserva l'autore del rapporto del da noi citato, che cioè la dottrina di VICO
compresa e accettata in alcune particolari applicazioni rimane oscura nella sua
essenza, e conferma ancora una olta lo
strano miscuglio che ne fanno col sensismo i nostri enciclopedisti. Quali
utilità all'apprendimento della lingua puo venire da siffatte grammatiche, dove,
pure in tanto analizzare, l'osservazione
del lettore non è mai richiamata neppure sulle particolari funzioni logiche dei
fatti grammaticali, come invece vedemmo fare egregiamente a Marsais? Col quale
si rannoda pella parte teorica, e non per queste felici applicazioni,
Corradini, che volle darci, quasi a chiuder la serie non ingloriosamente, un compendio
della grammatica generale filosofica. Questo
compendio ha il pregio della chiarezza assoluta, accoppiata colla più
scrupolosa coerenza nella più rapida e concisa brevità. Gli autori di cui CORRADINI dichiara d'essersi giovato sono:
Sanctio, Minerva, Burnouf, Methode pour étudier la langue latine, Prompsault,
Gramni, rais. d. la langne latine, Régnier, Le jardin de racines latines, Selvaggi,
Grammatica generale filosofica, la grammatica
di Porto Reale, Beauzée, Gramm. gén., gl’articoli relativi dell'enciclopedia
galla, cioè Marsais, e i suoi successori. Definisce la teoria della grammatica
generale la scienza delle forme integrali d'ogni lingua. Ne definisce il
carattere, la possibilità, l'oggetto, il fine, l'utilità. Una delle prove della
possibilità la deduce dalle traduzioni, che dimostrano un comune
procedimento del pensiero umano,
l'uniformità de'nostri pensieri. Gl’elementi son due: il materiale e il
rappresentativo: in mater, m
r l, ma, ter, l'accento sull'a, sono
il materiale, la Gentile Padova, coi tipi del Seminario. Non dico che questa è
assolutamente l'ultima, né che gl’effetti delle grammatiche generali si
spegnessero nell'insegnamento. Grammatiche filosofiche si scrivono anche oggi,
e noi nelle scuole facemmo tutti, chi
più chi meno, parecchie indigestioni d’analisi logica e grammaticale! [nozione
di madre è il rappresentativo. La grammatica generale filosofica s’appoggia
bensì alla logica pura, ma è propriamente una parte della logica applicata. La
logica applicata considera il pensiero nelle sue condizioni empiriche: la
condizione empirica universale del pensiero è la cognizione; s’ha cognizione d'un oggetto quando è determinato. La
determinazione si compie nelle quattro supreme classi o categorie: quantità,
qualità, relazione, e modalità. Il discorso deve dunque soddisfare anche a
queste esigenze del pensiero. Esse costituiscono le varie modificazioni dei
termini e delle parti del discorso. Esse pure devon esser oggetto d'una
grammatica generale filosofica. Tien
conto anche delle condizioni empiriche dell'uomo parlante: lo stato della
società, l'affetto e la passione che lo domina, l'impeto istintivo d’uguagliar
col discorso la celerità del pensiero, le credenze religiose ecc. In
conclusione, nella parola sono da considerare due elementi: il materiale e il
rappresentativo. Il primo elemento s’appoggia alla natura dell'organo vocale,
il secondo alla natura del pensiero.
L'elemento materiale comprende i suoni vocali e consonanti, l'aggruppamento
de'suoni cioè le sillabe e le parole, e le modificazioni derivate da quest’aggruppamento
cioè l'accento e la quantità. L'elemento rappresentativo appoggiato alla natura
del pensiero deve somministrare i mezzi tanto per esprimere le tre funzioni
concetti, giudizio, raziocinio, quanto
per determinare ciascheduna di queste tre nelle quattro categorie di qualità,
quantità, relazione, e modalità. I nomi sostantivi ed aggettivi esprimono i
concetti, i verbi, i giudizi, la sintassi, le congiunzioni e la costruzione
esprimono il raziocinio in quanto consta di più giudizi legati fra loro. I
numeri ne'sostantivi e gl’aggettivi d’estensione determinano la quantità, i
generi ne'sostantivi, gl’aggettivi di comprensione e gl’avverbi determinano la
qualità, le preposizioni o i casi ed i verbi le relazioni, i modi, le modalità.
È insomma la logica distillata pel filtro grammaticale: di lingua effettiva qui
non si ha più traccia. S'è sistemato tutto lo schemario delle categorie logico-grammaticali,
ma il contenuto è caduto pella strada. Da Marsais a CORRADINI, a traverso interpretazioni varie più o meno
elevate, a rimaneggiamenti e riduzioni elementari, la grammatica generale,
oltre a perdere, in Italia, tono e carattere filosofico in una elaborazione
quasi sempre meschina e grossolana, viene sempre più separando la lingua
effettiva dagli schemi grammaticali che s’erano ottenuti studiandolo sia
direttamente, sia dal punto di vista esclusivamente intellettuale, e a questi assegnando valore
di formula e di legge, ma privandola d'un oggetto concreto a cui applicarsi. Un
processo di degenerazione. La scienza della lingua progrede, ma seguendo altre
correnti e battendo altre vie. La crisi della GRAMMATICA RAGIONATA IN ITALIA non
puo mancare: ed è veramente risolutiva. Di GRAMMATICA RAGIONATA si finisce,
dopo una colluvie d’aride o elementari
produzioni d’epigoni ritardatari, col non parlarne più, e d’essa non restano
tracce che nell’esercitazioni scolastiche d’analisi logiche e grammaticali
ancora in uso nelle nostre scuole e sulle quali talvolta rispunta come fungo
qualche compendio di grammatica logica rivestito di pompa scientifica. La crisi
è determinata d’un duplice ordine di fatti, tra i quali T. non sa se veramente corre un'intima
relazione. L’uno che riguarda direttamente il corpo, T. dice così, della GRAMMATICA
RAGIONATA, ed è il non difficile né tardivo avvertire in esso un vuoto sostanziale
e perciò tutta la sua infecondità sotto ogni rispetto, scientifico e didattico.
L’altro che si riferisce allo stato in che venne a trovarsi la lingua d’ITALIA
sotto la bufera dell'enciclopedismo, ed
è la naturale quanto però anti-filosofica
reazione al gallicismo, che dove richia[Borsa, nella dissertazione del
decadimento della lingua in Italia, Mantova, l'anno in cui è pubblato il saggio di Cesarotti, già incolpa
appunto di quel decadimento il neo-logismo gallico e il FILOSOFISMO enciclopedico.]
mare, come facile conseguenza d’una premessa sbagliata, alla religiosa osservanza, alla maniaca
adorazione degl’antichi i puristi inorriditi al novissimo strazio d'Italia. Le
vicende di questa crisi si possono molto chiaramente osservare, d’una parte, in
quel ch’accadde a SANCTIS (si veda) scolaro
e co-operatore di Puoti, e ch’egli narra non senza il lume d'una critica sempre
nuova ed originale ed acuta, anche se, come in questo caso, non definitivamente superatrice. Dall'altra,
nella critica e nella pratica di Manzoni, che con stringenti argomenti colpi a
morte LA GRAMMATICA RAGIONATA, sebbene non muove d’un punto di vista estetico. SANCTIS
(si veda), quando accorse alla scuola di Puoti, ha già compiuto gli studi di
grammatica, rettorica e FILOSOFIA, che oggi corrispondono al ginnasio e al
liceo, i primi, il ginnasio, sotto suo zio Carlo SANCTIS (vedasi), i secondi,
il liceo, sotto Fazzini, non avendolo voluto ricevere i gesuiti pella sua
impreparazione. Un grand 'esercizio di memoria è in quella scuola dello zio,
dovendo ficcarci in mente i versetti del Porto Reale che s'impara in certi suoi
manoscritti, come l’antichità e la cronologia, la grammatica del svizzero Soave,
la rettorica di FALCONIERI (vedasi), le
storie di Goldsmith, la Gerusalemme di Tasso, l’ariette di Metastasio. Alla
fine del corso scrive la lingua d’ITALIA con uno stile pomposo e rettorico, un
italiano corrente, mezzo gallico, a modo di Beccaria e di Cesarotti, che sono i suoi favoriti. La scuola di Fazzini
è quello che oggi si dice un liceo. Vi
s' insegna FILOSOFIA, fisica e matematica. Il corso si puo fare in due anni. Quell'è l'età
dell'oro del libero insegnamento. Un uomo di qualche dottrina comincia la sua
carriera aprendo una scuola. La scuola di
Puoti, su cui è stata scritta una degna monografia d’un discepolo di Salvadori,
Caraffa, Puoti e la sua scuola, Girgenti, si svolge in tre periodi, l’ultimo dopo
due anni d'interruzione causata dalla pestilenza scoppiata a Napoli. SANCTIS
(si veda) Frammento autobiografico pubblicato fo Villari; Napoli. I seminari sono scuole di LINGUA del
LAZIO e di FILOSOFIA, le scuole del governo sono affidate a frati, la forma
dell'insegnamento è ancora scolastica. Rettorica e FILOSOFIA sono scritte in
quella LINGUA DEL LAZIO convenzionale ch’è proprio degli scolastici. Le scienze
vi sono trascurate, e anche LA LINGUA
NAZIONALE. Nondimeno un po’di secolo decimottavo è pur penetrato fra quelle
tenebre teologiche, e con curioso innesto, vedevi andare a braccetto il
sensismo e lo scolasticismo. Nelle scuole della capitale v'è maggior progresso
negli studi. LA LINGUA DEL LAZIO PASSA DI MODA. Si scrive di cose scolastiche
in una lingua italiana scorretta, ma
chiara e facile. Gl’autori sono quasi
tutti abati, come GENOVESI (si veda), il
svizzero SOAVE (si veda), e TROISE (si
veda). Allora è in molta voga FAZZINI
(si veda). Questo prete elegante, che ha smesso sottana e collare, veste in
abito e cravatta nera, è un sensista; ma
pretende conciliare quelle dottrine coi principii religiosi. Accanto alla
scuola, per chi ha voglia d' imparare, c’è naturalmente la biblioteca. Corsi
alla biblioteca e mi ci seppellii.
Passano dinanzi a SANCTIS come una fantasmagoria Locke, Condillac, Tracy,
Elvezio, Bonnet, Mettrie. SANCTIS si
ricorda ancora quella STATUA di Bonnet, che a poco a poco, per mezzo dei sensi
acquista tutte le conoscenze. Il professore dice ch’il sensismo è una cosa
buona sino a Condillac, ma non bisogna andare sino a Mettrie ed Elvezio. Ragione per cui ci anda SANCTIS
(si veda) coll'amara voluttà della cosa proibita. Compiuti così gli studi
filosofici, avvezzo a una vita interiore, ha pochissimo gusto per i fatti materiali, e bada più alle relazioni tra le
cose che alla conoscenza delle cose. La scuola c’ha non piccola parte, perchè è
scuola di forme e non di cose, e s’attende più ad imparare le parole e l’argomentazioni che le cose a cui si riferisceno. Ma s’avvicina
il [Conosce altri filosofi, naturalmente. Il professore fa una brillante
lezione sull'armonia prestabilita di Leibnizio. E questo Leibnizio divenne il filosofo
di SANCTIS. E come l'una cosa tira
l'altra, Leibnizio l’è occasione a leggere Cartesio, Spinoza, Malebranche, Pascal,
libri divorati tutti e poco digeriti. Questo è il corredo d’erudizione
filosofica di SANCITS verso la fine dell'anno scolastico, quando zio ci dice. Ora
bisogna cercarvi un maestro di legge. Si batte già alle porte dell'università.]
tempo in cui il sensismo, male accordato col movimento religioso, dove cedere
il passo ad altra filosofia. S’annunzia al spirito di SANCTIS un altr’orizzonte
filosofico; li bolleo in capo altri libri
e altri studi. S’apparecchiavano
i tempi di Galluppi e Colecchi, de'quali
l'uno volgarizza Hume e Smith, e l'altro, ch'è per giunta un matematico,
volgarizza Kant. Fazzini è caduto di moda. Per questi insegnamenti e in queste
condizioni intellettuali Sanctis, invano iniziati gli studi di legge, passa
alla scuola del marchese. È proprio di questi tempi che la grammatica del
sensismo di Condillac, che vedemmo
trionfare concentrata in estratti pegli stomachi degl’italiani, si vienne a
trovare a fronte di due ben forti e agguerriti avversari, la critica e il
purismo. Questo, dalla restaurazione linguistica di CESARI, iniziata colla dissertazione
coronata dall'Accademia di Livorno, è venuto sempre più guadagnando terreno nelle
forme in cui l'ha circoscritto Cesari, nonostante gl’attacchi della proposta monti-perticariana e dell’anti-purismo
tortiano, e nonostante l'esempio pratico del romanzo di MANZONI in cui fin
dalla prima sua edizione s' è voluta
incarnare tutt'un'altra dottrina sulla lingua. La reazione al gallicismo è
tanto più vasta e tenace della tesi temperata del classicista Monti e del
modernismo del romantico Manzoni, quanto più compromessa sembra la gloria d'Italia nella dilagante corruzione
dell'aurea favella un dì sì onorata. Ne furono rocche meno facilmente
espugnabili la Romagna e Napoli e organi di gran voce alcuni giornali, come la
Biblioteca di Milano, il Giornale arcadico di Roma e la Rivista enciclopedica
di Napoli. Ma tra i puristi, non per sola virtù di dottrina, sì bene anche pelle
qualità della persona e i modi
dell'insegnamento, il più autorevole, quegli che veramente esercita una
più vasta e duratura efficacia sulle menti, sulle scuole, sui metodi, sui T.,
Della vita e delle opere di Torti. L'ha dimostrato Morandi ne'suoi noti saggi
sull'unità della lingua.] libri, è il marchese Puoti, maestro, autore di
grammatiche e d’arti del dire, annotatore di testi di lingua, pedagogista. Alla
scuola di Puoti, dice SANCTIS (si veda), lascia studi di legge, e letture di commedie,
di tragedie e di romanzi e di poesie, e si gitta perdutamente tra gli scrittori
del resorgimento. L’è venuta la frenesia degli studi grammaticali quando la
lingua d’Italia non ha pure una grammatica. Sanctis ha spesso tra mano
Corticelli, Buonmattei, Cinonio, Salviati, Bartoli, Salvini, Sanzio, e non sa
quanti altri dei più ignorati. S’è
gittato anche sul tardo risorgimento, sempre avendo l'occhio alla lingua
d’Italia e il suo studio. Si trova in quel tempo a dover sostener sulle proprie
spalle il peso della scuola dello zio. La sera anda sempre alla scuola di Puoti.
Ma tutta la giornata è spesa a spiegar grammatiche e rettoriche e autori della
LINGUA DEL LAZIO, a dettar temi, a correggere errori. Ma quei cari studi mi riusceno acerbi, non solo pella
fatica, ma perche non è più d'accordo colla sua coscienza. Quel svizzero Soave,
quel Falconieri li fanno pietà. Nelle classi superiori puo elevarsi un po'più.
Comincia a fare osservazioni sopra i sensi delle parole, sul nesso logico dell’idee,
sull’espressione del sentimento, sull’INTENZIONI alla Grice e sulle malizie
dello scrittore. Momenti più deliziosi
passa alla scuola del marchese, dove egli ben presto si distinge specie nelle
cose della grammatica, tanto da meritarsi
l'appellativo di grammatico, ed è sollevato all'onore di co-adiuvare il
maestro nell'insegnamento, quando, dopo l'interruzione cagionata dal colera,
Puoti, cominciatosi a stancare dei novizi, ne lascia tutta la cura a SANCTIS
(si veda). Il marchese che lavora a una
grammatica, attende pure alla pubblicazione d’alcuni testi di lingua più a lui
cari, come i Fatti d'Enea, i Fioretti di S. Francesco, le Vite dei Santi Padri.
Questi studi [Sulla scuola di Sanctis, v. le belle pagine del cenno biografico
di Tamburini in Sanctis, Scritti vari,
ed. Croce. Di quella che è stata chiamata la seconda scuola di SANCTIS (si
veda) si sono occupati degnamente Torraca e Mandalari.] di lingua si sono già
divulgati nelle scuole, e si sente il bisogno di grammatica e di libri di
lettura. Anche in questi lavori l'allievo aiuta il maestro. Di questo tempo fa
intima amicizia con Amante, che è un infatuato di VICO (si veda). In una visita
onde Leopardi onora la scuola di Puoti, che cita spesso con lodi Greco, autore d’una
grammatica, il marchese di Montrone,
Gargallo, Cesari e sopra tutti essi Giordani, si sente dire dal poeta che ha molta disposizione alla critica. In
quell'occasione Leopardi, cui non puo sfuggire la rigidezza di Puoti, dice che
nelle cose della lingua si vuole andare molto a rilento, e cita in prova Torto
e Diritto di Bartoli. Leopardi dice anche che l'onde coli' infinito non gli
pare un peccato mortale, a gran maraviglia
o scandalo di tutti. Il marchese è affermativo, imperatorio, non patisce
contraddizioni. S’alcuno s’è arrischiato a dir cosa simile, anda in tempesta;
ma il conte parla così dolce e modesto, ch'egli non dice verbo. Gl’è anche che
ormai quel rigido, implacabile purismo comincia a dover piegare o almeno ad
ammollirsi. Alla ripresa della scuola dopo il colera il marchese se n'è
venuto d’Arienzo, con certi grossi
quaderni scritti di suo pugno. È una specie di rettorica immaginata da lui, e
che egli battezza arte del dire. C'è una divisione dei generi del dire,
accompagnata da regole e da precetti. Aristotile, CICERONE (si veda), Quintiliano, Seneca sono la decorazione. O mi
metteranno alla berlina, o questo è assolutamente un capolavoro, così dice,
narrando per quali vie è giunto alla
grande scoperta. A quel tempo sono in gran voga gli STUDI FILOSOFICI, e il marchese,
seguendo la moda, vuole filosofare anche lui, e da alle sue ricerche un aspetto
e un rigore di logica, ch'è veste e non sostanza. E non gli è mancata la
berlina. Ma lo salva un certo suo naturai buon senso. Ma chi dai bassi
fondi [deep berths – Grice] della
grammatica prende il volo filosofico, è SANCTIS
(si veda), specie quando, trovandosi al sicuro dallo sguardo del marchese nella
scuola preparatoria, puo lasciarsi trascinar dal suo genio a quell'onda di
ribellione, che fa naufragare il senno del maestro. Ed è nella scuola
preparatoria, che nelle lezioni private o nell'insegnamento del ollegio
militare, al quale è assunto pella stima che gode presso Puoti, che n'è
ispettore, il maestro intende soprattutto a rinnovare l'insegnamento
grammaticale. N’uscirono, colla liquidazione della GRAMMATICA RAGIONATA, un abbozzo di GRAMMATICA
FILOSOFICA e storica e un saggio d’una storia dei grammatici. Quelle maledette
regole grammaticali SANCTIS le riduce in
poche, moltiplicando l’applicazioni e gl’esempi, e sempre lì sulla lavagna. Si persuade
che quello resta chiaro e saldo nella memoria, che è ordinato sotto categorie e
schemi, logicamente. Così nasceno i suoi quadri grammaticali. Si sbriga
della grammatica, e capii che lo studio
della grammatica così come si suol fare, per regole, per eccezioni e per casi
singoli, è una bestialità piena di fastidio Posi da banda l’analisi
grammaticali e l'analisi logica,
noiosissime, e fa l'analisi delle cose,
a loro gustosissime. Questo al collegio. Nella scuola al vico Bisi, il lunedì e
il venerdì, quand'è solo, l'insegnamento grammaticale s’eleva ancora di più.
Parecchi anni è a leggicchiar
grammatiche, lavorando intorno a quella di Puoti. Così si mette in corpo i dialoghi
della volgar lingua di BEMPO (si veda). S’inghiottii VARCHI (si veda), FORTUNIO
(si veda) e i sottili avvertimenti di
SALVIATI (si veda) e la prosa dottorale
di CASTELVETRO (si veda) e BARTOLI (si
veda) e CINONIO (si veda) ed AMENTA (si veda) e SANZIO (si veda) e non sa
quanti altri, con approvazione di Puoti, il quale li vanta sopra tutti gl’altri
Corticelli e Buonmattei. Seccatosi presto della parte riguardante l’origini della lingua e delle forme grammaticali, perchè non ha, fondamento sodo, infastidito
di quel pullular perpetuo di regole e d’eccezioni, stordito da tutte quelle DISSERTAZIONE
SOTTILI E CAVILLOSE SULLE PARTI DEL DISCORSO e sulle forme grammaticali, ritorna
ai suoi studi di FILOSOFIA. Quei Salviati e quei Castelvetri le pareno
addirittura pigmei dirimpetto a quei grandi, la sua delizia un giorno e il suo
amore. Perciò si getta con avidità sopra
i retori e i grammatici con un segreto che li cresce l'appetito, vedendosi
sempre addosso gl’occhi del marchese. Lessi tutto il corso che Condillac
compila a uso di non sa qual principe ereditario. Studia molto Tracy e Marsais.
Il marchese, sapido dei suoi studi li perdona, a patto che non valica i confini
della grammatica, e l'indica un tale, che SANCTIS (si veda) non ricorda, come
un buon scrittore di grammatica generale. Il buon marchese fa anche di più.
Ri-vide le prolusioni del professore mettendoci quello stampo tutto suo di
classicità ideale. Le prime lezioni sono una storia della letteratura in
Italia, o grammatica. In quei discorsi prende 1’aria d’un novatore, e trova che
tutto va male, che tutto è a rifare. Ecco qui un ritratto, come li venne in quei giorni sotto la penna. Niuna
pratica dell'arte del dire; niuna cognizione de'nobili scrittori; malvagio
gusto; pensieri non italiani; un predicar continuo purità, correzione; esempli
contrari di barbarismi ed errori. Così la grammatica ricca di stranieri trovati
splendidi in astratto, ma nella pratica o falsi o di poco profitto, per difetto
della parte storica molto è discapitata di
quella perfezione in che è. In malvagio stato trovasi LA SINTASSI: squallida
e incerta è l'ortografia; le regole del ben pronunziare dubbiose e mal ferme. Niente di certo. Niente di determinato
intorno alla dipendenza de’tempi, al reggimento delle congiunzioni. Principii
opposti. Opinioni contrarie. Nelle lezioni vuole fare una storia delle forme
grammaticali – cf. Grice, ‘or’, ‘other, ‘not, ‘ne aught’. Ma al pensiero
gigantesco mal risponde la cultura, attesa la sua scarsa grecità e l'ignoranza delle cose orientali. Perciò
quella ideata storia delle forme grammaticali, dopo vani tentativi appresso a VICO
(si veda) e Schlegel, si riduce nei modesti confini d’una storia dei grammatici
da se letti. Parla dei grammatici che TUTTO DERIVANO DALLA LINGUA DEL LAZIO. Poi
venni a quelli che sono studiosi della [Alcuni brani d’essi sono pubblicati ne’saggi
critici, col titolo Frammenti discuoia,
dell'edizione di Napoli. Il periodo tra parentesi quadre, che qui è sostituito
dai puntini, l'ho tratto d’un brano
integro de'saggi critici.] lingua,
copiosi di regole e d’esempli, che moltiplicano in infinito. Molto s’intrattenni
su Corticelli, Buonmattei, Salviati e Bartoli. Censura quel moltiplicare
infinito di casi -- cf. Grice, the
search for principle of generality -- e di regole che si riduceno in pochi
principii. Quella tanta varietà di forme e di significati, massime in Cinonio,
ch’è facile ri-condurre ad unità. Fa ridere, pigliando ad esempio Va, il
per-, il da, irti di sensi e che pur non hanno che UN SENSO SOLO. La sua
attenzione anda dalle forme al contenuto, dalle parole all’idee;
sicché, sotto a quell’apparenze grammaticali, variabili e contraddittorie, vede una logica animata, e tutto mette a
posto, in tutto discerne il regolare e IL RAGIONEVOLE – Grice, principle of
rational discourse --, non ammettendo
eccezioni e non ripieni e non casi arbitrari. Con questa tendenza filosofica, razionalistica,
corroborata da studi, concipisce pel di
delle feste il risorgimento, e fa lucere innanzi uno schema di grammatica
filosofica e metodica, quale appare ne’galli. Dice che costoro sono eccellenti
nell'analisi delle forme grammaticali, risalendo alle forme semplici e
primitive. Così amo vuol dire io sono
amante. L’ellissi è posta da loro come
base di tutte le forme d’una grammatica generale. Questo non li contenta che a mezzo. Sostene che quella
de-composizione di amo in sono amante l'incadavere la parola, le sottrae tutto
quel moto che viene dalla volontà in atto. Si sente quei giudizi acuti con
raccoglimento, e si credeva in tutta buona fede quell'uno che dove oscurare i galli
e IRRADIARE L’ITALIA di un’altra scienza. E in verità sostene che la grammatica
non è solo un'arte, ma ch'è principalmente una scienza: è e dove essere. Questa scienza della grammatica,
malgrado le tante grammatiche ragionate e filosofiche, è per SANCTIS ancora un
di là da venire. Quel ragionato appiccicato alle grammatiche è una protesta
contro la pedanteria, e vuole dire che non basta dare le regole ma che di
ciascuna regola bisogna dare i motivi e
le ragioni. Paragona i grammatici o accozzatori di regole agl’articolisti che
credeno di sapere il codice perchè si ficcano in capo gl’articoli, parola per
parola, e numero per numero. Ma quel ragionare la grammatica non è ancora la
scienza. Così Sanctis, erudito primamente su
Soave in un'atmosfera filosofica, passato poi pel purismo di Puoti,
ritornato alla scienza, viene a una generale liquidazione di tutti i grammatici, cioè della grammatica ragionata in ispecie, e
della grammatica precettiva in genere, ma non della grammatica come scienza.
Che nella sua critica negativa supera la grammatica ragionata e crea veramente
la scienza non si può dire: interamente non s’appaga dei migliori grammatici
filosofici, come Marsais; ma egli, almeno nel periodo del suo insegnamento,
secondo quanto narra lui stesso, rimane
sempre sotto la loro influenza. Anche nella parte pratica, nel metodo, egli
arieggia molto davvicino Marsais, superandolo nell’abilità di trasformar la
grammatica in critica concreta dell'opera d'arte. La sua concezione della
grammatica, o meglio della lingua d’ITALIA, pur avendo egli concepito una
grammatica scientifica o estetica, è la medesima. Va però subito detto a lode di Sanctis che egli stesso ha coscienza della manchevolezza del sistema. Racconta infatti:
così trovavo nella logica il fondamento scientifico della grammatica; e finché si
tiene nei termini generalissimi d’una grammatica unica, come la concipe
Leibnitz, il suo favorito, la sua corsa anda bene. Ma li casca l'asino, quando
viene alle differenze tra le grammatiche, spesso in urto colla logica, e originate d’una storia naturale o
sociale, piena di varietà e poco riducibile a principi fissi. Per trovare in
quella storia la scienza, si richiede altra cultura e altra preparazione. Nella
sua ricerca dell'assoluto, vuole ridurre tutto a fil di logica, e concordare
insieme derivazioni, scrittori e il popolo d’ITALIA; ma, non potendo sopprimere le differenze e
guastare la storia, pone 1'ingegno a dimostrare la conformità del fatto
grammaticale colla logica, della storia colla scienza. Quell'avvertita
irrudicibilità delle differenze tra le varie grammatiche e principi fissi
dimostra chiaramente che SANCTIS (si veda) intuisce dov'è la soluzione del
problema: e a lui non filosofo di professione ciò non è scarso titolo d'onore;
il dissidio egli lo compone, e in grado eccellente, insuperato, nella critica, nella quale la
parola viva, la grammatica parlata dall'arte, è da lui illustrata in tutta la
sua forza espressiva: scientificamente tocca il risolverlo a Humboldt, col
quale e col suo seguace e correttore Steinthal si può veramente affermare che
la grammatica è esclusa dall'orbita della filosofìa, sebbene non avvene ancora
l' identificazione della teoria della lingua
generale coll'estetica, che è stata fatta solo recentemente. Nelle
difficoltà in cui si dibate Sanctis di conciliare la grammatica generale colle
grammatiche particolari della lingua d’ITALIA, si trovarono impigliati quanti,
anche per impulso della Critica della ragione pura di Kant, intendeno alla
ricerca delle relazioni fra pensiero e parola, fra l’unicità logica e la molteplicità delle lingue
(l)j ricerca che, per altro, non è
nuova, ma che già da origine nella Gallia alla grammatica generale. Il primo tentativo d’applicare le
categorie kantiane, dell'intuizione, spazio e tempo, e dell'intelletto alla
lingua, riassumo, non potendolo qui integralmente riferire, dal paragrafo della
parte storica dell’estetica di Croce, è
compiuto da Roth, mentre sullo stesso argomento speculano Vater,
Bernhardi, Reinbeck, e Koch: pensiero dominante de'quali è la
differenza tra lingua e lingue, tra la
lingua universale, corrispondente alla logica, e le lingue storiche ed
effettive, che son turbate dal sentimento, dalla fantasia, o come altro si
chiami l'elemento psicologico della differenziazione. Si distingue una teoria generale
della lingua d’una teoria comparata, Vater. La lingua, allegoria
dell'intelletto, si considera organo della poesia o organo della scienza, Bernhardi;
s’ammette una grammatica estetica e una grammatica logica, Reinbeck; si proclama
persino che l' indole della lingua si deve desumere dalla PSICOLOGIA RAZIONALE,
non dalla logica, Koch. Residui intellettualistici s'avvertono ancora in Humboldt
pel quale logica e lingua sembrano identificarsi sostanzialmente e diversificare
solo STORICAMENTE – l’arguzie della ragione conversazionale -- , e la
lingua stesso Croce, Estetica. Piazza
tenta dimostrare che la teoria di Kant del giudizio è stata già intuita e
fissata nella sintassi de’romani; ma è stato confutato da Croce, in La Critica.
pare un qualcosa fuori dell'uomo che l'uomo fa rivivere coll'uso. Ma il grande
filosofo trova il vero concetto della
lingua. La lingua, egli pensa, nella sua realtà è un prodursi e un
divenire, non un prodotto; è un'attività, èvegyeia, non un'opera, ègyov. La
lingua propria consiste nell'atto stesso del produrla nel discorso legato. Questo
soltanto bisogna pensare come primo e vero nelle ricerche che vogliono
penetrare l'essenza vivente della lingua. Lo spezzettamento in parole e regole è il morto artificio dell'analisi
scientifica. La lingua nasce spontaneo d’un bisogno interno. Esiste perciò ed
ecco la vera scoperta di Humboldt di fronte ai grammatici logici
universali una forma interna della lingua,
innere Sprachform, che non è il concetto logico, né il suono fisico, ma la
veduta soggettiva ed INTENZIONALE che l’uomo si fa delle cose. Questa forma
interna è il principio di diversità
proprio della lingua, oltre il suono fisico: è l'opera della fantasia e del sentimento, è
l'individualizzazione del concetto. Congiunger la forma interna del linguaggio
col suono fisico è l'opera d’una sintesi interna: e qui, più che in altro, la
lingua ricorda, nelle più profonde ed inesplicabili parti del suo procedere,
l'arte. Anche lo scultore e il pittore sposano l'idea alla materia, e anche la loro opera si
giudica secondo che quest'unione, quest'intima compenetrazione sia opera del
genio vero, o che l'idea separata sia stata penosamente e stentamente
trascritta nella materia collo scalpello e col pennello. Ma lingua ed arte in Humboldt
non s'identificano: e questo è il difetto della sua dottrina, che tira seco non
tenui contraddizioni, come quella circa il
carattere differenziale della poesia e della prosa. Humboldt non vide
esattamente che la lingua è sempre poesia e che la prosa, o scienza, non è
distinzione di forma estetica, ma di contenuto, sebbene intorno a questi due
concetti, compresi in senso filosofico, manifesta profonde vedute. La teoria della
lingua d’Humboldt è integrata dal suo maggior seguace, Steinthal il quale,
nella polemica sostenuta (M
Ueb. d. Verschiendenheit d.
menschl. Sprachbaucs), opera, 2M ed. a cura di Pott, Berlino, in
Croce. Croce. Croce. coll'hegeliano Becker, autore
degl’ORGANISMI della lingua, uno degl’ultimi logici della grammatica,
dimostra, pur tr’affermazioni talvolta eccessive, che concetto e parola,
giudizio logico e proposizione sono incomparabili. La proposizione non è il giudizio, ma è la rappresentazione, Darstellung,
d’un giudizio: e non tutte le proposizioni rappresentano giudizi logici.
Parecchi giudizi possono esprimersi in una proposizione unica. Le divisioni
logiche dei giudizi, i rapporti dai concetti 1 non hanno
orrispondenza nella divisione grammaticale delle proposizioni. Parlar d’una
forma logica della proposizione è una contraddizione non minore che se si parlasse àttW angolo d’un
cerchio o della periferìa d’un
tria?igolo. Chi parla, in quanto parla, non ha pensieri, ma lingua!
Senza entrar ora nel merito degl’altri problemi trattati da Steinthal, come
quello circa l'identità dell’origine e della natura della lingua che
esattamente risolve, e l'altro delle relazioni tra poetica, rettorica e teoria
della lingua, cioè tra lingua e arte ch’interessa
propriamente l'estetica, e che purtroppo Steinthal lascia insoluto, perchè non
arriva mai ad affermare che PARLARE è PARLARE BENE – sententia come concetto
orientato al valore -- e bellamente, o non è punto parlare, a noi basta
l'osservar, qui, conchiudendo, il nostro discorso che con Humboldt e Steinthal,
in quanto l'uno integra l'altro e lo rende coerente nella parte linguistica, s’ha un notevole
superamento della grammatica, non essendo questa soluzione pregiudicata dalla
mancata identificazione d’arte e
lingua: la liberazione della lingua dalla logica, la riconosciuta completa
autonomia della lingua da categorie di qualsiasi altra specie che non siano la
sua forma interna essenziale, rappresentano una vittoria della critica negativa
della grammatica. La dissoluzione della
quale viene così a coincidere perfettamente coll'avvento della scienza. La
ribellione e la reazione alla GRAMMATICA
RAGIONATA quale s’è venuta sistemando in Italia, se non assunsero dovunque quel
grado e quel tono che hanno in SANCTIS (si veda), seguirono, [Croce] però, su
per giù, il medesimo sviluppo e i medesimi motivi: d’una parte riusce difficile specie a letterati di più
largo ingegno, come vedremo accadere, p. es.,
a Giordani (Puoti stesso concede
a Sanctis uno studio discreto di quella
grammatica), il chiuder gl’occhi a quell’ELEVATE E SCINTILLANTI (alla
Grice) INVESTIGAZIONI logiche che sulle lingue avevan condotto i galli,
incomparabilmente più geniali e profondi dei loro epigoni italiani. L’aria è impregnata di logicismo, tutto suona
FILOSOFIA, il secolo è chiamato dei lumi: chi può sottrarsi alla forza delle
cose e del tempo? dall'altra, la vacuità di quel formalismo pel fine pedagogico
che ora s'impone, non richiede tanto un troppo ELEVATO SPIRITO FILOSOFICO per
essere avvertita, quanto il fatto stesso dell'esperienza dello studio della
lingua. Si puo credere, ancora, nella
grammatica generale, raccomandarne l'utilità, e come si puo fare anco per
ispirito d' imitazione e per servilismo verso la moda corrente, non occorre
dire; ma, già, anche a tacer
d'altro, con la
grammatica generale eravamo
già fuori del
campo de’bisogni pratici. La
grammatica generale è
come un'estetica logica
della lingua, quindi
FILOSOFIA, e noi
sappiamo che la
scienza non è
espediente didattico, mentre
il motivo principale
dell'interesse linguistico è ora
in Italia più
pratico che teorico.
L'assoluta inefficacia inoltre
della GRAMMATICA logica
a dirigere l'apprendimento della
lingua e l'esercizio
dello scrivere dove
essere tanto più
fortemente sentita, quanto più
dilaga il gallicismo
nella lingua e
nello stile: il
ritorno alla vecchia
pratica grammaticale e all'
osservazione dei lodati
scrittori, dove apparire come
una urgente necessità;
e vi si
ritorna infatti con
fede rinnovellata e
sotto la bandiera
del più rigoroso
purismo inalberata dal Bembo
dell'Ottocento, Cesari,
coronato alfiere dall'Accademia livornese,
qual s'è mostrato degno
d'essere con la
nota Dissertazione sopra lo
stato della lingua}; e,
in ogni modo,
con o contro
Cesari per gli scrittori
o pel popolo,
la pratica dove prevalere sulla
teoria astratta; perfin
nella grammatica em- [In
Opuscoli linguistici e
letterari di Cesari, raccolti,
ordinati e illustra/i
ora la prima
rolla da Guidetti,
Reggio d'Emilia, Collezione
storico-letteraria presso il
compilatore.] pirica,
normativa, tradizionale, presso
non gli scapigliati
ma i pedanti,
la vecchia fede
se non scossa,
certo fu illanguidita. La
tradizione puristica, peraltro,
non era stata
interrotta nella seconda
metà del Settecento,
neppur quando più
imperversò la bufera
del filosofismo francese.
Già prima che
il rappresentante più autorevole
di esso in
Italia, il Cesarotti,
fosse stato, appunto
in nome della
vecchia grammatica, contraddetto ricordammo già, tra
gli altri, Velo
con uno stile
forbito e piccante,
come dicono i
suoi editori, si
sforza Rosasco di
rivendicare ai Fiorentini
il tanto contrastato
primato intorno all'origine
ed al governo
della favella ,
introducendo nei suoi
Dialoghi sette della
Lingua toscana a pontificare
il Corticelli su
lesecolari questioni, sull'autorità dei grammatici,
sulla necessità imprescindibile dello
studio della grammatica,
di contrastare al
nuovo sistema de'
letterati propugnanti l'uso
d'un'altra lingua diversa
dalla fiorentina, con
tutto il bagaglio
de' vecchi argomenti
grammaticali e rettorici
in favore della
purità, della armonia
e dolcezza della
pronunzia fiorentina, dell'elegante
stile, e con
le vecchissime distinzioni
di discorso impensato
e di discorso
pensato. Eh via,
la legge che
ne obbliga a
studiare la grammatica,
è giustissima, e
chiunque brama riportar gloria
dal materiale della
scrittura, dovrà o
bere o affogare,
siesi chi egli
si vuole .
E cita in
sostegno il Salviati,
Quintiliano e altri
. Va notato
peraltro che il
Rosasco non solo
propugna la necessità
di uniformarsi anche
all'uso moderno, ma
giudica ancora, sebbene
coi soliti argomenti
estrinseci, che non dobbiamo
per conto alcuno
desiderare la perfezione delle grammatiche,
si perchè non
si può questo
desiderio avere, senza
desiderare insieme la
estinzione della lingua;
sì perchè quando
siamo obbligati a
scriver solo secondo
le regole e'
precetti dell'arte prescritti,
non è mai
possibile rendere le
nostre scritture eccellenti
: residui, come
ognun vede, delle
dottrine estetiche prevalenti
nel senso che
volevano conciliare il
rigore grammaticale col
criterio della libertà
individuale: temperato
purismo, che, mentre
per un lato
moveva dall'antica traEd.
della Bibl. scelta,
Milano, Silvestri] dizione
grammaticale del classicismo,
per l'altro era
reso possibile dal non
essersi ancora la
lingua italiana inoltrata
pel declivio della cosiddetta
corruzione francesistica. Quando
questa si accentuò
maggiormente, era naturale
che l'iniziativa del
riparo partisse dalla
Crusca custode gelosa
del patrimonio linguistico:
e già il
ricordato Borsa protesta contro il
decadimento della lingua,
e da Losanna
un suo Accademico, Haupt, scrive la
Lettera dun tedesco
stili' infranciosamento
dello stile, com'è
naturale che la
rifioritura linguistica fosse
più di vocabolario
che di grammatica ;
lo stesso lavorìo
grammaticale, il più
notevole dei primordi
del secolo XIX,
s'aggirò, come vedemmo,
intorno a quella
parte della grammatica
che è più
intimamente connessa col
vocabolario, i verbi, di
cui sorsero parecchi
prospetti e teoriche.
E a studi
di lingua, ossia
di vocabolario, si
era volto nel
1806 l'Istituto lombardo,
fondato dal Bonaparte
nel 1797 e
convocato a Bologna
nel 1803, di
cui era segretario
quel Luigi Muzzi
che già incontrammo
quale autore del
curioso libro sulle
Permutazioni dell' italiana
orazione, e che,
dopo essersi divertito
e gingillato intorno
a problemi filosofici
secondo la moda
d'allora pe' quali
non era affatto
portato, si immerse
talmente negli studi
grammaticali e lessicali e
con si vero
spirito di devozione
alla Crusca, che
il Monti doveva
titolarlo più tardi
il più fatuo
pedantuzzo che mai
facesse imbratti d'inchiostro.
Partecipò nel 1809
al concorso dell'Accademia livornese
con un lavoro
Dello siato e
del bisogno di
nostra lingua, ma
il manoscritto, per
ragioni regolamentari, non
fu accettato. Come
sappiamo, di quel
concorso il trionfatore
fu Antonio Cesari,
odiatore quanto Giordani,
delle dottrine di
Cesarotti, che, se
avevano ancora seguaci
dal Romani al
Nardo, andavano però
perdendo terreno sempre
più: quegli stessi
che le propugnavano
si avverta inoltre
erano assai più
temperati del maestro
e si guardarono
meglio di lui
dall'esser accusati di
gallofilia : verso l' italianità
era un desiderio
e un moto
generale, cui favoriva
la ridesta coscienza
nazionale: cesariani e
perticariani o mondani,
neopuristi della prima
maniera (cioè anteriore) e
della seconda, tutti
concordavano non solamente
nel In Mazzoni, L'Otl.] l'avversare i
criteri troppo licenziosi
de' cesarottiani, ma
ne! volere auspice
la Crusca per
la quinta volta
rimessosi nel 1813
alla ricompilazione del
Vocabolario che alle
sottili fantasticherie sulle ragioni
delle lingue si
sostituisse il lavoro
concreto e modesto
del raccogliere e del vagliare
voci e locuzioni
del buon uso
e a riprendere
l'osservazione grammaticale secondo
le migliori tradizioni
del Cinquecento. Balbo scrive al Vidua
una lettera sulla
lingua italiana per
muover lamenti intorno
le tante esagerazioni
e confusioni pratiche
e teoriche del
filosofismo che non
giovavano punto alla
causa della lingua:
e il Vidua
raccomandava a un compatriotta
che, andando a Firenze
come avevan fatto
già l'Alfieri e
il Goldoni, e
avrebbe fatto il
Manzoni e avrebbero
consigliato al Cavour,
non trascurasse di recarsi la
mattina in Mercato
Vecchio ad ascoltar
il pizzicagnolo e
le contadine. E
alla Crusca stendeva
la mano l'Istituto
lombardo per proseguire
concordi all'opera d'ampliamento del Vocabolario:
né le ripulse
dell'Accademia orgogliosa e
gelosa delle sue
secolari tradizioni né
i risentimenti e
le irritazioni, causa di
tante guerre anche
personali, che esse
provocarono nel Monti, poterono
mai dividere gli
animi concordi nella
comune avversione al logicismo, alle
metafisicherie di provenienza
franco-cesarottiana,
nonostante che, per
quanto riguarda i
criteri particolari dell'uso
linguistico italiano (pratica,
dunque, non scienza),
facilmente potessero incontrarsi
col Cesarotti in
un vivo desiderio
di libertà, e
spesso inconsciamente (come
sarà avvenuto al Leopardi),
non soltanto gli
antipuristi come il
cesarottiano Torti di
Bevagna, ma letterati
meno bollenti nella
secolare battaglia. N'è prova
l'atteggiamento assunto dal
capo riconosciuto de'
classicisti, il Giordani,
nelle contese tra
il Cesari, Monti e
Perticari: richiesto del
vero valore di
alcune voci tolte
dal greco, rispose
[al Monti] e
colse quell'occasione per
lodare l'opera e il suocero
e il genero,
ma anche per
addimostrare alcune sviste di
essi due correttori
degli altri, e
per augurare che
gli avversari si
riconoscessero invece compagni,
come quelli che
insomma avevan un
fine medesimo e
uno stesso desiderio. Cfr. F.
Colagrosso, La teoria
leopardiana della lingua,
Napoli, 1905 (Estr. d.
Rend. Accad. Arch.
Lett. e B.
A. in Napoli,
XIX) Mazzoni. Pure, il Giordani
è appunto uno
di quei puristi
che raccomandavano ai giovanetti
il Du Marsais
e il Beauzée.
I volumi della
Enciclopedia Metodica ne'
quali è trattata
la grammatica e l'
eloquenza ti possono
essere utili. Gli
articoli rettorici di
Marmontel non mi
paiono più che
mediocri; quelli di
Jancourt assai meno
che mediocri. Ma
bellissimi i grammatici
di Du Marsais,
e di La-Beauzée.
E il conoscere
e adoperare filosoficamente la lingua
è gran virtù
di eccellente scrittore.
E prontamente si applica
alla nostra quel
che è notato
della francese (1).
Ma che cosa
significa adoperare filosoficamente mia
lingua ? specie
quando la si
consideri, come fa
il Giordani, cosa
diversa dallo stile?
Interrompi, consiglia, con
la lettura di
quegli articoli, lo
studio che devi
far della lingua,
e preparati a
quello che poi
farai dello stile.
Perchè io giudico
che quello della
lingua debba precedere.
Non si dee
prima sapere qual
sia la materia
de' colori; poi
imparare ad impastarli
e mescolarli; poi
esercitarsi a collocarli,
e accordarli ?
(io). Tutto lo
scrivere sta nella
lingua e nello
stile; due cose
diversissime egualmente necessarie.... I
vocaboli e le
frasi sono i
colori di questa
pittura; lo stile
è il colorito.
Ora persuaditi, caro
Eugenio, che l'acquisto de' colori
sia fatica della
memoria: l'uso del
colorito sia esercizio
d'ingegno, disciplina di
buoni esempi, di
pochi precetti, di moltissima
osservazione, di molta pratica.
Ho letto
molti antichi e
moderni che vollero
esser maestri: ho
perduto tempo e
acquistato noia, senza
profitto. Veri maestri
ho trovato gli
esempi de' grandi
scrittori. Tra i
moderni consiglia, tuttavia il
breve trattato del
Condillac, Art d'écrire.
Di tutto quel
libro abbastanza buono,
m' è rimasto
in mente questo
solo principio, molto
raccomandato da lui
= de la
plus grande liaison
des idées Vero è
che quel legame
delle idee non
deve esser sempre
logico; ma secondo
la materia che
si tratta, dev'esser
pittorico o affettuoso;
di che i
moderni intendon pochissimo:
gli antichi vi
furono meravigliosi. In
questo guazzabuglio di
vedute, d'idee e
di principi, c'è tutto,
meno lo spirito
filosofico: dal che
si vede quanto
A un italiano
Istruzione per l'arte
di scrivere, in
Scritti di Giordani,
ed. Chiarini, in
Firenze.] poco fosse compresa
e con quanto
poca convinzione raccomandata la grammatica
generale del Du
Marsais e del
Beauzée. Il nume
che agitava interiormente
il Giordani e
i degni suoi
compagni d'arme non era
la filosofia, ma
lo spirito italiano
che si rinnovava,
rinnovamento che alla
coscienza di molti
si presentava come un
problema di lingua:
donde il calore
con cui si
davano a questi
studi. Il Giordani,
mosso dall'invito dell'
Accademia italiana, non per
rispondere ad essa,
per ciò che
questa materia non
sia d'ozio letterario
.... ma importi
non poco all'onore
d'Italia , si
dà ad abbozzare
una Storia dello
spirito pubblico d' Italia
per 600 considerato
nelle vicende della
lingua e alcuni
anni più tardi,
discorrendo in una
lunga lettera al
Capponi di una
raccolta in trenta
volumi che intendeva
fare delle migliori
e men note
prose della nostra
letteratura, allargando e
colorendo le linee
di quel primitivo
abbozzo, esprimeva l'opinione
che l'ordine escogitato
lo menerebbe quasi
per una storia
della nazione e
della lingua ("),
e che dalla
somma dei particolari
discorsi introduttivi ne
sarebbe derivato quasi
un ritratto filosofico
delle menti italiane
per quattro secoli .
Perciocché io considerando
la lingua come
uno specchio, nel
quale cadano tutti
i concetti da
tutti i pensanti
della nazione, e
dal quale nella
mente di ciascuno
si riflettano i
pensieri di tutti;
volli con diligenza
di storico e
sagacità di filosofo
esaminare il vario
corso del pensare
italiano per le
vestigia che di mano
in mano lasciò
impresse nel variare
delle lingua; della
quale i vocaboli
e le frasi,
o nuovamente introdotte, o
dall'antico mutate, fanno
certissimo testimonio (a
chi '1 sa
interrogare) d'ogni mutamento
nella vita intellettiva
del popolo. Così
il Giordani si
riallaccia al Napione.
Tra il Napione
e il Giordani
spicca anche per
questo riguardo il Foscolo, che
nella celebre orazione,
recitata a Pavia Opere: Scritti
editi e postumi
pubbl. da Antonio
Gussalli , Milano.
f;) Scritti, ed.
Chiarini. Per l'eccellente posizione
che occupa il
Foscolo nella storia
della critica, oltre
che le note
pagine del De
Sanctis, vedi Croce,
Per la storia
della critica ecc.,
già cit., p.
9 e 27,
Trabalza, Studi sul
Boccaccio, e Borgese,
Storia della critica
romantica, libro è
superfluo avvertirlo pell'inaugurazione degli
studi, Dell' origine
e dell'ufficio della letteratura
e nelle Lezioni
di eloquenza che
le tennero dietro,
e particolarmente in
quella su la
Lingua italiana considerata
storicamente e letterariamente, (l)
e ne' sei
Discorsi sulla lingua italiana parlava
della nostra lingua
coi medesimi spiriti
e intendimenti d'italianità,
in modo veramente vivace. Nella
sua Prolusione , ripeteremo col
De Sanctis, tenta
una storia della
parola sulle orme
del Vico, censurata da
parecchi in questo
o quel particolare,
ma da' più
ammirata, come nuova e
profonda speculazione. Il
suo valore, anzi
che nelle sue
idee, è nel
suo spirito, perchè
non è infine
che una calda
requisitoria contro quella
letteratura arcadica e
accademica, combattuta da tutte
le parti e
resistente ancora, contro
quella prosa vuota
e parolaia, e
contro quella poesia
che suona e
che non crea.
Nessuno ha considerato, scriveva
il Foscolo, filosoficamente le
origini, le epoche
e la formazione
di essa [lingua
italiana], affine di
conoscere per via
d'analogia i principi,
i progressi oscurissimi
delle formazioni e
trasformazioni di tante
altre lingue. La storia
d'una lingua, ecco
il suo preciso
punto di vista
non può tracciarsi
se non nella
storia letteraria della
nazione; né la
storia può somministrare
fatti certi e
fondamentali a trovare
in materie intricatissime il
vero, se non
per mezzo di
epoche distinte, in
guisa che le
cause non diventino
effetti, e gli
effetti non sieno
pigliati per cause
. che dev'esser
tenuto sempre presente
per tutto questo
periodo, perchè, se le idee
sulla lingua de'
vari critici che
vi sono criticati
poca luce diffondono
sulle loro teorie
poetiche, utilissimo è
invece conoscere la
portata critica di
esse per chi
fa la storia
della lingua. In Opere
edite e postume
di Foscolo, Firenze, Le
Monnier. In T.. È
evidente l'affinità tra il metodo
del Foscolo e
quello del Napione;
ma com'è più
profonda la visione
del Foscolo, così essa
in certo senso
precorre ancor meglio
il principio moderno
onde si vorrebbe
indagata la storia
della cultura nella
lingua, specialmente in quanto
si serve del
metodo monografico per
periodi di affinità spirituali. Notevolissima
sotto questo rispetto
è una pagina
della Lez. II
di Eoa. (è
la 82 del
voi. II) dove
illustra il principio:
La letteratura è
annessa alla lingua.
Capitolo quindicesimo 485
Nel fatto, il
Foscolo intravvede così
in confuso l'identità
di lingua e
pensiero, e nell'evoluzione linguistica
uno svolgimento spirituale,
mostra cioè una
vaga coscienza del
problema linguistico, e il
suo sforzo di
risolverlo, anche se non
felice,
è già un
progresso. Particolarmente notevoli,
anche per la
ragione pedagogica, in
cui però, come
sappiamo, ben si
riflette la scienza
teorica, son le
pagine che scrive
sulla dottrina dantesca
del Volgare illustre.
Ne riferiamo volentieri
un brano che
ci tocca davvicino.
Su ciò che
Dante previde con
occhio sicuro egli
fondava pochi principi
generali intorno alla
legislazione grammaticale.
Erano inerenti alla
condizione e alla
natura della lingua,
onde operarono sempre
e quando vennero
applicati da parecchi
scrittori, e quando
vennero trascurati da
altri, o negati
ostinatamente da molti;
ed operarono fin
anche negli scritti
di chi li
negava ed oggimai l'esperienza
ha convinto la
più gran parte
degl'Italiani, che la
loro lingua letteraria
non può prosperare senza l'applicazione dei
principj di Dante:
principi metafisici, dice
Foscolo, annunziati in tempi
ne' quali la
filosofia, l'arte
dialettica, e la
teologia erano tutt' uno,
e tali da
intricarsi a vicenda,
e perciò un
po' oscuri forse
allo stesso ALIGHIERI (si veda). Al
qual punto il
pensiero di Foscolo corre
a Locke che facilita
lo studio delle
analisi delle idee,
e quindi della
natura delle lingue – Grice: way
of things, way of ideas, way of words -- e
a Condillac che
illustrò questa difficilissima parte
della metafisica. Ma
il fine supremo
di tali studi è
per tutti questi
filosofi italiani
raggiungere le nazioni
che appresso a
noi surte ci
sorpassarono, e poiché
il mezzo non
sembra potesse esser
la [Giordani, Scritti. cit., ed.
Chiarini. Si richiamino
a tal proposito
e si tengano
presenti in questo
capitolo anche peraltro
le relazioni d'amicizia
personale che corsero
tra maggiori e
minori rappresentanti di
questo movimento d'ITALIANITÀ che s'agita
nelle questioni linguistiche.
V. specialmente Guidetti, La
questione linguistica e
l'amicizia di Cesari con
Monti, Villardi e Manzoni
narrata con l'aiuto
di documenti inediti, Reggio
d'Emilia; dello stesso, Cesari
giudicato e onorato
dagl'italiani e sue relazioni coi contemporanei con
documenti inediti, Reggio
d'Emilia; e Bertoldi,
Giordani e altri
personaggi del tempo
in Prose critiche
di storia e
d'arte, Firenze] FILOSOFIA, lo
studio cioè dei
problemi della natura
del linguaggio, ma
lo studio pratico
della lingua che
non si dove
lasciare adulterare, da
più parti, non i soli
fiorentini, ma tutti
gl'italiani si danno
e intesero con
viva fede e
non tenue sentimento
d'ITALIANITÀ all'opera di restaurazione, che
un diffuso lavorìo,
specie nell'Italia centrale
e particolarmente nell'Emilia,
nella Romaga, nella Marca, nell'Umbria,
a Roma, di
traduzioni dai classici
latini, condotto con
superficiale ma sincero
sentimento e gusto
di bellezza formale,
favorisce grandemente. Il
mondano, e avversario
della Crusca, Lamberti
pubblica con aggiunte e
correzioni Le Osservazioni
del Cinonio. Ri-usce
alla luce la
vecchia raccolta di Pistoiesi,
Prospetto dei verbi
toscani tanto regolari
che irregolari e
Casarotti, torna a
discorrere Sopra la
natura e l'uso
dei dittonghi italiani
trattato. MASTROFINI (si veda) pubblica Teoria e
prospetto ossia Dizionario
critico de verbi
italiani coniugati specialmente
degl’anomali e mal
noti nelle cadenze.
E un compilatore
in Milano ri-assume tutto
questo lavorìo intorno
ai verbi: Teorica
dei verbi compilata
sulle opere di Cinonio,
di Pistoiesi, di Mastrofini e
di altri, e una compilazione
ancor più ricca
attende Roster. Questo
gruppo di saggi, com'è
facile avvertire, si rannoda a
quella tradizione grammaticale
che appunto con Cinonio
inizia la trattazione
di categorie particolari
della grammatica giunta
allora al suo
completo sviluppo nel
suo schema generale
per opera di
Buonmattei; ma non
è certamente estraneo
a quell'esigenze d’osservazione diretta
sul materiale della
lingua a cui
si sforza di soddisfare il
purismo che appunto
in quegli anni
si afferma solennemente
con la vittoria di
Cesari. Il punto
di vista è
infatti ancora il
retorico, come precettivo
è l'intendimento, anche
se uno di
quei quattro autori,
Casarotti, si abbella
nella sua esposizione
del culto professato
alla dottrina di VICO (si veda) che
cita in più
luoghi: mentre, [Pisa,
Capurro, nuova ed.
riv. e corr.
La prima ed.
aveva visto la
luce a Roma.
Padova, nel Seminario.
Roma, De Romanis.
Anche Greco, il
grammatico consigliere di
Puoti, ha d'altra parte, non
è identificabile con
quello delle GRAMMATICHE
RAGIONATE, anche se
un altro, Mastrofini,
segue l'autorità di Varano,
Ossian, e Cesarotti. I
tempi non potevano
non esercitar la loro
influenza. VICO (si veda) ormai
comincia a non esser
più una sfinge,
e ciascuno degli
altri scrittori gode
il favor popolare. Vedasi come
Casarotti, che indubbiamente
non va confuso coi
grammatici di bassa
lega, citi VICO (si veda). Egli,
mosso alla sua
trattazione dalla necessità
di sistemare una
notevole serie di
fatti, che inosservati
danno luogo a
molti inconvenienti, constata che
i dittonghi mobili
non sono il
centesimo permalosi dei
fermi, e senza
sdegno stanno in
bando da parecchie
voci, alle quali
avrebbero diritto di
entrare. Priemo, truovo,
pruova, ed altre
già l'hanno quasi
dimenticato. In questa
parte verificasi la
sentenza del profondissimo
e oscurissimo VICO (si veda) (Pr.
di Se. N.
Della Sapienza Poetica, Corollarj d'intorno
alle origini della
locuzione ecc.), che
i dittonghi ne’principj
delle lingue sono
in assai più
numero, e che
a poco a
poco si scemano. E
su VICO (si veda) stesso si
appoggia per mostrare
l'obbligo degl’italiani a non
bandirli nella lingua che
riceve d’essi pienezza
e varietà di
suono, due qualità
carissime all'armonia, ed al
canto. Di fatti
i dittongi, se hanno
valore i pensamenti
del citato filosofo napoletano, del
primo canto de popoli
faìino gran pruova: e
specialmente non dovrebbero
bandirli i poeti,
poiché l'espressione poetica è
tanto vaga d'indipendenza da
ogni fastidiosaggine
grammaticale, che talvolta per
lo disprezzo di
certe rigide leggi acquista
forza e bellezza.
E la poesia,
come colui dice
della pittura, divien
grande coli 'industrioso maneggio
delle cose minime. Una consonante, una vocale, un dittongo,
un ACCENTO, letto, se non compreso, Vico. Caraffa fa derivare Greco da Vico e
lascia credere ch’un'infusione del spirito di VICO Greco comunica a Puoti
stesso. [,dove anche osserva. Tanto è rispetto a noi della lingua del Lazio,
che abbondantissima nella scrittura di sillabe bifocali, come Terenziano Mauro
chiama i dittongi, rarissimi ne conserva
nella pronunzia. E tanto è della lingua gallica, che compendia in una sola
vocale molti dittongi, de’quali sul labbro degl’antichi galli s’è probabilmente
lasciato sentire il duplice suono. Sul labbro italiano poi questo duplice suono
si fa sentir sempre: e in ciò siamo più ragionevoli de’galli, in quanto l’italiana
scrittura, si ritengano o si sbandiscano i dittongi, rimane sempre d'accordo
colla pronunzia.] tutto essa fa servire a’suoi sublimi disegni. Così la
filologia filosofica di VICO divienne in Casarotti rettorica grammaticale, ma
assai migliore di quell'altra della tradizione. Nella parte storica e empirica
il saggio di Casarotti non manca d’utilità. Passa in rassegna l’esposizioni di MAZZONI
che NEGA ALLA LINGUA ITALIANA IL VERO E PROPRIO DITTONGO, di Salviati che n;ammise,
di Buonmattei che ne giustifica tanti quanti sono i gruppi di due vocali. Si
ride di Gigli che rimanda a Mazzoni chi vuol aver cognizione piena dei nostri
dittonghi, avendo Mazzoni non scritto un trattato, ma un semplice discorso, e
non sui soli dittonghi italiani, ma sui dittonghi in genere: rettifica non del
tutto giusta, come s'è visto. Vero
trattatista è certo egli Casarotti, che dà del dittongo questa definizione: la
comprensione di due vocali diverse in una sillaba sola e indissolubile, di
suono misto, come sono “aura”, “euro”, “piovere”, “ciel”. Critica gli
strafalcioni dei rimari, Folchi, Fioretti, Ruscelli, Baruffaldi, non escluso
quello di Rosasco, e, naturalmente, discorre a lungo di metrica, con molte
esemplificazioni, essendo compilato il
suo trattato principalmente in servizio della poesia. Riassume la storia di
tutti i capricci ortografici, dichiarandosi contro l’uso della dieresi, co-operazione.
Pistoiesi crede colmare una lacuna dei grammatici che danno sui verbi
ammaestramenti e prospetti
troppo scarsi ai
bisogni. E ora
se ne ristampa
l'opera per il
bisogno che se
ne sente. Delle
voci verbali vi
si fanno quattro
classi classificazione che
è un'altra prova
del carattere empirico
e retorico del
trattato: buone e corrette, regolari; antiche; poetiche;
IDIOTISMI – Grice, IDIO-LECT – IDIO-SYNCRATIC -- ed errori.
Si rimprovera Buonmattei di
non aver avvertito
che di contro
al leggemmo si
scrive l'errato lessamo.
Si registra per
es. il “savamo”
(= “eravamo”) che
incontrammo nella grammatica
vaticana ricordata, ma,
a sua volta,
dimentica il “tro” e
il “tretti” da “trarre,”
che quella grammatica diligentemente raccoglie.
Per questa parte
storica specialmente il saggio
di Pistoiesi conserva
qualche interesse. Lo
stesso [Ricorda qui
le 12 definizioni
dei dittonghi date
da Riccioli in De
recia diphthongorum promintiationc. Dice che
nel Giornale di
Padova si afferma
che Evangeli scrive
un trattato sui
dittonghi italiani, ma
egli dubita dell'asserzione. Non
deriva dal latino
questa definizione del
dittongo.] dicasi di quello
di Mastrolilli, che,
peraltro, adopera un
metodo assai diverso
di trattazione sia
nella parte introduttiva,
dove porge, come
meglio puo, delle
nozioni archeologiche sulle
trasformazioni latine, sia
nella sistematica, dove
registra di ogni
singolo verbo tutte
le voci, confinando
nelle note gl’usi
antichi e dialettali,
costruendo così una
gran mole in
due grossi volumi
di quattrocento pagine
l'uno. Un'altra miniera di
tutte le forme
storiche del nome
e del verbo
sono le Osservazioni
grammaticali di Roster.
Il quale, più
che a trattar
sistematicamente la grammatica,
intende soprattutto a
radunare intorno a
ogni persona, come
a ogni nome,
tutte le varianti
che gli scrittori
adoperarono, dando così
un utile vocabolario
metodico delle declinazioni
e delle coniugazioni nel loro
uso storico. Qualche
decennio più tardi,
su questo argomento
avemmo un lavoro
assai migliore e
di una maggior
portata, che è
quasi anello di
congiunzione tra i
precedenti prospetti più
o meno empirici
e i più
recenti trattati di
analisi rigorosamente filologica:
la Analisi critica
dei verbi italiani
investigati nella loro
primitiva orìgine da NANNUCCI (si veda), a
cui seguì il
Saggiò del prospetto
generale di tutti
i verbi anomali
e diffettivi, sì
semplici che composti,
e di tutte
le varie configurazioni, dall'origine della
li?igua in poi.
Derivata da' medesimi principi e
condotta con l' istesso
metodo è la
Teoria de' nomi
della lingua italiana,
che, come X Analisi,
si raccomanda sia adoperata
con cautela. Al
Nannucci dobbiamo an
Osservazioni grammaticali intorno
alla lingua italiana
compilate da Giacomo Roster
professore delle lingue
italiana, tedesca ed
mg le se
ecc. in Firenze,
mediante le quali
si procura di
fissar le regole
sinora incerte e
vacillanti, fondate sull'uso
generale de' classici
antichi e moderni,
e col parer
de' primi letterati
d'Italia: opera necessaria
per intendere gli
scrittori antichi e
moderni, e per
parlare e scrivere
correttametite. Dedicata alla
eulta nazione italiana.
Firenze, nella stamperia
Ronchi. Dopo un
Ristretto di termini
grammaticali e un Ristretto
delle declinazioni tratta
a lungo; della
Dee lina zio?ie, ossia delle
varie terminazioni di
nomi sost. e
agg. Nella dà
le Regole per
le formazioni di
modi, tempi e
persone delle tre
coniug. de' verbi
reg. e irr.
Seguono alcune pagine
di note. (Il
raro libro mi
fu fatto conoscere
dal prof. Teza,
che ne possiede
un esemplare). Storia della
Grammatica cora Voci
e locuzioni italiane
derivate dalla lingua
provenzale. Son tutte
parti codeste et uri
opera vasta alla
quale s'era dato
l'esimio filologo e in cui
si proponeva di
ricercare minutamente la
natura, l'indole e
la storia della
nostra lingua, seguitandola secolo per
secolo ne' suoi
movimenti e nelle
sue trasformazioni, ed investigando
la ragione de'
costrutti e delle
forme grammaticali (Ai
lettori): un miscuglio,
come ben s'intende, d'empirismo, di
storia e di
filosofia del linguaggio
in cui sarebbero
state riassunte e
conciliate le tre
tendenze degli studi
linguistici prevalenti al
suo tempo. Fu
bene che il
Nannucci si limitasse
alla parte storica
usando, come le
forze gli permettevano, discretamente, del
metodo comparativo ignoto
ai suoi predecessori specialisti: ne
uscirono giustificate nella
loro origine e
nella loro analogia
con le neolatine,
voci e frasi ritenute
errori e idiotismi
dagli altri; altre
furono ridotte alla
loro vera lezione.
Quelle che per
altri erano minutezze,
cioè tutte le
uscite varie di
una stessa voce,
egli raccolse e
sistemò, svolgendo la
sua trattazione, se non
con metodo, con
ordine, chiarezza, cioè
tempo per tempo,
persona per persona.
Faccio la riserva
sul metodo, appunto
perchè qui è
il lato debole,
filologicamente parlando, dell'opera
del Nannucci: la
sua è una classificazione empirica,
storica nel senso
che parte dalle
forme più antiche
per giungere alle
moderne: non è,
e non poteva
ancora essere a
base fonetica, come
oggi si esigerebbe.
Se non che
anche in questo
rispetto supera i
precedenti trattatisti, de' quali
egli stesso vorrebbe
eccettuato il Mastrofini, se
oltre all'aver egli
lasciato addietro tutte
le anomalie più
riposte, che sono
sparse per entro
agli scritti de'
nostri vecchi, anche
nelle più ovvie
da lui riprodotte
, non avesse
per lo più
errata la vera
origine. L'opera di NANNUCCI (si veda), come
anche risulta d’un
utilissimo indice, è
ricca di osservazioni
grammaticali spicciole che
servono a lumeggiare
la posizione sua
di grammatico diligente
e osservatore, raccoglitore di
prima mano de’fatti
grammaticali, che sa
ordinare nella loro
serie storica, non
nella loro genesi
ed evoluzione interiore,
intese, è superfluo
dirlo, nel loro significato fittizio. È insomma,
per l'Italia, a
prescindere dai nostri
filologi migliori, l'anello
di congiunzione tra la
pura precettistica e l’indagine storica. Un
contenuto grammaticale hanno
egualmente, chi più
chi meno, tutti
i nostri retori
ed eruditi e
lessicografi filologi nel senso
ristretto che a
questa parola da
Diez in poi
viene annesso, non li
potremo chiamare dell'indirizzo puristico-classico da CESARI (si veda) a FORNACIARI.
D’essi, quando non sono
anche produttori di
grammatiche vere e
proprie, onde particolarmente vogliamo
desumere i caratteri
della grammatica di
questo periodo, basta
che noi ricordiamo
poco più che
i nomi per
complemento di disegno,
rientrando essi in
quanto tali alcuni
sono grandissimi filosofi
come Foscolo, Monti,
Leopardi più direttamente
nella storia dell'erudizione linguistica o
della rettorica o
della coltura o
della critica letteraria
o della cosiddetta
questione della lingua,
secondo i singoli casi.
Nel loro complesso,
per quanto ha
rapporto diretto con
la grammatica, essi
seguono e costituiscono
il medesimo moto
onde derivarono le
varie grammatiche che
esamineremo con quella
brevità che l'interesse
ormai scarso della
materia e la
qualità possono consentire
in una storia
come la presente.
Di quei tre
grandissimi, benché non
siano stati, strettatamente parlando,
né grammatici né
critici del concetto
di grammatica e neppure
rinnovatori, saremmo tentati
a far qui
un meno breve
cenno di quel
che s'è fatto,
avendo essi dato allo studio
della lingua una
parte non piccola
della loro attività,
se, considerando, a
tacer d'altro, che
le loro particolari
vedute non sono
in sostanza se
non antecedenti della
dottrina di MANZONI (si veda) sulla lingua,
che è poi
la dottrina linguistica
del romanticismo, di
questa non dovessimo
trattenerci più lungamente
e per il
nuovo indirizzo grammaticale
che ne deriva
e per la
connessione che ha
particolarmente colla critica
della grammatica generale,
che a noi
sopratutto interessa. Ma di Leopardi mi
giova mettere in rilievo
un curioso pensiero
circa i rapporti
tra grammatica e lingua,
che si può
riassumere così. La varietà,
ricchezza, onnipotenza d'una
lingua sono in
ragione inversa del
dominio regolatore della grammatica,
e che egli
illustra con gl’esempi
della lingua greca
che ha inesauribile ricchezza
e assoluta potenza
avanti il sorgere
della sua grammatica,
della LATINA che, per
antica, avendo avuto
avanti la grammatica
greca, studiata per
principi e nelle
scuole, riuscì meno
libera e meno
varia d'ogni altra
, dell'italiana che,
scritta primieramente da
tanti che nulla
sapevano dell'analisi del
linguaggio (poco o
nulla studiando altra
lingua e grammatica,
come sarebbe stata
la latina), venne, per
lingua moderna, similissima
di ricchezza e d’onnipotenza alla
greca, della tedesca,
che, avendo grammatica
e non forse
rispettandola e non
avendo vocabolario riconosciuto per autorevole,
è nelle migliori
condizione per pervenire
alla ricchezza, potenza,
libertà. Giudizio quant'altro
mai ostile alla
grammatica, ma il
più servile verso
la sua immaginaria strapotenza. Su
di un altro
grande italiano, invece,
che citeremo tra
poco, TOMMASEO (si veda), filosofo
di professione, non
possiamo non fermarci
un po’più, il
che faremo con
la scorta di BORGESE (si veda), il
quale ci sembra
averlo caratterizzato con mirabile precisione. Il CESARI (si veda)
del romanticismo, lo chiama Borgese, e di
CESARI non è così spietato censore come
molti non-romantici. Ha quel che a CESARI (si veda) manca per divenire
scrittore più che comune, la fede nel grande principio della rivoluzione
letteraria. Di singolare nelle teoriche sulla lingua di TOMMASEO (si veda), è
l'analogia coll’opinioni letterarie che
si professano ornai da
una ventina d'anni.
Egli stima doversi i
significati delle parole
distinguere secondo l'uso
più generale e
ragionevole, proprio come gl’evangelisti del
romanticismo volevano ligie
le lettere alle
passioni e ai
desideri del tempo,
perchè fossero secondo ragione
e morale. Nel
linguaggio vede tre
pregi essenziali di
bellezza: l'etimologia più
prossima e d'evidenza
irrecusabile, l'analogia filosofica
e la grammaticale,
l'armonia musicale e
l'onomatopeica: pregi che
meglio d’ogni altro
idioma ritiene possedere
il toscano. Non
rinnova i concetti fondamentali della linguistica. Applica come BERCHET
(si veda) e MANZONI (si veda) in modo
nuovo principi vecchi,
e sostenne l'imitazione
del vero e
l'uso di parole
intelligibili al popolo.
Ed ecco l'intento
morale della riforma. Giova osservare,
scrive, che la
straordinarietà della lingua,
la quale dà
talvolta allo stile
una cert'aria di
dignità, è pregio
tutto posticcio che non compensa
il difetto di
pregi più intrinseci.
Molti si credono
d'essere scrittori non
comuni, allorché rivolgono
un’idea comune in
abito straordinario, ma converrebbe,
in quella vece,
sotto forme comuni,
ren[Pensieri di varia
filosofia e dì
bella letteratura, Firenze.
Del resto su LEOPARDI
(si veda) filologo, v.
i noti lavori
recentemente condotti sullo
Zibaldone, il saggio di BORGESE, e
il citato studio
di COLAGROSSO. Colagrosso.] -dere accessibile
e, quasi dirti,
perdonabile la straordinarietà dell'idea.
Nella pratica pesa
con scrupolo da
farmacista parole e
sillabe e della
grammatica è cavalier senza
macchia. Il numero maggiore
degl’eruditi e letterati
che si occuparono
in questo tempo
di lingua è
dato dai vocabolaristi
in genere: accademici della Crusca,
dell’Istituto lombardo, Cesari,
Galiani, Tommaseo, compresi
i compilatori di
dizionari di sinonimi
(Grassi, Tommaseo), metodici
(Carena) e dialettali,
e in particolare,
dagl’avversari più o
meno accaniti della
Crusca (Monti, Perticari,
Compagnoni) coi loro
rispettivi contradittori nelle
polemiche che seguirono
alla Proposta di Monti (Biamonti,
Galvani, Niccolini, Tommaseo),
e ancor più
particolarmente dagli annotatori e
correttori della Crusca
(Parenti). Astrazion fatta
dall'utilità pratica di queste
raccolte di voci
e locuzioni, sono
ormai ben noti
il nocciolo, le vicende e
l'importanza della questione
agitatasi con tanto
fervore e accanimento:
sostenitori e avversari della Crusca,
nel propugnare secondo
il loro partito
un uso più
o meno esteso
nel tempo e
nello spazio, quale
si è il
loro ideale d'un’ITALIANITÀ più o
meno pura di
pensiero, di sentimento
e di lingua
(entrano naturalmente nelle
questioni sentimentalismi patriottici
più o meno
caldi e sinceri),
muoveno dall’ormai stravecchia
concezione meccanica del
linguaggio abbuiata ancora
non poco dall’ignoranza dell'origine
dell'italiano, o meglio,
de’ [In Borgese. Borgese. Tra i
molti saggi di
Tommaseo che in
qualche modo si
riferiscono al nostro
argomento, merita d'essere
ricordato qui particolarmente l’aiuto
air unità della
lingua, saggio di ìuodi
con formi all'uso vivo
italiano che corrispondono
ad altri d'uso meno
comune e meno
legittimo, Proposte, Firenze,
Le Monnier. Proposta di
alcune correzioni ed
aggiunte al Voc.
d. Cr., Milano, R.
Stamperia. Cvi collaborano segnatamente
Perticari, Gherardini, Grassi,
Peyron ecc.. Devesi
ricordare qui il
Capitolo CHI di
un'Opera cominciata a
scrivere dall’autore prima
della Proposta di Monti
e da non
pubblicarsi se non piu
tardi (Estr. d. Quad.
XV del Nuovo
ricoglitore con un'aggiunta,
Milano) di Compagnoni,
che pretende, come ODERZO
(si veda) Oderzo -- Stilla libertà concessa
alla locuzione italiana
della Crusca -- di aver precorso
Monti. Galvani, tra tutti
costoro, si distingue
per i suoi
notevoli contributi alla
storia della letteratura
occitanica. Ricordiamo qui particolarmente di
lui il discorso
Del soverchio rigor de’grammatici.] vari dialetti
italiani; e si
tormentano tutti egualmente
intorno a un
problema anti-fìlosofico. Lo
stesso dicasi dell'altra
categoria, non meno
numerosa, dei panegiristi
della lingua italiana
e caldeggiatori del
ritorno all'antica purezza
e semplicità, trattatisti
in genere dell'origine
e delle doti
dell'elocuzione, dissertatori
di combattimento o
no, tutti quali
con più quali
con meno di
destrezza armeggiami pel
feticcio col vecchio
bagaglio d'argomenti formali:
Cesari, alla testa,
Amadi, Amicarelli, Bressan,
Mazzoni, Biondelli, Betti,
Ranalli, Paravia, Fornaciari,
Montanari, Mestica, Costa,
Pagliese, Farini, Colombo,
Marchetti, Parenti, Giordani,
a tacer di Puoti e
della sua scuola.
Una terza schiera,
infine, è costituita
da molti di
questi stessi, T. mette
in prima linea
Colombo, e altri
moltissimi tra questi
ricorderemo honoris causa Leopardi
e Foscolo che
o curano l'edizione de’testi
antichi o li
annotarono o fecero
l'una cosa e
l'altra. L'opera di
costoro ha un
carattere più specificatamente linguistico-retorico; ma,
oltre che qui
non se ne potrebbe molto
agevolmente tener conto,
poiché sarebbe da
ridurre a corpo
sistematico, in fondo
la ritroveremo nelle
singole grammatiche che accompagnarono questa
produzione esegetica, di
cui a priori
s’intendono i valori
e i caratteri,
sol che siano
annunziati i nomi dei
produttori. Ma qui
dobbiamo fermarci per
registrare un fatto
di qualche importanza.
Pensando a questa
schiera di puristi
e di retori,
generalmente ce li figuriamo
anzitutto grandi credenti
nella grammatica, come nell'ultima
panacea di sicura
efficacia per il
retto esercizio del parlare, del
comporre e dell'intendere [Un più
recente correttore della
Crusca è Cerquetti, il
cui nome è
mescolato in nuove
e non meno
vivaci polemiche. Pubblica parecchi saggi
di Correzioni e
giunte al vocabolario della Crusca,
il primo de’uali
vide la luce
in Forlì. Su Cerquetti,
Trabalza, A. Cerouellt
in Studi e
profili. T. ricorda qui, come
segno del fervore puristico
specialmente contro le
insidie del dialetto,
quella Tavola e
correzione d'un migliaio
d'errori di grammatica
e di lingua
ecc., per Ponza,
sac, Torino.], dove
Manzoni spigola esempi
per la sua
tesi dell’unità linguistica (Opere
inedite o rare
cit. più innanzi. gli
scrittori. A mostrar
l' inesattezza di tale
opinione, senza che io mi
stenda in soverchie
parole, T. riferisce qui
proprio un brano
della dissertazione di Cesari,
la cui testimonianza
tronca la testa
al toro. Dopo
aver indicato, il che
fa in modo
che tutti possiamo
accettare, come s'abbiano a
legger i filosofi, dice
che nel principio,
la grammatica è
necessaria per li
nomi e coniugazioni
de’verbi, e per
parecchi de’più notabili
usi de’verbi singolari.
Io credo che i fanciulli
non sono da
stancare con molte
regole. Al maestro sta
venirle toccando, secondo
che negli autori si
abbatte a cose
che richiegge spiegazione
come che è. La grammatica
di Corticelli crede
molto ben acconcia
per quell’età; quantunque
assai vi manchi
di quelle cose
che al maestro
s’appartiene d’aggiungere a
luogo a luogo. Ma
pella grammatica e i
primi elementi di
lingua lui arde di mostrare un
cotal mio trovato,
che assai felicemente
mi riuscì. Io
credo che grande
agevolezza ad apprender
la lingua dove
portare a’fanciulli l'aiuto d'un'altra
lingua, loro già
nota, la cosa
parla da sé.
ora eglino nessun’altra
ne sanno che
il proprio dialetto. Essi, nel
loro dialetto parlando,
sanno il valor
delle voci che
usano, e le
parti dell'orazione, nomi,
pronomi, verbi, avverbi, eccetera, le
usano tutte. Ora
io questa loro
scienza vorrei recarla
ad essi a
profitto. Facendo che tutto
il loro studiar
nella lingua è un tradurre
dal dialetto lor
naturale. E nella
pratica dell’insegnamento privato
fa fare esercizi
di retro-versione di novelle
da lui tradotte
in volgar veronese
e compila un
Catalogo d'alcune voci
di dialetto veronese
col corrispondente toscano a
fronte. Non è
stato il primo
a servirsi del [Precetti
pochi di qualsivoglia
autore, torna a
predicare nello scritto
Del metodo d' insegnare
lettere latine e italiane,
in Opuscoli cit.,
ed. Guidetti. Ed.
Guidetti. Guidetti. Guidetti, a
questo proposito, riferisce
un brano di
lettera scrittagli d'Ascoli. È
anche vero che
Cesari e Manzoni
hanno in qualche modo la stessa
filosofia, sostenendo entrambi
che l'Italia dove
attingere o ri-attingere
l'unità del proprio
linguaggio dalla Toscana
o meglio DA FIRENZE, e
n'è venuto assai
naturalmente che in
entrambi sorge il
desiderio di raccolte
lessicali o di
frasarj, dove ai
modi di ciascun
dialetto si contrapponessero gl’equavalenti della
pura e schietta FIORENTINITÀ.] dialetto per
apprendimento e l'insegnamento della
lingua, come sappiamo;
ma possiamo ben
figurarci di quale
e quanta efficacia
riuscissero e la
dichiarazione di scarsa
fede nella grammatica
per sé stessa
e il consiglio
di ricorrere al
dialetto per apprenderne naturalmente con
gli schemi le
parti dell'orazione italiana,
esposti come si
trovavano in una dissertazione che,
e per il
nome dell'autore e
per il premio
ond'è coronata, si divulga
ed ha grandissima presa
in Italia. Infatti,
a prescindere dalla ricca
serie di vocabolari
dialettali (anche Puoti,
oltre quello àé\ gallicismi,
ne fece
compilar uno domestico
NAPOLETANO-ITALIANO), che non
è nostro compito
illustrare, da questo
impulso di Cesari, indubitatamente, oltre
che dalle cause
generali che su Cesari
stesso agirono, derivarono
in ogni parte
d'Italia grammatiche
italiano-dialettali, dove appunto
si fac servire il
dialetto, anche più ufficialmente
dirò cosi che
non si fa
con le versioni
dialettali e con
lo studio e la compilazione del
dizionario dialettale, all'apprendimento della grammatica italiana. Ne T ricorda
due: la bergomense-italiana, dove l’influenza di Cesari si vede non solo
dall'innesto degli esercizi
di retroversioni alle regole
grammaticali e ai
paradigmi, ma anche
dall’aver proposto tra
i temi vernacoli
una novella di
Cesari: e [Nel
concorso alla cattedra
di letteratura italiana
a Napoli, a cui
partecipò anche Puoti,
è dato per
la dissertazione latina
il seguente tema,
che è la
traduzione del tema
dell'Accademia livornese. Italici sermonis
a Dante ac
Petrarca praecipue exculti
elegantia, quibus de
causis, quibusve scriptoribus
defecerit, quibusve de
causis ac scriptoribus
ad pristinum redeat
splendorem. In Caraffa. Per
la storia de'
Vocabolari dialettali e
quanto li concerne
ne’rispetti dell'aiuto che
posson recare a chi vuol
imparar la lingua
e a scrivere,
cfr. Manzoni, Dell'
unità della lingua
in Prose minori,
ed. Bertoldi, il
Concorso bandito dal
Ministero e relativa
Relazione e T.,
L'insegnamento dell'italiano nelle
scuole secondarie Esposizione teorico-pratica con
esempi, Milano; per
la necessità che
se ne afferma
anche ogs^i, né
più né meno
che con le
idee di Cesari e di Manzoni, mi
sia permesso citare
la prefazione al
mio Saggio di
vocabolario umbro-fiorentino
e viceversa, Foligno. Esperimento di
una Grammatica bergomense-italiana compilato a
comodo ed utilità
de’giovanetti suoi connazionali
dal sa e.
G. A. M.,
Milano, Tip. Arciv.,
Ditta Boniardi-Pogliani di
Besozzi (Bibl. Teza).] la già
ricordata Glottopedia italo-sicula
di Pulci, notevole
per l'opinione tacita
dell'A. che IL SICILIANO ben ripulito puo
coincidere con la lingua
letteraria, ma più
importante per LE TRACCE CHE LA GRAMMATICA UNIVERSALE RAZIONALE
FILOSOFICA ANCHE IN QUESTO CAMPO LASCIA. Protesta l'autore
contro le grammatiche
di Biagioli e di Cerutti
impiastricciate d'ideologia Trasiana,
afferma che le
menti dei giovinetti
sono immature a
intendere LA FILOSOFIA mentre per
intender questa occorre
la grammatica, ma LA
FILOSOFIA cacciata dalla finestra
delle regole l'ha
fatta ri-entrar per
la porta delle
note. E finalmente
T ooserva qui che
quel calore che
quei nostri puristi senteno per la bella
lingua giova a ravvivar
la grammatica, in modo
che questa non è neppure
quel che è
oggi per molti
una cosa parecchio
insopportabile. Venuti così
alla rassegna delle
vere e proprie
grammatiche compilate nel
periodo di cui
abbiam cercato determinare
i caratteri, ci risparmieremo
dall'esame così dei
trattati particolari come
de' compendi e
delle compilazioni di
seconda e terza
mano, [Glottopedia italo-sicula
e Grammatica dialettica,
in cui confrontasi
il dialetto siciliano
colla lingua italiana
in ciò che
disconvengono, a buon indirizzo
de’giovani siciliani per
evitare i SICILIANISMI grammaticali ridotta
in tavole sinottiche
corrispondenti ad ogni
trattato per lo
can. seconda della cattedrale
di Catania Doti. FULCI
(si veda) pubblico professore di
lingua italiana nella
Regia Università ecc.
Catania, dalla Tip. della
R. Università per
Pastore. Diamo qui
in nota, come
abbiam fatto per
molti continuatori di
Soave e Cesarotti, una
breve serie dei
moltissimi che, escluso che
si possan far
tagli netti, si possono
riallacciare alla tradizione di
Cesari e Puoti. Regole ed
osservazioni della lingua
toscana. In Genova
per lo Caflarelli (cit. Da Casarotti). Romola, Delle
dieci parti del
nostro discorso, Carmagnola, Agrati,
Il maestro italiano con
appendice delle voci
dubbie compilate e ridotte
informa di dizionario
ad uso delle scuole e
di chi ama
a parlare e
leggere e scrivere
bene e correttamente, Brescia,
Bettoni [grammatica e vocabolario
trattati alfabeticamente. Ricorda
il Pergamini]. De
Filippi, Studio di
lingua del fanciullo
italiano, Milano, Osservazioni
sull'uso variante dei dittonghi fatte
dai padri della
poesia italiana, Milano. Antolini, di
Macerata, Saggio di
parallelo di voci
italiane; trattato della
lettera J e
del doppio I,
Milano [È una
prima parte d'un'opera
di cui annunziato
il programma. Attribuisce
ai dialetti la
colpa dei doppioni.
Doppioni? Sono parole
di forma e
senso chiaramente diverse:
Abbatte, Abate; Accadde,
Accade, e che
nessuno confonde. Negli
altri trattati per fermarci
ai quattro principali
autori che sono
Gherardini, Puoti, Ambrosoli
e Rodino, tacendo
anche qui interamente
delle grammatiche italiane
in lingua straniera
per uso degli
stranieri. Il milanese
Gherardini è più
noto specialmente per la sua
riforma ortografica da
pochi seguita avrebbe
parlato dei nomi
d'unica pronunzia e
varia ortografia, di
voci medesime di
varia pronunzia, voci
di doppia vocalizzazione, dell'/
e ii (Vj,
del Z (VI),
di monosillabi di vario significato (VIIj. Difende
l'j lungo, e dà
un elenco alfabetico di voci parallele: Abbomini, Abbominj;
Accusatori, Accusatori (da
accusatorio); Acquai (perf.
da acquare, Acquai
ecc.; dividendoli in
tre classi. Voci che
richieggono la finale
j; Il doppio
ii (Abbondi, Abbondii;
Accoppi da accoppare,
ecc., Accoppii, da
accoppiare); Le due
terminazioni (Incendj pi. da
incendio,Incendii, da incendiare). GRECO (si veda) (un
precursore di PUOTI (si veda)
e degl’altri classicisti
meridionali, Avvertimenti del
parlare e scrivere
correttamente la lingua
italiana, Napoli (cfr. Sanctis,
La giovinezza); AMADI (si veda), Dialogo della
lingua italiana, Venezia. Trovansi ms.
nel Cod. Marc. BIAGIO (si veda), Istruzione grammaticali
da lui dettate,
Cod. Marc. Regole ed
osservazioni intorno alla lingua
italiana, Imola; LISSONI (si
veda), Risposta al libercolo Aiuto contro
l'aiuto di LISSONI (si veda), ossia
difesa di molte
voci italiane a
torto proscrìtte, Milano -- che
T. cita per ricordare
questa polemichetta e
accennare che anche
di questo tempo
si ha una colluvie
di scritti ortografici); AZZOCCHI (si veda) insegna italiano
e latino al
Collegio Romano e
al Seminario. Scrive un
Elogio di CESARI (si veda), che
si compiace di
lui come di
suo nuovo seguace,
cfr. Cesari, Opuscoli,
ed. Guidetti, Avvertimenti a chi
scrive in italiano
(Fra noi, dice,
è questo difetto
grandissimo d’educazione,
che non curiamo
punto la lingua
che di bellezza gareggia eziandio
con la greca,
mentrechè alle lingue
morte attendiamo e alle straniere.
A proposito d’AZZECCHI (si veda) e de’suoi
pari nel culto
della lingua, MAZZONI (si veda) (L’Ottocento) osserva
giustamente. Il nome d'Italia
è da per
tutto, anche nelle
grammatichette e ne’lessici
per i ragazzi,
rivendicato contro il
forestierume e la
barbarie. FALCHI (si veda) (I puristi;
1. Il classicismo de'
puristi, Roma) vuole
fare delle riserve
e mettere le
cose a posto
sul patriottismo de’puristi,
e trova una
frase felice per
illustrare la sua filosofia,
dove dice che
questi fanno servire il concetto
di patria alla
causa del purismo:
non viceversa. Verissimo.
Pure è innegabile,
e la cosa
si spiega facilmente,
che, nonostante che PUOTI (si veda), prendiamo
un esempio perspicuo,
si dolesse profondamente
di non poter
diventare il pedagogo
di Rampollo del
Borbone, né s’accorgesse
quali spiriti svegliasse nella scolaresca il [un
di codesti è CATTANEO (si veda), onde vuole ricondurre tutte le forme alla
grafia che l'etimologia esige. Vana
ed illogica pretesa,
ma, filosoficamente, non meno
ingiustificata di quant'altre mirano a costringere l'arte entro determinati schemi
grafici più o meno
moderni, per quanto, naturalmente,
più di esse
ripugnante alla coscienza moderna
cui è meno
estraneo quel certo
consenso formatosi intorno
al cosiddetto uso
vivo. Ma l'attività
di GHERARDINI (si veda) si svolge
largamente e per
lunghi anni anche
nel campo stesso
della grammatica, concretandosi
in saggi di gran
lena e di grossa mole. Comincia
con studi lessicografici – la botanica linguistica
Austin-Grice -- pubblicando un Elenco
d;alante parole oggidì
frequentemente in uso, le
quali non sono
?ie' Vocabolari italiani.
Da alla luce una
Introdìizione alla Grammatica
italiana per uso della classe
seconda delle scuole
elementari: facile ma
elementarissima esposizione accompagnata
da tavole sinottiche e
da un modello
d'interrogazione per uso de’maestri che
suo insegnamento, resta
sempre vero quel
che SANCTIS (si veda) ha ad
osservare e altri
a ripetere, che PUOTI
(si veda) con l'amore e
la cura della
lingua desta il
sentimento nazionale in
tutta la gioventù
che fa poi. Saggi
critici, Napoli. Il viceversa
è vero per i
discepoli, se non
pei maestri. BRENNA (si veda), Elementi di
ortografia, Treviso. GUASTAVEGLIE
(si veda), Compendio di grammatica,
Perugia. È, per dichiarazione
stessa dell'a., un
rimaneggiamento del Compendio
di CHINASSI. FECIA (si veda), Aiittarello a
parlare faìnigliarmente italiano,
Biella; CAMANDONA (si veda), Saggio
di grammatica italiana,
Torino; GRAVANTI (si veda), Grammatica
della lingua, Cremona; MANNUCCI (si veda), Grammatica, Città
di Castello; MELGA (si veda), Grammatica compilata
sulle opere de’migliori
filologi antichi e
moderni, Napoli. Cfr. Borghini,
e Rodino, Osservazioni
sulla grammatica di Melga,
in forma di
lettera all'a., Opuscoli, Napoli,
di cui fan
parte anche l’osservazioni sopra
il vocabolario d’UGOLINI (si
veda) delle parole e
modi errati – “A nice derangement
of epitaphs. Una lodata e
più volte ri-stampata Grammatichetta compila
sulle tracce di
quella di PUOTI (si veda) GIANNINI
(si veda), sul quale
v. T., C.
G. in La
Favilla (Estr., Perugia).
La Riforma dell'ortografia in
Alcuni scritti, Milano. CATTANEO (si veda) è
naturalmente disposto a
seguire il sistema
grafico etimologico di Gherardini
dalla propria dottrina
filosofica sul linguaggio,
intorno a cui è da
vedere ora un'acuta
pagina da Gentile, LA FILOSOFIA
IN ITALIA, I positivisti, Le
origini, CATTANEO (si veda), La
Critica.] vogliano
assicurarsi che i
giovani abbiano ben
capito. Usce a Milano
la più importante
delle tre òpere
principali, cioè l’APPENDICE ALLE
GRAMMATICHE, immensa raccolta,
nella sua parte
non-apologetica e polemistica,
di singole, innumerevoli
osservazioni grammaticali, che
o correggono o
accrescono il vecchio
patrimonio della nostra grammatica.
Dopo l’avvertenza, in cui
trova modo di
pigliarsela con PUOTI (si veda), autore
d'un Dizionario de’ gallicismi, consacra il saggio all'apologia del suo
sistema LESSIGRANCO con gl’argomenti che
i lettori ben
conoscono. Svolge anche l'appendice
(che appendice!) alla
grammatica. Nel resto
chiarisce alcuni dubj
proposti al compilatore
e dà altri avvertimenti lessigrafici con aggiunte. Son
tutti problemi che
riguardano l’uso e
la forma di
particolari voci o
il giro d’un
costrutto. Nessun principio nuovo,
s'intende. Anzi i vecchi
principi sono ri-messi
a nuovo con
qualche velleità di
arguzia e d’eleganza. P. es.,
paragona l'ellissi, la
famosa ellissi, a Poppea, la quale, andando
velata, fa sì che la
sua beltà è aggrandita dall’incitata imaginativa de’riguardanti. Né sempre
dà la spiegazione
giusta. Il passo
boccaccesco che vedemmo male
spianato anche da Cinonio,
non ne dov’io
dì certo morire che
io non me ne metta a fare ciò che
promesso v’ho, è così dichiarato
da Gherardini. Non rimane che io
mi metta a fare ciò che l’ho promesso,
se anche dì
certo io ne dovessi morire -- che
non è vero. Questi sforzi,
peraltro, di tutti
i grammatici ed ESEGETI
[cf. Grice, “Love that never told can be”] per
sostituire la locuzione
o costruzione rigorosamente grammaticale
a certe irregolari
espressioni, anche quando
sembrino aver ottenuto
lo scopo, cozzano
irremissibilmente contro la muraglia cinese dell'impossibilità della
sostituzione, e confermano sempre
meglio l'insostenibilità della
precettistica grammaticale. Da che,
se non
da questo carattere
della grammatica, derivano tutte
le secolari diatribe circa
l’interpretazione di singoli passi,
di singoli costrutti,
di singoli significati, circa il
riconoscimento di determinate
grafie, che vediamo
rinnovarsi di età
in età? Nel
corpo della nostra
grammatica ci sono parecchi temi che
sono ripresi in
discussione continuamente,
in modo
che noi vediamo,
p. es., un ottocentista
ancora (Cfr. Zambaldi) rimproverare a Bembo
o a Buonmattei una
certa formula. Mirando ognuno
la frammentaria espressione
non col resto
dell'opera d'arte di cui
è una molecola,
ma coll'archetipo grammaticale che si
contempla nella nostra
mente, è naturale
che l'accordo il più
spesso manchi e
che le discussioni
grammaticali si rinnovino di
continuo anche da
persone colte, d’artisti
provetti che non
sieno riusciti a
liberarsi completamente dall'ereditario quanto
servile ossequio all'impotente
ma riveritissima dea.
Ma il moltiplicarsi di tali
discussioni è anche
un mezzo potentissimo
alla dissoluzione della
grammatica: e Gherardini
con un gigantesco volume di
Appendice alla Grammatica,
dimostrando col fatto
la dilatabilità del
corpo della grammatica,
ne affretta del
pari la morte.
Egli è il Salviati
dell'Ottocento. Minuto,
analizzatore come lui, come
lui riassuntore d'un
lungo lavorìo grammaticale e esegetico,
sviluppa come lui
all'infinito le particolarità
lessicografiche,
ortografiche e sintattiche
della lingua, capovolgendo cosi i
cardini della grammatica,
che sono le
regole, e sostituendoli
con l'eccezioni. Di
modo che l'opera
sua finale piuttosto
che una grammatica è un immenso materiale da costruzione, ma per
costruirvi un edificio bizzarro dove tutti i pezzi meccanici adoperati dai
singoli scrittori o da gruppi di scrittori sono ammucchiati e che non può aver
mai né fine né unità. All’appendice seguirono la Lessigrafia, che rappresenta
la forma definitiva del suo sistema ortografico, e le Voci e Maniere di
dire -- Grice, WOW – Way of Words -- additate
ai futuri Vocabolaristi. Proprio l'opposto
dell'appendice gherardiniana per
condotta e architettura,
benché ispirate ai
medesimi principi, sono
le regole eleì7ientari della lingua
che il napoletano
PUOTI (si veda) pubblica. Il più
diffuso e noto e
fors'anche efficace dei molte
suoi saggi con le quali
intende a integrare
il suo altrettanto
ben noto e
efficace insegnamento, che impartì
in modo così
simpatico a Napoli a
scolaresche entusiaste e intelligenti
a cui furono
ascritti uomini quali SANCTIS
(si veda), MEIS (si veda), ed altri filosofi famosi. Oratore
nelle esequie del marchese
di Montrone a Bari,
che a lui
consegna i suoi saggi
da stampare, dice
che lo piange
come maestro, e
ben rammentò come
egli, discepolo, anda
cercando che frutta nel
Mezzogiorno d’Italia quella
nobile confederazione, come la
chiamò, che in
Bologna ha stretta MONTRONE (si veda) con SAVIOLI (si veda); di
cui canta nel
Peplo, con Marchetti, Costa,
Schiassi, Giusti, Strocchi,
e Giordani : preziosa
testimonianza per la
storia del Classicismo
e del Purismo
sceso dall’Italia centrale
nel Mezzogiorno. Dei
caratteri del purismo di PUOTI e
del suo insegnamento
non occorre che qui
ripetiamo quanto ormai
è ben noto.
Basta che diciamo qualcosa della
sua grammatica, alla
quale, come dichiara egli
stesso nella prefazione
all'edizione napoletana, collaborarono
de’suoi allievi principalmente SANCTIS (si veda) e RODINO
(si veda), MELGA (si veda) e FABBRICATORE
e che
basta a parecchie
generazioni non del solo Mezzogiorno come lo
provano i dodicimila esemplari
che gl’editori della
ristampa dell’edizione livornese
dicono essersi esauriti
in diverse edizioni
fatte in Toscana,
in Parma e
in Napoli: grammatica
che PUOTI circonda delle cure
più amorevoli e
venne correggendo e
migliorando via via in
tutte le edizioni
che egli stesso
cura. A lode
del buon senso
didattico di Puoti dobbiamo
subito ricordare che a lui
non sfuggirono le
due principali condizioni
che sole giustificano
nel campo della
pratica e rendono
utile la grammatica. Che essa
sia, non maestra
dell'arte, ma semplice
strumento per lo
studio e l'apprendimento delle
lingue. Che i suoi
precetti, perchè riescano
veramente utili, siano
ravvisati nelle scritture
-- e addita tra
queste come meglio
accomodate il Governo
della famìglia, l’Antologia
di prose italiane,
i Fatti d’Enea.
Come disegno, la
grammatica di PUOTI
è mirabile di
sobrietà e d’armonia,
dati non affatto
spregevoli in un
libro scolastico. La
distribuzione è l'antica
-- etimologia, SINTASSI, ortoepia
e ortografia --, e
riflessa bene, quasi
quanto il contenuto,
lo stato della
linguistica d’allora e dell’importanza che
si da a
certi problemi. Il
prevalere dell'etimologia (o,
meglio, MORFOLOGIA) e della SINTASSI,
sull'ORTO-EPIA [cf. Grice on ‘correct,’ procedure – what is proper -e sull’orto-GRAFIA e
il quasi nessun
conto fatto della
fonetica [cf. Grice, distinctive
features of phonetic analysis of phonematic sequences] dimostrano che
non si ha
alcuna coscienza del
problema storico della lingua
e che tutto l’interesse è ancora
il puramente formale
ORETTORICO. Mentre il persistere
di questo interesse
per la forma
e l'uso delle
pa[Mazzoni, L'Otl.. Napoli] -role
quali si possono
riconoscere negli scrittori
pei rispetti della
purità e della
correttezza fa fede
dopo tanto lavorìo
grammaticale, dopo la crisi
filosofica della grammatica prescrittiva, che
sopravvive soltanto la parte
puramente empirica, cessando
ogni interesse per
quella filologicamente storica,
sopravvive cioè la
grammatica spogliata d'ogni
elemento filosofico e
conoscitivo. A che
si dove logicamente venire,
e il fine
e la funzione
della grammatica non possoo non
esser quelli che
abbiam visto aver
riconosciuto Puoti. Oggi essa
non si studia
diversamente ne con
diverso fine. Ed è
presumibile che nel
futuro si seguiterà
a fare altrettanto.
E se alcuni
resultati della grammatica
storica si sono
incorporati nella moderna
grammatica normativa ed
altri ancora vi
si includeranno, ciò
potrà forse migliorare
il metodo d’esse
e aiutare l'apprendimento, ma
come conoscenza, come
contenuto conoscitivo, storico,
rimarrà sempre estraneo
al fine della
grammatica, che è
quello di condurre
all'acquisto della lingua
da adoperare per
i bisogni pratici,
tant'è vero che
delle grammatiche per
gli stranieri quest’elemento conoscitivo
è assolutamente escluso.
Pure è
facile avvertire nel
contenuto specifico della
grammatica di Puoti l'
influenza tanto dei
precedenti accertamenti della
filologia quanto delle
tendenze della GRAMMATICA RAZIONALE UNIVERSALE FILOSOFICA; com'è
naturale che vi è
tenuto conto delle
formule trovate dai
migliori precedenti grammatici,
da Bembo a Salviati
a Cittadini, da Buonmattei
e da Cinonio
a Corticelli. Sicché Puoti
ci appare come
un diligente vagliatore
di quanto è escogitato dai grammatici
dei vari tempi
e indirizzi, un
disegnatore sobrio e
corretto, un espositore
chiaro e temperato
che sa bene
il suo fine
e che ha
coscienza de’suoi mezzi
e del proprio
metodo, e perciò esibitore
d'una materia che
passa immediatamente nel
cervello de’discepoli, osservabile
negli scrittori e
applicabile nelle scritture e
nella parola viva,
scartata ogni superfluità,
ogni suppellettile che
rivesta carattere scientifico
o conoscitivo. Vedasi,
p. es., quanto è
rimasto in PUOTI dei
trattati cittadineschi su
cui tanto si
travagliarono per sistemarli
didascalicamente i grammatici
posteriori; quanto, nella
sintassi, di tutte
le categorie della
grammatica filosofica; quanto,
per la morfologia,
di tante forme
di nomi e
di verbi e
d'altre categorie scovate
dai più minuti
ricercatori; quanto, per
l'ortografia, delle smisurate
trattazioni precedenti. Su tutto
sta come principio
dominatore infrangibile il
più rigoroso criterio
puristico. Valga d'esempio
l'osservazione che il
Puoti oppone alla
regola del luì,
del lei e
del loro, che
non si possono
usare nel caso
retto , sebbene
<< non manchino
esempi in contrario
anche del buon
secolo della favella:
Ma ora che
la grammatica della
lingua è ben
fermata, questi esempi
voglionsi tenere come
errori, e punto
non debbonsi imitare.
Avvertiva il marchese
che, se l' ingegno
de' discepoli il
poteva comportare ,
s'incominciasse per bel
modo a far
loro comprendere le ragioni
delle cose ,
e, come già
vedemmo, tollerò che il suo
prediletto discepolo e
assistente studiasse la
grammatica generale, concessioni
strappategli dalla riverenza
in che ancora
era questa tenuta,
ma nelle sue
Regole fu soppresso
ogni perchè, e
tutto dato come
fatto e come
legge. Concludendo, diremo
che la grammatica
del Puoti è
l'espressione più
caratteristica che presero
le dottrine grammaticali ornai trionfanti
di questo periodo. AMBROSCOLI, comasco,
grande ammiratore del Giordani
e del Leopardi,
più noto per
il suo Manuale (edito nel
31 e rifatto
nel 60), fu
meno restio del
Puoti all'ammettere un
po' di elemento
filosofico: si vuol
render conto, infatti,
del come sorsero
le categorie e
le forme grammaticali;
ma in questo,
lungi dall'ispirarsi agli
enciclopedisti francesi, egli
tornava al Buonmattei;
come pure adottava
il metodo lessicale
del Cinonio per la dimostrazione
dell'ufficio e dell'uso
pratico delle voci.
La sintassi appar
fondata sul principio
della grammatica generale e
particolare nella sua
divisione di regolare
e irregolare e
nell'accettazione della dottrina
dell 'ellissi: ma
nella sua fisonomia
generale come anche
nella maggior parte
della trattazione questa
grammatica dell'Ambrosoli è
ormai la grammatica di
stampo moderno; tant'è
vero che è
stata ristampata, con
le debite modificazioni, anche
qualche decennio fa.
Un vero ritorno
alla grammatica filosofica
sembra avverarsi con
quella novissima della
lingua italiana del
palermitano Milano. Grammatica nuovissima
della lingua italiana
" ricomposta da
Leopoldo Rodino per
uso del Liceo
arcivescovile e de'Seminari
di Napoli, sopra
quella compilata nello
studio di Basilio
Puoti. Prima edizione
fiorentina rivista da
un Maestro toscano", Firenze,
Barbèra Bianchi u
Comp.] Rodino, che anche
si è ristampata
non è molto
e vien citata
come autorevole, meritando
forse l'elogio che il
Betti le tributò
di lavoro filosofico,
magistrale, compiuto, sebbene
non le siano
mancati critici acerbi
come Giannini. Col Rodino
si dimostra, quello
che era naturale
che accadesse, che
la grammatica empirica
aveva dovuto venire a
patti con la
ragionata, la quale,
spregiata dopo tanti
onori ricevuti, non se ne
poteva andare senza
lasciar tracce: e
le tracce ne
son rimaste nelle
grammatiche moderne specialmente con la
famosa analisi logica
della proposizione e
del periodo. Nella Grammatica
popolare della lingita
italiana tratta dalla
grammatica novissima, manifestava
A chi legge
questa sua veduta: La
grammatica si può
insegnare per tre
differenti modi. L'uno
è il filosofico,
e sta nel
porre alcuni principi
di logica, da'
quali si facciano
discendere come conseguenze
le regole grammaticali. Questa
io chiamerei la
scienza della Grammatica ;
ed è lavoro,
eh' io mi
propongo di pubblicare
di qui a
qualche anno. L'altro
è positivo e
pratico, ed è
quando si raccolgono
tutti i precetti
di quest'arte applicati
alla lingua, e
derivati dalla logica,
ma esposti per
modo, che nulla
apparisca della loro
origine filosofica alla
mente de' giovanetti
non ancora capaci
di lunghi e
severi ragionamenti. Questo
secondo modo ho
io tenuto nella
mia Grammatica nuovissima.
Ma non tutti
possono imparare tutti
i precetti di
questa Grammatica....: quindi
Grammatica popolare, circa
al qual modo
a due, si
dee por mente.
La prima è
che i precetti
non siano mai
né contro alla
ragione logica né
contro alla verità
positiva della lingua.
L'altra è che
si scelga giudiziosamente quella
parte de' precetti
che è più
necessaria a sapere,
e contro alla
quale si falla
più generalmente dal
popolo. Che la esecuzione
tanto della nuovissima quanto della
popolare sia riuscita
opera secondo il
fine pratico veramente magistrale
per l'agilità e la chiarezza, nessuno Napoli. Cfr. ftass.
crii. d. I.
it.. La Grammatica
antica e le
moderne. Osservazioni, Viareggio,
Malfatti, opusc. recensito
in Borghini. Giannini vi
prende posizione contro
i riformatori della
grammatica, difendendo l'antica
nomenclatura e gli
antichi metodi. i4j
Firenze, Barbèra, Bianchi
e Comp., Storia della
Gr animai ica vorrà negare che s'
intenda di cose
didattiche, e il
favore goduto da
entrambe l'attesta; ma
questo stesso tentativo
di adattare, anzi
specializzare la grammatica
alla varia mentalità
degli apprenditori, stabilendo
de' gradi non
pur nell'ampiezza maggiore
o minore della
materia, ma nella
maggiore o minore
infusione dello spirito
filosofico, come se
ci sia un
vero grammaticale più
o meno potenziato
di virtù illuminatrice, non
solo, ma affermando il
principio che questo
vero ci abbia
a essere anche
nel grado inferiore,
ma senza mostrarcisi,
se può riuscire
in lode del
maestro che s' industria
e s'affanna nell'escogitazione di
espedienti sempre meglio e
specialmente efficaci, è
indizio però assai
grave contro la
stessa grammatica, scienza
che si stira
e s' impolpetta a piacere
altrui. Infine, questo
scolaro del Puoti
che sorride alla
grammatica filosofica, ma
si regola nel
compilarne una su per
giù
come si regolava
il maestro, e
ne escogita un'altra
in cui la
filosofia a braccetto
dell'empirismo sia posta
in servizio del
popolo, è, grammaticalmente parlando,
l' incarnazione di quel
periodo di crisi
e di transizione
e della filosofia
e dell'empirismo, in cui il popolo
-appunto affermava il suo diritto
di partecipare al banchetto
della letteratura, asserendolo
per bocca del
Manzoni. Verità, necessità, chiarezza
delle regole sono
pel Rodino i
requisiti che deve avere
una grammatica. La
verità è nella
logicità, essendo la grammatica
figlinola piimogcnita della
logica. Ma non
si aspetti per
questo alcuno di
vedere in questa
Grammatica quelle teoriche di
filosofia, che si
vorrebbero da certi
in questo secolo,
che dicesi filosofico. Che,
lasciando stare tutte
le altre ragioni,
questo non sarebbe
acconcio a quelle
tenere menti che
non potrebbero sostenere
difficili principi ideologici,
e poco utile
riuscirebbe all'uso della
parola, la quale
se ha la
sua ragione nella
ideologia, ha la
sua forma dalla
maniera propria di
ciascuna lingua. Adunque
lasciando star questa
maniera che sarebbe conveniente
ad una Grammatica
generale o meglio
alla Ragion della
grammatica, bisogna star
contenti a questo,
che i principi
cioè, che per
necessità si hanno
a porre nelle
regole grammaticali, sieno secondo
la logica. E
si noti, intanto, che
Y 'e tuttologia vien chiamata
l'analogia. Così che
la sintassi conserva
le tre parti
della grammatica generale:
collocazione, concordanza,
reggimento. Naturalmente la proposizione è
il complesso di
parole con cui si
esprime quell'operazione della
mente che si
chiama giudizio. Tra il
fragor d'armi che
la Proposta montiana
aveva destato, il Manzoni
era venuto componendo
il suo romanzo,
non senza esser
condotto naturalmente a
meditare il problema
della lingua sia
dalle vivaci discussioni
che intorno ad
esso si agitavano,
sia dagli ostacoli
che si figurava
aver incontrati nell'opera
sua per non
possedere tutta la
lingua che gli
sarebbe occorsa a
raggiungere almeno la
forma approssimativa del
suo pensiero. Sicché,
quando diede fuori
la seconda edizione
de' Promessi sposi
nella nuova veste
fiorentina che si
era persuaso dover ad
essi indossare, mostrando
un esempio pratico
della necessità e
bontà della tesi
di cui s'era
venuto sempre meglio
convincendo, era naturale
che si aprisse
un nuovo periodo di
ardenti polemiche intorno
a quel problema
dell'unità della lingua,
di cui in
quel libro aveva
praticamente dimostrato qual potesse
e dovesse secondo
lui esser la
soluzione. La storia
di quest'ultima fase
della secolare controversia
è ben nota
anche nei minuti
particolari e quel
problema per fortuna
è stato ormai
risoluto nella pratica
con la vittoria
della dottrina manzoniana,
vittoria immancabile non solo per
merito di questa e dei sostegni che ha,
ma anche per cause
sociali che non
importa dichiarare; nella
teoria con il
riconoscimento della sua
natura non filosofica.
Poiché quella di MANZONI (si veda) non è
neppur nella sua
mente e non puo essere
una tesi estetica;
ma semplicemente un
vivace lavorìo di
pensiero per trovare
la via di
soddisfare a un'imprescindibile esigenza
pratica del momento
non pur nei
rispetti dell'artifizio stantìo
della vecchia prosa,
ma in quelli
della lingua d' Italia
intesa anche come
mezzo d'integrazione della
constituenda unità nazionale. Colla lingua
è che noi
formiamo le idee,
e perfezione di
lingua è perfezione
di pensiero. Tutto poi
quello che è
ordinato, decente, quello
che giova a
pensare con facilità
e con rettezza
produce nelle anime nostre
delle disposizioni preziosissime
alla morale virtù. Finalmente qual
vantaggio a questa
bella parte del
mondo, se l'Italia
divenne tutta d'una sola
favella! Che maggior
fratellanza non crescerebbe
tra noi !
Che aumento alla
carità della patria
comune! . Così pensava
anche il Rosmini
i Opere edite
e inedite O,
meglio, la tesi
pratica sorse imperiosa
dal suo stesso
spirito artistico, ma
cercò nella speculazione
la sua base
critica, tramutandosi necessariamente in
pedagogica: resultato triplice dell'elaborazione, la
correzione del romanzo, la
negazione teorica della
grammatica generale, le proposte
di mezzi d’unificazione linguistica;
criterio dominante, anzi
assoluto, l'uso, particolarmente il fiorentino,
quale lo forma l'evoluzione storica
dell’italiano ed in
cui è il maggior
consenso di tutti
i parlanti d'Italia. Il
punto di partenza
della dimostrazione teorica
di MANZONI (si veda) è il
concetto di lingua.
Le lingue sono complesso di
vocaboli soggetti a
regole. Ma ciò che
le fa essere
quel che sono,
non è l’analogìa, intendi: le
leggi immutabili e
universali della grammatica
generale, sì bene l’uso,
le regole grammaticali,
in lume Pedagogia e
Metodologia, che, come
ben dice BORGESE è
maestro in FILOSOFIA
e scolaro in
letteratura di MANZONI (si veda). E
per non tornarci
sopra altrove, aggiungo
qui che ROSMINI (si veda) distingue nella
lingua la materia
e la FARINA. Quanto alla
forma della lingua,
avverte ai maestri, il
fanciullo non è ancora
da ciò. Perocché la FORMA
della lingua (“Pirots karulise
elatically”), cioè la SINTASSI
– o grammatica -- esige dell’intellezioni d'un
ordine molto superiore
al secondo. Gli scritti di MANZONI (si veda) sui
quali fermiamo più
specialmente la nostra
attenzione sono le
due minute dell'opera
“Della lingua italiana,” nell’Opere inedite o
rare pubblicate da BONGHI (si
veda), Milano. Ma teniamo presenti
tutti gli altri scritti linguistici
raccolti e egregiamente
illustrati da BERTOLDI (si veda) nelle
Prose minori, col
corredo d'un'abbondante quanto
scelta bibliografia. Minuta
prima. Nella seconda, la
definizione è corretta
così. Materia propria d'ogni
lingua sono de'
vocaboli, e delle FORME
MORFO-SINTATTICHE E PURAMENTE SINTATTICHE O GRAMMATICALI applicate ad
essi, e che
sono comunemente chiamate
‘regole.’ Il mutamento è
stato suggerito dalla
necessità di tener
ben distinti tra
loro nella trattazione
il vocabolario e
la MORFO-SINTATTICA, MORFOLOGIA,
SINTASSI -- grammatica, -- mezzi
che s'adoprano per
rappresentare qualunque lingua
nel suo complesso. Abbiam preso
qui le mosse
dalla prima minuta,
tanto per dare subito una
prova di quel
che è la seconda,
che la supera
specialmente di rigore metodico
e maggior precisione
dialettica; e noi
questa terremo a
nostro fondamento, benché
nella prima qua
e là nell'incertezza dell'espressione par
che si scopra
meglio il pensiero
dell'autore, il quale
nella seconda ha
cura di mostrarne
di mano in
mano e seguirne il
progresso, perchè alla
fine balzi più
vivo: è l'arte
sua] ogni Lingua, dipendono
in tutto dall'USO,
come i vocaboli.
Così la dimostrazione
viene a constare
di due parti,
non sempre nettamente
distinte, ma rispondenti
alle due parti
fondamentali che ci
restano dell'opera, dopo
la prima che
serve d'introduzione, Dello stato
della lingua in
Italia, e degl’effetti
essenziali delle lingue,
e che trattano,
la prima. Quale è
la causa efficiente
delle lingue, rispetto ai
vocaboli e rispetto alle regole morfologiche, morfo-sintattiche, e
puramente sintattiche -- grammaticali. La
seconda. Se l’analogia produce degl’effetti necessari nelle lingue,
riguardo alla parte morfologica,
morfo-sintattia, e puramente sintattia – o grammaticale. Quest'ultimo
capitolo, che è
quello che più
ci riguarda qui,
contiene la critica
negativa della grammatica
generale, cioè la
parte veramente nuova
del sistema di MANZONI
(si veda). E dall'esame d'esso
ci vien messa
in rilievo la
profonda differenza che
intercede tra MANZONI (si veda) e SANCTIS (si veda) nella loro
comune critica grammaticale.
SANCTIS (si veda), mente filosofica speculativa, muove
dalla grammatica per
andare verso la
scienza, verso l'estetica,
e riuscì a
vedere tanto quanto
basta per esser
libero nella sua
critica, cioè nella
manifestazione della sua vera
personalità da pregiudizi
teorici. MANZONI (si veda), anima
d'artista – grammatica pratica non speculativa --, anda
dalla TEORIA verso
la PRATICA, verso la
tecnica, alla ricerca de’mezzi
dell'espressione, o meglio
combatte per vincere
quegl’ostacoli che ai
grandi suoi pari spesso
op[Minuta prima. Ecco tutta
la materia dell'opera
che sarebbe stata
in tre parti:
Principi generali, riconoscimento del
fatto particolare; confutazioni
delle obiezioni; esame
de’sistemi; tale è
l'assunto, e tale è l'ordine di
questa parte. Nella seconda
s'esaminano i diversi
sistemi. Nella terza si tratta
de’mezzi atti a
propagar le lingue,
e da impiegarsi,
per conseguenza, a
rendere, per quanto è possibile, comune di
fatto in tutta
Italia quella che si
dimostra esser la
lingua italiana. Chi ha presenti
tutti gli altri saggi linguistici di MANZONI (si veda), s'accorge
che il libro
in quel che
ci manca non è che una
rielaborazione e sistemazione
di quel che
in essi è contenuto. Ma
è sempre a
dolere grandemente che
l'opera rimane incompiuta. – cf. Vio compiuta Aquino. Soccorrono facilmente
alla memoria i nomi d’ALFIERI (si veda) e LEOPARDI (si veda). Delle
fatiche del primo
per conquistar la
lingua italiana, dell’elaborazione tormentosa
dell’espressione formale delle
sue tragedie, è superfluo
dire. Ci piace
invece riferire un
pensiero che egli
esprime a proposito
dei gallicismi da lui
avvertiti (Voci e modi toscani] pone
la lingua come
passività, come cosa
morta, vuole insomma
parlare. Il volgare illustre
d’ALIGHIERI (si veda), le varie
grammatiche e la
correzione dell’Orlando Furioso,
l'USO e la
correzione de' Promessi
Sposi di MANZONI (si veda), sono
aspetti diversi d'un
medesimo problema spirituale,
il bisogno d'esprimersi
in tutta la
pienezza, di creare
la propria espressione;
nuove teorie, nuove
grammatiche, rifacimenti, polemiche,
tormenti teorici d’ogni
genere accompagnano fatalmente
quello sforzo inevitabile,
specie ne’momenti di
grandi rivoluzioni dello
spirito. Grandi e
piccoli partecipano calorosamente
a tali dibattiti. I primi sciolgono il
problema, se sono
artisti, non con
le teorie che
costruiscono, ma creando capolavori,
se sono FILOSOFI CREANDO SISTEMI, i
secondi imitando gl’uni
e gl’altri,, ripetendo,
ma pur dando
nel loro lavoro
complessivo un riflesso TEORICO di quella
che è stata chiamata la creazione collettiva della
lingua, perchè tutti che abbiano in sé una sola favilla di vita interiore
collaborano allo svolgimento della lingua, e tutti vogliono rendersi ragione e
asserire un piccolo dritto sul capitale comune. Così si può intendere, meglio
che non si fa comunemente, il valore che la parola “uso” – cfr. GRICE ON RYLE
use/usage --, tanto frequente sulla
bocca di MANZONI (si veda), ha nel suo discorso. L’USO è il parlar vivo, il con
la corrisp. in lingua gallica e in dialetto piemontese, ed. Cibrario, Torino,
Alliana -- nel Boccaccio. Le regole o inezie grammaticali debbono pell'appunto
essere dai sommi scrittori più rispettate, perchè più grandezza d'animo si
richiede per sottomettervisi che per disprezzarle (in Fabris,
I primi scritti
in prosa d’ALFIERI (si veda), Firenze), e
che, lungi dall'essere
una banalità o un paradosso, rivela quale
importanza ha nella
coscienza del grande
artista annunziatore della
terza Italia l’ITALIANITÀ della sua lingua. Quell'omaggio
alla grammatica è
un omaggio reso
al nume agitatore
del suo spirito
poetico. LEOPARDI (si veda) anch'egli
vuole andare ad
abbeverarsi al fonte
linguistico di Firenze, e a
GIORDIANI (si veda) che l'ammonisce non
esser paese che
parli MENO ITALIANO di Firenze,
risponde piacergli imparare
quell'infinità di modi volgari
che spesso stan
tanto bene nelle
scritture, e quella
proprietà ed efficacia
che la plebe
per natura sua
conserva tanto mirabilmente
nelle parole. E se
pur allora di
quell'andata non ne è
nulla, risciacquò però
anch'egli più tardi
le sue prose
nell'Arno, sebbene in
modi diversi da
quello tenuto da MANZONI
(si veda) (Mazzoni, Storia).
Giudicano rettoricamente di
lingua sì GIORDANI (si veda) che LEOPARDI (si veda), ma, chi
guardi, con perfetta
concordia col proprio temperamento spirituale.] parlare, il
solo parlare: e
quand' egli sostiene
che la vera
causa efficiente delle
lingue, l'unica è
l'Uso, in fondo
non dice altro
che questo, che
il parlare è
il. parlare: di
codesta causa efficiente
egli dovrebbe pur
sapere che v'
è un' altra
causa più intimamente
efficiente, che è
lo spirito: su
questo non si
sofferma, e qui
è la parte
manchevole del suo
sistema; il che
vuol dire che
egli non ha
un'estetica, una filosofia
sua del linguaggio
vera e propria.
Ma chi metta
questa sua parola
Uso o Parlar
effettivo in rapporto col
suo spirito artistico,
vedrà che in
esso l'Uso s' identifica con la
causa generatrice dell'espressione. E
in questo è
la superiorità della
sua dottrina. V
ha di più.
Questo propugnare l'Uso vivo
del popolo, e
del popolo fiorentino
che certo fu
il grande collaboratore
della lingua nazionale,
che altro rivela,
in sostanza, se non una
viva coscienza che
il Manzoni avesse
dell'attività spirituale collettiva
onde il linguaggio
si altera, si
crea ogni momento?
Perchè altri facevano
della questione della
lingua una questione
storica, dimenticavate sempre
più che è
una questione atttiale
di sua natura,
dice in un
punto ai suoi
supposti avversari, e,
a suo modo,
diceva una verità.
Sicché si può
dire che egli,
pur facendo una
questione pratica, rasenta
sempre il vero
problema scientifico della
lingua. E se
n' ha una
conferma magnifica nella
critica eh' ei fa delle
leggi immutabili della
grammatica generale, dove
egli riesce ancor
più nuovo e
originale e limpido
negatore che non
fosse il De
Sanctis medesimo. Potrei citare
moltissimi luoghi che
dimostrano eh' egli intuiva
la vita spiritunle
del linguaggio, tanto
come creazione collettiva
quanto come creazione
individuale. V. specialmente
le pagine dove
afferma che la
causa della lingua
non può esser
che una, e
l'esempio addotto d'una
parola del Malherbe
che diviene francese
dopo solamente che
è accettata dall'Uso.
Sono le .
Ma un luogo
singolarmente caratteristico
è il
seguente: La grande
operazione dell'Uso, l'operazione
essenziale, permanente e
omogenea, quella che
fa viver le
lingue, è, al
contrario, quella di
mantenere, e di
mantenere incomparabilmente più
di quello che,
in ogni momento,
possa andarsi mutando,
com'è s'è accennato
dianzi. Unico, tra tutti
i letterati italiani,
il Manzoni ha
comune con SANCTIS (si veda) la
conoscenza intima de'
grammatici sì antichi
che moderni, in particolare,
s'intende, dei galli. Una
correzione notevole di storia
della questione della
lingua è l'aver
detto nella seconda
minuta che della lingua
italiana si va
dispu- [Di negazione in
senso assoluto, veramente,
non si potrebbe
parlare, in quanto
che il Manzoni
non nega l'esistenza
delle regole, cioè
d'un fondamento logico
del linguaggio; ma
sostiene che queste
regole si trasformano
via via sotto
l'imperio dell'uso, in
modo che esse
non sono universali
né immutabili: il
che equivale a
non ammenterle, tanto
più quando si
affermino continuamente i capricci
e gli arbitri
dell'Uso. Negazione è,
e inconfutabile, quando il
Manzoni dimostra con
ragioni ed esempi
l'arbitrarietà delle categorie
grammaticali e delle
loro funzioni. Dopo
dimostrato, rispetto alla
causa efficiente de'
vocaboli, che ciò
che fa essere
nelle lingue i
rispettivi vocaboli, sia
col significato che
si chiama proprio,
sia con uno
traslato, sia considerati ognuno da
se, sia aggregati
in locuzioni speciali,
non è altro
che l'Uso; e, rispetto
alle regole grammaticali, che
ogni effetto grammaticale
può essere ottenuto
con mezzi diversi;
e che, per
conseguenza, l'applicazione d'uno
piuttosto che d'un altro
di essi dipende
da un arbitrio, Manzoni si
fa a confutare
l'opinione che l'Analogia,
per una sua
virtù propria, produca
nelle lingue degli
effetti necessari, e quindi
indipendenti da qualunque
arbitrio, ossia ad
abbattere tutto il
fondamento della grammatica
generale. tando da
cinquecent'anni, mentre nella
prima aveva detto
da trecento. Vi
volle evidentemente comprendere
anche Dante. Aggiungo
qui a suo
titolo esclusivo di
lode, che il
Manzoni nelle innumerevoli
esemplificazioni e analisi particolari
fa anche (e
in che modo!)
la grammatica normativa! Questo
canone salva la
forma non filosofica
potrebbe esser propugnato
anche dalla nostra
estetica, se per
arbitrio s'intendesse la libertà
dello spirito. E
quest' identità, occorre
avvertirlo, il Manzoni
non pone affatto;
né tanto meno
sospetta egli l'identità
tra linguaggio e
attività fantastica: il
linguaggio resta sempre
per lui qualcosa
di estraneo allo
spirito, una materia
fonica a cui
si dia un
significato. L'eufonia, p.
es., per cui
si appella all'autorità
di Donato, è
per lui un
motivo affatto materiale
e estraneo agi'
intenti razionali della lingua:
laddove per l'estetica
moderna ogni minima
sfumatura fonetica deve
riportarsi a un
movimento spirituale. Il
Manzoni riman sempre
in fondo sotto
la veduta del
logicismo e del
dinamismo meccanico. Per analogia
il M. intende
l'applicazione de' medesimi
mezzi esteriori e,
dirò così, materiali
del linguaggio a
de' medesimi intenti
del pensiero. Per il
Manzoni l'Analogia è
impotente a dare
alle lingue legge
veruna, né circa
i vocaboli, né
circa i mezzi
grammatica/i, cioè l'Inflessioni, i
Vocaboli che fanno
un ufizio grammaticale, la Costruzione,
in altre parole
le Categorie grammaticali
e sintattiche. Alla
confutazione generale serve
di discussione la
definizione data dal
Beauzée nell' Encyclopédie Mcthodìque
(art. Analogia). In
una Nota al
Cap. IV si
fa poi ad
esporre la critica
delle parti del
discorso o categorie,
passando in rassegna
i vari grammatici
antichi, poi quel
Giulio Bordoni, che
amò meglio usurpare
il nome di
Scaligero che render
celebre il suo,
il Sanzio, lo
Sdoppio e il
Vossio, i Portorealisti
Arnauld e Lancelot,
il Buffier e
il Girard, il
Beauzée, determinando con
molta acutezza la
posizione d'ognuno e
il modificarsi del
problema delle categorie
ne' vari periodi,
con la conclusione
della sua insolubilità.
In un'Appendice al
Cap. Ili discute
Se ci siano
de' vocaboli necessariamente i?ideclinabili ,
concludendo anche qui
per l'insolubilità di
tali questioni, perchè
derivate da una
supposizione affatto arbitraria,
cioè che tutti
i vocaboli di
tutte le lingue
siano naturalmente e
necessariamente divisi e
scompartiti in tante
classi diverse, o
parti dell'orazione, ciascheduna
delle quali sia
esclusivamente propria a
significare una data
modalità degli oggetti
del pensiero, o, come
dicono, a fare
una funzione speciale
e distinta (p.
305J, e esamina
con opportuni esempi
comparativi tolti da
lingue diverse le
questioni particolari della
pretesa essenziale indeclinabilità della
preposizione, dell' avverbio,
della congiunzione e dell'
interiezione . Infine, dopo
toccato d' una restrizione
e d'una necessità
imposte arbitrariamente alla Decliiiazione
, viene alla
Conclusione, sulla scorta
della quale abbiam
creduto, per ragioni
di brevità, di
fare il riassunto
del pensiero manzoniano.
Gli errori particolari
di alcuni grammatici
circa le categorie
grammaticali dimostra che
hanno un'origine comune,
la sopraddetta supposizione, che è quella
medesima su cui
si fonda la
così detta Grammatica
generale. Ma il nome
di Parti dell'orazione
non era forse
solenne da secoli?
Non erano esse
state, già nell'antichità greca,
oggetto Cj Di
questo cita V
Aristarchus, sive De
Arte Grammatica] delle ricerche
di diversi filosofi?
e non furono
poi, senza interruzione, la base,
o dirò cosi,
l'ordito delle grammatiche
positive e speciali di
tutte le lingue
europee, antiche e
moderne, e dell'altre
lingue più note
in Europa? Quale
fu dunque la
scoperta per cui la
Grammatica di Porto
Reale acquistò e
conserva, la reputazione
d' aver fondata, o
almeno iniziata, una
nova scienza? E. qui il
Manzoni spiega come
poteron sorgere le
categorie e il
loro variare dai
filosofi greci ai
latini, il cui
carattere è la
mancanza d'ogni intento
sistematico. Ci si
vede bensì un
progresso, o piuttosto
un aumento successivo,
ma occasionale e,
si può dire,
empirico; un'analisi continua,
ma che non
è né lo
svolgimento, né la
ricerca d'una sintesi.
Se a qualcheduno
de' filosofi di quel tempo,
che parlarono, in
qualunque modo, di
parti dell'orazione, fosse
potuto venir in
mente di ordinarle in
un complesso scientifico,
pare che Aristotele
avrebbe dovuto esser
quello. Ma, dai saggi che
rimangon di lui,
appare tutt' altro. Continua poi
fino a Prisciano,
che ne enumera
quattordici, lo stesso suddividere,
e per motivi
d’egual valore. L'intento
de’grammatici èsempre pratico:
indicare le regole
positive dei vocaboli. E
in questo si trovano
d'accordo senza fatica,
perchè segueno tutti
una medesima guida,
l'uso – Grice: “Ryle distinguished between use and usage. I don’t!” -- : sfido
a prenderne un’altra
per comporre delle grammatiche positive.
Anche quel novo e
artifizioso edilìzio filosofico che è
la GRAMMATICA SPECULATIVA di Scoto, è
fondato sull’autorità
sottintesa e costrutto
sul metodo arbitrario
d’un grammatico. E l’arbitrio
è proseguito da VALLA (si veda) a BUONMATTEI (si veda). Novo
e notabile /w in
questo l'assunto de’due
celebri filosofi galli, che
lo fondarono su
questo principio. La maggior
distinzione di ciò che
accade nel nostro spirito
è che ci
si può considerare
e l'oggetto del
nostro pensiero, e
la forma o
la maniera del
pensiero medesimom che, applicato
al linguaggio, li
conduce alla deduzione che, avendo
gl’uomini BISOGNO DI SEGNI o
INDICI per INDICAR ciò che
accade nel loro
spirito, la distinzione
più generale de’vocaboli dev’essere che
gli uni SIGNIFICANO gli oggetti
o CONTENUTI de’pensieri, e gl’altri
la FORMA, o
il modo de’pensieri
medesimi. Qui MANZONI (si veda) trova acutamente
che una supposizione
è stata sostituita
da una ricerca. Mentre i fondamenti
dell'arte di PARLARE o CONVERSARE dovevano
esser cercati altrove che in una distinzione de' vocabili
in due categorie.
Ciò che da
origine a tutte
le arbitrarietà della
grammatica generale. Ed è
una storia lunga
e superflua quella
di tant’altre questioni
dello stesso genere
[di quella della
pre-posizione non pre-posizione
o participio non
participio Excepté]; vai a
dire se
tali o tali
altri vocaboli s’hanno
a collocare tra gl’avverbi, o
tra le pr-eposizioni, o tre
le congiunzioni, o tra’nomi, o tra’pro-nomi, o tra’verbi
o tra pro-verbi. Questioni non mai sciolte, e,
MANZONI osa dire, insolubili,
perchè con esse
si cerca ne’vocaboli
una qualità supposta
arbitrariamente, qual'è l'attitudine esclusiva a fare un
ufizio grammaticale – cf. Grice
on Gellner on Words and Things. Quindi ognuna
delle parti puo
avere una ragione;
nessuna puo aver
ragione. Dalla qual
conclusione è facile
concludere che MANZONI (si veda) colpe
a morte la
grammatica generale, ma
non la grammatica
simpliciter. Come tesi
pratica, lungi dall’esser
una reazione e
opposizione al purismo trionfante
di CESARI (si veda) come
quello che offre
un'unità linguistica da
seguire di contro
alla nuova barbarie
del gallicismo e alla
babele della LINGUA UNIVERSALE, la teoria di MANZONI (si veda) ne è, non dico la
continuazione, ma una trasformazione – cf. la grammatica trasformata –
rivoluzione. Il purismo afferma
i diritti della
lingua letteraria e dei
filosofi posteriori che la mantenno
viva, ossia dell'unità
fiorentina quale si è stabilita. MANZONI (si veda) afferma i
diritti dell'unità fiorentina
viva e PARLATA
in quanto, non
discordando da quel tanto di
fiorentino ch’è rimasto vivo
e ch’è perciò adoperabile
e rappresenta il
nucleo che gl'italiani hanno in comune,
puo essere comunicata
a tutti e
bastare ai bisogni di
tutti, cioè diventare
con la maggior
facilità e precisione
la lingua comune,
universale della letteratura
e perciò dell’Italia.
Su MANZONI (si veda)
grammatico, seguendo l’opere
inedite o rare da
noi esaminate, scrive
una memoria ZOPPI (citato da VAILATI) nella Miscellanea
per le Nozze
Biadego- Bernardinelli, Verona. Il che
viene a concordanza
con quanto osserva BORGESE (si veda) circa le
relazioni tra il
purismo classico e
il romanticismo. I classicisti puristi hanno quasi troncato
tutte le dispute
sulla natura storica della
nostra lingua, stabilendo
ch'ella doves modellarsi sulla
toscana, o meglio,
sulla fiorentina; se
non che, per
la medesima ragione che
la poesia esprime
sentimenti, passioni, opinioni
di tempi [Le opposizioni
di genere teorico
non possono mancare
alla tesi di MANZONI (si veda), e
non mancarono, come
non mancarono le
calorose difese. Intervenno nella
disputa anche filologi
e glottologi, con gl’argomenti a
favore e contro
che la grammatica storica puo
loro offrire. Ma dubitiamo
che la partecipazione di non filosofi
al dibattito è stato
il deus ex
machina che è riuscito
a risolverlo. Poiché, se i
non filosofi possono ben chiarire
col metodo positivo
come è sorta
e si è sviluppata
la lingua italiana
intesa come evoluzione,
non è vero
che con questo chiarano ancora che
cosa una lingua
effettivamente è. Il problema
non è filologico. È FILOSOFICO. E noi
sappiamo con che LA FILOSOFIA identifica la
lingua – il deutero-Esperanto di Grice.
Nel fatto invece il
problema di MANZONI (si veda) in quanto
ha di pratico è
risoluto nel senso da
lui voluto. Che
cosa vuole MANZONI (si veda)? Quello
che ottenne, e
che dirò con
parole di SANCTIS (si veda), di
uno cioè che
non prende e
non puo prender parte
a una controversia
che non ha
per lui alcuna
portata né critica
né FILOSOFICA. MANZONI (si veda) rinnova la
forma, rendendola popolare,
perchè combatte a
morte la forma
convenzionale. Distrugge
l'atmosfera classica. Vince
la rettorica, producendo
una forma semplice,
vera, reale, forma
cercata nelle viscere
stesse del popolo, forma ingentilita con
tali colori accessibili
al popolo. Su questo
nuovo fatto, che
non è naturalmente tutt'
opera di MANZONI (si veda) e de’suoi
valorosi seguaci (son
troppi per citarli
tutti, ma qui
è doveroso ricordare
BONGHI (si veda), MORANDI (si veda), e,
benché sia manzoniano
temperato, OVIDIO (si veda)), sorge la
nuova grammatica italiana
oggi adottata nelle
scuole, cioè la gram[andati, parla
anche colle parole
morte, quasi è LATINA. I
romantici mostrano che, se la poesia
vuole imitare il
vero, per vero
deve intendere quello
a cui noi
crediamo, e che,
se ha da
parlare ai contemporanei e non ai
defunti, deve usar di quelle parole che possono intendersi anche dai non dotti.
Sulla dibattuta questione è pubblicato perfino uno speciale periodico, “L'unità della
lingua,” per cura di FANFANI (si veda), GELLI (si veda) e VESCOVI (si
veda). Firenze.A titolod'onore dobbiamo qui registrare il proemio d’Ascoli nell’Archivio
glottologico, che degnamente combattuto
dagl’avversari, solle la controversia alla maggiore elevatezza di discussione
possibile. In Vivaldi] matica dell'uso, o della lingua parlata e dell'uso vivo,
di cui avemmo tipi invero in qualche parte diversi. Il che chiarendo avremo
assolto anche il compito che qui ci è riservato, di
dar conto complessivamente di
un gruppo di
grammatiche, troppo numerose
per essere singolarmente
esaminate, e troppo
uniformi non solo
nel principio che
lor serve di
base ma anche
nella configurazione loro,
non gran che, s’aggiunga,
differente da quella
che ha la grammatica
del purismo, per
meritare un'analisi minuta
del loro speciale
contenuto, considerato sopratutto che non
scaturendo esse, come
invece avvenne dal
bisogno di rendersi
conto della letteratura bisogno
che assume aspetto
di PROBLEMA FILOSOFICO né
connettendosi, come si
avverò, agli sforzi
compiuti dai filosofi
del linguaggio per
intenderne la natura
e insieme le
tradizionali categorie, ma
solo rappresentando un
indirizzo pratico, come quelle
del purismo di CESARI (si veda), vengono
a perdere individualmente gran
parte del loro
interesse in una
storia come la di
T. Trascurando non
senza ragione gl’ultimi
epigoni della grammatica del
purismo, non esclusi quelli che sotto veste di novità in sostanza esponeno la
medesima materia [Melgaj, e tacendo anche per amor di brevità di trattazioni
particolari, che per certi rispetti si ricongiungono alla grammatica storica (CAMPO
(si veda), Regole pella pronunzia italiana, e per altri che vertono più
specialmente sulla SINTASSI tradizionale (Bulgarini e Castagnola,
LA STRUTTURA DEL PERIODO – “We studied ‘Syntactic Structure’ with
Austin!” – Grice --, e delle solite disquisizioni sullo studio o
sull’importanza o SULLA PORTATA FILOSOFICA della grammatica generalmente prive
di senso scientifico, noteremo che, se ben presto, dopo cessate completamente
le polemiche rinnovatesi più vivacemente coll’elazione di MANZONI (si veda) e
quando ormai i fatti cominciano a parlar da sé sorgeno e pullulano le
grammatiche del principio dell'uso [cf. Little Oxford Dictionary, Fowler –
Grice], invero quella ch’applica rigorosamente, cioè nel suo preteso
esclusivismo m’in tutta la sua larghezza e in tutte le sue contemperanze, il
concetto fondamentale di MANZONI (si veda), usce Trapani. Torino] relativamente
tardi, e precisamente: ed è la Grammatica italiana diMORANDI (si veda) e CAPPUCCINI
(si veda), non essendoci lecito dubitare, anche se non ce ne siamo convinti col
nostro studio, di quanto essi affermano nell’introduzione. Più di ventanni fa,
uno di noi [MORANDI (si veda), in saggi
incorporati in Le correzioni ai Pr. Sp. ], sostene come fosse ormai tempo di rinnovare la grammatica italiana sul
concetto fondamentale di MANZONI (si veda): concetto che l’indagini e gli studi
filologici hanno sempre meglio illustrato e confermato. Ma questo voto rimane
quasi del tutto inesaudito, come puo vedere chiunque confronti accuratamente il
nostro lavoro colle grammatiche che si pubblicarono d’allora ad oggi. Cf. la
Grammatica italiana dell'uso moderno di
FORNACIARI (si veda) e la Grammatica italiana di ZAMBALDI (si veda), la
Grammatica della lingua parlata cogl’esempi cavati da MANZONI (si veda) di BONI
(si veda), la Grammatica della lingua italiana di PETROCCHI. Son tutte
pregevoli, come garantiscono i nomi degl’autori chiari e autorevoli quanto
benemeriti e infaticabili cultori del nostro idioma. Ma il principio dell'uso v'è stato applicato diremo
così un po'all'ingrosso, con maggior simpatia verso l'uso letterario in quelle
di FORNACIARI (si veda) e ZAMBALDI (si veda), con più libertà -- cf. Grice contro Macaulay -- manzoniana,
dirò così, nelle altre due. Scendere a particolari qui non possiamo, né ne
mette il conto. È un giudizio che i lettori ci possono menar buono anche
senza prove, purché pensino ai nomi di
codesti autori e alla diffusione che l’opere loro hanno ancora nelle scuole. Il
nome di ZAMBALDI (si veda) e più ancora di FORNACIARI assicurano, per es., d’un certo freno, quasi d’una remora
prudente e ragionevole alla scapestrataggine grammaticale. Infatti le loro
grammatiche si ristampano coi dovuti miglioramenti anche oggi, e sono
meglio accette ai maestri che vogliono
sì l'uso ma colle debite cautele e restrizioni: gente che ha naturalmente molta
fede nella grammatica come ausiliatrice della rettorica pegl’effetti del
corretto e bello scrivere degl’alunni. Invece interamente manzoniana nel senso
largo ch’abbiamo determinato, ma non ESCLUSIVAMENTE MANZONIANA, perchè vi si
tien conto nella fonetica dei più
notevoli e certi resultati della gram- [Parma] matica storica, è quella
di MORANDI (si veda) e CAPPUCCINI (si veda). I quali l'hanno caratterizzata
meglio di quel che potremmo far noi. Posto come norma fondamentale l'uso civile
fiorentino, senza punto occultarne, m’anzi mettendone in rilievo i rari e
leggieri dissensi coll'uso vivo generale italiano, noi facciamo poi largo luogo
anche all'uso letterario, distinguendo
il comune od ORDINARIO (Grice on Austin on Donne on Nowell-Smith) del poetico,
o dell'antiquato, o dal pedantesco – Grice on Austin against VOLITION --, ecc., e notando spesso ciò che di quest'uso
sopravvive tuttora nel volgare, ossia plebeo – cf. Grice the lay --, di
Firenze, o ne’vari dialetti. Sicché, quella parte storica della lingua, che
anche quando è addirittura morta, può
alle volte essere ri-adoperata nello stile poetico, ovvero per ironia –
“Methinks the lady doth protest too much” --,
o per ischerzo, o per altro, qui non solo non manca, ma ce n'è di più
che in molte altre grammatiche, colla differenza però che ci si trova
nettamente distinta. E a proposito di lingua, dobbiamo pur dire che dell'usata
e usabile abbiam procurato, negl’esempi
e nel resto, di darne colla maggiore possibile varietà e ricchezza, senza però
invadere il campo proprio del vocabolario, se non quando i vocabolari sono
discordi tra loro, o addirittura in errore. Se spesso poi, specialmente
rispetto all'uso vivo, noi ricorriamo ai forse, ai più o meno, ai d’ordinario,
e simili, anche di questo la colpa non è nostra. Gli è che noi non vogliamo
dar per certo ciò che è dubbio, ne
sostituire il nostro gusto alla realtà de’fatti. E i fatti, in ogni lingua
viva, son di tre specie: ben determinati, e di questi noi diamo regole fisse;
che si vanno determinando (“pirot”), e qui noi diciamo la tendenza, il più
comune; ancora incerti, e noi notiamo l'incertezza (il deutero-Esperanto di
Grice). Non vi par questa una pagina sinteticamente illustrativa della dottrina di MANZONI (si veda) nella sua
parte più essenziale e praticamente
attuabile? e, nel tempo stesso, non vedete qui disegnato l'ideale della grammatica NORMATIVA?
della grammatica che, conscia del
suo modesto compito, vi spiana la via all'apprendimento della lingua che vi
occorre o vi può occorrere senza mettervi né la catena a’piedi né le manette? La grammatica MORANDI (si veda)-CAPPUCCINI
(si veda) chiude l'ultimo momento storico dello svolgimento di questo prodotto
di cui siam venuti descrivendo le vicende, riflettendo in sé esattamente
l'ambiente linguistico in cui si matura. Delle moltissime altre che le si sono
succedute colla rapidità e frequenza onde l’imitazioni sogliono accompagnare
l'opera originale, è superfluo qui spender
parole, anche se in qualcuna d’esse avessimo da segnalare particolari
espedienti didattici, non essendo stato l’assunto di T. il far la storia dell’istituzioni
scolastiche e dei metodi d' insegnamento. Ma lasceremmo una lacuna, se non
facessimo un cenno dello sviluppo della grammatica storica, non perchè
l'argomento rientri nel nostro tema, specie quando si consideri che la
grammatica storica si svolge in
quest'ultimo suo veramente glorioso periodo affatto indipendentemente, come il
suo metodo e i suoi intenti esigeno, dalla
MERA GRAMMATICA NORMATIVA il che
non accadde, p. es., quando il problema appare unico e intimamente connesso con
quello della rifiorita letteratura nazionale
ma perchè la grammatica storica s' immischia nelle discussioni intorno alla lingua, o meglio alla tesi di
MANZONI (si veda) e, fuori di queste relazioni, vuole esser rappresentata non
senza ragione nell’antica sezione della pronunzia e dell'ortografia,
costituendovi un riassunto dei principali accertamenti della fonologia. BIANCHI
(si veda) in quella sua lodata “STORIA DELLA PRE-POSIZIONE A E DE’SUOI COMPOSTI
NELLA LINGUA ITALIANA” dichiara
d'essersi giovato di NANNUCCI (si veda), che da noi segna il passaggio
dell'antica alla nuova scuola, e che ancora egli stima assai più di certi arrembati,
i quali montati a cavalluccio sopra i Bopp, i Grimm e i Diez, si danno il
facile vanto di far passar da ciuchi tutti i loro predecessori. Prima ancora di
NANNUCCI (si veda), non manca un certo interesse per
lo studio storico della lingua. CIAMPI (si veda) nel suo DE VSTE LINGUAE ITALICAE SALTEM ripiglia
la vecchia tesi di BRUNI (si veda) e CITTADINI (si veda) con molta dottrina ed
erudizione, ma così, mi pare,
peggiorandola. LINGVAM ITALICAM extitisse APVD VETVS ITALVM VVLGVS, in multo
ante, nec equidem repugnabo, saltem a saeculo R. S. Quinto. Eamque ortam non tantum ab RELIQVIS LATINAE linguae
cultioris, sed AB VNIVERSIS VETVSTISSIMIS ITALICIS DIALECTIS, dein, varie,
variis [Una grammatica italiana a cui sottostà la coscienza della sua INCONSITENZA
FILOSOFICA e che cerca d’attenuare i danni dell'eccessivo schematismo
tradizionale è quella di RADICE (si veda), seguace dell'Estetica
del Croce, Catania] temporibus,
adauctam latino maxime, et graeco sermone: tum edam quibusdam externorum
vocibus. Post saeculum vero R. S. alterimi supra decimum, e triviis in aedes
hominum elegantiorum successiti hinc et ad normam, libellumque redacta,
scriptorum statu et praeceptis grammatices polita est. È il tono degl’eruditi, MURATORI
(si veda), TIRABOSCHI (si veda), MAFFEI (si veda), del quale infatti Ciampi ri-pubblica
Y ITALICA ehtaibratio hi idem argumentum, riassumendo e criticando tutt'e tre i
nominati, che, nello sfogliare le cartapecore antiche, vedendo tante voci e
modi della nostra lingua adoperati in tempi ne’quali si crede non sono mai
sonati sulle bocche de’parlanti, sono stati condotti a veder chiaro nel
problema lasciato insoluto dai precedenti
trattatisti: il primo
riferisco CIAMPI (si veda),
s'intende, conclude che la lingua italiana è derivata dalle rovine del latino,
e che è parlata dal volgo; il secondo ridotto l'antichità dell'origine al
periodo longobardico e riconnessala alle genti barbare più ch’alle latine; il
terzo negato ogni straniera e particolarmente tedesca derivazione, mettendosi
così sulla buona via di dimostrarla in
tutto d'origine latina sebbene con molte alterazioni della lingua dotta.
Anche questa di CIAMPI (si veda) è un'esercitazione erudita, sebbene scende a
particolari de usu verborum quæ vocant auxiliaria e di voci e costrutti volgari
rintracciati nel latino antico e di vocaboli derivati dal greco. Né
puo far fare un passo al vecchio
problema. Ma intanto lo mantiene vivo ed
è già un
progresso e lascia visibile
l'orizzonte verso cui avrebbero i
posteri spinto così profondamente
lo sguardo. Anche MANNO (si veda) col
suo fortunato saggio, “Della fortuna
delle parole” contribuisce a
tener vivo l’interesse
per gli studi
storici intorno alla
lingua; e le
stesse polemiche destate
dalla proposta e particolarmente le
dissertazioni di PERTICARI (si
veda) e de’suoi contradittori
non possono non
considerarsi, con tutti
i loro errori e
traviamenti più o
meno spontanei, non
possono non considerarsi almeno come
caratteristici episodi nella
storia della grammatica storica. Tra le
ricerche d'indole storica,
si ricora TOSELLI (si veda), ORIGINE DELLA LINGUA ITALIANA, BOLOGNA;
BIONDELLI (si veda), ORIGINE E SVILUPPO DELLA LINGUA ITALIANA, Milano; SICHER (si veda), ELEMENTI E STATI
DELLA LINGUA ITALIANA, Trento.] La
quale si mise
finalmente sulla strada regia dell'indagine metodica storico-comparativa, quando, cessate le vane logomachie,
le ricerche complessive che si contentano
di raggiungere un'idea
approssimativa delle parentele
delle lingue e del
loro stato in determinati periodi storici, pone sulla pietra anatomica
il vario materiale
linguistico dei gruppi affini
mono-genetici criticamente vagliato,
e, coi potenti
aiuti della comparazione
e delle leggi
dell'analogia e de’suoni,
puo stabilire con
matematica sicurezza le derivazioni
dell’ITALIANO e delle lingue romanze dal LATINO popolare, fissarne le
fasi e le condizioni e costituirsi così in corpo organico di dottrina capace d’ulteriori modificazioni
ne’suoi aspetti particolari,
ma stabilmente fondato
su basi incrollabili,
s’intende nel senso
che diamo noi
a queste parole. Ricordare i
nomi e le
date più notevoli
di questo serio
e fecondo lavorìo
che rappresenta uno de’caratteri più spiccati e più seri dell'erudizione
ci è molto facile. Ci è permesso solo accennare qui che, di fronte ai celebri
nomi dei fondatori della scienza positiva della lingua e della grammatica
storica particolarmente ROMANZA, Bopp, Diez, e degl’ammirati maestri che ci danno
la grammatica storica della lingua d’Italia, Meyer-Lùbke, e alle loro
importanti riviste e enciclopedie, Romania,
Zeitschrift, Grundriss, ecc., l'Italia può vantare una schiera di valorosi
filologi, dai compianti CAIX (si veda),
CANELLO (si veda) e MUSSAFIA (si veda) a
RAJNA (si veda), Crescini, Parodi, Gorra, Salvioni, Lollis, Biadene, Goidanich,
Zingarelli, Lopez, Bartholomaeis, Bertoni, a molti altri, a Renier e Novati,
benemeriti della filologia anche pel
Giornale storico, ad OVIDIO (si veda), sempre ricercato anche dai
colleghi d'Oltralpe a collaborare in libri e periodici, a Teza, cui, come dice
un nostro poderoso glottologo, Ceci, nessun territorio linguistico è
sconosciuto, a Monaci che fonda riviste che gareggiano felicemente colle
straniere migliori e ora è anima d'una fiorentissima e attivissima società
filologica, stretti già quasi tutti intorno ad Ascoli, il glorioso fondatore
dell’archivio glottologico. Tra i divulgatori della grammatica storica dell’italiano
sono degni tra noi di menzione
Fornaciari e Mattio, che sono preceduti fuori da Blanc, la cui “Gratnmatik
der italienischen Sprachen” ha ancora un certo valore pella dottrina delle
forme. Se la grammatica generale, non mai del tutto rassegnata a morire,
giacque sotto i colpi e i
sarcasmi della scienza della lingua, non mancarono tra noi tentativi d’una FILOSOFIA della GRAMMATICA – ragionata e razionale, ovviamente
--, e notevole è quellodi ZOPPI (citato
da VAILATI), un rosminiano -- ROSMINI (si veda) -- acuto quanto dotto e
diligente e anche garbato espositore. Il quale crede appunto di costruire una
scienza della grammatica col connubio
della grammatica generale e della scienza
positiva del linguaggio, inconsapevolmente
ese- [T. ricorda il saggio
di Starck, Grammar
and Language, Boston,
fondato sulla credenza che
almeno i tre
gruppi attuali e
più importanti delle
lingue indo-europee sono
retti da comuni
principi generali; e i
numerosi saggi di Grasserie e
particolarmente “L’Essai de syntaxe
generale,” Louvain, che parimenti
a T. sembrano ispirarsi alla medesima
fede nelle leggi generali. Per
curiosità T. ricorda anche
una ristampa della
grammatica ragionata di COMPAGNONI (si veda), “Grammatica scientifica, ossia la teoria della
lingua italiana secondo
i principi naturali
del linguaggio,” Milano, e
Bert, “Grammaire rationelle
et pratique de la langue
italienne,” Paris. Inoltre: DONATELLI (si veda), Appunti di
logica e grammatica, Venezia;
Fink, Logisches und
Grammatisches, Progr., Ploen;
Peine, Notes sur l’analyse grammaticale et logique,
Montemorency, Societé
amicale des proff.
elèni, de Paris
et de départ., Breve contributo
agli studi logico-sintattici, e nel
testo, modesto contributo
a una SINTASSI filosofica della
meravigliosa lingua di quel popolo,il
greco, a cui
nessuna intuizione manca,
è il sottotitolo
della citata memoria sulla
teoria kantiana del
giudizio già intuita
e fissata nella
sintassi de’greci di PIAZZA
(si veda), il quale T.
non sa
quanto si è
confortato a proseguire
nell’ardua impresa dalla
recensione parimente citata
che gliene fa CROCE (si veda). II vero fondatore della scienza del
linguaggio intesa in senso IDEALISTICO è
Humboldt, e sotto i colpi de’principi di questa cade effettivamente la
grammatica generale. Ma si sa che il
punto di vista humboldtiano è spesso
smarrito dagl’indagatori della
parola col metodo positivo: e
questi non sappiamo
quanto possano aver
da ridire sulla
grammatica generale, che
in fondo è
un tentativo di
filosofia del linguaggio. T. dice qui
per chiarezza positiva
in ordine a
quanto osservo nella
nota precedente. Perchè
la pubblicazione del
frammento di MANZONI (si veda) è
posteriore al suo tentativo che
risale agli anni quando
ne’quali lo pubblica nella Rivista La
Sapienza.] guendo un disegno
abbozzato già dal
Manzoni stesso. Il miglior mezzo
di farle cessare [le controversie sulla distribuzione delle parole nell’arbitrarie
classi grammaticali] è una GRAMMATICA veramente FILOSOFICA, dice MANZONI (si
veda), la quale, in vece di supporre nel fatto della lingua una simmetria
arbitraria, cerca nella natura dell'oggetto della mente o anima – PSICOLOGIA
RAZIONALE --, e nella condizione
imperfetta e necessariamente limitata della lingua, la spiegazione del fatto
qual’è, vale a dire di quella molteplice attitudine di diversi vocaboli. Il
campo della quale ricerca deve naturalmente essersi allargato colla cognizione
più diffusa e più intima di lingue altre volte o ignorate in Europa, o studiate
da pochissimi, e con intenti più pratici che FILOSOFICI. Si veda, per un esempio, ciò che dice d’una di queste il
celebre sinologo Rémusat. Molti vocaboli chinesi possono essere adoperati
successivamente come sostantivi, come aggettivi, come verbi, e qualche volta
anche come particelle. La FILOSOFIA della grammatica, dice ZOPPI (si veda),
diversamente dalla grammatica generale, che pretende che certe forme o
espedienti grammaticali sono cosi necessari ed inerenti a certe specie di
vocaboli da costituire una teorica grammaticale assoluta, a cui devono
conformarsi ogni lingua, confrontando i risultati della FILOSOFIA colle leggi
psicologiche del pensiero, cerca l’origini, studia, ed espone il PERCHE di
quelle forme grammaticali che si
trovano DI FATTO diversamente
svolte ed attuate nelle
diverse lingue. Essa
per una parte
è l'applicazione della filosofia
e la logica alla lingua,
ed è quindi
per questo rispetto
scienza cocettuale analitica A PRIORI. Ma dall'altra è
fondata sulla più diligente
e minuta osservazione
-- “linguistic botany” – Grice -- dei
fatti che nelle
sue molteplici varietà
presenta il linguaggio, ed è
perciò anche scienza induttiva
ed A POSTERIORI (“I don’t give a hoot what the dictionary said” – Grice
to Austin). Laonde, la filosofia della
grammatica dev’essere il frutto
dell’accordo di questi due metodi.
La sola logica o l’analisi filosofico concettuale a priori in
effetto ci da delle generalità forse
per alcuni troppo astratte e spesso apparentemente contradette dai fatti,
come è avvenuto
delle grammatiche generali. La
sola linguistica, poi,
ossia, la critica
delle lingue si sta paga a
raccogliere e ad ordinare dei vocaboli
o ad accertare
alcune leggi di questo o di quell'idioma, ed a formarne delle [Opere
inedite o varie; Manzoni grammatico] famiglie e
dei gruppi, senza
però levarsi mai
alla sommità di
principi universali, in
cui deve trovarsi
la ragione ultima di tutte le varie forme, onde il
pensiero s’attua e si plasma
nella parola. Ma noi dubitiamo assai che ZOPPI (si veda) con
tutto il suo
buon volere sia
riuscito a far
di meglio che
un lavoro di
natura egualmente
arbitraria, vorremmo dire
doppiamente arbitraria, com'è
quello in cui
si uniscono, anzi
si confondono due
sistemi, l’uno de’quali il
logico, è falso
e arbitrario, l’altro,
il positivo, è
semplicemente metodologico e
non gnoseologico e
che si giova
di schemi e di categorie
per pura comodità
pratica, senza dare ad essi
alcun valore. Due
punti di vista sono troppi
per comprendere un unico
fatto. Congiunti in un
terzo non possono
dare che un
nuovo punto di
vista falso, tanto
più falso in
quanto tra gl’altri
due non vi
è intimità di
rapporti e l'uno
è più insufficiente dell'altro a
spiegar da solo
quell'unico fatto. E
il vero linguaggio,
il linguaggio come
creazione resta fuori
d'ogni considerazione sia
storica (storia letteraria)
che teorica (estetica). Il superamento
della concezione grammaticale della lingua e il concetto della vera natura
spirituale e intuitiva d’essa si sono ottenuti in modo pieno e definitivo
solamente ai nostri giorni coli 'opera capitale di CROCE (si veda), l’estetica
come scienza dell’ESPRESSIONE e linguistica generale, che, riannodandosi a VICO (si veda), a Hegel, a Humboldt
nella correzione integrativa di Steinthal,
scioglie il problema identificando parola e intuizione e riferendo arte e
lingua alla medesima attività teoretica dello
spirito, l’intuitiva o fantastica. Qui la grammatica ha finalmente la
sua critica completa. Se la lingua è ESPRESSIONE e non esistono classi d’espressioni,
la linguistica in quanto ha di riducibile a scienza è tutt'uno coll’estetica, e
non può davvero costruirsi sulle
particolari teoriche che sono escogitate dell'interiezione,
dell'associazione [A questo punto
ZOPPI (si veda) cita MANZONI (si veda), e tutto il brano è riportato nel saggio su MANZONI (si veda) grammatico
i La filosofia della
grammatica, Verona. ZOPPI (si
veda) alla fine del
suo saggio dà
due tavole dimostrative, l’una della
genesi psicologica delle
parti del discorso,
l'altra di quella
glottologica.] o convenzione e
dell'onomatopea, mescolate
insieme: e poi che, se la lingua è creazione spirituale, dev’esser
sempre creazione (onde resta senza significato la distinzione del problema in
origine e svolgimento), l’altra considerazione che può
farsi sul linguaggio
non può esser
che storico-artistica, ogni ESPRESSIONE
essendo un individuo
artistico da studiare
in sé stesso
e da rivedere e ricreare in noi col ricollocarci nelle condizioni
storiche in cui si produce. Una terza considerazione della lingua, la logica,
che consiste nell’elaborare logicamente il fatto estetico, che è di natura sua
indivisibile, dividendolo in concetti e ricavando le categorie grammaticali del
moto o dell'azione (verbo), dell’ente o materia (nome) eccr, se è lecita, è
infeconda pella comprensione del fatto estetico, perchè in quella elaborazione
esso è stato distrutto: e quelle categorie non possono valere come modi
imitabili d’espressione, come formule e precetti pella creazione artificiale della lingua. Una
tecnica dell' 'espressione è un termine erroneo, contradittorio: e appunto tale
è la grammatica normativa, il cui valore è semplicemente didattico. Una forte
risonanza dell’estetica di CROCE (si veda),
per quanto riguarda la lingua, s’è avuta nel saggio di Vossler,
Positivismo e Idealismo nella scienza della lingua, dove si conducono
argute polemiche contro recenti teorici
della lingua e in bellissime particolari analisi è mostrata tutta la fecondità
e la verità del principio idealistico propugnato da CROCE (si veda) e si
traggono deduzioni importantissime pel metodo e il fine dell'indagine
linguistica. Vossler trova nella lingua due aspetti distinti sotto cui
dev'essere conformemente considerato: 1’uno del progresso assoluto, cioè dalla
libera creazione individuale e teorica, 1’altro del progresso relativo, cioè
dello sviluppo regolare e della creazione teorico-pratica collettiva
condizionantisi a vicenda. Nel primo caso la considerazione è estetica o
stilistica (cioè di storia artistica, o critica letteraria, o storia, semplicemente),
nel secondo è storica o evoluzionistica (cioè di storia della coltura, [Con
questo titolo è uscita per i tipi del
Laterza di Bari, e per merito di GNOLI (si veda), la traduzione] grammatica
storica). Un terzo modo di considerar la lingua, puramente positivistico o descrittivo senza
valutazione estetica o spiegazione
evoluzionistica, non esiste. È teoricamente impossibile. Ossia quel
terzo modo è la grammatica empirica e normativa, sussidio didattico. Ma il sistema idealistico
vige pienamente in entrambe le prime considerazioni. Anche nel momento
del progresso relativo della lingua opera un’attività spirituale. La grammatica, quando è conoscitiva, è così
sciolta o nella storia letteraria o nella storia della cultura, sempre cioè
nella storia. Quando vuol esser normativa, e non più empirica ma FILOSOFICA e
rigorosa, s’annulla nell'estetica. Col suo saggio T.
spera d'esser riusciti a confermare la verità di tale sistema
idealistico, applicandone i PRINCIPII alla considerazione d'un prodotto
caratteristico dello spirito teorico ITALIANO studiato nelle condizioni
storiche del suo svolgimento, nei suoi
rapporti cioè coll'arte e colla scienza. Un importante filosofo. Ciro
Trabalza. Trabalza. Keywords: la grammatica razionale di Grice. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Trabalza”, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza -- Grice e Trabucco: FILOSOFIA
SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della filosofia della salute – filosofia siciliana -- filosofia
italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Lirary, Villa Speranza (Caltagirone). Filosofo italiano. Caltagirone, Catania,
Sicilia. Non abbiamo grandi notizie
della sua vita, della quale sappiamo solo che esercita con successo la medicina
a Caltagirone, soprattutto durante l'epidemia. Per il suo contributo è creato
nobile da Fernando d'Aragona. Alcune suoi saggi sono conservate nella biblioteca
comunale di Caltagirone, città che gli ha anche dedicato una strada. Saggi: “De Morbis puerorum et mulierum.” Chaudon, Dictionnaire universel, historique, critique,
et bibliographique, v. Amico e Statella, V. M., Dizionario topografico della Sicilia,
Palermo. Libro d'oro della nobilità dell'imperial casa amoriense, Roma, s.v. Amati, Dizionario corografico dell'Italia.
Trabucco. Keywords: salute, filosofia della salute. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Trabucco” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Tragella: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazional dei caduti – filosofia lombarda
-- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Trezzano sul Naviglio). Filosofo italiano. Trezzano,
Milano, Lombardia. Studia a Gorla Minore, Milano, e Torino. Si occupa di
serbare la memoria della battaglia di Magenta con la costruzione di una
cappella espiatoria all'interno della chiesa per accogliere le spoglie dei
caduti. Ricovero vecchi poveri Sito Lombardia Beni Culturali. Viviani, cfr. Tunesi, Morani Le stagioni, op.
cit.. T., Lettera a Murri in: Murri, L. Bedeschi, Carteggio. II. Lettere a
Murri. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Le stagioni di un prete, Le
stagioni di un prete, «Rivista di storia e letteratura religiosa», Viviani, Dalle
ricerche la prima storia vera, Magenta, Zeisciu. Cesare Tragella. Tragella.
Keywords: per i caduti. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tragella” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trapaninapola:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionle – filosofia italiana
– Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Filosofo italiano. Trapaninapola. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trapaninapola” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trapè:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’umanità di
Varrone -- -- filosofia marchese – scuola di Montegiorgio --filosofia italiana –
Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Montegiorgio). Flosofo italiano. Montegiorgio, Fermo,
Marche. Uno dei massimi studiosi della filosofia semiotica d’Agostino. Si
laurea a Roma con una “Il concorso divino in Colonna” (Tolentino). Insegna a
Roma. Promosse la fondazione dell'Istituto patristico augustinianum. Fonda
la "Biblioteca agostiniana" che si occupa della volgarizzazione di Agostino
(Città Nuova) e il "Corpus scriptorum augustianorum", che pubblica le
opere dei filosofi scolastici agostiniani. Altri saggi: “Introduzione ad Agostino
e le grandi correnti della filosofia contemporanea”, Atti del congresso
Italiano di filosofia agostiniana, Roma, Tolentino; Varro et Augustinus
praecipui humanitatis cultores, Latinitas Augustinus et Varro, Atti del
Congresso di studi varroniani, Rieti) – VARRONE --; “Escatologia e anti-platonismo”
Augustinianum, “Agostino, filosofo e teologo dell'uomo”; Bollettino
dell’Istituto di filosofia (Macerata); Agostino: L'ineffabilità di Dio, in «La ricerca di Dio nelle religioni (EMI,
Bologna); “La Aeterni Patris e la filosofia”, Atti del Congresso Tomistico, Roma;
Agostino, l'uomo, il pastore, il mistico” (Roma, Città Nuova); Patrologia,
Casale Monferrato, Dizionario patristico e di antichità cristiana, Casale
Monferrato, Introduzione e commento alla lettera apostolica «Hipponensem
episcopum», Roma, Introduzione ad Agostino, Roma, L'amico, il maestro, il pioniere, Cremona,
apostolo della cultura. Agostino Trapè. Trapè. Keywords: la semiotica
d’Agostino, Varrone, humanitas. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trapè” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e
Trasea: la ragione conversazionale della morale romana e l’implicatura
conversazionale del diritto romano -- Roma antica – scuola di Padova -- filosofia
italiana – Grice italico – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Padova). Filosofo italiano. Padova, Veneto. Nato
da una famiglia illustre e agiata. Mantenne stretti legami con Padova, come
dimostra la partecipazione ai festeggiamenti in onore del fondatore, Antenore. Nulla
è degli inizi della carriera politica tranne contrasse matrimonio colla figlia
di CECINA PETO, console suffetto. Il suocero è implicato nella rivolta di Lucio
Arrunzio Camillo Scriboniano che mira ad eliminare Claudio e a RESTAURARE LA
REPUBBLICA e pertanto e costretto al suicidio. Lo segue, sebbene T. avesse
cercato di impedirlo, anche la moglie. Probabilmente, dopo la morte del
suocero, T. aggiunse il suo nome al proprio, prassi inconsueta per un genero, che
può essere letta come un segno di opposizione al principato. Non abbiamo
informazioni sulla cronologia della progressione di Trasea tra i ranghi più
bassi del cursus honorum ed è possibile, ma non è affatto certo, che la sua
carriera politica fosse ad un punto morto. A seguito della morte di
Claudio e l'ascesa di NERONE, l'influenza del precettore del nuovo principe, il
filosofo Seneca, del Portico, gli permise T. a di divenire console suffetto
acquistando nel frattempo l'importante amicizia del genero ELVIDIO PRISCO. Dopo
il consolato, T. ottenne il prestigioso incarico di quindecim-vir sacris
faciundis. Tale ascesa e, forse, aiutata dall'attività svolta presso le corti
di giustizia né è da escludere una sua nomina come governatore provinciale in
accordo alla testimonianza di PERSIO, amico e parente di T., il quale scrive di
aver viaggiato con lui. Sostenne in senato la causa di concussione
avanzata dai cilici contro il loro ex-governatore, COSSUZIANO CAPITONE, vicino
al principe, che e condannato probabilmente proprio per l'influenza e la
capacità oratoria mostrata da T.Si oppose ad una mozione con cui i siracusani
chiedevano di superare il numero legale di gladiatori per i loro giochi censurando
di fatto l'irrilevanza cui e giunto il senato. Quando, poi, NERONE invia
al senato una lettera – scritta da Seneca -- in cui giustifica l'appena
compiuto omicidio della madre, T. e il solo ad uscire dall'aula affermando di
non poter dire ciò che voleva e che non avrebbe detto quel che poteva, mentre
molti dei suoi colleghi si congratulavano bassamente con Nerone. Il pretore ANTISTIO
SOSIANO, che scrive poesie diffamatorie su Nerone, a accusato da Cossuziano
Capitone, recentemente riabilitato in Senato su impulso del suocero di questi, TIGELLINO,
di maiestatis. T. dissente dalla proposta di imporre la pena di morte sostenne
la più lieve sanzione dell'esilio, conforme per il reato. La proposta è approvata
con larga maggioranza nonostante il parere contrario di Nerone consultato prima
della votazione ed il principe e costretto ad aderirvi per far mostra di
clemenza. Al processo contro il pro-console di Creta, CLAUDIO TIMARCO, accusato
dai provinciali di continui abusi, avendoli costretti a compiere frequenti voti
di ringraziamento, T. censura il comportamento del pro-console. Fa approvare a
maggioranza un senatoconsulto che però dove aspettare il placet del principe. E
dispensato dal principe dal portargli i ringraziamenti, insieme alla
delegazione del senato, per la nascita di una figlia. Tale gesto e,
probabilmente, il preludio della fine anche perché TIGELLINO, tra i più
influenti cortigiani di Nerone e ostile a T. essendo il suocero di Cossuziano
Capitone, fatto condannare da T. stesso. Tuttavia, è noto che Nerone dice a
Seneca di essersi riconciliato con T. e che Seneca si fosse congratulato perché
recupera un'amicizia piuttosto che averlo costretto a chiedere clemenza. Dopo
tale vicenda, T. si ritira dalla vita politica. Non sappiamo esattamente quando
è presa la decisione ma TACITO fa dire a Capitone, in occasione del processo,
che T. ha da oltre III anni disertato tutte le sedute del senato ma, occorre
ricordare che la fonte è polemica e quindi poco affidabile. Non è noto neppure
quale sia stato il catalizzatore di una tale decisione che contrasta
apertamente con la sua vita precedente. Forse è la sua ultima forma di protesta
al principe. In questo lasso di tempo, T. continua a curare gl’interessi
dei suoi clienti e probabilmente compose anche la sua “Vita di CATONE [si
veda]”, in cui loda il sostenitore della libertà senatoriale contro GIULIO
CESARE (si veda) con il quale condivide la filosofia del portico. Tale opera,
oggi perduta, e una fonte importante per la biografia di Plutarco. Nerone, dopo
aver violentemente represso la congiura dei Pisoni, decide di sbarazzarsi di
chiunque sospettava ostile, e tra questi anche T. e Barea Sorano che da tempo
detesta. Spinto da Cossuziano Capitone, decide di agire durante la visita del
re Tiridate I di Armenia a Roma, come scrive sarcasticamente Tacito "quasi
fosse atto da re", affinché passassero inosservate le vicende di due così
illustri cittadini. L'accusa contro T. e assunta da Cossuziano Capitone e
Marcello Eprio, mentre Ostorio Sabino si occupa di Barea Sorano. Dapprima
Nerone esclude T. dal ricevimento in onore di Tiridate ma questi, anziché farsi
prendere dal timore, chiede che gli fossero notificati i capi d'accusa e che
gli fosse dato tempo di difendersi. Nerone accolge la risposta di T. con
agitata premura e come mai prima d'ora comincia a temere la presenza,
l'ardimento e lo spirito di libertà della sua vittima e pertanto comanda di
convocare il senato. L'imputato, dopo aver consultato gl’amici, decise di non
partecipare al processo per evitare che Nerone si incrudelisse anche con la
moglie e la figlia e per non prestare orecchio all’ingiurie degl’accusatori. In
tale occasione, inoltre, impede al tribuno ARULENO RUSTICO di porre il veto al
decreto del senato affermando che una siffatta azione mette in pericolo la vita
del tribuno senza salvare la sua. Il giorno del processo, il tempio di Venere
Genitrice, luogo di raduno del Senato, e circondato da due coorti della guardia
pretoriana. Iniziata la seduta, il questore legge una lettera del principe che,
senza far nomi, accusa alcuni senatori di trascurare da tempo i loro doveri e
di essere, pertanto, cattivo esempio anche per i cavalieri. Gl’accusatori
accolsero tali affermazioni come un dardo pronto per essere scagliato e subito
Cossuziano si scaglia contro T. per essere seguito poi da Marcello Eprio il
quale, con maggiore energia, grida che si tratta di LA SALVEZZA DELLO STATO
ROMANO e che la longanimità del principe sarebbe venuta meno di fronte
all'arroganza dei sottoposti e che fino ad ora troppo indulgenti sono stati i
senatori nei confronti di T., di Barea Sorano, definiti faziosi ribelli. Non si
ricordano discorsi della difesa ed in ogni caso i senatori, nel più profondo
terrore per i reparti armati, non hanno altra alternativa che votare la
condanna a morte nella forma del liberum mortis arbitrium ovvero l'ordine di
suicidarsi. T. e ovviamente condannato a morte, il genero Elvidio Prisco e
esiliato insieme agl’amici Paconio Agrippino e Curzio Montano. Gl’altri
imputati, Barea Sorano e la figlia di lui, processati separatamente, seguirono
lo stesso destino di T.. Al crepuscolo, T. intento ad intrattenere numerosi
ospiti e ad ascoltare con molta attenzione il filosofo Demetrio, del CINARGO, con
il quale discute della natura dell'anima e della separazione dello spirito dal
corpo, riceve da uno dei suoi intimi, DOMIZIO CECILIANO, la notizia della
condanna. A tal punto, esorta i più a non disperarsi e a ritirarsi in gran
fretta per evitare di compromettere le loro sorti con la sua, poi persuase la
moglie che, memore della madre, si prepara a seguire nella morte il marito, a
restare in vita e a non privare la figlia dell'unico sostegno. Poco dopo,
mentre T. si avvia al portico con un'espressione lieta, avendo saputo che il
genero, Elvidio Prisco, è stato solo esiliato, giunse il questore a
comunicargli ufficialmente la condanna. Si ritira, quindi, accompagnato da
Demetrio e dal genero, nelle proprie camere, porse ad uno schiavo le vene di
entrambe le braccia e, come il sangue scorse, lo sparse a terra libando a Giove
liberatore sempre alla presenza del questore. Infine, dopo molte sofferenze, muore.
In Prato della Valle, Padova, è presente una statua che lo raffigura, opera d’
Andreosi ed eretta a cura della associazione padovana Excisa Civitas. T. è
rappresentato in abito consolare, ai suoi piedi un piedistallo, simbolo della
costanza con cui sostenne la sua impari lotta contro Nerone. È menzionato nel
romanzo Quo Vadis di Sienkiewicz. È menzionato nel romanzo Memorie di Adriano
di Yourcenar. Dione Cassio. Tacito. Plinio. Tacito, Historiae. Plutarco Moralia.
Geiger. Statua di T. su digilander.libero. Cassio Dione Cocceiano, Historia
Romana, libri LXVI-LXVII. Plinio il Giovane, Epistulae. Tacito, Annales. Brunt,
Stoicism and the Principate, PBSR, Devillers, Le rôle des passages relatifs à
Thrasea Paetus dans les Annales de Tacite, Neronia, Bruxelles, Collection
Latomus Geiger, Munatius Rufus and T. on Cato the Younger, Athenaeum. Rudich, Political Dissidence
under Nero, Londra, (Strunk, Saving the life of a foolish poet: Tacitus on
Marcus Lepidus, T., and political action under the principate, Syllecta
Classica, Syme, A Political Group, Roman Papers, Turpin, Tacitus, stoic
exempla, and the praecipuum munus annalium, Classical Antiquity, Wirszubski,
Libertas as a political idea in Rome in the late republic and early principate,
Cambridge. T., su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. MPortale Antica Roma
Portale Biografie Categorie: Retori romaniFilosofi romaniScrittori
romaniFilosofi del I secoloScrittori del I secolo Romani Nati a Padova Morti a
Roma Filosofi giustiziati Stoici Morti per suicidio. The wide circulation of the
philosophy of the Porch among Romans of the upper class from the time of
Panaetius to the reign of Marcus Aurelius is a familiar fact. Few Romans of
note can indeed be marked down as committed ‘filosofi del portico’, and even
those, like Seneca, who avowedly belongs to the school borrows ideas from other
philosophies. Still, even if eclecticism is the mode, the ‘Porch’ element is
dominant. The PORTICO permeates the writings of ‘filosofi’ like Virgil and
Horace who professed no formal allegiance to the sect, and became part of the
culture that men absorb in their early education. One might think that the
Porch exercises an influence comparable, at Oxford, at in some degree with that
which Christianity has often had on men ignorant or careless of the nicer
points of systematic theology. It has often been supposed that it did much to
humanise Roman law and government. That is a contention of which I should be
rather sceptical, but it is not my present theme. I propose to examine the
effects that The Porch had on men's attitudes to the Principate, the
essentially monarchical form of government created by Ottavianus. Prima facie
we might expect these effects to have been significant, yet it is not easy to
discern exactly what they are. At the very outset an apparent contradiction
confronts us. The Porch seems to be both upholders and opponents of the regime.
The Stoic Atenodoro is an honoured counsellor of Ottaviano; Seneca the
preceptor of Nerone and then one of his chief ministers, Marcus Aurelius Antonino
a philosopher on the throne. Seneca exalts the autocratic power of the Princeps.
Under Nerone, a ruler vigilant for the safety of each and all of his subjects, anxious
to secure their consent, and protected by their affection, Rome (Seneca claims)
enjoyed the happiest form of constitution, in which nothing is lacking to our
complete freedom but the license to destroy ourselves. We may always suspect
Seneca of insincere rhetoric and special pleading. But Seneca’s approval of
monarchy in principle is shared by the honest Musonius, and Antonino clearly
assumed that it was by divine providence that he had been called to exercise
absolute power. And yet that perfect philosopher of the Porch, as Seneca calls
him (Const. Sap.), Catone, died in defence of the old Republic, which Giulio
Cesare had overthrown and Ottaviano had replaced. Cato’s conduct was still
viewed as exemplary by philosophers of the Porch during the Principate. T. writes
Catone’s life, and he is the centre of a circle, including ELVIDIO PRISCO and ARULENO
RUSTICO, which offers the most intractable opposition to certain princes,
opposition which was certainly ascribed to the teaching of the Porch. Nerone’s
suspicions of RUBELLIO PLAUTO, a kinsman and potential pretender to the
Principate, are enhanced by the allegation that he had adopted the Porch’s presumptuous
creed, which made men turbulent and avid for power. Writing soon afterwards,
Seneca himself admits that some thought, though erroneously, that the votaries
of philosophy were 'defiant and stubborn, men who held in contempt magistrates,
kings and all engaged in government', and he advises Lucilius to devote himself
to philosophy, but not to boast of it, since philosophy itself, associated with
arrogance and defiance, has brought many men into danger. Let it remove your
faults and not reproach those of others, and let it not recoil from social
conventions ('publicis moribus"), nor produce the appearance of condemning
what it does not practise'? Though Seneca speaks of 'philosophy' in general,
the context shows that he has in mind only that philosophy in which he thought
the truth resided, the Porch. The second passage indeed may suggest that what
endangers the Porch was not so much resistance to authority as censure of the
behaviour common in the world, which made the Porch generally unpopular. Seneca
had also admitted earlier that The Porch had the reputation, in his view
undeserved, of excessive harshness, which was held to make it incapable of
giving wise advice to rulers. It was under Gaius, Nero, Vespasian and Domitian
that the Porch certainly suffered persecution. The last two princes actually
expelled professional philosophers from Rome and Italy; Epictetus was among the
exiles. Yet he too repudiates the charge that the Porch is opposed to
authority. By reconciling the interests of the individual, truly conceived,
with those of society, the Porch, Epitteto claims, produced concord in a state
and peace among peoples. The Porch teaches men to obey the laws, but not to
despise the authority of 'kings', though in his view neither laws nor kings
could give or take away anything essential to a man's blessedness. On the other
hand, the Stoic would not comply with the orders of 'tyrants', which conflicted
with his own moral purpose. We might then infer that it was not political
authority, nor monarchy as such, that the Porch rejects, but those rulers whose
vile conduct made them 'tyrants',"' and that what the Porch – in a figure
like T. -- admires in Catone is not his fight for the Republic but his
rectitude and constancy. However, Vespasian was never reproached with tyranny,
and ELVIDIO PRISCO, at least, whom Dio called a Republican, and whom Vespasian
puts to death, must have had convictions by which an emperor could be judged in
political as well as moral terms. The apparent inconsistency in the Porch’s
attitude to monarchy is not the only ambiguity in their relations to the state.
Seneca meets the charge of political defiance by replying that none are more
grateful to rulers who preserve peace than philosophers who have retired from
public life to the nobler activity of tranquil contemplation and teaching. Much
writing of the Porch suggests that their teaching tended to promote not active
resistance to government but entire withdrawal from political activity. Quintilian
speaks of philosophers as men prone to neglect their civic duties. P. Suillius
had contemptuously referred to Seneca's own 'studia inertia'. In the very
passage in which Tacitus marks out ELVIDIO PRISCO as a Stoic he says that 'from
early youth he devoted his brilliant mind to deeper studies, not as so many
(plerique') do, to make the high-sounding name of philosophy a screen for
indolent retirement ('segne otium'), but in order to undertake public duties,
while fortified against the strokes of fortune. Evidently, in his judgement,
the general tendency of philosophic training was to render men unfit for public
careers by making them prefer the life of contemplation. Hence an ambitious
mother, like Agricola's, would restrain her son from drinking too deeply at the
philosophic spring. Indeed all writings of the Porch illustrate a certain
tension between the claims of public activity and those of study and meditation
(injra). We must, of course, distinguish sharply between Stoics who
deliberately chose 'segne otium' from the start and those, like T., who retires
from politics in such a way as to manifest their disapprobation of the
government, even though such retirement could be justified by arguments that
might rather have persuaded the believer never to enter the political arena.
The former might by their indifference to the state deprive it of useful
talent, but they constituted no danger to the regime. But we may wonder how a
creed which encouraged such quietism could also be accused of making men
turbulent enemies of the Princeps. To understand these apparent contradictions
in the political attitudes of Stoics under the Principate, we must look more
closely than historians generally do at the moral principles they embraced. All
I can attempt here is naturally no more than a rather impressionistic sketch of
those aspects of Stoic teaching which seem to me most relevant to their actual
political behaviour, in office, opposition or retirement. This is no place for
a systematic exposition of the logical and physical presuppositions of their
moral creed, and indeed the Stoics of our period evinced no keen interest in
the dialectical subtleties and doctrinal coherence of the system the earlier
masters of their school had evolved. Rhetoric and devotion had largely replaced
inquiry and argument. None the less their moral convictions continued to rest
on metaphysical dogmata, however uncritically accepted. Like other philosophers,
the Stoics assume that each man does and must pursue his individual happiness.
This he can secure only if he conforms his life to nature, his own nature and
that of the universe, of which his own is of necessity a part. In the impulses
of animals and of children we can see how Nature herself directs living beings
to seek what is conducive to life and to avoid what is contrary. Life itself
and all that assists the proper functioning of the living creature belong to
the category of things that are natural and therefore can be described as
things of value. They include wealth, health and nearly all that men generally
make their objects of endeavour. Now, man is endowed with reason, and reason
shows that he cannot live in isolation. We are born for one another, and it is
proper to our nature to prefer things of value for our fellows as well as for
ourselves. However, experience teaches us that such things may not be in our
power. If, then our happiness, or that of our fellows, were to depend at all on
their possession, it would not necessarily be within our grasp, our minds would
be filled with anxiety, and our failures to obtain what we desire would seem to
be limitations on our freedom. But no man can be happy if he is not secure from
anxiety and free. Now Nature must have designed our happiness, for all being is
permeated by a substance the Stoics described as reason or the divine. This
ruling element in the world, which causes all things to work together for good,
is also present in our souls, and it is its presence that enables us in some
measure to apprehend the providential order of the Universe. Our reason should
also be the ruling element in our own nature, as it must be capable of
directing us to that true happiness, security and freedom which nature impels
us to seek, and which, given the rationality and beneficence of nature, it must
be in our power to attain. Hence the so-called things of value cannot be truly
good, simply because they are not always and necessarily in our reach. By
contrast nothing can ever prevent us from constantly willing to do what is
right, even though the resultant actions may fail to produce the effects
intended; these effects are external to ourselves and do not or should not affect
that permanent disposition of the soul in which our blessedness, security and
freedom are to be found. The only true good, which reason prescribes, lies then
in a virtuous disposition and in the activity that flows from it, and the only
true evil is the lack of such a disposition, while the things of value and
their contraries must alike be classed, to use the technical term, as things
indifferent to us. Yet this leaves no criterion for identifying the particular
acts the good or wise man will perform, and that criterion has still to be
supplied by the things of value. Is The acts which were termed in Greek “KaOkovaand”
in Latin “officia”, acts incumbent on men, which we may render as duties, even
though the word has perhaps excessively Kantian overtones, consist in promoting
states of affairs which will contain as much as possible of such secondary
goods as health or wealth, and as little as possible of their contraries. We
are bound to make the best calculations we can on the consequences of our acts,
and to exert ourselves to the utmost in performing them. But we should always
act with the reservation in our minds that what we seek may not be attainable
and that its actual attainment is not per se good. A father will jump into deep
water to rescue his child. But the goodness of his act is not enhanced if the
child is saved, nor diminished if it drowns. Indeed, since the universe is
providentially ordered, the death of the child, if it occurs, must be for the
best. Chrysippus is quoted by Epictetus as saying that, so long as the
consequences are not clear to me, I cling to what is best adapted to securing
things that accord with nature; for the divine has created me such that I shall
choose these things; but if I actually knew that it was now ordained for me to
be ill, I would aim at being ill. Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni.
As a good Stoic, Catone should not have fought against Caesar, if he could have
foreseen Caesar's victory. But lacking this foresight, he could still be
subjectively right; and the admiration a Stoic could express for Cato is not in
itself incompatible with acceptance of the regime for which Caesar's victory
had prepared the way. For the Stoics only the wise man has an understanding of
nature so complete and a disposition so unchangeable that he will never do what
is not right, and only his actions are truly successful or good. Others may
perform the same actions, but in a way that is somehow flawed. However, the
wise man, as Seneca remarked, is as rare as the phoenix. Not even the great
Stoic teachers pretended to the title. Most of their statements about his
conduct may then be understood as the presentation of a model for others, and
in fact the Stoics did not hesitate from the first to lay down rules for the
guidance of ordinary beings. In such prescriptions they continued to attach
value only to the purpose of moral activity, and not to success in performance.
The fullest discussion we possess of their teaching on men's duties is to be
found in Cicero's “de officiis,” the first two books of which are avowedly
based on a treatise of Panaetius. But though Panaetius, who departed in various
ways from the doctrines of his predecessors, did not care to describe the ideal
sage and expressly turned to the duties of men in whom perfect wisdom was not
to be found but whose conduct might still manifest the semblances of virtue
('similitudines honesti'), his concern with this topic was certainly not new.
Moreover, there are some indications that Stoics extrapolated the concept of
perfect virtue from the conduct of ordinary men which commanded universal
approval. Orazio on the bridge could not be called truly brave, because he was
no sage. Yet, his heroism gives an idea, by analogy, of what tcourage is. Thus
Stoic practical morality was founded on commonly received opinions. While every
man is bound to be of service to his fellows, the particular services he should
render vary with his special relationships to them. From the first orthodox
Stoic thinkers enjoined specific duties on the husband, father, slave-owner and
so forth. Tacitus alludes to this practice when he describes ELVIDIO PRISCO as
steady in performing all the duties of life, as citizen, senator, husband,
son-in-law and friend. Epictetus and others conceive such duties as arising
from the place in the world, the station or military post (Tá§is, statio) to
which each individual is appointed, and which may limit, as it always defines,
the kinds of action incumbent on him; though a life of virtue is open to all,
even to slaves, what a man can do determines what he ought to do; for instance,
if he is poor, he cannot hold office or endow his city with fine buildings
(Ench.). But how do we identify these specific duties, which are given to us by
our place in the world? If you are a town-councillor, says Epictetus, remember
that you are one; if you are young, that you are young, if old, that you are
old, if a father, that you are a father; on reflection each name invariably
suggests the appropriate tasks. These tasks can, I think, only have been
regarded as obvious if they were those conventionally expected from the persons
so designated, and in fact Stoics seldom recommend acts that would have
violated conventions. All that Epictetus himself tells a provincial governor is
to render just decisions, to keep his hands off others' property, and to see no
beauty in another man's wife or a boy or a piece of gold or silver plate.
Epictetus does not go far beyond the maxims of abstinentia and integritas,
always accepted, if often infringed, by the Roman ruling class. In fact he adds
that we ought to look for doctrines that agree with but give additional
strength to such common notions of duty. The great mind, as Seneca puts it, is
intent on honourable and industrious conduct in that station in which it is
placed. The good man does not change the rules, but obeys them more strictly. In
another metaphor the Stoics employed the world was viewed as a stage in which
each man had to play a part (persona, mpóocov). Panaetius exploited this
metaphor in connexion with a doctrine he himself seems to have transferred from
aesthetic to ethical theory, that there is a kind of moral beauty, called in
Greek pétrov and in Latin decorum, which 'shines out' in virtuous activity,
even in that of the man still imperfect in wisdom. It would not be germane to
my theme to attempt to expound this doctrine in full, but two points are
important. First, just as the physical beauty of a living creature must be
attributed to the due relation of all the parts to the whole, so the moral
beauty of a man's activity lies in the order and coherence of all his words and
deeds, and just as the correct delineation of a figure in a drama depends on
the suitability to his character of what he does and says, so in real life men
must aim at maintaining the consistency, 'constantia'' or 'aequabilitas, of
their conduct. But while the dramatist may properly portray the wicked man, on
the stage of life we are all bound to play the role of rational beings subject
to the moral law. None the less, the manner of the performance must vary from
man to man." Besides the role which is common to all Panatius
distinguished three others. The first arises from the individual's special
inborn endowments, which he must develop to the full, so far as they are
compatible with virtue, and his natural disabilities, which limit what he can
do, the second from his position in the world, the third from the choice of a
vocation that he is bound to make on the basis of his capacity and of the
resources at his disposal, but which tends to commit him for the future. Thus a
Roman of rank might choose to be a philosopher or a jurist, an orator or a
soldier; having made his decision, he should normally carry it out to the end.
For Panaetius it is only by recognizing the potentialities and limitations
imposed by his own personality and circumstances that the individual can avoid
those inconsistencies in conduct which would mar the moral beauty of his life.
'It is of no avail to contend with nature or to pursue an end you cannot
reach'. Similarly in Epictetus' view, 'if you assume a role beyond your
ability, the result is that you perform it disgracefully (hoxnuóvndas) and
neglect the role you were able to fill. To thine own self be true, And it must
follow, as the night the day, Thou canst not then be false to any man. Secondly,
according to Panaetius, moral beauty, like physical, attracts the approval and
love of other men. Indeed that approval comes to be regarded as a criterion for
determining whether particular actions really do manifest 'decorum'. We ought
to respect the opinions and feelings of others. Hence deportment, polite
conversation and other matters of social etiquette become the subjects of moral
precepts. Manual labour is condemned as unbefitting the free man. Even the
liberal professions are pronounced below the dignity of an aristocrat. In
general the conventions of the upper class society to which both Panaetius and
Cicero belonged are unquestioningly accepted. We are told that for actions to
be performed in accordance with custom and civic practices no rules need be
prescribed. These practices are the rules, and no one should make the mistake
of thinking that he has the same license as Socrates or Aristippus to
transgress them. It was only their great and superhuman virtue that gave that
privilege to them. This teaching justified Romans in treating their own
traditions as equivalent to moral laws. It is no accident that the Stoic RUBELLIO
PLAUTO 'respected the maxims of old generations' in the strictness of his
household, or that Seneca admires the mores antiqui in which Romans had always
tended to find the secret of Rome's greatness. The very use of the term “officium”
to render Kankov had a similar effect. In common speech “officum” could mean
both the kind of service which social conventions expected one man to render
another, and the function of a magistrate, for example, or a senator. Its use
in ethical theory suggested that such a service or such a function constitutes
a moral obligation. Cicero illustrates Panaetius' doctrine of the special
duties imposed by a man's individual personality from the suicide of Cato. Not
every one would have been right to kill himself in such circumstances. Cato was
justified because he had always held that it was better to die than to set eyes
on a tyrant; his'constantia' left him no choice. Plutarch, who drew directly or
indirectly on a firsthand account, shows that Catone consciously acted on this
view. For Catone, death is the only way out. His son might live, but being also
a Catone, should not serve Caesar. Others might make their peace with the
victor and incur no blame. An anecdote in Plutarch's life of Cicero tells us
that Catone also held in that while he himself could not honourably have
abandoned his consistent opposition to Caesar, Cicero, whose past conduct had
been very different, would have done better to remain neutral in the civil war.
Catone’s conceptions are certainly known to the circle of T., whose own life of
the hero may be Plutarch's immediate source. When they debate whether T. should
appear in the senate to answer the capital charges against him, the question is
essentially what course it is fitting – “deceret” -- for him to take, if he
were to be true to the course of behaviour he had pursued without a break for
so many years. Another man even within his circle is not bound to the same
intransigence. Similarly, his friend, PACONIO, says that any one who so much as
thought of going to Nero's games should go, but his own 'persona' did not allow
him to consider the possibility. ELVIDIO PRISCO is for Epictetus the shining
example of a man who was true to his persona. This sort of conception is indeed
ascribed to men who are not known to have embraced the Stoic creed, just as the
word 'persona' is sometimes used unphilosophically in a way compatible with
Panaetius' doctrine but not derived from it. These are further indications that
his doctrine corresponded closely with the thought and behaviour natural to
traditional Romans. The concept is found in ORAZIO as well as in all the later
Stoic writers, Seneca, Musonius, Epictetus and Marcus (and indeed elsewhere);
though sometimes they think more of the special duties that were imposed on the
individual by his place in the world or his vocation than of those which flow
from his inborn propensities and disabilities, a few texts show that that part
of Panaetius' doctrine was not wholly forgotten. The idea of decorum also
survives in the attention still devoted to etiquette, to seemly ways of
walking, talking, laughing, dressing, behaviour at the table and even in bed,
for all such behaviour was considered an outward manifestation of the
disposition of the soul. It is characteristic that Epictetus would rather have
died than shaved off the beard that symbolized his role as a philosopher. In
all these precepts we find the assumption that the moral law required
performance of traditionally accepted duties and respect for conventions. After
telling his readers that the poet can discover how to treat his personae
appropriately by learning the duties that belong to the citizen, friend,
father, brother, host, senator, judge and general, Horace adds: respicere
exemplar vitae morumque iubebo doctum imitatorem et vivas hinc ducere voces.
For the Stoics a virtuous disposition necessarily issued in virtuous activity.
All had to perform their duties within that City of Gods and men which was not
a city in any ordinary sense, nor a world-state that might one day be brought
into being, but the providentially ordered Universe in which all live here and
now. However, political activity could certainly be included among these
duties. From the first the Stoic fathers had taught that the wise man would
take part in public affairs, if there were no hindrance. Indeed it was a famous
Stoic paradox that only the wise man was a king or statesman; he alone
possessed the art of ruling, whether or not he had any subjects, just as only
the doctor has the art of healing, even if he has no patients. His principal
aim in politics would be to restrain vice and encourage virtue, ' although he
would also necessarily be concerned with the 'things of value' and would treat
wealth, fame, health etc. as if they were goods. But it could hardly fail to
influence his attitude to such objects of endeavour that he was always to
remember that his efforts to promote them might fail, and that failure or
success was unimportant; they were not truly goods. As Epictetus observed,
'Caesar seems to provide us with profound peace... but can he give us peace
from love or sorrow or envy? He cannot'. And yet blessedness comes only from
such spiritual peace. In the real world, according to Chrysippus, all laws and
constitutions were faulty. He once despairingly said that if the wise statesman
pursued a bad policy he would displease the gods, if a good policy, he would displease
men. So too Seneca could suggest that there was no state which could tolerate
the wise man or secure his toleration. However, such pessimism did not
represent the final judgement of the Stoa. It was recognized, most emphatically
by Panaetius, that the state answered human material needs and fulfilled men's
natural and reasonable impulse for co-operation." It would hardly have
been consistent with the Stoics' faith in providence if all or most existing
states had been irremediably evil. Did not the mere existence of any given form
of institutions perhaps imply that those institutions served a worthy purpose
in the divine economy? At any rate there is no evidence that Stoics condemned
any political system as such; for instance what they disapproved of in the
tyrant was not his absolute power but his abuse of it. We are told that it was
particularly (though not exclusively) in states that exhibited some progress
towards perfection that the wise man would be active. Progress must here be
construed in a moral sense, of states that tended to imbue their citizens with
virtue. Old Sparta apparently evoked Stoic admiration, because of the strict
and simple life prescribed by Lycurgus. Sparta was also most often cited as an
instance of that mixed or balanced constitution which won the approval of many
ancient thinkers, perhaps above all for its stability. In the individual
stability of purpose was for Seneca a mark of moral progress, s and perhaps
stability was also a Stoic criterion for judging constitutions. Certainly we
are told, without explanation, that the old Stoics preferred a mixed
constitution. Panaetius is often held, with no certain proof, to have commended
the Republican system at Rome for its balance,' and the historical work of his
illustrious successor, Posidonius, was probably biased in favour of the Roman
aristocracy. At Sparta Cleomenes I, who professed to be re-establishing both
the old austerities and the old political balance, enjoyed the assistance of a
Stoic counsellor. Cato could probably have cited Stoic texts to justify his
struggle to preserve the Republic. On the other hand Stoics did not condemn
monarchy in theory. Some scholars even suppose that they gave it their special
approbation. No doubt rule by a Stoic sage would have been in their eyes the
best form of government. That may be one reason why several of the early Stoic
masters wrote treatises on kingship. Yet, given the rarity of the sage, it must
have seemed a remote possibility that if he emerged at all, he would also
happen to obtain sovereign authority. Probably these treatises were intended to
depict the perfect ruler as a model for contemporary kings. Conceivably, like
Seneca in the de clementia, their authors did not insist over much on the gulf
that divided actual rulers from their ideal. Moreover, a philosopher had the
best hope, so it might seem, of effecting what he thought right as the minister
of an autocrat, and since kings enjoyed great power in the Hellenistic world,
Stoics who were ready to engage in political activity entered their service;
this was only natural. However, once the aristocratic Roman Republic had become
dominant, they were no less prepared to attend and advise men of influence at
Rome. Panaetius was an intimate of Scipio Aemilianus, and Tiberius Gracchus and
Cato had their Stoic counsellors. Only after Augustus did monarchy become the
one system towards which for practical purposes a Stoic needed to define his
attitude. The precepts and examples of the early masters of the school did not
require him to reject it on doctrinal grounds; how indeed could he have done
so, without impugning the dispensations of Providence? At a merely empirical
level Tacitus reluctantly conceded that it was in the interest of peace that
all power should be conferred on one man; he had been anticipated, a century
earlier, by Strabo, who was an avowed Stoic. Seneca argued that the struggle
for Republican freedom had been futile, and not only his career but those of T.
and Helvidius, men of firmer resolution, indicate that their principles did not
lead these Stoics to condemn the Principate as such. The wise man would not be
hindered from participating in public life by any form of government, yet under
any form he might conceive that he had a higher duty to a vocation of philosophic
investigation and teaching his fellows by precept and example, besides
fulfilling the obligations of private life." And under any form he might
also see that he had no opportunity for effective political action, because of
the wickedness of those in high places at the time. The doctrine that the goodness
of every act lay in the disposition from which it was performed and not in its
results did not require Stoics to engage in an undertaking doomed to fail ab
initio; the wise man would not take a leaking ship to sea, nor, if unfit to
fight, enlist in the army. Under a tyranny he simply could not do any service. As
for the ordinary man, there were reasons why he might abstain from public
affairs which did not apply to the sage. By definition the latter had already
attained to that perfect understanding and virtue to which others at best
aspired. But the pre-occupations of a busy public career might be sufficient of
themselves to prevent imperfect men from ever reaching that goal. Seneca could
hold at times that it was justifiable for a man to retire from long public
service to private duties and to care of his own soul, at times that the whole
of his life was not too long for this task, all the more because his example
could be beneficial to others. The sage too was impregnable in his virtue,
which he could hardly lose, but in other men moral progress might be impeded by
what St. Paul calls 'evil communications' (I Cor.). Moreover, even when arguing
that a man should normally undertake public duties, Seneca concedes, in a way
reminiscent of Panaetius' emphasis on individual endowments, that he might be
debarred not only by his physical, intellectual or pecuniary resources but also
by his temperament; he might be too sensitive or insufficiently pliable for life
at court, too prone to indignation, or to untimely witticisms that showed high
spirit and freedom of speech but would only do the speaker harm. Again, as
Panaetius had also held, he might be suited only to contemplation, not to
public affairs; and 'reluctante natura, irritus labor est'. None of these
considerations applied to the sage, who was omnicompetent and impervious to
what others would regard as insults or injuries. Seneca's views on the
propriety of a political career are self-contradictory, but the assumption that
these contradictions can be explained simply by the hypothesis that he
recommended otium only when his own political prospects were impaired and
political activity only when himself engaged in public affairs, hardly fits the
fact that we find the same antinomy in the sermons of Epictetus and the
Meditations of Marcus. Seneca's advocacy of quietism reflects one important
aspect of Stoic influence. Epictetus recognizes of course that men are bound to
perform the duties that arise from their social relationships, but he is much
more insistent on the ultimate worthlessness of all those secondary goods to
which activity in the world is inevitably directed. A man of a certain station
should take office, but it is wrong for him to set his heart either on holding
it or on freedom from its cares; it is significant that he should think it
necessary to warn his pupils against yielding to both these kinds of pestic
Ofeis i a is les kiy Fallivan my police it cno doubt because no good man would
submit to the humiliations on which advancement depends;? the few whose aim is
to bring themselves into a right relation with the divine earn the mockery of
the crowd, and they can hardly pursue their aim as procurators of Caesar.
Epictetus was himself a former slave with no chance of a public career, but it
is plain that his audiences were mainly drawn from the upper class, some of
them aspirants to a career at Rome, like the young Arrian who took down his
words.' In fact Epictetus' own low social station and the academic character of
his way of life may have made him less conscious of the dangers of evil
communications than Seneca had been, even though two of his diatribes are
devoted to the theme (n. 69). We also find a greater serenity in his teaching
than in Marcus' reflections. When Marcus looked back to the time of Vespasian
or of Trajan, he saw a world in which men were engaged in flattery and
boasting, suspicions and plots, praying for the death of others, murmuring at
their own lot, given to sexual passions, avarice and political ambition. It was
the same in his own court. More than once he dwells with loathing on the dark
qualities of those who surrounded him, the emptiness of their aims, their
longing for the death of 'the schoolmaster', though he had so greatly toiled,
prayed and thought on their behalf; indeed death would be a release, the more
merciful, the earlier it came. However, Marcus had his duty to perform; he was
set over mankind as the ram over the flock or the bull over the herd (ibid). No
other vocation (inó®ois) is so suited to philosophy, that is to say, to the
exercise of a reason which has accurately established the rationality of nature
and of all that life contains. But it is evidently by a conscious effort that
Marcus reconciles himself to the place Providence has assigned him, and he can
also say that his role impedes him in the pursuit of philosophy." The
general character of his Meditations shows that his inclination was to ponder
on the divine order and his own relation to it rather than to consume his
energies in 'the daily round, the trivial task' which, nonetheless, furnished
him on his own principles with all his reason required him to ask. Those
principles taught him that the wise man would serve the state, if there were no
external hindrance. But an autocrat could plead no hindrance, so long at least
as his natural capacities permitted him to render good service. All the same we
can see how a man of Marcus' temperament, set in some lower station, must have
preferred that life of contemplation which in the end Seneca had pronounced the
best. Thus the more seriously Stoic teaching was accepted, the more ardent in
some minds must have been the desire for retirement and meditation, at most
combined with the performance of inescapable private duties. Whether Stoics commonly
yielded to this desire, as some of their critics averred (p. 9), we cannot say;
our records can hardly be expected to commemorate lives of quiet seclusion;
Sextius is a rare example, known by name (n. 10). It is with others that we
must henceforth be concerned, men who thought themselves bound by their
principles to enter public life, who believed what Seneca once said (ep. 96,
5),'vivere militare est', and who tried to play the part, or to occupy the
station, to which they had been called by birth and ability. This Stoic concept
of the individual's station was applied, as Koestermann showed long ago, to the
emperor himself. Augustus seems consciously to have adopted it, probably under
the influence of the Stoic Athenodorus; this was known to such panegyrical writers
of the time as Ovid and Velleius. Claudius too appears to have spoken of his
station, and in his reign and Nero's the notion is found in Seneca and Lucan.
Tacitus referred to Vespasian's station, Pliny to Trajan's. Pius himself also
employed the term. It survived into the fourth century.? Curiously, Koestermann
failed to observe that the idea is implicit in Marcus' Meditations. Pius,
according to Marcus, always acted in the way which had been appointed for him.
He exhorts himself to let the god within him be lord of a living being, who is
a male, a Roman, a ruler, who has taken up his post, as one who awaits the
signal for retirement from life, fully prepared. He has to carry out the task
set him like a soldier storming the breach. Similarly he speaks of his 'place'
in the world, or of his 'vocation'; like all men, he has tasks to perform,
proper to his own constitution and nature, and 'as Antoninus, my city and
fatherland is Rome'; he must be strenuous in doing his duty, acts of piety and
benefit to men, like Pius before him. He is a sort of priest and servant of the
gods, and this makes him, rather like the Pope, a servant of men; he regards
his life as a 'liturgy' or as 'servitude'. Long before, Antigonus Gonatas under
Stoic influence had described kingship as 'noble servitude', and Seneca had
applied this to Nero's position. But what were the particular duties that
Stoics attached to the station or role of the emperor? According to Seneca he
is to be 'vigilant for the safety of each and all'. He belongs to the state,
not the state to him.® Seneca recommends Nero to win his subjects' consent,
respecting public opinion 3 and freedom of speech,* and to observe the laws.
Under the good ruler justice, peace, morality ('pudicitia'), security and the
hierarchical social order ('dignitas') will be upheld, and economic prosperity
will be assured.& The greatest stress is of course laid, for reasons not
hard to discern, on clementia. But it is everywhere implicit that the emperor
should be guided by traditional standards and objectives accepted by his
subjects. Marcus accepted similar criteria. Marcus adjures himself to do
everything as a pupil of Pius, to emulate his justice, beneficence, clemency,
piety, frugality, his respect for the opinions of others combined with firmness
and foresight in making his own decisions, the purity of his sexual life, his
mildness and cheerfulness, his civilitas, and so forth. Marcus himself
continually reflects on two themes, the providential order of the world and the
duty incumbent on all men to perform acts of fellowship (praxeis koinônikai), a
duty that springs from man's place in that order." This creed undoubtedly supplied
him with a deeper sense of the value of the virtues that Pius had exemplified,
not least his untiring devotion to work. 'Rejoice and take thy rest in one
thing, proceeding from one social act to another, with God in mind' (VI 7). There
was no novelty in all this. For instance, Hadrian's procurators had proclaimed
the 'indefatigable care with which he is unceasingly vigilant for the interests
of men'. Fergus Millar has illustrated at length the standard of personal
industry which was expected of emperors, though (I suspect) not as often
reached as his more unwary readers might suppose. Dio tells us that Marcus
himself was a hard worker who applied himself diligently to all the duties of
his office, who never said or wrote or did anything as if it were of small
account, but who would spend whole days, without hurrying, on the slightest point,
believing that it would bring reproach on all his actions, if he neglected any
detail. The assiduity always expected of an emperor was now grounded in Marcus'
own philosophic convictions. Recently a scholar has censured Marcus for speaking
of the obligations we have in the universal city of gods and men without
telling us what they are.? But for Marcus each man has his own station in that
city: his was that of Rome's ruler. He was not writing a treatise to instruct
others, but meditating privately on his own duties, and he could have learned
these, in conformity with Epictetus' teaching, by merely considering the name
of emperor which he bore; it told him that his task was to do what was expected
of an emperor. Numerous principles of government are in fact implicit in his
account of Pius, for instance in his allusion to Pius' husbandry of financial
resources. The same critic rightly observes that Marcus' policy and legislation
were largely traditional, and concludes that he was basically a Roman rather
than a Stoic. But the antithesis is false. I suppose that it rests on a
presupposition that Stoic teaching on the kinship of all men as such ought to
have made genuine believers critical of the existing order and ready, when they
had the power, to reform it. But at least after Zeno and Chrysippus (n. 37) no
Stoic thinker drew any such practical implications from the doctrines of the
school: their aim was to amend the spiritual condition of individuals, not
their material lot, nor the social structure. Epictetus held that it was man's
task not to change the constitution of things - 'for this is neither vouchsafed
us nor is it better that it should be' - but to make his will conform with what
happens." So too Marcus, vested with autocratic power, tells himself 'not
to look for a Utopia, but to be content if the least thing goes forward, and
even in this case to count its outcome a small matter. "3 Marcus' portrait
of Pius has special value for two reasons. First, as the product of intimate
familiarity and perfect sincerity, it shows us both what Pius was in the eyes
of one who had long worked with him closely and what Marcus himself sought to
be." It is thus infinitely more authoritative testimony to the practice of
Pius and to the ideals of Marcus than we possess for any other ruler in the
judgements of historians or in the propaganda of panegyrics and coins. But, in
the second place, if we leave on one side a few merely personal traits and
anecdotes, it presents a model that corresponds to the conventional view of the
good emperor that we can construct from such evidence. The qualities that
Marcus imputes to Pius are precisely those for which other emperors take credit
themselves or which are lauded by their admirers or flatterers, and the
judgements of later historians such as Tacitus and Dio reflect the extent to
which they considered these claims justified. Augustus himself provided the
prototype. There is thus no sign that Marcus recognized any objectives that had
not been pursued by those among his predecessors who had earned the approval of
the upper classes, or that his doctrines either led him to question the
established principles of imperial policy or offered him any guidance in
determining the objective content of his actions. His philosophy inspired him
to do what he thought to be right, but what he thought to be right was fixed by
tradition. His convictions made him give the most conscientious attention to
even trivial tasks, but that very absorption can have left him the less time to
re-examine the content of his duties; probably it never occurred to him that
such re-examination could be needed. The principles and virtues he admired in
Pius are almost the same as, for instance, Pliny had ascribed to Trajan, and
Pliny admits that they had been attributed to all earlier rulers, Domitian
included, though with less sincerity and truth.? To take one example of the
traditional character of the ideal, Pius' firmness of purpose, his
self-consistency, recalls the 'constantia' of the Stoic wise man," but it
was Tiberius who had proclaimed to the senate his wish to be 'far-sighted in
your affairs, constant in dangers, fearless of giving offence for the public
interest'. And in this same speech Tiberius re-asserted his policy of treating
all Augustus' words and deeds as having the force of law. That was known even
to a provincial contemporary; Strabo remarked that he had made Augustus the
standard for his administration and commands.' It was by that standard that
each of peror our or prided, a deo which the syst a uration of y ravis a adjustments
had from time to time to be made, but it developed slowly and almost
imperceptibly from a sequence of new expedients rather than from any deliberate
pursuit of reform. Deliberate innovation was characteristic only of those
emperors whose policy was reversed after they had been overthrown. There are
certain features in Marcus' imperial ideal which are highly relevant to the
attitudes that Romans of rank might be expected to adopt towards the emperor
and his service. Pius had disliked pomp and adulation and treated his friends
as one gentleman treats another; Marcus warned himself not to be 'Caesarified'.
This civilitas may seem to be no more than a matter of etiquette, but Panaetius
had already elevated sensibility for the feelings of others into a moral
obligation, and the more indes-tructibly absolute the real power of the emperor
appeared, the more the upper class at Rome prized the semblance of his being no
more than the first citizen. Perhaps nothing in Domitian's conduct so enraged
them as his claim to be 'God and Master' and the behaviour that went with this
claim. Moreover, civilitas generally accompanied and conduced to something of
more political significance, the emperor's readiness to tolerate free
expressions of opinion and to listen to advice. Both Pius and Marcus were
notable for respecting such 'libertas' (even though there is no good reason to
think that Marcus did not reserve the final decision to himself). 1a Such
respect was demanded of emperors by senators, and it could be seen as an
indispensable condition of their performing their own role in the service of
the state. In name at least the imperial senate retained the highest
responsibilities. Augustus had pretended to restore the old Republic, and it
could even be said of him and of Tiberius that they had revived the maiestas of
the senate. On Republican principles, as stated by Cicero, that should have
meant that the senate was once again the ruling organ of the state with the
magistrates as its servants;1°4 of these the princeps could no doubt be regarded
as the first. In theory he was to be the public choice ('vocatus electusque a
re publica'), and Tiberius expressly acknowledged that it was the senate which
had entrusted him with his wide powers; like Augustus, he would not allow
himself to be styled dominus, but actually addressed the senators as his 'bonos
et aequos et faventes dominos', 105 In outward appearance the majesty of the
senate had been enhanced by new judicial, electoral and legislative
prerogatives, and the privileges of its members were sedulously preserved or
extended. At his accession Tiberius had professed to desire that the functions
of government discharged by Augustus should be more widely shared; later he
censured the senate for casting the whole burden on the emperor; he disliked
flattery, and at least pretended that senators should speak their minds; in his
reign, as under Augustus, 108 there remained what Tacitus calls vestiges of
free speech in the senate. Tiberius began by consulting it on all matters,
however weighty;''° it was still expected to be the great council of state.
Gnaeus Piso, renowned for his free speaking, urged that it would be proper
('decorum') for the senate and Equites to show that they could assume the
burdens of government in the absence of the emperor.!" The reigns of
terror in Tiberius' later years and under several of his successors in the
first century cowed most members, but the emperors continued, however
insincerely, to treat their constitutional rights as unchanged. Claudius could
tell the senate that it was 'minime decorum maiestati huius ordinis' that its
members should not all give their considered opinions. Pliny tells how Trajan
exhorted them to resume their liberty and 'capessere quasi communis imperii
curas'; we may be sure that 'quasi' was inserted as discreetly by Pliny as it
had tactfully been omitted by Trajan. This was not new, as he remarks; every emperor
had said the same, though none had been believed before. Thus in theory the
senate remains the great council of state, and just as a conscientious emperor
could conceive that he was bound to perform the traditional duties of his
station as ruler, so conscientious senators could take seriously the fulfilment
of the responsibilities that the emperors themselves continued to recognise as
constitutionally belonging to their order. Under Nero T. saw it as his duty
'agere senatorem', to play the role of a senator. At the outset of his reign in
Nero declares that the senate should retain its ancient functions, lis and, until
the conspiracy of Piso, most senators are
free from the terror that hardly abates in the previous generation. Nero's
victims in these years consisted almost wholly of the few who stood too near
the throne. T. has some ground for hope, not least in the influence of Seneca, that
there is now a place for senatorial freedom. T.’s first recorded initiative
consists in unsuccessful opposition to a motion permitting Syracuse to exceed
the appointed number of gladiators for a show. T. is standing for the old
order. T’s critics urge that an advocate of senatorial liberty should devote
himself rather to great questions of state. T. replies that, by attention to
the smallest matters, the senate shows its competence to deal with the
greatest. To T., virtue is manifest in EVERY ACTIVITY ALIKE. We may recall
Marcus' attention to detail and insistence that it was of value if the least
thing went forward. T. also shows his care for good government by assisting the
Cilicians to obtain the conviction of an oppressive governor. Yet T. is to
inveigh against the 'novam provincialium superbiam', manifested in the power
some subjects possessed, to secure or prevent votes of thanks to governors in
provincial councils. It is shameful that
'nunc colimus externos et adulamur'. This solicitude for the superior dignity
of a senator is no more inconsistent with T’s belief in the common humanity of
all men, irrespective of their status, than their failure to challenge the
institution of slavery, or indeed to promote strict equality before the law
among free men. They never expressed disapproval of degree, priority and
place', which were such marked features of the Roman social structure and which
they could not have regarded as incompatible with the providential order of the
Universe. Not that T. is showing indifference to the true interests of the
provincials. It is the 'praevalidi provincialium et opibus nimiis ad iniurias
minorum elati' whom T seeks to check. Tacitus makes T. aver his care for good
government on this very occasion. T.’s sincerity need not be doubted. And, in
all probability, T.’s motion, which was approved after reference to Nero, is
beneficial. Once again it only extended the principle of a senatus consultum of
Augustus' time. Already T. walks out of the senate rather than assent to the congratulations
it proffers to Nero on Agrippina's murder. T. also shows less enthusiasm than
Nero desired for the ludi luvenales. T.’s enemies suggested that it is
inconsistent that T. himself performs in the garb of a tragic actor in his home
town of Padova. But the ludi cetasti which T so honours are of ancient
institution, ascribed to Antenor, and it is very possible that T. does no more
than tradition requires. By contrast, Nero's histrionic performances are a
hated novelty. Ordinary Romans came to detest Nero no less for his breaches of
convention than for his crimes; 'I began to hate you' Subrius Flavus told him: 'once
you appeared as the murderer of your mother and wife, as charioteer, actor and
incendiary' It was typical of a Stoic to disapprove of departures from the old
mores. Yet T. still does not despair. What Seneca could excuse, T. overlooks. T.
advocates a mild penalty for the praetor, Antistius, accused of treason because
he had published poems libellous of the emperor. The senate should not impose
sentence of death 'egregio sub principe', when it was free to make its own
decision and could opt for clemency. Even flattery of Nero was justified in a
good cause, and in fact Seneca's old pupil was not yet ready to disregard the
maxims of his master. Long assiduous in attending the senate, T. at last withdraws,
though he still performs private duties to his clients in the courts, in the
manner Seneca recommends. There is no vestige of evidence that T. conspires. But
T.’s retirement implies that, in his view, the regime is irretrievably corrupt,
since his previous devotion to public affairs showed that it could not be set
down to 'ipsius inertiae dulcedo.’ It may seem strange that his friends,
Arulenus Rusticus, tribune, and Helvidius Priscus, did not retire with T. But
each Stoic had to make his own decision, true to his own persona. T.’s conduct
marks Nero as a tyrant. It may be construed, and genuinely felt, as a threat.
Tyrannicide was esteemed in antiquity as not a crime but a noble deed. In an
extreme case, according to Seneca, it was an act of mercy to the tyrant
himself. The poet, Lucan, who was tinged with Stoicism, had been implicated in
Piso's conspiracy,and that was the occasion for the banishment of Musonius,
though there was apparently no evidence of his guilt. In general, there is no
ground for thinking that Stoics turned to plotting against the emperors of whom
they most profoundly disapproved. Epictetus merely insists that no commands of
the tyrant can affect true freedom; a man can always choose to obey God rather
than Caesar. Thus he only contemplates passive resistance. T. goes no further,
and perishes on that ground alone. Under DOMIZIANO too Arulenus Rusticus,
called an ape of the Stoics, is said to have suffered death merely for his
laudation of T., Herennius Senecio for his biography of the elder Helvidius and
for failing to pursue the normal senatorial career, and Helvidius' own son for
his withdrawal from politics and for alleged libels on the emperor; by what
they did not do, and sometimes by what they said, these men had indicated that
Domitian was a tyrant, no more, but that was sufficient offence. The elder
Helvidius, T.'s son-in-law, undoubtedly went further. Exiled by Nero and
recalled by Galba, he was encouraged by Vitellius' practice of consulting the
senate even on minor matters to controvert the emperor's proposals, and new
hope was brought by the accession of Vespasian, a friend of T.. At first
Helvidius spoke of T. with honour but without insincere adulation. He judged
that the time had come for independent action. The senate should indeed
'capessere rem publicam', all the more, as Gnaeus Piso had once held because
the emperor was absent. Helvidius proposed that the senate should take
immediate measures to remedy the deficiencies of the treasury and to restore
the Capitol, a task in which Vespasian might merely be asked to assist. By
selecting deputies to congratulate the new ruler it should mark out the men on
whom Vespasian should rely for advice. Equally the great delators of Nero's
reign, such as T.’s accuser, Eprius Marcellus, should be punished. Perhaps the
motives for this demand made by Helvidius' friends as well as by himself were
vindictive; we cannot read their minds. But we may see a justification that
went beyond rancour, one of the same kind that lay behind the impeachments and
Acts of Attainder that served to promote the development of a constitutional
monarchy in our own country; the punishment of wicked ministers of the past
might deter their like in the future. Helvidius' aim was surely to ensure that
Vespasian and his successors should rule by the advice and consent of the
senate and of those it trusted. His initiatives found insufficient support. 136
It was in the same year after Vespasian's return that the fatal conflict began.
According to Dio Helvidius incurred Vespasian's hatred partly for abusing his
friends - that is easy to understand, for Eprius was again in high favour - and
still more for turbulence in rousing the people with denunciations of monarchy
and praise of a Republican system. 138 That is not to be believed. Long ago
Helvidius had consented to serve the Principate; he had recently approved of
Vespasian's accession, and rabble-rousing was as alien to Stoic practice as it
was futile. Probably Dio confused Helvidius' attachment to libertas, an
ambiguous word, with Republican allegiance. 139 But the breach was serious: it
led first to Helvidius' arrest and then to his banishment and execution, of
which Vespasian himself is said to have repented. He must in the emperor's view
have been guilty of treason. But in what way?Dio, in making out that Helvidius
appealed to the rabble, probably associates his opposition with the expulsion
of Stoic and Cynic philosophers that occurred about the same time. It is highly
probably that some Cynics under the Principate did assail monarchy and the
whole social order. This view indeed hardly fits the notion that there was a
'Cynic-Stoic' theory of kingship, but that notion should surely be discarded.
Just as the Cynic 'citizen of the world' was a man who rejected the ties of
citizenship in any particular state, so the Cynic 'king' was one who truly
possessed the unfettered freedom that was falsely ascribed to autocrats; both
conceptions were moral, not political.140 In any case Cynics and Stoics ought
not to be confused, though some Stoics, notably Epictetus, undoubtedly admired
the true Cynic's indifference to worldly goods; but not even Epictetus held
that it was right, except for a few persons with a special vocation, to neglect
ordinary social and political obligations. 14 But just because there was a
certain measure of agreement between Stoics and Cynics, and because there were
a few Stoics who could be called 'paene Cynici' (n. 37), it was easy for the
enemies of aristocratic Stoics to resort to malicious misrepresentation of
their attitudes. Thus the accusers of T. had suggested that his attachment to
liberty was a mere pretence that concealed anarchic designs inimical to the
Roman peace. Tacitus' detailed account of his actions disposes of this calumny.
Unfortunately, Tacitus' evidence of Helvidius' quarrel with Vespasian is lacking, and Dio,
usually unsympathetic to philosophers, probably adopted uncritically somewhat
similar allegations against him. It is not in the least likely that a man of
mature age whohad sought to uphold the authority of the senate and had
previously been ready to serve emperors now threw over all his past convictions
and engaged in attacks on the whole established order. Epictetus (n. 152) and
Tacitus (n. 22) depict him as true to the last to his own role as a senator. We
must then look for another explanation. Dio's epitomator collocates Helvidius'
quarrel with Vespasian with an incident in which Vespasian left the senate in
tears, saying that either his sons would succeed him or no one would. It is an
old conjecture, which I would endorse, that Helvidius objected to Vespasian's
manifest intention to pass on his power to his sons. Once Titus had actually
been invested with imperial power as his father's colleague in 71, Helvidius'
protests could plausibly have been construed as treason. If this explanation be
true, we can see that there was right on both sides. Constitutionally the
choice of a princeps lay with the senate, and a man was to be chosen in the
public interest as the person best fitted for the task. There was no reason to
think that Titus or Domitian fulfilled this criterion. In practice the succession had been dynastic
from the first, and it had given Rome a series of rulers, every one of whom in
senatorial opinion had proved a tyrant. The crimes and follies of Nero had
resulted in civil war that imperilled the very fabric of the empire. Galba
(having no heir in his family) had allegedly proclaimed a very different
principle: the adoption of the best man to be marked out by consent. 147 Yet
from the first Flavian supporters had seen in the fact that Vespasian had two
grown sons a guarantee of stability. Dynastic sentiment might count for little
in the senate, but it made a powerful appeal to the armies and the provinces.
'4) Not one of Vespasian's successors could afford to disregard this factor.
Marcus Aurelius admired Helvidius as well as Thrasea; from them he had learned,
he says, the conception of a state with one law for all, adminstered by the
principles of equality and free speech for all alike, and of a monarchy that
valued most highly the liberty of the subjects;150 yet he too made a worthless
son his successor. We need not think that this must be explained by Aristotle's
dry observation that it would be an act above human virtue for an absolute
king to disinherit his own son:151 dynastic succession was part of the
tradition that Marcus could think it right to accept.Epictetus illustrates his
thesis that every man has his own individual role to play by dramatizing a
confrontation between Helvidius and Vespasian. 'When Vespasian forbade him to
attend the senate, Helvidius replied, "It lies with you to exclude me from
the senate, but while I am a senator, I must attend". "Then attend,
but say nothing." "Do not ask my opinion and I will say
nothing." "But I am bound to ask your opinion." "And I am
bound to say what I think right." "But if you speak, I shall put you
to death." "When then did I tell you that I was immortal: You will do
your part and I mine. It is your part to put me to death, mine to die without
trembling, your part to banish me, mine to depart without repining.'" What
good did Helvidius do, asks Epictetus, as he stood alone? 'What good does the
red stripe do the mantle? What but this? It shines out (iopÉTTE!) as red, and
is there as a fine (koóv) example to the rest. Anyone but Helvidius would
simply have thanked Vespasian for excusing his attendance, but then Vespasian
would not have had to issue any prohibition; any one else would have sat in the
senate, inanimate as a jug, or have heaped on the emperor the flatteries he
wished to hear. '152 Helvidius had assumed a role, conscious of what his
personality required, had prepared himself to play it, and was resolved to play
it to the last. And his conception of that role was determined by
constitutional principles, to which indeed most men now rendered only lip
service. His stand was unsuccesstul. lo a Stoic that was of no consequence.
Similarly it is no valid criticism of T. that, in disapproving of Agrippina's
murder, he imperils himself without promoting the freedom of the rest. Not all
men have the same duties, and in any case you could not prescribe another's
conduct, nor could it affect your own blessedness. If my contentions are
correct, Stoics as such had no theoretical preference for any particular form
of government, monarchical or Republican. They acknowledged the value of the
state, and they accepted that an individual whose position in the world and natural
endowments permitted him to render the state some service had a duty to take
part in public life, but only under certain conditions. His preoccupation with
political activity must not be such as to impair his spiritual welfare, and
even though the value of every action derived wholly from the agent's state of
mind and not at all from the external consequences of the action, it was
senseless for a man to involve himself in public cares, if it were certain from
the start that he could achieve nothing so long as he acted as a good man
should. Thus Stoic teaching may have tended to induce many of its devotees
never to emerge from a quiet course of philosophic study and private duties: it
certainly led others to retire from public life, or to manifest their
opposition to the government, under rulers whose conduct violated moral rules.
These rules were, for the Stoics, those which were endorsed by their society.
It did not occur to them that the political principles that rulers were
commonly expected to observe might need to be reviewed. Each man had a role to
perform, a station to fill, the duties of which were fixed by general consent.
The good emperor, and the good senator, were bound to carry out these duties
conscientiously. It was this way of thinking that united Stoics in power and
Stoics in opposition. Hence, as the good ruler, Marcus could easily recognize
the merits of good subjects such as Thrasea and Helvidius, who had done their
best to play their own, different, parts in public affairs. If in politics
success is the standard of judgment, there was little to commend in men who did
not identify outward defeat with sheer futility, who admired above all the
'iustum et tenacem propositi virum' and would have thought it praise enough to
say that si fractus illabatur orbis impavidum ferient ruinae, without even
admitting that there might be something unwelcome in the ruin of the world.
Moralists may find some comfort that history occasionally reveals men in high
places ready to do or endure anything for what they suppose to be right. The
historian can note that what the Stoics supposed to be right, what they could
conscientiously devote or sacrifice their lives to doing, was largely settled
by the ideas and practices current in their society, and that a Helvidius or a
Marcus was inspired by his beliefs not to revalue or reform the established
order, but to fulfil his place within that order, in conformity with notions
that men of their time and class usually accepted, at least in name, but with
unusual resolution, zeal and fortitude. T. was thus a Roman politician of the
Porch persuasion. As a member of the Senate, he fearlessly follows an
independent line, and in the process antagonised with Nerone, who eventually
pressurises the Senate into condemning him to death. T. duly commits suicide by
opening his veins in the presence of his son-in-law, Elvidio Prisco and
Demetrio di Roma. He was a great admirer of Catone Minore and wrote a biography
of him. Publio Clodio Tràsea Peto.
Keywords: portico, suicidio, vita pubblica, vita privata, virtute, ius,
principe, principato, reppublica, senato, morale, diritto e moral. Roma antica. Per H. P. Grice’s
Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Trasea.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasea: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della filiale della setta di
Crotone a Metaponto – Roma – filosofia italiana – Grice italico – By Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. Metaponto, Bernalda, Matera, Basilicata. A Pythagorean, cited by
Giamblico. Trasea. Keywords: la setta di Crotone, filiale a Metaponto. Per H. P. Grice’s Play-Group,
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasci:
la ragione conversazionale del colloquio lizio con me stesso -- filosofia italo-albanese
-- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Bisignano). Filosofo italiano. Bisignano,
Cosenza, Calabria. “Spera in Deo”. Nato in una famiglia di origine arbëreshë. Essendo
il primogenito della famiglia e, dunque, contravvenendo alle regole del
maggiorascato, a causa della salute cagionevole venne avviato alla carriera
ecclesiastica nel locale seminario, proseguendo gli studi a Roma e Napoli. È
nella città partenopea che si lega particolarmente alla compagnia di Gesù
divenendo uno dei confessori più vicini a Isabella della Rovere, principessa di
Bisignano. Per non essere distolto dai propri studi filosofici si ritira
volontariamente a vita privata, dapprima nella Tuscia e poi ospite nel Castello
di Proceno, presso Viterbo di proprietà dei Sforza. Ancora nei primi professore
una lapide marmore posta nella rocca ne ricorda la sua permanenza. Da tale
esilio usce in pochissime occasioni, assistito dal nipote. Fu durante la
reclusione nella rocca di Proceno che ha modo di conoscere GALILEI ospite nel
palazzo durante un suo viaggio verso Roma. Dopo esser stato vescovo di
Umbriatico,venne creato vescovo di Massimianopoli in partibus infidelium da Alessandro
VII. Saggi: “Colloquio con me stesso”, di Antonino. Universam Aristotelis
philosophiam; Summa Aristotelicha – LIZIO. Summa theologica dogmatica. Tomassetti,
Cenno storico sulla vita dell’illustrissimo T. (Roma); Nutarelli,
Proceno-Memorie storiche, Acquapendente, T., Amalfitani di Crucoli, erudito
italo albanese Professore or mai dimenticato, MIT Cosenza. Ferrante Marco Antonio Baffa
Trasci. Ferruccio Baffa-Trasci. Trasci. Keywords: “conversazione con me stesso”,
lizio, Galilei. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trasci” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasillo: la ragione
conversazionale del principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Grice italo
-- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza (Roma). Filosofo italiano. the philosophy teacher of emperor TIBERIO.
A Pythagorean and member of the Accademia. Trasillo. Keywords: Tiberio,
principe filosofo. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasimede: la ragione
conversazionale della filiale della setta di Crotone a Metaponto – Roma – filosofia
della Basilicata -- filosofia italiana – Grice Italico – By Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto,
Bernalda, Matera, Basilicata. A Pythagorean, cited by Giamblico. Trasimede. Keywords:
setta di Crotone, filiale di Metaponto. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza.
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