Luigi
Speranza -- Grice e Castiglioni -- Luigi Speranza (Casatico).
Filosofo italiano. Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi
Baldassarre Castiglione (disambigua). Baldassarre Castiglione Raffaello,
Ritratto di Baldassarre Castiglione, 1514-1515 Signore di Casatico Stemma
Nascita Casatico, 6 dicembre 1478 Morte Toledo, 8 febbraio 1529 (50 anni) Luogo
di sepoltura Santuario delle Grazie Dinastia Castiglione Padre Cristoforo
Castiglione Madre Luigia (Aloisia) Gonzaga Consorte Ippolita Torelli Figli
Camillo Anna Ippolita Religione Cattolicesimo Baldassarre Castiglione, anche
chiamato Baldassar e Baldesar (Casatico, 6 dicembre 1478 – Toledo, 8 febbraio
1529), è stato un umanista, letterato, diplomatico e militare italiano, al
servizio dello Stato della Chiesa, del Marchesato di Mantova e del Ducato di
Urbino. Casatico, ingresso di Corte Castiglioni, luogo di nascita di
Baldassarre, con stemma della famiglia La sua prosa e la lezione che offre sono
considerate una delle più alte espressioni del Rinascimento italiano[1].
Soggiornò in molte corti, tra cui quella di Francesco II Gonzaga a Mantova,
quella di Guidobaldo da Montefeltro a Urbino e quella di Ludovico il Moro a
Milano. Al tempo del sacco di Roma fu nunzio apostolico per papa Clemente VII.
La sua opera più famosa è Il Cortegiano, pubblicata a Venezia nel 1528 e
ambientata alla corte d'Urbino, presso la quale l'autore aveva potuto vivere
pienamente la propria natura cortigiana. Tema cardine del libro è la
trattazione, in forma dialogata, di quali siano gli atteggiamenti più consoni a
un uomo di corte e a una "dama di palazzo", dei quali sono riportate
raffinate ed equilibrate conversazioni che l'autore immagina si tengano durante
serate di festa alla corte dei Montefeltro attorno alla duchessa Elisabetta
Gonzaga. Biografia Le origini e la formazione Baldassarre
Castiglione Tiziano, Ritratto di Baldassarre Castiglione, 1529 circa
Nascita Casatico, 6 dicembre 1478 Morte Toledo, 8 febbraio 1529 Cause della
morte febbre Luogo di sepoltura Grazie (Curtatone), Santuario delle Grazie
Etnia italiana Religione cattolica Dati militari Paese servito Marchesato di
Mantova Ducato di Urbino Unità Cavalleria Battaglie Assedio della
Mirandola 1510 voci di militari presenti su Wikipedia Manuale Figlio di
Cristoforo Castiglione (1458-1499), uomo d'armi alle dipendenze del marchese di
Mantova Ludovico Gonzaga e di Luigia Gonzaga (1458-1542), Baldassarre nacque a
Casatico, nel mantovano, il 6 dicembre del 1478[2]. Proveniente da una famiglia
dedita per necessità al culto delle armi e al prestar servizio presso signori
più potenti[3], all'età di dodici anni fu inviato, sotto la protezione del
parente Giovan Stefano C.[4], alla corte di Ludovico il Moro, signore di
Milano, ove studiò alla scuola degli umanisti Giorgio Merula, per quanto
riguarda il latino, e Demetrio Calcondila, per il greco[5]. Si impratichì
invece della letteratura italiana, appassionandosi in particolar modo a
Petrarca, Dante, Lorenzo il Magnifico e Poliziano, sotto l'umanista bolognese
Filippo Beroaldo[6]. Per quanto riguarda l'esercizio e la pratica delle armi,
si formò insieme a Pietro Monte[7]. Purtroppo il soggiorno milanese, funestato
negli ultimi anni dalla morte della duchessa Beatrice d'Este e del padre in
seguito alle ferite riportate nella battaglia di Fornovo del 1495, dovette
terminare e costrinse il C., in quanto figlio primogenito, a occuparsi degli
interessi familiari a fianco della madre[2]. La parentesi gonzaghesca Nel
1499 tornò a Mantova al servizio di Francesco II Gonzaga, marito di Isabella
d'Este[N 1], anche se, secondo la Cartwright, C. non fu mai attratto dalla
personalità rude del marchese[8]. Qui, proseguendo la tradizione familiare, si
mise al servizio di Francesco II quale cavaliere, seguendolo prima a Pavia e
poi nuovamente a Milano, dove assistette all'entrata trionfale di re Luigi XII
di Francia il 5 ottobre[5]. Rientrato a Mantova, Baldassarre si prestò a
servire il suo signore come funzionario marchionale (fu castellano di C. nel
Mantovano durante la ridiscesa di Ludovico il Moro a Milano[9]) e, nell'autunno
1503, lo seguì nel Mezzogiorno ad affrontare gli spagnoli nella battaglia del
Garigliano, subendo, in quel 29 dicembre, una cocente sconfitta[2]. Al
servizio del Ducato d'Urbino Una corte cosmopolita Raffaello, Ritratto di
Guidobaldo da Montefeltro, 1506 circa Nel frattempo il duca d'Urbino Guidobaldo
da Montefeltro, rientrato in possesso dei suoi domini dopo la morte di
Alessandro VI[10], scese a Roma per rendere omaggio al nuovo papa Giulio II[5].
Con la diretta conoscenza di Roma, di Urbino e del duca Guidobaldo, C. provò
«il fascino, tanto diverso, ma egualmente profondo, delle due città»[4]
rispetto alla più provinciale Mantova. Grazie anche all'interesse della
duchessa Elisabetta Gonzaga, ottenne così di essere dispensato dal servigio al
signore gonzaghesco per trasferirsi nella più promettente e amena città
marchigiana[11], anche se ciò suscitò nel marchese Francesco II un certo
risentimento verso il suo ex servitore[12]. Così, nel 1504, iniziò forse il
periodo più felice per il nobile C., entrando al servizio di una corte più
fastosa ed elegante di quella mantovana. Pur militando per il duca d'Urbino ed
essendo a capo di un manipolo di cinquanta uomini[2][13], egli poté frequentare
la corte urbinate, vero centro cosmopolita di ingegni e centro
d'eleganza: «A Urbino il C. s'incontrò con un comitato di persone
egregie, quali innanzitutto le due nobili dame, la duchessa Elisabetta Gonzaga
e madonna Emilia Pio, cognata della prima, e poi con uomini d'ingegno come
Ottaviano Fregoso [...] Federico Fregoso poi arcivescovo di Palermo, Cesare
Gonzaga, cugino del C., Giuliano de' Medici, il minore dei figli di Lorenzo il Magnifico...»
(Russo, p. 510) Luigi Russo ricorda poi anche il conte Ludovico di
Canossa e l'ormai celebre letterato veneziano e futuro cardinale Pietro
Bembo[14]. Alla corte urbinate il C. poté vivere appieno la sua natura
cortigiana, dedicandosi alla letteratura e al teatro. Nel primo caso, si occupò
dell'allestimento scenico prima dell'egloga Tirsi (1506), poi nel 1513 de La
Calandria, l'opera teatrale dell'amico e futuro cardinale Bernardo Dovizi da
Bibbiena[2][15]. In secondo luogo, raffinò ulteriormente la sua attività
cortigiana, ponendo le basi per l'esposizione teorica del buon cortigiano
nell'opera omonima. Le ambascerie e le missioni militari Tiziano,
Ritratto di Francesco Maria Della Rovere, 1538 circa La residenza a Urbino non
fu però statica: impiegato dal suo signore quale ambasciatore, fu
nell'autunno/inverno 1506[16] in Inghilterra alla corte di Enrico VII Tudor per
ringraziare il sovrano inglese della concessione a Guidobaldo dell'onore di far
parte dell'Ordine della Giarrettiera[17][18][19]. Fu in quest'occasione che
dedicò al sovrano inglese la Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini
Ducis[2]. Ancora, nel maggio 1507 fu a Milano per rappresentare il duca presso
Luigi XII di Francia[20], ma fu spedito anche a Roma come ambasciatore, visti
gli strettissimi legami feudali che intercorrevano tra la Santa Sede e il
Ducato d'Urbino, ora che il titolo ducale era passato a Francesco Maria I della
Rovere, parente di Giulio II (1508)[21]. Nel frattempo, agli inizi del ducato
di Francesco Maria, C. era stato nominato dal nuovo duca di Urbino podestà di
Gubbio affinché i suoi cittadini rimanessero fedeli alla causa roveresca,
riuscendovi[22]. Durante questi anni l'umanista partecipò anche alle imprese
belliche del papa guerriero, quale per esempio l'assedio della Mirandola che si
svolse dal 19 dicembre 1510 al 20 gennaio 1511 o la presa di Bologna da parte
delle truppe urbinate[2]. Dimostratosi devoto alla causa del suo signore,
questi gli concesse il 2 settembre 1513 il castello di Nuvilara, nel Pesarese,
col titolo di conte[22][23][24]. Presso la Roma di Leone X
Raffaello, particolare con Leone X Fu questa l'intellighenzia
artistico-culturale ereditata dal nuovo pontefice, Leone X, dalla Roma di
Giulio II. Figlio di Lorenzo il Magnifico e amico del duca e di C.[25], ebbe
come ambasciatore di Francesco Maria proprio quest'ultimo, che doveva rimanere
nella capitale della cristianità per seguitare a fare gli interessi
rovereschi[26]. I tre anni che Baldassarre C. passò alla festosa corte
pontificia fecero credere al cortigiano mantovano di «avere la sensazione che
la corte [pontificia, n.d.r.] fosse quasi un duplicato di quella urbinate»[2]:
l'aver ritrovato gli antichi amici del periodo montefeltrino, la loro
frequentazione, l'essere entrato in contatto con Raffaello e con Michelangelo,
stabilendo rapporti cordiali con loro, gli fecero credere del ritorno all'epoca
felice delle feste e delle conversazioni che spesso C. intratteneva con la
colta duchessa Elisabetta Gonzaga. Come scrive il Mazzuchelli a tal
proposito: «Il Conte quivi egualmente servì il Duca ed attese a' geniali
suoi studj, conversando frequentemente col Bembo, col Sadoleto, col Tibaldeo, e
con Federigo Fregoso, e coltivando i più chiari Professori delle belle arti,
cioè Raffaello d'Urbino, Michelangelo Buonarroti, e altri principali Pittori,
Scultori ed Architetti.» (Mazzuchelli, p. 19) Inoltre, a partire
dal 1513, l'autore iniziò la stesura del Cortegiano, dando principio della sua
attività anche di scrittore[27]. Purtroppo, la politica del nuovo pontefice
rovinò questa chimera. Leone X, infatti, desideroso di elevare la sua famiglia,
dichiarò decaduto il duca Francesco Maria a favore del nipote Lorenzo II,
nonostante il parere negativo del fratello del pontefice, Giuliano de' Medici
duca di Nemours[28]. L'installarsi dei nuovi signori, la fuga del duca a
Mantova e la dichiarata fedeltà alla causa roveresca da parte del C. lo
costrinsero a lasciare Roma per far ritorno nei suoi vecchi domini di
Casatico[15][29]. Il secondo periodo mantovano Tiziano, Ritratto di
Federico II Gonzaga, 1529 circa Rientrato a Mantova, il 15 ottobre 1516 sposò
la quindicenne[30] Ippolita Torelli, figlia di Guido Torelli e di Francesca
Bentivoglio[25]. Ristabiliti cordiali rapporti col signore di Mantova Francesco
II Gonzaga, C. trascorse degli anni abbastanza tranquilli (si ricorda una gita
a Venezia in compagnia della sposa e della corte gonzaghesca[31]) finché nel
1519, divenuto marchese di Mantova il giovane Federico II, fu rimandato a Roma
per consolidare la posizione del nuovo signore presso papa Leone X[32]. Nel
contempo contribuì anche alla causa roveresca facendo sì che, non appena morì
Leone X, il collegio cardinalizio lo reintegrasse nei suoi domini appena
riconquistati con le armi[33]. Al servizio del papato Rimasto vedovo nel
1520, C. si fece prete per provvedere ai propri bisogni materiali[2] e
ricevette la conferma del suo nuovo stato col breve del 9 giugno 1521 da parte
del pontefice medesimo[4]. Mandato a Roma al conclave che elesse Adriano VI
nella speranza che venisse nominato pontefice il cardinale Scipione Gonzaga[2],
servì sotto Federico Gonzaga ancora come cortigiano e comandante
militare[34][35], ma non c'era più la felicità e il brio della corte urbinate e
della Roma medicea: «Non c'è più l'entusiasmo, la baldanza, la serenità
fiduciosa di quegli anni giovanili; ormai per lui le fatiche non sono più
piaceri come lo erano allora; alla lieta spensieratezza del giovane è
subentrata la gravità dell'uomo che ha vissuto, lavorato e sofferto, dell'uomo
quale noi conosciamo, calmo, equilibrato ed un poco triste per tutto quel male
che è intorno a lui, ma che lo ha lasciato puro di ogni macchia.»
(Bongiovanni, p. 40) Tutto questo cambiò quando, nel 1523, fu eletto al
soglio pontificio il cardinale Giulio de' Medici col nome di Clemente
VII. Nunzio in Spagna Tiziano, Ritratto di Carlo V seduto, 1548
«jeri N. Sign. [i.e. il papa Clemente VII] mandò per me, e con molte buone
parole e troppo a me onorevoli fecemi un discorso dell'amore, che egli sempre
mi avea portato per merito mio, e della fede che avea in me; ed estendendosi
molto sopra questo, mi disse che adesso gli accadea farmi testimonio della
confidenza, che aveva della persona mia: e questo, che essendogli necessario
mandare un uomo di qualità appresso Cesare [i.e. l'imperatore Carlo V], dove si
ha da trattar la somma delle cose non solo della Sede Apostolica, ma d'Italia e
di tutta la Cristianità, dopo lo aver discorso tutti quelli, di chi egli si
potesse servire in questo luogo, non avea trovato persona da chi sperasse esser
meglio servito che da me; e però desiderava che io mi contentassi di accettar
questa impresa, la quale era la più importante che in questo tempo avesse per
le mani.» (Baldessar C., Lettere, vol. 1, p. 133) Con queste parole
l'umanista riferiva a Federico Gonzaga della nomina, annunciata il 19 luglio
1524 da parte del papa, a nunzio apostolico in Spagna presso l'imperatore Carlo
V[2]. Sciolto dal legame con il marchese di Mantova, il 7 ottobre del medesimo
anno[2][36] egli partì da Roma per occuparsi di quest'incarico. La missione non
era delle più facili, in quanto il giovane imperatore era in lotta con il re di
Francia Francesco I per la supremazia in Italia, dove si giocava anche la
sicurezza e la credibilità dello Stato Pontificio. Sconfitto il re di Francia
nella battaglia di Pavia del 1525, Clemente VII, che per arginare lo strapotere
imperiale si era alleato ai francesi, fu invaso dalle truppe spagnole e
tedesche dando origine al terribile sacco di Roma del 1527. Il letterato fu
accusato ingiustamente dal papa di non aver saputo prevedere l'evento[37],
nonostante col cardinale Salviati avesse presentato un memoriale con cui il
pontefice si congratulava della vittoria imperiale[38]. Gli ultimi anni li
dedicò alla stampa del Cortegiano, uscito a Venezia per interesse del Bembo nel
1528, e alla disputa con Alfonso de Valdés riguardo all'ortodossia
cattolica[2]. Interno del santuario di Santa Maria delle Grazie La morte
Colpito da attacchi febbrili, C., riabilitato dalla Curia, morì a Toledo l'8
febbraio 1529[2]. Fu inizialmente sepolto, per volontà dell'imperatore che
aveva sempre avuto grande stima di lui, nella cappella di Sant'Ildefonso nella
Metropolitana di Toledo[39]. Ai parenti che giunsero in Spagna, l'imperatore
Carlo rimpianse solennemente con queste parole il nunzio appena
scomparso: (ES) «Yo vos digo que ha muerto uno de los mejores caballeros
del mundo.» (IT) «Io vi dico che è morto uno dei migliori gentiluomini
del mondo.» (Aneddoto di Carlo V riportato in Ferroni, p. 7 e in Russo,
p. 510) Dopo sedici mesi l'anziana madre, volendo adempiere alla
disposizione testamentaria del figlio, fece trasferire la sua salma a Mantova
per tumularla, accanto a quella della moglie, nel santuario di Santa Maria
delle Grazie, alle porte della città, nella tomba allestita da Giulio
Romano[40]. Nella colonna di sinistra a lato del sarcofago è inciso l'epitaffio
latino dettato da Pietro Bembo: (LA) «Baldassari Castilioni Mantuano
omnibus naturae dotibus plurimis bonis artibus ornato Graecis litteris erudito
in Latinis et Hetruscis etiam poetae oppido Nebulariae in Pisauren[si] ob
virt[utem] milit[arem] donato duab[us] obitis legation[ibus] Britannica et
Romana Hispanien[sem] cum ageret ac res Clemen[tis] VII pont[ificis] max[imi]
procuraret quattuorq[ue] libros de instituen[da] regum famil[ia][N 2]
perscripsisset postremo eum Carolus V imp[erator] episc[opum] Abulae creari
mandasset Toleti vita functo magni apud omnes gentes nominis qui vix[it]
ann[os] L m[ense]s II d[iem] I Aloysia Gonzaga contra votum superstes fil[io]
b[ene] m[erenti] p[osuit] ann[o] D[omini] MDXXIX» (IT) «A Baldassare C.
mantovano, adorno di tutte le doti naturali e di moltissime belle arti, erudito
nelle lettere greche e in quelle latine e italiane anche poeta. Avuto in dono
per il suo valore militare il castello di Novilara nei pressi di Pesaro,
portate a termine due legazioni in Inghilterra e a Roma, mentre conduceva
quella in Spagna e curava gli interessi del pontefice massimo Clemente VII,
completò di scrivere i quattro libri del Cortegiano; infine, dopo che
l'imperatore Carlo V ordinò che venisse creato vescovo di Avila, concluse la
sua vita a Toledo godendo di grande rinomanza presso tutti i popoli. Visse anni
50, mesi 2 e 1 giorno. La madre Luigia Gonzaga, superstite contro il proprio
desiderio, al figlio benemerito pose questo monumento nel 1529.»
(Epigrafe di Baldassare C., riportata in Mazzuchelli) Discendenza
Baldassarre e Ippolita ebbero tre figli:[2][41] Camillo (1517-1598),
condottiero Anna (1518 - ?), sposò Alessandro dei conti d'Arco e quindi il
conte Antonio Ippoliti di Gazoldo Ippolita (1520 - ?), sposò Ercole Turchi di
Ferrara Ascendenza Genitori Nonni Bisnonni Baldassarre C. Cristoforo C.Antonia
da Baggio Cristoforo C. Polissena Lisca Alessandro
Lisca Amante da Fogliano Baldassarre C. Antonio Gonzaga
Luigi Gonzaga Luigia Gonzaga Luigia Gonzaga
Francesca degli Uberti Gianfrancesco degli Uberti Bianca
Gonzaga Pensiero Uno scrittore non professionista Panoramica
del Palazzo dei duchi di Urbino, ove C. visse parte della sua vita C. non fu
uno scrittore professionista al pari di Pietro Bembo o di Ludovico Ariosto. La
sua testimonianza letteraria, a partire dall'opera maggiore fino alle prove
minori, era inquadrata da un lato nel tentativo di celebrare un modello di
cortigiano ideale in un'epoca in cui il principato era diventato la realtà
quasi assoluta nel contesto geopolitico italiano dell'epoca; nel secondo,
invece, era quella di un'esibizione della sua cultura personale ai fini sempre
della cortigianeria. Come scrive Giulio Ferroni: «la sua cultura ricca e varia
non è però [...] la cultura di un professionista: la letteratura è per lui
espressione del suo essere gentiluomo e un modo di partecipare alla vita della
società nobiliare»[15]. Semmai, piuttosto, se si prende il Cortegiano quale
misura del mondo C.sco, si può anche parlare di doverosa testimonianza di un
mondo che non c'è più, «un luogo mitico, immagine di una felicità
perduta»[27][N 3] devastata poi dalle guerre per il potere e il dominio tra gli
uomini[N 4]. Lasciando parola all'autore stesso: «...e come nell’animo
mio era recente l’odor delle virtú del duca Guido e la satisfazione che io
quegli anni aveva sentito della amorevole compagnia di così eccellenti persone,
come allora si ritrovarono nella corte d’Urbino, fui stimulato da quella
memoria a scrivere questi libri del Cortegiano; il che io feci in pochi giorni,
con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar
tosto questo debito erano nati.» (C., Dedica, I, p. 13) Il perfetto
cortigiano In un'epoca in cui la cortigianeria era divenuto il nuovo modello
del vivere sociale presso i potenti C. fu, nella schiera dei principali
letterati dell'epoca, il «precettista della vita di corte»[42]. Nel quadro
della corte feltrina e poi roveresca, il C. delinea una serie di modi di porsi
e di comporsi da parte del cortigiano, oltreché a precise indicazioni sulla sua
condotta e alla sua formazione culturale e fisica. In sostanza, il Cortegiano
si presenta quale «moderno erede della pedagogia umanistica»[43] in quanto
l'uomo che vi si raffigura è «un uomo versatile e aperto, duttile e completo; è
esperto di armi e di politica, ma sa anche di lettere, filosofia ed arti, è
raffinato ma senza affettazione, è coraggioso e valente, ma senza
ostentazione»[43]. In sostanza, è un trattato di pedagogia rivolto a chi vive
nel mondo ristretto ed elitario delle corti. Grazia e sprezzatura
Bernardino Campi, Baldassarre C. Doti fondamentali su cui si deve poggiare il
cortigiano per C. sono la grazia e la sprezzatura. La grazia del cortigiano,
propria di una specifica classe aristocratico-nobiliare[44], è essenziale alla
vita di corte in quanto «la grazia, le maniere gentili e amabili sono dunque le
condizioni che permettono al gentiluomo di conquistare "quella universal
grazia de' signori, cavalieri e donne"»[45]. Sempre seguendo il
ragionamento di Maria Teresa Ricci, «la grazia appare dunque come una specie di
abilità che ha per scopo di piacere e convincere. Il cortegiano, come
l'oratore, deve saper commuovere, persuadere, convincere gli altri. Egli deve
essere in grado di dare sempre una "buona opinione" di sé»[46]. In
sostanza, deve saper apprendere questa capacità per poter vivere nell'ambiente
di corte. La grazia però è connessa con la cosiddetta sprezzatura, ossia la non
visibilità dello sforzo con cui il cortigiano fa manifesto della grazia
acquisita, qualità contrapposta all'affettazione, ossia «l'ostentazione di un
comportamento ricercato, di cui risulta sottolineata l'innaturalezza e
artificiosità»[47]: «Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca
questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula
universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che
si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e
come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una
nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e
dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza
pensarvi.» (C., I, XXVI, p. 45) Il C. però propone, nonostante la
naturalezza della sua teoria, una vita che sia mimesi di quella reale: il
cortigiano agisce «in un teatro delle apparenze»[48] nel quale invece è
l'affettazione a dominare sulla sprezzatura e non l'incontrario. L'esaltazione
delle lettere Nella discussione dialogica del Cortegiano emerge poi la
supremazia artistica e formativa delle lettere tra le qualità del cortigiano.
Per C. «la vera gloria degli uomini è quella che si commenda "al sacro
tesauro delle lettere"»[49] in quanto tutti gli antichi, compresi i
conquistatori e i politici[50], ne seguirono le orme per una gloria duratura
nei secoli. Consigliere del principe L'umanista olandese Erasmo da
Rotterdam propose un modello pedagogico e politico in buona parte simile a
quella del C. Nel IV libro del Cortegiano si tratta dei rapporti tra cortigiano
e principe. Il discorso, tenuto da Ottaviano Fregoso, tratta di un argomento che
risulta «inatteso, in qualche modo disomogeneo con le prime tre parti
dell'opera»[51]. Il tono del discorso, infatti, risulta molto più serio e
concreto, in quanto il Fregoso (sotto il quale si cela l'animo dell'autore)
denuncia la degenerazione delle corti dovuta a cortigiani inetti e
all'immoralità dei principi. Sarà dunque il cortigiano perfetto, quello
delineato nei primi tre libri, a dover “correggere” questo stato di cose,
educando e consigliando il principe sulla strada della virtù. Il modello del
principe di C., che si rifà ancora all'Umanesimo quattrocentesco di Coluccio
Salutati e Matteo Palmieri e che trova riscontri nella pedagogia erasmiana
dell'Institutio principis christiani[52], è quanto mai lontano da quello
machiavelliano: se entrambi concordano sulla necessità della virtù del principe
per governare, C. si propone di allontanare dall'immoralità il principe, la
stessa che invece Machiavelli dichiara essere necessaria per il governo dello
Stato nei casi di necessità: «Il fin adunque del perfetto cortegiano, del
quale insino a qui non s’è parlato, estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo
delle condicioni attribuitegli da questi signori talmente la benivolenzia e
l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità
d’ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza timor o periculo di
despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non
conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della grazia
acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa ed
indurlo al camin della virtú.» (C., IV, 5, p. 241) Come fanno
notare Salvatore Guglielmino ed Hermann Grosser, però, il modello politico del
cortigiano C.sco è simbolo di una crisi di valori per cui il suo campo d'azione
presso il principe non è quello di un primus inter pares, quanto solo quello di
un mero consigliere, preludio alla trasformazione del cortigiano nel mero
secretario custode dei segreti indiscutibili del principe[53]. La dama di
corte Raffaello, Ritratto di Elisabetta Gonzaga, 1504-1505 Corrispettivo
dell'uomo di corte deve essere la dama di palagio, che nell'opera assume una
posizione rilevante grazie alla figura della duchessa Elisabetta Gonzaga, della
cognata Emilia Pio, di Costanza Fregoso e Margherita Gonzaga[54]. Secondo
quanto disposto dal C. nel III libro della sua opera, la dama di palazzo (o di
corte) deve essere istruita nelle belle lettere, nelle arti, nella musica e
nella danza, oltre ad essere al contempo una buona moglie ed una buona madre di
famiglia[55][N 5]: deve essere dunque una donna «honesta», vocabolo che non
indica l'onestà come virtù morale, quanto l'adozione di certi valori etici e
sociali da cui ci si aspetterebbe da una donna di buoni costumi così come
delineati nell'opera. Per quanto riguarda la dama non ancora sposata, sarà
necessario che essa ami soltanto chi è disponibile a maritarsi con lei e deve
rivolgere le attenzioni maschili a discorsi virtuosi ed onesti, disdegnando
invece le promesse d'amore fatte in modo vago e senza alcun preciso intento di
mantenerle[55]. Fulcro della perfezione della donna di corte è rappresentato
dalla duchessa Elisabetta Gonzaga, come delineato da Uberto Motta:
«Elisabetta è la segreta sorgente a cui C. riconduce le ragioni più intime
della sua scrittura: nei temi, nei generi e nelle forme. Da lei, e
dall’incontro con lei, viene fatta discendere la scoperta e la rivelazione di
un nuovo modo di essere al mondo: la duchessa è una donna unica, l’esclusivo
prototipo della virtù e del valore, la sola compagna all’altezza del fine animo
di Guidubaldo, e a dispetto degli infortuni politici dello stato, e delle
tristezze procuratele dallo sterile matrimonio e dalla vedovanza.»
(Motta, Sotto il segno di Elisabetta. Il mito della duchessa) La
questione della lingua All'inizio del '500, davanti alla rinascita
dell'interesse del volgare dovuto all'umanesimo omonimo, ci si pose quale
dovesse essere il veicolo comunicativo da utilizzare fra gli italiani e quali
dovessero essere i modelli di questa lingua. Secondo Uberto Motta, C. si pone
nella linea dell'anticiceronianesimo appreso alla scuola milanese del
Calcondila e del Merula[56], rispondendo a quella che i critici vaglieranno
come teoria cortigiana, opposta a quella che in quegli anni Pietro Bembo stava
elaborando e che vedrà la luce con le Prose della volgar lingua del 1525.
Claudio Marazzini sintetizza così la teoria cortigiana: «la differenza tra
questo ideale linguistico e quello di Bembo sta nel fatto che i fautori della
lingua cortigiana non volevano limitarsi all'imitazione del toscano arcaico, ma
preferivano far riferimento all'uso vivo di un ambiente sociale determinato,
quale era la corte»[57]. Infatti tale posizione viene esplicitata da Federico
Fregoso nel Cortigiano nel I libro: «Però io laudarei che l’omo, oltre al
fuggir molte parole antiche toscane, si assicurasse ancor d’usare, e scrivendo
e parlando, quelle che oggidí sono in consuetudine in Toscana e negli altri
lochi della Italia, e che hanno qualche grazia nella pronuncia.» (C., Cortegiano)
Opere Il Cortegiano Lo stesso argomento in dettaglio: Il Cortegiano. «Il
tempo che egli passò in Urbino fu dunque quello che maggiormente influì a dare
quasi il segno all'arte sua. Il libro del Cortegiano vide la luce assai appresso,
ma non può negarsi che l'atteggiamento che egli prende di fronte alla sua arte,
di lì sia venuto.» (Bongiovanni) Edizione inglese del 1603 a
partire da quella di Thomas Hoby del 1561 La sua fama è legata a Il libro del
Cortegiano, trattato in quattro libri in forma dialogica. Scritto in varie fasi
tra il 1508 e il 1524[58], il Cortegiano si ambienta nel 1507, quando il duca
Guidobaldo era ancora vivo, e fu stampato nel 1528 a Venezia[27]. Nel signorile
ambiente della corte di Urbino si svolgono, in quattro serate, dei dialoghi in
cui si disegna l'ideale figura del perfetto cortigiano: nobile di stirpe,
vigoroso, esperto delle armi, musico, amante delle arti figurative, capace di
comporre versi, arguto nella conversazione. Tutto il suo comportamento doveva
dare impressione di grazia e eleganza. Simile a lui la perfetta "dama di
palazzo". Serve così a comprendere non una realtà d'epoca, ma le
aspirazioni di una classe a una vita contraddistinta da un elegante ordine
razionale, un'idea di bellezza che desse alla vicenda terrena un significato
superiore ed eterno. L'opera ebbe immediata e generale fortuna in Europa e
servì da modello, anche come prosa, benché non conforme ai precetti di Pietro
Bembo: nel Cortegiano si espone anche un ideale di compostezza armoniosa nel
campo della produzione in prosa, contraddistinta da elevatezza di impianto
generale, ricchezza e fluidità, duttilità a registri diversi di
scrittura. Tirsi Frontespizio delle opere latine e volgari di
Baldesassar C., presso Giuseppe Comino, Padova 1733 Il Tirsi è un'egloga in 55
ottave[59], elaborata insieme al cugino e amico Cesare Gonzaga, che celebra i
vari letterati presenti alla corte urbinate, riconoscibili tramite i versi che
sono stati da loro scritti. La scena si apre con il lamento del pastore Iola
per il rifiuto dell'innamorata ninfa Galatea di unirsi a lui, quando interviene
Tirsi che esalta una divinità locale (dietro cui c'è Elisabetta Gonzaga) e
tutti coloro che si sono posti sotto la sua protezione[60]. Il chiaro retaggio
virgiliano dell'opera è dovuto al fatto che i personaggi che vi compaiono
appaiono tutti nelle Bucoliche del poeta mantovano[61], ma vi si intravedono
anche stilemi tratti da Orazio, Ovidio e Catullo, oltreché la metrica adottata
nell'Orfeo del Poliziano[62]. Fu stampato per la prima volta nel 1553 a Venezia
a cura di Anton Giacomo Corso[63]. Rime La produzione in ambito poetico è
alquanto esigua, anche se nell'epitaffio mortuario del Bembo si parla di
«litteris [...] hetruscis etiam poetae». Le rime, concentrate nel periodo
urbinate[64], per C. appaiono «come strumento di estrinsecazione dell'identità
del cortigiano»[65] e risentono del petrarchismo cortigiano[65] oltreché
dall'influenza poetica classica[66]. Constano di due canzoni e di cinque
sonetti[67], stampati dall'abate Serassi nel 1771 nel secondo volume delle
Lettere[68]. Carmina Consistono in un'egloga intitolata Alcon, dedicata
in morte dell'amico Domizio Falcone[69] e basata su metri e tematiche estratte
dalle Bucoliche e dalle Georgiche virgiliane[70], in un poemetto col titolo
Cleopatra, in elegie e in epigrammi[68]. Furono raccolti per la prima volta da
Giovanni Antonio e Gaetano Volpi nell'edizione delle Opere volgari e latine del
1733 in numero di diciotto, cui ne fu aggiunto un altro inedito nell'edizione
delle Poesie volgari e latine del 1760 curata da Pierantonio Serassi per un
insieme di diciannove carmi. Per la precisione, i titoli sono i seguenti:
Alcon, Cleopatra, Prosopopoeia Ludovici Pici Mirandulani, De Elisabella Gonzaga
canente, Elegia qua fingit Hippolyten suam ad se ipsum scribentem, Ad puellam
in litore ambulantem, Ad eamdem, De morte Raphaelis pictoris, De Paullo
canente, De viragine, Ad amicam, Epitaphium Gratiae puellae, Insignium domus
Castilioniae descriptio, Hippolytae Taurellae coniugis epitaphium, Eiusdem
tumulus, Ex Corycianis, In Cupidinem Praxitelis, De Julio Caesare, De
amore[71]. Epistole Oltre alle sedici epistole in volgare[72], tra le
lettere degne di menzione si ricordano il De Vita et Gestis Guidubaldi Urbini
Ducis, panegirico in prosa del duca d'Urbino presentato ad Enrico VII
d'Inghilterra in occasione della morte di Guidobaldo e tentativo di realizzare
la figura ideale di principe; e la Lettera a Papa Leone X, che tratta delle
antichità romane e del modo con cui i romani costruivano i loro
edifici[73]. La fortuna Torquato Tasso Traduzioni del Cortegiano In
Europa il nome di Baldassarre C. è intrinsecamente legato alla sua opera più
celebre, Il libro del Cortegiano, quale modello di comportamento presso le
corti. C. trovò terreno fertile in Spagna dove già nel 1536 il poeta Juan
Boscán tradusse Il Cortegiano in spagnolo[74], mentre nel 1537 fu traslato in
francese da Jacques Colin d'Auxerre (Le courtisan), nel 1561 in inglese da
Thomas Hoby (The courtier)[2][75] e nel 1565 in tedesco dal bavarese Laurentz
Kratzer[76]. Seguirono traduzioni anche in latino del Cortegiano, come quella
di Hieronimus Turler la quale fu pubblicata a Wittenberg nel 1561[77]. Secondo
Beffa-Negrini e lo scrittore veronese Benini, nel XVII secolo, vi fu la
traduzione dell'opera anche in lingua russa[78]. Nel corso dei secoli
Criticato parzialmente da Torquato Tasso nel suo dialogo Il Malpiglio overo de
la corte a causa delle forti discordie che intercorrevano tra quell'ambiente e
il poeta d'origine bergamasca (ma anche per il mutato cambiamento sociale
intercorso)[79], l'opera di C. fu posta all'Indice dei libri proibiti nel 1576:
il figlio di lui, Camillo, ricevette notizia direttamente dalla Santa Sede[80].
Neanche la versione "ripulita" di Antonio Ciccarelli permise al
Cortegiano di essere tolto dai libri proibiti, come riconfermato da papa Sisto
V. Comunque Il Cortegiano continuò a circolare e, con la fine dell'età della
Controriforma, fu visto nel XIX e nel XX secolo come l'emblema stesso del
Rinascimento[82]. Opere Baldassarre C., Il libro del Cortegiano, a cura
di Giulio Carnazzi, Milano, Fabbri Editore, 2001 [1995], SBN TO01070935.
Baldassarre C.,Il Libro del Cortegiano, a cura di Ettore Bonora, commento Paolo
Zoccola, , Mursia, Milano 1972 Baldassarre C. e Cesare Gonzaga, Rime e Tirsi, a
cura di Giacomo Vagni, Bologna, I Libri di Emil, 2015, ISBN 978-88-6680-136-8.
URL consultato il 14 maggio 2020. Baldessar C., Lettere ora per la prima volta
date in luce e con annotazioni storiche illustrate, a cura di Pierantonio
Serassi, vol. 1, In Padova, presso Giuseppe Comino, Omaggi poetici e letterari
Il poeta Matteo Bandello ha dedicato a Baldassarre C. la Novella XLIV della
Prima parte (1554).[83] Note Esplicative ^ I rapporti tra il C. e
Isabella d'Este furono sempre improntati ad armonia per spirito di vedute e per
interessi comuni. A rappresentare l'amicizia ormai consolidata, Isabella decise
di partecipare in prima persona al corteo nuziale del C. con Ippolita Torelli.
Cfr. Bongiovanni, p. 60. ^ De instituenda regum familia ("Sull'istruzione
della corte dei regnanti") è il titolo latinizzato che il Bembo dà a Il
Cortegiano. ^ Per un discorso più ampio, cfr. Motta 2003, pp. 69-168. ^ In Ferroni,
p. 9. non a caso si parla di un tentativo di «esaltare [con] questo sogno un
modo di rispondere alle rovinose "mutazioni" dell'Italia
contemporanea». ^ Finucci, p. 92: «Le donne sono presenti inoltre perché
necessario, lo si metterà ben in chiaro, "non solamente all'esser ma ancor
al ben esser" (3, 40, 246) dell'uomo, della famiglia e della corte, quindi
ai valori familiari, sociali e politici che costituiscono la società che qui
con cura viene messa in scena dall'autore.» Bibliografiche ^ Motta, Baldassarre
C.: «L'opera, all'indomani della prima edizione (1528), si afferma, a livello
internazionale, come autentico capolavoro e nuovo punto di riferimento nella
letteratura etica e politica, sulla scia dei sublimi modelli antichi di
Aristotele e Cicerone, di cui, consapevolmente, aggiorna e puntualizza la
lezione.» Mutini. ^ «La guerra come duro scotto di privazioni e di
sangue, o come gioco millantato e fastoso, era il loro appannaggio: la morte e
la finzione costituivano i termini di un'alterità in cui si celebrava, in
mancanza di una struttura sociale subordinante, l'assoluta devozione al
signore...» (Mutini) Cian. Mazzuchelli, p. 16. ^ Cartwright Bongiovanni,
p. 25. ^ Cartwright But loyally as C. served his master, Francesco Gonzaga's
personality, it is evident, never attracted him», ossia «A parte che C. servì
lealmente il suo signore, la personalità di Francesco Gonzaga, è evidente, non
l'entusiasmò mai». ^ Cartwright, 1, p. 28. ^ Cartwright, 1, p. 38. ^
Mazzuchelli, pp. 16-17. ^ Martinati, p. 12. ^ Martinati, p. 13. ^ Russo, p.
510. Ferroni, p. 7. ^ Martinati, p. 16. ^ Mazzuchelli, Martinati, p. 14.
^ Cartwright, 1, p. 188: (EN) «Henry, by the grace of God, King of England and
France, Lord of Ireland, Soveraign of the Most Noble Order of the
Garter...Forasmuch as we understand that the right noble prince, Gwe de
Ubaldis, Duke of Urbin, who was heretofore, elected to be one of the companions
of the said noble Order» (IT) «Enrico, per la grazia di Dio, Re
d'Inghilterra e Francia, Signore d'Irlanda, protettore del nobilissimo ordine
della Giarrettiera...Dato che noi intendiamo che il giusto nobile principe,
Guidobaldo, Duca di Urbino, che era fino a questo momento, eletto ad essere uno
dei membri del suddetto nobile Ordine...» ^ Martinati, p. 18. ^ La coppia
ducale era senza figli per l'impotenza di Guidobaldo e così, il 18 settembre
1504, Guidobaldo fu costretto ad accettare come successore Francesco Maria
Della Rovere, nipote del pontefice. Cfr. Cartwright Mazzuchelli, p. 18. ^
Martinati, p. 24. ^ Bongiovanni, p. 31. Mazzuchelli, p. 19. ^ Martinati,
p. 23. Ferroni, p. 8. ^ Bongiovanni, p. 141. ^ Martinati, p. 28 e sgg. ^ Cartwright, 1, p. 411; p. 415: «Ippolita married at fifteen, and died
four years later, before she was quite twenty». ^ Mazzuchelli, p.
20. ^ Martinati Martinati, p. 41. ^ Mazzuchelli, p. 21. ^ Bongiovanni, p. 39. ^
Cartwright, 2, p. 248. ^ Mazzuchelli, p. 22. ^ Martinati, p. 47. ^ Mazzuchelli,
p. 23. ^ Martinati, p. 56. ^ Pompeo Litta, Famiglie celebri di Italia.
Castiglioni di Milano., Torino, 1835. ^ Russo, 1, p. 257.
Guglielmino-Grosser, p. 282. ^ Ricci, p. 237. ^ Ricci, p. 237. Il testo del
Cortegiano è tratto dal capitolo II, par. 17. ^ Ricci, p. 238. ^ Ferroni, p.
78, n. 15 §1. ^ Ferroni, p. 9. ^ Russo Russo Ferroni Scarpati, p. 435: «La rete
dei valori e dei disvalori che si disegna non è dissimile da quella tracciata
da Erasmo». ^ Guglielmino-Grosser, pp. 282-283. ^ Finucci, p. 91.
Ferroni, p. 88. ^ Motta Marazzini, Motta, Il libro del Cortegiano. La genesi del
testo. ^ Vagni, p. 773. ^ Vagni, p. 734. ^ Vagni 2015, p. 187. ^ Cartwright, 1,
p. 159. ^ Vagni 2015, p. 192. ^ Vagni 2015, p. XXVI. Vagni 2015, p. XXV.
^ Vagni 2015, p. XXX. ^ Mazzuchelli, p. 32. Mazzuchelli, p. 33. ^ Motta,
La produzione poetica. I carmi latini. ^ Cartwright, 1, p. 144. ^ Mazzuchelli,
pp. 33-34. ^ Mazzuchelli, p. 30. ^ Mazzuchelli, p. 34. ^ Pozzi. ^
Loewenstein-Mueller, p. 349. ^ Burke, p. 64. ^ Cartwright, Cartwright, 2, p.
440. ^ Cfr. il saggio di Cox, pp. 897-918. ^ Cartwright, 2, p. 443. ^
Cartwright Burke, IV di cop. ^ La prima parte de le Novelle, In Lucca, per il
Busdrago, 1554. Bibliografia (FR) Roland Antonioli (a cura di), Lumieres de la
Pleiade, Parigi, J. Vrin Bongiovanni, Baldassar C., Milano, Edizioni Alpes Bonora,
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Garzanti IV, Milano,pag.210-218 Peter Burke, Le fortune del Cortegiano.
Baldassarre C. e i percorsi del Rinascimento europeo, traduzione di Annalisa
Merlino, Roma, Donzelli Cartwright, Baldassare C. the perfect courtier: his
life and letters, London, John Murray Cartwright, Baldassare C. the perfect
courtier: his life and letters London, John Murray Cian, C., Baldassarre,
collana Enciclopedia italiana, vol. 9, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana Cox, Tasso's "Malpiglio overo de la corte: The courtier"
Revisited, in The Modern Language Review, vol. 90, n. 4, Modern Humanities
Research Association Ferri, Il racconto del Cortigiano. Vita e storie di
Baldassarre C., Collana Saggi, Milano, Solferino Ferroni, Dal Classicismo a
Guicciardini (1494-1559), collana Storia della Letteratura Italiana, vol. 6,
Milano, Mondadori Finucci, La donna di corte: discorso istituzionale e realtà
ne"Il libro del cortegiano" di B. C., in Annali d'Italianistica, vol.
7, Arizona SGuglielmino e Hermann Grosser, Dal Duecento al Cinquecento, collana
Il sistema letterario, 1. Storia, Milano, Principato Pompeo Litta, Famiglie
celebri di Italia. Castiglioni di Milano., Torino Loewenstein e Janel Mueller
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Cambridge Marazzini, La lingua italiana: profilo storico, 3ª ed., Bologna, Il
Mulino, Martinati, Notizie storico-biografiche intorno al conte Baldassare C.,
Firenze, coi tipi dei successori Le Monnier Mazzacurati, Baldassar C. e la
teoria cortigiana: ideologia di classe e dottrina Critica, in MLN Mazzuchelli, C.
Baldassarre. Articolo inedito dell'opera intitolata «Gli scrittori d'Italia», a
cura di Enrico Narducci, Estratto da Il Buonarroti, Roma, Tipografia delle
scienze matematiche e fisiche, Motta, La «questione della lingua» nel primo
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3, Milano, Vita e Pensiero, Motta, C. e il mito di Urbino: studi sulla
elaborazione del "Cortegiano", Milano, Vita e Pensiero Mutini, C.,
Baldassarre, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 22, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Quondam, Questo povero cortegiano. C., il libro, la
storia, Bulzoni, Maria Teresa Ricci, La grazia in Baldassar C.: un'arte
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Accademia Editoriale Russo, Pietro Bembo e la sua fortuna storica, in Belfagor,
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57, n. 3, Milano, Vita e Pensiero Vagni, L'onorata schiera della duchessa
Elisabetta. Ipotesi attributive sul Tirsi di Baldassar C. e Cesare Gonzaga, in
Aevum, Milano, Vita e Pensiero, Voci correlate Carta Castiglioni Ducato di
Urbino Marchesato di Mantova Francesco II Gonzaga Ludovico il Moro Papa Leone X
Papa Clemente VII Carlo V d'Asburgo Guerre d'Italia Il Cortegiano Castiglióne,
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Baldassarre C. (altra versione), su MLOL, Horizons Unlimited. Opere di
Baldassarre C., su Open Library, Internet Archive. Opere di Baldassarre C., su
Progetto Gutenberg. Audiolibri di Baldassarre C., su LibriVox. Baldassarre C.,
su Goodreads. Baldassarre C., in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Modifica su Wikidata Baldassarre C., in Archivio storico Ricordi,
Ricordi & C. Modifica su Wikidata Uberto Motta, Baldassarre C., su
internetculturale.it. In particolare: Sotto il segno di Elisabetta. Il mito
della duchessa, su internetculturale.it. La produzione poetica. I carmi latini,
su internetculturale.it. Il libro del Cortegiano. La genesi del testo, su
internetculturale.it. Mario Pozzi, La traduzione del Cortegiano e l'aspirazione
spagnola a una cultura degna della nuova condizione imperiale, su
journals.openedition.org, 2 dicembre 2015. URL consultato il 20 maggio 2020.
Predecessore Signore di Casatico Successore Cristoforo C. Camillo C.
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secoloNati nel 1478Morti nel 1529Nati il 6 dicembreMorti l'8 febbraioNati a
Casatico (Marcaria)Morti a ToledoC.Militari italiani del XVI secoloPoeti ed
umanisti alla corte dei Da MontefeltroDiplomatici al servizio dei
GonzagaConiugi dei TorelliSepolti nel Santuario della Beata Vergine delle
Grazie (Curtatone)[altre]. Baldassarre Castiglione. Castiglione. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Castiglione,’ The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Castrucci:
la ragione conversazionale el’implicatura conversazionale del guerriero
indo-germanico -- sul conferimento di valore – scuola di Monterosso al Mare –
filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Monterosso al
Mare). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Monterosso al Mare, La Spezia,
Liguria. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di La Spezia,
iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi filosofico-giuridici
e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi, laureandosi in
giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di ricercatore
universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in contatto per un
breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia espressa
all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di laurea (Tra
Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena. I
suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle
idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della
dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti
antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la
critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre
le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione
delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo,
le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. C.
ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri
scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso
della sua ricerca ha approfondito in
particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice
europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del
nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e
di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”,
“forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica
europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo
storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione,
o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che
corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un
ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle
premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che
avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la
storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel
quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi
della cultura del primo Novecento. Accade in questo quadro che il primato
classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente
moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma.
Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della
letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori
come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro
voci, che C. analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi rinnovate
rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza kantiana,
a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del diritto.
Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di potenza si possono
infine riconoscere, secondo C., le linee di un'antropologia politica fondata su
basi individualistiche (potenza come acquisizione di spazio, ossia affermazione
individuale nella spazialità: Selbstbehauptung), che però non trascura il serio
problemaposto nel corso del Novecento dalla migliore dottrina costituzionale
tedescadel radicamento materiale e simbolico del singolo individuo nella
comunità politica di appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento
individuale e comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il
riferimento all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento,
elaborata da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di
potenza già rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di
Nietzsche. L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di
riconsiderare, seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica
della cultura, una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea
aveva concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi
distoglierla "nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra
questi problemi particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso
filosofico di C., la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche
convenzionaliste, l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel
pensiero di autori classici della filosofia tedesca come Schopenhauer,
Nietzsche, Heidegger e Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più
recenti come Habermas, nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali
di costruzione di un mito politico nell'età del nichilismo compiuto. Hanno
suscitato polemiche alcuni suoi tweet, a partire da uno col quale si riferiva a
figure storiche naziste come Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento
di C. "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho
combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo" e
Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo la diffusione
di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri, ritenuti di matrice
filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti nei riguardi del
Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex Presidente della Camera
Laura Boldrini. Replica affermando di aver semplicemente espresso un giudizio
storico personale avvalendosi, al di fuori della sua attività didattica, del
principio di libertà di pensiero e successivamente, in una memoria difensiva
dei suoi avvocati, di non aver mai aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere
un libero pensatore, sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente
provocatoria e paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la
grande speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la
finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account
è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena
Francesco Frati ha preso le distanze da C., annunciando di aver "dato
mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla gravità del
caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in procura dopo
aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole del docente,
ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di negazionismo. Dopo la
sospensione, C. non si è presentato alla Commissione disciplinare dell'ateneo
dichiarandola non legittimata a giudicare sul suo caso, mentre l'iter
procedurale che avrebbe potuto condurre al licenziamento è stato bloccato in
seguito alla richiesta di pensionamento presentata dal professore stesso. L'inchiesta
penale è stata affidata per motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine
convenzionale e pensiero decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e
"Rechtsidee". Il pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè
Editore); La forma e la decisione, Milano, Giuffrè); Considerazioni
epistemologiche sul conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione
alla filosofia del diritto pubblico di Schmitt, Torino, Giappichelli); Hume e
la proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti
di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer
filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di
scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi
di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto,
Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli
101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero
giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo,
Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico
delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni
in Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma giuridica:
Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La scuola di
Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria politica europea
prima di Thomas Hobbes, C., Milano, Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos
della terra, Franco Volpi, traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il
nomos della terra, Franco Volpi; Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio
sul problema della prassi giudiziale, C., Milano, Giuffre). Le radici
antropologiche del 'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del
Nomos, in Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum
europaeum”, Adelphi, Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas,
in Filosofia politica, Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un
totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di
Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della
forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento,
Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e
pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno
nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la decisione” (Milano, Giuffrè);
Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti
intellettuali dello Stato moderno; La forma e la decisione; Convenzione, forma,
potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè).
HOMO ABSCONDITUS L’IDEOLOGIA TRI PARTITA DEGLI INDOEUROPEI
il Cerchio Iniziative editoriali L'IDEOLOGIA TRIPARTITA
DEGLI INDOEUROPEI costituisce una sintesi completa ed accessibile degli
studi di Dumézil. che hanno rivoluzionato la nostra conosceza delle
antiche civiltà euro-asiatiche. La struttura fondamentale del pensiero
religioso e sociale delle popolazioni uscite dalla comune radice
indoeuropea. dallTrlanda allTndia, la tripartizione sociale in Sacerdoti.
Guerrieri e Contadini che è presente nelle origini di Roma così
come nei miti iranici, germanici e celti, si rivela essere lo
specchio di un'armonia divina, in cui gli stessi dèi sono così suddivisi,
classificati e diversamente adorati. È la dimostrazione di come,
nelle civiltà tradizionali, anche l'aspetto sociale e politico dipenda
radicalmente dalla dimensione mitico-religiosa. e il mondo del
divino diviene l’archetipo che dà forma a tutta la società
degli uomini. DUMÉZIL è una figura fondamentale nel
panorama culturale europeo. Filologo e storico, riavviato gli studi
attorno alla civiltà indoeuropea nelle grandi civiltà precristiane: Roma.
l'India. l'Iran, la Grecia, le popolazioni celtiche e germaniche.
Ha lasciato una bibliografia sterminata, solo parzialmente tradotta in
italiano, fra cui ricordiamo almeno La religione romana arcaica, Gli Dèi
dei Germani, Mito ed Epopea e Gli Dèi sovrani degli
Indoeuropei. HOMO ABSCONDITUS Dumézil L’ideologia
tripartita degli Indoeuropei Con un saggio introduttivo
di RlES il Cerchio Iniziative editoriali L'idéologie
tripartie des Indo-Européens, Bruxelles Sigillo del re ittita Tarkummuwa, re di
Mera. Walters Art Museum, Baltimora. II Cerchio Srl La
riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo L’opera magistrale di Dumézil.
Calmette rinvenne i primi due Libri dei Veda, u n documento coni p
letamente sco nosciuto i n occidente, e i preziosi manoscritti giunsero nella
Biblioteca Reale di Parigi. Davanti all’Asiatic Society of Bengala,
Jones pronuncia un dotto discorso in cui dimostrò l’esistenza di una
lingua comune, madre del sanscrito e del greco. Eccoci alle soglie della
riscoperta del pensiero indoeuropeo. Il primo dossier indoeuropeo
Il XIX secolo riprese i lavori di questi pionieri e cercò di compiere
nuove scoperte sul pensiero asiatico. Ricercando i documenti dell’antica
mitologia germanica caduti nell’oblio dopo la conversione dei Germani al
Cristianesimo, gli storici tedeschi tentarono di tornare alle origini
spingendosi nei dominii dell’India e dell’Iran. Particolarmente due
pubblicazioni provocarono grande risonanza: la prima è la celebre opera
di Creuzer Simbolik undMvlhologie
der altea Vòfker, tradotto in francese; infine Gòrres pubblica il suo
Mythengeschichle der asiatischen Welt, in cui questo precursore del
romanticismo religioso cercò di d imostrare che i miti dell’India,
dell’Iran e della Grecia veicolavano una dottrina comune su Dio, l’Anima e
l’immortalità. Sulla scia dei loro maestri i mitografi romantici si
lanciarono alla ricerca delle prime idee religiose dell’infanzia umana.
Oltre a ciò questa corrente si occupò dell’espressione e delle modalità
di trasmissione del messaggio religioso sin dalle origini dell’umanità.
A questa corrente romantica si oppose la ricerca storica e filologica,
rappresentata da Miiller, da Bopp, da Chézy e da tutta la linea degli
specialisti in filologia comparata che studiarono scientificamente i
testi dei Veda e dell’Avesta per familiarizzarsi col pensiero dell’India
e dell’Iran antichi. Tra questi ricercatori Miiller occupa un posto di
primaria importanza. Specializzatosi in sanscrito, in grammatica
comparata ed in filosofia del mito ad Oxford, istituì una Cattedra
divenuta celebre: egli credette che la filologia comparata fos se la chiave che
avrebbe permesso di aprire le porte della storia delle religioni. Ai suoi
occhi la lingua è un testimone autentico del pensiero. Miiller sostenne
che in origine l’uomo ha agito, e per descrivere i suoi atti inventò il
linguaggio. Da allora i miti non sono altro che la personificazione degli
oggetti e delle azioni che 1 ’uomo ha dovuto esprimere e
descrivere. Continuando le sue ricerche in direzione delle origini,
Miiller tradusse i Veda, testo in cui credeva di trovare il primo
pensiero indo-europeo e la chiave della religione degli antichi Ariani. Così
secondo il nostro Autore i poemi vedici sarebbero la fonte del pensiero
religioso dei Persiani, dei Greci e dei Romani. La gemma tra le ricerche
di Miiller è rappresentata dalla pubblicazione dei Sacred Books of
thè Easl (che potè terminare prima della propria morte, lasciando così
agli studiosi occidentali una vera summa dei libri sacri dell’antica
Asia. Il dossier indoeuropeo del XIX secolo è già abbastanza ricco:
scoperta della corrispondenze all’interno del vocabolario delle lingue
indoeuropee; presentimento dell’esistenza di una cultura arcaica ariana come
pure di una civiltà comune alle diverse popolazioni. Frazer tentò
d’intraprendere un vasto studio comparato attorno al mito romano della morte
rituale ed al mito nordico del dio Balder. Tutta la sua opera, The Golden
Bough cerca di delineare una sintesi di questa mitologia, ma le sue conclusioni
sono deludenti. Dopo una prima esplorazione, condotta secondo il
metodo frazeriano, Dumézil abbandonò questa via della regalità sacra per
volgersi verso la linguistica e la filologia comparata. Le sue guide furono
A. Meillet e J. Vendryes. In un articolo intitolato Les correspondances
de vocabulaire enlre l ’indo-iranien et Titalo-celtique (in Mémoires
de la Société Linguistique), Vendryes ha sottolineato le corrispondenze
esistenti tra parole indo-iraniche da una parte ed italo-celtiche
dall’altra. Si tratta di termini relativi al culto, al sacrificio ed alla
religione, c vi sono anche parole mistiche relative all’efficacia degli atti
sacri, alla purezza rituale, all’esattezza dei riti, all’offerta fatta agli
dèi, all’accettazione di questa da patte degli dèi, alla protezione
divina ed alla santità. Questa scoperta fu molto importante, poiché
dimostra l’esistenza di una comunanza di termini religiosi presso i
popoli che in seguito sarebbero divenuti gli Indiani, gli Iranici, gli
Italici ed i Celti. La permanenza di questo vocabolario religioso alle
due estremità del mondo indoeuropeo, in India ed in Iran, nella Gallia ed
in Italia, è un dato molto significativo, benché la scomparsa di questo
vocabolario presso popoli come i Germani e gli Scandinavi non abbia
mancato di incuriosire Vendryes. Riflettendo, egli ha constatato che questi
termini religiosi si sono mantenuti presso quei popoli clic disponevano
di collegi sacerdotali influenti: i brahmani, i sacerdoti avestici, i druidi,
il Pontìfex romano. E dunque il sacerdozio a conservare e trasmettere
questo vocabolario grazie ai rituali ed alla liturgia, ai testi sacri ed
alle preghiere. Siamo in presenza di una testimonianza preziosa c di una
fonte importante clic ci conduce ad una conclusione decisiva: il mondo
indoeuropeo arcaico disponeva di concetti religiosi identici clic
veicolava grazie ad un linguaggio comune. La scoperta dell’eredità
indoeuropea Alla luce delle ricerche dì Vendryes, Dumézil ha
compreso quale orientamento imprimere ai propri lavori. Al termine di
vent’anni di studio egli doveva trovare la chiave che gli permise di
penetrare gli arcani del pensiero religioso indoeuropeo arcaico. La
pubblicazione de L'idéologie tripartie des Indo-Européens è il compimento di
una lunga marcia ed il punto di partenza per tutte le scoperte .successive.
L’esame del problema flamen-brahman c dei flamini maggiori a Roma
condusse Dumézil ad una conclusione decisiva: / più antichi Romani,
gli Umbri, avevano portato con toro in Italia la stessa concezione
conosciuta dagli Indo-Iranici e su cui notoriamente gli Indiani avevano fondato
il loro ordine sociale ' Era la scoperta e la messa a fuoco di
un’eredità indoeuropea, di una ideologia funzionale e gerarchizzata, alla
sommità della quale si trova la sovranità religiosa c giuridica, seguita
dalla forza fisica che s’incama nella guerra, mentre al terzo livello si
situa la fecondi- tà-fertil ità, sottomessa alla sovranità ed alla forza
ma indispensabile al loro mantenimento c sviluppo. Munito di questa
griglia di lettura lo studioso francese si c avventurato nello studio di
tutta la documentazione disponibile. Si tratta di uno studio comparativo il cui
oggetto c il dato indoeuropeo. Durante il III c II millennio
a.C. delle bande di conquistatori si spostarono verso l’Atlantico, il Mediterraneo
c l’Asia. Le loro parlate erano fatte di diversi dialetti provenienti da
una lingua comune, il che suppone un fondo intellettuale e morale
identico, ed un minimo di civiltà comune. Popoli senza scrittura, gli
Indoeuropei hanno lasciato pochi documenti. Solo gli Hittiti, stabilitisi
in Anatolia all’inizio del II millennio a.C., hanno adottato una
scrittura cuneiforme che consentì loro di conservare degli archivi. Ma
ciò che c notevole c la persistenza del vocabolario religioso legato
all’organizzazione sociale, alle pratiche cultuali ed ai comportamenti
religiosi. Parecchi fatti presuppongono l’esistenza di una religione che
rappresenta una dottrina coerente, una spiegazione del cosmo, una concezione
dell’origine, del presente c del futuro. DUMÉZIL, Mythe et epopèe I. L 'idéologie des troisfunctions dans les
épopees despeuple indo-européens, Gallimard, Paris (Trad. italiana,
Einaudi, Torino). Volendo spiegare quest’eredità e la sua struttura, Dumézil
ha elaborato il proprio metodo comparativo, che lui stesso chiama
genetico)}. La prima fase del lavoro consiste nel mettere in evidenza
delle corrispondenze precise e sistematiche, che permettano di
tracciare uno schema del rituale: miti, riti, significati logici ed
articolazioni essenziali. Questo schema viene proiettato nella preistoria, al
fine di comprendere la curva dell’evoluzione religiosa. Possedendo
delle corrispondenze precise, sistematiche e numerose, lo storico delle
civiltà e lo storico delle religioni procedono per induzione in direzione
delle origini. Utilizzando i dati dell’archeologia, della mitologia,
della filologia, della sociologia, della liturgia e della teologia
arcaica, lo storico giunge a comprendere le grandi linee del pensiero di questi
popoli e la loro evoluzione, sino alle soglie della storia. Grazie a
questo lavoro lungo ed arduo si è riusciti a stabilire un’archeologia del
comportamento e delle rappresentazioni. Dumézil non ha preteso di
resuscitare la religione degli Indoeuropei come venne vissuta nei tempi
preistorici. Si è accontentato piuttosto di delineare lo schema
concettuale delle società collegate tra loro nello sviluppo della storia,
e si è servito di questi schemi per giungere a spiegare i testi ed i fatti che
resistevano ad ogni spiegazione. Nelle civiltà indoeuropee il
nostro autore trova una struttura sociale articolata in tre funzioni. Sono
queste i tre varna dell’India: i brdhmana, sacerdoti incaricati del
sacrificio e custodi della scienza sacra; gli ksatriya, guerrieri
incaricati della protezione del popolo; i vaisya, produttori dei beni
materiali, del nutrimento. Secondo il Rg-Vecla (Vili, 35) queste tre
caste sono molto antiche. In Iran l 'Avesta menziona tre gruppi di
uomini: sacerdoti o àQaitrvan; guerrieri, i radaci.star montatori di carri; gli
agricoltori-allevatori, chiamati vàstryò.fsuycmt. Una struttura identica ha
lasciato tracce presso gli Sciti ed i loro discendenti, gli Osseti del
Caucaso, e presso i Celti ed i loro druidi, la loro aristocrazia militare
ed i loro boairig, gli allevatori DUMÉZIL, L ’heritage des indo-curopéens
à Rome, Gallimard, Paris di buoi. L’analisi delle origini di Roma
condotta da Dumézil si è riveata particolarmente illuminante.
Queste tre funzioni sono attività fondamentali e indispensabili per
la vita normale della comunità. La prima funzione, quella del sacro, regola i
rapporti degli uomini fra loro e sotto la garanzia degli dèi, determina
il potere del re e traccia i limiti della scienza, inseparabile dalla
manipolazione delle cose sacre. La seconda funzione, quella relativa alla forza
fisica, interviene nella conquista, nell’organizzazione della società e
nella sua difesa. La terza ricopre un vasto ambito, quello della sussistenza
degli uomini e della conservazione della società: fecondità animale ed
umana, nutrimento, ricchezza e salute. Dumézil ha dimostrato che la
società indoeuropea era governata in profondità grazie ad una mentalità
fondata su una struttura trifunzionale. La teologia si trova al
centro del mondo indoeuropeo. Una delle grandi prove di ciò è la lista
degli dèi ariani di Mitanni trovata su una tavoletta a Bogazkòy, l’antica
Hattusa, capitale dell’impero hittita. Scoperta nel 1907, questa
tavoletta contiene il testo di un trattato concluso nel 1380 a.C. tra il re
hittita Supilulliuma ed il redi Mitanni chia¬ mato Matiwaza. Come garanti
della loro alleanza ognuno dei re invoca i propri dèi: il re di Mitanni invoca
gli dèi considerati i protettori della società ariana: Mithra-Varuna,
India e i Nasatya. Sono gli dèi delle tre funzioni che ritroviamo in
India ed in Iran. In quest’ultimo paese è la riforma di Zarathustra e la
formulazione delle sei entità divine - gli Immortali Benefici - che illustra in
maniera illuminante questa teologia strutturata su tre piani ed
articolata in tre funzioni. Dai Mitanni, dall’India e dall’Iran
Dumézil è pervenuto all’Italia ove ha rilevato la triade Jun-Lart-Vofiono a
Iguvium (Gubbio) in Umbria ed a Roma la triade precapitolina
Juppiter-Mars-Quirinus. Questi dati indicano chiaramente che
l’ideologia è correlata ad una teologia delle tre funzioni. Nell’India
vedica ciò comporta un’associazione di tre coppie di dèi stabiliti su tre
livelli: gli dèi Mitra e Varuna, signori del primo livello, si dividono
la sovranità di questo mondo e dell’altro: Indra, scortato dai Marut, un
battaglione di giovani guerrieri, proclama l’esuberanza e la vittoria; i
NàsaLya o Asvin sono distributori di salute, fecondità, abbondanza in
uomini ed armenti; si tratta dunque di una teologia tripartita. Il
documento di Hattusadel 1380 a.C. ci mostra che questa teologia è anteriore
alla redazione dei Veda e che fa parte della tradizione ariana arcaica;
d’altra parte, la presenza dello schema trifunzionale nella teologia di
Zarathustra ed il suo riflesso sugli Arcangeli raggruppati intomo al dio
supremo Ahura Mazda conferma l’attaccamento ad una struttura di pensiero ariano
sia presso i sacerdoti che i popoli dell’Iran antico. La stessa eredità
teologica si rinviene anche in Italia, presso i Celti, i Germani e gli
Scandinavi. Conclusioni E stato necessario tutto il XIX
secolo per costituire il dossier indoeuropeo. Il merito di Georges Dumézil c
stato quello di aver consacrato un 'intera vita all’interpretazione di questa
documentazione. Egli ha iniziato il suo cammino sulla scia di Max Miillcr
c di James Frazer: una ricerca di equazioni nell’onomastica relativa al
dominio del culto e delle divinità. Le corrispondenze all’interno del
vocabolario del sacro, dei popoli indo-iranici da una parte c di quelli italo-ccltici
dall’altra, hanno fornito allo studioso l’idea di studiare più a fondo i
paralleli attorno alle divinità ed ai sacerdoti, poiché questi popoli
sono i soli tra gli indoeuropei ad aver conservato per molti secoli i
loro collegi sacerdotali. Questa nuova via fu illuminante, poiché
ha condotto alla scoperta di un’eredità indoeuropea ancora visibile agli inizi
della storia dei popoli italici, celtici, iranici cd indiani. L’assenza
di vestigia archeologiche concrete ha costretto Dumézil a mettere a punto un
metodo comparativo genetico fondato sull’archeologia delle rappresentazioni c
del comportamento: servendosi dei miti, dei riti, delle tracce
dell’organizzazione sociale, delle vestigia del sacro c del sacerdozio
egli ha potuto individuare i meccanismi - c gli equilibri costitutivi -
della società e della religione indoeuropea: una teologia trifunzionale
che divide il mondo divino in dèi della sovranità, dèi della forza e dei
della fecondità. A questa teologia corrisponde la tripartizione sociale:
classe sacerdotale, guerrieri, agricoltori-allevatori. Mezzo
secolo di ricerche hanno permesso di delineare questa visione nuova del
mondo ariano arcaico, di realizzare una sintesi delle vestigia della civiltà
e della religione indoeuropea e di far indietreggiare di più d’un millennio i
lempora ignota. Julien Ries Università di
Louvaìn-la-Neuve Nelle pagine che seguono non una sola volta si farà
menzione de\V habitat degli Indoeuropei, delle vie delle loro migrazioni,
della loro civiltà materiale. Su questi punti così dibattuti il metodo
qui impiegato non ha presa e d’altra parte la loro soluzione non
interessa molto i problemi qui posti. La civiltà indoeuropea che noi
considereremo è quella dello spirito. Al pari degli Indiani vedici,
come ci vengono presentati dai loro inni, gli Indoeuropei non furono
uomini senza riflessione e senza immaginazione, tutt’altro. Esattamente da
vent’anni ormai la comparazione delle più antiche tradizioni, dei diversi
popoli parlanti lingue indoeuropee, ha rivelato un fondo considerevole di
elementi comuni, elementi non isolati ma organizzati in strutture
complesse delle quali non ci è offerto un equivalente in altri popoli del
mondo antico. L'esposizione, che ci si appresta a leggere, è consacrata
alla più importante di queste strutture. L’obiettivo essenziale è
quello di guidare lo studente, tramite una serie di riassunti ordinati e
consequenziali, attraverso una mole di argomenti poco agevoli a causa
della loro eterogeneità e del loro frazionamento. Nello stesso
tempo si vorrebbe fornire ai lettori già informati una prima e
provvisoria sintesi, si vorrebbe dare non solo un ordine ma una messa a
fuoco alla correlazione generale che solo uno sguardo d’insieme può
imporre ai risultati parziali. Un problema che per anni è stato
capitale e in primo piano - penso al valore trifunzionale delle tre tribù
romane primitive - si trova qui limitato in un secondo livello; al
contrario, le numerose applicazioni ideologiche delle tre funzioni, le cui
segnalazioni si trovano disperse nelle pubblicazioni più svariate,
acquisteranno ora, io spero, potenza grazie ad un parallelismo che farà
risaltare il loro semplice riavvicinamento. Questo doppio disegno non
prevederànote a piè di pagina: si è preferito costruire una sorta di
commentario bibliografico distribuito secondo i paragrafi del libro,
indicando i testi affinché ognuno riepiloghi o perfezioni a proprio piacimento;
oppure segnando c datando su ogni punto importante i progressi o le
svolte della ricerca; o ancora, rinviando ad altri paragrafi per
segnalare correlazioni che non avrebbero potuto ingombrare l’esposizione
discorsiva iniziale. Non si è tenuto conto che dell’opera
principale dell’autore e di un certo numero di colleghi francesi e
stranieri che, pur senza voler formare una scuola, si dedicano da più o
meno tempo alle stesse materie con metodi simili e che si tengono costantemente
in contatto tra loro. Altre visioni sul pensiero degli
indoeuropei, incompatibili con questa, non saranno qui esaminate, non per
disprezzo ma perché le dimensioni del presente libro sono ristrette e l’intento
è costruttivo e non critico. Tuttavia, nelle note finali si
troveranno riferimenti a numerose discussioni. Il mio caro
collega Renard mi ha permesso di presentare nella collezione Latomus,
poco tempo dopo Les Déesses latines, questa nuova esposizione in cui il popolo
romano non interviene che prò virili parte. Egli ha così voluto
confermare, sensibilmente ai nostri studi, cd io lo ringrazio, la
necessaria alleanza tra studi classici e indoeuropei, tra metodi filologici e
comparativi, che ho sempre invocato con augurio. Uppsala. Parigi. Le
tre funzioni sociali e cosmiche Le classi sociali in India
Uno dei tratti più sorprendenti delle società indiane post-rgve-
diche è la loro divisione sistematica in quattro classi, dette in sanscrito i
quattro colori, varna, le prime tre delle quali benché diverse sono pure
perché propriamente arya, mentre la quarta, formala indubbiamente dai vinti
della conquista arya, è sottomessa alle altre tre ed è quindi
irrimediabilmente impura. Di quesl’ultima classe eterogenea non si
Lralterà qui ulteriormente. I doveri di ognuna delle tre classi
arya servono per definirle: i brdhmana, sacerdoti, studiano ed insegnano
la scienza sacra e celebrano i sacrifici; gli ksatriya (o rdjanya), i
guerrieri, proteggono il popolo con la loro forza e con le loro armi; ai vaisya
è affidato l’allevamento e l’aratura, il commercio e più in generale la
produzione dei beni materiali. Si costituisce così una
società completa e armonica presieduta da un personaggio a parte, il re,
rdjan, generalmente nato e qualitativamente estratto dal secondo livello.
Questi gruppi funzionali e gerarchizzati sono conchiusi tutti su
loro stessi in base all’ereditarietà, all’endogamia e a un codice rigoroso
d’interdizioni. Sotto questa forma classica non vi è dubbio che il sistema non
sia una creazione propriamente indiana posteriore alla maggior parte del
Riveda-, i nomi delle classi non sono menzionati chiaramente che
nell’inno del sacrificio deH’Uomo Primordiale, nel X libro della
raccolta, così differente da tutti gli altri. Ma una tale creazione non è nata
dal nulla, bensì da un irrigidimento di una dottrina e di una pratica sociale
preesistente. Nel 1940 uno studioso indiano, V.M. Apte, fece una
collezione dimostrativa dei lesti dei primi nove libri del Riveda
(principalmente Vili, 35, 16-18) che provano come sin dai tempi della
redazione di questi inni la società fosse pensata composta da sacerdoti,
guerrieri e allevatori e che se questi gruppi non erano ancora designati dai
nomi di brdhmunu, di ksatriya o di vaisya (sostantivi astratti, nomi di nozioni
di cui i nomi di questi uomini non sono che i derivati) erano già
composti in un sistema gerarchico che definiva distributivamente i principi
delle tre attività. Brc'ihmun (al neutro) scienza e utilizzazione delle
correlazioni mistiche tra le parti del reale visibile o invisibile, kyatrei
potenza, vis contadinanza o habitat organizzalo (la parola c apparentala al
latino vTcus e al greco (w)oùco<;), al plurale visuh insieme del
popolo nel suo raggruppamento sociale e locale. È impossibile
determinare in quale misura la pratica si conformasse a questa struttura
teorica: vi era forse una parte più o meno considerevole della società che
indifferenziata o altrimenti classificata sfuggiva a QUESTA
TRIPARTIZIONE? L’ereditarietà all’interno di ciascuna classe non era
forse corretta nei suoi effetti da un regime matrimoniale più flessibile
c con delle possibilità di promozione? Sfortunatamente ci è accessibile
solo la teoria. 2. Le classi sociali avestiche Da un
quarto di secolo, confermando le osservazioni di F. Spie- gel, di E.
Benvenisle e di me stesso, abbiamo sostenuto che almeno nella sua forma
ideologica la tripartizione sociale era una concezione già acquisita
prima della divisione degli Indo-Iranici in Indiani da una parte ed
Iranici dall’altra. In diversi passaggi VA vesta menziona i componenti
della società come gruppi di uomini o di classi (designate da una parola che si
riferisce al colore, pistra): i sacerdoti, àBuurvan o uBravun (cf. uno
dei sacerdoti vedici, Vdtharvan), i guerrieri, luBciè.star (guidatori di
carri», cf. il vedico rathe-sthà epiteto del dio guerriero Indra) e gli
agricoltori-allevatori, vàstryó.fsuyant. Un solo passaggio avestico
e più notoriamente i testi palliavi, pongono come quarto termine alla
base di questa gerarchia, gli artigiani, huiti, altri indizi (come il fatto che
raggruppamenti triplici di nozioni sono talvolta messi maldestramente in
rapporto con le quattro classi, cf. SBE, V,357) ci portano a considerarla una
aggiunta a un antico sistema ternario. Nel X secolo della
nostra èra il poeta persiano Ferdusi, fedele testimone della tradizione,
racconta come il favoloso re Jamsed (lo Yima Xsaéla dell’A vesta) istituì
gerarchicamente queste classi: separò inizialmente dal resto del popolo gli
*asravctn assegnando loro le montagne per celebrarvi il loro culto, per
consacrarsi al servizio divino e restare nella luminosa dimora ; gli *artesfar,
posti dall’altra parte, combattono come dei leoni, brillano alla testa
delle armate e delle province, grazie a loro il trono regale è protetto e
la gloria del valore è mantenuta ; quanto ai *vùstryós, la terza
classe, loro stessi arano,
piantano e raccolgono; di ciò che mangiano nessuno li rimprovera, non sono
servi benché vestiti di stracci e il loro orecchio è sordo alla
calunnia. A differenza dell’India le società iraniche non hanno
irrigidito questa concezione in un regime castale: esso sembra essere
rimasto un modello, un ideale e un comodo mezzo per analizzare ed
enunciare l’essenzialità dell’argomento sociale. Dal punto di vista della
ideologia in cui noi ci poniamo, questo è sufficiente. Un ramo aberrante
della famiglia iranica, molto importante poiché si è sviluppato non in Iran ma
a nord del Mar Nero, fuori dalla morsa degli imperi, iranici o altri, che si
sono succeduti nel Vicino Oriente, testimonianello stesso senso: sono gli Sciti
- i cui costumi insieme a molte leggende ci sono noli grazie ad Erodoto e
a qualche altro autore antico - la cui lingua e tradizione si è mantenuta
sino ai nostri giorni grazie a un piccolo popolo del Caucaso centrale,
originale e pieno di vitalità, gli Osseti. Secondo Erodoto
(IV, 5-6) ecco come gli Sciti raccontano l’origine della loro
nazione: Il primo uomo che comparve nel loro paese, prima di
allora deserto, si chiamava Targitaos, che si diceva figlio di Zeus e di
una figlia del fiume Boriysthene (il Dniepr attuale)... Lui stesso ebbe tre
figli, Lipoxais (variante Nitoxais), Arpoxais e in ultimo Kolaxais.
Quando erano in vita caddero dal cielo sulla terra Scizia degli oggetti
d’oro: un carro, un giogo, un’ascia e una coppa (apoxpóv xe mi t/uyòv mi
cràyapiv mi (piàÀT|v). A questa vista il più anziano si affrettò a prenderli ma
quando arrivò l ’oro si mise a bruciare. Così si ritirò e il secondo si fece
avanti ma senza migliore successo. Avendo i primi due rinunciato all 'oro
bruciante, sopraggiunse il terzo e l ’oro si spense. Lo prese con sé e i
suoi due fratelli, davanti a questo segno, abbandonarono la regalità
interamente all'ultimogenito. Da Lipoxais sono nati quegli Sciti che sono
chiamati la tribù (yévoq) degli Aukh- atai; da Arpoxais quelle dette
Katiaroi e Traspies (variante: Trapies, Trapioi) e in ultimo, dal re,
quelle dette Paralatai; ma tutte insieme si chiamano Skolotoi, dal nome
del loro re Mi sembra certo che bisogna, al pari di E. Benveniste,
rendere yévoq con tribù. Gli Sciti contano quattro tribù, una delle quali
è la tribù capo. Ma tutte hanno realmente o idealmente la stessa
struttura: è chiaro infatti che questi quattro oggetti si riferiscono
alle tre attività sociali degli Indiani e degli Iranici deH’Iran; il
carro e il giogo (E. Benveniste ha analizzato un composto avestico che
associa queste due parti della meccanica dell’aratura) evocano
l’agricoltura; l’ascia era con l’arco l’arma nazionale degli Sciti; altre
tradizioni scitiche conservate da Erodoto, come pure l’analogia coi dati
indo-iranici conosciuti, incoraggiano a vedere nella coppa lo strumento e
il simbolo delle offerte cultuali e delle bevande sacre. La forma
ben distinta che Quinto Curzio (VII, 8, 18-19) dà alla tradizione,
conferma questa esegesi funzionale; egli fa dire agli ambasciatori degli Sciti
che cercavano di convincere Alessandro Magno a non attaccarli:
Sappi che abbiamo ricevuto dei doni: un giogo per buoi, un carro,
una lancia, una freccia e una coppa (iugum bovum, aratrum, hasta, sagitta
et patera). Ce ne serviamo con i nostri amici e contro i nostri nemici.
Ai nostri amici doniamo i frutti della terra che ci procura il lavoro dei buoi;
con essi offriamo agli dèi libagioni di vino; quanto ai nostri nemici, li
attacchiamo da lontano con la freccia e da vicino con la lancia.
4. La famiglia degli eroi Narti È interessante vedere
sopravvivere questa struttura ideologica della società nell’epopea
popolare dei moderni Osseti, che ci è nota i n frammenti ma in numerose
varianti da circa un secolo e che una grande impresa folklorica russo-osseta,
da circa quindici anni, ha sistematicamente raccolto. Gli Osseti sanno che i
loro eroi dei tempi antichi, i Narti, erano divisi essenzialmente in tre
famiglie. / Boriatee - dice una tradizione pubblicata da S. Tuganov
nel 1925 - erano ricchi in armenti; gli Alcegatce erano forti per
intelligenza; gli /Exscertcegkatce si distinguevano per eroismo e vigore ed
erano forti per i loro uomini. I dettagli del racconto che giustappongono
od oppongono a due a due queste famiglie, soprattutto nella grande
collezione degli anni ’40, confermano pienamente queste
definizioni. II carattere intellettuale degli Alaegatae riveste una
forma arcaica, non appaiono che in circostanze uniche ma frequenti: c nella
loro casa che hanno luogo le solenni bevute dei Narti in cui si producono le
meraviglie di una Coppa magica detta la Rivelatrice dei Narti.
Quanto agli vExsscrtaegkata;, grandi smargiassi ad effetto, è
rimarchevole che il loro nome sia un derivato del sostantivo cexsur(t)
bravura, che è, con le alterazioni fonetiche previste nelle parlate scitiche,
la stessa parola del sanscrito ksatrà, nome tecnico, come abbiamo visto, del
fondamento della classe guerriera. I Boriala; e il principale tra
essi, Burafscrnyg, sono costante- mente e caricaturalmente i ricchi, con
tutti i rischi e i difetti della ricchezza e in più, in opposizione ai poco
numerosi vExsaertaegkatae, sono una moltitudine di
uomini. Riconosciuta così come retaggio comune indo-iranico, questa
dottrina tripartita della vita sociale è stata il punto di partenza di
un'inchiesta che prosegue da più di vent’anni e che ha portato a due risultati
complementari che possono riassumersi in questi termini: 1) al di fuori
degli Indo-Iranici i popoli indoeuropei conosciuti in età antica o
praticavano realmente una divisione di questo tipo oppure, nelle leggende in
cui spiegano le proprie origini, ripartivano i loro cosiddetti componenti
iniziali fra le tre categorie di questa stessa divisione: 2) nel mondo
antico, dal paese dei Seres alle Colonne d’Èrcole, dalla Libia e dall’Arabia
agli Iper borei, nessun popolo non indoeuropeo ha esplicitato
praticamente o idealmente una tale struttura o se l’ha fatto è stalo dopo
un contatto preciso, localizzabile c databile, che ha avuto con un popolo
indoeuropeo. Ecco qualche esempio a sostegno di questa proposizione. Il
caso più completo è quello dei più occidentali tra gli Indoeuropei, i Celti e
gli Italici, il che non è sorprendente una volta che si c prestata
attenzione (J. Vendryes) alle numerose corrispondenze che esistono nel
vocabolario della religione, dell’amministrazione e del diritto, tra le
lingue indo-iraniche da una parte e quelle ilalo-celli- che dall’altra.
Se si ordinano i documenti che descrivono lo stato sociale della
Gallia pagana decadente conquistala da Cesare, insieme ai testi che ci
informano sull’Irlanda pocoprima della sua conversione al cristianesimo, ci
appare sotto il *rig (l’esalto equivalente fonetico del sanscrito rcij- o
del latino réf*-), un tipo di società così costituita: 1) Al di
sopra di tulli c forte oltre ogni limile, quasi super-nazionale come la classe
dei brahmani, vi c la classe dei clruicli (*dru-uid), cioè dei sapienti,
sacerdoti, giuristi, depositari della tradizione. 2) Segue poi
l’aristocrazia militare, unica proprietaria del suolo, \a flciith irlandese
(cf. il gallico vlata- c il tedesco Gewcdt), propriamente la potenza, esatto
equivalente semantico del sanscrito ksatrà, essenza della funzione
guerriera. 3) Infine, gli allevatori, i bóairig irlandesi, uomini
liberi ( ciirif.;) che si definiscono solamente come possessori di vacche
( bó). Non è sicuro ne probabile, come c stalo proposto, (A. Mcillet c R.
Thurney- scn hanno preferito un’etimologia puramente irlandese) che
questa ultima parola, aire (genitivo ctirech, plurale airig) che designa lutti
i membri dell’insieme degli uomini liberi (che sono protetti dalla
legge, concorrono all’elezione del re, partecipano alle assemblee -
airecht - e ai grandi banchetti stagionali) sia un derivato in -k di una
parola imparentata con l’indo-iranico * city a (sanscrito city a, àrya\
antico-persiano ariya, avestico airya; osseto Iceg uomo, da *arya-ka-).
Ma poco importa: il quadro tripartito celtico ricopre esattamente lo schema
reale o ideale delle società indo-iraniche. La Roma storica, benché
risalga ad epoca remota, non ha divisioni funzionali: l’opposizione tra patrizi
e plebei è di un altro tipo. Senza dubbio è l’effetto di un’evoluzione
precoce e la divisione in tre tribù - anteriore agl’etruschi benché rivestila
di nomi d’origine apparentemente etnisca come Ramnes, Luceres, Titienses - e
ancora in qualche modo del tipo che studiamo: è ciò che ci suggerisce
chiaramente la leggenda delle origini. Secondo la variante più diffusa,
Roma si e costituita da tre elementi etnici: i compagni latini di Romolo
e Remo, gli alleati etruschi condotti a Romolo da Lucumone e i nemici
sabini di Romolo comandati da Tito Tazio. I primi avrebbero dato nascita
a la TRIBU I -- Ramnes, i secondi alla TRIBU II – i Luceres c i terzi alla
TRIBU III – i Titienses. Ora, la tradizione annalistica colora
costantemente ognuno di questi componenti etnici di tratti funzionali. LA
TRIBU III: I Sabini di Tazio sono essenzialmente ricchi di armenti. LA TRIBU
II. Lucumone c la sua banda sono i primi specialisti dell’arte militare
arruolati come tali da Romolo. LA TRIBU I: Romolo è il semi-dio, il
rex-augur beneficiario della promessa iniziale di Jupiter, il creatore <le\Y
urbs e il fondatore istituzionale della respublica. Talvolta la componente
etnisca è eliminala, ma l’analisi tri-funzionale non viene meno poiché Romolo c
i suoi Latini accumulano su loro stessi la doppia specificazione di capi sacri
e di guerrieri esemplari ed hanno in loro stessi, come dice Tito Livio
(1,9; 2-4), “deos et virtutem” e non gli mancano temporaneamente che opes
(e le donne) che saranno loro fornite dai Sabini (cf. Floro, 1,1) i
Sabini riconciliati che si trasferiscono a Roma c cum generis suis a
vitas opes prò dote socicint. Eliminando così gli’etruschi, il dio
Marte in persona, nei “Fasti” di Ovidio mette a nudo il movente ideologico
dell’impresa che ha portalo all’unione dei Romani con i Sabini: La ricca vicinanza – “viciniadives” -- non
voleva questi generi senza ricchezza – “inopes” -- e non aveva riguardo del
fatto che io ero (un dio) la fonte del loro sangue – “sanguinis auctor”. Io
ho risentito di questa pena e ho messo nel tuo cuore, Romolo, una
disposizione conforme alla natura di tuo padre -- “patriam mentem”, cioè
marziale -- Io ti dico, tregua di sollecitazione, ciò che domandi, saranno le
armi a donartelo – “arma dabunt”. Dionigi di Alicarnasso che segue la
tradizione delle tre razze, ripartisce tra quelli gli stessi tre
vantaggi: le città vicine, sabine o altre, sollecitate da Romolo per
mezzo di matrimoni, rifiutano di unirsi a questi nuovi venuti Che non sono da considerarsi neper ricchezza
(xpTipaoi) né per altre imprese (taupnpòv Èpyov). A Romolo, relegato così alla
sua qualità di figlio di dio e di depositario dei primi auspici, non resta che
affidarsi (II, 37) ai militari di professione come l’etrusco Lucumone di
Solone, Uomo di azione e illustre in materia di guerra (xà rcoX.é|iia
8ux<pavnq). Ma è Properzio, nella prima elegia romana che da a questa
dottrina delle origini, e nella forma delle tre razze, l’espressione più complete.
Nel momento in cui nomina, con Romolo, le tre tribù primitive mettendo in
risalto le loro etimologie tramite le correlazioni tradizionali coi nomi dei
loro eponimi, comincia ad esprimere i caratteri funzionali distintivi,
1’essenza, potremmo dire, della materia prima di ogni tribù. TRIBU I: i
compagni di Remo e di suo fratello (il nome di Romolo è riservato per
coprire la sintesi finale); TRIBU II: Lygmon (Lucu- mo); TRIBU III. Tito
Tazio. Il testo di Properzio merita di essere esaminato più da
vicino. L’intenzione di Properzio all’inizio di questa elegia è di opporre
(c un luogo comune dell’epoca) l’umiltà delle origini all’opulenza
della Roma d’Ottaviano. Dopo qualche verso che introduce il tema
applicandolo al luogo, ecco gl’abitanti, presentati in tre parti ineguali,
seguite da una conclusione: -- sul pendio dove si elevava un tempo
la povera casa di REMO. I due fratelli avevano un solo focolare, immenso
reame. La Curia, il cui splendore copre oggi un'assemblea di toghe
preteste, non conteneva che senatori vestiti di pelle e dalle anime
rustiche. Era la tromba che convoca, per i colloqui, gli antichi
cittadini; cento uomini in un prato, tale era spesso il loro
senato. Nessuna tela ondulante sulle profondità di un teatro, nessuna
scena che esalasse l'odore solenne dello zafferano. Nessuno si cura di andare a
cercare dèi stranieri. La folla trema, attaccata al culto
ancestrale. E, ogni anno, le feste di Pale non sono celebrate che
con fuochi di fieno i quali valevano bene te lustrazioni che si fanno
oggi giorno grazie a un cavallo mutilato. Vesta era povera e
trovava il suo piacere in asinelli coronati di Fiori. Delle vacche
scarnite portavano in processione degli oggetti senza
valore. Dei maiali ingrassati bastavano per purificare gli stretti
crocicchi e il pastore, al suono della cennamella, offre in sacrificio le
interiora di una pecora. Vestito di pelli, l'agricoltore brandiva delle
correggie villose: è allora che tengono i loro riti i Fabii, Luperci
scatenati. Ancora primitivo, il soldato non sfavillava sotto delle armi
terribili. Ci si batteva nudi con dei pali induriti dal fuoco. Il primo
campo e stabilito (pretorio: quartiere del campo intorno alla tenda del
generale) da un comandante con un berretto di pelle, LYGMON. E la
ricchezza di TATIUS era essenzialmente nelle sue pecore: è da là che si
formarono i T1TIES, i RAMNES e i LU CERES, originari di Solonio; è da là che
Romolo Lancia la sua quadriga di cavalli Bianchi. Il percorso di questo
sviluppo è ben chiaro. Cme una favola verso la sua breve morale, tende
verso l’ultimo distico che prima di menzionare il radunatore Romolo,
nell’apparato dei suoi trionfi, enumera sotto i loro nomi le tre tribù
riunite. Al verso 31, hinc indica che queste tre tribù provengono da uomini che
sono stati precedentemente descritti e in effetti, in accordo con la tradizione
erudita, Properzio mette i Tities (v. 31) in correlazione con il Tatius del
verso 30 e i Luceres (v. 31) con Lygmon-Lucumo (v. 29). Quanto ai Ramnes,
conformemente all’uso dovrebbero essere annunciati simmetricamente alla
menzione di Romolo, ma a Romolo è qui riservato il posto di comando di questa
società composita ed è RIMPIAZZATO DA REMUS al verso 9, o insieme a lui in
frotres al verso 10. In altre parole, prima di mostrarli trasformati
(hinc) sotto Romolo, nei tre terzi della città unificata, Properzio comincia
col presentare successivamente, sotto i loro eponimi e nella loro esistenza
ancora separata, le tre componenti della futura Roma, nell’ordine. TRIBU
I: Le genti di Remo e di suo fratello. TRIBU II. L’etrusco Lucumone e –
TRIBU III: il sabinoTazio. Si spiega così come le feste dei versi 15-26,
appartenenti ai futuri Ramnes, siano quelle che la tradizione considera
anteriori al sinecismo e praticate già, nel loro isolamento, dai due
fratelli. Ma non è tutto. Non è meno lampante che le tre successive
presentazioni delle future tribù siano caratterizzate secondo tre funzioni. Dal
verso 9 (Remo) al verso 26, Properzio non evoca che il carattere primitivo di
un’AMMINISTRAZIONE POLITICA (semplicità dei re, di ciò che rappresentava allora
il senato e l’assemblea popolare) e di un CULTO (v. 15-26; mancanza di
solennità e di dèi stranieri; nell 'ordine del calendario mstico - da aprile a
febbraio - dei Parilia, Vestalia, Compitalia e Lupercalia, senza alcuno
sfarzo). TRIBU II: Dal verso 27 al verso 29 ( Lygmon) il poeta evoca le
forme primitive della GUERRA che rimangono elementari (un berretto di
pelle) anche col primo tecnico militare. TRIBU III: Nel solo verso
30 ( Tatius ) Properzio evoca la forma puramente pastorale della RICCHEZZA
primitiva. La nettezza delle articolazioni del testo e, in
conseguenza, delle intenzioni classificatorie di Properzio, il confronto
nel distico 29-30 di Lucumo come generale e di Tazio come ricco
proprietario di armenti, mettono in risalto il fatto che, benché
concepite come componenti etniche, le tre tribù nel pensiero degli eruditi di
epoca d’Ottaviano sono caratterizzate funzionalmente. TRIBU I: I
Ramnes, raggruppati intorno ai fratelli, dediti soprattutto al governo e
al culto. TRIBU II: Lucumoneei Luceres come guerrieri. TRIBU III: Tito Tazio
e i Tities (più spesso Titienses) come ricchi allevatori. Le
divisioni degli Ioni Fra i Greci, almeno gli Ioni e i più antichi
ateniesi erano stati inizialmente divisi in quattro tribù definite dal ruolo
nell’organizzazione sociale. I nomi tradizionali delle tribù non sono
molto chiari, al pari della ripartizione dei nomi nelle quattro funzioni
o, come dice Plutarco, nei quattro |3ioi (tipi di) vite, ma questi tipi sono
molto probabilmente sacerdoti o funzionari religiosi, guerrieri o guardiani,
agricoltori, artigiani (Strabone Vili, 7, 1; cf. Platone, Timeo, 24 A).
Plutarco 0 Solone 23), per una falsa etimologia del nome ordinario
ricollegato ai sacerdoti, omette i sacerdoti e sdoppia agricoltori e
pastori. È probabile che le tre classi della Repubblica ideale di
Platone - filosofi che governano, guerrieri che difendono e il terzo
stato che produce ricchezza - con ogni loro armonizzazione morale o
filosofica, così prossima talvolta alle speculazioni indiane, siano state
ispirate in parte dalle tradizioni ioniche, in parte da ciò che si sapeva
allora in GreciadelledottrinedeH’Iraneinpartedaquegli insegnamenti dei
pitagorici che risalgono senza dubbio al remoto passato ellenico o
preellenico. 10. La tripartizione sociale nel mondo antico
A questi schemi concordanti si è cercata invano una replica indipendente
nella pratica o nelle tradizioni delle società ugrofinniche o siberiane,
presso i Cinesi o gli Ebrei biblici, in Fenicia o nella Mesopo- tamia
sumerica o accadica, o nelle vaste zone continentali adiacenti agli
Indoeuropei o penetrate da essi. Ciò che salta agli occhi sono delle
organizzazioni indifferenziate di nomadi in cui ognuno è sia combattente che
pastore; delle organizzazioni teocratiche di sedentari in cui un
re-sacerdote o un imperatore divino è contrapposto ad una massa
spezzettata aH’infinito ma omogenea nella sua umiltà; oppure ancora delle
società in cui lo stregone non è che uno specialista fra tanti altri
senza preminenza, malgrado il timore che la sua competenza suscita.
Niente di tutto questo ricorda né da vicino né da lontano la struttura
delle tre classi funzionali gerarchizzate e non vi sono delle eccezioni.
Quando un popolo non indoeuropeo del mondo antico, ad esempio del
Vicino Oriente, sembra conformarsi a questa struttura è perché l’ha
acquisita sotto l’influenza di uno nuovo arrivato vicino a lui, da una di
quelle pericolose bande di Indoeuropei - Luviti, Hittiti, Arya - che nel
secondo millennio si sono arditamente sparse lungo diversi percorsi.
E il caso ad esempio dell’Egitto castale in cui i Greci del V
secolo credevano di aver trovato il prototipo, l’origine delle più vecchie
classi funzionali ateniesi che sono state menzionate poco fa. In realtà questa
struttura si è formata sul Nilo grazie al contatto con gli Indoeuropei,
che apparendo in Asia Minore e in Siria nella metà del secondo millennio
prima della nostra èra, rivelarono agli Egiziani il cavallo e tutti i
suoi usi. Solamente dopo questa data il vecchio impero dei Faraoni
si riorganizza per poter sopravvivere, formandosi ciò che non aveva
mai avuto: un’armata permanente e una classe militare. Il più antico
testo multifunzionale del tipo di quello che sarà conosciuto da
Erodoto (Timeo) o da Diodoro, è l’iscrizione in cui Thaneni si vanta di
aver fatto un vasto censimento per conto dei suo Faraone Thutmosis IV
(J.H. Breasted, Ancient Records ofEgypt, II, thè XVIlIth Dynasty):
M uste ring ofthe whole land before his Majesty making an in-
spection ofevery body, knowing thè soldiers, priests, royal serfs and all
thè craftsmen ofthe whole land, all thè cattle, fo wl and small cattle,
by thè military scribe, beloved of his lord Thaneni Ora, Thutmosis IV
(1415-1405) è giusto il primo Faraone che abbia mai sposato una
principessa arya dei Mitanni, la figlia di un re dal nome caratteristico
di Artatama. Sembra che la differenziazione di una classe di guerrieri
col suo statuto morale particolare, unito ad una sorta di alleanza
flessibile a una classe ugualmente differenziata di sacerdoti, sia stata
la novità degli Indoeuropei e il cavallo e il carro la ragione e il mezzo
della loro espansione. Le iscrizioni geroglifiche e cuneiformi ci hanno
trasmesso il ricordo del terrore che causarono alle vecchie civiltà
questi specialisti della guerra, così arditi e impietosi come quei
conquistadores che tremila anni più tardi nel Nuovo Mondo comparvero ai capi e
ai popoli degli imperi che schiacciarono. Essi li designavano con
un nome - marianni - che in effetti gli Indoeuropei usavano: i mdriya,
incuiStig Wikander seppe riconosce- 26 re nel
1938 i membri dei Mcitinerblinde dello stesso tipo studiato da Otto
Hofler presso i Germani. La comparazione dei più antichi documenti
indoiranici, celtici, italici e greci, se da una parte permette di
affermare che gli Indoeuropei avevano una concezione della struttura sociale
fondata sulla distinzione e sulla gerarchizzazione delle tre funzioni,
dall’altra parte non può insegnare grandi cose sulla forma concreta - o
sulle diverse forme - in cui si sarebbero realizzate queste concezioni.
Bisogna ora generalizzare ciò che è stato detto più sopra a proposito
degli Arya vedici. È possibile che la società sia stata interamente
ed esausti vamen- te ripartita tra sacerdoti, guerrieri e pastori. Si può
anche pensare che la distinzione avesse solamente portato a mettere in
risalto qualche clan o qualche famiglia specializzata, depositaria
nell’un caso dei segreti efficaci del culto, nel secondo delle iniziazioni e
delle tecniche guerriere e nell’ultimo, infine, dei rimedi e delle magie
deH’allevamento, mentre il grosso della società, indifferenziata o meno
differenziata, si affidava alla direzione degli uni o degli altri,
secondo le necessità o le occasioni. Si è infine liberi di
immaginare moltissime forme intermedie, ma queste non saranno che punti di
vista dello spirito. Certi raffronti di cifre sembrano tuttavia
rivelare la sopravvivenza di formule molto precise: così, nel Rgveda i 33 dèi
riassumono una società divina concepita ad immagine della società aryae
sono talvolta scomposti in 3 gruppi di 10, completati da 3
supplementari; oppure, a Roma, le 33 comparse dei comitia curiata dei
quali 30 (cioè 3 per 10) riassumono le 3 tribù primitive funzionali dei
Ramnes, Luce- res e Titienses, completate da 3 àuguri. 12. Le
tre funzioni fondamentali Così, non è il dettaglio autentico e
storico dell’organizzazione sociale tripartita degli Indoeuropei che
interessa di più il comparatista, ma il principio di classificazione, il
tipo di ideologia che essa ha suscitato, realizzato o formulato, e di cui non
sembra essere più rimasta che un’espressione tra tante
altre. Diverse volte nell’esposizione che si è letta è stata
incontrata una parola importante: quella di funzione, di tre funzioni, e
bisogna così intendere certamente le tre attività fondamentali assicurate
da gruppi di uomini - sacerdoti, guerrieri, produttori - per il
sostentamento e la prosperità della collettività. Ma il dominio
delle funzioni non si limita a questa prospettiva sociale. Alla riflessione
filosofica degli Indoeuropei esse avevano già fornito - come sostantivi
astratti, bnihman, ksutrù, vis, principi delle tre classi nella
riflessione filosofica degli Indiani vedici e posl-vedici - ciò che può
essere considerato, secondo il punto di vista, come un mezzo per
esplorare la realtà materiale e morale o come un mezzo per mettere ordine
nel patrimonio delle nozioni ammesse dalla società.
L’inventario di queste applicazioni non propriamente sociali della
struttura trifunzionale, è stato intrapreso e continuato, dal 1938, da E.
Benveniste e da me stesso. Ora, è facile porre sulla prima e sulla
seconda funzione un’etichetta che copra tutte le sfumature: da una parte
il sacro e i rapporti dell 'uomo col sacro (culto, magia) c degli uomini tra di
loro, sotto lo sguardo c la garanzia degli dèi (diritto, amministrazione), e
così pure il potere sovrano esercitato dal re o dai suoi delegati in
conformità con la volontà o il favore divino e infine, più generalmente, la
scienza c l’intelligenza, allora inseparabili dalla meditazione e dalla
manipolazione delle cose sacre; dall’altra parte la forza fisica brutale
e l’impiego della forza, uso principalmente ma non unicamente guerriero.
È meno facile delincare in poche parole l’essenza della terza funzione,
che ricopre delle province numerose fra le quali intercorrono dei legami
evidenti ma la cui unità non comporta un centro ben definito: fecondità umana,
animale e vegetale, ma, nello stesso tempo, nutrimento e ricchezza,
santità e pace (con le gioie c i vantaggi della pace) e anche voluttà,
bellezza c l’importante idea del gran numero, applicata non solo ai beni
(abbondanza) ma anche agli uomini che compongono il corpo sociale
(massa). Non sono queste delle definizioni a priori ma insegnamenti convergenti
di molte applicazioni dell’ideologia tripartita. Gli indologi
hanno familiarità con questo uso straripante della classificazione
tripartita sin dai tempi vedici: per un impulso che ricorda, nel suo vigore e
nei suoi effetti, la tendenza classificatoria del pensiero cinese - che
ha distribuito tra lo yang e lo yin sia coppie di nozioni solidali che
antitetiche -1’India ha messo le tre classi della società, coi loro principi,
in rapporto con numerose triadi di nozioni preesistenti o create per la
circostanza. Queste armonie, queste correlazioni importanti per l’azione
simpatetica a cui tende il culto, hanno talvolta un senso molto profondo,
talvolta artificiale e altre volte puerile. Così, ad esempio, le
tre funzioni sono distributivamente connesse ai tre guna (propriamente, figli)
o qualità - Bontà, Passione, Oscurità - delle quali la filosofia
sùrìikhyu dice che gli intrecci variabili formano la trama di tutto ciò
che esiste; o ancora, nei tre stadi superiori dell’universo, le si vede
non meno imperiosamente collegate ai diversi metri e melodie dei Veda o ai
diversi tipi di bestiame o a comandare minuziosamente la scelta dei
diversi tipi di legno con cui saranno fatte le scodelle o i
bastoni. Senza arrivare a questi eccessi di sistematizzazione, la
maggior parte degli altri popoli della famiglia presentano aspetti di
questo genere che, ritrovandosi molto simili su diverse altre parti del
globo, hanno la fortuna di risalire ad antenati comuni, agli Indoeuropei.
Non si potrà presentare in questa sede che qualche inventario.
13. Triadi di calamità f.triadi di delitti Da circa vent’anni
E. Benveniste ha individualo presso gli Iranici c gli Indiani delle formule
molto simili in cui un dio è pregalo di allontanare, da una collettività
o da un individuo, tre flagelli, ognuno dei quali si riconnettc a una
delle tre funzioni. Per esempio, in una iscrizione di Pcrscpoli
(Persep. d 3) Dario domanda ad Ahuramazdà di proteggere il suo impero
r/a// ’esercito nemico, dal cattivo anno e dall'inganno (quest’ultima
parola, drau- ga, nel vocabolario del Gran Re designava sopralutto la
ribellione politica, il misconoscimento dei suoi diritti sovrani; ma si
riferiva anche al peccalo maggiore delle religioni iraniche, la
menzogna). Parallelamente, al momento delle cerimonie vcdichc del plenilunio c
del novilunio, una preghiera è dedicala ad Agni, con delle formule che,
diversamente allungate dagli autori dei vari libri liturgici (per esempio
Tditt.Sariìh., I, 1, 13, 3; Sut.Bràhm., I, 9, 2, 20) hanno questo nucleo
comune: Conservami dalla soggezione, conservami dal cattivo
sacrificio, conservami dal cattivo nutrimento. L’enunciato indiano
è parallelo a quello iranico, con la riserva che, al primo livello, il re
achemenide parla di inganno e il ritualista vedico di sacrificio
malfatto: questo scarto nei timori corrisponde ad evoluzioni divergenti -
da una parte più moraliste e dall’altra più for- maliste - delle
religioni delle due società. Mi è stato possibile dimostrare in
seguito che i più occidentali tra gli Indoeuropei, i Celti, i cui usi
sono talvolta così sorprendentemente simili a quelli vedici, utilizzavano la
stessa classificazione tripartita delle maggiori calamità. La principale
compilazione giuridica dell’Irlanda, il Senchus Mór, comincia con questa
dichiarazione ( Ancient Laws oflreland, IV 1873, p. 12): Vi sono tre
tempi in cui si produce il deperimento del mondo: il periodo della morte
degli uomini (morte per epidemia o per carestia, precisa la glossa), la
produzione accresciuta di guerra e la dissoluzione dei contratti verbali.
I malanni sono così ripartiti fra le tre zone della salute o del
nutrimento, della forza violenta e del diritto. I Galli non hanno inserito nei
loro libri giuridici delle tali formulazioni astratte, ma un testo che parrebbe
essere la trasposizione romanzesca di un vecchio mito, il Cyvranc Lludd a
Llevelis è consacrato all’esposizione delle tre oppressioni dell’isola di
Bretagna e al modo in cui il re Lludd vi mise fine. Queste calamità
sono: 1) una razza di uomini saggi il cui sapere è tale che essi intendono per
tutta l’isola ogni conversazione, fosse anche a bassa voce, e
interferiscono così nel governo e nei rapporti umani; 2) ogni primo maggio ha
luogo un terribile duello tra due draghi, il drago dell’isola e il drago
straniero che viene a battersi col primo, cercando di vincerlo, e le urla
del drago dell’isola sono tali da paralizzare e sterilizzare ogni essere
vivente; 3) ogni volta che il re accumula in uno dei suoi palazzi una provvista
di cibarie e di vivande, fosse anche per un anno, u n mago ladro giunge
la notte seguente e porta via tutto il suo paniere. Si osserva ancora una
volta come le tre oppressioni si sviluppino qui negli ambiti della vita
intellettuale, dell’amministrazione della forza e infine del nutrimento; in
più, considerate in base ai loro agenti e non in base alle vittime, esse
definiscono tre delitti: abuso di un sapere magico, aggressione violenta e
furto di beni. Sembra che il più antico diritto romano ugualmente considerasse
i delitti privati come incantesimi maligni ( malum Carmen, occentu- tio),
violenza fisica ( membrum ruptum e osfractum, iniuriu) e in furto
{furtum)\ Platone utilizzava, in un contesto inerente alla tripartizione
C Repubblica, 413b-414a) e in un modo evidentemente artificiale,
prendendolo in prestito senza dubbio da qualche poeta tragico, una distinzione
sistematica ed esauriente dei delitti molto simile, in furto, violenza
fisica e incantesimo (kXotcti, pila, yor|TEÌa). Benveniste ha raffrontato
la classificazione avestica dei medicamenti ( Vidèvdàt, VII, 44: medicine del
coltello, delle piante e delle formule d’incantesimo) con l’analisi che fa un
inno del Riveda sui poteri medici degli dei Nàsatya-Asvin (X, 39, 3)
.guaritori di chi è cieco (male misterioso, magico), di chi è smagrito
(male alimentare) e di chi ha una frattura (violenza). È lo
stesso procedimento che nella III Pythica di Pindaro il centauro Chirone
insegna ad Asclepio per guarire le
dolorose malattie degli uomini (versi 40-55: incantesimi, pozioni o
droghe, incisioni) ed è stato sospettato che dietro questi fatti
paralleli si celi l’esistenza di una dottrina medica tripartita ereditata
dagli Indoeuropei. Se i vecchi testi germanici non applicano questo schema
classificatorio ai malanni, ai delitti o ai rimedi, è vero che l’utilizzano in
altre circostanze: il Canto di Skirnir nell 'Edda è un piccolo dramma in
cui il servitore del dio Freyr costringe, malgrado la sua volontà, la
gigantessa Gerdr a cedere ai desideri amorosi del suo maestro.
Inizialmente tenta invano di comprare ( kaupu ) il suo amore con
dei regali d’oro (strofe 19-22); poi, non meno inutilmente, minaccia di
decapitarla (str.) con la sua spada {ma.’.ki)\ infine al suo terzo tentativo
non gli rimane che minacciarla con gli strumenti della sua magia, bacchette (
gambantein ) c rune (str. Elogi tripartiti Quando un poeta indiano vuole
fare brevemente l’elogio totale di un re, passa in rassegna le tre
funzioni in tre parole: così, all’inizio del Raghuvamsa (I, 24) il re
Dilàpa merita di essere chiamato padre dei suoi sudditi perché assicura loro buona condotta, li
protegge e li nutre. Con delle formule generalmente meno concise,
l’epopea irlandese procede allo stesso modo. In un bel lesto, il Paese dei
Viventi, cioè l’altro mondo, la dimora dei morti divenuti immortali, è
caratterizzalo dall’assenza di morte in base ai tre aspetti seguenti: .non vi
è né peccato né errore...] vi si mangiano pasti eterni senza servizio;
l'intesa regna senza lotte . L’originalità del paese meraviglioso
consiste nel fatto che tutto è buono e facile, ma questa idea si analizza
e si esprime nel pensiero dell’autore soprattutto secondo le tre funzioni
(virtù, guerra, abbondanza alimentare); la seconda funzione, di tipo violento,
considerata come un male c rifiutata, mentre le altre due sono sviluppale
al massimo grado (J. POKÒRNY, Conio’s abcnteucrliche Fahrt ZCP XVII,
1928,195). In un a simile analisi, per fare 1 ’ elogio del re
Conchobar, u n lesto del ciclo degli Ulati dice che sotto il suo regno vi
erano pace e tranquillità, saluti cordiali, ghiande, grasso e prodotti del
mare, controllo, diritto e buona regalità (K. MEYER, Milleil. aus
irischen Handschriflen ZCP): cioè il contrario della guerra, della
carestia c dell’anarchia, il contrario dei tre flagelli contro i quali il
re Dario a Persepoli domanda al gran dio di conservare il suo impero. Si
può obiettare talvolta che queste formule non siano troppo naturali, così
troppo ben modellale sull’uniforme e inevitabile disposizione delle cose perché
il loro accumulo e la loro somiglianza provino un’origine comune c resistenza
di una dottrina caratteristica degli Indoeuropei. Una riflessione
anche elementare sulla condizione umana e sulle risorse della vita collettiva
non dovrebbe forse mettere in evidenza, in ogni tempo c in ogni luogo,
tre necessità, cioè una religione che garantisse un’amministrazione, un diritto
c una morale stabile, una forza protettrice c conquistatrice, infine dei
mezzi di produzione, di alimentazione e di gioia? E quando l’uomo riflette sui
pericoli che incontrac sulle vie che si aprono alla sua azione, non è
ancora a una qualche varietà di questo schema che si riporta? Basta uscire dal
mondo indoeuropeo, in cui queste formule sono così numerose, per constatare
che, malgrado il carattere necessario e universale dei tre bisogni ai
quali si riferiscono, esse non hanno la generalità o la spontaneità chesi
suppone: al pari della di visione sociale corrispondente, non le si ritrova in
alcun testo egizio, sumerico, accadico, fenicio e biblico, né nella letteratura
dei popoli siberiani, nè presso i pensatori confuciani o taoisti così
inventivi ed esperti di classificazioni. La ragione è semplice ed
elimina l’obiezione: per una civiltà, sentire vivamente e soddisfare dei
bisogni impellenti è una cosa; portarli alla chiarezza della coscienza e
riflettere su di essi, farne una struttura intellettuale e uno schema di
pensiero è tutta un’altra. Nel mondo antico solo gli Indoeuropei hanno
fatto questo cammino filosofico e così si percepisce nelle speculazioni e nelle
produzioni letterarie di tanti popoli di questa famiglia, che la spiegazione
più economica, come per la divisione sociale propriamente detta, è
ammettere che il percorso non è stato fatto e rifatto indipendentemente
in ogni provincia indoeuropea dopo la dispersione, ma che è anteriore
alla divisione ed è opera di pensatori dei quali i brahmani, i druidi e i
collegi sacerdotali romani sono in parte i diretti eredi. Meccanismi
giuridici triplici Una delle applicazioni più interessanti ma più
delicate è quella che in riferimento alla concezione indoeuropea
chiarifica presso i diversi popoli (India, Roma, Lacedemoni) i quadri e le
regole giuridiche. Lucien Gerschel, ricordando il diritto romano, ha dimostrato
che questo, così originale nei suoi fondamenti e nel suo spirito,
conserva nelle sue forme un gran numero di procedure in tre varianti a
effetti equivalenti (che si spiegano solitamente, ma senza prove, come
creazioni successive dell’ uso e del pretore) che almeno qualcuna di
queste sorprendenti tripartita si modella sul sistema delle tre funzioni
qui considerate. Citerò unodei migliori esempi: un testamento può
essere fatto con lo stesso valore sia nell’assemblea strettamente
religiosa dei Comitia Curiata, presieduti dal gran pontefice; sia sul
fronte di una battaglia davanti ai soldati; sia tramite una vendita
fittizia a un emp- torfamiliae (Aulo-Gellio, XV, 27; Gaius, II; Ulpiano,
Reg. XX, 1). Gerschel non pretende che sia esistito a Roma un diritto
sacerdotale, un diritto guerriero e un diritto economico, o che i tre tipi
di testamento abbiano avuto delle assisi sociali o degli effetti
differenti, non più dei tre tipi di affrancamento o delle altre tricotomie
giuridiche che si possono interpretare in questo senso.
Questo quadro così incredibilmente frequente, questa triade di
possibilità a effetti equivalenti e l’omologia delle distinzioni che si
distribuiscono, sembrerebbe attestare, dice Gerschel, che i creatori del
diritto romano hanno da molto tempo pensato i grandi atti della vita
collettiva secondo l’ideologia delle tre funzioni e giustapposto volentieri tre
processi, tre decorsi o tre casi di applicazione provenienti ciascuno dal
principio (religioso; attualmente o potenzialmente militare; economico) di una
delle tre funzioni. La stessa psicologia non sfugge a questo schema. I
sistemi filosofici indiani dosano nelle anime, come nella società, dei
principi come la legge morale, la passione, l’interesse economico
(dharma, kCimu, artha) \ Platone attribuisce alle tre classi della sua
Repubblica ideale - filosofi governanti, guerrieri, produttori di
ricchezze - delle formule di virtù che distribuiscono e combinano la
Saggezza, il Coraggio e la Temperanza; in un’espressione apparentemente
tradizionale e legala all’intronizzazione dei Re Supremi di Irlanda, la
mitica regina Medb, depositaria e donatrice della Sovranità, pone come
triplice condizione a chiunque vuole diventare suo marito, cioè re, di
essere senza gelosia, senza paura, senza avarizia (Tdin Bó Cualnge ed.
Win- disch, 1905,6-7); infine, anche lo zoroastrismo, nei testi
brillante- mente interpretati da K. Barr, spiega che la nascila dell’uomo
per eccellenza, Zoroastro, è stata accuratamente preparata con la combinazione
di tre principi, l’uno regale, l’altro guerriero e il terzo carnale.
Si tratta forse di un’applicazione mitica di una credenza antichissima;
nei trattati rituali domestici dell’India ( Sànkh. G. S, I, 17, 9;
Pdrask. G. S, 1,9, 5) si consiglia infatti alla donna che vuole concepire
un bambino maschio di rivolgersi a Mitra, a Varuna, agli Asvin e a Indra
(quest’ultimo accompagnato da Agni o Sùrya, secondo le varianti) e a nessun
altro, cioè, come sarà dimostrato nel capitolo seguente, alla lista arcaica
indo-iranica degli dèi che incarnano e patrocinano la prima, la terza e
la seconda funzione. Un’altra via di sviluppo per il pensiero
trifunzionale è stata quella del simbolismo: tanto i tre gruppi sociali
quanto i loro tre principi sono stati legati figurativamente e solidalmente a
degli oggetti materiali semplici, il cui raggruppamento li evocava e li
rappresentava. Sembra che dai tempi indoeuropei questa via abbia
principalmente portato a due insiemi: una collezione di oggetti talismani
e un ventaglio di colori. Ci si ricordi della leggenda tramite cui
gli Sciti, secondo Erodoto, spiegavano le loro origini: gli oggetti d’oro
caduti dal cielo - carro e giogo per l’agricoltore, ascia (o lancia o
arco) come arma guerriera, coppa cultuale - hanno dei valori nettamente
classificatori secondo le tre funzioni. Ora, questi oggetti
non erano solamente mitici: erano conservati lutti insieme dal re e ogni anno
venivano solennemente portati attraverso le terre scitiche. Anche la leggenda
irlandese attribuisce alla penultima razza che avrebbe occupato l’isola, e che
in realtà è costituita dagli antichi dèi della mitologia (i Tuatha dé
Danann, Le tribù della dea Dana), un gruppo di oggetti talismani: il
calderone di Dagda che conteneva e donava un nutrimento meraviglioso; due
armi terribili, la lancia di Lug che rendeva il suo possessore invincibile e la
spada di Nuada, al cui colpo niente sopravviveva; la pietra di Fai
infine, sede della sovranità, il cui grido rivelava quale dei candidati
doveva essere scelto come re (V. HULLThefourjewels oftheT.D.D ZCP,
XVIII, 1930,73-89). Le mitologie vediche e scandinave collegano
allo stesso modo dei gruppi di tre oggetti caratteristici a degli dèi che
vedremo ben presto e che sono distribuiti secondo le tre funzioni.
20. Colori simbolici delle funzioni presso gli Indo-Iranici
Quanto ai colori simbolici, l’importanza e l’antichità sono già
segnalate, per il mondo indo-iranico, dal fatto che i tre (o quattro)
gruppi sociali funzionali sono designati in base alla parola sanscrita
varna e alla parola avestica pìstra (cf. il greco 7touciXoq screziato,
russo pisat' scrivere), che con sfumature diverse designano il colore. Di fallo
è un insegnamento costante nell’India che brdhmunu, ksatriya, vaisya e
sùclru siano rispettivamente caratterizzati (e le spiegazioni non mancano) dal
bianco, il rosso, il giallo e il nero. Di certo che vi è stata
un’alterazione in seguilo alla creazione delle caste inferiori ed
eterogenee degli sùdra, di un antico sistema di cui rimangono tracce nei
rituali (Gobh. G. S., IV, 7, 5-7; Khucl. G. S. IV, 2, 6) e senza dubbio
anche uno nel Riveda (nero, bianco e rosso è il suo cammino dice X, 20,9 di Agni, il più triplice e
trifunzionale degli dèi), sistema formato semplicemente da tre colori senza il
giallo e dove vi era il nero (o blu scuro) a caratterizzare i vaisya, gli
allevatori-agricoltori. In effetti anche l’Iran ha mantenuto questa
ripartizione: una tradizione mazdeo-zurvanita che è stata progressivamente
stabilita e interpretata da H. S. Nybcrg (1929), G. Widengren, S.
Wikan- der (1938) c R. C. Zaehner (1938, 1955) descrive nella
cosmogonia l’uniforme dei sacerdoti come bianca, quella dei guerrieri
come rossa o variopinta e quella degli agricoltori-allevatori come blu
scura. Altri Indoeuropei praticavano lo stesso simbolismo. V. Basanoff ha
intelligentemente i nterpretato in questo senso un rituale hiltita di evocatio
in cui i diversi dèi della città nemica assediata sono pregali di
lasciarla e di giungere presso gli assedianti attraverso tre cammini - il
che suppone tre diverse categorie di dèi - avvolti uno in una stoffa bianca, il
secondo in una stoffa rossa e il terzo in una stoffa blu ( Keilischrifturk
aus Bof’azkbi, VII, 60; FRIEDERICK, Deralte Orient, XXV, 2,1925,
22-23). 21. Colori simbolici delle funzioni presso Celti e
Romani Tra i Celti della Gallia e dellTrlanda il bianco è il colore
dei dm- idi e il rosso, nell’epopea irlandese, è quello dei guerrieri; a
Roma un Albogalerus caratterizza il più sacerdote tra i sacerdoti, il
flamen diu- lis, mentre il paludumentum militare è rosso come il drappo
sulla testa del generale o come la trabea dei cavalieri o dei sacerdoti
armati che sono i Salii. Un sistema completo a tre termini
del simbolismo coloralo s’incontra due volte nelle istituzioni romane. Il
caso più interessante è quello dei colori delle fazioni del circo che
assunsero grande importanza sotto l’impero e nella nuova Roma del Bosforo, ma
che sono sicuramente anteriori all’impero c che gli studiosi di antichità
romane ricollegano del resto alle origini stesse di Romolo.
36 Le speculazioni esplicative di questi antichisti sono
molteplici e intrise di pseudo-filosol'ia e di astrologia, ma una di queste,
conservata da Giovanni il Lido, De mens. IV, 30, si riferisce a delle realtà
romane e afferma che questi colori, che sono quattro, in epoca storica
erano inizialmente tre ( albati, russati, viricles) in rapporto non solo
con le divinità Jupiler, Mars e Venus (quest’ultima solo apparentemente
sostituita a Flora) i cui valori funzionali sono evidenti (sovranità, guerra,
fecondità), ma anche con le tre tribù primitive dei Ramnes, Lucercs e
Titienses. A proposito di questi ultimi si è ricordalo più sopra
che erano, nella leggenda delle origini, sia componenti etnici (Latini,
Etruschi, Sabini) che funzionali (derivati da uomini sacri c governanti,
da guerrieri professionisti e da ricchi pastori) e che in un altro passaggio
{De magistrut. 1, 47) Giovanni il Lido interpreta come paralleli alle
tribù funzionali degli Egiziani e degli antichi Ateniesi. Nel
1942 Jan de Vries raccolse un gran numero di esempi antichi e moderni
(religiosi, l'olklorici c letterari) di questa triade di colori: quasi
lutti provenivano dall’area di espansione indoeuropea o dai suoi confini,
o dalle regioni che furono esposte all'influenza degli Indoeuropei e alcuni
hanno chiaramente un valore classificatorio del tipo qui
considerato. 22. Le scelti- dei tigli di Feridùn
Infine, dei racconti epici, delle leggende o delle narrazioni molto
diverse utilizzano ugualmente il quadro trifunzionale. Eccone qualche esempio.
La leggenda scitica dei tre figli di Targilaos, il cui ultimogenito raccoglie
insieme alla regalità i meravigliosi oggetti d’oro simboli delle tre
Finzioni, è stata paragonala da M. Molé a una tradizione dell’Iran
propriamente detto, relativa ai figli del l’eroe che V Avesta chiama
©hraétaona, i testi pahlavi Frètòn e i testi persiani Feridùn. Eccola
nella traduzione data da M. Molé a un passaggio dell 'Àyàtkar i
JàmcispTk: Da Frètòn nacquero tre figli; Salm, Tòz ed Eric erano i
loro nomi. Egli li convocò tutti e tre per dire ad ognuno di essi: Io sto
per dividere il mondo tra di voi, che ciascuno di voi mi dica ciò che
gli sembra bello affinché io glielo doni. Salm chiese grandi
ricchezze, Toz il valore ed Eric, su cui era la gloria dei Kavi (cioè il
segno miracoloso che distingue il sovrano scelto da Dio) la legge e la
religione. Frètón disse: Che a ciascuno di voi giunga ciò che ha chiesto.
Ed egli donò infatti la terra di Rum a Salm, il Turkestan e il deserto a
Toz e l’Iran e la sovranità sui suoi fratelli a Eric.
Un’interessante variante di Ferdusi giustifica la stessa divisione
geografica con un altro criterio, anche se col medesimo senso. Esposti a
titolo di prova a uno stesso pericolo (un dragone minaccioso), ognuno dei tre
fratelli si rivela in accordo con la propria natura e col proprio livello
funzionale: Salm fugge, Tòz si precipita ciecamente all’assalto e Iraj evita il
pericolo senza combattere, con l’intelligenza e il nobile sentimento che
ha della dignità regale della sua famiglia. La scelta del pastore
Paride È un tema simile, presente fra i Greci d’Asia Minore e forse
influenzato dagli Indoeuropei di Frigia, che ha fornito la materia del
giudizio di Paride, piacevole racconto dalle pesanti conseguenze poiché è
destinato a spiegare come, malgrado la sua ricchezza e il suo valore,
Troia finisca per soccombere ai Greci. Paride, il bel principe
pastore, vede giungere presso di sé tre dee (che simboleggiano le tre
funzioni) che gli chiedono un giudizio eminente; secondo un tipo di variante
(Euripide, Iphig. Aul, V. 1300- 1307) ognuna si presenta nel l’aspetto
del proprio rango e della propria attività: Era, fiera del letto regale del sovrano Zeus ,
Atena con l’elmo sul capo e la lancia in mano, Afrodite senza altre armi
che la potenza del desiderio. Secondo un’altra variante (Euripide,
Troiane, v. 925-931) ogni dea tenta di accattivarsi il giudizio
promettendo un dono: Era promette la sovranità sull’Asia e l’Europa,
Atene la vittoria e Afrodite la donna più bella. Paride sceglie
male e assegna il premio ad Afrodite, scelta che causerà ben presto il
rapimento dell’incomparabile Elena e, malgrado dieci anni di
combattimento, la fine di Troia, distrutta da una coalizione di uomini e
divinità tra le quali Era ed Atena non saranno le meno
accanite. Questo tipo di racconto ha prosperato sino ai tempi moderni.
Gerschel ha studiato delle tradizioni svizzere, tedesche ed austriache
raccolte nell 'ultimo secolo, evidentemente indipendenti dalla leggenda greca,
che presentano un giovane uomo che deve scegliere (ma generalmente bene) fra
tre offerte nettamente funzionali; oppure tre fratelli che si spartiscono
tre doni funzionali dei quali solo uno, quello della prima funzione
assicura a chi lo possiede un destino pienamente buono. Ecco per esempio la
forma originale rigorosamente ricostruita da Gerschel, delle leggende
tedesche sull’origine dello Jodeln (Johlen). Res, il vaccaro
di Bahilsalp, trova una notte nella capanna tre esseri sovrannaturali in
procinto di fare il formaggio: a un certo punto il latticello è versato in tre
secchi e nel primo è rosso, nel secondo secchio è verde e nel terzo è
bianco. Res apprende che deve scegliere un secchio e berne il latticello;
allora uno dei vaccari fantasmi aggiunge: Se scegli il rosso sarai talmente
forte che nessuno potrà combattere con te. Il secondo vaccaro disse a sua
volta: Se tu bevi il latticello di colore verde possiederai molto oro e
sarai ricchissimo. Il terzo infine spiegò: Bevi il latticello bianco e tu
sarai Jodeln meravigliosamente. Res rifiutò i due primi doni e si decise per il
latticello bianco, diventando un perfetto Jodler. Gerschel
rileva che questa tecnica vocale ha nelle diverse varianti un effetto magico
(tutte le bestie vengono incontro allo jodler e. l'accompagnano; tavole e
panche danzano nella sua capanna: le vacche si alzano sulle loro zampe
posteriori e danzano; la vacca più selvatica si addolcisce e si lascia mungere
facilmente, etc.). Talismani di Roma e di Cartagine Verso la
fine delle guerre puniche Roma ha senza dubbio organizzato su un tale tipo di
schema la garanzia della sua vittoria finale: una testa di bue, poi una
testa di cavallo (trovate dagli scavatori di Di- done sul sito in cui si
ergeva, con Cartagine, il tempio della sua Giunone) avevano, a detta di loro,
garantito alla città africana l’ opulenza e la gloria militare. Ma in
virtù della testa d’uomo che gli spalatori di Tarquinio avevano un tempo
trovato sul Campidoglio, nel sito del futuro tempio di Jupiter O. M, è Roma che
detiene la più alta promessa, quella della sovranità. L. Gerschel, a cui
si deve ancora questa sorprendente interpretazione, ha ricordato che presso gli
Indiani vedici uomo, cavallo e bue sono teoricamente i tre tipi superiori
delle vittime ammesse per il sacrificio, quelli le cui teste (assieme
alle teste delle due vittime inferiori, montone e capro) devono, almeno
in apparenza, essere interrate nel luogo in cui si vuole elevare
l’importante altare del fuoco, in mancanza del santuario permanente che
non esiste i n India. Come ultimo esempio, riallacciando all’ambito epico
la tripartizione dei flagelli e dei delitti ricordati più sopra, citerò un tema
di grande estensione letteraria che è stato diversamente spiegato in
India, in Scandinavia, in Grecia e in Iran: quello dei peccati di un dio
o di un uomo, generalmente (per delle ragioni che analizzeremo nel III capitolo)
un personaggio della seconda funzione, un guerriero. Indra, il dio
guerriero dell’India vedica, è un peccatore. Nei Brahmano e nelle epopee
la lista dei suoi errori e dei suoi eccessi è lunga e varia. Ma il quinto canto
del Màrkandeya Purànu li ha ridotti allo schema delle tre funzioni: Indra
uccide prima il mostro Tricefalo, morte necessaria poiché il Tricefalo c
un flagello che minaccia il mondo, ma tuttavia morte sacrilega poiché il
Tricefalo ha il rango di brahmano e non vi è crimine peggiore del brahmanicidio
e di conseguenza Indra perde la sua maestà, la sua forza spirituale,
tejas (1-2). Poi, essendo stato generato il mostro Vrtra per vendicare il
Tricefalo, Indra s’impaurisce e contravvenendo alla vocazione propria del
guerriero conclude con Vrtra un patto infido che viola, sostituendo alla
forza l’inganno; di conseguenza perde il suo vigore fisico, baia. Infine,
tramite un’astuzia vergognosa, assumendo la forma del marito, adesca una
donna onesta in adulterio e perde così la sua bellezza, rùpa
(12-13). L’epopea nordica - Saxo Grammalicus è l’unico a
rintracciarne la storia completa, ma lo fa secondo fonti perdute in
lingua scandinava - conosce un eroe di tipo molto particolare, Starkadr
(Starcatherus), guerriero modello in ogni punto, servitore fedele e
devoto ai re che 1’accolgono, salvo che in tre circostanze. Egli è
infatti stato dotato di tre vite successive, cioè di una vita prolungata
sino alla misura di tre vite normali, a condizione che in ognuna di esse
egli commetta una penalità. Ora, il quadro di queste tre penalità
si distribuisce chiaramente secondo le tre funzioni. Essendo al servizio
di un re norvegese l’eroe aiuta criminalmente il dio Othinus (Ódinn) a
uccidere il suo signore in un sacrifìcio umano. Trovandosi poi al
servizio di un re svedese /ugge vergognosamente dal campo di battaglia dopo la
morte del suo signore abbandonandosi, in quest’unica occasione delle sue tre
vite, alla paura panica (Vili, V). Servendo infine un re danese, assassina
il suo signore procurandosi per mediazione centoventi libbre d’oro, cedendo
eccezionalmente per qualche ora all’appetito di questa ricchezza di cui fece
altrove, in atti e discorsi, professione di disprezzo. Essendosi
così estinta 1 a sua triplice carriera non gli rimane che cercare la
morte ed è ciò che compie in uno scenario grandioso (Vili, Vili). Il
carattere e le gesta di Starkadr ricordano in molti punti quelle di
Eracle. Nelle esposizioni sistematiche che sono fatte - relativamente tarde ma
non inventate - la vita intera dell’eroe greco (concepito da Zeus e
Alcmene durante tre notti) è scandita da tre mancanze che hanno un effetto
grave sull 'essere dell’ eroe e ognuna di questecomporta il ricorso
all’oracolo di Delfi (Diodoro, IV, 10-38). 1) Euristeo re di Argo comanda
ad Eracle di compiere dei lavori e ne ha il diritto in virtù di una
promessa imprudente di Zeus e di un’astuzia di Era: Eracle commette
tuttavia l’errore di rifiutare, malgrado l’invito formale di Zeus e
l’ordine dell’oracolo. Approfittando di questo stato di disubbidienza agli dèi,
Era lo colpisce nel suo spirito: egli è così preso dalla demenza ed
uccide i suoi bambini, dopo di che ritorna penosamente alla ragione, si
sottomette e compie così le Dodici Fatiche, aggravate da altre fatiche
(cap. 10-30). 2) Volendosi vendicare di Erito, Eracle attira suo figlio
Iphitos in un tranello e lo uccide non in duello ma con l 'inganno
(Sofocle nelle Trachinie 269-280 sottolinea il carattere fortemente antieroico
di questo sbaglio). Eracle, punito, cade in una malattia psichica da cui non si
libera: viene così informato dall’oracolo che deve vendersi come schiavo
e rimettere ai figli di Iphitos il prezzo di questa vendetta (cap. 31).
3) Benché infine legittimamente sposato aDeianira, Eracle cerca di sposare
un’altra principessa, poi ne rapisce una terza e la preferisce alla sua
donna, dal che ne deriva il terribile disprezzo di Deianira, la tunica
avvelenata dal sangue di Nesso e i terribili e irrimediabili dolori dai quali
l’eroe non può liberarsi, dietro un terzo ordine di Apollo, che con la
propria apoteosi, col rogo (cap. 37-38). Oltraggio a Zeus e
disobbedienza agli dèi; morte vile e perfida di un nemico senz’ armi;
concupiscenza sessuale e oblio della propria donna: i tre errori fatali di
questa gloriosa carriera si distribuiscono sulle tre zone funzionali
esattamente come i tre peccali di Indra e con la stessa specificazione
(concupiscenza sessuale) della terza, alterando l’essere stesso
dell’eroe. Ma queste alterazioni, progressive e cumulative nel caso di
Indra, sono invece successive nel caso di Eracle: le prime due possono
essere riparate mentre la terza trascina alla morte. In una
tradizione avestica, senza dubbio ripensala e ri-orientata dallo
zoroastrismo, un eroe di tufi’altro tipo, Yima, è punito per un unico
grande peccalo (menzogna o, più lardi, orgoglio c rivolta contro Dio e
usurpazione degli onori divini) e viene privato in tre tempi dello x'
arvnah, di quel segno visibile e miracoloso della sovranità che Ahu- ra
Mazda pone sul capo di coloro destinati ad essere re. I tre terzi di
questo x v arvnah successivamente sfuggono per collocarsi nei tre personaggi
corrispondenti ai tre tipi sociali dell’ agricoltore-guaritore, del
guerriero e d c\V intelligente ministro di un sovrano (Dènkart, VII, 1,
25-32-36; molto più soddisfacente dello Yasl Questo rapido excursus è
sufficiente per mostrare le direzioni e i diversi ambili in cui
l’immaginazione dei popoli indoeuropei ha utilizzato la struttura tripartita;
ancora una volta dobbiamo ora volgerci, come per le altre applicazioni di
questa struttura, verso i popoli non indoeuropei del mondo antico per
ricercare se intorno a un eroe si è prodotto un tema epico o leggendario,
la messa in scena di una lezione morale o politica, la giustificazione
colorita immaginifica di una pratica o di uno stato di fatto. Al
momento i risultali dell’inchiesta sono negativi. Da Gilga- mesh a
Sansone, dai grandi Faraoni agli imperatori favolosi della Cina, dalla saggezza
araba agli apologhi confuciani, nessun personaggio storico o mitico ha
rivestito in alcun modo l’uniforme trifunzionale in cui si trovano al contrario
molte figure degli Indoeuropei. È dunque probabile che questa divisa sia solo
indoeuropea e che solo in questa vasta partedel mondo, e prima della loro
dislocazione, gli Indoeuropei abbiano intellettualmente scandagliato, meditato
e applicato all’analisi e all’interpretazione della loro esperienza, e
infine utilizzato nei quadri della loro letteratura, nobile o popolare, le tre necessità
fondamentali e solidali che gli altri popoli si accontentavano di
soddisfare. Terminando quest’esposizione molto generale vorrei
sottolineare ancora che il riconoscimento di questo fatto così importante non
ci fornisce il mezzo per rappresentare lo stato sociale effetti voo le
istituzioni (senza dubbio variabili da provincia a provincia) degli Indoeuropei
comuni. Noi non possediamo che un principio, uno dei princìpi e
dei quadri essenziali. Una delle questioni più oscure rimane ad esempio
il rapporto fra le tre funzioni e il re, del quale ci è assicurala
l'esistenza antichissima nella parte senza dubbio più conservatrice degli
Indoeuropei, cioè presso gli indiani vedici (/•/-), i latini (/ <?#-) c i
celti (n#-). Questi rapporti sono diversi sui tre domini c su
ognuno vi è stata una variazione nei luoghi e nei tempi. Risulta così
qualche fluttuazione nella rappresentazione e definizione delle tre funzioni c
notoriamente della prima: o il re è superiore, o per lo meno esterno alla
struttura trifunzionale, e allora la prima funzione è centrala sulla pura
amministrazione del sacro, sul sacerdote piuttosto che sul potere, sul
sovrano e i suoi ministri; oppure il re (re-sacerdote più che governatore) è al
contrario il più eminente rappresentante di queste funzioni. Oppure
si presenta una mescolanza variabile di clementi presi dalle tre funzioni
e in special modo dalla seconda, dalla funzione e dalla classe guerriera da cui
solitamente proviene: il nome differenziale dei guerrieri indiani,
ksutriyu, non ha forse per sinonimo quello di ràjanya, derivato dalla
parola ràjanl Queste difficoltà, insieme ad altre, potranno essere
meglio formulale, se non risolte, quando avremo indirizzato lo studio su ciò
che fu l’armatura più solida del pensiero di questa società arcaiche: il
sistema divino, la teologia e i suoi prolungamenti mitologici ed epici. § 1. V.M. AFTE, Were castes formulateci in thè age of thè Rig
Veda?, Bull, of thè Decenti College Research Institute, II,34-36. Per brahman vedi L. RENOU, Sur la nolion de bràhman, JA. Questa
interpretazione, facile da conciliare con i fatti iranici segnalali da
W.B. HENNTNG,' Brahman, TPS, 1944,108-118, rende caduco il senso ammesso
nel mio Flamen-Brahmnti (1935). Il Brahman di P. THIE- ME, ZDMG, 102,
1952, non ha fatto avanzare l’analisi e non altera il risultato dello
studio di Renou. Circa i rapporti del brahman e del flamen, vedi la mia
discussione con J. GONDA ( Notes on Brahman, 1950) in RHR, CXXXVIII,
1950,255-258 eCXXXIX 1951,pp. 122-127; riprenderò prossimamente la
questione di questi rapporti. Come xsaQra in avestico, ksatrd è ambiguo
in vedico e appartiene per certi impieghi al vocabolario del primo
livello; ma la concordanza dell’uso classificatorio del sanscrito
ksatriya per designare l’uomo del secondo livello, di X5a0ra come nome
dell’arcangelo sostituito nello zoroastrismo a Indra, dio del secondo
livello e infine di /Exscert-ieg come
nome della famiglia degli uomini differenzialmente “forti” nell’epopea
degli Osseli (vedi sotto, 4), garantisce che fin dai tempi indo-iranici
questo termine fosse una designazione tecnica dell’essenza del secondo
livello. § 2. DUMÉZIL, La préhistoire
indo-iranienne des castes, JA. B ENVENISTE, Les classes sociales dans la
tradilion ave- stique, JA, CCXXI, 1932,117-134; Les mages dans l’ancien
Iran, Pubi, ile la Soc. cles Étuiles Iraniennes, n. 15,1938,6-13; Tradilions
in- do-iraniennes su les classes sociales, JA; H.S. NYBERG, Die
Religione/} cles alteri Iran, 1938,89-91; DUMÉZIL, JMQ, 41-68 (= JMQ it.24-45). L’interpretazione
è stata progressivamente costituita negli articoli e nei libri citati al
§ 2, partendo da una suggestione di A. CHRISTENSEN, Le premier homme... I,
1918,137-140. § 4. JMQ,55-56 (= JMQ il.,35). Sulle tradizioni degli
Osseti vedi il mio Légemis sur les Nartes, 1930, c il risultato delle
grandi inchieste degli anni ‘40 pubblicale in Osetinskije Nartskije
Skazanija (Dzauzikau), 1948 (in osseto: Narty kailcliitce). Il testo
citalo di Turganov è nell’articolo Klo takie Narty?,/zv. Oset. histit.
Kraeveilenija, I (Vladikavzak) Vedi la mia Lezione Inaugurale al Collège de
France, 15-19 e BGDSL, 78, 1956,175-178. § 6. JMQ,110-123 (=JMQ
il.77-87). Sette anni più tardi, dopo la guerra, T.G.E. POWELL ha ripreso
la mia dimostrazione, Ccltic Origins; a Stage in thè Hnquiry, J. ofthe R.
Anthropol. Institute: Of greatest interest is thè
recognition of a three folci clivision o f society among thepeoples
concerned [Indiani, Italici, Celti ],providing in thehighest rank a class
oflearned and sacred men, in tlie second warriors, and in thè lo- west
thè ordinary people etc. Circa il
nome di aire apparentato ad aiya, io credo che bisogna rinunciare
all’etimologia che accosta il nome dell’eroe irlandese Eremon al dio
indo-iranico Aryaman (vedi sotto III § 6) e in conseguenza sopprimere l’ultimo
capitolo del mio Troisième Souverain, 1949. § 7-8. Questa analisi è
stata fatta progressivamente in JMQ,129-1 54 (= JMQ it.,90-107);
NR,86-127 (= JMQ it.230-263); JMQ IV, I 13-134. In parte qui riproduco il
riassuntode L'heritage.. Gli Umbri distinguevano nella società i rappresentanti
delle tre funzioni: Ner - et uiro - dans les sociétés italiques, REL Delle
obiezioni a questa analisi sono state lungamente esaminate in NR, cap. II
(= JMQ it.230-262), riassunto in L’heritage...196-201 e 229-23 1. Ho
anche fatto notare che se Ranmes è utilizzato - superbum Rhamnetem -come
nomeproprioda Virgilio (Aen.) è perdesignare un re jce un augur ; che
Lucer- sembrerebbe essere all’origine del nome della gens Lucretia, una
delle più militari delle leggende dei primi tempi della Repubblica (e
proprietaria del cognome Tricipitinus, che senza dubbio allude a un mito
del Tricefalo); che il radicale di Titienses (F. BUCHELER, Kl. Sdir.,
Ili, 1930,75-80) si trova in altre parole in rapporti diversi ma
convergenti con la fecondità, l’amore, la voluttà: questo conferma
l’orientamento differenziale di ognuna delle tribù verso una delle tre
funzioni. Ho infine ricercato delle allusioni letterarie alle tre funzioni
e ai loro rappresentanti, come componenti di Roma o di altre società
concepite a sua immagine: JMQ IV, 121-136; REL; ma i testi degli storici e
quello di Properzio sono sufficienti. La questione dell’autenticità della
fusione dei Latini e dei Sabini alle origini di Roma è connessa a questa
ma differente, vedi sotto, II i? 17, nota. § 9. JMQ, (=JMQ
it.,269-270); in compenso le classi doriche sono di un altro tipo, malgrado
JMQ,254-257 (soppresso in JMQ it.). Un recente studio di NlLSSON sulle
Phylae ioniche ( Cults, myths, oracles andpolitics in ancient Greece,
1951,143-149) presenta delle difficoltà che esaminerò altrove. L.R.
PALMER ha brillantemente proposto di riconoscere la tripartizione sociale
indoeuropea nei testi micenei: TPS, 1954,18-53; Acliaeans and
Indoeuropeans, an Inaugurai Lecture, Oxford 1954,1 -22. Quanto ai tre
stati della Repubblica di Platone, vedi JMQ,257-261 (= JMQ it.170-171
): Se le più antiche tradizioni
degli Ioni conservano il ricordo di una divisione funzionale quadripartita
della società (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), la città ideale
di Platone non potrebbe forse essere, nel senso più stretto, una
reminiscenza indoeuropea? Essa è costituita dalla concatenazione armoniosa di
tre funzioni, tò (pu7.CXKlKÓV O (3oi)A.EV>TlKÓV, TÒ ÈKlKO'UpiKÓV, TÒ
XpimOtTlCTTUCÓV CUStO- dum genus, uuxiliarii, questuarti, come traduce
Marsilio Ficino, cioè i filosofi che governano, i guerrieri che combattono e il
terzo-stato, agricoltori e artigiani riuniti, che crea la ricchezza. La
solidarietà dei primi due gruppi al di sopra del terzo è fortemente
marcata, ma soprattutto l’originalità di ciascuno: ogni stato agisce
conformemente alla sua definizione, oìtceiojtpa/yia, evita la confusione,
7toA.U7cpaynpoa'ùvE, e la Giustizia, fine ultimo della vita politica, è
assicurata. A ognuno degli stati corrisponde infine una formula di virtù
particolare: il terzo stato deve essere temperante, acótppcov; alla
temperanza i guerrieri devono aggiungere il coraggio, àvSpeia; i guardiani
saranno inoltre saggi, aotpoi. Tutto questo fa immaginare, per quel po ’
che li si è praticati, i trattati politico-religiosi dell’India: stessa
definizione dei tre stati sociali; stessa solidarietà dei primi due, ubhe
vlrye; stesso anatema contro la confusione, varnanàm samkaram,- stessa
esortazione ad attenersi al modo di azione a cui si appartiene, stessa
distribuzione dei doveri e delle virtù dello stato. I legislatori indiani
e la Repubblica si fanno eco: none forse perché essi recitano la medesima
canzone ancestrale?... Che si pensi a tutte le vie per le quali questa
filosofia indoeuropea tripartita ha potuto discendere fino a Platone: non solo
le tradizioni sulle origini degli Ioni, ma i contatti molteplici con quel
conservatore di dottrine, non ariane, ma anche ariane, che fu l'impero
degli Ac he me nidi; l'orfismo, in cui deiframmenti della scienza dei sacerdoti
traci e frigi si sono depositati e in cui non mancavano le triadi; il
pitagorismo, su cui Henri Hubert ci invitava, vent’anni or sono, a non
trascurare le componenti iperboree; infine il folklore... Cf. qui sotto §
18, per le applicazioni psicologiche della divisione tripartita nell’India e
in Platone. § 10. Cf. i riferimenti al § 5. Sui marianni (egiziano
ma-ra-ya-na\ cuneiforme mar-ya-an-nu ; forse come l’ha proposto Albrighl,
dall’accusativo plurale arya mdrycin + la terminazione hurrita -ni), vedi R.T.
O’CALLAGHAN, New light on thè Maryannu as chariot-warrior, Jb. f kleinas.
Forschung, 1951,308-324. I libri fondamentali quelli di S. WtKANDER, Der
arische Mannerbund, 1938 e H. LOMMEL, Der arische Kriegsgott, 1939, da
confrontare con O. HÒFLER, Kultische Geheimbùnde der Germanen, I, 1934.
Una delle grosse differenze tra il Mannerbund degli Indiani e quello dei
Germani consiste nel fatto che il primo appartiene a Indra (non a Varuna),
mentre il secondo a Ódinn (e non a Pórr): effetto dell’evoluzione della
funzione guerriera presso i Germani; vedi MDG,92, n. 1 e più specificata-
mente, J. De VRIES, Altgerman. Rei. - Gesch. Un’interpretazione delle
corrispondenze del tipo 33 fra Roma e l’India vedica è proposta in JMQ
IV,156-170 (= JMQ it.,389-405), L'heritage...,213-227.1 33 dèi vedici
sono ripartiti frai tre piani del mondo (JMQ IV,30-33; riassunto in DIE,7-9)
essi stessi in rapporto con le tre funzioni (JMQ,65 = JMQ it.42-43 ). Il
carattere indo-iranico dei 33 dèi è garantito dalla concezione avestica
dei 33 ratu (spiriti protettori o prototipi delle diverse specie di esseri):
JMQIV,158-159(=JMQ it.,294-395), secondo J. Darmesteter e S.
Wikander. § 12. È nel suo articolo Traditions indo-iraniennes sur
les classes socia - les, JA, 1938,529-549, che E. BENVENISTE ha per la
prima volta mostrato, al di fuori dell’India vera e propria in cui il fatto
era ben conosciuto, che l’ideologia tripartita supera largamente
l’organizzazione sociale che finalmente non appare più se non come
un’applicazione particolare. Come disse all’inizio di un altro articolo,
per riassumere l’insegnamento di questo (Symbolisme social dans les
cultes gréco-italiques RHR): La elivisione della societe'i in tre classi,
sacerdoti, guerrieri, agricoltori, è un principio di cui gli Indo-Iranici
avevano piena coscienza e che presentava ai loro occhi l’autorità e la
necessità di un fatto naturale. Questa classificazione regge così profondamente
l’universo indo-iranico che il suo dominio reale supera largamente le
enunciazioni esplìcite degli inni e dei rituali. Si è potuto dimostrare
[JA, 1938,529 e segg.] che varie rappresentazioni sono state con formate
e che sono fuori dalla sfera propria del sociale, al punto che ogni de
finizione di una totalità concettuale tende inconsciamente a riflettere il
quadro tripartito che organizza la società degli uomini. Da parte sua, G.
Dumézil, in una serie di brillanti studi ha riportato sino alla comunità
indoeuropea l’origine di questa classificazione, scoprendola nei miti e nelle
leggende dell ’Europa occidentale antica e principalmente -è l'oggetto
del suo libro Jupiter, Mars, Quirinus - nella religione romana. Le posizioni
variabili della tecnica in rapporto alla tripartizione sociale sono esaminate
in Les métiers et les classes fonclionnelles chez divers peuples
indoeuropéens che sarà pubblicato quest’anno in Anna- les. Economies, Sociétés, Civilisations. § 13. BENVENISTE,
Traditions indo-iran. sur les classes sociales, JA CCXXX, 1938,543-545;
DUMÉZIL, Triades de calamités et triades de délits à valeur
trifonclionnelle chez divers peuples indoeuropéens, Ltito- mus,. BENVENISTE,
La doctrine médical des Indo-Européens, RHR; Dumézil, art. cit. al paragrafo
precedente,184, n.2. § 15. JMQ (= JMQ it.,80) Les trois
fonctions et le droit romain selon L. Gerschel, frammenti di una memoria
inedita di L. G., pubblicata in appendice a JMQ Per Platone e l’India vedi JMQ
(=JMQ it.,171 -172) Dopo aver scoperto la formula tripartita della
società, Platone si volge sull’individuo, sull'Uno umano e in questo
microcosmo ritrova gli stessi elementi in una stessa gerarchia, le stesse
condizioni di armonia comandano le medesime virtù. L'uomo giusto, dal
punto di vista della giustizia, non differisce in niente dallo Stato giusto; ha
in sé l'equivalente dei saggi, dei guerrieri, degli uomini ricchi: questi sono
i principi della conoscenza, della flussione e dell ’appetito, xò
à.oyi0xixóv, xò 0upoEi6éq, xò È7U0'ujìtixikóv,- che effli subordina in
modo tale che il secondo aiuti il primo, in modo che i due primi dominino
insieme questo temibile terzo che è in ogni uomo la parte più
considerevole dell’anima e che è per natura insaziabile di ricchezze; poiché
apre alla saggezza, al coraggio e alta temperanza gli spazi spirituali
che convengono a loro; egli sarà ciò che deve essere. Allo stesso modo
l’India, con l’instabilità delle rappresentazioni e delle formulazioni
che le è propria, compone l’anima o meglio l'involucro dell’anima, di tre
guna al pari della società e dell'universo: queste qualità, che furono
inizialmente luce, crepuscolo e tenebra, sattva, rajas e tamas, sia perla loro
presenza isolata che per la loro combinazione, costituiscono gli
individui e lo Stato: talvolta il senso della legge morale, della
passione e dell’interesse, dharma, kama e artha, si uniscono in una
triade equivalente a quella dei guna e il loro equilibrio lodevole o biasimevole
definisce i tipi umani; talvolta, seguendo uno schema prettamente
indiano, è la conoscenza serena, l’attività inquieta o l’ignoranza fonte di
errori, che si disputano il nostro effimero edificio e questa semplice
enumerazione disegna una terapeutica... Per l’Irlanda e la regina Medb
vedi JMQ,115 -116 (= JMQ it.,80-82); è la stessa Medb che commenta chiaramente
la sua seconda e terza esigenza: il suo sposo dovrà essere valoroso in guerra e
anche generoso di beni quanto lei; circa la prima si spiega in questi
termini; non bisogna che mio marito sia geloso poiché non sono mai stata
senza un uomo nell’ombra di un altro -
allusione alle costanti competizioni intorno alla regalità irlandese che Medb
incarna e conferisce. Nella lontana posterità di Platone, Claudiano, De quarto
consul. Hon., espone magnificamente la teoria della tre parti dell’ anima
(o delle tre anime) c ritrova, v. 259, una formula analoga alle tre esigenze di
Medb (ma col timore al primo livello: si metuis, sipraua cupis, si duceris
ira; seruitiipaliere iugum. Per Zoroastro tripartito vedi K. Barr, Irans profet
som xéXeioq avOptonoq, Festkr. tilL.L. Hammerich Perii talismano dei
Tualha De Danann, vedi JMQ, cap. VII (sopprimendo le pagine 241-245). Per gli
oggetti vedici (la Vacca magica per il dio-cappellano Brhaspati, due
cavalli bai pcrlndra, ilearro a tre ruote che serve agli Aévin per portare la
loro benevolenza al mondo:es. RV) e scandinavi (P anello magico per
Odinn, il martello per Pórr, il cinghiale dalle setole d’oro per Freyr)
vedi Tarpeia, IV (Mamurius Veturius) Nei rituali vedici vi sono tracce di
un’antica assegnazione del nero ai vaiéya: per costruire la sua casa un
indiano sceglie un suolo diversamente colorato, bianco per un brahmano, rosso
per uno ksatrya e per un vaiéya, giallo secondo certi trattati (
Àsvalàyana G.S., II, 8, 8) e nero secondo altri ( Gobhila G.S., 7, 7;
Khàdira G.S., IV, 2, 12). Per la tradizione iranica vedi in ultimo luogo
ZaEHNER, Zurvan, 1955,118-125 (testo del Grande Bundahisn c del Denkart).
Per il rituale hittita vedi BasaNOFF, Euocatio, DUMÉZIL, Rituels cap. Ili
(Albati, russati, virides) e IV (Ve- xillum caeruleum); J. DE VRIES,
Rood, wit, zwart, Volkskimde, II, 1942, 1-10. § 22. MOLE, Le partage du monde dans la tradition des Iraniens, JA,
CCXL, 1952,456-458. § 23. DUMÉZIL, Les trois fonctions dans
quelques traditions grecques Eventail de l'histoire vivante (= Mèi. L.
Febvre ), I, 1954,25-32, dove sono studiate in questo senso il
Kroisos-Logos di Erodoto e certe forme dell’apologo di Mida e del Sileno;
L. GERSCHEL, Sur un schème trifon- ctionnel dans une famille de légendes
germaniques, RHR, CL, 1956, 55-92, in cui sono esaminati due tipi imparentati
di leggende, una che comporta l’opzione proposta a un individuo fra tre offerte
funzionali (es. l’origine di Jodeln citata nel testo) e l’altra che
presenta tre fratelli che si spartiscono tre doni funzionali il cui
valore si rivela disuguale a vantaggio del dono della prima funzione (es.
il gruppo di leggende di cui Ch. PRÉVOT D’ARLINCOURT, Le Pélerin, III,
1842,268-291 ha pubblicato un buon esempio). GERSCHEL, Structures augurales et tripartition fonctionnelle dans la
pensée del’ancienneRome, JP. L’estrema antichità e il carattere
indoeuropeo di certe concezioni e pratiche augurali di Roma (la parola
augur è indoeuropea) sono state stabilite in diversi articoli:
L’inscription archaique du Forum et Cicéron, De divin., Il, 36, RSR ( =Mél. J.
Lebreton. I), 1951,17-29, prolungata da Le iuges auspicium et
les incongruités du taureau attelé de Mugdala, NC; Rituels..., cap. II (Aedes
rotunda Vestae); Les trois premiè- res regiones caeli de Martianus Capei
la, Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. A M. Niedermamì), 1956,102-107. Sulla
parola augur e la sua preistoria indoeuropea, vedi Remarques sur augur,
augustus, REL Aspects...,63-101 (Les trois péchésdu guerrier). Citiamo ancora
L. GERSCHEL, Coriolan, Eventail de l’Histoire vivante (=Mél. L. Febvre), II,
1954,33-40: Coriolano, accampatosi davanti a Roma, resiste alle
ambasciate dei suoi compagni d’arme, poi a quella di tutto il corpo sacerdotale
rivestito delle sue insegne sacre e con gli strumenti di culto, ma cede
alla terza, a quella di tutte le donne di Roma che portano i loro bambini
- la parte germinativa di Roma - condotte dalla sua propria madre e da
sua moglie. Sulla diversità delle posizioni del re in rapporto alle tre
funzioni, vedi la mia comunicazione al Vili Congresso Internazionale di
Storia delle Religioni (Roma 1956), Le rex et les flamines maiores,
riassunta negli Atti. Sul re germanico nella prospettiva
trifunzionale vedi J. DE VRIES, Das Kònigtum bei den Germanen, Saeculum Le
teologie dei diversi popoli indoeuropei non sono essenzialmente degli accumuli
incoerenti di dèi stratificati dai flussi e riflussi fortuiti della
storia. In ogni luogo su cui siamo sufficientemente informati è facile
riconoscere un gruppo centrale di divinità solidali che si definiscono le
une con le altre e che si spartiscono le province del sacro, secondo il piano
spiegato nel capitolo precedente. Questi gruppi sono stati per lungo
tempo, a seconda dei casi, trascurati, negati o mal compresi.
Il loro riconoscimento - e notoriamente quello del gruppo italico e
mitanno di cui si discusse inizialmente (1938, ma soprattutto a partire
dal 1945)-èall’origine dei principali progressi dei nostri studi;
all’origine anche di numerose discussioni spesso gradevoli, talvolta
penose, ma generalmente utili, tra il comparatista e lo specialista dei
diversi ambiti. 2. Gli dèi caratteristici delle tre funzioni negli
inni e nei RITUALI VEDICI I sacerdoti dell’India
vedica, in un certo numero di circostanze rituali importanti, associano
(per delle invocazioni, delle offerte o delle enumerazioni classificatorie) i
due sovrani dell’universo, Mitra e Varuna, il dio guerriero per
eccellenza, lnd(a)ra, c i due gemelli, quasi sempre designati al duale
con un nome collettivo, i Ncisatya o Asvin, guaritori, datori di
discendenza e di ogni sorta di bene. Talvolta al secondo livello, evidentemente
per analogia col raggruppamento binario del primo e terzo livello, Indra
compare associato a un altro dio, spesso variabile (Vàyu, Agni, Surya,
Visnu). Abbiamo già visto (I § 18) questo insieme divino (Mitra-Varuna, i
due ASvin, Indra con Agni o Sùrya), invocati per ottenere la formazione
di un feto maschio, obiettivo più importante in questi tempi arcaici che non
oggi. L’ordine di numerazione mette gli ASvin al secondo posto,
prima di Indra poiché si tratladi una nascita, cioè di un avvenimento che
è propriamente del loro ambilo. Con un’alterazione differente dell’ordine
che mette più in evidenza Indra, questo raggruppamento costituisce la
lista dei principali dèi in coppia invocali al momento culminante della
spremitura mattutina del soma (il sacrificio tipico); sono Indra-Vàyu,
Mitra-Varuna c i due ASvin (vedi il Sat. Bruhm., IV, 1, 3-5) ed è lui che
comanda il piano di un certo numero di inni del Riveda ispirati da questo
rituale. Il contesto di questi inni è sovente istruttivo,
garantisce e illustra il valore funzionale di ogni livello divino: per esempio
in I, 139 Indra-Vàyu sono caratterizzati dalla presenza, vicino a loro c
nella stessa strofa ( 1), della parola sàrdhas, termine tecnico che
designa il battaglione dei giovani guerrieri divini: la strofa di
Mitra-Varuna (2) è riempita dalla nozione di rtù c dnrta, cioè
dell’Ordine cosmico e morale e dal suo contrario; gli ASvin (3) sono invece
presentati come i signori delle due varietà di vitalità, srlyah e prksah.
Nei due inni complementari (I, 2 e 3), Indra-Vàyu sono qualificati come
nani, Mànner, eroi (2, slr. 6); di Mitra-Varuna (2, str. 8) è detto che
con l'Ordine, curando l'ordine, hanno raggiunto un’elevata efficienza ;
quanto agli Asvin, donano gioia a molti
(3, slr. 1). 3. Lis ti-: ascendenti e discenden ti
Più spesso l’ordine canonico sia ascendente che discendente è
rispettato. Ecco inizialmente due casi molto puri in cui Indra è solo al
suo livello. 52 Nel rituale arcaico e
minuzioso d’erezione dell’importante altare del fuoco, al momento in cui si
tracciano i sacri solchi che devono limitare l’area, viene fatta un’invocazione
alla vacca mitica, Kàmadhuk (quella che quando la si munge dona ciò che
si desidera). L’invocazione contiene la sequenza divina che ci riguarda,
nel senso discendente, con un prolungamento che ne garantisce i valori
funzionali: Produci come latte ciò che desiderano, a Mitra e Varuna, a
Indra, ai due Asvin, a Pùsan (dio del bestiame e talvolta dei sfidra),
alle creature, alle piante! (cf. Éat. Brdhm.). In una tale numerazione
ordinata, al di sopra delle piante, degli animali ed eventualmente degli uomini
non-arya, Milra-Varuna, Indra e gli Asvin non possono patrocinare che tre
varietà di uomini arya, quelli che corrispondono rispettivamente e
gerarchicamente alle loro tre nature. In un sacrificio offerto per
ottenere certe prosperità, gli stessi dèi sono invocati nell’ordine
ascendente con un complimento collettivo ed esauriente (Taittir. Sarnh.): tu
sei il soffio degli dèi Asvin... tu sei il soffio di Indra... tu sei il
soffio di Mitra-Varuna... tusei il soffio di Tutti gli Dèi!.
Con Agni associato ad Indra, nell’ordine discendente, si osserva la
stessa sequenza all’inizio di un lesto speculativo molto interessante ( RV, X,
125 = A V, IV, 30 con una leggera variante nell’ordine delle strofe): è
il famoso inno panteista, messo nella bocca di un personaggio che è senza
dubbio Vàc, la Parola, c che in ogni caso si presenta come il supporto e
l’essenza comune di tutto ciò che esiste. La prima strofa è questa:
Io vado con i Rudra, con i Vasu, con gli Àditya e con Tutti gli Dèi! Sono
io che sostengo tutti e due Mitra-Varuna; sono io che sostengo Indra-Agni, io
che sostengo i due Asvin!. È degno di nota che nelle strofe seguenti,
analizzando la propria polivalenza o, come ella dice, i diversi luoghi c soggiorni in cui glidèi l’hanno
introdotta (RV, str. 3 =A Vslr. 2), Vàc
metta in risalto, come parti della sua opera in rapporto agli uomini (RV str.
4, 5, 6 =AV str. 4, 3, 5) il nutrimento e la vita, poi la parola
assaporata dagli dèi e dagli uomini e il bene che concede ai personaggi
sacri (bruh- man, rsi), infine l’arco la freccia che uccide il nemico del
brahmàn c il combattimento. È chiaro che, qualunque sia
l’intenzione dottrinale (si è parlato in quest’occasione di Logos
ncoplalonico), questo poema utilizza nelle sue espressioni il più antico
sistema concettuale degli Arya: con la sua esposizione di nozioni
parallele (dèi, azioni) conferma che la sequenza Mitra-Varuna, Indra (solo o
accompagnato) e i due Asvin riunisce i patroni e le espressioni teologiche
delle tre funzioni. Gli dei arya dei Mitanni Talvolta
leggermente ritoccata, secondo preoccupazioni che è spesso possibile comprendere,
questa stessa sequenza si ritrova in diversi testi dell’India arcaica, ma ora
voglio giungere senza indugio a un documento molto importante.
È risaputo che tra gli Indo-Iranici un ramo parlante sia il futuro
indiano-vedico, che un dialetto molto vicino a quelli che si possono
chiamare para-indiani, invece di emigrare verso Est, verso l’Indo e il
Panjab, deviò verso Ovest, presso l’Eufrate e fino alla Palestina, incorrendo
in un destino brillante ma effimero e lasciando sue tracce in molti
scritti cuneiformi. Mentrei loro fratelli orientali, autori degli
inni vedici, sfuggono alla storia, questi, circondali da popoli
archivisti e armati di una scrittura, sono localizzabili e databili con una
grande precisione. Sono loro che hanno fatto tremare e talvolta crollare
antichi reami del Vicino Oriente con le loro bande di guerrieri
specialisti, di cui si c parlato più sopra, quelli che i testi babilonesi
ed egiziani chiamano marianni. Il gruppo più interessante di questi
Para-Indiani è quello che, inquadrando e dirigendo un popolo di altra
origine, ha fondato nella metà del secondo millennio, sulle bocche
deH’Eufrate, l’impero hurri- ta dei Mitanni, che per un certo tempo
Hittiti ed Egiziani hanno dovuto trattare da pari a pari. A
Bogazkòy, negli archivi di un re hittita, gli scavi hanno scoperto in
diversi esemplari il testo di un trattato concluso da questo principe col
suo vicino dei Mitanni, il re Mati- waza. Restaurato sul suo trono dall
'Hittita che gli aveva inoltre donato sua figlia, il Mitan no stabilì
un’alleanza col suo benefattore nella debita forma. Il testo enumera le
maledizioni celesti in cui egli accetta di incorrere se mancherà alla parola.
Secondo l’uso, i due contraenti convocano come garanti tutti gli dèi che i loro
due imperi riconoscono. Fra gli dèi mitanni, vicino a un gran numero di
dei sconosciuti e di altri riconoscibili come divinità locali o
babilonesi, s’incontra una sequenza che è stata immediatamente identificata
dagli indianisti e su cui i filologi hanno lungamente lavorato, esaminando le
particolarità grafiche e grammaticali del testo. Oggi renumerazione si può
rendere con sicurezza nel modo seguente: Gli dèi
Mitra-(V)aruna [variante Uruvcma] in coppia, il dio Indura [var. Inclar],
i due dèi Nàsatyu. Per più di trentanni, senza aver preso in visione i
documenti vedici principali citati, si sono proposte per questa riunione di dèi
delle spiegazioni strane (Schulz) o insufficienti (S. Konow, 1921
). Il danese A. Christensen con un’analisi serrata si è avvicinato alla verità,
riconoscendo che Mitra-Varuna, Indra e i Nàsalya non compaiono a Bogazkòy
come tecnici di atti diplomatici, né come interessali di questa o quella
clausola particolare, ad esempio matrimoniale, del trattalo, ma poiché erano
dèi principali della società arya. Sfortunatamente egli ha pensato questo
stato maggiore solo nel quadro dualista dell’opposizione *asura-daiva
preminente nell’Iran, reale ma meno importante nell’India vedica, c l’ha
ripartito artificialmente, contrariamente alle indicazioni del testo, in due
gruppi, Mitra-Varuna da una parte e Indra-Nàsatya dall'altra.
E solo nel 1940, grazie a un dossierve dico delle tre funzioni e ai
testi vedici che associano gli stessi dèi presenti nel trattalo di Bogazkòy,
che è apparsa l’interpretazione più semplice che io ho riassunto in
questi termini nel 1945: A Boguzkòy, sotto Mitra-Varuna, dèi della
sovranità che patrocinano ciò che è sacro e ciò che è giusto, dèi della
regalità coi suoi necessari ausiliari, sacerdoti e giuristi, Indura e i
Nàsatyu, rappresentanti duplici di uno stesso tipo di dèi, non sono sullo
stesso piano: a un secondo livello vi è Indura, dio della funzione
guerriera e dell’aristocrazia militare dei marianni; poi, a un livello ancora
inferiore vi sono i patroni del terzo-stato, i Nàsatyu. Nominando questi
dèi insieme e in quest’ordine, il re fa due operazioni precise: vincola con
se stesso tutta la società del suo reame, presentata nella sua forma
regolare, ed evoca le tre grandi province del destino e della provvidenza.
Questo corrisponde del resto alla stesura delle maledizioni che accettu di
attirarsi in caso eli spergiuro: tutto passa ampiamente dalla sua persona
al suo popolo e alla sua terra-sterilità, espulsione e oblio, odio
generale da parte degli dèi . Connotati degli dèi caratteristici delle tre
funzioni NELLA RELIGIONE VEDICA Non sarà inutile, per
agevolare il lettore nelle analisi particolari che seguiranno, precisare
ora in qualche parola, nella prospettiva delle tre funzioni, gli
orientamenti e i limiti di questi diversi dèi che gli archivi di Bogazkòy,
confermando le formule degli inni e dei rituali indiani, comprovano essere un
raggruppamento formulare pre-vedico. Ecco come questi valori sono stati
riassunti nel mio piccolo libro Les dieux des Indo-Européens
(1952). Non è un caso se il primo livello è spesso rappresentato da
due dèi: nella sovranità che questi antichi indiani concepivano vi
erano due facce, due metà antitetiche ma complementari e ugualmente
necessarie, incarnate e patrocinate da due re, Mitra e Varuna. Se dal
punto di vista dell'uomo Varuna è un signore inquietante, terribile,
possessore della màyà, cioè della magia creatrice delle forme, armato di
nodi e di reti, che opera cioè avvinghiameli immediati e irresistibili,
Mitra, il cui nome significa Contratto, e anche Amico, è rassicurante e
benevolo, protettore degli atti e dei rapporti onesti e stabiliti,
estraneo alla violenza. L'uno, Varuna, dice un testo celebre, è l’altro
mondo; questo mondo è invece Mitra. Varuna è più despota, più dio stesso
se così si può dire; Mitra è quasi un sacerdote divino. Più che della
prima funzione, Varuna sembra avere maggiori affinità con la seconda,
violenta e guerriera; Mitra, per la tranquilla prosperità che dischiude grazie,
alla terza. L'opposizione è così netta che da tempo si sono potuti
sottolineare i tratti quasi demoniaci di Varuna: non è forse l’àsura per
eccellenza ? E nelle forme post-vediche della religione, come già in
molte strofe del Rgveda, gli usura non sono forse dei misteriosi demoni? In
Ind(a)ra si riassumono tutte altre cose: i movimenti, i seni zi, le
necessità della forza brutale che applicate alla battaglia producono
vittoria, bottino e potenza. Questo campione vorace, armato di folgore, uccide
i demoni e salva l’universo, per compiere le sue imprese si inebria di soma che
dona vigore e furore. Egli è il danzatore, nrtti; il suo splendido e
ardente seguito è formato dai Marut, trasposizione atmosferica del
battaglione dei giovani guerrieri, màrya. Per lui e per essi si esprime una
morale dell'exploit e dell'esuberanza che si oppone all'onnipotenza
immediata e rigorosa, come alla benevolente moderazione che si riunisce
nel primo livello. Gli dèi canonici dell'ultimo livello, i Ndsatya o
Asvin, non esprimono che una parte del dominio complesso tipico della
terz.a funzione. Sono soprattutto datori di salute, giovinezza e
fecondità, dèi taumaturghi soccorritori degli infermi, degli amanti, dei
figli senza fidanzata o del bestiame sterile. Ma la terza funzione è
molto più di tutto questo, non solo salute e giovinezza ma nutrimento,
abbondanza in uomini e in beni, cioè massa sociale e ricchezza economica,
attaccamento al suolo, a questa gioia tranquilla e stabile dei beni, che
si esprime in sanscrito con l'importante radice ksi Anche gli Asvin sono
spesso rinforzati al loro livello dagli dèi e dalle dee che garantiscono
altri aspetti della terza funzione, come la vita animale, l’opulenza, la
maternità ( Pùsan, Puramdhi, Dravinodà, il Signore dei Campi, SarusvatT
ed altre dee madri) o ancora, che presiedono al carattere plurale,
collettivo, totale (Tutti-gli-Dèi, paradossalmente concepiti come una classe
particolare di dei) espresso dal plurale virali, i clan che Rgveda Vili,
35 oppone come etichetta della terza funzione ai singolari neutri
bràh- man e ksatrà, caratteristici delle due funzioni supreme.
Abbiamo qui un buon esempio di struttura, una teologia articolata
difficile da pensare come formata da un assemblaggio di pezzi e frammenti:
l’insieme c il piano condizionano i dettagli; ogni tipo divino nel suo
orientamento proprio esige la presenza di tutti gli altri e non si
definisce che per rapporto agli altri, con la vivacità che solo
l’antitesi produce. Il riconoscimento di questa sequenza divina e del suo
carattere prc-vcdico ha permesso di compiere, nel 1945, un passo decisivo
nell'interpretazione delle religioni iraniche c di rendere conto di un tratto
importante della teologia aveslica da tempo osservalo. 6. Gli dèi indo-iranici
delle tre funzioni nella riforma ZOROASTRIANA Sotto il
nome di Zoroastro si è avuta una profonda riforma che ha notevolmente
alteralo il paganesimo ancestrale, somma di una serie di riforme
progressive nello stesso senso. Tuttavia, considerando il risultato
storicamente attestato di questo processo riformatoree il punto di
partenza preistorico, determinabile poiché era sicuramente vicino allo
schema vedico e pre-vedico oggi riconosciuto, certe linee direttrici del
movimento appaiono immediatamente. Nell’Ave.vra nongàthico, dove è
mitigato l’intransigente monoteismo delle Gùthà e dove, sotto il gran dio Ahura
Mazda - senza dubbio anche lui sublimazione dell’Asura supremo, quello che
l’India chiama Varuna, - ricompaiono delle figure mitiche di alto rango
che portano i nomi dei principali dèi della lista di Bogazkòy (MiGra,
Indra, Nàr|ai0ya). È degno di nota che Mi0ra resti un dio, mentre Indra
(al pari di un altro dio, Saurva, il vedico Sarva, che è in rapporto
differente, ma certo, con la forza e la violenza) e Nàr]ai0ya - enunciati
ancora sempre in quest’ordine come nelle formule indiane in cui i Nàsatya
seguono Indra - sono i nomi dei grandi demoni: segno di una riforma che
(operata da sacerdoti, uomini della prima funzione, e destinata a imporre
uniformemente a tutta la società mazdaica la morale elevata del primo
livello purificalo) ha rigettato, anatemizzato, demonizzato i patroni divini
che tradizionalmente rappresentavano e giustificavano altri comportamenti come
lo scatenamento guerriero c l’orgia, meno sanguinante ma certo non meno
libera, dei culti della fecondità. 7. Le Entità zoroastriane
Quanto alla nuova teologia monoteista allo stato puro, quella delle
Gùthà, essa riposa, in un’altra maniera, sullo stesso schema. Il tratto
saliente è 1’esistenza di un gruppo di Entità astratte associate al Gran
Dio unico. Queste Entità non hanno ancora un nome collettivo, ma sono
quelle che si vedranno in seguilo costantemente raggruppate in un ordine
fisso, sotto il nome di Amasa Spanta, gli Immortali Benefìci (o Efficaci). Si è
discusso a lungo per sapere se nelle Gùthà queste Entità siano già delle
creature o delle emanazioni separate da Dio - una sorta di arcangeli - o
semplicemente degli aspetti di Dio, ma questo non cambia niente quanto al
problema delle loro origini che qui ci interessa. La lingua e lo stile delle
Gùthà sono molto oscuri, di un’oscurità volontaria e raffinata, ma
fortunatamente per orientarsi si dispone di talune considerazioni che non
dipendono dalle incertezze di parola per parola. 1) Il senso e la
struttura grammaticale dei nomi che designano le Entità forniscono
qualche insegnamento. 2) Le strofe che contengono quasi tutti i nomi di una o
più Entità sono assai numerose per permettere delle osservazioni statistiche -
frequenza relativa di ogni Entità, frequenza delle loro associazioni diverse -
che rivelano dei tratti molto importanti del sistema. Per esempio, se
l’intenzione, la forma e lo stile di questi inni lirici non costringono
il poeta a presentare le Entità in lista nel loro ordine razionale, come
faranno più tardi i testi rituali in prosa, tuttavia la tavola delle
frequenze di menzione delle Entità, prese separatamente e in conseguenza
delle importanze relative che i poeti le attribuiscono, riproduce esattamente
l’ordine gerarchico che esse avranno in seguito sotto il nome di Amaste
Spanta: questa gerarchia dunque esisteva già. 3) Un altro elemento
d’interpretazione è fornito dalla lista degli elementi materiali che la
tradizione associerà, parola per parola, alla lista delle Entità,
gemellaggio a cui gli inni stessi fanno allusioni certe e precise. 4) Infine,
nell’À vesta non gàthico, ad ognuna delle Entità è opposto un arcidemone
che in molti casi le chiarifica. Il quadro è il seguente: Entità
astratte Elementi materiali arcidemoni opposti PATROCINATI
VohuManah bue (Il Buon Pensiero) Asa (l’Ordine)
fuoco XsaGra (la Potenza)
metallo Àrmaiti (il Pensiero terra Pio)
Haurvatà( acque (l’Integrità, la Salute) AmarstàJ (la piante Non-Morte,
l’Immortalità) Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni, trasposti
nelle ENTITÀ Arcangeli o aspetti di Dio, in qualunque modo si
interpretino le Entità, questo quadro suscita delle domande: perché
questi gli eletti e Il Cattivo Pensiero Indra
Saurva NàqaiOya La Sete La Fame
non altri che sarebbero più facilmente concepibili? Perché, non
disponendo che di così poco posto, gli autori del sistema ne hanno in qualche
modo sprecato una alla fine, raddoppiando la Salute con rimmortalità, che
quasi senza eccezioni è nominata insieme ad essa? Perché questi posti
precisi - 2, 3, 4 - conferiti ai tre arcidemoni che sono antichi dèi
funzionali condannati dalla riforma? Un confronto delle Entità
zoroastrianc con la lista vedica e mitannica degli dèi funzionali, mostra dove
bisogna cercare la soluzione d’insieme. 1 ) Le ultime due,
fra i cui nomi vi è assonanza e che sono presso a poco inseparabili,
ricordano per le nozioni così simili che esprimono, per gli elementi materiali
associali c per il loro posto gerarchico, i gemelli Nàsatya,
indissociabili, donatori di salute e di vita, ringiovanitori dei vecchi,
tecnici delle virtù medicali contenute nelle acque c nelle piante.
2) Prima di queste, la terza Entità è la Terra in quanto madre, nutrice e
modello della padrona di casa iranica: ricorda così la dea variabile
(Sarasvatl, notoriamente) che si vede talvolta unita ai Nàsatya nelle
enumerazioni vedichc che segnalano la terza l’unzione. Così il dominio
delle tre ultime Entità zoroastrianc, designate tutte da sostantivi femminili,
mentre quelle superiori sono nominale da neutri (cf. in vcdico vis,
femminile, contro brahman c ksutriì, neutri), è quello della terza
l’unzione. In più, nella persona di Àrmaili, è a una Entità della terza
funzione che il sistema oppone il cattivo Nàqai0ya, demonizzazione (ridotta a
un unico personaggio) delle due divinità canoniche della stessa funzione,
i Nàsatya. 3) Al di sopra, la terza Entità si chiama XsaOra, cioè
la stessa parola di ksatni da cui deriverà il nome indiano degli ksatriya c che
lin da Riveda Vili, 35 caratterizza differenzialmente la seconda
l'unzione, come nell’epopea narta degli Osscli la forma a‘xsctrta, }>
fornisce differenzialmente il nome della famiglia degli croi forti. Il metallo
che gli è associato è il metallo in tulle le sue valenze, ma dei lesti
espliciti lo precisano come il metallo delle armi; l’arcidemonc a lui
opposto, Saurva, porla il nome vedico di Sarva, varietà di Rudra,
personaggio complesso che non può qui essere esaminato, ma che nella sua
qualità di arciere c di padre dei Marut è vicino a lui nella seconda
funzione. 4) Le due prime Entità, le più frequentemente pregate o
menzionale, le più vicine a Dio c spesso associate, portano dei nomi
significativi: ASa è la parola avestica (cf. antico-persiano aria-) che
corrisponde al vedico ria, l’Ordine cosmico, rituale, sociale, morale,
patrocinato dagli dei sovrani ma principalmente (e negli epiteti che gli
sono propri) dall’inflessibile e terribile Varuna. Vohu Manah, il Buon
Pensiero, in una serie di passaggi gàthici e in tutta la letteratura non
gàlhica, è presentato, al contrario, come vicino all’ uomo, al pari del
benevolo e amichevole Mitra, vicino all’uomo e a questo mondo, in opposizione a
Varuna che è l’altro mondo. Yasna XLIV contiene a questo proposito
due strofe rivelatrici, le strofe 3 e 4, in cui si divide il cosmo
lontano e il nostro scenario più vicino, tra A3a e Vohu Manah, in modo
così netto come fa Rgveda IV, 3,5 tra Varuna e Mitra (ognuno con degli
ausiliari di cui si parlerà nel capitolo seguente). L’elemento materiale
associalo a Vohu Manah c il bue: ora, fin dall’epoca indo-iranica, si c
da tempo riconosciuto (A. Christensen) che il bue era sotto la protezione
particolare del sovrano Mitra. Infine, la coppia dell’Entità ASa e
dell’arcidemone Indra ricorda che molti inni del Rgveda inscenano delle tenzoni
tra i 1 sovrano Varuna e il guerriero Indra, depositari di due morali, la cui
divergenza sfocia facilmente in un conflitto. 9. Intenzione
di questa riforma zoroastriana Altri particolari dello stesso
genere arricchiscono e sfumano il confronto, ma questi sono sufficienti
per fondare la soluzione del problema delle origini degli Amasa Spanta che io
ho estesamente sviluppato nel 1945 nel mio libro Naissance d’Archanges: la
lista delle sei Entità dello zoroastrismo monoteista c stata ricalcala,
copiata, dalla lista degli dei delle tre funzioni del politeismo indo-iranico;
più esattamente, da una variante di questa lista, come si trova in India, che ai
cinque dèi maschi nominati, per esempio, a Bogazkby, aggiungeva nella
terza funzione, vicino ai Nàsatya, una dea madre. Perché questa copiatura?
Perché Zoroastro o i riformatori assunti sotto questo nome non hanno
semplicemente e puramente soppresso questi falsi dèi»? Senza dubbio
perché, sacerdoti c filosofi, erano attaccati a quella struttura trifunzionale
del loro sapere c ne riconoscevano l’efficacia come mezzo di analisi c
come quadro di riflessione sulla vita; senza dubbio perché gli uomini, gli
Arya verso i quali si indirizzava la loro predicazione e che volevano
persuadere o costringere, erano essi stcssi attaccati a questa forma di
pensiero e bisognava dunque fornire un sostituto esatto di ciò che si
toglieva loro. Infine, senza dubbio perché così presentata la lezione era
più eloquente: uno degli oggetti pratici della riforma, come si è visto,
era distruggere la morale particolare dei gruppi di guerrieri e
allevatori, a vantaggio di una morale ripensata e purificata dalle
funzioni sacerdotali. Elevando, ad esempio, al posto in cui
infieriva sino allora l’autonomo Indra, l’esemplare figura di una Potenza,
XSaGra, devota alla santa religione, si portava ai sostenitori
dell’antico sistema un colpo più rude della semplice negazione del dio pagano o
della semplice soppressione di questa provincia della teologia. In un
certo senso si può dire che la riforma zoroaslriana, nel riguardo delle
Entità, sia consistita nella sostituzione di ogni divinità della lista trifunzionale
con una equivalente, che conservava il suo rango ma che
essenzialmente era privata della propria natura e animalo da un nuovo
spirito, dallo spirilo conforme alla volontà e alle rivelazioni del Dio
unico. Si spiega così l’impressione di sconforto che provano gli
studiosi al primo contatto con le Gcithà: malgrado i loro diversi nomi,
questa Entità che si muovono sembrano equivalenti, intercambiabili. Si
spiega così come lutti gli Amasu Spanta, qualunque sia il livello e il
dio funzionale a partire dal quale ognuno è stato sublimalo, portino
uniformemente a pensare, circa il loro comportamento, al gruppo indiano dei due
primi livelli, agli dèi sovrani, gli Àditya, fra i quali Mitra e Varuna
sono i principali. Questa analogia, che è un fatto incontestabile e
che B. Geiger e K. Barr hanno avuto ragione di mettere in risalto
ampiamente, non ha comunque risolto il problema delle origini delle
Entità: esse non sono gli equivalenti normali e antichi degli dèi sovrani
vedici, ma gli equivalenti degli dèi vedici dei tre livelli, dei tre livelli
energicamente riportati al tipo unico di una santità esigente: dèi sovrani
certo, ma anche, sotto i sovrani, un dio violento e degli dèi vivificanti che
li completano. Gli dèi indo-iranici delle tre eunzioni e le spiegazioni
CRONOLOGICHE Questa spiegazione degli Amasa Spanta,
immediatamente ammessa da molti iranisti, ha ricevuto in seguilo degli
ampiamenti e alcuni li ritroveremo al capitolo seguente (III, § 8). Devo qui
limitarmi e sottolineare la principale conseguenza del punto di vista
comparativo. Riportando ai tempi indo-iranici la lista canonica mitannica
e vedica degli dèi delle tre funzioni con la loro gerarchia, ci è
precluso ogni tentativo di spiegare questa lista e questa gerarchia con
avvenimenti storici o della preistoria recente dei tempi vedici.
Indra non è, non può più essere considerato come un gran dio che,
ad esempio, le condizioni sociali e morali di un’epoca di conquista sarebbero
in procinto di sostituire a un più antico gran dio Varuna che in seguito
avrebbe sviluppato il suo prestigio alle spalle di un più vecchio dio
Mitra. Se così fosse, come comprendere che questa situazione,
effimera per natura, questi rapporti instabili di dèi in crescita e di dèi che
retrocedono si siano fissati e cristallizzati allo stesso stadio di evoluzione,
disegnando lo stesso quadro d’insieme (arrestando per secoli allo stesso
massimo il progresso di uno dei termini e allo stesso minimo la
soppressione dell’altro),pressoi Para-Indiani dei Mitanni, negli inni e
nei rituali propriamente vedici e ancora, nel politeismo iranico che si
lascia leggere in filigrana sotto la teologia di Zoroastro? La
storia non può essere stata in questo punto tre volte identica, aver avuto
degli effetti intellettuali così simili in queste tre società
precocemente separate. La sola interpretazione plausibile è che
egli Indo-Iranici ancora indivisi, qualunque fosse il loro punto di
partenza, erano arrivati ai limiti delle loro Terre Promesse in possesso di una
teologia in cui i rapporti di *Varuna con *Mitra e di *Indracon *Varuna erano
già come li ritroviamo negli inni e, inconseguenza, questi rapporti e il
raggruppamento degli dèi che sostengono, lungi dall’essere il risultato
fortuito di avvenimenti, erano un dato concettuale, filosofico,
un’analisi e una sintesi in cui ogni termine presuppone gli altri, così
fortemente come la destra presuppone e chiama la sinistra, in breve,
presuppone una struttura di pensiero. Le testimonianze che talvolta si è
pensato di ritrovare, negli inni vedici, di un indietreggiamento di
Varuna rispetto a Indra, si spiegherebbero dunque altrimenti: gli inni in
cui questi dèi si sfidanoe in cui oppongono le loro vanterie, l’inno
stesso in cui Indra si glorifica di aver eliminato Varuna, non sono che
messe in scena della tensione che esiste tra 1’aspetto Varuna della funzione
sovrana e la funzione di Indra, e devono esistere affinché la società ne
risenta pienamente i benefici. I miti collegati ai signori
divini delle funzioni devono, almeno in parte, illustrare con chiarezza
la divergenza delle funzioni e devono farlo senza i riguardi e i
compromessi che la pratica sociale impone: è chiaro, ad esempio, che se
la sovranità magica assoluta e la pura forza guerriera fossero portate
agli estremi sfocerebbero in dei conflitti e di fatto in certi momenti
della vita della società a causa di tali conflitti si producono
usurpazioni, anarchia o tirannia. Ed è quello che esprime la teologia dei
rapporti tra Varuna e Indra che risalta dagli inni: nella grande
maggioranza dei casi essi collaborano, ma in qualche testo dialogato i poeti
sono portati a questo estremo, che i politici evitano saggiamente e per meglio
definirli, per vederli e farli vedere, li hanno opposti come rivali. Stando
così le cose, si tratta di un esercizio retorico sicuramente antico,
poiché come si è visto lo zoroastrismo ha scelto Indra scomunicato,
demonizzato, per farne l’avversario parti- col are di Asa, cioè
dell’Entità in cui, purificato, sopravvive *Varuna. Comunicazione tra gli
dèi delle tre funzioni Questa osservazione deve essere completata
da un’altra inversa. La definizione funzionale dei tre livelli divini è
statisticamente rigorosa (la letteratura vedica è assai abbondante perché la
statistica vi possa trovare un appiglio certo), precisa non solo nei
testi dove tali funzioni sono intenzionalmente classificate o perlomeno
raggruppate, ma anchenella maggior parte dei testi in cui un poeta
considerao invoca gli dèi di un solo livello senza pensare agli altri. Ma in ogni
religione le effusioni della pietà, della speranza e della confidenza
talvolta debordano dal quadro teorico del catechismo e questo è
soprattutto vero per l’India, in cui gli sforzi del pensiero, nel corso
dei tempi storicamente osservabili (e questa tendenza è già sensibile negli
inni), hanno così spesso portato a riconoscere l’identità profonda
dell’essere sotto la diversità delle apparenze o delle nozioni e, per
esprimere concretamente questo dogma dei dogmi, a conferire agli uni gli
attributi degli altri. In più, nella pratica, ciò che
interessa l’uomo pio è sicuramente la diversità dei soccorsi che può
ricevere e delle porte mistiche a cui può bussare, ma è anche e
soprattutto la solidarietà e la collaborazione di tutti gli dèi che gli
rispondono. Infine, nelle opere stesse per le quali gli uomini
chiamano gli dèi, capita che la totalità o più parti deH’insiemc
funzionale si trovino interpellati da degli specialisti che gli sono
estranei. L’esempio maggiore è quello della pioggia che gonfia le acque del
suolo, che fornisce direttamente o indirettamente il tipo di ricchezza
pastorale e agricola, la salute stessa, di cui si occupano gli dèi della
terza funzione; ma essa c ottenuta grazie alla battaglia celeste,
strappata sotto forma di fiume o di vacche celesti agli avari demoni
della siccità, e questo è il compito, il gran compito di Indra c dei suoi
aiutanti, 1 ’ orda guerriera dei Marut. Congiungere il cielo e la
terra e assicurare la sopravvivenza del mondo è anche l’interesse degli
dèi sovrani c l’operazione tecnica si svolge infine grazie allo
specialista Parjanya. Ma perché mai il poeta si assoggetterebbe a
lare sempre questa giusta c rigorosa distribuzione dei meriti? L’opera c
comune c quindi la lode è unitaria c non ci si stupirà che il grande
guerriero Indra sia così spesso celebrato, nel risultalo come nella forma
della sua azione, in quanto donatore di fecondità e di ricchezza.
Ma il lettore preoccupalo di teologia non dovrà mai dimenticare il
modo violento che Indra esercita per procurarsi gli armenti o per liberare le
acque: egli non c una Sarasvall al maschile c non è nella cerchia dei Pfisan o
dei Dravinodà. Se una tale équipe divina c così sicuramente esistita tra
gli Indo-Iranici prima della loro divisione, come l’ideologia
tripartita, l’abbiamo visto nel primo capitolo, essa è più antica ancora
c deve essere riportata ai tempi indoeuropei: c allora legittimo c necessario
ricercare nella teologia degli altri popoli indoeuropei antichi, c sufficientemente
conosciuti, se delle équipes analoghe sono attestate dagli usi rituali o
da formulari. Questa ricerca, intrapresa fin dal 1938, ha
immediatamente portalo a risultati nei domini italici e germanici. Ma
allo stesso tempo, in questi domini in cui gli specialisti, nella loro
autonomia, avevano da lungo tempo costruito delle maestose c dotte
spiegazioni di ogni cosa.la nuova interpretazione ha dovuto rimettere i n
questione molti pseudo-fatti, dimostrando la fragilità di molte
pseudo-dimostrazioni, in modo tale che spesso non è stata considerata la
benvenuta. In sintesi, le opposizioni sono soprattutto nate dal
fatto che le filologie separate, sia scandinava che latina, si erano
abituate a pensare cronologicamente - secondo una cronologia ipotetica e
soggettiva - la preistoria, la formazione dei quadri teologici complessi,
presentati dai documenti antichi, mentre questi quadri, guardati in base
alla prospettiva comparativa che a grandi linee viene qui
ricordata, s’interpretano immediatamente, per l’essenziale, come
strutture concettuali che esprimono la distinzione e la collaborazione delle
tre funzioni esplicitate dagli Indoeuropei. Jupiter, Mars, Quirinus e
Juu-,Mart-, VOFION(O)- Le due società italiche di Iguvium e Roma - l’una
umbra e l’altra latina - sulle quali dei testi ben articolati ci
informano, presentano due varianti di una triade in cui i due primi termini
sono identici: Juu-, Mart-, Vofìon(o)- a Iguvium; Jupiter, Mars, Quirinus
nella più antica Roma pre-capitolina. Questo parallelismo incoraggia a
non cercare per la triade romana, com’è d’uso, una spiegazione fondata
sul caso, sugli apporti successivi o sui compromessi di una storia
locale: com’è possibile infatti che due serie di avvenimenti indipendenti
possano suscitare due gerarchie divine e due teologie così simili?
14. La triade precapitolina L’esistenza della triade romana,
che si è anche voluto contestare ma che non è dubbia, è messa in evidenza dal
fatto che questi dèi sono rimasti, lungo tutta la storia romana, serviti
da tre sacerdoti senza omologhi, rigorosamente gerarchizzati ( ordo
sacerdotum: Festo, Lindsay) che sono, al di sotto del rex sacro rum, erede
ridotto e sacerdotale degli antichi re, gli alti sacerdoti dello stato: i trej7
amines maiores, cioè il dialis, il martialist il quirinalis. Questa
triade capitolina, vero fossile nell’epoca storica, respinto dall’attualità di
una triade differente formata da Jupiter O.M, Juno Regina e Minerva, è rimasta
legata a molti rituali e a rappresentazioni evidentemente arcaiche. Una
volta all’anno, in una cerimonia la cui fondazione era attribuita a Numa (Tito
Livio I, 21, 4), i treflciminesMciiores attraversavano solennemente la città in
uno stesso carro e facevano congiuntamente un sacrificio alla dea Fides. I
sacerdoti Salii che conservavano tra i dodici ancilici indiscernibili il
talismano caduto dal cielo cui era stata attribuita la fortuna di Roma,
erano in tutela Jovis, Martis et Quirini (Servio, ad Aen., Vili,
663). Il tragico rituale della devotio, con il quale il generale
romano, per salvare il proprio esercito, si immolava agli dèi
sotterranei contemporaneamente all’esercito nemico, era introdotto da una
formula, da un’enumerazione di dèi che Tito Livio (Vili, 9, 6) ha di
certo trascritto esattamente e che dopo Janus, dio di ogni inizio,
nominava innanzitutto l’antica triade: Giano, Jupiter, Mars Pater,
Quirinus, poi Bellona, i Lari etc. etc. Dopo la conclusione di un
trattato, secondo Polibio (III, 25, 6), i sacerdoti feziali prendevano come
testimoni prima Jupiter, poi Mars e infine Quirinus. Il carattere
comune di queste circostanze, in cui la triade precapitolina è presentata come
tale, è che il corpo sociale di Roma è interessato nel suo insieme e nella sua
forma normale: mantenimento della fides pubblica, senza cui la coesione sociale
è impossibile; protezione continua o urgente; impegno
diplomatico. Il sacrificio a Fides è particolarmente rivelatore poiché è
la sola circostanza conosciuta in cui i tre flamines maiores agiscono insieme;
ma lo fanno in maniera ostentata e l’unità del carro, l’unità
dell’operazione sacra, provano che si tratta di mettere sotto la garanzia
di Fides l’unità delle tre cose che Jupiter, Mars e Quirinus patrocinano
distributivamente; tre cose la cui sintesi o aggiustamento sono
essenziali per la vita di Roma. Quali sono queste cose? Valore di Jupiter
e di Mars nella triade precapitolina La risposta non necessita di
grandi sforzi, sempre che si preferisca il sentimento dichiarato dai Romani stessi
contro le ricostruzioni ardite, fatte da tre quarti di secolo dagli
epigoni di W. Mannhardt o da archeologi poco coscienti dei limiti della
loro arte; sempre che non si dimentichi che questi dèi sono stati
associati e gerarchizzati a Iguvium e a Roma poiché rendevano dei servizi
differenziati e complementari; e infine, a condizione che si attribuisca
un valore particolare, trattandosi di divinità dei tre flamines maìores, a ciò
che insegna l’ufficio di questi sacerdoti. Se si osserva questa regola, e
queste precauzioni, si riconoscerà in primo luogo che Jupiter, e nello
stesso tempo il Dius (nel capitolo seguente si mostrerà il senso di
questa sfumatura), onorato dagli atti del flamen dialis, e dal suo
comportamento pieno di innumerevoli precetti positivi e negativi, è il dio che
dall’alto del cielo presiede all’ordine e all ’osservazione più esigente del
sacro, garante della vita, della continuità e della potenza romana.
Quanto a Marte, imperturbabilmente docile secondo l’insegnamento dei
migliori testi epigrafici e letterari, si vedrà in lui il dio combattente di
Roma, patrono della forza fisica, di quella forza che può, al pari del
vedico Indra, essere orientata in tre o quattro circostanze (non di più)
dal contadino romano, a profitto dei suoi buoi che hanno bisogno di essere
forti, o dei suoi raccolti che tanti geni maligni, visibili o invisibili,
possono minacciare. Questa forza è sempre rimasta la forza che dona
la vittoria, sin dai tempi favolosi delle origini e fino al declino dell’impero,
nella schiacciante maggioranza degli impieghi conosciuti. 16.
QuiRINUS Per Quirino, l’unico invecchiato fra i tre dèi in epoca
storica, gli eruditi antichi hanno generosamente costruito, su dei
pressapochi- smi etimologici allora correnti, delle teorie
contraddittorie che complicano il lavoro; ma fortunatamente disponiamo degli
uffici adempiuti dal suo flamen e di molti altri fatti cultuali, del suo nome e
di qualche indicazione oggettiva degli antichi. Queste
diverse fonti informative forniscono un quadro complesso ma coerente.
I ) Siamo a conoscenza di tre circostanze in cui officia il flamen
quirinalis. Ai Robigalia del 25 aprile sacrifica un cane in un campo nei
pressi di Roma e allontana così (verso le armi da guerra, aggiunge
Ovidio) la ruggine che minaccia le spighe. Ai Consualia del 21 agosto
sacrifica sull’altare sotterraneo di Consus, dio del grano messo in
provvista ( condere ); il 23 dicembre sacrifica sulla tomba di Laren-
tia, la cortigiana che incarna in una celebre storia la voluttà, la ricchezza e
la generosità e che ha meritato di ricevere un culto, legando la sua
fortuna a quella del popolo romano. La festa propria di Quirino, i Quirinatici
del 17 febbraio, coincide con (e probabilmente è) l’ultimo atto dei
Fornacalia, cioè delle feste curiali della torrefazione del grano.
Nelle altre due circostanze rituali in cui appare, Quirino è associato
alla dea Ops, cioè all’Abbondanza rurale personificata: una iscrizione ci
insegna che il 23 agosto, ai Volcanalia, Quirino e Ops figurano tra le divinità
onorate senza dubbio contro gli incendi (C/L). La leggenda che giustifica
l’esistenzadei Salii di Quirino, dimostra che il voto fondante questo collegio
è stato fatto per la stessa ragione del voto che istituiva la festa di Ops e di
Saturno. Tutti questi dati, che costituiscono l’intero dossier cultuale
del dio, attestano che la sua attività è uniformemente e unicamente in
rapporto con le sementi (tre feste, tra cui la sua), con le divinità
agricole Consus e Ops, con la ricchezza e il sottosuolo. Nello stesso
senso si spiega il fatto che nel 390, all 'avvicinarsi dei Galli, quando
bisognava seppellire gli oggetti sacri di Roma, questo compito non
spettasse al rex o al flamen dialis, primi sacerdoti dello stato, come ci
si sarebbe aspettato, ma al flamen quirinalis. 2) Il nome di
Quirino è sicuramente inseparabile da quello dei Quirites, cioè
dall’insieme dei Romani considerati nelle loro attività civili in
opposizione totale a ciò che essi sono in quanto milites (un aneddoto ben
noto di Cesare lo prova). Kretschmer aveva proposto di spiegare Quirites
con curia (volscio couehriu), come gli uomini riuniti nei loro quadri
sociali, essendo QuTrinus (cf. dominus da domus) il patrono di questa
entità della massa sociale organizzata ( *co-uir-io/a -). L’etimologia,
in sé e prsé soddisfacente, è stata resa molto probabile da V. Pisani (
1939) e indipendentemente da E. Benveniste ( 1945), che hanno dimostrato
come il nome dell’omologo di Quirinus nella triade umbra di Jupiter,
Mars, Vofionus possa essere il compimento fonetico rigoroso di un
*Le- udh-yo-no patrono della massa (cf. il tedesco Leute, latino
liberi, massa di uomini liberi, bambino di nascita libera etc.), esatto
parallelo e sinonimo dal latino *Co-uirI-no. Massa sociale e pace sono, al
pari della coltivazione del suolo, aspetti considerati dalla terza
funzione. 3) Ma lo stile di questa pace è marcato dall’impronta
romana e contribuisce al sorprendente meccanismo che in qualche secolo
ha conquistato e romanizzato l’Italia, il Mediterraneo e il mondo antico
e stabilisce il pesante beneficio della pax romana. Per i Romani non si
è mai trattato di una pace gioiosa e cieca ma vigile, in cui le armi
erano deposte ma conservate; in cui i civili Quirites erano anche mobilitabili,
i milites del domani; in cui i comitia legiferanti non erano che l’
exercitus urbanus senza il suo equipaggiamento, ma pronto nei suoi
quadri: una pace, infine, in cui si pensava molto alla guerra. È
questo regime, questo stato di spirito che Quirino governa e che esprime
eccellentemente un tratto del suo statuto: uno dei flamines minores, il
Portunalis - senza dubbio connesso al dio delle porte ( portele ) delle città,
prima di essere quello dei porti (j)ortus ) - ha l’incarico di ungere le
.armidi Quirino (Festo s .v.persillum, Lindsay), cioè di compiere il
gesto di ogni mobilitazione alle armi: le quali possono anche non essere
utilizzate, al momento, ma verso le quali può sopraggiungere
improvvisamente l’esigenza di ricorrervi. Questa ambivalenza Quirites-milites
dei Romani, questa concezione militare della pax romana, spiegano
sufficientemente come Quirino possa essere stato considerato una varietà
di Marte e come i Greci, che concepivano altrimenti l’eipf|VTi, abbiano
scelto per tradurre il suo nome quello di un vecchio dio guerriero, differente
da Ares, ’EvuàA-ioq. E non sarà troppo inutile meditare in questo
contesto su due note del commentatore di Virgilio, Servio, giudicate un
tempo assurde, ma alle quali la nuova prospettiva trifunzionale ha conferito
pieno valore (ad Aen.): Marte è detto Gradivus quando è in furore (Cum
saevit) quando è pacifico (cum tranquillus est), Quirino. A Roma
possiede due templi: uno all’interno della città, in qualità di Quirino,
cioè di guardiano e di dio tranquillo (quasi custodis et tranquilli),'
l'altro sulla via Appia, fuori dalla città, vicino alle porte, in quanto dio
guerriero o Gradivus (quasi bellatores vel Gradivi)... Quirino è il Marte
che presiede alla pace (qui praeest paci) e ha il suo culto dentro Roma
mentre il Marte della guerra (belli Mars) aveva il suo tempio fuori
Roma. Jupiter, Mars, Quirinus e i componenti leggendari di
Roma Questa rapida esposizione, spogliata dalle innumerevoli
discussioni che è stato necessario sostenere su quasi tutti i punti, basterà a
dimostrare qual è, nell’unità armoniosa della triade precapitolina,
l’orientamento proprio e l’equilibrio interno di ogni termine. Cielo ed
essenza stessa della religione come supporto di Roma; forza fisica e
guerra; agricoltura, sottosuolo, massa sociale e pace vigilante: queste
etichette definiscono tre ambiti complementari che disegnano una
struttura sicuramente anteriore a Roma e a Iguvium, dunque italica, e
quindi così vicina alla struttura indo-iranica da dirsi risalente ai
tempi indoeuropei. Non sarà inutile ricordare qui i valori
funzionali di cui appaiono rivestite, nei racconti sulle origini di Roma,
le tre componenti etniche, base leggendaria delle tre tribù: Romolo - rex
et augur - e i suoi compagni sono i depositari del potere sovrano e degli
auspici; i suoi alleati etruschi, sotto il comando di Lucumone, sono gli
specialisti dell’arte militare; i suoi nemici, Tito Tazio e i Sabini,
sono provvisti di donne, ricchi in bestiame e in più detestano la guerra
e fanno di tutto per evitarla. Una variante frequentemente attestata (l’abbiamo
ricordata in I § 7) minimizza la componente etrusca e concentra le due
prime caratteristiche su Romolo e i suoi compagni. Sotto questa
forma la triade precapitolina si divide molto adeguatamente tra i due gruppi di
avversari e futuri associati: Romolo è costantemente il protetto di
Jupiter (gli auspici iniziali; Jupiter Fere- trius e Jupiter Stator in
battaglia) ma è figlio di Mars e trova riuniti in sé i favori dei due
primi dèi della triade; Quirino (in questo insieme leggendario soltanto)
è considerato come un dio sabino, il Marte sabino portato in dote da Tito Tazio
a Roma nella riconciliazione finale, allo stesso modo del nome collettivo dei
Quirites (ma questa pseudo-sabinità dei Qui riti e di Quirino, benché conf orme
al carattere dei Sabini della leggenda, portatori della terza funzione,
si spiega col gioco di parole, popolare tra gli eruditi di Roma,
Quirites-Cures), Si sa che un’altra forma della leggenda,
incompatibile con questa, fa di Quirino il nome postumo di Romolo, riunendo
così sul solo fondatore i tre termini della triade divina in base agli
auspici, alla filiazione e all’apoteosi. 18. Varianti della triade
Jupiter, Mars, Quirinus Della leggenda delle origini, Varrone (De
ling. lat., V, 74) e Dionigi di Alicarnasso (II, 50) ci hanno conservato
un aspetto importante: all’epoca della riconciliazione di Romolo con Tito Tazio
e dell’entrata dei Sabini di Tito Tazio nella comunità, ormai completa
e in via di sviluppo, ognuno dei due re istituisce dei culti e mentre
Romolo fonda solo il culto di Jupiter, Tito Tazio instaura Quirinus e un
gran numero di dèi e dee che hanno rapporto con la vita rurale, la fecondità e
il mondo sotterraneo. Questa tradizione è molto interessante perché
sottolinea ciò che è stato già segnalato a proposito dell’India (II, §
5); la molteplicità degli aspetti, l’inevitabile frazionamento di questa terza
funzione che Tito Tazio incarna, ma soprattutto perché tra gli dèi di
Tito Tazio (che non sono certamente sabini ma romani, a dispetto della
colorazione etnica della leggenda) molti f igurano in terza posizione, nelle
triadi che non sono altro che varianti della triade canonica Jupiter,
Mars, Quirinus, come Ops (abbiamo già segnalato i suoi rapporti con
Quirino) o Flora. 1 tre gruppi di culto della Regia, della casa del
re, che corrispondono senza dubbio alle tre camere che ancora si trovano
giustapposte nelle rovine, sono: 1 ) culti assicurati dai personaggi sacri del
più alto rango, il rex (a Giano) la regina (a Giunone) e la moglie del
flamen dialis (a Jupiter stesso); 2) culti guerrieri del sacrarium
Marti.?, 3) culti del sacrarium Opis Consivae, la dea dell’abbondanza.
Questa collocazione dei tre livelli funzionali manifestava sensibilmente
che la stessa forma di religione che si analizzava e che si dissociava nelle
persone dei tre grandi flamines, creava al contrario una sua sintesi
quando passava nelle mani del rex, quando era il rex che l’amministrava,
non più in quanto incarnazione ma, nel nome di Roma, come gestore delle forze
sacre. Quanto alla triade Jupiter, Mars, Flora (rimpiazzata più
tardi da Venere) sembra essere stata lei a patrocinare i tre carri delle
corse primitive (in relazione con le tre tribù funzionali e i tre colori
bianco, rosso, verde). Flora meritava due e tre volte questo posto,
per il suo potere sulla vegetazione, per la leggendache faceva di lei un
doppione della cortigiana Larentia e perché era assimilata a Roma stessa,
senza dubbio più alla massa romana che all’entità politica patrocinata da
Quirino. Un’altra variante della triade - Jupiter, Mars, Romulus,
Re- mus - presenta Romolo sotto tutt’un altro aspetto (sino alla
fondazione di Roma: gemelli, pastori etc.) e ricorda che la lista canonica
indo-iranica affidava a due dèi gemelli la rappresentazione e la
protezione del terzo livello. Nel paganesimo scandinavo è conosciuta una triade
dello stesso tipo, quel la formata da Ódinn, Pórr, Freyr (o solidalmente, come
ultimo termine, Njòrdr e Freyr). Anche questa triade, al pari di quella
precapitolina romana, è stata spiegata - in modo molto variabile - secondo
schemi di evoluzione, come il risultato di compromessi e sincretismi tra culti
successivamente comparsi. Lacritica a questo tipo di spiegazioni
facili e seducenti, che credono di basarsi logicamente sui dati archeologici,
ma che vi si sovrappongono arlifi cial mente, è stata fatta a più riprese e
dovrà ancora essere fatta poiché l’esperienza dimostra che non vi si rinuncia
volentieri. Nel piano ridotto del presente libro dovremo semplicemente
prescinderne ma dichi arare che da H. Petersen (1876) a K. Helm
(1925,1946, 1953), da E. Wessén ( 1924) a E. A. Philippson (1953), i
numerosi tentativi fatti per dimostrare che la promozione di *Wof3anaz è cosa
recente (sostituito a *Tiuz) o che in Scandinavia il più antico gran dio
è Pórr (sempre che non sia Freyr), non potevano riuscire a dispetto
dell’intelligenza, dell’erudizione e del talento dei loro autori. Ci
limiteremo dunque ai fatti e quindi all’esistenza stessa della triade in
quanto tale. E questa triade di Ódinn, Pórr e Freyr che Adamo di Brema ha
vi sto regnare nel tempio di Uppsala e di cui fornisce la descrizione del
meccanismo trifunzionale (Gesta Hammaburgensis eccl. Pontificium, IV,
26-27); è lei che appare dalle formule di maledizione come dai poemi eddici o
dagli scaldi (Ódinn, Pórr, Freyr, Njòrdr: Egilssaga); è lei che si
sprigiona dal racconto della battaglia escatologica ( Vòluspà, 53-56) in cui
ognuno dei tre dèi lotta contro uno dei maggiori avversari che soccombe sotto i
suoi colpi; è lei che si spartisce i gioielli divini (Skaldskaparmal,
cap. 44) ed è lei che rappresenta l’intera mitologia in cui le altre
divinità - salvo la dea Freyja, strettamente associata a Freyr e Njòrdr e
che li completa - sono come comparse che circondano questi primi ruoli e
che si definiscono in rapporto ad essi. Ci si ricorderà che nella leggenda
delle sue origini Roma si è ridotta spesso a due componenti, benché comprendesse
tre tribù che rappresentavano tre funzioni: il rex-augur Romolo c i suoi
compagni, detentori di cleos et virtutem, la potenza del sacro e i
talenti guerrieri, il dominio di Jupiter e Mars, mentre Tito Tazio e i
suoi Sabini erano quelli che apportavano delle specialità loro connesse,
cioè le donne e le ricchezze, opes. Il quadro scandinavo
della formazione della società divina completa è dello stesso tipo: i
componenti riuniti per una riconciliazione ed una fusione conseguente a una
guerra terribile, sono due, gli Asi e i Vani: tra gli Asi Ódinn è il
capo, mentre Pórr è il più eccelso dopo di lui; trai Vani sono invece
Njòrdr, FreyreFreyjaipiù eminenti e i soli nominati
individualmente. La distinzione funzionale degli Asi c dei Vani è
chiara e costante. I Vani, specialmente i due dèi e la dea che ne incarnano al
massimo la tipologia, anche se capita loro di essere o di fare altre
cose, sono innanzitutto dei ricchi (Njòrdr, Freyr, Freyja), donatori di
ricchezze e patroni del piacere (Freyr, Freyja), della lascivilà stessa,
della fecondità e della pace (Nerlhus, Freyr-Fródi) csono legati spazialmente
ed economicamente al suolo che produce i raccolti (Njòrdr, Freyr) o
al mare in quanto luogo della navigazione e della pesca (Njòrdr).
A questi tratti dominanti si oppongono quelli dei principali Asi.
Né Ódinn né Pórr certamente si disinteressano delle ricchezze del suolo, ecc.,
ma da quando la mitologia scandinava ci è conosciuta i loro centri sono
altrove: l’uno è un mago potente, signore delle rune, capo della società
divina; l’altro è il dio col martello, nemico dei giganti ai quali
peraltro assomiglia (si pensi al suo furore); è il dio tuonante (nel suo
stesso nome) che accudisce il contadino e gli dona la pioggia e anche nel
folklore moderno è come un solloprodollo della sua bellicosità in maniera
atmosferica e violenta, non terrena c progressiva. Il senso da
attribuire a questa distinzione tra Asi e Vani è il problema centrale che
domina tutte le interpretazioni delle religioni scandinave c di quelle
germaniche, anche laddove le spiegazioni cronologiche c storiche (di storia
immaginaria) affrontano con vivacità le spiegazioni strutturali e
concettuali. I fatti riuniti dall’inizio di questo libro apportano un grande
sostegno agli strutturalisti: il parallelismo delle teologie indo-iraniche
e italiche ci fa precisamente attendere, presso i popoli imparentati,
una teologiaed unamitologiadel tipo presentato dagli Scandinavi, che
oppone per meglio definirli e che ricompone per creare un insieme vitale:
1 ) delle figure divine che patrocinano ciò che è sotto il magistero
degli Asi, Ódinn e Pórr, l’alta magia e la sovranità da una parte, e la
forza brutale dall’altra; 2) delle figure divine del tutto differenti che
patrocinano ciò che è sotto il magistero dei tre grandi Vani, la fecondità,
la ricchezza, il piacere, la pace, etc. etc. 21. La guerra
degli Asi e dei Vani e la guerra dei Protoromani e dei Sabine formazione
di una società TRIFUNZIONALE COMPLETA La frattura iniziale,
che separa i rappresentanti delle due prime funzioni e quelli della
terza, è un dato indoeuropeo comune: lo stesso sviluppo mitico
(separazione iniziale, guerra e poi indissolubile unione nella struttura
tripartita gerarchizzata) si ritrova non solo a Roma, sul piano umanoenei
racconto delle origini dell’Urbe(guerrasabinae sinecismo), ma in India,
dove è detto che gli dèi canonici del terzo livello, gli Asvin, non erano
inizialmente degli dèi, ma entrarono nella società divina come terzo
termine al di sotto delle due forze (ubhe virye) solamente in seguito a
un conflitto violento conclusosi con una riconciliazione e
un’alleanza. Come si potrà prevedere, i dettagli di queste leggende
sono stati scelti e raggruppati in modo tale da mettere in rilievo le funzioni
rispettive delle diverse componenti della società e i procedimenti specifici
che queste funzioni attribuiscono ai loro rappresentanti. L’analisi comparata
della leggenda romana sulla guerra iniziale tra Romani e Sabini e della
leggenda scandinava sulla prima guerra nel mondo degli Asi e dei Vani (a
cui bisogna fare risalire, contro E. Mogk, le strofe 21-24 della
Vòluspà), ha rivelato un interessante parallelismo e conferito un senso
sia all’una che all’altra. Ambedue sono formate da un dittico, da
due scene in cui ciascuno dei due campi nemici ha il vantaggio (vantaggio
limitato e provvisorio poiché è necessario che il conflitto finisca senza
vittoria e con un patto liberamente consentito) ed è debitore di questo
vantaggio alla sua specificità funzionale. Da una parte i ricchi e
voluttuosi Vani che corrompono daH’interno la società (le donne!) degli
Asi, inviando loro la donna chiamata Ebbrezza dell’Oro; dall’altra parte
Ódinn che lancia il suo famoso giavellotto di cui è noto l’irresistibile effetto
magico e di panico. Allo stesso modo i ricchi Sabini, da una parte,
ottengono quasi la vittoria occupando la posizione-chiave
dell’avversario, non col combattimento, ma acquistando con l’oro Tarpeia
(in una variante, grazie all’amore cieco di Tarpeia per il capo sabino);
dall’altra parte Romolo, grazie a un’invocazione a Jupiter (Stator)
ottiene dal dio che l’armata nemica vittoriosa venga improvvisamente, e
senza motivo, invasa dal panico. 22. Sviluppo della funzione
guerriera presso gli antichi Germani Bisogna comunque
segnalare un fatto di enormi conseguenze che ha determinato ben presto, e
non solamente presso gli Scandinavi ma fra tutti i Germani, una
deformazione della struttura delle tre funzioni e della teologia
corrispondente. Da nessuna parte, certamente né a Roma né in India,
gli dèi del primo livello, Varuna e Jupiter, si disinteressavano della
guerra: se è vero che non combattono propriamente come Indra o Marte è
anche vero che mettono le loro magie al servizio della parte che
favoriscono e sono loro, in definitiva, che attribuiscono la vittoria, la
quale, se è in effetti conquistata con la Forza, interessa soprattutto
l’Ordine per le sue conseguenze. Non ci si sorprende quindi
di vedere Ódinn intervenire nelle battaglie, senza combattere molto, ma
gettando sull’armata che ha condannato un panico paralizzante, il legame
dell’esercito herfjò- \)urr (cf. i lacci di cui è armato Varuna). Ma è
certo che la parte della guerra nella sua definizione è di gran lunga piu
considerevole che nella definizione dei suoi omologhi vedici o romani: in
lui - e anche nell’omologo germanico di Mitra che esamineremo nel
prossimo capitolo e che è interpretato da Tacito come Marte - si constata più
di una osmosi, un vero e proprio ribaltamento e straripamento della
guerra nell’ideologia del primo livello. All’epoca in cui si sono formate
le loro epopee, gli eroi odinici - Sigurdr, Helgi e Haraldr Den-
te-da-Combattimento - sono prima di tutto dei guerrieri; e nell’aldilà
sono i guerrieri morti, in un’eternità di giochi e di gioie guerriere,
che Ódinn accoglie nel proprio Valhòll. In compenso, almeno in certi
luoghi, è Pórr, il nemico dei giganti, il combattente solitario, ad
averperso il contatto con la guerra (almeno quella combattuta dagli
uomini) ed è sopratutto il felice risultato dei suoi duelli atmosferici
contro i giganti e i flagelli, la pioggia benefica per le messi, che ha
giustificato e popolari zzato il suo culto e che talvolta ha spodestato Freyr
dal la parte agricola della sua provincia. Questa doppia evoluzione sembra
essere stata spinta all’estremo tra gli Scandinavi più orientali, presso i
quali così Adamo da Brema (IV, 26-27) definiva i tre dèi della triade di
Uppsala. Thor presici et in aere, qui
tonitrus et fulmina, ventos ymbre- sque, serena et fruges gubernat. Alter
Woclan, id est furor, bella gerit hominique ministrai virtutem contro
inimicos. Tercius est Fritto (cioè Freyr), pacem voluptatemque largiens
mortalibus... Sipestis etfames imminet, Thorydolo lybatur,
sibellum, Woda- ni, si nuptiae celebrandae sunt, Fricconi. Anche se si
ammette che la teologia di ognuno di questi tre dèi di Uppsala fosse più
ricca, e più variegata di quanto non appaia nelle brevi osservazioni di
Adamo da Brema (che ha preso Pórr come dio principale poiché figura nel
mezzo, al secondo posto, ed è armalo di un martello che ha scambiato per
uno scettro e perché, tuonante, lo ha as- similato a Giove), non vi è
ragione di rifiutare la sua testimonianza: lo scivolamento della guerra
nel dominio di Wodan e lo scivolamento inverso di Thor al servizio dei
contadini sono dei fatti. Ma se ne comprende l’origine (come su altri
punti relativi alla Scandinavia) e dove lo stesso fenomeno si osserva, i
valori dei tre dèi restano essenzialmente vicini a quelli dei loro omologhi
indiani e romani. Stato del problema presso i Celti, i Greci e gli
Slavi Sulle altre parti del dominio indoeuropeo, a causa di diverse
ragioni - cronologia troppo recente, imprestiti massicci da sistemi religiosi
non indoeuropei - è difficile constatare immediatamente le strutture teologiche
corrispondenti alle tre funzioni: sono necessari quindi dei ragionamenti e
di conseguenza I ’ arbitrio è in agguato. Questo stato di cose è
particolarmente spiacevole nell’ambito greco o celtico in cui
l’informazione è tuttavia molto abbondante: bisogna rassegnarsi. In
Grecia, dove la religione non è essenzialmente indoeuropea, il
raggruppamento delle dee nella leggenda del pastore Paride resta ad
esempio un gioco letterario e non forma evidentemente un’autentica
combinazione religiosa. In Gallia, dove la classificazione degli
dèi riportata da Cesare (e confermata dai testi irlandesi sui Tuatha Dé
Danann) ricorda per molti versi la struttura delle tre funzioni,
quest’analogia con la filiazione, e i ritocchi che suggerisce, suscitano
più problemi invece che risolverli. Quanto al paganesimo degli Slavi,
questi sono così poco conosciuti perché i tentativi di spiegazione
tripartitapossano essere altra cosa che brillanti ipotesi. Ma
la concordanza delle testimonianze sui tre domini, indo-iranico, italico e
germanico, in cui le antiche religioni sono state descritte in maniera
sistematica dai loro stessi rappresentanti, è sufficiente a garantire che
sin dai tempi indoeuropei l’ideologia tripartita aveva dato luogo a una
teologia della stessa forma; a un gruppo di divinità ge- rarchizzate che
esprimevano i tre livelli; e ad una mitologia eziologica che giustificava la
differenza e la collaborazione di queste divinità. Divinità che
sintetizzano le tre funzioni Ci limiteremo a segnalare nella teologia un
altro utilizzo frequente della struttura tripartita, non analitico ma
sintetico. Vi sono infatti divinità che sia i saggi che i fedeli tengono a definire,
in opposizione agli dèi specialisti delle tre funzioni, come onnivalenti,
domiciliate ed efficienti sui tre livelli. Questo tipo di espressione si
è prodotta indipendentemente in diversi luoghi, per esempio nelle civiltà
mediterranee, quando una divinità patrona o eponima di una città ha
assunto un’importanza a svantaggio di altri dèi o di équipes divine:
così, presso gli Ioni di Atene, dove sembra che una teologia tripartita
(Zeus, Athena, Poseidone, Efesto) concernesse innanzitutto le quattro
tribù funzionali (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), è Atena
che in epoca storica domina la religione. Così, seguendo la felice
osservazione di F. Vian, durante le piccole Panatenee, ella riceveva
successivamente degli omaggi divini in quanto Hygieiu, Polias e Niké,
vocaboli che evocano le funzioni di salute, sovranità politica e vittoria. Allo
stesso modo, nello zoroastrismo si è prodotta la tripla titolatura Buone,
Forti, Sunte dei geni tutelari, le FravaSi, che sono in effetti trivalenti. Dee
trivalenti. Tuttavia, tra queste figure sembra che bisogni far risalire
alla comunità indoeuropea un tipo di dea la cui trivalenza è così messa
in evidenza e che è intenzionalmente congiunta agli dèi funzionali:
questa dea, che per il suo stesso sesso e per il suo punto d’inserimento nelle
liste è connessa alla terza funzione, è tuttavia attiva in tutti e tre i
livelli e sembra che la sua presenza nelle liste esprima il teologhema di
una multi valenza femminile che raddoppia la molteplicità degli specialisti
mascolini.Abbiamo ricordato più sopra che talvolta, nelle liste trifunzionali
vediche, la dea-fiume SarasvatTè associata agli ASvin: ora, gli epiteti di
SarasvatT, benché non raggruppati in formule, la definiscono chiaramente
come pura, eroica, materna. Indipendentemente l’uno dall’altro, sia io
che H. Lommel abbiamo proposto di interpretare come un’omologa di
SarasvatT e come l’erede della stessa dea indo-iranica, la più importante
delle dee del \'Avestu non-gàthico, anch’essa dea-fiume, Anàhità; ora, il
nome completo e triplice di Anàhità, fa evidentemente riferimento alle
tre funzioni: l’umida, la forte, l’immacolata, AradvT, Suri, Anàhità. Ed
è ancora per sublimazione dello stesso prototipo che io penso che lo zoroastrismo
puro abbia creato la sua quarta Entità, Àrmaiti, che seppur ordinariamente
al terzo livello (dopo XsaSra, Potenza e prima di
Haurvatà(-Amar,?là(, Salute e Immortalità) e benché non in possesso di
una tripla titolatura, porta un nome che significa Pensiero-Pio, aiuta Dio
nella sua lolla contro il Male ed ha come elemento materiale la terra
nutrice differenzialmente associata. Nel Lazio, a Lanuvium, Giunone
era onorata sotto il triplice epiteto di Seispes Mater Regina, i due
ultimi epiteti riportano alla teologia della Giunone romana (Lucina, etc.;
Regina) patrona della fecondità regolata c dea sovrana; ma a Roma la
specificazione guerriera manca, mentre era in evidenza nella figura di
Giunone lanuvia e certamente era espressa dal primo epiteto, l’oscuro Seispet-
(rom. sospit-, da *sue-spit-? cf. Indra svà-ksatra, svu-pati,
eie.). Infine, nel mondo germanico, considerando i Germani continentali,
sembra che una dea unica e polivalente (se non onnivalente), *Friyyò
fosse congiunta ai multipli dèi funzionali di cui abbiamo parlato più sopra; se
la specificazione guerriera non è attestata, il poco che si sa di essa la
mostra sovrana (Frea, nelle leggende che spiegano il nome dei Lombardi) e
Venus ( *Friyya-dcigaz, Freitag), Presso gli Scandinavi questa multi
valenza è esplosa: la dea si è raddoppiata in Frigg (esito regolare di
*Friyyó in nordico), sposa sovrana del signore magico Ódinn, e in Freyja
(nome rifatto su Freyr), dea tipicamente Vani, ricca e voluttuosa.
In Irlanda un’eroina, Macha, senza dubbio un’antica dea eponima del luogo
più importante fra tutti, Emain Macha, capitale dei re pagani del 1 ’
Ulster con 1 a piana che la circonda, dovette avere pri miti- vamente
questo carattere sintetico, analizzato in base alle tre funzioni, poiché
è sfociata in tre personaggi, in un trio di Macha ordinato nei tempi. Una
Veggente, sposa di un uomo dei primi tempi chiamato Ne- med, il Sacro,
che muore per un’emozione profonda in seguito a una visione; poi una
Guerriera-Campionessa che fa del proprio marito il suo generalissimo e
che muore uccisa; infine una Madre che accresce meravigliosamente la
fortuna del proprio marito, un ricco contadino, e che muore durante l’orribile
parto di due gemelli. Ma non è più possibile determinare quali rapporti avesse
nella religione con gli dèi maschi della stessa funzione. 26. Le
teologie tripartite e i loro elementi Dopo aver preso una visione
globale dei sistemi teologici indo-iranici, italici e germanici che esprimono
l’ideologia delle tre funzioni, abbiamo riconosciuto che sono abbastanza
paralleli per giustificarne la spiegazione nei termini di un’eredità
indoeuropea comune. Non è che l’inizio: senza perdere di vista la
struttura d’insieme, l’esplorazione dovrà concentrarsi successivamente su
ognuno dei tre termini; esaminando la funzione della sovranità religiosa
in se stessa, poi quella del la forza e della fecondità e infine, tram
ite la comparazione tra i dati indiani, iranici, latini etc., cercare di
determinare come gli Indoeuropei concepivano, suddividevano e
utilizzavano ciascuna di esse. Note ai paragrafi Sulla
necessità, per lo storico delle religioni, di non perdere mai di vista e di
riconoscere le strutture teologiche di cui studia i frammenti, vedi
principalmente L’heritage..., cap. I (Matièrc, objet et moyens de étude) -
al quale rimando una volta per tutte circa le questioni di metodo - e
DIE, cap. II (Structure et cronologie), Il riconoscimento del
raggruppamento arcaico Milra-Varuna Indra e i Nàsatya, l’inventario delle
circostanze in cui appaiono, sono state fatte progressivamente in:
JMQ,59-60 (= JMQ it,38-39); NA 41-52; Tarpeia, 1947,45-56 (dove sono studiati
in dettaglio sei inni del Riveda fondali su questa struttura);
Mitra-Varuna, Indra et le Nàsatya, com- me palrons des trois fonclions
cosmiqucs et sociales, Studia Linguistica; JMQ IV,13 - 35 ( Les dieux palrons
des trois f onctions dans le Rg Veda et dans le AlharvaVeda); in queste
due ultime esposizioni la divisione degli dèi in tre gruppi Aditya,
Rudra, Vasu, è interpretata nello stesso senso (cf. DIE). La
discussione delle spiegazioni anteriori e l’interpretazione nuova formano
il primo capitolo di NA (les dieux Arya de Mitani), Il carattere indiano
degli Arya di Mitani è reso probabile dalla forma del numero uno (aika:
sanscrito eka, contro l’iranico comune *aiva ); P.E. DUMONT ha
interpretato senza difficoltà tutti nomi d’uomini conosciuti grazie al
vcdi- co (JAOS). In seguilo G. Widengren ha sottolineato in questi
nomi propri c nella variante u -ru- wa - na del nome di Varuna (nel
trattato di Bogazkoy), qualche fatto fonetico che rinforza questo parlare
di iranico: Numen, II, 1955,80-81 e note 167, 170. § 5.
DIE.pp. 11-14. Un gruppo di raffigurazioni su una faretra cassila c stata
interpretata come rappresentante in alto Mitra c Varuna, nel mezzo Indra
(o Vàyu) e in basso i gemelli Nàsatya in una scena di medicazione miracolosa
conosciuta dal Rg Veda : Dieux cassiles et dieux vediques, à propos d’un
bronze du Lourislan RHA, 52, 1950,18-37. Riprenderò prossimamente il problema a
partire da una migliore fotografia (la scena c le insegne di Mitra e
Varuna devono essere spiegate altrimenti: non vi sono degli altari ma un
vaso raffigurante una lesta di leone) e con degli altri documenti sui
gemelli § 6-9. La spiegazione degli Amai a Spanta costituisce la
materia di NA, cap. II-V; la quarta Entità, Àrmaiti, che sembrava creare
allora difficoltà, è stala spiegata in seguito in Tarpeia, cap. I (=JMQ
il.). Questa interpretazione è stata accettala e sviluppata da J. De MENASCE,
Une legende indo-iranienne dans l’angelologie judéo-musulmane: à propos
de Hàrut-Màrut, Études Asiatiques (svizzeri) I, 1947,10-18; J.
DUCHE- SNE-GUILLEMIN, Zoroastre, 194847-80; Onnazd et Ah rimati, 1953,
23; The Western Response to Zoroaster, 195838-51 (vedi specialmente 45-46
contro I. Gcrshevilch e W. Lcntz); S. WlKANDER (vedi sotto, nota al III
cap. § 13); J.C. TAVADIA From Aryan Mythology to Zoroastrian The- ology,
aReviewofDumézil’sResearches, ZDMG, 103, 1953,344-353; K. Barr, Avesta,
1954,52-59 e 197; G. WlDENGREN, Stand und Aufga- ben
deriranischenReligionsgeschichte, Numen, I, 1954,22-26; S. Har- TMAN in
molti articoli specialmente Ladisposition de l’Avesta, Orientatili
Suecana, V, 1956,30-78; e inoltre da altri importanti iranisti. È stata invece
rigettata senza discussione da I. Gerschevitch e W. Lentz e non è menzionala
nei libri di W.B. Henning e R.C. Zaehner. § 10. Questo tipo di
spiegazione è stata estesa alle Entità già gathiche come SraoSa e ASi
(considerale come sublimazioni degli dèi prezoroastriani equivalenti agli
dèi vedici Aryaman e Bhaga): vedi qui sotto, III, § 8; poi al non gathico
Rasnu e alla Fravasi (considerate come figure purificate corrispondenti a Visnu
e ai Maj'ut): Visnu et les Marut à travers la réforme zoroa- striennc,
JA, CCXLII, 1953,1-25; infine a Busyastà (considerata come una
demonizzazione della dea Aurora): Déesses latines et mythes vécliques DIE Gli
attacchi più vivi sono venuti dai latinisti della scuola primitivi- sta;
vedi a proposito di H.J. ROSE, RHR e Déesses latines..., 1956,118-123. I
germanisti ostili hanno in generale preferito “ignorare”; tuttavia ho
recentemente avuto una gradevole discussione - la prima - con K. HELM, BGDSL,
77, 1955,347- 365; 78, 1956, 173- 180. Un grande numero di risposte alle
obiezioni si trovano disseminate nelle prefazioni, note e appendici dei miei
libri. Le ultime in ordine di tempo che hanno un valore generale sono;
Examen de criliques réccnles; John Brough, Angelo Brelich, RHR, CLII,
1957,8-30. § 13.1 latinisti che dissertarono su Quirino dimenticano
solitamente Vo- fionus che riduce di troppo la loro libertà d’ipotesi. Perla triade umbra vedi Remarques sur les dieux Grabovio - d’Iguvium,
RP, XXVIII, 1954, 225-234 e Notes sur le début du riluel d’Iguvium, RHR. La triade
romana è comparsa proprio a fornire il titolo comune degli studi sulle
tecnologie trifunzionali indoeuropee, pubblicati dal 1941 al 1948.
§ 14. L’interpretazione è stata presentata per la prima volta in un
articolo che conteneva in potenza tutto il lavoro ulteriore: La
préhisloirc des flami- nes majeurs, RHR. Sono comparsi in seguito
JMQ, cap. II c III, poi lutto NR; riassunto in L'hèritage...72-101.
§ 15. Contro il Marte agrario vedi NR,38-71 (=JMQ it., 191-217) e
Rituels...78-80. Su Jupiter sovrano vedi NR.,71-76 (= JMQ it.218-222); è
importante non vedere in Giano (dio dei prima, di tutti i prima) un
predecessore né un doppio di Jupiter (dio dei summit): DIE, 91-102
eJupiler-Mars-Quirinus et Janus, RHR, CXXXVIII, 1951, 209-210; sugli dèi dei
prima indo-iranici, Tarpeia. La spiegazione del complesso Quirino è stata
formata in tre tempi: 1) JMQ,72-77, 84-94, 143-148, 182-187 (=JMQ
it„49-53, 58-66, 101-104); 2°), NR,194-221 (=JMQ it.,264-285) e Tarpeia, 176-179;
3°) JMQ,155-170 (specialmente167, 169 e n. 2, 170). Vedi anche L. GERSCHEL, Saliens de Mars et Saliens de Quirinus, RHR.
Ho sostenuto numerose discussioni, special- mente: La triade
Jupiter-Mars-Janus?, RHR, CXXXII, 1946,115-123 (con V. Basanoff); REL,
XXXI 1953,189-190 (con C. Koch);A propos de Quirinus, REL, XXXIII,
1955,105-108 (con J. Paoli); Remarques sur les armes des dieux de
troisième fonction, SMSR, XXVIII (con A. Brelich). Generalmente ogni
nuovo avversario non tiene alcun conto delle risposte fatte ai
precedenti; è ancora il caso di J. BAYET, Histoire psychotogique et
historique de la religìon roinaine, 1958,118 (che tratta anche della
triade romana JMQ senza considerare la triade umbra di Jupiter Mars
Vofionus). Per l’assimilazione di Romolo a Quirino, le considerazioni
nuove riportate qui sotto incoraggiano a dargli un senso più profondo e
una data più antica di quanto non si facesse generalmente (vedi La
bataille de Sentinum, remarques sur la fabrication de l’histoire romaine
Annales, Economie, Sociétés, Civilisations.VU, 1952,145-154). Sulle etimologie
proposte per Vofionus, vedi RP, XXVIII, 1954,225, n. 4 e226, n. 1; la
spiegazione con *leudhyono- sitrova in Pisani Mytho-etymologica, Rev.
desEtudes Indo-Européennes (Bucarest), I; 1938,230-233 e in BENVENI- STE,
Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques, RHR, CXXIX,
1945,7-9. § 17. Una questione connessa è quella della realtà o
della non realtà di una componente sabina alle origini di Roma. Questa è
secondaria rispetto al nostro punto di vista, che è quello dell’ideologia e non
dei fatti storici, e in più, una risposta affermativa non genererebbe
affatto l’interpretazione funzionale delle leggende sulle origini, di cui
bisognerebbe solamente ammettere (la qual cosa è ordinaria) che
presentano l’avvenimento ripensato in un quadro ideologico ed epico
preesistente, tradizionale; ma è anche chiaro che questa interpretazione
strutturale e unitaria che noi formiamo non rinforza la tesi
dell’autenticità storica del sinecismo originale che incontra diverse
difficoltà. In L’heritage, si troverà riassunta la lunga discussione del
capitolo III di NR (Latins et Sabins, histoire et myhte non tradotta in
JMQ it.: vedi263), condotta principalmente in funzione della tesi di A.
PlGA- NIOL, Essai surlesorigines de Romei 1915) che dominava allora gli
studi. Da quattordici anni che questa discussione è stata pubblicata ho
letto molte affermazioni calorose, arroganti e irritate sulla presenza sabina
lontana dalla fondazione di Roma, ma non ho visto segnalare alcun fatto
archeologico che non fosse già stato prima esaminato e che facesse
pendere decisamente la bilancia; cf. JMQ IV,182 (sugli argomenti che si sono
voluti demandare alla strana disciplina della geopolitica) e RE XXXIII,
1955,105-107 (su un curioso argomento che J. Paoli ha creduto di poter
ricavare dalla triade umbra). Quanto a me, continuo a trovare soddisfacente nel
suo principio la spie- 83 gazione data nel 1886
della leggenda del sinecismo latino-sabino da T. MOMMSEN, Die
Tatiuslegende, ripreso in Gemmiti. Schr. IV,22-35. In una memoria
intitolata Céramiques des premiers siècles de Rome, VIII-V siècles,
manoscritto che si trova analizzato nei Comptes Renclus de l’Académie des
Inscriptions, 1950,287-295, F. Villard si è pronuncialo per l’omogeneità
della popolazione romana dell'ottavo secolo. Sullo Jupiter di Romolo e gli dèi
di Tito Tazio, vedi JMQ, 144-146 (= JMQ it.,101-012) (dove bisogna correggere
nella citazione di Varronc Vedici Ioni in Vedi otti) e La saga de
Hadingus, 1953,109-110. Per la triade
Jupiter, Mars, Ops vedi Lcs cultes de la Regia, les trois fonclions et la
triade JMQ, Latomus. Per la triade Jupiter, Mars, Flora (o Vcnus),
vedi Rituels...,54 e60, note 37-40. Per Romolo-Remo come corrispondenti
dei Nàsatya vedici, vedi qui sotto III, § 24. Inoltre l’utilizzazione
delle tre funzioni c della triade JMQ da parte di Martianus Capella è
stata esaminala in Remarques sur Ics trois premières regione s erteli de Mart.
Cap., Coll. Latomus XXIII ( =Honim. à M. Nieder- memn)
1956,102-107. § 19-20. Jan de Vrics è stalo condotto dalle sue
ricerche a una visione strutturale delle religioni germaniche. Quando è
uscito MDG, 1939, egli avvertì la parentela della mia concezione e della sua e
la complementarietà dei nostri argomenti. Da allora, benché divisi su
qualche dettaglio, siamo d’accordo, credo, su tutte le maggiori
questioni: che ci si riporti alle sue chiare, obiettive c generose esposizioni
del suo Altgermanische Relìgionsgestiti cht e. 2“ cd., I c II, 1956-1957 c ai
suoi articoli: Dcr heutige Stand der gcrmanischen Rcligionsforschung,
Gemi. - Roman. Monatsschrift, N.F., II, 1951,1-11 ; e L’élat acluel
dcséludes sur la rcligion germanique, Diogene, 18, aprile 1957,1-16; altri
articoli che toccano le questioni qui trattale: La valeur religicuse du mot
irmin, Cahiers du Sud, n. 314, 1952, 18-27; Die Gotlcrwohnungen in den
Grlmmismàl, Atta Philol. Stand., 1952,172-180; La loponymiect
l’hisloire des religions,RHR, CXLVI, 1954,207-230; Uber das Wort Jarl und
seine Vcrwandlen, NC, VI, 1954,461-469. Nell’opera collettiva Deutsche
Philologie ini Aufriss, Miinchen, 1957, la sezione Die altgermanische
Religion (col. 2467-2556), redaltada Werner Bentz, dà del paganesimo
germanico, e specialmente scandinavo, un’eccellente interpretazione, originale
c ripensata, nel quadro che io ho proposto. E. POLOMÉha lavorato in
questo stesso schema: L’élymologic du terme germanique *ansuz, dieu
souverain, Études Germuniques e La religion germanique primitive, rcflccl d’une
slruclurc sociale, Le Flamheau.1 miei MDG, oggi felicemente esauriti, hanno
sofferto di essere stali pubblicati agli esordi delle ricerche sulla
tripartizione indoeuropea: non era che una prima vista d’insieme e un programma
carico d'ipotesi di lavoro, alcune delle quali si sono verificate c altre
no; presto pubblicherò una seconda edizione interamente rimaneggiata. Non
ho qui ancora il posto per esaminare la teologia dei Germani continentali
(specialmente Tacito, Germania, 9, in cui i tre livelli sono chiari: Mercurio
c Marte, Ercole, Iside): vedi DIE,23-26. PerÓdinn bisogna aggiungere
l’importante confronto col polivalente Rudra dell’India (R. Otto, 1932):
vedi J. De Vries Sulla guerra degli Asi e dei Vani paragonala a quella
dei Latini di Romolo e dei Sabini, vedi JMQ, cap. V e Tarpeia (= JMQ
it.,pp. 108-164) in cui si trova ampiamente rifiutala l’interpretazione
in giganto- machia della Voluspà, 21-24 avanzata da E. MOGK, FFC, 5 8,
1924, e la presentazione generale in L’heritane...,125-142. § 23.
Perii giudizio di Paride vedi soprai § 23. PerglidèigallidiCesaree i loro
corrispondenti irlandesi nei loro rapporti (in ogni caso molto alterati)
con la tripartizione, vedi MDG,9, NR,22-27 eP.-M. DuvaL, Lesdieux de la
Gaule, 1957,4, 19-21, 31-33, 94. R. JAKOBSON ha tentato di interpretare nel
quadro delle tre funzioni il poco che si conosce degli dèi slavi: art. Slavic
Mythology in Funk and Wagnalls StandardDictionary pfFolklore, II,
1950,1025-1028. Sembra che il paganesimo dei Baiti possa essere un giorno
favorevole alla nostra inchiesta. § 24. Sulla tripla titolatura di
Alena alle Panaatenec, vedi F. VlAN, La guerre dea géants, le mytheavant
l’époque hellenistique, 1952pp. 257-258. § 25. Su
SarasvatT-Anàhilà-Àrmaiti e sul nome triplo di Anàhità, vedi Tarpeia,55-66; H.
Lommel ha trovato indipendemente la corrispondenza Sa- rasvatl-Anàhità c
l’ha pubblicata in Festschr. F. Weller, 1954,405-413. Per i dati latini,
irlandesi e germanici vedi Iuno, S.M.R., Eranos, LII, 1954, 105-119 e Le
trio des Macha RHR. L’esplorazione di ognuno dei tre livelli funzionali nel
mondo indoeuropeo implica tre compiti molto considerevoli, a tult’oggi
progrediti in maniera assai discontinua. Non è stalo possibile giungere
rapidamente a risultati sistematici che al primo livello. Se importanti
aspetti del secondo e del terzo sono stati determinati in breve tempo,
essi non sono tuttavia che un insieme strutturalo ancora in fase di approfondimento.
Non si è potuto dunque fare altro che dare per essi degli orientamenti generali
e, sopratutto, delle indicazioni sui metodi di lavoro. Varuna
e Mitra, ASa e Vohu Manah Il principio fondamentale intorno a cui
si organizzavapresso gli Indo-Iranici la teologia della prima funzione è
già stato segnalato; nel trattalo di Bogazkoy e nelle formule vediche che
sono state confrontate, non si tratta di un dio ma di due, Mitra e Varuna, che
la rappresentano, ed c ancora questa coppia che presuppone la coesistenza di
due figure, il Buon Pensiero e 1’Ordine, che gli corrispondono in testa
alla lista delle entità sostituite da Zoroastro agli dèi funzionali.
Questa dualità è stata spiegata in molte maniere dai commentatori indiani
e dalle diverse scuole mitologiche degli ultimi cento anni. Attualmente è
stata fatta luce su ciò che in parte si può dedurre dai loro stessi nomi:
se la parola Veruna, apparentata o no al greco oùpavóq, wpavoq, resta
oscura (la si è interpretata con radici che significano coprire, legare,
dichiarare), al contrario, Mitra è sicuramente, come ha spiegato Meillet
in un celebre articolo (1907), per la sua etimologia, il Contratto
personificato. Nella grande maggioranza dei casi, tra questi dèi i cui nomi
appaiono spesso al duale doppio, cioè con una forma grammaticale che
esprime il più stretto legame, i poeti non fanno differenza: li vedono
come due consoli celesti, depositari solidali del più grande potere, e quando
non nominano che uno dei due, non si fanno scrupoli di concentrare su di
lui tutti gli aspetti e gli attributi di questo potere. E questo è naturale
poiché l’unità e l’armonia della funzione sovrana, in rapporto a lutto
ciò che le è subordinato, costituisce per gli uomini il beneessenziale che bisogna
mettere in primo piano nella credenza e nell’espressione. Ma capita
spesso felicemente, anche nel lirismo degli inni ma soprattutto nei libri
rituali, che il poeta o il liturgista travalichi questo primo piano e
voglia distinguere i due dèi per meglio spiegare o utilizzare la loro
solidarietà. In tale caso le diverse immagini che appaiono sono
tutte dello stesso senso: Mitra e Varuna sono i due termini di un gran
numero di coppie concettuali e di antitesi, la cui sovrapposizione
definisce due piani, ogni punto del piano potremmo dire, richiamando
sull’altro un punto omologo; e queste coppie tanto diverse possiedono
tuttavia un’aria di parentela così netta che di ogni nuova coppia
assegnata all’insieme si può provare a colpo sicuro quale sarà il termine
mitria- co e quello varunjco. Fra le specificazioni così
diverse dell’antitesi sarà difficile estrarne una da cui il resto può
essere derivato e senza dubbio questo tentativo, una volta fatto, non
avrebbe gran senso. Sarà molto meglio procedere a un breve inventario,
osservando e definendo l’antitesi in rapporto alle principali categorie
dell’essere divino (cf. II § 5). Quanto ai loro domini nel cosmo, Mitra
s’interessa piuttosto a ciò che è vicino all’uomo, mentre Varuna
all’immenso insieme (distinzione che si ritrova nettamente fra le Entità
zoroastriane corrispondenti: cf. II § 8,4°); passando al limile, dei
testi affermano che Mitra è questo mondo mentre Varuna Valtro mondo, come
è certo che ben presto Mitra rappresentò il giorno e Varuna la notte. Mitra
è assimilato alle forme visibili e usuali del soma e del fuoco, mentre
Varuna alle loro forme invisibili e mitiche. Nelle modalità
d'azione, se Mitra è propriamente il contratto e stabilisce tra gli
uomini i trattati e le alleanze, Varuna è un grande mago, signore della
màyà, la magia creatrice delle forme, e in possesso dei nodi con cui afferra i
colpevoli con una presa irresistibile. Nondimeno essi si oppongono
per il foro carattere : l’amichevole Mitra è benevolo, dolce, rassicurante,
stimolante; il dio Varuna è impietoso, violento, a volte un po’
demoniaco. Innumerevoli applicazioni illustrano questo teologhema generale: a
Mitra appartiene ciò che è cotto a vapore, a Varuna ciò che è arrostito;
a Mitra il latte, a Varuna il soma inebriante; a Mitra l’intelligenza, a
Varuna la volontà; a Mitra ciò che è ben sacrificato, a Varuna ciò che è
mal sacrificato etc.. Tra le funzioni diverse da quelle che gli sono
proprie, Mitra ha più affinità per la prosperità, la fecondità e la pace,
Varuna per la guerra e la conquista, tra le province stesse della sovranità,
Mitra è piuttosto - come diceva con qualche anacronismo A. K. Coomaraswamy -
il potere spirituale, mentre Varuna è il potere temporale, in lutti i
casi rispettivamente il brdhman e lo ksatrd. L. Renou ( Études vèd. et pànin.)
ha anche scoperto nel Riveda un’affinità differente, di Varuna per
l'élite e di Mitra per la massa, il popolo comune. I sovrani Mitra e Varuna, di
diritto e di fatto, sono uguali ed è attuale sia l’uno che l’altro. Se gli
inni pronunciano più spesso il nome di Varuna, ciò non avviene perché
egli è in procinto di prendere un’importanza maggiore rispetto a un più
vecchio dio Mitra, ma perché, semplicemente, la specificazione magica e
inquietante della sua azione sollecita all’uomo più preoccupazioni cultuali del
rassicurante e chiaro dominio del giurista Mitra. Bisogna sottolineare
ugualmente che non vi c mai conflitto tra questi due esseri antitetici,
ma al contrario vi è una costante collaborazione. Questo schema indiano, e
prima ancora indo-iranico, ha fornito la chiave per qualche difficoltà o
enigma delle mitologie occidentali. A Roma, dove tutto il pensiero è
concreto e patriottico, in cui il cosmo e le sue diverse parti richiedono
attenzione e riflessione solo nella misura in cui possono essere utili o nocive
all’ Urbe, non ci si può aspettare di osservare la bipartizione nelle sue
generalità. La lontananza del cielo, l’ordine dell’universo, cose di
Varuna, lasciano i Romani totalmente indifferenti. Ridotta soltanto a qualcuna
delle sue specificazioni, la bipartizione tuttavia sussiste. Se nella Roma
storica “dius”, “dius fidius” -- il dio luminoso e garante della fides,
della lealtà e dei giuramenti -- non è più che un aspetto di Jupiter, è
vero che sembra esservi stata tutt’altra situazione nei primordi. Certo,
i due dèi erano strettamente associati e il nome del primo flamine e più
vicino a “dius” che a “jupiter”. Ma il dominio strettamente giuridico che “dius”
si accolla, nella sovranità, porta a considerare il resto – gl’auspici su cui
Roma vive, la direzione mistica della politica romana, i miracoli salvifici
della storia romana - come più propriamente caratteristici del suo grande
socio. Allo stesso modo, nella teoria dei lampi “dius fidius” ha una
specificazione nettamente mitriaca. Sono i lampi del giorno che gli
appartengono, mentre quelli della notte rivelano una varietà oscura e
varunica di “jupiter”, “summanus”. È probabile che questa
teologia complessa abbia risentito, prima dei nostri testi più antichi, della
promozione e, nello stesso tempo, della riforma teologica di “jupiter”
che ha coinciso con la creazione del suo culto capitolino e con la
sostituzione di una triade Jupiter O.M, Giunone Regina, Minerva
all’antica triade Jupiter, Mars, Quirinus. Lo “jupiter” del Campidoglio sembra
essere stato quasi subito imperialista, fagocitando “dius” e concentrando in sé
tutta la sovranità; ma forse i due piani tradizionali complementari sono
ancora segnalati nella strana doppia titolatura del dio: “ottimo” -- cioè il molto servizievole -- e “massimo” -- cioè
il più alto, posto nell’infinita classificazione delle mciiestcìtes. Sono
questi, in rapporto all 'uomo, i due poli che corrispondono nell’ideologia
vedica a Mitra e Varuna. ÓdINN E Tyr Ma è nel
mondo germanico che l’analogia indiana è particolarmente illuminante. Né
Mercurio (cioè *Wópanaz ) nella Germania di TACITO (vedasi), né Ódinn nei
testi nordici sono soli nei loro livelli: vicino a loro vi è quello che
Tacito, per delle ragioni comprensibili e interessanti, chiama Marte (cioè
*Tiuz ) e gli Scandinavi chiamano Tyr. Questo dio, omonimo del vedico Dyauh e
del greco Zeus, e che al pari di questi due o del Dius Fidius latino
evoca l’idea del cielo luminoso, è generalmente considerato nei suoi
rapporti con *Wópanaz come un dio più antico, impallidito di fronte a un
nuovo venuto. Benché sia strano che, a otto o dieci secoli di distanza,
Tacito da una parte e i poeti scandinavi dall’altra abbiano conosciuto e
registrato, proprio allo stesso stadio, l’avanzamento di uno e
l’arretramento dell’altro, le considerazioni comparative ci incoraggiano a dare
un senso strutturale a questa associazione; dove *Tiuz si è senza dubbio
eclissato a causa dell 'inquietante *'WdJ)anaz, per la stessa ragione per
cui Mitra, teoricamente pari a Varuna, riceve meno attenzione da parte dei
poeti e come lui Dius Fidius è meno importante di Jupiter: gli uomini
hanno più attenzione per la sovranità magica che per quella
giuridica. La grande originalità del mondo germanico è quella
segnalata da Tacito con la sua interpretatio romana di *Tiuz in Marte.
Essa perviene a delle considerazioni sviluppate nel precedente capitolo, in
cui abbiamo visto il mago Ódinn annettersi una parte della funzione
guerriera. La stessa cosa accade per il giurista Tyr; ecco come Snorri lo
definisce (Gylfaginning). Vi è ancora un Asi che si chiama Tyr. È
molto intrepido e coraggioso, ha un grande potere sulla vittoria in battaglia.
Perciò è bene che i guerrieri valorosi lo invochino. Di alcuni, che sono
più coraggiosi degli altri e che non hanno paura di niente, si dice
proverbialmente che sono figli di Tyr Questa marzializzazione del
sovrano giurista dei Germani non è senza analogia con quella che a Roma
ha fatto di Quirino, dio canonico della terza funzione, patrono dei Romani
nella pace e nelle opere di pace, una varietà di Marte. Nei due casi
l’evoluzione sociale ha reagito sugli dèi: dal giorno in cui - forse con
la riforma di Servio - i Quiriti hanno coinciso coi milites e sono
diventati i militi in congedo tra due appelli, era naturale che Quirino
si volgesse verso il Mars tranquillus, il Mars qui praeest paci
aspettando di saevire. In altre condizioni, meno formali e più violente,
le società germaniche antiche hanno esteso all’amministrazione dei tempi di
pace i quadri della guerra e l’hanno riempita dei costumi e dello spirito
guerriero. A Roma 1 ’exercitus urbanus che costituiva l’assemblea legislativa,
si riuniva al Campo di Marte ma senza armi. Che si rileggano, al
contrario, i passi coloriti in cui TACITO (vedasi) (Germania) descrive il
Pingdei Germani: l’arrivo dei capi con le loro bande, le armi brandite o
battute in segno di voto, le forme tutte militari del prestigio e
deH’-autorevolezza. Ed è in questo Ping che si formulava il diritto e si
regolavano i processi. Qualche secolo più tardi l’antichità scandinava
non ci mostra un diverso spettacolo: anche là ci si riunisce in armi, si
approva alzando la spada o l’ascia o battendo la spada sullo scudo. Non è
dunque sorprendente che il dio al centro di queste riunioni giuri-
dico-gueiTiere, erede del dio giurista indoeuropeo, rivestisse l’uniforme dei
suoi ministri e li accompagnasse nel loro passaggio, facile e costante,
dalla giustizia alla battaglia e che gli osservatori romani lo avessero
considerato come un Marte. Alcune dediche trovate in Frisia sono rivolte
a un Mars Thincsus che compie l’esatto legame tra lo stato indoeuropeo
probabile e il risultato scandinavo, tra Mitra e Tyr, quel Tyr di cui è
stato notato che il nome segnala, nella toponimia, gli antichi luoghi del
Ping. Sembra inoltreche, meno ipocriti di altri popol i, gli
antichi Germani abbiano così riconosciuto, a parte ogni questione
dell’apparalo guerriero, l’analogia profonda tra la procedura del diritto
- con le sue manovre e le sue astuzie, con le sue ingiustizie senza
appello - e il combattimento armato. Ben utilizzato, il diritto è un
mezzo per essere il più forte e per ottenere vittorie che spesso
eliminano l’avversario così radicalmente come in un duello. Quando si
dice che Tyr, in seguito a un’astuzia giuridica, per aver rischiato la sua mano
destra come pegno di un’affermazione utile ma falsa, è divenuto monco e non è chiamato
pacificatore di uomini, non si tratta che della controparte, del
completamento morale di un fatto materiale: la riunione del Ping in armi,
con intenzioni di potenza (più che di equità) che vede la guerra in ogni
luogo. Queste indicazioni molto generali aiuteranno a
comprendere come un Tiuz-Mars
abbia potuto formarsi a partire da un dio indoeuropeo il cui dominio specifico
era il diritto e il cui carattere si è purificato e moralizzato, aiutato dalla
civilizzazione progressiva. 5. Gli dèi sovrani minori nel Rgveda:
Aryaman e Bhaga vicino a Mitra Ma negli inni del Rgveda il
giurista Mitra e il magico Varuna, benché sembrino dividersi equamente il
dominio della sovranità, non sono isolati. Essi non sono che quelli più
frequentemente nominati dal gruppo degli Àditya, o figli della dea Aditi,
la Non-Legata, cioè la Libera, l’Indeterminata. La consi derazione dei nomi e
delle funzioni degli Àditya in tutti i contesti, lo studio delle frequenze di
menzione di ognuno, frequenze dei loro diversi raggruppamenti parziali e
del loro legame con altri dèi, hanno permesso di interpretare la
struttura che disegnano. Non è qui possibile beninteso riassumere
molto brevemente queste analisi e questi calcoli, i cui dettagli sono
stati pubblicati in due tempi, nel 1949 e nel 1952. Fin dalla letteratura
epica è conservato il ricordo che gli Àditya sono dèi che, come i due
principali tra loro, vanno a coppie e in seguito arriveranno sino a dodici. Nel
Rgveda sembra che vi sia già stata un’oscillazione tra un’antica cifra di
seie una prima estensione a otto, per addizione di due dèi
eterogenei. Di questi sei, Mitra e Varuna formano la prima coppia;
di ognuna delle altre due coppie è facile vedere che un termine agisce sul
piano e secondo lo spirito di Mitra, mentre 1 ’ altro, simmetricamente, agisce
sul piano e secondo lo spirito di Varuna, di modo che è legittimo e
comodo chiamare queste figure complementari sovrani minori. Ma questa
cifra di sei sembra essere stata estratta, per ragioni di simmetria, da un
sistema più breve di quattro dèi sovrani, in cui il sovrano vicino agli
uomini Mitra, aveva solo due assistenti, mentre Varuna rimaneva solitario
nelle sue lontananze. I nomi e le distribuzioni di questi Àditya
primitivi sono: I ) Mitra + Aryaman + Bhaga; 2) Varuna. Il principio della
stretta associazione di Aryaman, Bhaga, Mitra, provato dalle statistiche delle
menzioni simultanee, è semplice: ognuno di questi dèi esprime e precisa
lo spirito di Mitra su ognuna delle due province che i nteressano 1 ’
uomo, quelle che il diritto romano ritroverà con un altro orientamento,
più individualista, distinguendo le perso- nae e le res. Sotto
Mitra, il cui nome e il cui essere definiscono il tono e il modo generale
d’azione che si conosce (giuridico, benevolo, regolare, orientato verso l’uomo),
Aryaman si occupa di preservare la società degli uomini ari a cui deve il
suo nome, mentre Bhaga, il cui nome significa propriamente parte, assicura la
distribuzione e il godimento regolare dei beni degli Arya. 6.
Aryaman Aryaman protegge l’insieme degli uomini che, uniti o no
politicamente, si riconoscono Arya in opposizione ai barbari, e li
protegge non in quanto individui ma come elementi di un insieme: gli
aspetti principali del suo servizio multiforme sono i tre seguenti:
1 ) Favorisce le principali forme di rapporti materiali o contrattuali
tra Arya. È il donatore, protegge il dono (il che lo obbliga a
interessarsi alla ricchezza e all’abbondanza) e in particolare l’insieme
complesso delle prestazioni che formano l’ospitalità.Thieme (Der
Frenullinx im Riveda, 1938) ha messo in risalto questo punto col torto di
farne il centro di ogni concetto divino e di dedurne o negarne tutto il
resto. Infatti Aryaman non c meno primariamente interessato ai matrimoni: c
pregato come dio delle buone alleanze, scopritore di mariti
(subandhùpativédana: A V, XIV, 1,17); cerca un marito per la fanciulla giovane
o una donna per il celibe (A V ). La sua preoccupazione per i cammini e per la
libera circolazione (c àtùrtapanthà, colui il cui cammino non può essere
interrotto»; RV) non deve essere negata o minimizzata come è stato fatto da B.
Geiger, H. Giintert c Thieme: tutto ciò risalta da un gran numero di
strofe di inni e da un lesto liturgico che lo definisce come il dio che
permette al sacrificante di andare ove e^li desidera» e di circolare felicemente » ( Tait-
tir.Samh., II-, 3, 4, 2). 2) La sua cura nei riguardi degli Arya ha
anche un aspetto liturgico: nei tempi antichi è lui che ha munto per la prima
volta la Vacca mitica e di conseguenza, nel corso dei tempi, si tiene a
fianco dell’officiante e munge la Vacca mitica insieme a lui (RV,
1,139,7, col commento di Sàyana). A lui si domanda anche (RV, VII, 60, 9)
di espellere sacrificalmente dall’area sacrificale, tramite delle
libagioni (uva-yuj-), i nemici che ingannano Varuna. Poco curiosi
dell’aldilà, gli autori degli inni non parlano di un’altra forma di
servizio che è, al contrario, la sola di cui l’epopea conservi un ricordo molto
vivo e che è sicuramente antica. Nell’altro mondo Aryaman presiede il
gruppo dei Padri, sorta di geni il cui nome chiarisce abbastanza l’origine:
sono infatti una rappresentazione degli antenati morti, e Aryaman è il loro re,
che prolungano così nel posl-mortem la felice promiscuità e la comunità
degli Arya viventi. Il cammino che porta presso i Padri, riservato a
quelli che durante la propria vita hanno praticato esattamente i riti (in
opposizione agli asceti e agli yogin), è chiamato il cammino di Aryaman (Mahàbhdrata). 7. Bhaga
Bhaga si occupa fondamentalmente della ricchezza ed è a lui che
ognuno - debole, forte e il re stesso - si rivolge per averne una parte (RV,
VII, 41, 2). Un esame completo delle strofe vediche che lo nominano o che
impiegano il termine bhd^a come appellativo, ha permesso di constatare che
questa parte è dotata di qualità richieste alla metà dell’amministrazione
sovrana che spetta a Mitra: essa è regolare, prevedibile, senza sorprese,
giunge a scadenza perlina sorta di gestazione (il bambino pronto perla nascita
rut> giunge Usuo bhd^a: RV, V, 7, 8); essa è il risultalo di
un’attribuzione senza rivalità, implicante un sistema di distribuzione
(verbi; vi-bhaj-, vi-dhr-, day, cf. il greco Sou|.iov); infine è
acquisita e conservata nella calma, è la retribuzione degli uomini
maturi, assennali, seniores, opposti agli iuvenes (RV, I, 91,7 ; V, 41,11
; IX, 97, 44). L’altra varietà della parte, imprevedibile, violenta,
varunica, che si conquista con la battaglia o con la corsa, è designata
da un’altra parola che sin dai tempi indo-iranici aveva una risonanza
combattiva e che ha giustamente fornito ai teologi vedici il nome del
sovrano minore varunico simmetrico di Bhaga, Amsa. 8. Trasposizione
zoroastriane di Aryaman e Bhaga: SraoSa e A$i Abbiamo la
certezza che questa struttura era già indo-iranica: come in Iran la lista
degli dèi canonici delle tre funzioni è stala sublimata dallo zoroastrismo puro
in una lista di Entità che gli corrispondono termine per termine (vedi II § 8);
così gli dèi sovrani minori associati a Mitra hanno prodotto due figure
complementari non comprese nella lista canonica delle Entità, ma vicine,
le cui statistiche dei ruoli mostrano l’affinità esclusiva dell’una
rispetto all’altra, e di tutte e due rispetto a Vohu Manah (sostituito di
Mitra); e anche nei testi in cui questo dio ricompare, in relazione a
MiGra, mentre niente lo lega ad Asa (sostituto di *Varuna). In più, per
il loro nome come per la loro funzione, queste due Entità - Sraosa,
VObbedienza e la Disciplina, e Asi, Retribuzione - sono ciò che ci si può
attendere da un Aryaman o da un Bhaga ripensati dai riformatori. E facile
vedere punto per punto che Sraosa è per la comunità dei credenti ciò che
Aryaman era per la comunità degli Arya, la chiesa che rimpiazza la
nazionalità. Nyberg ha potuto vedere in Sraosa la personificazione
derfrommen Gemeinde, il termine genio protettore sarebbe più esatto ma i
1 punto di applicazione è noto: Sraosa che è capo nel mondo materiale come
Ohrmazd lo è nel mondo spirituale e materiale {Greater Bundahisn, ed. e
trad. B. T. Anklesaria) presiede all’ospitalità come già faceva l’Aryaman
vedico (e già indo-iranico; cf. persiano èrmdn, ospite, da *airyaman),
quando è concessa, si sa, all’uomo buono, allo zoroastriano (Yasna LVII,
14 e 34). Se non lo si vede più occupato, specialmente delle
alleanze matrimoniali e della libera circolazione sui sentieri, nondimeno la
sua azione sociale sulle anime è precisata: egli è il patrono della
grande virtù della vita in comune, di quella che assicura la coesione,
cioè la giusta misura, la moderazione ( Zdtspram); è anche il mediatore e
il garante del famoso patto concluso tra il Bene e il Male (Vasi XI, 14)
e il demone che gli è personalmente opposto è il terribile Aesma, il
Furore, distruttore della società ( Bundahisn). Rimane una precisa
traccia mitica della sostituzione di Sraosa a un dio protettore degli
Arya: secondo il Menók iXrat, XLIV, 17-35 è lui il signore e il re del
paese chiamato Eràn vèz. (avestico Airyanam vaèjò), quel soggiorno degli
Arya da cui, dice l’A vesta, sono venuti gli Iranici ( Vidèvdat, I,
3). 2)11 ruolo liturgico di Aryaman si è naturalmente amplificato
in Sraosa: Yasna LXII, 2 e 8, dice che fu il primo a sacrificare e
cantare gli inni e tutto l’inizio del suo Yast, unicamente
consacrato 96 all’elogio della preghiera e all’
esaltazione della loro potenza, si giusti- fica per questo ricordo.
Simmetricamente, alla fine dei tempi, al tempo del supremo combattimento
contro il Male, è Sraosa che sarà il sacerdote assistente nel sacrificio
in cui Ahura Mazda stesso sarà l’officiante principale
(.Bunclcihisn). Infine, come l’Aryaman dell’epopea indiana è il capo
della dimora in cui vanno - attraverso il cammino di Aryaman - i
morti che hanno correttamente praticato il culto arya, così Sraosa ha un
ruolo decisivo nelle notti che seguono immediatamente la morte: egli accompagna
e protegge l’anima del giusto sui sentieri pericolosi che la conducono al
tribunale dei suoi giudici, di cui egli stesso è parte {Dùuistun-TDénTk
XIV, XXVIII, etc.). Asi è sempre una distribuzione come lo era Bhaga ma la
nuova religione, che conferisce più importanza all’aldilà che al mondo dei
viventi, gli domanda soprattutto di vegliare sulla giusta retribuzione post-mortem
degli atti buoni o cattivi dell’uomo. Tuttavia anche nelle Gàthà, c
palesemente nei testi post-gathici, pur badando in avvenire al tesoro dei
suoi meriti, non dimentica nella vita terrestre di arricchire l’uomo pio c di
riempire la sua casa di beni. L’analisi di questa concezione,
già indo-iranica, della sovranità che non altera la grande bipartizione
ricoperta dai nomi di Mitra e Va- runa, ma dona solamente a Mitra due
assistenti che l’aiutano a favorire il popolo arya, illumina una
particolarità della religione romana di Ju- pitcr che sfortunatamente è
conosciuta solo nella forma capitolina di questa religione. Jupiler O.M,
in cui si concentra tutta la sovranità, sia quella diale che quella
propriamente gioviana (vedi sopra § 3), ospitava in due cappelle del suo
tempio due divinità minori, Juvenlas e Terminus. Una leggenda
giustificava la coabilazione singolare di questi tre dèi facendola
risalire alla fondazione del tempio capitolino, ma questa leggenda (che
utilizzava del resto un vecchio tema legalo al concetto di Juvenlas) non
prova evidentemente che l’associ azione fosse più antica. L’analogia
indo-iranica ci incoraggia a considerarla come preromana. Infatti,
secondo degli slittamenti tipici della società romana, Ju- ventas e
Terminus giocano a fianco di JupiterO.M. dei ruoli comparabili a quelli di
Aryaman e Bhaga che affiancano Mitra. Juventas, dice la leggenda
eziologica, garantisce a Roma l’eternità e Terminus la stabilità sul suo
dominio: anche Aryaman assicura alla società arya la durata e Bhaga la
stabilità delle proprietà. Ma prese in se stesse, fuori da questa
leggenda, le due divinità romane sono molto di più di tutto questo: Juventas è
la dea protettrice degli uomini romani più interessanti per Roma, gli iuvenes,
parte essenziale e germinati va della società; Terminus garantisce la
spartizione regolare dei beni, dei beni sopratutto immobili, catastali,
appezzamenti di terreno, non delle greggi erranti che presso i nomadi
indo-iranici o tra gli indiani vedici costituivano la ricchezza
essenziale. Nel mondo scandinavo un tale schema di sovrani minori non
si è ancora lasciato identificare, al momento. Non è che intorno a
Ódinn non vi fossero degli dèi che, secondo il poco che si sa di loro,
non avessero avuto l’incarico di esercitare dei frammenti specializzati della
sovranità, ma queste specificazioni e l’analisi della funzione sovrana
che suppongono sono originali e i loro rappresentanti non hanno omologhi
indo-iranici e neppure romani. Vi è Hoenir, riflessivo e prudente e che secondo
la fine della Vòluspó è proiezione mitica di una sorta di sacerdote; vi è
Mimir, consigliere di Ódinn, ridotto a una testa che rimane pensante e parlante
anche dopo la sua decapitazione; oppure Bragi patrono della poesia e
dell’eloquenza. Ho pensato un tempo ai due fratelli di Ódinn, Vili
e Vé, sicuramente antichi poiché l’iniziale del loro nome non si allittera in
scandinavo che con una forma preistorica del suo nome (*Wòt>anaz), ma
si conoscono troppo pochi dati per interpretare questa triade e
tutt’altra soluzione sarà proposta più avanti. 11. Condizioni
dello studio teologico della seconda e TERZA FUNZIONE I
procedimenti di analisi e di statistica che hanno permesso di dispiegare
e di esplorare la sovranità - nell’India vedica inizialmente e poi
progressivamente nell’organizzazione intema della teologia della prima
funzione - non sono applicabili agli dèi delle funzioni inferiori e al
momento non si è riusciti a trovare un punto di contatto. Senza dubbio questa
differenza è propria della natura delle cose; per i suoi stessi concetti
(i nomi dei personaggi divini sono in gran parte etimologicamente chiari e
molti sono delle astrazioni animate) la prima funzione si prestava
facilmente alla riflessione psicologica e non bisogna dimenticare che i primi
filosofi, appartenenti al personale di questa funzione, erano dei sacerdoti e
non potevano evitare di applicarvi con predilezione la loro analisi. La
controparte è che nel Rgveda questa teologia così ben sviluppata non si
raddoppia in una mitologia ricca in proporzione: di Mitra non è quasi
raccontato niente; di Varuna si dice molto di più, ma la lista delle
scene in cui interviene è ridotta e in generale si tratta di potenze e
qualità degli dèi sovrani più che della loro storia, del loro tipo
d’azione piuttosto che di azioni precise compiute da loro. Al
contrario, la funzione guerriera e la funzione di fecondità e prosperità
si basano in gran parte su immagini: più che grazie a dichiarazioni di
principio, è il ricordo inesauribile delle imprese o dei famosi benefici
che provano l’efficacia di un dio forte o dei buoni dèi taumaturghi. Così
queste due province divine sono più adatte a degli sviluppi mitologici che a
una messa a fuoco teologica; o forse è meglio dire che la dottrina si
abbellisce, si dissimula e si altera sotto il rigoglio dei
racconti. Per il comparatista questa differenza comporta grandi
conseguenze. Senza che questo fatto capitale sia stato ancora pienamente
enunciato, il lettore ha già potuto osservare che è il confronto delle
religioni vedica e romana il più adatto a stabilire o suggerire, grazie
al conservatorismo della seconda, dei fatti indoeuropei comuni,
mentre la religione scandinava non interviene che a titolo di conferma
dopo che il percorso comune è già stato riconosciuto e assicurato.
Ora, allo stato delle nostre conoscenze, la religione romana presenta
ancora una teologia ben costituita: nel raggruppamento Jupiter Mars,
Quirinus o nel raggruppamento trasversale di Jupiter, Juventas, Terminus, essa
ha registrato coscientemente delle articolazioni concettuali molto
chiare. Sfortunatamente bisogna altresì aggiungere che la religione
romana non è più che una teologia: per un processo radicale che caratterizza
Roma, i suoi dèi - e questa volta non solo gli dèi sovrani, ma anche
Marte, Quirino, Ops, eie. - sono stati spogliati di ogni racconto e
limitati asceticamente alle loro essenze, alla loro propria funzione. Se dunque
(per la determinazione del quadro generale tripartito e per l’esplorazione
dei primo livello) il confronto di una teologia vedica facilmente
determinabile, e di una teologia romana immediatamente conosciuta, ha permesso
i risultali netti coerenti, c sempre più completi che si sono appena letti, la
stessa cosa non avviene quando si passa ai due livelli seguenti.
India o i Nàsatya vedici non esprimono le sfumature della propria natura
che mediante delle avventure alle quali Marte e Quirino non
corrispondono, se non per mezzo della loro scarna definizione c per ciò
che è possibile intravedere dalle dottrine e dai culti dei loro sacerdoti: i
documenti e i linguaggi delle due religioni che sono i principali sostegni del
comparatista non si combinano più. Mitologia ed epopea La
difficoltà sarebbe probabilmente irriducibile senza un altro fallo,
ancora più importante per i nostri studi, di cui i precedenti capitoli del
presente libro hanno già discretamente fornito qualche esempio. Le idee di cui
vive una società non danno luogo solamente a delle speculazioni o a
immaginazioni relative agli uomini. La teologia e la mitologia sono
raddoppiate dalle storie antiche, dall’epopea in cui degli uomini
prestigiosi applicano c dimostrano dei principi che gli dèi incarnano e
dei comportamenti che dipendono da loro. Certo, ben altri fattori
contribuiscono alla formazione dell’epopea di un popolo, ma è raro che questa
non abbia avuto, in alcuni dei suoi grandi temi c dei suoi primi moli, un
rapporto essenziale con l’ideologia che dirige le rappresentazioni divine
dello stesso popolo. Per i nostri studi comparativi indoeuropei questa
felice circostanza gioca a nostro favore in due maniere: la seconda è
stata da me riconosciuta nel 1939, mentre la prima è stala scoperta nel 1947
dal mio collega svedese Stig Wikander. Da una parte, la più grande
epopea indiana, il Mahàbhcirata, sviluppa le avventure di un insieme di
eroi che corrispondono parola per parola ai grandi dèi delle tre funzioni
della religione vedica e prevedrà, di modo che l’India presenta, con questo
enorme poema c col Riveda, lina doppia edizione rispondente, a due
differenti bisogni e con sensibili varianti, alla sua ideologia in
immagini. Dall’ altra parte, se Roma ha perduto tutta la sua mitologia e ha
ridotto i suoi esseri teologici alla loro scarna essenza, ha conservato
al contrario, per costituirla in seguito, la storia meravigliosa e ragionevole
delle proprie origini, un antico repertorio di racconti umani, colorati e
molteplici, paralleli a quelli che avrebbero dovuto essere in tempi meno
austeri le raccolte mitiche degli dèi. Quest’epopea è
l’antica mitologia romana degradata in storia da Roma stessa? Oppure essa
prolunga direttamente un’epopea preromana e italica, coesistente con una
mitologia che Roma avrebbe perduto senza traslazione e senza compensazione?
L’una e l’altra tesi possono trovare argomenti nel dettaglio dei fatti,
ma per il comparatista questa discussione non incide: in ogni caso, il primo
libro di Tito Livio contiene una materia ideologicamente conforme al
sistema degli dèi romani e drammaticamente comparabile all’epopea e alla
mitologia dell'India. Per tentare di guadagnare qualche chiarimento sui
dettagli delle rappresentazioni indoeuropee della seconda e terza funzione è
dunque necessario introdurre questi nuovi elementi nel lavoro
comparativo. Il fondo mitico del Mambhjrata secondo S. Wikander
Nell’immenso conllilto dei cugini, che riempie il Mahàbhdra- ta, i
personaggi simpatici c infine vittoriosi sono un gruppo di cinque
fratelli, i Panda va o figli di Pàndu, che fra i molli tratti notevoli
presentano quello di avere in comune una sola sposa per lutti c cinque,
Draupadl. Consideralo dal punto di vista dei costumi, questo regime di
poliandria, così contrario agli usi e allo spirilo degli Arya ma
attribuito qui agli croi che glorificano l’India arya, ha costituito per
più di un secolo un enigma irritante. Nel 1947 Wikander ne ha fornito la
soluzione soddisfacente, scoprendo allo stesso tempo la chiave di tutto
l’intrigo del poema. In realtà i figli di Pàndu non sono i
suoi figli. Sotto il peso di una maledizione che lo condanna a morte nel
momento in cui compirà l’alto sessuale, Pàndu si assicura una posterità
con un procedimento eccezionale. Una delle sue mogli, KuntI, in seguilo
ad un’avventura giovanile, aveva ricevuto un privilegio inaudito: le era
sufficiente invocare un dio perché questo sorgesse immediatamente davanti a lei
e le donasse un figlio. Dietro preghiera di suo marito invoca dunque
in successione diversi dèi dai quali concepisce tre figli. Questi dèi sono Dharma,
la Legge, la Giustizia (entità in cui si ritrova il vecchio concetto del
giurista Mitra), poi Vàyu, dio del vento, e infine Indra. I tre
figli sono rispettivamente Yudhisthira, Bhlma e Arjuna. Suo marito la
prega quindi di beneficiare Madri, un’altra sua moglie, di questa
fortuna: KuntI accetta ma per una sola volta e così Madri prende dalla
situazione la parte migliore e chiede che vengano evocati i due
inseparabili ASvin: dagli ASvin concepisce due gemelli, gli ultimi dei cinque
figli di Pàndu, Nakula e Sahadeva. Wikander segnalò ben presto che la
lista degli dèi padri - Dharma, Vàyu, Indra e gli ASvin - riproduceva
nell’ordine gerarchico la lista canonica degli antichi dèi dei tre
livelli, ringiovanita e depauperata al primo livello (Dharma che
rappresenta solo Mitra, senza un corrispettivo di Varuna), mentre al
secondo livello conferiva a Indra uno degli associati che aveva ancora
più frequentemente nel Riveda, Vàyu. La diversità armonica dei padri
doveva, in una certa misura, comandare sia il carattere che le azioni
epiche dei figli, come in effetti accade. Yudhisthira è il re,
mentre gli altri Pàndava sono solamente degli ausiliari; un re giusto,
virtuoso, puro e pio - dhurmuruju - senza specialità o virtù guerriere,
come si conviene a un rappresentante della metà di Mitra della
sovranità. Bhlma e Arjuna sono i grandi combattenti dell’insieme.
Quanto ai due gemelli, sono belli ma sopratutlo umili e devoti servitori
dei loro fratelli, come nella teoria delle classi sociali: infatti, la
grande virtù dei vaiSya del terzo livello è quella di servire lealmente le due
classi superiori. L’enigma della loro unica sposa si risolve
immediatamente in questa prospettiva. Non si tratta dunque di un’usanza
aberrante ma della trasposizione epica della concezione vedica,
indo-iranica e prima ancora indoeuropea, che completa la lista degli dèi
maschi, tra i quali si analizzano e gerarchizzano le tre funzioni, con
una dea unica ma plurivalente, meglio ancora trivalente, come la vedica
Sarasvatl che comprende in se stessa la sintesi delle tre
funzioni. Sposando DraupadI al pio re, ai due guerrieri e ai due
gemelli servizievoli, l’epopea mette in scena ciò che RV, X, 125
formulava quando faceva proferire alla dea Vàc (tanto vicina a Sarasvatl):
Sono io che sostengo Mitra-Varunu, che sostengo Indra-Agni e che sostengo
i due Asvin, o che ancora si ritrova nella triplice titolatura (con
un’ulteriore specificazione della terza funzione) della principale dea
dell’Iran, l’Umida, la Forte, l’Immacolata. Questa scoperta è stala il
punto di partenza di un’ esplorazione di tutto il poema, soprattutto dei
primi libri (che precedono la grande battaglia) ed è stata certamente
chiamata a rinnovare i nostri studi: per la sua abbondanza, la sua
coesione e la sua varietà, la trasposizione epica permette, partendo dal
sistema trifunzionale, da ogni funzione e dalle molte rappresentazioni
connesse, uno studio più profondo e più avanzato di quanto non lo
permettesse l’originale mitologico conosciuto sopralutto dalle allusioni dei
testi lirici. D’altra parte, sin dal suo articolo del 1947, Wikander ha
stabilito un punto molto importante: la struttura mitologica trasposta
nel Mahàbhdruta è sotto molti aspetti più arcaica di quella del Rgveda
poiché conserva dei tratti sfumali in questo innario ma che le analogie
iraniche provano come fosse indo-iranica. Per tale ragione uno dei primi
servigi apportati da questo nuovo studio è stato quello di rivelare nella
funzione guerriera una dicotomia che il Rgveda ha quasi completamente
dimenticato a tutto vantaggio di Indra. Infatti, come è già
stato dimostrato da lavori anteriori della scuola di Uppsala, Vàyu c Indra
erano i patroni, nei tempi prevedici, di due tipi molto differenti di combattenti
i cui figli epici, BhTma e Arju- na, rendono possibile un’osservazione
dettagliala e certamente una parte dei caratteri fisici dell’Indra vedico
devono essere restituiti a Vàyu per un periodo più antico. Questi due
tipi sono facilmente definibili in qualche parola. L’eroe del tipo Vàyu è
una sorta di bestia umana dotato di un vigore fisico mostruoso, le sue armi
principali sono le sue braccia, prolungale talvolta da un’arma che gli è
propria: la clava. Non è bello né brillante, non è molto intelligente c
si abbandona facilmente a disastrosi eccessi di furore cieco. Infine, opera
spesso da solo, fuori da\Y équipe di cui è tuttavia il protettore
designato, per cercare l’avventura e per uccidere principalmente dei
demoni e dei geni. Al contrario, l’eroe del tipo Indra è un superuomo, un
uomo compiuto e civilizzato, la cui forza è armonizzata; maneggia
delle armi perfezionate (Arjuna è notoriamente un grande arciere e uno
specialista delle armi da lancio); è brillante, intelligente, morale e
soprattutto socievole, guerriero da battaglia più che cercatore di avventura
e generalissimo naturale dell’armata dei suoi fratelli. Questa
distinzione è conosciuta anche dall’epopea iranica, nella persona del brutale
Kó>rasàspa armato di mazza e legato al culto di Vàyu, oppure nel tipo
dell’eroe più seducente come ©raètaona. In Grecia ricorda
l’opposizione tipologica di Ercole e Achille, ma soprattutto permette di
dare una formulazione più precisa, in Scandinavia, ai rapporti tra Ódinn e Pórr
e più in generale a quelli della prima e seconda funzione. E stato segnalato,
nel secondo capitolo, che Ódinn si era annesso una parte importante della
funzione guerriera.Vediamo ora che si tratta principalmente (senza che la
discriminazione sia rigorosa: è Pórr che al pari di Indra rimane il dio
tuonante dello sconvolgimento atmosferico) della parte che presso gli
Indo-Iranici era sotto il magistero di *Indra, mentre la parte di *Vàyu
era piuttosto quella di Pórr, il brutale picchiatore e l’avventuriero
delle spedizioni solitarie contro i giganti. Tuttociò appare ancora più
chiaramente se si considerano nell’ epopea gli eroi che corrispondono a
ciascuno di questi dèi: gli eroi odinici come Sigurdr, Helgi e Haraldr sono
belli, luminosi, socievoli, amati e aristocratici, mentre l’unico eroe di Pórr
conosciuto dall’epopea, Starkadr, appartiene alla razza dei giganti, un
gigante ridotto da Pórr a forma umana, arcigno, brutale, errante e solitario,
vera replica scandinava di Bhlma o Ercole. 16. Caratterizzazione
funzionale dei Pàndava Nei primi libri del Mahàbhàrata i poeti,
sicuramente consapevoli di questa struttura, si sono cimentati nel dare delle
rappresentazioni differenziate dei cinque eroi, dettagliando le loro diverse
maniere di reagire a una stessa circostanza. Ne citerò solo due. Nel
momento in cui i cinque fratelli lasciano il palazzo per un ingiusto
esilio che avrà fine solo con la formidabile battaglia in cui otterranno
la loro rivincita, il pio e giusto re Yudhisthira avanza Velandosi il volto col suo abito per
non rischiare eli bruciare il mondo col suo sguardo corrucciato. Bhlma
guardale sue enormi braccia e pensa: Non vi è uomo uguale a me per la forza
delle braccia ; egli mostra le sue
braccia, inorgoglito dalla forza delle sue braccia desidera fare contro i nemici
un 'azione pari alla forza delle sue braccia . Arjuna sparge la sabbia
raffigurandovi l'immagine di un nugolo di frecce scoccate contro i
nemici. Quanto ai gemelli, la loro preoccupazione è un’ altra: Nakula, il
più bello tra gli uomini, si cosparge tutte le membra di cenere dicendo: Che io non possa mai trascinare sulla mia
strada il cuore di una donna! e suo fratello Sahadeva allo stesso modo si
imbratta il viso (II, 2623-2636). I cinque fratelli scelgono un
mascheramento per soggiornare in incognito alla corte del re Virata:
Yudhisthira, eroe della prima funzione, si presenta come un brahmano; il
brutale Bhlma come un cuoco-macellaio e un lottatore; Arjuna, coperto di
braccialetti e orecchini, come un maestro di danza; Nakula come un
palafreniere esperto nella cura dei cavalli malati, mentre Sahadeva come
un bovaro, informato di lutto ciò che riguarda la salute e la fecondità
delle vacche. Queste due specificazioni, diverse ma simili, dei
gemelli sono interessanti: se i 1 Rgvedu permette di notare qualche
fugace distinzione nella coppia indissolubile dei loro padri, Wikander ha
sottolineato l’importanza del criterio qui rivelato. Sempre
restando prima di tutto degli abili medici che ignorano l’agricoltura (il
che ci porta a far risalire indietro di molto questa concezione), Nakula e
Sahadeva si dividono le due principali province deH’allevamento,
riservandosi rispettivamente l’uno la protezione delle vacche e l’altro
quella dei cavalli, che nel Rgvedu forniscono loro il loro secondo nome
collettivo, Aévin, un derivato di àsva, cavallo. Abbiamo così il
primo modello delle formule che si osservano anche altrove a proposito
degli omologhi funzionali dei Nàsatya -ASvin: tra Haurvalà(e Amar3tà( ad
esempio, entità zoroastriane sostituitesi ai gemelli, la ripartizione si compie
all’interno del genere salubrità, sotto le acque e le piante; così pure, almeno
parzialmente, tra il Njòrdr e il Freyr degli Scandinavi, la distinzione
nell’uniforme beneficio dell’arricchimento si compie secondo le due fonti della
ricchezza, il mare e la terra. Si nota qui chiaramente come la
considerazione dell’epopea metta in risalto dei tratti strutturali e
suggerisca inchieste feconde. Il travestimento di Arjuna non è strano a
un primo approccio, poiché è arcaico e di un arcaismo che è conosciuto
dal Riveda, in cui Indra è il danzatore e i suoi giovani compagni la
banda guerriera dei Marut che si adorna il corpo di ornamenti d’oro,
braccialetti e anelli da caviglia che li fanno apparire come dei ricchi pretendenti.
Comune alle più vecchie mitologie c alla sua trasposizione epica, questo
tratto è certamente da riconnetlerc all’insieme del Mànnerbund indo-iranico.
E forse, nello stesso ordine di idee, la trasposizione epica lascia
intravedere un aspetto che gli inni fanno passare in silenzio e che riguarda
la morale particolare di questi gruppi di giovani, quando essa insiste
sul carattere effeminato del travestimento scelto da Arjuna. Pàndu e
Varuna Progressivamente sono stale individuate altre corrispondenze
tra l’intrigo del Mahàbhàrata e la mitologia vedica c prevedica, sempre con lo
stesso vantaggio che l’epopea, narrazione ampia e continua, facilita in
ogni caso l’analisi che, al contrario, c infastidita dal lirismo degli
inni c dalla loro retorica dell’allusione. Ho così potuto
dimostrare come Varuna non sia assente dalla trasposizione; solo si trova
nella generazione anteriore, inattuale, morta, quando il corrispettivo di
Mitra, il figlio di Dharina, diviene re. Pàndu, il padre putativo dei
Pàndava, anche lui re prima del suo figlio maggiore Yudhisthira, presenta
in effetti due caratteri originali e improbabili che i libri liturgici e un
inno attribuiscono anche a Varuna; a uno di questi caratteri deve il suo
nome: pàndu significa pallido, giallo chiaro, bianco, e infatti un incidente di
nascita, o meglio, del concepimento di Pàndu, ha fatto sì che avesse la pelle
insanamente pallida o bianca. Ora, Varuna è rappresentato in certi
rituali come sukla bianchissimo e atigaura eccessivamente bianco. L’altro
aspetto c di più ampia portata: Pàndu c condannalo all’equivalente
dell’impotenza sessuale, condannato a perire (e così in effetti perirà) se
compie l’atto d’amore; ugualmente, Varuna in circostanze diverse ( AV,
IV, 4, 1 : rituale della consacrazione regale) è presentato come uno
divenuto momentaneamente impotente, devirilizzato (evirazione che si fa
a vantaggio dei suoi parenti; il che ricorda il mito importante del
greco Urano castrato dai suoi figli). Il lavoro insomma è
appena cominciato. Sia io che Wikander speriamo di estrarre da questa
riserva importante del materiale abbondante e abbastanza chiaro per delucidare
molte incertezze e difficoltà che sono ancora irrisolvibili sul piano
degli inni e per fornire alla ricostruzione indoeuropea degli elementi privi di
ambiguità.L’epopea romana ha utilizzato in altra maniera l’ideologia
delle tre funzioni insieme alle loro sfumature. Gli eroi che l’incarnano
non sono più dei contemporanei, dei fratelli semplicemente
gerarchizzati; essi si succedevano nel tempo e progressivamente
costituiscono Roma. Non si succedono però nell’ordine canonico ma in un
altro ordine: 1) gemelli pastori (terza funzione); 2) sovrano gioviano
semi-dio, creatore ed eccessi vo (pri ma funzione del tipo di Varuna) e
poi sovrano diale, umano, pio, regolatore (prima funzione del tipo
Mitra); 3) infine, un re strettamente guerriero (seconda funzione). In
più, il sovrano gioviano non è altro che uno dei due gemelli
sopravvissuto alla coppia ma profondamente trasformato. Questa doppia
singolarità schiude nuove prospettive all’inchiesta comparativa ma
inizialmente considereremo i rappresentanti delle due prime funzioni che
non implicano problemi inediti. 20. Romolo e Numa e i due aspetti
della prima funzione Nella tradizione annalistica i due fondatori
di Roma, Romolo e Numa, formano un’antitesi abbastanza regolare,
sviluppata nello stesso senso di quella di Varuna eMitra nella letteratura
vedica. Ogni cosa si oppone nel loro carattere, nei loro fondamenti e
nella loro storia, ma in un’opposizione senza ostilità: Numa completa
l’opera di Romolo donando all’ ideologia regale di Roma il suo secondo
polo, necessario quanto il primo. Quando nel VI canto d t\VEneide
(VIRGILIO (vedasi), negli Inferi, Anchise li presenta tutti e due in qualche
verso al suo figlio Enea, definisce Romolo come il bellicoso semidio creatore
di Roma e, grazie ai suoi auspici, l’autore della potenza romana e
della sua Crescita continua (et huius, nate, auspiciis illa inclita Roma
impe- rium terris, animos aequabit Olympo)\ poi Numa come il
re-sacerdote portatore di oggetti sacri, sacra ferens, coronato di olivo
che fonda Roma donandogli delle leggi, legibus. Tutto si
ordina intorno a questa differenza - l’altro mondo e questo qui - in cui
i sacra, i culti in cui l’uomo ha l’iniziativa, equilibrano eccellentemente gli
auspicio, in cui l’uomo non fa che decifrare il linguaggio miracoloso di
Giove. Si verifica istantaneamente che l’opposizione tra i due tipi
di sovrani ricopre punto per punto quella analizzata nel caso di Varuna
e Mitra. Ugual mente importanti, sia l’uno che l’altro nella genesi
di Roma, Romolo e Numa non sono posizionati nella stessa metà del
mondo. Ingenuamente Plutarco mette nella bocca del secondo,
quando spiega agli ambasciatori di Roma le motivazioni del rifiuto del
regno, una osservazione molto giusta (Numa): Si attribuisce a Romolo la
gloria di essere nato da un dio, non si finisce di dire che è stato nutrito
e salvato nella sua infanzia grazie a una protezione particolare della
divinità; io, al contrario, sono di una razza mortale, sono stato nutrito e
allevato da uomini che voi conoscete. I loro modi di azione non
differiscono di molto e la differenza si esprime in maniera sorprendente
in ciò che si possono chiamare i loro dèi prediletti. Romolo
stabilisce solo due culti che sono due specificazioni di Jupiter - quel
Jupiter che gli ha donato la promessa degli auspici - Jupi- ter Feretrius
e Jupiter Stator che si accordano nel fatto che Giove è il dio protettore
del regnum, ma relativamente ai combattimenti e alle vittorie; e la
seconda vittoria è dovuta a una prestidigitazione sovrana di Giove, a un
cambiamento di vista contro il quale nessuna forza può niente e che
capovolge l’ordine normale e consueto degli avvenimenti. Al contrario, tutti
gli autori insistono sulla devozione particolare che Numa rivolge a
Fides. Dionigi di Alicamasso scrive. Non vi è sentimento più elevato
e più sacro della buona fede, sia negli affari di stato che nei rapporti
tra individui; essendosi ben persuaso di questa verità Numa, il primo fra
gli uomini, ha fondato un santuario della Fides Publica e istituito in
suo onore dei sacrifìci ufficiali come quelli delle altre divinità. Plutarco {Numa)
dice similmente che fu il primo a costruire un tempio a Fides e insegnò ai
Romani il loro più grande giuramento, il giuramento di Fides. Si vede bene come
questa distribuzione sia conforme all’essenza delle due divinità sovrane
antitetiche, Varuna e Mitra, Jupiter e Dius Fidius. Il carattere dei due
dèi si oppone allo stesso modo: Romolo è un violento, descritto dagli annalisti
come un tiranno, secondo il modello greco ed etrusco, ma con dei tratti
sicuramente antichi: Vi erano sempre
vicino a lui - dice Plutarco ( Romolo) - quei giovani chiamati Celeres a causa
della loro prontezza nell'eseguire i suoi ordini. Non compariva in
pubblico che preceduto dai littori armati di verghe, con le quali
respingevano la folla, cinti di corregge con cui legavano sul posto quello
che lui ordinava di arrestare. A questo sovrano, così materialmente legatore
come Varuna, si oppone il buono e calmo Numa, la cui prima iniziativa una
volta di venuto re fu quella di sciogliere il corpo dei Celeres e come
seconda di organizzare ( ibidem) o creare (Livio) i tre flamines
maio- res. Numa è privo di ogni passione, anche di quelle sti mate dai
barbari, come la violenza e l’ambizione (Plut. Numa). Di
conseguenza, le affinità dell’uno sono tutte per la funzione guerriera,
quelle dell’altro per la funzione di prosperità. Anche nel suo
consiglio postumo, Romolo, il dio dei tre trionfi, prescrive ai Romani:
rem militarem colant (Livio). Numa si assegna il compito di
disabituare i Romani alla guerra (PI ut. Numa) e la pace non è rotta in
alcun momento del suo regno; offre un buon accordo ai Fidenates che
compiono razzie sulle sue terre e istituisce in questa occasione, secondo
una variante, i sacerdoti feziali, per vegliare sul rispetto delle forme che
impediscono o limitano la violenza (Dionigi di Alicamasso; Plutarco,
Numa). Distribuisce ai cittadini indigenti i territori occupati da
Romolo per sottrarli alla miseria, causa quasi necessaria della
perversità, e per spingere verso l ’ag ricoltura lo spirito del popolo,
che domando la terra si addolcirà-, divide tutto il territorio in vici,
con ispettori e commissari che lui stesso controlla giudicando i costumi dei cittadini in
base al lavoro, premiando con onori e poteri coloro che si distinguono
perla loro attività, biasimando i pigri e correggendo le loro negligenze
(Plut.). Limitiamo a ciò la comparazione che potrebbe comunque proseguire
dettagliatamente, poiché è evidente che gli annalisti si sono ingegnati a
spingere in ogni direzione l’opposizione tra i due re, l’uno
iuvenesjerox, odioso ai senator es (e forse ucciso da questi) senza bambini
etc., mentre l’altro è un senex tipico, gravis, sepolto piamente dai
senatori, antenato di numerose genti. Delle pretese gentilizie, o
l’imitazione di modelli greci, hanno potuto introdurre più di un
dettaglio e in di verse epoche in queste vite parallele inverse e
sicuramente in quella di Numa. Ma è chiaro che queste stesse
innovazioni si sono uniformate a un dato tradizionale, la cui intenzione
era di illustrare due tipi di re, due modelli di sovranità, quelli stessi
conosciuti dall’India sotto i nomi di Varuna e Mitra. Tullo Ostilio
e la funzione guerriera Dopo la funzione sovrana la funzione
guerriera, dopo Romolo e Numa, vi è Tullo Ostilio, che Anchise presenta
ad Enea ( En .) come colui che riporterà alle armi, in arme, i cittadini
divenuti casalinghi e disabituati ai trionfi. Arma, come auspicia e sacra per i
suoi predecessori, segnala qui l’essenza del suo carattere e della sua
opera: militaris rei institutor dirà Orosio e prima di lui Floro: La
regalità gli fu conferita in base al suo coraggio: è lui che ha fondato
tutto il sistema militare e l'arte della guerra; di conseguenza dopo aver
esercitato in maniera sorprendente la iuventas romana osò provocare gli
Albani. 22.1 miti di Indra e la leggenda di Tullo Ostilio È in
questo caso che il confronto tra l’epopea romana e la mitologia ha dato i
risultati più inattesi e ha permesso di ampliare lo studio dettagliato
della funzione guerriera indoeuropea, il cui solo confronto della
teologia esplicita non lasciava intravedere che i maggiori aspetti: nelle loro
lezioni ma anche nelle loro affabulazioni, i due episodi solidali che
costituiscono la storia di Tulio - la vittoria del terzo Orazio sui
treCuriazi e il castigo di Mezio Fufezio che salvano Roma del pericolo che
correva il suo nascente imperium, uno per la subordinazione di Alba,
l’altro per la sua distruzione - rispecchiano da vicino i due principali
miti di Indra che la tradizione epica presenta spesso come conseguenti e
solidali, cioè la vittoria di Indra e di Trita sul Tricefalo e la morte
di Namuci. Non è possibile qui che mettere in un quadro schematico le
omologie, pregando il lettore interessato di riportarsi al libro in cui
gli argomenti e le conseguenze sono lungamente esposti. A, a)
(India). Nell’ambito della loro rivalità generale coi demoni, gli dèi sono
minacciati dall’imbattibile mostro a tre teste che è tuttavia il figlio
dell’amico (nel Riveda) o il cugino
germano degli dèi (nei Brahmano e nell’epopea) ed inoltre, brahmano e
cappellano degli dèi: Indra (nel Rgveda) spinge Trita il terzo dei tre
fratelli Àptya, a uccidere il Tricefalo e Trita in effetti lo uccide,
salvando gli dèi. Ma quest’atto, morte di un parente, di un alleato o di
un brahmano, comporta un’impurità che Indra scarica su Trita o sugli Àptya che
la liquidano ritualmente. Da allora gli Àptya sono specializzati
nell’eliminazione delle diverse impurità e in particolare, in ogni sacrificio,
di quella che comporla l’inevitabile messa a morte della vittima.
b) (Roma). Per regolare il lungo conflitto in cui Roma e Alba si
disputano Vimperium, le due parti convengono di opporre i tre gemelli
Orazi e i tre gemelli Curiazi (l’uno dei quali è fidanzato a una sorella
degli Orazi e che, anche nella versione seguita da Dionigi d’Alicarnasso, sono
cugini germani degli Orazi). Nel combattimento ben presto non
rimane che un Orazio, ma questo terzo uccide i suoi tre avversari dando
Vimperium a Roma. Nella versione di Dionigi questa morte dei cugini
rischia di produrre un’impurità, ma una nota del casista la evita: poiché
i Curiazi hanno accettato per primi l’idea del combattimento, la
responsabilità cade su di loro. Ma 1 ’ impurità generata dal sangue
famigliare è ripartita subito, trasferita, su un episodio che non ha
paralleli nel racconto indiano: il terzo Orazio uccide sua sorella che lo
ha maledetto per la morte del suo fidanzato. La gens Oratia deve dunque
liquidare quest’impurità e ogni anno continua a offrire un sacrificio
espiatorio: la data di questo sacrificio, all’inizio del mese che pone
fine alle campagne militari (calende di ottobre), suggerisce che queste
espiazioni riguardavano (da là la leggenda di Horatius) i soldati che
ritornavano a Roma, macchiati dalle inevitabili morti della
battaglia. B, a) (India). Il demone Namuci dopo leprime ostilità
conclude un patto di amicizia con Indra che si impegna a non ucciderlo né
di giorno né di notte, né col secco né con l'umido . Un giorno,
approfittando a tradimento di un momento di debolezza, in cui Indra è
stato messo dal padre del Tricefalo, Namuci spoglia Indra di tutti i suoi
attributi: forza, virilità, soma, nutrimento. Indra chiama in suo
soccorso gli dèi canonici della terza funzione, Sarasvatl e gli Asvin,
che gli rendono la sua forza e gli indicano il sistema per mantenere la parola
data pur violandola: egli non deve che assalire Namuci all’alba
(quando non è né giorno né notte) e con della schiuma (che non è né secca
né umida). Indra sorprende così Namuci che non sospetta c lo decapita
in maniera bizzarra, burrificando la sua testa nella schiuma.
b) (Roma). Dopo la disfatta dei tre Curiazi, il capo degli Albani,
Mezio Fufezio, si pone in Alba sotto gli ordini di Tulio, in virtù della
convenzione. Ma segretamente tradisce il suo alleato e durante la battaglia
contro i Fidenati si ritira con le sue truppe su un’altura, scoprendo il fianco
dei Romani. In questo pericolo mortale Tulio fa dei voti alla divinità
della terza funzione, Quirino, e diventa vincitore. Benché al corrente
del tradimento di Mezio, finge di lasciarsi abbindolare e convoca al
pretorio, per felicitarsi, gli Albani che non sospettano. Là sorprende
Mezio, lo fa afferrare e lo condanna a una pena unica nella storia di
Roma, lo squartamento. Rapporti della funzione guerriera con le altre
due Attraverso questi miti e queste leggende è tutta una filosofia
della necessità, dell’impeto cdei rischi della funzione guerriera, che si
esprime, come pure una concezione coerente dei rapporti di questa
l’unzione centrale con la terza, clic mobilita al suo servizio; e con
l’aspetto Mitra-Fides della prima che tuttavia non rispetta affatto e che
non può rispettare poiché, impegnata nell’azione e nei pericoli, come
potrebbe mai accettare che la fedeltà ai princìpi invalidi questa azione
disarmandola di fronte ai pericoli? Anche i rapporti di Indra e Tulio
Ostilio con l’aspetto Varuna-Jupiler della funzione sovrana non procedono
senza scontri: abbiamo già ricordato gli inni vedici in cui Indra sfida
Varuna, vantandosi di sconfiggere la sua potenza (e gli Hàrbcirdsljód d
tWEdda allo stesso modo oppongono Ódinn e Pórr in un dialogo ingiurioso).
Quanto aTullo, egli è a Roma uno scandalo vivente, il re empio e la fi ne della
sua storia non è che la ten ibile vendetta che Jupiter, maestro delle grandi
magie, si prende contro questo re troppo guerriero che l’ha ignorato per
lungo tempo. Un’epidemia colpisce le sue truppe da lui obbligate
tuttavia a continuare la guerra, sino al giorno in cui egli stesso
contrae una lunga malattia; dice allora LIVIO (vedasi): lui, che
fino a questi tempi aveva creduto che niente è meno degno di un re che
applicare il proprio spirito alle cose sacre, improvvisamente si abbandonò a
tutte le superstizioni, grandi e piccole, e propagò anche fra il popolo
delle vane pratiche... Si dice che il re stesso consultando i libri di Numa vi
trovò la ricetta di certi sacrifìci segreti in onore di Jupiter Elicius. Egli
si appartò per celebrarli. Ma sia all’inizio che nel corso della
cerimonia commise un errore rituale, di modo che, invece di veder
comparire una figura divina, irritò Jupiter con un'evocazione mal
condotta e fu bruciato dalla folgore, lui e la sua casa
Queste sono le fatalità della funzione guerriera. Se Indra, il
grande peccatore Indra, non perviene a questa drammatica fine è perché egli è
un dio e in ogni caso la sua forza e i suoi servigi sono ciò che più
interessano gli uomini. Quanto ai gemelli - che Roma nel Lazio non era
l’unica a onorare, poiché la leggenda prenestina poneva una coppia nei tempi
delle sue origini - l’epopea romana li mette al posto d’onore nella
persona di Romolo e Remo. Vi è una differenza totale tra il Romolo re,
che abbiamo visto opposto a Numa nella seconda ed ultima parte della sua
carriera, e il Romolo prima di Roma, il Remo cumfratre Quirinus. Questa
differenza risalta in effetti a proposito della stessa fondazione, nella
disputa degli auspici e nella morte d i Remo: Romolo cessa allora di essere uno
dei due gemelli, il socio fedele e senza contesa di suo fratello, per diventare
il re prestigioso, creatore, terribile, tirannico e istitutore di quegli uomini
che portano davanti a lui delle corde, pronte a legare nel senso
letterale del termine, al pari del suo omologo del pantheon vedico,
Varuna, armato di lacci. La corrispondenza tipologica dei gemelli
dell’epopea romana e degli dèi gemelli, Nàsatya-ASvin, che terminano la
lista trifunzionale indo-iranica, è precisa. Sino alla loro dipartita da
Alba, e alla fondazione dell’Urbe, sono della terza funzione: pastori allevati
da un pastore, vivono una vita esemplare da pastori messa in risalto solo
da un gusto marcato per la caccia e gli esercizi fisici. In questa
definizione pastorale l’evoluzione della proto-civilizzazione romana
(scomparsa del carro da guerra) ha eliminato la parte del cavallo (in
evidenza nella parola ASvin), non rimane quindi che la parte del bue e
del montone, per situare maggiormente Romolo e Remo nell’economia rurale.
I Nàsatya, come si ricorderà, sono inizialmente tenuti a distanza
dagli dèi perché troppo mescolati agli uomini ( Éat. Brùhm.) e nella
letteratura posteriore saranno considerati come degli dèi Sfldra, dèi di
ciò che vi è di più basso e fuori-casta, in rapporto alla società
ordinata. Così vivono, pensano e agiscono Romolo e suo fratello. Non
vi è in essi niente di sovrano, nessun rispetto per 1’ordine. Devoti ai
più umili, disprezzano gli intendenti, gli ispettori e i capi del
bestiame del re (Plutarco, Romolo). Il gruppo che li seguirà nella loro
rivolta sarà un gruppo di pastori (Livio) o un’assemblea di indigenti o
schiavi (Plutarco, Romolo, 7, 2) prefiguranti l’eterogenea popolazione
dell’Asilo ( ibidem, 9, 5). Sono raddrizzatori di torti: come i
Nàsatya passano il loro tempo a riparare le ingiustizie degli uomini o della
sorte. Essendo semplicemente degli dèi i Nàsatya compiono le loro liberazioni,
restaurazioni e guarigioni per mezzo di miracoli, mentre Romolo e Remo
non possono ricorrere che a mezzi umani per proteggere i loro amici
contro i briganti, ristabilire nei loro diritti i pastori di Numitore
maltrattati da quelli di Amulio e, finalmente, punire Amulio. Uno dei più
celebri servigi dei Nàsatya, origine della loro fortuna divina, è stato quello
di aver ringiovanito il vecchio decrepito Cyavana; la grande impresa
di Romolo e Remo, origine della fortuna del primo, fu allo stesso
modo quella di aver riabilitato il loro vecchio nonno che era stato
privato della regalità di Alba. I due Nàsatya nel Riveda sono quasi
indivisibili, agiscono insieme ma tuttavia un testo segnala una grave
disuguaglianza che ricorda quella dei Dioscuri greci: uno di essi è figlio del
Cielo, l’altro è figlio di un uomo. La disuguaglianza dei gemelli romani è
differente ma considerevole: uguali per nascita, uno solo di essi
proseguirà la sua carriera diventando un dio - il dio canonico della
terza funzione, Quirino -1’altro perirà precocemente non ricevendo più che i
soli onori abituali attribuiti ai morti eminenti. Ovidio potrà dire di loro
{Fasti): ut quam sunt similes! At quamformosus uterque! Plus tamen ex illis iste vigoris habet
... Certe
azioni estranee ai Nàsatya - mal conosciute come tutta la loro mitologia
- sembrano ricordare dei tratti della leggenda di Romolo e Remo, talvolta solo
con una inversione (protettori e non protetti) che testimonia come essi
siano degli dèi e i gemelli romani degli uomini. Uno dei servigi frequenti dei
Nàsatya è di fare cessare la sterilità delle donne e delle femmine; ora,
Romolo e Remo sono i primi capi dei Luperci, un compito dei quali è di
rendere madri le donne romane con la flagellazione (una leggenda
eziologica, che pone l’origine di questo rito dopo la fondazione di Roma
c il ratto delle Sabine, dice che è stato destinato inizialmente a far
cessare una sterilità generale). In tutto il Rgveda il lupo è un
essere mal visto, è il nemico; l’unica eccezione si trova nel ciclo dei
Nàsatya: un giovane uomo aveva sgozzato cento c un montoni per nutrire una lupa
e per punizione suo padre lo aveva accecato. Dietro preghiera della lupa
i gemelli divini resero la vista allo sfortunato. Nella storia di Romolo e
Remo, c solo in essa a Roma, non è più in quanto nutrita ma come nutrice
che la lupa occupa il posto eminente che ben si conosce. Nei riti e nelle
leggende dei Luperci (OVIDIO (vedasi), Fasti), nel racconto sulla
giovinezza di Romolo e Remo (Plutarco, Romolo, 6, 8) le corse giocano un
ruolo considerevole; ugualmente le corse in carro ncl4 mitologia
degli ASvin. Un aspetto sfortunatamente oscuro della festa
rustica di Palcs (il cavallo mutilato, curtus equos), come pure il
concetto stesso della dea Pales, così strettamente legato a Romolo e Remo e
alla fondazione di Roma, ricordano la leggenda in cui i Nàsatya rimettono in
forze la giumenta detta Pula del w.f (vis, principio della terza funzione
e anche clan) che durante una corsa si era spezzata le gambe. Questo
confronto sommario è sufficiente a stabilire che, nella loro carriera
preromana, Romolo e Remo corrispondono così precisamente ai Nàsatya come
Romolo, divenuto re, e il suo successore Numa corrispondono a Varuna e Mitra e
Tulio a Indra. Quando Romolo muore verrà deificato sotto il nome del dio
canonico della terza funzione, Quirino, ritornando quindi al suo valore
primigenio e, sia dello di sfuggita, questa notevole convergenza spinge a
rivedere l’idea generalmente ammessa che l’assimilazione di Romolo a Quirino
sia secondaria e tardiva. 25. La terza funzione, fondamento delle
altre due Riguardo l’ordine di apparizione delle tre funzioni
nell’epopea delle origini romane - 3, 1, 2 - c la trasformazione dello
stesso Romolo da Nàsatya» in Varuna», queste non sono senza paralleli c
rivelano un aspetto della struttura trifunzionale che ancora non abbiamo
avuto occasione di segnalare. Vediamo qui come una conferma del fatto
certo che, se è vero che la terza funzione è la più umile, nondimeno essa
è il fondamento e la condizione della altre due. Come vivrebbero
maghi e guerrieri se i pastori-agricoltori non li sostenessero? Nella
leggenda iranica, Yima al pari di Romolo diviene un re prestigioso e
eccessivo sfidando Ahura Mazda - dopo essere stato differenzialmente,
nella primaparte della sua vita, un buon eroe della terza funzione dai
ricchi pascoli, sotto cui la malattia c la morte non affliggevano ne
l’uomo né la bestia né le piante ( Yust, XIX, 30-34). Nell’epopea osscla,
i due gemelli /Exsaert e /Exsaertacg, dei quali il secondo uccide il primo in
un eccesso di gelosia, genera poi la famiglia degli i£xsaertaegkalae (la
famiglia dei Forti, dei Guerrieri) che sono usciti secondo certe varianti dalla
razza di Bora, cioè dai Boratae (una famiglia di ricchi). È la
stessa filosofia che si esprime nei rituali indiani sulla stessa area
sacrificale: devono essere riuniti tre fuochi corrispondenti alle tre
funzioni; un fuoco che trasmette le offerte agli dèi, un fuoco che difende
contro i demoni e un fuoco padrone della casa; ora, quest’ultimo presenta
i caratteri di un fuoco vatéya che è il fuoco fondamentale acceso per
primo e che serve per accendere gli altri. Sviluppo della ricerca
Il lettore è stato quindi introdotto non solo nel deposito in cui
sono classificati i risultati ma, per la teologia e la mitologia di
ognuna delle tre funzioni, e notoriamente della seconda e della terza, lo
si è l'atto penetrare nel campo degli stessi scavi in cui il comparatista si
batte ancora con la sua materia. Il lavoro continua, con le sue procedure
ordinarie che non sono solo ritrovamenti nuovi ma anche delle correzioni, delle
reinterpretazioni dei dettagli alla luce dell’insieme meglio compreso e
generalmente delle riflessioni critiche sui bilanci anteriori. Prima di
prendere congedo la guida deve ricordare che, per importante o centrale che sia
l’ideologia delle tre funzioni, essa è ben lungi dal costituire tutta
l’eredità indoeuropea comune che l’analisi comparativa può intravedere o
ricostruire. Un gran numero di altri cantieri più o meno indipendenti
sono aperti : sugli dèi iniziali, sulla dea Aurora e su qualche altro, sulla
mitologia delle crisi del sole, sulle varietà del sacerdozio, sui
meccanismi rituali e sui concetti fondamentali del pensiero religioso, la
comparazione, e specialmente la comparazione dei fatti indo-iranici e
romani, ha già permesso c permetterà di riconoscere delle coincidenze che è
difficile attribuire al caso. La struttura bipolare della sovranità è
l’argomento di MV; il capitolo III di NA studia i fatti iranici (Vohu
Manah c Asa). A proposito di questi ultimi la critica di W. LENTZ, Yasna
2<f, Abh. Ak. tV/'.r.r. li. Ut. Mainz., non regge; non più dei poeti del
Riveda per Mitra e Varuna, quelli delle Gàthà avevano la preoccupazione,
in tutte le circostanze o in molte circostanze, di caratterizzare differenzialmente
Vohu Manah c Asa; questo è vero per lo Yasna 28 in cui ogni strofa nomina
contemporaneamente le due Entità esattamente come RV, V, 69, in cui ogni
strofa nomina simultaneamente i due dèi senza cercare di distinguerli. Per Vohu Manali vedi G. WlDENGREN, The f>reai Vohu Manah and
thè Apostle ofGod. Per Mi9ra e Ahura Mazda nella nuova prospettiva
vedi MV (da correggere dopo WlDENGREN, Numen); J. DUCHESNE-GUILLEMIN,
Zoroastre; da S. WlKANDER, Orientalia Suecana (sul Mesoromazdés di Plutarco).
L’importante affinità del Varuna vcdicocon F oceano, f ortemente marcata
da H. LUDERS, Varuna, I ( Varuna linci die Was- ser), sarà esaminata
ulteriormente i n un quadro comparativo. MV, MV: si hanno ora le
esposizioni di J. DE VRIES, Altgerm. Rei. -Gesch., Ir, e di W. BETZ Die altgerm. Religion. Le troisième souverain, essai sur le_ clieu indo-ircuiien Aryaman,
1949; DIE,40-59. Su
Aditi, madre degli Aditya, in quanto madre e figlia di uno di essi, vedi
Déesses latines et mythes védique. Rifiutando e caricaturando in ZDMG la rettifica
che avevo proposto alla sua interpretazione di ari (non importa
quale Fremdling, ma già con una nota di nazionalità, l’insieme o un
membro del mondo arya - alleato o avversario),THIEME compie il tour de
force di discutere senza menzionare il mio libro su Aryaman, che è il contesto
naturale di questa rettifica, e mi attribuisce non so quale metodo
sintetico, intuitivo, etc. No: il mio studio su Aryaman procede per una
analisi completa e dettagliata dei testi vedici in cui è menzionato. Esaminerò
successivamente questa curiosa risposta nel JA e spero cheThieme userà
più fair play nello studio che sta preparando, mi dicono, su Mithra e
Aryaman, (vedi l’Appendice). DIE,50-51, riassumendo Le troisième
souverain. DIE. Sugli Àditya Daksa e Amsa, DIE,; K. Barr, Àvesta DIE,
pp.68-75. Per Juventas è stato segnalalo un notevole riscontro nel mondo
celtico: come Juventas rifiuta di lasciare il colle capitolino in favore di
Jupiter O.M., che è obbligato ad ospitarla per sempre nel suo tempio,
così l'irlandese Mac Oc (il Giovane Figlio), antico dio protettore della
gioventù, si impone nel tumulo in cui vive il vecchio dio sovrano Dagda e si
fa concedere un giorno e una notte , poi arguendo che il giorno e la
notte fanno la totalità del tempo, rifiuta di uscire e resta maestro del
luogo (Jeunessc, éternité, aube, Annales d’histoire économique et sociale
DIE, Vedi la prefazione di Aspects... § 12-24.1 servigi che bisogna
richiedere alla pseudo-storia delle origini romane comparata con la
mitologia indiana o scandinava, sono stati ben presto riconosciuti: JMQ, cap. V; Horace et les Curiaces; Servius et la Fortune; riassunto in
L’hérìtage..., cap. Ili e in Mythes romains, Revue de Paris, die.
1951,105-118. Sull’epoca in cui I’affabulazione definitiva degli antichi
miti si è prodotta (senza dubbio tra il 350 e il 280 a giudicare dagli
anacronismi che vi sono inseriti), vedi L’héritage. L’interpretazione
dell’intrigo del Mahcibhàrata è stata data da S. WlKANDER in un suo
articolo fondamentale, Pandava-sagan och Mahàbhàratas
myliska fòrutsattningar, Religion neh Bibel, in gran parte tradotto e
commentato nel niio JMQ IV,37-85; cf. WlKANDER, Sur le fonds commun
indo-iranien des épopées de la Perse et de l’Inde, NC. Nel dominio
germanico un caso parallelo (il trasferimento su Hadingus della Mitologia di
Njordr) è stato studialo in La saga de Hadingus (Saxo Granunaticus, I,
V-VIII), du mythe au roman, 1953. Mentre il presente libro era in stampa,
in Orientalia Sue vana, sotto il titolo Nakula e Sahadeva. WlKANDER faceva
considerevolmente avanzare l’analisi dei gemelli epici e divini (vedi
sotto § 24). § 14. Su Vàyu-Indra, vedi Pàndava sagan...,33-36; è il
risultalo dei lavori diH.S. NYBERG, Die Reli gioiteti des altea Iran;
di G. WlDENGREN, Hochgattglaube ini alten Iran; di S. WlKANDER, Vayu, I,
1941, V.I. AbaEV ha riconosciuto il dio indo-iranico * Vayu nel nome
generico dei giganti (f orti, catti vi, bestie) presso gli Osse- ti,
weijug (da *Vayu-ka-), Trudy lnstituta Jazykaznanija, che io ho commentato in
Noms mythiqucs indo-iraniens dans le folklore des Osses, JA,.
Aspects.. JMQ IV,56. Pàndava-sagan...,36; JMQ Pandu come
trasposizione di Vanina, vedi JMQ. La trasposizione di un mito vedico
(duello di Indra c del Sole, la ruota del carro del Sole infossata) è
stata riconosciuta nel racconto della morte di Karna, fratello uterino e
nemico dei Pàndava, figlio del Sole come essi lo sono degli dèi delle tre
funzioni: Karna et Ics Pàndava, Orientalia Suecana, III ( =Do- num natal.
H.S. Nyberg), 1954,60-66. Una trasposizione (dei passi di Visnu al
servizio di Indra) è segnalata in Les pas de Krsna et l’exploit d’Arjuna,
Orientalia Suecana, V, 1956,183-188; e altri due (i sovrani minori
Aryaman e Bhaga, trasposti in Vidura c Dhrlaràstra) in una conferenza fatta
all’Università di Copenhagen, pubblicala quest’anno nell’ Inclo-1 ninian
Journal (La transposilion des dieux souverains dans le Mahàbhàrata), Il
personaggio di Bhlsma sarà ulteriormente studiato nella stessa
prospettiva. Le leggende romane sugli inizi della Repubblica presentano due
croi che ricordano, per la forma e il senso delle mulilazioni, il dio
cieco monco della mitologia scandinava, cioè i due dèi sovrani Ódinn e
Tyr: questi sono Orazio Coclite (il Ciclope) c Muzio Scevola (il
Mancino), i due salvatori di Roma nella guerra contro Porsenna; la
comparazione è stata sviluppata in MV cap. IX e ripresa diverse volle,
specialmente ne L’heritage. c Loki. Sui primi redi Roma vedi il riassunto
degli studi anteriori in L’heritage.; un notevole ritocco parallelo
al ritocco zoroastriano degli dèi trasporti in Entità della tradizione
romana nel De Republica di Cicerone, è stato studiato in Les archanges de
Zoroastrc et Ics rois romains de Ciceron, JP Su Romolo e Numa vedi MV,
cap. II; L’héritane. Horate et les Curiaces; L ’héritage.. Aspetta: La geste
deTullus Hostilius et les mythes de Indra; cf.3-14 dello stesso libro,
studio dell’Indra vedico come solitario a dispetto dei suoi associati ( ekci -)
e come autonomo (sva-). La bibliografia degli studi comparativi
sullasecondafunzioneèdatain DIE,38-39 e completala in Aspetta. Sui
gemelli Romolo e Remo come corrispondenti ai gemelli Nàsa- tya
indo-iranici, vedi G. WlDENGREN, Harlekintracht..., Orientalia Sueca- na,
; Aspetta...1. Non ho ancora pubblicato su questa interpretazione dei
gemelli romani il libro preparato; è comparso solo un frammento: Le
turtus equos de la fète de Pales et la muti- lationde lajument ViSpala,
Ercinos, LIV (=G. Bjiirck meni. Saturni. Altre corrispondenze tra dèi ed eroi
gemelli dei diversi popoli indoeuropei sono state segnalale in La saga de
Hadinf>us, Dioscuri greci sono solo
parzialmente comparabili. Sembra che altri aspetti della terza funzione (massa
popolare; sviluppo della ricchezza e del commercio; piacere) abbiano
ispirato i racconti sul quarto re di Roma, Anco Marzio, successore del
guerriero Tulio; vedi Tarpeia, III (Jactanlior Ancus) e la discussione
con J. Bayet in JMQ IV,185-186 (dove importanti questioni di metodo sono
toccate). DIVINITÀ: sugli dèi iniziali, vedi De Janus à Vesta,
Tarpeia, 31-113 (=JMQ it.,287-353), DIE,84-105; in Rituels, sono
state rilevate delle concordanze tra il culto di Vesta c imiti vedici di
Vi- vasvat; in Déesses latines et mythes védiques, 1956, dei dati indiani
hanno chiarificaio e giustificaio le rappresentazioni di Maler Maluta
(cf. Usas; vedi anche RENOU, Études védiques et pcuiinéennes, III, 1957,
1: Les Hymnes à l'Aurore du Riveda), della silenziosa Diva Angerona,
dea degli angusti dies del solstizio d’inverno (cf. Atri operosa con la
preghiera silenziosa nella crisi del sole), della Fortuna Primigenia
prenestina, madre e figlia di Jupiter (cf. Aditi, madre e figlia del
sovrano Daksa), di Lua Mater (cf. Nirrti). RITUALI in Suouetaurilia,
Tarpeia (= JMQ it.) si è stabilito lo stretto parallelismo di questo sacrifico
triplice, offerto a Marte, con la sautrànicuiT indiana (sacrificio di un
loro, di un montone c di un capro a Indra Buon Protettore); in Rituels
indoeuropéeus à Rome, i Fordicidia sono stali resi chiari, nei dettagli
dei riti, dal sacrificio vedico della Vacca dagli otto piedi; l’opposizione del
santuario rotondo di Vesta c di templi quadrati, orientali, è stala
riavvicinata all’opposizione tra il fuoco rotondo (di riserva e di
accensione, fuoco del padrone di casa, attaccalo alla terra) e il fuoco
quadrato (che dirige verso gli dèi le offerte degli uomini) sull’ara
sacrificale ve- dica; i rapporti rituali degli equidi, c in special modo
del cavallo, con ciascuno dei tre livelli funzionali, sono stati
riconosciuti come idèntici sia a Roma che nell’India vedica; in
Quacstiunculac indo-italicac, 1-3 (da pubblicarsi in REL) il tulmen inane fabae
della fumigazione dei Parilia, i pisciculi vivi gettati nel fuoco durante
i Volcanalia e la prescrizione bigarum victricum clexterior del Cavallo
di Ottobre sono chiarificati dai dati vedici. SACERDOZIO (oltre a qui sopra, nota a I, § 1, per Jlamen-brahman ):
Meretrices et virgines dans quelques légendes politiquesde Rome et des
pe- uples celtiques, Ogcnn; Remarques sur le ius feriale , REL REL,
contiene uno studio su augur, inaugurare, augustus. NOZIONI: A propos de
latin ius. RHR ; Ordre, fantasie, changemente dan les pensées
archaiques de l’Inde et de Rome, à propos de latin mos, REL; in Maiestas
elgravitas, de quelques diffé- rences entre les Romains et les
Austronésiens, RP; queste sono invece due nozioni prettamente romane che
sono state analizzate contro la scuola primitivista; su gratus, gratin
eminentemente spiegate con un usovedico della radicegurC^V, Vili, 70,5),
vedi L.R. PALMER, The Concept of Social Obligation in Indo-European,
Coll. Latomus,
XXIII ( =Homm. M. Niedennann BENVENISTE ha delucidato comparativamente un gran
numero di nozioni religiose e sociali, vedi in special modo Symbolisme
social dans les cultes gré- co-italiques RHR (vedi una conferma di un
dato importante nel mio Rituels...)', Don et échange dans le vocabulaire
in- do-éuropéen, L'Année Sociologique, 1951,7-20 e Formes et sens
de pvaopai, Sprachgeschichte uncl Wortbedeutung (= Festschr. A.
Debrunner). Storia degli Studi e bibliografìa Dopo lo scacco del
saggio intelligente ma prematuro fatto dalla scuola di Kuhn c di Miiller
teso a ricostruire la mitologia comune degli Indoeuropei, l’impresa fu
per un certo tempo dichiarata illusoria. Daunaparte, sotto l’influenza di
Mannhardt, gli studi si spostarono sui rituali e le credenze agricole,
popolari, di un tipo abbastanza uniforme per tutta l’Europa e ci si
applicò a ridurvi, senza pretendere di stabilire filiazioni né parentele
particolari, un gran numero di culti e miti delle diverse religioni e in
special modo quelle dei popoli classici. Da un’altra parte, per effetto
della crescente settorializzazione delle specialità, gli studiosi dei
diversi domini, indiano, greco, latino, germanico, etc., rifiutando ogni
considerazione comparativa, costruirono per spiegare la genesi e lo sviluppo
delle religioni da loro studiate delle ipotesi che presero sovente per
dati di fatto e che non si accordavano che per un punto: la riduzione a
poche cose, per non dire a niente, dell’eredità conservata dal passato
comune indoeuropeo. Rari autori continuavano a parlare di religione
indoeuropea come ad esempio A. CARNOY, Les Indoeuropéens. Tuttavia
nel secondo quarto di questo secolo si produssero delle reazioni. In
Germania bisogna citare prima di tutto: H. GUNTERT, Der Arische Weltkonig
und Heiland (1923); R. OTTO, Gotlheit und Got- theilen derArier (1932);
F. CORNELIUS, Indogermanische Religion- sgeschichte ( 1942) e tutta la
serie, che prosegue brillantemente, degli articoli c dei libri di F.R.
Schroder. Lui stesso ha fatto un primo sforzo di revisione della
mitologia comparata, ma con dei mezzi filologici insufficienti e rimanendo
prigioniero, per la spiegazione, delle concezioni mannhardtiane e frazeriane
{Le Festin d'Im- morIalite 1924, Le crime des Lemniennes 1924 e qualche
articolo di cui non vi sono grandi cose da ritenere; il Leproblème des
Centaures, e Flamen-Brahman, i cui
frammenti rimangono utilizzabili). Non è che a partire dal 1938 che,
inizialmente solo e poi, dopo il 1945, raggiunto e spesso superato da
altri ricercatori, spero di essere riuscito a delineare dei tratti
importanti della struttura dell’eredità indoeuropea comune, in una coscienza
più chiara delle condizioni c dei mezzi deH’inchiesta. Quest’inchiesta
non si riporta ad alcun sistema preconcetto di spiegazione, ma utilizza
gli insegnamenti della sociologia e dell’etnografia, come pure il ricorso
all’analisi linguistica dei concetti. Essa ha due postulati:
ammette che tutto il sistema teologico e mitologico significa qualcosa, aiuta
la società che lo pratica a comprendersi, ad accettarsi, ad essere fiera del
suo passato, confidante nel presente e nell’avvenire; ammette anche che
la comunità di lingua, presso gli Indoeuropei, implica una misura
sostanziale dell’ideologia comune alla quale deve essere possibile
accedere grazie a una varietà adeguata del metodo comparativo.
Una circostanza, sulla quale un articolo di J. Vcndryes aveva attirato
l’attenzione sin dal 1918, ha dato il via all 'inizio di molte ricerche: il
vocabolario religioso degli Indo-Iranici da una palle c quello dei Celti
e degli Italioti dall’altra presentano un gran numero di concordanze precise e
che sono loro proprie. Un articolo-programma del 1938 La préhistoire des
flamines majeurs, RHR ha dimostrato che questa parentela prossima non si riduce
al vocabolario ma si estende alla struttura della religione. E dal 1938,
in ogni tipo di materia, è in effetti la comparazione dei dati vedici o
indo-iranici e dei dati romani che ha fornito i primi risultati precisi
sui quali è stato possibile fondare delle comparazione più vaste.
Così illuminati, i fatti germanici (benché il vocabolario religioso sia
interamente differente) si sono ben presto rivelati anch’essi notevolmente
fedeli al passato indoeuropeo. Benché conformandosi ai grandi
quadri indoeuropei, il dominio celtico pone ancora, in seguito allo stato della
documentazione, un gran numero di problemi irrisolti. La Grecia - per
effetto senza dubbio del miracolo greco e anche perché le più antiche
civiltà del Mare Egeo hanno troppo fortemente segnato gli invasori venuti
dal Nord - contribuisce poco allo studio comparativo: anche i tratti più
considerevoli dell’eredità sono stati profondamente modificati. Quanto
agli altri popoli del mondo indoeuropeo, in special modo i Baiti e gli
Slavi, non si è ancora riusciti a utilizzarli pienamente. 1 principali
lavori in cui è stata progressivamente analizzata l’ideologia tripartita
degli Indoeuropei che il presente libro espone sono i seguenti':
Mythes etdieuxdes Gennains, essaid’interprétation comparative (citato MDG) Mitra-Vurunu, essai
sur deux représentations indoeuropéen- nes de la souveraineté 1940, II
ed. (citato MV) Jupiter Mars Quirimis, essai sur
laconception indoeuropéenne de la société et sur Ics origines de Rome,
1941 (citato JMQ) Naissance de Rome (=JMQ II) (citato NR) Naissance
d'Archanges, essai sur la formation de la théologie zoroastrienne (=JMQ
III) (citato NA) Jupiter Mars Quirinus IV, 1948 (citato JMQ
IV) L ’heritage indoeuropèe !? à Rome, introduction aux séries
JMQ et Mythes Romains, Le troisième Souverain, essai sur le dieu
Aryaman, 1949 Les dieux des Indoeuropéens, 1952 (citato DIE)
Rituels Indoeuropéens à Rome Aspects de lafonction guerrière
chez les Indoeuropéens, 1956 Déesses latine set mythes védiques. Coll.
Latomus, XXV, 1956 Una traduzione italiana di una versione
migliorata in diverse parti di JMQ e di NR e di frammenti di Tarpeia e di
JMQ IV, è stata pubblicata a Torino sotto il titolo di Jupiter Mars
Quiri- I Attualmente sto preparando un rimaneggiamento unitario di
JMQ. NR. NA ehc sarà pubblicalo, come questi tre libri, presso Gallimard.
Aspettando, l’edizione italiana dei primi due Corniscc un’idea delle
correzioni giudicale necessarie: le parli che non sono state tradotte
sono da eliminare. ìtus (citato JMQ it.) 2 . Delle questioni di metodo,
che io qui non affronto, si trovano discusse nelle prefazioni della maggior
parte di questi libri e, più sistematicamente, nel primo capitolo de L’heritage
... (Materia, oggetto e metodi di studio). 2 AUre
abbreviazioni: AV= Atharvaveda; BGDSL = Beitrage zur Geschichte der
Deutschen Sprache und Literatur: FFC = Folklore Fellows Communications; J
A = Journal Asiati que; JAOS = Journal of thè American Orientai Society;
JP = Journal de Psichologie: NC = la Nouvelle Clio; REL = Revtte des
Etudes Lalines; RHA = Revtte Hittite et Asianique; RHR = Revtte de l
’Histoire des Religions; RV = Riveda; RP = Revtte de Philologie. RSR =
Recherches de Science Religieuse; SBE = Sacred Books of thè East; SMSR =
Studi e Materiali di Storia delle Religioni ; TPS = Transaction of thè
Philological Society; ZCP = ZeitschriJ't fìir Celti sche Philologie; ZDMG
= Zeitschrift der Deutschen Morgenlàndischen Gesellschafl. Aryaman e
Paul Thieme Mentre correggo le seconde bozze di questo libro
(maggio 1958) è uscito quello di Paul Thieme annunciato qui sopra (nota
al cap. Ili § 5), ma egli non risponde affatto alle ingenue speranze
che esprimevo. Cito dunque qui (I e II) due estratti dell’articolo del
JA, concernenti Aryaman e il metodo di Thieme, menzionato nello
stesso paragrafo e vi aggiungo (III) qualche riflessione provvisoria su
Mitra and Aryaman. Per non creare confusione lascio alle note di I e II i
numeri che avranno nel JA. Abbreviazioni: F. =Thieme, Der Frem- dling im
Rig Feda; S = il mio Troisième Sauveraine, 1949; Z = Thieme, Ari, Fremder,
ZDMG. Ma è soprattutto nei confronti del dio vedico, e prima ancora
indo-iranico, Aryaman, che il saggio di Thieme rivela la sua debolezza.
In virtù dell’ipotesi {ari = lo straniero, qualunque sia) c del senso che
ne risulta per aryó (l’ospitale), Aryaman non può essere che il dio
dell’ospitalità)). È così? E ancora, sarebbe necessario che negli
inni o nei rituali questa definizione si verificasse sul suo centro,
intendo dire, in occasione del ricevimento di un ospite designato come
tale. Ora, non soltanto non vi è un testo rgvedico che riunisca il nome
dell’ospite, àtithi e quello d’Aryaman, ma, salvo ignoranza da parte mia,
Aryaman non è né invocato né menzionato ritualmente all’arrivo di un
visitatore. Non bisogna concludere un’assenza dal silenzio: è tuttavia curioso,
se il concetto di ospitalità è stato sentito tanto importante da essere
personificato in uno dei due dèi sovrani, e nel più considerevole dopo
Varuna e Mitra, che questa origine non abbia avuto nessuna occasione per
esprimersi chiaramente. Mitra, il contratto personificato, è certo come
dio molto più del contratto, ma si trovano dei testi in cui questo legame
è manifestato e sottolineato con delle parole senza ambiguità.
Inversamente, l’Aryaman vedico e il suo corrispondente avesti- co
Airyaman, intervengono in circostanze che, salvo violenza, sono
irriducibili all’ospitalità. Ne ricorderò solo due. Prima di Thieme
molti vedisti avevano notato, con delle conclusioni talvolta eccessive o
errate, i rapporti tra Aryaman e il matrimonio. 1 testi allegati sono
abbastanza numerosi". Per piegarli alla sua tesi, Thieme è stato
indotto a far loro subire dei trattamenti poco raccomandabili. In tutto il
dossier vedico vi sono dei documenti più chiari e più netti, altri più
oscuri o più indeterminati. Il metodo ordinario è d’informarsi all’inizio
sui primi e con questi chiarificare o precisare in seguito i secondi. Per
il caso di Aryaman si ha, chiara e netta in A V, la formula destinata a
procurare un coniuge, la descrizione che fa di Aryaman la prima
strofa: tiyùm Ci ycity arycimà pura staci visitastupah
asyci icchcinn agruvai pettini utd jàyàm ajànuye Ecco arrivare
Aryaman con i riccioli sciolti, cercando per questa fanciulla un marito e
una moglie per chi non è sposato. Non meno esplicito vi è in/l V,
XIV, 1, inno rituale del matrimonio, la strofa 17 che riguarda la giovane
donna: aryamdnam yajcimahe subanclhum pativédanam
urvàrukcim iva bàndhanàt prétó muncumi nàmùtah 11 I lesti sono
riuniti in A. HlLLKBRKNDT, Vedische Mytalogie, seguiti da
un'interpretazione di Aryaman come Feier, sicuramente errata. Noi
sacrifichiamo ad Aryaman (il dio) delle buone alleanze, il trovatore dei
mariti. Come unazuccadalsuo legame io ti libero da qui (= dalla tua casa
di ragazza), non da laggiù (= dalla casa coniugale). Vicino a questi testi ve
ne sono altri che riguardano ancora siala ricerca della sposa che diversi
episodi precisi del rituale delle nozze, nei quali Aryaman interviene sempre,
ma associato ad altri dèi e di conseguenza con un ruolo non immediatamente
identificabile. Ciò che in questi casi incerti può orientare
l’interpretazione è evidentemente la descrizione e la definizione che su di lui
hanno dato i testi espliciti del dossier: egli cerca da ambedue le parti
gli elementi delle coppie coniugali e fa delle buone alleanze
matrimoniali. Thieme procede all’ inverso cominciando dalla seconda
categoria di documenti. Consacra cinque pagine per citarli in esteso e
per tradurli inserendo tra parentesi, a favore della loro
indeterminazione, la sua concezione di Aryaman (die Gastlichkeit, der
Gott der Ga- stlichkeit, der Gott gastlicher Aufnahme) e in seguito, in
dieci righe che conclude allusivamente, pretende che ciò che dice sui
testi meno determinati permetta-infine! - di ridurre alla loro vera
portata questi testi la cui precisione lo imbarazza 13 Von hier aus wirdes nun
erst mòglich, die Verse A V. 6.60. 1, 14.1.17, Mp. 1.5.7, die
H1LLEBRANDTan die Spitze seiner Untersu- chungdes Verhàltnisses zwischen
Aryaman und E he gestellt hat, in ih- rer wahren Bedeutungen zu wùrdigen.
Als einer der Genien des Hau- shalts, der auch
bei der Eheschliessung mitwirkt, wird Aryaman als Gattenfìnder (A V.) und
Ehevermittler (A V.) schlechthin in Zauberspriichen genannt, die
anscheinend durch die Erwàhnung eines so vornehmen Gottes, der im R Vin
der Gesellschaft des Mitra und Varuna aufzutreten pflegt, wirken
wollten. Al di fuori dello stesso procedimento che consiste nel
mascherare ciò che è chiaro con ciò che non lo è, tutto nell’ultima frase è
tendenzioso: questi Zauberspriichen, uno dei quali appartiene al rituale
del matrimonio, non meritano alcun disprezzo c sono sicuramente 12
F„ §§ 118-124; S.73-79. 13 F„ § 124. adatti a chiarire la
funzione del dio che essi mobilitano. Pretendere che Aryaman non vi
figuri in qual ità, ma semplicemente perché è un gran nome della mitologia, è una
spiegazione che generalizzata permetterebbe all’esegeta di sopprimere in ogni
maniera le testimonianze imbarazzanti. Infine, la definizione di Aryaman come
einer derGenien des Haushalts, è stata utilizzata, pefitio principii,
usando la libertà fornita dai testi meno determinati. Bisogna aggiungere
che alcuni di questi testi resistono al senso che si vuole loro dare.
Quando Aryaman ad esempio è pregato, ancora in un inno di matrimonio, di
ungere (forse la novella sposa) fino alla vecchiaia (o affinché ella non
invecchi)' 4, Thieme, ricordando che in ogni paese del mezzogiorno 15 il
bagno di ospitalità comporta un’unzione d’olio, traduce intrepidamente: Mòge
Aryaman (als der Gotigastlicher Aufnahme) [Dich= die Braut ] inir der
Ólsalbung schmiicken; auf dass du nicht altseist ( =
inJugendschònheitglànzest). Le giustificazioni di questa traduzione sono
leggere: suppone un aspetto non attestato del rituale d’ospitalità e il
dativo d’intenzione àjarasàya è volto in un senso inattendibile; come si
può mai dire alla giovane sposa: Che il
dio dell 'ospitalità ti unga con olio affinché tu non abbia l'aria
invecchiata ? Viceversa se si vede in Aryaman il protettore del rapporto
che si forma, è naturale che egli sia pregato di garantire alla sposa
lunga vita o vigorosa vecchiaia. E non è tutto. Thieme assimila
costantemente l’ospitalità e il matrimonio, l’accoglienza che riceve
l’ospite e quella che riceve la fidanzata. Ora, le due cose sono differenti: a
dispetto del riferimento a Mrs. Stevenson 16, l’atto della donna che
entra in casa di suo marito per rimanervi, può identificarsi, nei riti,
con l’atto del visitatore che dopo essere entrato straniero se ne andrà,
benché incaricato del dovere di contraccambiare, ma sempre straniero?
L’accoglienza fatta alla futura madre può forse essere più ospitale,
nello spirito e nei riti, delle ceri- 14 RV, X, 85, 43:
a nati prajath janayatu prujàpatir àjarasàya sùm anaktv
aryamù. Geldner: Pràjapati soli uns Kinder erzeugen, bis zurhohcn Alicr soli
nns Aryaman verschinelzcn. Nell'India vedica? F.,125, n.
1. monie che in seguito legalizzeranno il neonato come membro della
stessa famiglia? Se bisognasse avvicinare ad altre cose questa procedura sui
generis del matrimonio, non si dovrebbe pensare piuttosto all’adozione
che all’ospitalità? Le nostre parole accoglienza, Aufnahme, creano
un’ambiguità che senza dubbio un Indiano, non più di un Romano, non rischiava
di sentire vivamente. Io resisto particolarmente all’interpretazione
datadaThiemead AV-sempre riguardo il rituale nuziale : aryamnó agnini pàryetu pùsan
[var. ksiprdm] prdtiksante svasuro devaras cu. Sie
umschreite das Feuer des Aryaman (der Gastlichkeit), o Pùsan'*, es sehen
entgegen Schwàher und Schwager. Sono certamente meno ben informato
di Thieme sui rituali vedici: quando un ospite entrava in una casa gli si
faceva fare anche questa circumambulazione del focolare, che trova il suo
esatto corrispondente, come molti altri tratti, nel matrimonio romano (dove ha
valore di rito d’incorporazione) e non nell’ospitalità romana? Se è
così m ’ inchino. Altrimenti, messa in luce dai testi precisi sul ruolo
di Arya- Piuttosto, secondo la variante schnell. In S.,78, vi è una
cantonata nella traduzione che dopo dieci anni non so ancora se la devo
attribuire a un’ inavvertenza del mio manoscritto o delle mie correzioni
delle bozze:,f vósuro devàsra.ica è reso con i suoceri e i cognati invece
de i7 suocero c i cognati il plurale della seconda parola avendo determinato
meccanicamente, da me o dal tipografo, il plurale della prima. Questo
testoche sotto la protezione di Aryaman f a intervenire dopo la giovane
sposa il padree i fratelli dello sposo, prova che nel matrimonio Aryaman
si interessa a ben di piti che l'unione tra due esseri: l’intera famiglia è
interessata da questo nuovo membro che le procura un’alleanza con
un’altra famiglia (cf. Aryaman qualificato suhandhù, alla strofa 17 dello
stesso inno). Alla pagina 119 di S. ho commesso una svista più umiliante
ma senza conseguenze per i miei propositi, considerando svasurah di RV, X, 28,
1 come padre della moglie (possibile nel sanscrito classico ma non nel
vedico) emettendo la strofa in bocca al marito. E l’inverso. La moglie
parla e si sorprende che il padre di suo marito non sia venuto al festino
preparalo, mentre vi.ivo... anyó arlh ogni altro ari, tutto il resto
dell'insieme ari (e non facendo sparire
la parola essenziale altro,
jederunde- re, niimlichjeder ari, Thieme) è pervenuto. Il commento
che ho fatto di questo testo, per i rapporti di ari e di .ivù.iurah, sussiste
interamente a condizione che si rimpiazzi genero con nuora (e co.si prendere moglie con prendere marito e ha scelto la jigliadel suocero con è stato
scelto dai figli del suocero). man nel matrimonio, l’espressione fuoco di
Aryaman per designare eccezionalmente qui il focolare intorno al quale si
forma il legame mi sembrerebbe fare semplicemente riferimento a questo
ruolo. Sono queste le principali ragioni per le quali non mi è possibile
dedurre il ruolo di Aryaman nel matrimonio a partire dalla definizione
che esige l’ipotesi di Thieme. L’Airyaman avestico è invocato
( Yasna) per sostenere gli uomini e le donne di Zoroaslro e il Buon
Pensiero; è detto dotato di forza offensiva, distruttore di ogni
resistenza, vincitore dei nemici (ibid., 2); la preghiera che è invocata
dopo di lui è onnipotente e guaritrice (Yast); Aryaman stesso è l’eroe di una
scena mitica in cui questa preoccupazione di guarigione è al primo posto:
quando Angra Mainyu creò, contro la creazione di Ahura Mazda, le 99.999
malattie, il gran dio dopo uno scacco subito da ManGra Spanta (la
Formula Efficace: l’agente della maggiore delle tre forme di medicina) si
avvicinò ad Aryaman che subito riuni gli clementi di quella che doveva
divenire in seguito una delle purificazioni rituali del mazdeismo 19 .
Come derivare questi uffici dall’idea di ospitalità? Thieme non tenta la
scommessa ma lascia intendere che tutto questo è un’innovazione, un uso
fuori dal dominio di un dio sentito come importante: Man hai also von Airyaman
dhnlichen Gebrauch gemacht wie der AV von A/yaman, dice lui facendo
allusione alla fine del che ho citato 20 Temo che questa sia una maniera troppo
rapida per eliminare un elemento preciso del dossier. La stessa cosa
avviene per altri aspetti di Aryaman e per i suoi rapporti con le strade,
ad esempio, strumento utile di comunicazione sociale : ci si riferisca
all’analisi del mio Troi- sième Souverain. Ciò che precede è sufficiente
per far capire che Aryaman è fondamentalmente più di un dio dell’ospitalità.
Infatti nell’ ospitalità senza dubbio, ma anche nella conclusione dei
matrimoni, l’Aryaman vedico patrocina i rapporti sociali all’interno di
un gruppo di uomini in cui bisogna che non solo l’ospitalità ma anche
il matrimonio siano possibili. S.Per il trattamento insufficiente di
altri aspetti di Aryaman in F., vedi S. L’Airyaman iranico protegge in
una maniera più ampia e fino alla sanità l’insieme di uomini e donne
della buona società, definita dopo la riforma zoroastriana solamente in base
alla religione e non alla nazionalità. Bisogna dunque che il
concetto di arya - nel nome di Aryaman sia altra cosa rispetto a quello
detto da Thieme: minore in estensione, poiché il matrimonio non è
possibile con alcun ospite, ma più ricco in comprensione, poiché oltre
all’ospitalità comporta altre forme di legami e in special modo l’attitudine a
contrarre il matrimonio. Si è così costretti a introdurre in questo
arya-e quindi in ari, un valore di nazionalità. Se il valore limitato e
orientato di ari che io ho proposto [in S] (Icariano, collettivamente o
genericamente), rende conto di tutti i derivati e si adatta senza
difficoltà a tutti i passaggi ai quali si adattava il valore generale
(der Fremde, der Fremdling) di Thieme, rende inoltre conto di un testo
che resisteva a quest’ultimo. Il dossier di ari contiene in effetti
almeno un testo che direttamente impone una traduzione limitata e mi
sorprende che Thieme non l’abbia riconsiderato nella difesa che mi oppone.
Questo è RV: uta svàsyd ardtyd arir hi sa utdnydsyd
ardtyd vrko hi sah La costruzione e il senso sono limpidi:
[Proteggici] dalla nocivitàpropria:poiché è l’ari.
[Proteggici] dalla nocività aliena: poiché è il lupo. Questi
versi simmetrici presentano, distribuiti in due rapporti equivalenti,
quattro termini, tre dei quali sono conosciuti e forniscono di
conseguenza un’eccellente equazione per determinare l’incognita, ari : vi
è l’opposizione usuale tra svàeanyà, il primo designa ciò che è proprio,
imparentato o alleato, mentre il secondo ciò che è altro, esteriore, straniero;
vi è anche l’opposizione tra an e vrka, in cui vrka designa l’uomo che merita
di essere chiamato lupo poiché il suo comportamento è selvatico. Così ariè.
precisato negativamente come un tipo di nemico distinto da questo nemico
selvaggio ed esterno che è posto al di fuori del gruppo i cui membri sono
degli svà\ positivamente ari è definito come intemo a questo gruppo. La
traduzione e il commentario fatto da Thieme a questo passaggio devono
essere citati per intero : / Schutze] vor eigener, voranderer (i.e.
vorjeglicher) arati; sie (oder: das, was die arati ist) istjaderFremdling
(der den Frieden be- droht), sie istja der Wolf. Ich habe in der
Ubersetzung vonab au/Nachahmung der Spre- izstellung der Satzglieder
verzichtet. Dies e kannja sehr wohl nurstili- stischer Art sein. Ich
willjedochdie Mòglichkeit nicht in Abrede stel- len, dass wir zu sagen
hdtten: vor eigener arati- sie ist ja ein Fremdling (der ins Haus
aufgenommen den Frieden bricht), vor an- derer drdti-sie istja ein
Wolf. La prima interpretazione, quella che l’autore preferisce
poiché sopprime le difficoltà, fa una violenza inammissibile all’ordine e
al rapporto delle parole: mantiene come tale una delle due
opposizioni equivalenti ma sopprime l’altra volgendola in solidarietà;
riducear/e vrka a un’unità (non essendo vrka che un rinforzo del cattivo
ari) di cui svà e anyà sarebbero lesuddivisioni. La filologia non hatali
diritti. La seconda interpretazione orienta l'opposizione tra svà e
anyà in un senso che non è il suo: svà non si applica a ciò che è presso
me temporalmente e accidentalmente senza essere a me, ma segna un legame
permanente ed essenziale con me. In più, questa traduzione suppone, dalla parte
àeW'ari nemico, un comportamento speciale, quello dell’ospite che una
volta ricevuto in casa si comporta male e
minaccia la pace come dice
Thieme. Certo, l’ospitalità ha i suoi rischi ma questi rischi si
realizzano raramente e in ogni modo nessun testo del RV vi fa allusione:
sarebbe molto strano che fossero qui l’oggetto di una preghiera e che, in
questa preghiera, fossero messi sullo stesso 32 27, già II, 1956, p. 109.
Se, come io penso, ari ha già il valore etnico (ario, ariano), si
concepiscono gli impieghi elogiativi, sottolineati da Renou, che vanno nella
direzione élite, capo, etc.] piano, in contrapposizione, i rischi costanti che
fa correre il vrka barbaro e brigante. Questo testo è dunque
decisivo contro il senso troppo esteso di ari e impone un senso
ristretto. Nei suoi Etudes védiques et pàninéennes. Renou mi sembra abbia ben
riassunto l’insegnamento del testo nella formula: .vrka il nemico straniero,
ari il nemico interno. Questo delimita ari, sia il buono che il cattivo:
amico, ospite, sposabile, correligionario, rivale, nemico, Vari porta
alla considerazione di chi lo menziona, la nota svà, che esclude la nota anyà n
. Ili Mitra and Aryaman è in gran parte un pamphlet
contro di me: fornisco perfino il titolo di un capitolo. Mi limiterò qui
ad alcune osservazioni che faranno vedere a quale livello si situa il
dibattito. Prima di entrare nella materia, e per togliere ogni
credito ai miei argomenti, Thieme incomincia a dimostrare, secondo tre
punti, che io commetto molteplici e grossolani errori di grammatica
utilizzando gli inni vedici. Lo credo volentieri, ma vediamo che cosa mi
rimprovera: Io tratto dei duali come dei plurali. Si tratta di due testi in
cui si incontra la sequenza, del resto frequente, dei tre principali dèi
sovrani, Varuria, Mitra e Aryaman e dove, a causa di un verbo o un
aggettivo che sono appunto al duale, Thieme vuole fondere Mitra e Aryaman
in un solo personaggio mitico che chiama Freund, Gasljreund e che ora
preferisce chiamare The contract (God Contract) which is hospitality (God
Hospitality ). È nel riconoscere questo mostro, di cui non vi sono altre tracce
nella letteratura vedica, che mi sono rifiutato (S.. Non ho cambiato
parere: è inverosi- Questa definizione di art come sva basterebbe (vi sono
altre ragioni) per fare scartare il paragone etimologico con diana (l'opposto
di svà) che è stato portato in appoggio alla tesi di Thieme da F. Spechi, Zur
Bedeutung des Ariernamens, KZ, 68, 1941,42-52. D’altra parte, il fatto
che RV, VI, 15,3 invita Agni ad essere ùryi'ih pùrasyàntarasya lùrusah,
il vincitore dell'un lontano e vicino dimostra che lo svà di IX, 79, 3
non deve essere compreso in un senso stretto né senza dubbio locale. Il
concetto di nazionalità suggerito dai derivati soddisfa la doppia condizione:
Vari per un ariano è sia svà che para. mile che in questi due soli
passaggi la triade ceda il posto a una coppia Varuna e Varyamàn Mitra o a
Varuna e il mitra Aryaman. Uno di questi testi è RV, V, 67, 1:
varuna mitrdryaman vdrsistham ksatrdm àsiithe, o Varuna, Mitra e
Ai'yaman, voi avete ottenuto la più alta sovranità. Perché si dice che il verbo
è al duale? Il poeta vuole sottolineare la stretta affinità di Mitra e
Aryaman (che è fondamentale come spesso ho detto) nei confronti di
Varuna, di modo che si debba tradurre o Varuna, o Mitra e Aryaman? Non lo
so, ma la soluzione meno accettabile è di fondere in un solo essere Mitra
e Aryaman, poiché la strofa 3 dello stesso inno enumera nuovamente
i tre dèi al nominativo e questa volta con due aggettivi e due verbi
che sono correttamente al plurale. Noto che K. Geldner comprende
come me: ihr habt die hòchste Herrschaft erreicht, Varuna, Mitra, A
rya- man - i tre vocativi essendo esattamente paralleli, come Thieme mi
rimprovera di avere detto. L'altro testo è RV, Vili, 26, 11 :
vaiyasvdsya srutam narotó me asya vedathah/sajósasd varuna mitrò aryamd.
La prima parte non è ambigua: Ascoltate, o voi due eroi (= gli Asvin) [la
parola] di Vai- yasva e conoscete questa [parola] mia. La seconda è meno
chiara, un aggettivo al duale (sajósusà, in accordo) precede i tre nomi
divini. Geldner risolve la difficoltà attaccando l’aggettivo non a
ciò che segue, ma come attributo a ciò che precede, ai due Asvin: Horet aufden Vyasvasohn, ihrHerren, und
seid meiner hier ein^edenk, ein- miitig, (und mit euch) Varuna Mitra
Aryaman. Non so se ha ragione o se si può trovare una giustificazione più
sottile, ma come lui penso che gli dèi dell’ultimo verso, qui come
altrove, siano ire. Tratto dei plurali come dei duali. Si tratta di RV,
III, 54, 18, aryamd no dditir yajmydsah, Aryaman, Aditi [sono] degni
(plurale e non duale!) dei nostri sacrifici, dobbiamo sacrificare ad
Aryaman, ad Aditi. Thieme consentirà forse a credere che ho consultato la
traduzione di Geldner: Aryaman, Aditi sind uns anbetun^swert, con la nota
corrispondente: Den Plur. yajnfyàsah, weil der Dichter an die iibriffen
Àditya ’sdenkt. Ma ciò che più m’interessava perii mio argomento (S., p. 68) è
che in questo lesto della terza funzione (la fine della strofa domanda
abbondanza di bestiame e di bambini), il gruppo degli dèi sovrani
distacca, in qualche modo come i suoi soli delegati espliciti, la
loro madre e Axyaman. Non prevedendo Thieme non ho preso la precauzione
di ripetere in termini di grammatica una precisazione che ogni vedista conosce.
Il mio commento si è limitato a dire: Sembrerebbe che ancora qui sia
l’iniziativa di Aryaman che orienta l'azione collettiva degli Àditya
verso questa grazia speciale. Non è abbastanza chiaro? Tratto un
singolare come un duale. Si tratta del lapsus segnalato più sopra che, in A V
(S mi ha fatto scrivere e non mi ha fatto correggere i suoceri invece del
suocero, come traduzione di svdsurah. Thieme finge di credere che io
abbia pensato ai due suoceri. Mi reputa così ignorante da poter credere che io
abbia preso un nominativo in -ah, pur nella sua forma in -o, per un
nominativo duale? La stessa parola, sotto la stessa forma non è forse
correttamente tradotta la seconda volta che la si incontra (S)? La spiegazione
che mi parrebbe più plausibile è che, essendo poco leggibile il mio
manoscritto, il compositore abbia congetturato i suoceri secondo i
cognati che seguono immediatamente, o che meccanicamente abbia messo allo
stesso numero queste due parole così analoghe [pères e frères nel testo.
N.d.T.]. Può anche darsi che il lapsus risalga al mio manoscritto. Mi
dispiace molto ad ogni modo che nella sovrabbondanza di correzioni che ho
dovuto fare sulle bozze quello mi sia scappato e che l’errore mi sia
saltato agli occhi solamente qualche mese dopo la pubblicazione. È in
maniera sleale che Thieme orchestra questo scandalo in due pagine e anche
il mio errore su svdsurah, suocero dell’unica moglie e non del marito.
Nondimeno Thieme dimentica di dire l’essenziale, cioè che per il mio
argomento la menzione del suocero e dei cognati (della moglie) in A V,
XIV, 1,39 e quella del suocero {della moglie) opposti al resto
dell’ari, 1 conservano tutto il loro valore dimostrativo, com’è
stato mostrato qui sopra a n. 18, poiché l’uno conferma che Aryaman, nel
matrimonio, non si interessa solamente ai giovani sposi, ma ai parenti
per l’alleanza che la loro unione stabilisce e l’altro indica (cosa
ammessa da Thieme nel 1957; Z, p. 213!) che le alleanze matrimoniali si
compiono all’interno dell’insieme ari. Insomma, Thieme grida
all’interpretazione errata! per mascherare il gioco di prestigio
altrimenti grave fatto da lui stesso all’insegnamento di tutti i testi
che stabiliscono il vero ruolo di Aryaman nel matrimonio'. Il libro è in
seguito infiorito di notae censoriae. Alcune mi sono sembrate giuste ed
utili e ne terrò conto, senza che nessuna cambi niente alle figure e ai
rapporti degli dèi. Molte sono, bisogna dirlo, un puro bluff poiché
Thieme denuncia come antigrammaticale, errata o sprovvista di senso, una
traduzione possibile ma che non ha il suo favore 2, caricaturando le mie
esposizioni 3 e inventando delle contraddizioni peravere un motivo di
risentimento in più 4, etc. etc. L’obiettivo di
questo triplo assalto grammaticale si scopre a pagina 17: IJ'eel il my
duty to warn especially Lutinists, who cannai be expecled lo judge on thè
meriti of Dumez.il' s indological araumenti, agama trusting hispresentation
oflhe Jacts oJ'Vedic religion loo confidently, andagainst believing ihal
only his "expla- naiions" need be discussed. Non ho
questa pretesa. Domando solo senza grandi speranze che latinisti o
indologi, di St. Andrews o di Yale, che vogliano discutermi lo facciano
lealmente. 2 P.es.,. 10-12;/?V, I, 141,9; p. 41 : /?V, X. 136,3;p. 62: RV,
X, 89,9; ctc. p. 67, in RV , Thieme rende correttamente duvasyatil Ha
sicuramente ragione, ad ogni modo, a rimproverarmi la riga di S.,(Mitra
offre dei sacrifici a Vanirla), in cui ho esagerato la frase, in se stessa
eccessiva, di Bergaigne(La religion védique, III, p. 138: In un passaggio
in cui né Mitra né Varuna sono del resto esplicitamente identificati ad
Agni, il primo è opposto al secondo come il sacerdote al dio che onora):
duvasyati significa sempl icementc rendere gli onori dovuti; bisogna correggere
in que.slo senso Les dieux des Indoeuropéens: in RV, VII, 82, 5, Mitra non è
come un sacerdote di Varuna. 3 P. cs. pe>. 19-20, ciò che ho
detto dei rapporti tra il contratto e l'amicizia, Mitra- Varuna', non è
compreso. Non ho fatto la lezione a Meillet; ho semplicemente utilizzato
i progressi che, dal suo articolo, i sociologi hanno fatto compiere alla
teoria del contratto presso i popoli semi-civilizzati. Allo stesso modo,
p. 82, la mia concezione dei rapporti tra i diversi dèi sovrani si è deformata:
che si confronti il capitolo II di Dieux des Indoeuropéens. L’etimologia
dei nomi divini (Varuna, Marut, il secondo elemento di Aryaman, etc.),
salvo quando è evidente (Mitra, etc.), mi interessa sempre meno (vedi
Déesses latineset mythes védiques): qualunque sia quella di Varuna (e non
credo molto a quella adottata da Thieme) ciò che conta è, studialo
direttamente, l’insieme del suo comportamento e il suo rapporto con le
altre figure divine: un dio non c prigioniero del suo nome. 4 P.
es., p. 74, n. 54, Thieme segnala una contraddizione in S., tra la pagina 63 e
136, a proposito della sua traduzione di salpati: si verificherà
facilmente che essa non esiste. P. 76, n. 54, è con Panini che sono messo
così futilmente in contraddizione., sono accusato per due parole di
mislranslations, wich might have been avoided by looking up thè PW or any
other good dictionary; Thieme vorrà rifarsi a A.B. Keith, HOS, di cui ho
adottato la traduzione (e vi sono ragioni per preferire questa
interpretazione a quella di Thieme). P. 9; Thieme non tiene conto della
differenza d’intenzione tra Mitra-Varuna e Le Troisième Souverain. A
dispetto del suo titolo indiano il primo libro non tratta un soggetto indiano 1
; si propone di dimostrare che presso gli altri popoli indoeuropei, a Roma e
fra i Germani in special modo, esistevano delle coppie di dèi o di eroi della
prima funzione la cui articolazione è omologa a quella che A. Bergaigne
ha scoperto per Mitra e Varuna nel RV e che i Bràhmana illustrano
con una campionatura abbondante. Non avevo dunqueintenzione di stabilire
gli insegnamenti degli inni stessi e dei Bràhmana - che altri (dopo
Bergaigne e Glintert) avevano sufficientemente stabilito. In Le Troisième
Souverain, al contrario, con Aryaman abbordavo un problema specificatamente
indo-iranico e poco trattato: ho dunque dovuto riprendere tutti i testi,
discuterli e organizzare il dossier. Non vi è da scrivere sul mio
libretto da scolaro, di questo scolaro che sono felice di essere e di
rimanere, né contraddizioni né progressi nel metodo: a dei soggetti, a
dei bisogni diversi, a dei gradi ineguali di maturità della materia hanno
corrisposto dei procedimenti differenti. Quanto alle tesi stesse di
Thieme, le esaminerò nella Revue de l'Histoire des Religions e mi
sforzerò di rispondere con un’argomentazione serena a questa scherma da
gladiatore. Enumererò gli apporti positivi poiché ve ne sono. E
dimostrerò come sotto le apparenze del rigore filologico Thieme
misconosca costantemente le prospettive, ignori i dati statistici più
evidenti e distrugga i rapporti più probabili e sulla via così sgombra si
avanzi con una sovrana fantasia verso le pagine sorprendenti che terminano il
suo libro. In attesa, a coloro che sarebbero impressionati da
questo meccanismo, non posso che consigliare di rileggere, circa i grandi
Àditya, l’ammirevole esposizione di Abel Bergaigne, certamente vecchia
su molti punti, ma attenta sia al dettaglio dei testi che alle strutture
del pensiero, onesta e intelligente. I J.C. Tavadia si era
inizialmente sbaglialo ma fece in seguito I a più leale
riparazione. L’editoria italiana ha accolto con favori e fortune alterne
l’opera di un autore tanto discusso, controverso e innovativo, quale fu
Dumézil, persona acuta, intelligente e ironica, spirito polemico e non di
rado pungente ma sempre pronto a rimettersi in discussione, mano a mano
che l’inchiesta scientifica progrediva, grazie anche ai suoi avversari
oltre che ai colleghi che accolsero positivamente il suo metodo. Il
lettore nostrano troverà di piacevole lettura la traduzione della intervista
francese: Un banchetto dì immortalità. Conversazioni con Didier Eribon,
Guanda, Milano. Spetta alle Einaudi l’esordio di Dumézil nel panorama
editoriale del nostro dopoguerra, all’intemo di quella “collana viola” che non
senza travaglio di intelletti e di coscienze (si legga il carteggio Pavese -
Martino, La collana viola. Lettere Bollati Boringhieri, Torino a c. di P.
Angelini) ha contribuito a diffondere autori importanti come Jung,
Kerény,L. Frobenius, Leeuw, Eliade. Jupiter, Mars, Quirinus, Torino, è una
traduzione di parti dell’originale, più capitoli di altri volumi come
Naissance de Rome, Naissance d'Archanges, e Jupiter, Mars, Quirinus. Il
catalogo della Einaudi ritornerà solo tardivamente, nel decennio degli ’80, a
rioccuparsi di Dumézil, traducendo Mito ed Epopea. La terra alleviata,
1982 (= Mythe et epopee f) e Gli dei sovrani degli Indoeuropei.
Spetta alla Adelphi (Milano) la maggiore percentuale di libri
tradotti, a cominciare dalla raccolta di storie e leggende del Caucaso:
// libro degli Eroi. Leggende sui Nani, 1969 (ristampato nei tascabili
economici della Bompiani, Milano 1976), fino a Gli dèi dei Germani;
Matrimoni Indo-europei; Le sortì del guerriero. Aspetti della funzione
guerriera presso gli Indoeuropei, 1990 (una prima traduzione di questo
libro, condotta sulla precedente edizione di Hetir etmalheur duguerrier,
1969, si deve ai tipi della Rosemberg& Sellier: Ventura e sventura
del guerriero, Tonno). E infine bisogna ricordare anche Il monaco nero in
grigio dentro Varennes, che è però un divertissement
enigmistico-letterario sulle profezie di Nostradamus. Il
catalogo della Rizzoli (Milano) si è arricchito di due opere importanti e
poderose, oggi purtroppo introvabili, come La religione romana arcaica, eStorie
degli Sciti; mentre II Melangolo (Genova) ha tradotto due volumi quali
Idee romane, e Feste romane. Recentemente le edizioni Mediterranee (Roma)
hanno tradotto La saga di Hadingus. Dal mito al romanzo. Fra le poche
opere italiane su questo autore ricordiamo Rivière, Dumézil egli studi indoeuropei. Una
introduzione. Il Settimo Sigillo, Roma. Per una bibliografia completa delle
opere di (e su) Dumézil cf. la rivista Futuro presente diretta da
Alessandro Campi (numero monografico “Georges Dumézil e l’eredità
indo-europea”): oltre a un dibattito su Dumézil in base alle aree
storico-geografiche consuete nella sua ricerca (Roma, Indo-Iranici,
Caucaso, Germani), vi è un interessante articolo di Grisward sulle persistenze
del modello trifunzionale nella società medioevale - suddivisione in oratores,
bellatores, laboralores - e la traduzione di un articolo di Dumézil in risposta
alle critiche di una versione francese di un saggio di Ginzburg (“Mitologia
germanica e Nazismo”, apparso su Quaderni Storici, ristampato in Id.,
Miti, emblemi, spie, Einaudi, Torino) su un argomento, le presunte
simpatie per la cultura nazista, già affrontato da A. Momigliano, Rivista
storica italiana. Sulle implicazioni politiche e razzistiche degli studi
indoeuropei cf. A. Piras, “Georges-Dumézil e iproblemi
dell’Indoeuropeistica ”,/Quaderni di Ava/lon e “Indoeuropeistica e
cultura europea”, in L 'Europa di fronte all'Occidente, Il Cerchio,
Rimini. Per uno studio comparato delle istituzioni sociali, religiose,
economiche, amministrative, giuridiche, delle diverse culture parlanti idiomi
indoeuropei, cf. E. Benveniste, // vocabolario delle istituzioni indoeuropee,
I-II, Einaudi, Torino; si veda anche E. Campanile, “Antichità
indoeuropee”, in A. Giacalone Ramat& P. Ramat(a c. di), Le lingue
indoeuropee, Il Mulino, Bologna, e J. Ries (a c. di), L 'uomo indoeuropeo e il
sacro, Jaca Book-Massimo, Milano. Un argomento dibattuto da decenni come la
nozione di “lingua poetica indoeuropea” (che consente di rintracciare nelle
diverse letterature - Edda, Beomtlf, poemi omerici. Veda, Avesta -
elementi di una fraseologia comune ed ereditaria) è stato di recente affrontato
in un libro eccellente di G. Costa, Le origini della lingua poetica
indeuropea, Leo Olschki, Firenze. Ries La riscoperta del pensiero
religioso indoeuropeo L’opera magistrale di Dumézil. Le tre funzioni sociali e cosmiche. Le
teologie tripartite. Le diverse funzioni nella teologia, nella
mitologia e nell 'epopea Storia degli Studi. Aryaman e Paul
Thieme Bibliografia italiana di Dumézil. Emanuele Castrucci. Castrucci. Keywords:
sul conferimento di valore, il guerriero
indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica, l’implicanza
di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica.; Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library.
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